Spese straordinarie. L’opposizione di un genitore non può impedire l’attuazione di ogni iniziativa

Trib. di Lanciano, Sent. 7 maggio 2020, n. 104
MOTIVI DELLA DECISIONE
FATTO
Con atto notificato in data 08.11.2017, (…) ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 308/2017 del Tribunale di Lanciano, emesso su ricorso della ex coniuge (…) con il quale gli è stato ingiunto il pagamento della somma di Euro 5.866,37, per il rimborso delle spese straordinarie sostenute in favore delle figlie. L’opponente ha eccepito l’illegittimità del decreto ingiuntivo n.308/17 ed ha contestato la pretesa creditoria avanzata, la natura straordinaria degli esborsi, l’insussistenza dell’urgenza e della necessità degli stessi, la effettiva sopravvenienza, la unilateralità delle decisioni che li ha accompagnati, la natura voluttuaria degli stessi, la loro insostenibilità in rapporto alla sua situazione economica e reddituale. Sulla base di tali doglianze l’opponente ha chiesto, previa revoca del decreto opposto, di accertare e di quantificare l’entità delle spese straordinarie dallo stesso dovute, nella misura di Euro 1.500,00. Somma che provvedeva a versare, banco judicis.
Con comparsa del 03.05.2018, si è costituita in giudizio (…), la quale ha insistito nella propria pretesa creditoria chiedendo il rigetto dell’opposizione e la conferma del decreto; la somma di Euro 1.500,00 è stata trattenuta in acconto sul maggiore dovuto.
La causa è stata istruita con le produzioni documentali e le prove per testi indicate dalle parti ed è stata trattenuta indecisione all’udienza del 20.1.2020, con assegnazione del termine per note conclusionali
DIRITTO
I rapporti economici tra le odierne parti in causa sono stati regolati secondo le previsioni dell’accordo di separazione omologato, datato 28.09.2012, nel quale era previsto il contributo del (…) alle spese straordinarie (scolastiche, medico specialistiche, etc.) in misura del 50%, previa documentazione, e nella sentenza di divorzio dove si prevede l’obbligo del padre di concorrere nella misura del 50% alle spese straordinarie concordate e documentate.
Nel caso di specie, l’opponente afferma che le spese richieste in monitorio sono state decise ed affrontate a sua insaputa dalla (…), e ne contesta l’opportunità, mentre la convenuta opposta sostiene che egli ne fosse a conoscenza trattandosi di spese relative a situazioni preesistenti ed abituali (ad. es. la scuola di danza e la palestra per le figlie), o dipendenti da necessità a lui note, (ad es.: la necessità delle cure mediche per la figlia L.).
Vanno definiti straordinari tutti gli esborsi necessari a far fronte ad eventi imprevedibili o eccezionali, ad esigenze non rientranti nelle normali consuetudini di vita dei figli, o comunque non ricorrenti, non quantificabili e determinabili in anticipo, ovvero di apprezzabile importo rispetto al tenore di vita della famiglia e alle capacità economiche dei genitori (ad es. interventi chirurgici o fisioterapia; spese per occhiali da vista, lezioni private, patente di guida, acquisto di un motorino, ecc.).
Il preventivo accordo tra i coniugi riguardo le spese straordinarie è sempre opportuno per evitare conflitti nascenti di fronte alle richieste di rimborso sostenute da uno dei due genitori per le spese decise in maniera unilaterale, e nel caso di specie è previsto espressamente nella sola sentenza di divorzio.
Il previo concerto non è tuttavia necessario in relazione alle spese straordinarie inerenti a decisioni di maggior interesse per i figli (Cass. 2467 del 08/02/2012); in relazione a tali spese, il coniuge che non le abbia determinate, è tenuto al rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso. La ratio che la legislazione sull’affido condiviso privilegia è sicuramente il raccordo dei genitori in materia di scelte educative che riguardano i figli, tanto è vero che, se agiscono d’intesa, essi possono in molti casi anche modificare di comune accordo le stesse indicazioni fomite dal giudice. Nondimeno, quando il rapporto tra i genitori non consente il raggiungimento di un’intesa, occorre assicurare ancora la tutela del migliore interesse del minore e l’opposizione di un genitore non può paralizzare l’adozione di ogni iniziativa che riguardi un figlio minorenne, specie se di rilevante interesse, e neppure è necessario ritrovare l’intesa prima che l’iniziativa sia intrapresa, fermo restando che compete al giudice, ove ne sia richiesto, verificare se la scelta adottata corrisponde effettivamente all’interesse del minore.
Cass. civ. (Ord.), Sez. VI – 1, 15/02/2017, n. 4060
In tale ottica, costituiscono certamente scelte effettuate nell’interesse dei minori quelle di far proseguire alle figlie la pregressa frequentazione della palestra o della scuola di danza, cosa di cui, come risulta dalla prova per testi, (teste (…) – ud 7.2.19) il (…) era a conoscenza, così come è attività necessaria l’aver sottoposto la figlia alle cure rese necessarie dallo stato di turbamento emotivo che la stessa aveva subito proprio a causa dell’epilogo del rapporto coniugale dei propri genitori.
La condizione del “previo accordo” tra i genitori divorziati non può essere qualificata come meramente potestativa, non essendo rimessa al mero arbitrio della parte in cui favore è predisposta, ma ad essa deve riconoscersi natura giuridica di condizione potestativa semplice o impropria e quindi incompatibile con la finzione di avveramento della condizione di cui all’art. 1359 c.c., sicché, in mancanza dell’accordo tra le parti, è necessario l’accertamento giudiziale.
Cass. civ. (Ord.), Sez. VI – 1, 27/10/2017, n. 25698
(Nel caso richiamato, avendo la ex moglie allegato – con deduzione analoga a quella avanzata dall’odierna opposta – che l’ex coniuge si era reso irraggiungibile non rendendo possibile l’accordo, la S.C. ha statuito che il riconoscimento del diritto al rimborso dipendeva da una valutazione discrezionale, da rimettersi al giudice, circa la rispondenza e necessità delle spese in relazione all’interesse del figlio)
A fronte della scelta della (…) di non avvalersi delle strutture pubbliche, il (…) non ha dimostrato di essersi adoperato nella scelta di una soluzione diversa, e più rispondente alle proprie dedotte situazioni finanziarie, le quali, peraltro, non costituiscono criterio di valutazione esclusivo.
Le condizioni economiche effettive e concrete dei genitori non possono andare a discapito del maggiore interesse del figlio e laddove le scelte di spesa si rivelino utili, sussiste l’obbligo di rimborso della quota che l’altro genitore avrebbe dovuto pagare, anche se quest’ultimo ha delle difficoltà economiche. Tale affermazione non può comunque tradursi in un criterio assoluto, perché le spese di cui si chiede il rimborso devono essere sostenibili, cioè non devono essere assolutamente e palesemente sproporzionate in sé, o rispetto alla situazione finanziaria dei genitori, fermo in ogni caso il vaglio di necessità ed utilità.
L’ammontare del rimborso spese richieste a tale titolo non presenta il carattere di palese esorbitanza sostenuto dalla parte opponente, e l’intervenuto miglioramento dello stato di salute della figlia ne dimostra appieno l’utilità.
L’assenza di adeguata regolamentazione, che le parti hanno riservato a clausole generali e di stile, rende necessario il vaglio anche su ogni altra singola voce di spesa che ha formato richiesta di rimborso in monitorio.
A tale riguardo, deve ritenersi non sussistente il titolo per il rimborso delle spese per tasse scolastiche, per trasporto scolastico, medicinali da banco, spese per il trasporto urbano, in quanto si tratta di voci da ricomprendere nelle finalità dell’assegno di mantenimento, o spese per gite scolastiche con pernottamento, o per il corso di fotografia, che presentano il carattere della straordinarietà, quindi in relazione ad esse si rende necessario il previo consenso.
Analoga soluzione deve darsi in ordine alla richiesta di rimborso delle spese per il conseguimento della patente di guida: anche in questo caso si tratta di spese che esulano dal mantenimento ordinario e benché si tratta di spese di indubbia utilità per la formazione delle figlie, non è possibile individuare in capo ad esse il requisito di necessità o di migliore vantaggio per il minore, sopra richiamato per valutare l’opportunità del riparto, in mancanza di consenso, in ordine alle spese mediche o per attività sportive affrontate in favore delle figlie all’epoca minorenni; trattasi ora di spese sorte al compimento della maggiore età delle figlie, e quindi in un momento di maggiore maturità, in cui la fase critica dell’epilogo del rapporto coniugale era superata, ed in cui l’eventuale privazione non poteva più ritenersi non comprensibile dalle figlie o negativamente incidente sulla loro formazione caratteriale.
Di contro, sono rimborsabili le spese per i libri scolastici, che vanno classificate tra quelle esorbitanti l’importo dell’assegno, ma obbligatorie, che quindi possono essere affrontate e vanno rimborsate anche se non concordate.
Pertanto il decreto ingiuntivo deve essere revocato.
Il (…) va condannato al pagamento della minor somma costituita dal 50% delle voci di cui è consentito il rimborso, con il solo riferimento alle voci di spesa esborsate prima della sentenza di divorzio, poiché le successive andavano concordate, stante l’espresso dato letterale ivi contenuto, e quindi: scuola di danza ed accessori per la figlia S. ; palestra e spese mediche per la figlia (…); libri scolastici (escluso quanto imputabile al corso di fotografia)
Dall’importo risultante va detratta la somma di Euro 1.500, 00 già versata dal (…)
Le spese di lite vanno integralmente compensate, posto che la generica statuizione del criterio di determinazione e riparto delle spese, per la gran parte già esistenti in pendenza del giudizio di divorzio, concluso però con accordo che non le ha menzionate e regolate, ha dato causa al presente contenzioso.
(omissis)

Spese straordinarie azionabili direttamente versus spese oggetto di accertamento.

Cass. 13 gennaio 2021 n. 379
Fatti di causa
1. Il Giudice di Pace di Bassano del Grappa, con la sentenza n. 498 del 2013, in accoglimento della
domanda proposta da S.A. nei confronti di C.D. , genitori naturali della minore A. , nata l’(OMISSIS) ,
affetta da “Trisomia 21”, pronunciando in un giudizio di opposizione a precetto al primo intimato per
l’importo di Euro 1.747,14 a titolo di pagamento delle spese straordinarie, rispetto alle quali era stato
riconosciuto l’obbligo di contribuzione del padre nella misura del 50%, annullava il precetto opposto.
Il giudice di primo grado riteneva infatti che perché le spese straordinarie potessero essere oggetto di
esecuzione forzata ne occorresse l’accertamento in una autonoma sede giudiziale, non potendo intendersi
come immediatamente esecutivo il provvedimento cautelare del Tribunale di Padova che, adito in via
d’urgenza dalla madre, aveva altresì determinato l’ammontare dell’assegno mensile di mantenimento
dovuto dal padre in Euro 424,00.
2. Su appello di C.D. , il Tribunale di Vicenza con la sentenza in epigrafe indicata, in parziale accoglimento
dell’impugnazione proposta, escluse le spese per l’acquisto di quaderni e materiale di cancelleria, per un
importo pari ad Euro 43,45, e ridotto in pari misura il precetto, ha qualificato, nel resto, come
straordinarie le altre spese, confermando così la residua somma portata nel titolo opposto.
3. Ricorre per a cassazione della sentenza di appello S.A. con sei motivi. Resiste con controricorso C.D. .
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380-ibis.1 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione, in relazione all’art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 474 c.p.c. e quindi la carenza di un titolo esecutivo. Le somme portate in
precetto a titolo di, rimborso spese straordinarie non costituivano un diritto certo, liquido ed esigibile.
La sentenza impugnata avrebbe erroneamente inteso la giurisprudenza della Corte di Cassazione,
confondendo, in materia di ripetibilità di esborsi sostenuti dal genitore per il figlio, gli stilemi “spese
ordinarie” e “spese straordinarie”.
2. Con il secondo motivo si fa valere la violazione e falsa applicazione di legge in cui era incorso il
tribunale nell’interpretazione fornita della nozione di “spese straordinarie”.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c.,
comma 2, n. 4, per motivazione apparente; il giudice di appello aveva qualificato come “straordinarie” e
quindi ricomprese nel titolo le spese scrutinate con ragionamento apodittico. Non vertendosi in ipotesi di
“doppia conforme” il giudice di secondo grado non aveva adempiuto all’obbligo della “motivazione
rafforzata”.
4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c.., in relazione
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non avere il tribunale dato risposta alle eccezioni proposte
dall’appellato.
5. Con il quinto motivo il ricorrente fa valere la violazione dell’art. 700 c.p.c. e degli artt. 1362 c.c. e
segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
6. Con il sesto motivo si deduce la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3.
7. In via preliminare dei motivi che vanno dal secondo al sesto va data una valutazione in termini di
inammissibilità.
S tratta infatti di critiche con cui il ricorrente introduce, prima facie, per un giudizio che involge, all’esito
di una loro lettura, complessivamente e partitamente i motivi proposti, oltre che capillari e defatiganti
contestazioni in fatto sulle singole spese precettate, un coacervo di questioni d’indole sostanziale e
processuale – che si vogliono sostenute, anche, dal riferimento ad autori di dottrina le cui opere sono
riportate nel corpo del ricorso per brani virgolettati delle quali non viene neppure indicata la fonte.
I motivi sono così portatori di una torrenziale quantità di questioni che inserite nelle cinquantadue pagine
di sviluppo del ricorso omettono di definire dei primi i contenuti, in tal modo sottraendosi all’osservanza
stessa della tipizzazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1.
Il richiamo a questioni “multiple” e “a grappolo” all’interno di ogni motivo, quasi nell’intento del ricorrente
di contestare quanto più possibile ogni profilo dell’impugnata sentenza, in una sorta di affannosa rincorsa
ad aggiunte che si vorrebbero finalizzate ad una sempre più puntuale critica, propone, invece, nei suoi
faticosissimi passaggi, segnati anche da una discorsività che dei primi lascia pure sbiadire il contenuto,
una disorientante lettura che non consente di saggiare dei motivi neanche a portata.
Al di là della osservata tecnica della numerazione – peraltro neppure essa puntualmente seguita, atteso
che alla relativa titolazione dei motivi si accompagna, anche, il richiamo a non meglio precisate note
commento -, non è possibile dei motivi apprezzare finanche l’effettiva consistenza, nella mancanza di una
loro autonomia ed autosufficienza.
Nel ricorso per cassazione, il motivo di impugnazione che in negazione della regola di chiarezza posta
dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, prospetti una pluralità di questioni in diritto precedute unitariamente
dalla elencazione delle norme che si assumono violate è inammissibile richiedendo un inesigibile
intervento integrativo della Corte che, per giungere alla compiuta formulazione del motivo, in violazione
del dovere di terzietà del e attraverso una propria selezione dovrebbe individuare, per ciascuna delle
doglianze, l’atteggiarsi dello specifico vizio di violazione di legge.
8. Operata l’indicata premessa, resta al sindacato di questo Collegio lo scrutinio del primo motivo di
ricorso che, infondato, per le ragioni di seguito indicate, va rigettato.
9. Segnatamente, viene alla valutazione di questa Corte di Cassazione per l’indicata censura, la questione
relativa a caratteri e contenuti di cui deve godere, in modo imprescindibile, il titolo esecutivo e
l’atteggiarsi dei primi là dove si discorra del rapporto tra assegno forfettizzato, stabilito in sede giudiziale
o consensuale, per il mantenimento del figlio e contributo dei genitori alle spese straordinarie (scolastiche
e mediche) solo in misura percentuale nel primo richiamate.
Per l’indicato percorso va più puntualmente, saggiata la capacità del titolo di condanna alla
corresponsione dell’assegno di contributo al mantenimento (art. 337 ter c.c., comma 4) a sostenere, ed
in quali limiti, anche le spese straordinarie fissate solo in misura percentuale a carico dei genitori e quindi
la necessità, o meno; per colui che si trovi ad anticipare quelle spese di munirsi, per ottenere delle prime
il rimborso, di un nuovo titolo attraverso un autonomo accertamento giudiziale, o ancora, di concludere
un diverso accordo con l’altro genitore.
10. Il principio da cui muovere è quello per il quale, il creditore che abbia ottenuto una pronuncia di
condanna nei confronti del debitore esaurisce per ciò stesso il proprio diritto di azione e non può, per
difetto di interesse, richiedere ex novo un altro titolo contro il medesimo debitore per la medesima
ragione ed oggetto sempreché, però, il comando sia idoneamente delimitato e quantificato, in relazione
all’esigenza di certezza e liquidità del diritto che ne costituisce l’oggetto, o comunque lo possa essere in
forza di elementi in modo idoneo indicati nel titolo stesso ed all’esito di operazioni meramente materiali o
aritmetiche (sul principio, ex multis: Cass. 06/06/2003 n. 9132, Cass. 5/02/2011, n. 2816).
10.1. La regola, d’indole generale, va poi declinata nella fattispecie in esame – in cui e in contestazione la
distinzione tra spese ordinarie e straordinarie di cui sono gravati i genitori nel mantenimento del figlio –
per la capacità dell’originario titolo, che abbia statuito anche sul contributo mensile forfettizzato al
mantenimento dei figli, di sostenere negli effetti esecutivi suoi propri, anche le altre spese.
10.2. Il tema è connesso al significato da riconoscersi alle spese straordinarie, sub specie di quelle
mediche e scolastiche, in quanto non ricomprese nell’assegno mensile quantificato in modo forfettizzato
per il mantenimento del figlio, e ciò nell’intento di realizzare un equo contemperamento tra le ragioni del
genitore, creditore anticipatario e quelle dell’altro, tenuto al rimborso “pro quota”, il tutto all’interno di
una più generale cornice nella quale si realizza l’interesse del figlio ad essere educato e mantenuto dai
genitori nel rispetto delle sue formazioni.
Deve così richiamarsi la distinzione operata da questa Corte di Cassazione tra spese ordinarie e spese
straordinarie nel settore degli esborsi scolastici e medici.
Va, sul punto, precisato che la contribuzione alle spese mediche e scolastiche del figlio non va riferita a
fatti meramente eventuali perché straordinari e connotati da imprevedibilità e tanto in ragione di un
dovere, generalissimo, alla cui osservanza i genitori sono tenuti, che è poi quello di mantenere, istruire ed
educare la prole, ai sensi dell’art. 148 c.c., nei cui contenuti, per un fisiologico suo atteggiarsi secondo
nozioni di comune esperienza, le prime rientrano.
La necessità di continui esborsi per l’istruzione, richiesti anche da quella pubblica, in rapporto al grado
della scuola o istituzione superiore o universitaria, e, ancora, per prestazioni mediche, generiche o
specialistiche – rispetto alle quali la variabilità tocca soltanto la misura e l’entità, in rapporto all’incidenza
sullo stato di piena salute, e tanto nella normalità del ricorso alle prime anche per controlli periodico –
non rientra nella nozione di straordinarietà.
E l’ordinarietà della spesa non può dirsi soffrire di limitazioni nella sua affermazione nell’ipotesi in cui il
figlio sia persona portatrice di handicap, potendosi anche per siffatta ipotesi aversi un novero di spese
comunque qualificabili come routinarie nel senso indicato, in rapporto alla particolare condizione della
persona.
Le spese mediche e scolastiche integrative della categoria delle spese straordinarie sono quegli esborsi
(spese per l’acquisto di occhiali; visite specialistiche di controllo; pagamento di tasse scolastiche) che pur
non ricompresi nell’assegno periodico di mantenimento tuttavia, nel loro routinario proporsi, assumono
una connotazione di probabilità tale da potersi definire come sostanzialmente certe cosicché esse,
indeterminate nel quantum e nel quando, non lo sono invece in ordine all’an (in tal senso: Cass.
23/05/2011 n. 11316, in motivazione, parr. 4.1.-4.4.).
10.3. L’operata qualificazione consente di apprezzare, nella fattispecie in esame, con superamento, o
meglio puntualizzazione, di diverso indirizzo pure in precedenza fatto proprio da questa Corte di
3
legittimità (vedi in tal senso Cass. 28/01/2008 n. 1758; Cass. 24/02/2011 4543; Cass. 18/1/2017 n.
1161), nella natura routinaria del credito per spese mediche e scolastiche portato in condanna, di cui è
preannuncio di esecuzione nell’opposto precetto, l’azionabilità in forza dell’originario titolo.
10.4. Le spese che pur qualificate come straordinarie finiscono per rispondere ad ordinarie e prevedibili
esigenze di mantenimento del figlio tanto da assumere nei loro verificarsi una connotazione di certezza,
anche se non ricomprese nell’assegno forfettizzato e periodico di mantenimento possono, tuttavia, essere
richieste in rimborso dal genitore anticipatario sulla base della loro elencazione in precetto ed allegazione
in sede esecutiva al titolo già ottenuto,
senza che insorga la necessità il fare accertare, nuovamente in sede
giudiziale e per un distinto titolo, la loro esistenza e quantificazione.
10.5. In ordine alla distinta ipotesi delle “spese straordinarie”, categoria intesa come residuale ed
onnicomprensiva (così: Cass. n. 11316 cit., ibidem), lontana come tale da ogni carattere di ordinarietà e
certezza, questa Corte di Cassazione ha chiarito che, tali devono intendersi quelle spese che per la loro
rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli e la cui
sussistenza giustifica per ciò stesso un accertamento giudiziale specifico dietro esercizio di apposita
azione.
In siffatta ipotesi, la ratio che sostiene la non ricomprensione di dette spese nell’ammontare dell’assegno
in via forfettaria posto a carico di uno dei genitori è il contrasto che altrimenti si realizzerebbe con il
principio di proporzionalità ed adeguatezza del mantenimento sancito dall’art. 337-ter c.c., comma 4, n.
4, ed il rischio di un grave nocumento per il figlio che potrebbe essere privato di cure necessarie o di altri
indispensabili apporti, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario
dell’assegno “cumulativo” (nel regime definito dall’art. 155 c.c., in tal senso: Cass. 08/06/2012 n. 9372;
Cass. 23/01/2020 n. 1562).
10.6. Sulla indicata premessa, di natura classificatoria, al di là quindi della dizione utilizzata
nell’impugnata sentenza – che ricalca quella poi quella adottata dal giudice del titolo, che accomuna, tra
le altre, all’interno della categoria delle “spese straordinarie” quelle di istruzione (tasse, libri di testo e
gite scolastiche) e quelle mediche (con la precisazione, quanto a queste ultime, che deve trattarsi di
“spese non coperte dal SSN”) – negli esborsi portati dal titolo giudiziale non si ravvisano voci
straordinarie, o comunque imprevedibili, all’epoca di sua formazione.
Tanto nel rilievo, quanto alle spese mediche che la non ricomprensione di una prestazione remunerata dal
Servizio Sanitario Nazionale lascia impregiudicato il tema della loro ordinaria rispondenza ai bisogni dei
figli, non valendo la sola modalità, resa secondo il diverso regime libero-professionale, a rendere la
prestazione inadeguata e come tale non ricompresa nell’originario titolo giudiziale salvo la contestazione
sull’adeguatezza ai bisogni da portarsi al medesimo titolo per iniziative da coltivarsi in sede di
opposizione.
10.7. È necessario pertanto affermare che le formule adottate dai giudici di merito, nelle quali in modo
tralatizio si richiama, in aggiunta all’assegno forfettizzato di contributo al mantenimento, la
partecipazione di ciascun genitore, in misura percentuale, ad una serie di spese qualificate come
straordinarie, ha carattere meramente ricognitivo e pressoché superfluo, nulla predicando di quella natura
che resta, invece e sostanzialmente, individuabile in ragione dell’assoluta importanza, imprevedibilità ed
imponderabilità delle prime (quali quelle necessarie a sostenere l’esigenza di un intervento chirurgico o
poco meno).
Il richiamo alla causale delle spese computate a parte ed in aggiunta alla somma fissa da erogare
mensilmente all’altro coniuge, nulla dice circa natura ordinarie delle spese aggiuntive ovvero
straordinarie; risolvendosi, nel primo caso, in una componente ulteriore delle erogazioni ordinarie e, nel
secondo, nella vera erogazione straordinaria.
Solo le spese straordinarie così connotate ed estranee come tali al circuito della ordinarietà, salvo la loro
urgenza, vanno poi concordate tra i coniugi per evitare i conflitti dovuti alla loro unilaterale decisione e, in
difetto, richiedono l’accertamento in un autonomo titolo esecutivo.
10.8 Conclusivamente, per l’indicata categoria di spesa ed ai fini della sua ripetibilità da parte del
genitore che l’abbia anticipata resta possibile la formazione di un precetto su un titolo integrato da cui
risultino, per loro elencazione ed all’esito di mera operazione aritmetica, gli esborsi sostenuti.
Ciò non toglie che quegli importi saranno eventualmente contestabili dal genitore, chiamato a contribuirvi
dal preesistente titolo esecutivo, in sede di incidente di cognizione introducibile nelle forme
dell’opposizione precetto o all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., per i profili della proporzionalità ed
adeguatezza rispetto alle esigenze del mantenimento e, quindi, ai bisogni del figlio.
11. All’esito delle svolte valutazioni deve quindi formularsi il seguente principio di diritto:
“In materia di rimborso delle spese cdd. straordinarie sostenute dai genitori per il mantenimento del
figlio, fermo il carattere composito della dizione utilizzata dal giudice, occorre in via sostanziale
distinguere tra: a) gli esborsi che sono destinati ai bisogni ordinari del figlio e che, certi nel loro costante
e prevedibile ripetersi anche lungo intervalli temporali, più o meno ampi, sortiscono l’effetto di integrare
l’assegno di mantenimento forfettizzato dal giudice – o, anche, consensualmente determinato dai genitori
– e possono essere azionati in forza del titolo originario di condanna adottato in materia di esercizio della
responsabilità in sede di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del
matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli al di fuori del matrimonio, previa una
allegazione che consenta, con mera operazione aritmetica, di preservare del titolo stesso i caratteri della
certezza, liquidità ed esigibilità; b) le spese che, imprevedibili e rilevanti nel loro ammontare, in grado di
recidere ogni legame con i caratteri di ordinarietà dell’assegno di contributo al mantenimento, richiedono
per la loro azionabilità l’esercizio di un’autonoma azione di accertamento in cui convergono il rispetto del
principio dell’adeguatezza della posta alle esigenze del figlio e quello della proporzione del contributo alle
condizioni economico-patrimoniali del genitore onerato e tanto in comparazione con quanto statuito dal
giudice che si sia pronunciato sul tema della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, divorzio,
annullamento e nullità del vincolo matrimoniale e comunque in ordine ai figli nati fuori dal matrimonio”.
12. Il giudice di appello ha fatto corretta applicazione degli indicati principi ed il ricorso per cassazione,
infondato nei termini indicati, va pertanto respinto.
13. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo indicate.
Si dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati
identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,
comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a
norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente S.A. a rifondere a C.D. le spese di lite che liquida in Euro
3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed
accessori di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati
identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,
comma 17; va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a
norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

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SENTENZA N. 1
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n.
115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia
(Testo A)», promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli
sull’istanza proposta da A. C., con ordinanza del 13 dicembre 2019, iscritta la n. 48 del registro
ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 2 dicembre 2020 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
deliberato nella camera di consiglio del 3 dicembre 2020.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 13 dicembre 2019, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario
di Tivoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte
in cui, come interpretato dalla Corte di cassazione, determina l’automatica ammissione al patrocinio a
spese dello Stato della persona offesa dai reati, indicati nella norma medesima, di cui agli artt. 572,
583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di
cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice
penale, a prescindere dai limiti di reddito di cui al precedente comma l e senza riservare alcuno spazio di
apprezzamento e discrezionalità valutativa al giudice.
2. Il rimettente premette che, in data 20 maggio 2019, nell’ambito di un giudizio per il reato di cui
all’art. 609-bis cod. pen., veniva depositata istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato da
parte della persona offesa, senza la corredata dichiarazione – prevista dall’art. 79, comma 1, lettera c),
del d.P.R. n. 115 del 2002, a pena di inammissibilità dell’istanza – attestante la sussistenza delle
condizioni di reddito stabilite come requisito per l’ammissione stessa.
Il GIP del Tribunale di Tivoli, con ordinanza interlocutoria notificata al difensore, sospendeva
l’esame della domanda di ammissione al beneficio, invitando ad integrarla con l’indicazione delle
condizioni reddituali e patrimoniali dell’istante. Il difensore depositava una nota in cui osservava che il
reato di cui all’art. 609-bis cod. pen. è «tra quelli per i quali il patrocinio a spese dello Stato è sempre
concesso alla parte offesa prescindendo dalle condizioni reddituali» e che, di conseguenza, «le richieste
del giudice […] non appaiono motivate rispetto al procedimento in quanto nessuna analisi delle
condizioni reddituali dell’istante deve compiere il giudice, a differenza dei procedimenti ordinari, in
quanto il requisito non è richiesto nella particolare fattispecie della vittima del reato di violenza
sessuale».
3. Tanto premesso in punto di rilevanza – assumendo il giudice rimettente che la procedura
instaurata con il deposito dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato non possa essere
definita indipendentemente dalla risoluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale –, in
punto di non manifesta infondatezza, viene affermato che l’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. n. 115 del
2002, per come interpretato dalla Corte di cassazione, contrasta con gli artt. 3 e 24, terzo comma, Cost.
4. La Suprema Corte ha affermato il diritto della persona offesa da uno dei reati indicati nella norma
a fruire del patrocinio a spese dello Stato per il solo fatto di rivestire tale qualifica, a prescindere dalle
proprie condizioni di reddito, che, dunque, non devono neanche essere oggetto di dichiarazione o
attestazione ai sensi del successivo art. 79, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 115 del 2002. Tale lettura
sarebbe imposta dalla ratio della norma, «posto che la finalità della norma in questione appare essere
quella di assicurare alle vittime di quei reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità
dell’assistenza legale» (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 20 marzo 2017, n. 13497,
successivamente recepita anche dalla Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 23 novembre
2018, n. 52822).
Siffatte ripetute affermazioni del giudice di legittimità, in assenza di decisioni di segno diverso, – a
parere del rimettente – rendono “diritto vivente” la descritta interpretazione dell’art. 76, comma 4-ter, del
d.P.R. n. 115 del 2002, ponendo il giudice dinanzi all’alternativa di uniformarvisi o di rendere un
provvedimento difforme e di segno negativo, verosimilmente destinato all’annullamento o alla riforma.
Ricorda, dunque, il giudice a quo, che, per consolidato orientamento della giurisprudenza
costituzionale, invocare l’intervento del giudice delle leggi è possibile anche allorquando il giudice
remittente ha l’alternativa di «adeguarsi ad un’interpretazione che non condivide o assumere una
pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016). Ed
infatti, «[p]ur essendo indubbio che nel vigente sistema non sussiste un obbligo per il giudice di merito
di conformarsi agli orientamenti della Corte di cassazione (salvo che nel giudizio di rinvio), è altrettanto
vero che quando questi orientamenti sono stabilmente consolidati nella giurisprudenza – al punto da
acquisire i connotati del “diritto vivente” – è ben possibile che la norma, come interpretata dalla Corte di
legittimità dai giudici di merito, venga sottoposta a scrutinio di costituzionalità, poiché la norma vive
ormai nell’ordinamento in modo cosi radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema
senza l’intervento del legislatore o di questa Corte» (sentenza n. 350 del 1997).
5. Tale interpretazione – che esclude qualsiasi margine di valutazione giudiziale, imponendo
l’ammissione automatica al beneficio e qualificando come superflua l’autocertificazione reddituale pur
tuttora richiesta dal combinato delle disposizioni vigenti – istituisce un automatismo legislativo poiché,
al solo verificarsi del suo presupposto (e cioè assumere l’istante la veste di persona offesa di uno dei reati
indicati dalla norma) determina una conseguenza inderogabile, ossia l’ammissione al beneficio.
Ne deriverebbero pertanto, a parere del GIP del Tribunale di Tivoli, come per ogni forma di
automatismo, ricadute negative sul principio di uguaglianza, poiché verrebbero assimilate tra di loro
situazioni diverse e non equiparabili.
L’ammissione indiscriminata al beneficio de quo di qualsiasi persona offesa non consente alcun
margine di valutazione al giudice in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali (al punto da vietargli
di richiedere la relativa dichiarazione pur prescritta dall’art. 79, comma 1, lettera c, del d.P.R. n. 115 del
2002) e preclude ogni verifica giudiziale circa il possibile ricorrere, o la sicura assenza, di ostacoli e
remore di indole economica che la norma intende rimuovere trasferendo sulla collettività i costi della
difesa tecnica.
Rammenta il rimettente che, nella giurisprudenza costituzionale al riguardo, è frequente il
riferimento al generale obbiettivo di limitare le spese giudiziali, ritenendo cruciale, in tema di patrocinio
a spese dello Stato, l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non
abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia.
6. In tale prospettiva di salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa
in tema di giustizia, il giudice rimettente evoca anche l’art. 24, terzo comma, Cost., il quale si porrebbe
«non solo come primario strumento di garanzia per assicurare ai non abbienti l’effettivo esercizio del
diritto alla tutela giurisdizionale, ma anche quale presidio diretto ad evitare che gli oneri che ne
conseguono siano aggravati da improprie e ingiustificate estensioni dei benefici a soggetti non
ragionevolmente definibili “non abbienti” e pertanto non bisognosi del sostegno economico della
collettività».
7. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o
infondata.
7.1. La questione sarebbe inammissibile in quanto il giudice a quo non considererebbe la ratio e
l’ambito applicativo della norma censurata, al fine di valutarne la ragionevolezza; inoltre richiederebbe
“il sindacato nel merito di una scelta legislativa di promozione di valori costituzionalmente tutelati in
mancanza di un’irragionevolezza delle modalità individuate”.
Il primo profilo di inammissibilità investe la mancanza di un’analisi sulle ragioni del trattamento
differenziato introdotto dalla norma ai fini della valutazione dell’asserita irragionevolezza della
previsione. A parere dell’Avvocatura, nell’ordinanza di rimessione non verrebbe in alcun modo valutato
se la tipologia dei reati (sotto il profilo oggettivo) e delle persone istanti (sotto il profilo soggettivo) per i
quali il beneficio è accordato giustifichi un trattamento differenziato. Il giudice a quo, pur invocando
quale parametro di costituzionalità l’art. 3 Cost., non svolgerebbe alcuna valutazione sulla
ragionevolezza della previsione censurata, anche nell’interpretazione fatta propria dalla Corte di
cassazione, così omettendo altresì di dare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma.
Il secondo profilo di inammissibilità deriverebbe dall’insindacabilità delle scelte discrezionali
affidate al legislatore, il quale deve essere libero – salvo il limite dell’irragionevolezza, in questo caso
non superato – di tutelare valori costituzionali, quali la libertà personale, la salute e l’obbligatorietà
dell’azione penale, attraverso norme incentivanti, idonee a far emergere episodi di criminalità odiosi in
danno di vittime fisiologicamente vulnerabili o divenute tali in conseguenza del crimine.
7.2. Secondo l’Avvocatura generale, la questione sarebbe comunque infondata.
7.2.1. Innanzitutto, la prospettata violazione del principio di uguaglianza non sarebbe dal giudice
rimettente rinvenuta nella limitazione del beneficio solo alle persone offese dai reati indicati nella norma,
ma nella mancata considerazione della diversa situazione reddituale sussistente all’interno di tale
categoria.
Posto che la regola è che il beneficio competa ai non abbienti, cioè ai soggetti che percepiscano un
reddito inferiore al limite posto dal comma 1 del censurato art. 76, occorrerebbe valutare se sia possibile
prevedere che vi accedano anche soggetti – senza difficoltà reddituali – che siano persone offese di
determinati reati indicati nella disposizione medesima.
Ed invero, l’eccezione introdotta dal legislatore non solo non sarebbe irragionevole, ma avrebbe una
precisa motivazione, valutabile positivamente, e cioè quella di tutela di soggetti vulnerabili, prima o in
dipendenza del crimine, che potrebbero, per tale stato, avere delle remore a denunciare e a difendersi nei
procedimenti penali nei confronti dei loro aggressori.
Alla tutela di persone deboli si aggiungerebbe, in senso più ampio, una finalità di prevenzione di
crimini odiosi, dato che vengono in rilievo reati abituali o facilmente ripetibili in ragione dell’attitudine
di alcuni soggetti a ricreare in futuro situazioni analoghe.
Quanto, poi, al profilo specificamente legato alla sussistenza di un automatismo nel riconoscimento
del beneficio, che precluderebbe al giudice di valutare la peculiarità della fattispecie concreta,
l’Avvocatura generale esclude la prospettata violazione dell’art. 3 Cost.
E ciò in quanto l’automatismo si regge su una presunzione, che può ritenersi immune da censure di
irragionevolezza se risponde all’id quod plerumque accidit. Pertanto, fermo restando che ogni
automatismo, proprio perché regola meccanica che attinge la propria ratio alla sussistenza di un fatto
presunto sulla base di una massima di esperienza, porta inevitabilmente con sé l’assimilazione di
situazioni che nella realtà possono invece non corrispondere, deve essere considerato irragionevole solo
se smentita a livello empirico, cosa che in questo caso non avverrebbe.
7.2.2. A parere dell’Avvocatura generale sarebbe infondata anche la censura relativa all’art. 24, terzo
comma, Cost.
Rileva quest’ultima che se è ben vero che, in tema di patrocinio a spese dello Stato, è cruciale
l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di
contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia, la ricerca di tale punto di equilibrio
competerebbe, comunque, al legislatore e rientrerebbe nella sua discrezionalità, nel delicato
contemperamento con la tutela delle vittime di reati particolarmente odiosi, efferati e frequenti, e con la
tutela dell’effettività della risposta sanzionatoria e di prevenzione di determinati reati.
Considerato in diritto
1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario
di Tivoli solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio
2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di
giustizia (Testo A)», nella parte in cui, secondo l’interpretazione della Corte di cassazione assurta a
“diritto vivente”, dispone l’ammissione automatica – a prescindere dai limiti di reddito di cui al
precedente comma l – al patrocinio a spese dello Stato delle persone offese dai reati di cui agli artt. 572,
583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di
cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice
penale.
Il rimettente assume il contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 della Costituzione in quanto
istituisce un automatismo legislativo di ammissione al beneficio al solo verificarsi del presupposto di
assumere la veste di persona offesa di uno dei reati indicati dalla medesima norma, con esclusione di
qualsiasi spazio di apprezzamento e discrezionalità valutativa del giudice, disciplinando in modo identico
situazioni del tutto eterogenee sotto il profilo economico; nonché con l’art. 24, terzo comma, Cost., in
quanto l’ammissione indiscriminata e automatica al beneficio di qualsiasi persona offesa da uno dei reati
indicati porta a includere anche soggetti di eccezionali capacità economiche, a discapito della necessaria
salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa in tema di giustizia.
2. Preliminarmente, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità, formulate dall’Avvocatura
generale dello Stato, per carenza, nell’ordinanza di rimessione, di una adeguata considerazione della ratio
e dell’ambito applicativo della norma censurata, come sarebbe stato invece necessario per valutare la
ragionevolezza della scelta ivi introdotta rispetto alla regola del limite reddituale posta dal comma 1, e
per la richiesta di un «sindacato nel merito di una scelta legislativa di promozione di valori
costituzionalmente tutelati in mancanza di un’irragionevolezza delle modalità individuate».
2.1. Quanto al primo profilo, non sussiste alcun difetto di motivazione, posto che il giudice a quo
argomenta adeguatamente le proprie censure, senza, peraltro, incorrere – come sembra invece adombrare
l’Avvocatura generale – nel mancato esperimento del tentativo di un’interpretazione costituzionalmente
conforme della disposizione censurata.
Infatti, il rimettente ricostruisce adeguatamente la lettura che ne offre la Corte di cassazione e ricorda
che, per consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, invocare l’intervento del giudice
delle leggi è possibile anche allorquando il giudice a quo abbia unicamente l’alternativa «di adeguarsi ad
un’interpretazione che non condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad
essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016).
Effettivamente, questa Corte ha chiarito che, anche in «difetto di un vero e proprio diritto vivente, si
deve tenere conto della circostanza che un’eventuale pronuncia di dissenso» da parte del rimettente lo
espone ad una assai probabile riforma della propria decisione da parte del giudice di ultimo grado: «[i]n
tale ipotesi, quindi, la via della proposizione della questione di legittimità costituzionale costituisce
l’unica idonea ad impedire che continui a trovare applicazione una disposizione ritenuta
costituzionalmente illegittima» in quanto, «se il giudice non si determinasse a sollevare la questione di
legittimità costituzionale, l’alternativa sarebbe dunque solo adeguarsi ad una interpretazione che non si
condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza
n. 240 del 2016).
Queste considerazioni inducono a escludere anche un’ipotesi di inammissibilità della questione per
la richiesta a questa Corte di un avallo interpretativo. In sostanza, riprendendo le argomentazioni della
già citata sentenza n. 240 del 2016, la soluzione prescelta dal rimettente – cioè di ritenere
l’interpretazione data dalla Corte di cassazione “non altrimenti superabile” (tanto più, allo stato, in
assenza di pronunce contrarie) – non pare implausibile e non lascia spazio in concreto alla
sperimentazione di altre opzioni, dato che in ogni caso tutte verrebbero a confliggere con quella fatta
propria dal giudice di ultimo grado.
2.2. Quanto al secondo profilo di inammissibilità, esso sembra investire la presunta insindacabilità
delle scelte discrezionali affidate al legislatore.
Tale profilo, però, tocca il merito della questione, alla cui trattazione si rimanda.
3. La questione non è fondata.
4. Come da ultimo ribadito da questa Corte, «”la giurisprudenza costituzionale ha in più occasioni
ricondotto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato nell’alveo della disciplina processuale (sentenza n.
81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode di
ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte
adottate (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019)”» (sentenza n. 80 del 2020, in linea con la sentenza n. 47
del 2020 e l’ordinanza n. 3 del 2020).
5. La scelta effettuata con la disposizione in esame – che va, appunto, ricondotta nell’alveo della
disciplina processuale – rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole
né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati
dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati.
Nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni, è stato dato grande spazio a
provvedimenti e misure tesi a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e
l’autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore
sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori. Di qui la volontà di
approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento
nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti.
Ed infatti, nel preambolo del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito,
con modificazioni, nella legge n. 38 del 2009, che ha introdotto la disposizione in esame, si richiama «la
straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza
della collettività, a fronte dell’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso
un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei
suddetti reati». Non diverse sono le considerazioni sviluppate nel preambolo del decreto-legge 14 agosto
2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere,
nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con
modificazioni, nella legge n. 119 del 2013.
È evidente, dunque, che la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di
indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui
vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare
e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità. Valutazione che appare del tutto
ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore.
6. A queste argomentazioni sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di accordare il
beneficio del patrocinio a spese dello Stato sganciandolo dal presupposto della non abbienza, va aggiunta
la considerazione che nel nostro ordinamento sono presenti altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto
l’ammissione a tale beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza.
Questa Corte ha affermato in proposito che «tale scelta [di porre a carico dell’erario l’onorario e le
spese spettanti all’avvocato e all’ausiliario del magistrato] rientra nella piena discrezionalità del
legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la
peculiarità del procedimento di espulsione dello straniero e la necessità di non frapporre alcun ostacolo al
perseguimento di questo fine» (ordinanza n. 439 del 2004).
Valutazioni di analogo tenore possono, dunque, svolgersi per la disciplina di cui al censurato comma
4-ter.
7. Quanto, specificamente, al profilo di censura calibrato sull’automatismo del patrocinio a spese
dello Stato quale presunzione assoluta, il giudice a quo segnala che, secondo la giurisprudenza
costituzionale, la presunzione legislativa è immune da censure di legittimità costituzionale e resiste al
vaglio di ragionevolezza solo quando vi sia «solida rispondenza all’id quod plerumque accidit» (così tra
le altre, sia pure relative a ipotesi decisamente distanti da quelle in esame, sentenza n. 191 del 2020); e
che «“le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il
principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza
generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit” (sentenza n. 268 del 2016; in
precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n.
41 del 1999 e n. 139 del 1982). In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie
tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione
posta a base della presunzione stessa.» (sentenza n. 253 del 2019).
E però, il rimettente non coglie nel segno richiamando questa giurisprudenza, posto che, per quanto
sin qui esposto, il beneficio non è legato ad una presunzione di non abbienza delle persone offese dai
reati indicati dalla norma censurata e ha tutt’altre giustificazioni.
La verifica della regola dell’id quod plerumque accidit dovrebbe, piuttosto, concernere la
vulnerabilità delle persone offese dai reati presi in considerazione dal censurato comma 4-ter, in ordine
alla cui sussistenza convergono significativi dati di esperienza e innumerevoli studi vittimologici.
8. Per quel che concerne, infine, la prospettata violazione dell’art. 24, terzo comma, Cost., ci si
limita a evidenziare che il parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e
difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
Esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore
di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non
abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese
dello Stato della persona offesa dai reati indicati nella norma medesima, sollevata, in riferimento agli
artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
ordinario di Tivoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre
2020.

Nomina di CTU in tema di AdS se è dubbia la capacità del beneficiario di prestare un valido consenso.

Tribunale di Verona, 13 dicembre 2020
DECRETO
Il giudice tutelare dr. Luigi Edoardo Fiorani,
vista l’istanza del 20 luglio 2020 dell’a.d.s. avv C.V., con la quale è stata richiesta l’autorizzazione all’inserimento del sig. Tullio presso la struttura Diamante Azzurro, dandosi atto del desiderio manifestato dal Tullio di far ritorno presso la sua abitazione;
riscontrato come il problema della residenza del beneficiario si sia già posto al momento dell’avvio del presente procedimento e rammentato che, in esito agli approfondimenti allora disposti, si è accertata, per un verso, la volontà del Tullio di restare nella sua abitazione e, per l’altro verso, la non incompatibilità di tale sistemazione con le condizioni di salute del beneficiario, deteriorate dall’avanzare dell’età (essendo nato XX XY 1929), ma non irrimediabilmente compromesse;
constatato come, nella pendenza nella procedura, e segnatamente nell’anno in corso, la situazione sanitaria del Tullio sia gravemente peggiorata, essendo stato il beneficiario sottoposto a un intervento di amputazione sovragenicolare, per la quale lo stesso beneficiario ha prestato il consenso informato;
rilevato come, in esito all’istanza dell’A.D.S. del mese di luglio 2020, pur disponendosi in via provvisoria la sistemazione del Tullio presso la struttura Diamante Azzurro, anche alla luce della documentazione medica a firma del dr. XX e della dottssa XY, si sia dato corso ad approfondimenti istruttori, legati alla necessità di dare seguito al condiviso orientamento giurisprudenziale secondo cui all’amministratore di sostegno può essere deferito il potere di prestare, in nome e per conto del beneficiario ex art 405, comma 5, nr. 3 c.c., il consenso all’inserimento presso una casa di cura e ricovero, sempre che, in ogni caso, sia valutata la non pretestuosità dell’eventuale rifiuto manifestato dal beneficiario (Trib. Vercelli, decr. 28 marzo 2018);
preso atto del contenuto della relazione depositata dal C.T.U. in data 30 ottobre 2020, dove si legge: “In base alle considerazioni su esposte, è ora possibile rispondere in maniera valida ed attendibile ai quesiti posti dal Giudice. Il signor Tullio non è assolutamente autonomo sul piano fisico: impossibilitato nei movimenti spontanei; incapace in ogni attività della vita quotidiana; in precario equilibrio emometabolico e necessitante di eventuali pronti interventi strumentali e laboristici; iperteso e diabetico; insufficiente cronico a livello cardio circolatorio. In modo particolare, va segnalato che egli non si rende assolutamente conto della sua totale dipendenza (per di più rispetto a personale specializzato) tanto che il suo desiderio di tornare a casa è privo di qualsiasi reale possibilità di avveramento senza gravi rischi quoad vitam. Il signor Tullio ha dunque necessità impellente di una misura di protezione che sia in grado di garantire, a questo punto solo in ambiente specializzato, la continuità delle necessarie cure ed assistenza” ;
constatato che il consulente ha dato atto di come, per un verso, la situazione sanitaria del beneficiario non sia compatibile con un ritorno a casa e come, per altro verso, il Tullio non abbia manifestato di avere piena consapevolezza di tale situazione;
rilevato che il consenso a suo tempo manifestato dal beneficiario allo svolgimento di interventi chirurgici invasivi sulla sua persona costituisca un indice di sicuro rilievo dal quale inferire la volontà del beneficiario di sottoporsi alle cure necessarie per il preservamento del suo stato di salute; volontà che non appare in linea con il desiderio, di segno contrario, di tornare presso la Casa Alloggio precedentemente occupata, dove, non potendo essere somministrate al Tullio le cure di cui lo stesso ha bisogno, quest’ultimo si troverebbe in serio pericolo di vita;
ritenuto, in sostanza, che gli approfondimenti svolti non consentono di concludere che il Tullio abbia intenzione di rifiutare l’assistenza medica necessaria alla sua sopravvivenza e che, dunque, il suo desiderio di tornare nella propria precedente abitazione, dove quelle cure non potrebbero essergli somministrate, per quanto emerge dalla copiosa documentazione versata in atti, non appaia frutto di una scelta consapevole;
ritenuto, sul piano dei tempi di permanenza presso la struttura di Cologna Veneta, che debba essere rimesso all’Amministratore di Sostegno il compito di aggiornare il giudice tutelare, informandolo sull’evoluzione del quadro sanitario del beneficiario, ove si presenti la possibilità ovvero l’opportunità delle sue dimissioni, allo stato incompatibili con il suo quadro di salute;
rilevato che l*A.d.S. ha fatto presente che, nelle more dei disposti approfondimenti istruttori, l’abitazione sita nella Struttura di Verona è rimasta nella disponibilità del Tullio che ha continuato a sopportarne i costi mensili di locazione;
ritenuto, a questo riguardo, di dover invitare l’A.d.S. ad informare lo scrivente circa i suoi intendimenti, avuto riguardo all’interesse del beneficiario; considerato, quanto ai cani, che, ove consti il consenso del figlio, gli stessi possono alla stessa essere affidati, ivi compreso quello ad oggi collocato presso l’E.N.P.A., dovendosi all’uopo invitare l’A.d.S. ad aggiornare lo scrivente sulla situazione,
P.Q.M.
ATTRIBUISCE all’A.D.S. il potere di prestare, in nome e per conto del beneficiario ex art 405, comma 5, nr. 3 cc, il consenso all’inserimento presso la casa di cura Diamante Azzurro.
INVITA 1’A.D.S. a interloquire per iscritto, nel termine di giorni 30 dalla comunicazione del presente provvedimento, sulle ulteriori questioni evidenziate in parte motiva.
Si comunichi.

Moglie condannata per estorsione ai danni dell’ex marito: può esserle concesso l’affidamento in prova ai servizi sociali?

Cass. Pen., Sez. I, Sent., 18 gennaio 2021, n. 1911
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Z.M., nato il (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 11/02/2020 del TRIB. SORVEGLIANZA di TORINO;
udita la relazione svolta dal Consigliere CAPPUCCIO DANIELE;
lette le conclusioni del PG, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con ordinanza dell’11 febbraio 2020 il Tribunale di sorveglianza di Torino ha rigettato la richiesta di ammissione alla misura alternativa alla detenzione dell’affidamento in prova al servizio sociale presentata da Z.M. in relazione alla pena residua di due anni, due mesi e ventotto giorni di reclusione, inflittale per il delitto di estorsione aggravata.
Dato atto della storia personale della condannata – la quale, trasferitasi nel nostro paese dalla natia Bulgaria, ha sposato il figlio della donna che assisteva per poi vessarlo con continue richieste di denaro in favore dei di lei figli, i quali medio tempore la avevano raggiunta in Italia – e delle condizioni nelle quali è maturato il reato per il quale le è stata irrogata la pena in esecuzione, il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto che la assenza di consapevolezza rispetto alla commissione dell’illecito induce a ritenere ancora non superato il rischio di recidiva e che la collocazione in ambiente familiare possa offrirle il destro per reiterare analoghe condotte, non avendo ella raggiunto un grado di rieducazione sufficiente alla formulazione di una prognosi positiva in ordine all’efficacia rieducativa della misura richiesta.
2. Z.M. propone, con l’assistenza dell’avv. Paolo Bolley, ricorso per cassazione affidato a due motivi, con il primo dei quali deduce violazione di legge per avere il Tribunale di sorveglianza orientato la decisione sulla scorta di un elemento di fatto, la mancata ammissione di colpevolezza, inidoneo ad indurre una prognosi sfavorevole in merito all’esito dell’affidamento in prova al servizio sociale o di altra misura alternativa alla detenzione.
Con il secondo motivo, lamenta vizio di motivazione per avere il Tribunale di sorveglianza illogicamente e contraddittoriamente svalutato le positive informazioni acquisite in ordine al suo vissuto ed all’evoluzione della sua personalità in epoca successiva alla commissione del reato – che la ha vista attuare condotte riparative in favore della vittima e dedicarsi al lavoro, in un contesto di ottimo inserimento sotto il profilo relazionale, affettivo, ambientale e che lavorativo – ed esaltare, al contrario, argomenti meramente congetturali relativi all’instaurazione di vincoli di dipendenza potenzialmente forieri di nuove occasioni criminose, oltre che la mancata confessione.
3. Il Procuratore generale ha chiesto, con requisitoria scritta, il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e deve, pertanto, essere accolto.
2. L’affidamento in prova al servizio sociale, disciplinato dalla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, è una misura alternativa alla detenzione carceraria che attua la finalità costituzionale rieducativa della pena e che può essere adottata, entro la generale cornice di ammissibilità prevista dalla legge, allorchè, sulla base dell’osservazione della personalità del condannato condotta in istituto, o del comportamento da lui serbato in libertà, si ritenga che essa, anche attraverso l’adozione di opportune prescrizioni, possa contribuire alla risocializzazione prevenendo il pericolo di ricaduta nel reato.
Il giudizio in merito alla ammissione all’affidamento si fonda, dunque, sull’osservazione dell’evoluzione della personalità registratasi successivamente al fatto-reato, nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale: è infatti consolidato, presso la giurisprudenza di legittimità, l’indirizzo ermeneutico secondo cui “In tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine al buon esito della prova, il giudice, pur non potendo prescindere dalla natura e gravità dei reati commessi, dai precedenti penali e dai procedimenti penali eventualmente pendenti, deve valutare anche la condotta successivamente serbata dal condannato” (Sez. 1, n. 44992 del 17/09/2018, S., Rv. 273985), in tal senso deponendo il tenore letterale della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, commi 2 e 3, nella parte in cui condiziona l’affidamento al convincimento che esso, anche attraverso le prescrizioni impartite al condannato, contribuisca alla sua rieducazione ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.
Il processo di emenda deve essere significativamente avviato, ancorchè non sia richiesto il già conseguito ravvedimento, che caratterizza il diverso istituto della liberazione condizionale, previsto dal codice penale (Sez. 1, n. 43687 del 07/10/2010, Loggia, Rv. 248984; Sez. 1, n. 26754 del 29/05/2009, Betti, Rv. 244654; Sez. 1, n. 3868 del 26/06/1995, Anastasio, Rv. 202413).
Rientra nella discrezionalità del giudice di merito l’apprezzamento in ordine all’idoneità o meno, ai fini della risocializzazione e della prevenzione della recidiva, delle misure alternative – alla cui base vi è la comune necessità di una prognosi positiva, seppur differenziata nei termini suindicati, frutto di un unitario accertamento (Sez. 1, n. 16442 del 10/02/2010, Pennacchio, Rv. 247235) – e l’eventuale scelta di quella ritenuta maggiormente congrua nel caso concreto.
Le relative valutazioni non sono censurabili in sede di legittimità, se sorrette da motivazione adeguata e rispondente a canoni logici (Sez. 1, n. 652 del 10/02/1992, Caroso, Rv. 189375), basata su esaustiva, ancorchè se del caso sintetica, ricognizione degli incidenti elementi di giudizio.
3. Scrutinata alla luce di tali principi, l’ordinanza impugnata non supera il vaglio di legittimità.
Il Tribunale di sorveglianza, invero, nel motivare il rigetto dell’istanza di ammissione di Z.M. all’affidamento in prova al servizio sociale, ha affiancato al congruo riferimento all’assenza di consapevolezza rispetto alla commissione del reato che le è valso la condanna in esecuzione la menzione di ulteriori circostanze che, al contrario, non appaiono idonee ad incidere sull’apprezzamento delle condizioni per farla accedere alla misura alternativa e trascurato, per contro, significativi elementi di segno contrario, sì da pervenire ad un giudizio connotato, nel suo complesso, da manifesta illogicità.
In tal senso depone, in primo luogo, il cenno all’instaurazione di una nuova relazione affettiva con un cittadino italiano, che, in caso di ammissione alla misura alternativa alla detenzione, sarebbe disposto ad accoglierla presso la propria abitazione: ciò che, nell’ottica considerata, costituisce, almeno in astratto, fattore favorevole o, al più, neutro e che, in assenza di precise informazioni, non si presta invece ad essere letto, se non in termini di inammissibile pregiudizio, quale espressione della tendenza della donna a legarsi ad uomini dai quali ella dipende economicamente, ovvero a creare le premesse per la reiterazione di condotte criminose simili a quelle accertate con la sentenza di condanna della cui esecuzione si discute.
Il provvedimento impugnato si rivela, sotto altro aspetto, gravemente carente laddove, nel valutare l’evoluzione della personalità dell’odierna ricorrente, omette di considerare che ella ha posto in essere condotte riparatorie in favore dell’ex marito, il quale ha formalmente dichiarato di avere recuperato, anche grazie al rasserenamento dei rapporti con la Z., una situazione di appagante equilibrio psicofisico ed economico, e che la donna, non coinvolta in ulteriori procedimenti penali, è ben inserita nella famiglia del suo nuovo compagno, con il quale ha ininterrottamente convissuto per quattro anni, e può fruire, secondo quanto indicato dallo stesso Tribunale di sorveglianza, di una opportunità di lavoro quale domestica a tempo parziale presso una casa di riposo in Cambiano, struttura nella quale ella già svolto, in passato, attività analoga.
4. Le superiori osservazioni impongono, in conclusione, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Torino per un nuovo giudizio che, libero nell’esito, tenga conto dei superiori rilievi.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Torino.
Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2021.

Malformazioni fetali correlate ad una patologia contratta dalla gestante: sì al risarcimento del danno

Cass. Civ., Sez. III, Sent., 15 gennaio 2021, n. 653

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 33720/2018 proposto da:
S.S., M.V., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SANT’ANSELMO 7, presso lo studio dell’avvocato MONICA MARUCCI, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
N.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PADRE SEMERIA 65, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE NATALUCCI, che lo rappresenta e difende;
UNIVERSITA’ STUDI ROMA LA SAPIENZA, elettivamente domiciliata in ROMA, P.LE A. MORO 5, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO FAVA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI MILANESE;
– controricorrenti –
e contro
GENERALI ITALIA SPA;
– intimata –
nonchè da:
GENERALI ITALIA SPA, in persona dei procuratori speciali, domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli avvocati FRANCO TASSONI, e MATTEO MUNGARI;
– ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 2597/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/2020 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto.
Svolgimento del processo
S.S. e M.V., in proprio e in nome e per conto del figlio minore M.F. (nato con gravi malformazioni comportanti un’invalidità del 100%), convennero in giudizio il Dott. N.G. e l’Azienda Policlinico (OMISSIS) per sentirli condannare al risarcimento dei danni che assumevano conseguiti al fatto che il N., che aveva seguito la S. durante la gravidanza (sia nel proprio studio che presso il (OMISSIS)), non l’aveva adeguatamente informata sui rischi per il feto correlati ad un’infezione da citomegalovirus da essa contratta, in modo da consentirle di interrompere la gravidanza, nonchè (quanto alla sola struttura ospedaliera) all’ulteriore fatto che il parto con taglio cesareo era stato effettuato dopo un prolungato e inusuale travaglio che aveva comportato una sofferenza fetale.
Gli attori dedussero che, avendo contratto un’infezione da citomegalovirus, la S. – giunta alla 22 settimana di gestazione – si era rivolta al Dott. N. chiedendogli se non fosse necessario o opportuno interrompere la gravidanza in relazione alla possibilità di partorire un bambino affetto da gravi malformazioni e che il professionista l’aveva rassicurata, escludendo categoricamente l’esistenza di rischi e affermando, comunque, l’impossibilità di ricorrere all’aborto terapeutico, dato che erano decorsi i termini di cui alla L. n. 194 del 1978 e che non erano emerse malformazioni del feto; aggiunsero che il (OMISSIS), dopo un travaglio protrattosi per ben ventiquattro ore, la S. aveva dato alla luce il figlio F., che presentava gravissime lesioni cerebrali conseguenti a calcificazioni nervose.
Si costituirono in giudizio sia il N. – che chiamò in manleva la Reale Mutua Assicurazioni (salvo rinunciare alla domanda nel corso del giudizio di primo grado) – che l’Azienda Sanitaria (OMISSIS), che eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva e chiamò in causa l’Università La Sapienza (di cui l’azienda ospedaliera costituiva una struttura) e l’Ina Assitalia s.p.a..
il Tribunale di Roma, dichiarato il difetto di legittimazione passiva dell’Azienda (OMISSIS) in favore di quella dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza, rigettò la domanda degli attori e compensò le spese di lite.
La Corte di Appello ha respinto il gravame proposto dalla S. e dal M., anche in nome e per conto del figlio F., e ha compensato nuovamente le spese processuali.
La Corte ha affermato che il primo giudice ha correttamente richiamato l’orientamento di legittimità secondo cui è onere della parte che lamenti il mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza allegare e dimostrare l’esistenza delle condizioni legittimanti tale interruzione ai sensi della L. n. 194 del 1978 art. 6, lett. b), ovvero che la conoscibilità dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la salute fisica o psichica della donna; tanto premesso, ha rilevato che “il tribunale ha dato rilievo all’assenza di anomalie o malformazioni, “…seppur prevedibili con un certo grado di probabilità statistica…”, fino alla 28 settimana di gestazione, quando il neonato aveva già acquisito vita autonoma” e che il “nucleo della decisione va, quindi, individuato nella mancanza di certezza di un danno rilevante ed attuale per il feto, manifestatosi solo quando non era più possibile praticare l’aborto, perchè il feto godeva già di vita autonoma”; ha aggiunto che, invece, “gli appellanti anticipano il tempo di praticabilità dell’aborto al momento dell’infezione del feto, che rende altamente probabile l’insorgere di anomalie o malformazioni, a prescindere dalla loro esistenza” e ha affermato che tale lettura “non corrisponde, però, alla ratio sottesa, che tende a contemperare le esigenze di autodeterminazione della madre ed il diritto alla via del feto”; ha concluso che “i presupposti per ricorrere all’aborto sono sempre mancati fin dall’inizio” in quanto “il feto, nonostante l’infezione, era sano e tale è rimasto fino al settimo mese” e le malformazioni si sono manifestate troppo tardi, quando il feto aveva già vita autonoma; la Corte ha, infine, escluso la ricorrenza di condotte colpose nella gestione del parto, osservando che i consulenti tecnici d’ufficio avevano accertato la “conformità alla normativa vigente dell’operato dei sanitari e dell’organizzazione della struttura, in occasione del parto, escludendo ogni rapporto con le invalidità del nascituro, peraltro, già presenti circa due mesi prima della nascita” quali esiti di malattia congenita da CMV. Hanno proposto ricorso per cassazione S.S. e M.V., affidandosi a tre motivi; hanno resistito – con distinti controricorsi – il N., l’Università degli Studi di Roma La Sapienza e la Generali Italia s.p.a. (già Ina Assitalia); quest’ultima ha anche proposto ricorso incidentale condizionato affidato ad un solo motivo.
Con ordinanza interlocutoria n. 12930/2020, adesiva alle conclusioni rassegnate dal P.G., il ricorso è stato rimesso alla pubblica udienza.
Hanno depositato memorie i ricorrenti, il N. e la Generali Italia.
Motivi della decisione
IL RICORSO PRINCIPALE. 1. Il primo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1176, 1218 e 2043 c.c., in relazione alla L. n. 184 del 1978, (rectius, 194), art. 6, lett. b) e art. 7: premesso che “l’informazione dovuta deve essere (…) comprensiva di tutti gli elementi per consentire alla paziente una scelta informata e consapevole, sia che essa sia volta alla interruzione che se sia volta alla prosecuzione di una gravidanza il cui esito potrà comportare delle problematiche da affrontare”, i ricorrenti assumono che, “in presenza di un accertato processo patologico in atto, quale era l’infezione materna da CMV, il medico avrebbe dovuto rappresentare ai genitori, sin da subito, seppure in astratto e senza alcun riferimento al caso concreto, tutti i rischi teoricamente probabili (assai probabili) che l’infezione trasmettendosi al feto avrebbe determinato. Ciò senza necessità di attendere il momento in cui, in concreto, si sarebbero manifestate le prime lesioni fetali”; aggiungono che “ha erroneamente ritenuto la Corte di Appello che, accertate le malformazioni del feto derivanti da infezione da citomegalovirus in data successiva al 90 giorno di gestazione, la sig.ra S. non avrebbe più potuto sottoporsi a interruzione della gravidanza (…) perchè il feto aveva già possibilità di vita autonoma”; sostengono che i giudici di merito avrebbero dovuto “ritenere il processo patologico di cui alla L. n. 194 del 1978, già in essere a seguito della insorta infezione da CMV e già accertato dal momento in cui era stata diagnosticata la malattia prescindendo, quindi, dal momento in cui questa aveva manifestato le prime anomalie fetali” e “ritenere quindi che, già al momento della prima visita eseguita sulla S. nel (OMISSIS) questa, se correttamente informata, avrebbe potuto legittimamente interrompere la gravidanza in quanto in presenza di un grave pericolo per la sua salute psichica”.
2. Il secondo motivo (“violazione e/o falsa applicazione della L. n. 184 del 1978, art. 6, lett. b) e art. 7, in relazione agli artt. 1218 e 2967 c.c., agli artt. 115 e 116 c.p.c.”) censura la sentenza “laddove ha ritenuto, del tutto a priori e persino in contrasto con le risultanze istruttorie, che alla data del 9/9/1998 – momento dell’accertamento della sussistenza delle malformazioni – il feto potesse avere vita autonoma e, pertanto, che fosse esclusa per la gestante la facoltà di interrompere la gravidanza”.
3. Col terzo motivo (che denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218 e 1228 c.c.), i ricorrenti lamentano che la Corte di Appello “non ha esaminato nè ha deciso della ravvisata diretta responsabilità dell’Università La Sapienza, in via solidale e concorrente con quella del Dott. N., per i comportamenti a questo riferibili in virtù della responsabilità oggettiva derivante dall’avere il medico all’epoca dei fatti di causa prestato presso la struttura la propria opera professionale”.
IL RICORSO INCIDENTALE CONDIZIONATO. 4. Con l’unico motivo – che deduce “errore in procedendo (art. 360 c.p.c., n. 4) in relazione agli artt. 112 e 345 c.p.c.” – la Generali Italia s.p.a. censura la sentenza, condizionatamente all’accoglimento del ricorso principale, “per non essersi pronunciata sull’eccezione dell’esponente Compagnia di inammissibilità dell’appello ex art. 345 c.p.c. comma 1, nella parte in cui, in relazione alla richiesta di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo informativo indipendentemente dall’esistenza dei requisiti legali per l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, ha introdotto in sede di gravame una domanda nuova”; espone che, nell’atto di citazione introduttivo del giudizio, gli attori avevano dedotto la responsabilità dei convenuti per aver impedito alla S. di esercitare consapevolmente il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, mentre, con l’atto di appello, era stato richiesto l’accertamento della responsabilità per il solo fatto della mancata informazione “a prescindere se “questa potesse essere posta a fondamento della decisione di abortire””; tanto premesso, lamenta che la Corte di Appello aveva disatteso l’eccezione, ritenendola assorbita dalla decisione di merito che aveva dichiarato l’infondatezza della domanda attorea e conclude che, in caso di accoglimento del primo motivo del ricorso principale, “andrà (preliminarmente) valutato che la Corte territoriale ha tralasciato di rilevare la novità della domanda, e comunque di pronunciarsi sull’eccezione di inammissibilità ex art. 345 c.p.c. sollevata dalla parte appellata, così incorrendo nella violazione dell’art. 112 c.p.c.”. CONSIDERAZIONI. 5. La pretesa risarcitoria avanzata dai ricorrenti presuppone l’affermazione della possibilità legale della S. di interrompere la gravidanza oltre il novantesimo giorno di gestazione; possibilità che è riconosciuta dalla L. n. 194 del 1978, art. 6 – alla lett. a) – “quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna” e – alla lett. b) – “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Premesso che, tra i “processi patologici” che possono determinare il grave pericolo per la salute della donna, la norma considera anche “quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”, il ricorso principale interroga sulla portata della previsione dell’art. 6, lett. b), dovendosi stabilire se, al fine di ritenere consentita l’interruzione della gravidanza, rilevino solo i processi patologici che risultino già esitati in accertate anomalie o malformazioni del feto oppure anche i processi patologici che possano determinare (con alta probabilità) tali anomalie o malformazioni, a prescindere dal fatto che le medesime siano state accertate, ove comunque emerga l’idoneità della stessa esistenza di un processo patologico potenzialmente nocivo per il nascituro a provocare un grave pregiudizio per la salute della donna (tale da legittimarne il ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno e fino a quando non sussista possibilità di vita autonoma del feto).
L’adesione all’una o all’altra delle due opzioni è tale da comportare esiti opposti; è evidente – infatti – che la prima conduce a ritenere (così come ha fatto la Corte di Appello) che, pur in presenza di una patologia materna idonea a determinare, con rilevante grado di probabilità, gravi malformazioni del feto, la donna che abbia superato i novanta giorni di gestazione non possa effettuare la scelta abortiva anche a fronte di un grave pericolo per la sua salute psichica (quale potrebbe conseguire alla consapevolezza di portare in grembo un feto molto probabilmente menomato); l’adesione alla seconda consente viceversa – di accertare, caso per caso, se la stessa esistenza di una patologia potenzialmente produttiva di malformazioni fetali sia tale da determinare il grave pericolo per la salute della donna che giustifica il ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno (e fino al momento in cui il feto non abbia acquistato possibilità di vita autonoma).
6. A questa seconda opzione interpretativa ritiene il Collegio di dover aderire.
E ciò sia in base alla lettera della norma che alla luce della ratio ad essa sottesa.
Va considerato, infatti, che:
letta a prescindere dall’inciso concernente le anomalie o malformazioni del nascituro, la norma della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b) prevede che l’interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata “quando siano accertati processi patologici (…) che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”; l’inciso compreso tra le due virgole (“tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto”) vale a specificare che tra i processi patologici da considerare sono compresi anche quelli attinenti a rilevanti anomalie o malformazioni del feto;
il legislatore ha dunque posto l’accento sull’esistenza di un “processo patologico” (che può anche non essere attinente ad anomalie o malformazioni fetali) e sul fatto che lo stesso possa cagionare un grave pericolo per la salute della donna;
a ciò deve aggiungersi la considerazione che l’aggettivo “relativi” (riferito a processi patologici e collegato a “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”) esprime, di per sè, un generico rapporto di inerenza fra la patologia e la malformazione che non postula necessariamente l’attualità della seconda e che consente di riconoscere rilevanza anche alla sola probabilità che il processo patologico determini il danno fetale;
deve pertanto ritenersi che, laddove si riferisce a processi patologici “relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto”, la L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b) non richieda che la anomalia o la menomazione si sia già concretizzata in modo da essere strumentalmente o clinicamente accertabile, ma dia rilievo alla circostanza che il processo patologico possa sviluppare una relazione causale con una menomazione fetale;
deve sottolinearsi come lo stesso sintagma “processo patologico” individui una situazione biologica in divenire, che può assumere rilevanza per il solo fatto della sua esistenza e della sua attitudine a determinare ulteriori esiti patologici, a prescindere dal fatto che tale potenzialità si sia già concretamente tradotta in atto; cosicchè deve ritenersi, in relazione al caso in esame, che anche la sola circostanza dell’esistenza di un’infezione materna da citomegalovirus possa rilevare al fine di apprezzare l’idoneità di tale processo patologico a determinare nella S. -compiutamente edotta dei possibili sviluppi – il pericolo di un grave pregiudizio psichico in considerazione dei potenziali esiti menomanti;
nello stesso senso orienta la ratio della norma che, ponendo l’accento (come detto) sul processo patologico e sul grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, impone di riconoscere rilevanza alle situazioni in cui la patologia, ancorchè non ancora esitata in menomazione fetale accertata, risulti comunque tale da poter determinare nella donna – che sia stata informata dei rischi per il feto – un grave pericolo per la sua salute psichica;
deve pertanto ritenersi che un tale pericolo – da accertarsi, in ogni caso, in concreto – possa determinarsi non solo nella gestante che abbia contezza dell’esistenza di gravi malformazioni fetali, ma anche in quella che sappia di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie o malformazioni del feto;
ciò comporta, sotto il profilo dell’obbligo informativo, che il medico al quale la gestante si sia rivolta per conoscere i rischi correlati ad un processo patologico deve informarla compiutamente della natura della malattia e della sue eventuali potenzialità lesive del feto, onde prospettare alla stessa un quadro completo della situazione attuale e dei suoi possibili sviluppi; dal che consegue che l’omissione di un’informazione corretta e completa sulla pericolosità del processo patologico non consente alla gestante di acquisire elementi che – se conosciuti – potrebbero determinare nella stessa la situazione di pericolo per la salute psichica che potrebbe giustificarne la scelta abortiva;
in conclusione, va disattesa, in quanto non conforme alla lettera e alla ratio della norma, una lettura della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b) che, inibendo l’interruzione della gravidanza fino al momento in cui non si manifesti la malformazione fetale, finisce per porre in non cale il pericolo di grave pregiudizio psichico che potrebbe determinarsi nella donna a fronte della conoscenza di processi patologici suscettibili di porsi in relazione causale (“relativi”) con rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro; per tale via, pervenendo a privare la donna, che versi in concreto in grave pericolo di pregiudizio alla salute psichica, della possibilità di determinarsi all’interruzione della gravidanza (privazione che può risultare definitiva laddove, come nel caso in esame, la menomazione si manifesti o venga accertata quando il feto abbia ormai acquisito possibilità di vita autonoma, giacchè, in tale ipotesi, l’art. 7, comma 3 della legge consente l’interruzione della gravidanza solo in caso di pericolo per la vita della donna).
Il motivo dev’essere pertanto accolto e la sentenza va cassata con rinvio alla Corte territoriale, che si uniformerà ai seguenti principi di diritto:
“l’accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro consente il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b) laddove determini nella gestante – che sia stata compiutamente informata dei rischi – un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in concreto e caso per caso, e ciò a prescindere dalla circostanza che l’anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata”;
“il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave pregiudizio per la sua salute fisica o psichica”.
7. Va peraltro precisato che la Corte di rinvio dovrà, nell’ordine:
verificare se sia effettivamente mancata, da parte del N., una corretta e completa informazione sui rischi correlati all’infezione da citomegalovirus contratta dalla gestante (accertamento che non è stato compiuto perchè la Corte territoriale ha ritenuto che l’aborto non sarebbe stato comunque praticabile);
nel caso in cui detta informazione risulti mancata o carente, accertare in concreto, con giudizio controfattuale e anche mediante ricorso a presunzioni, se la conoscenza della probabilità che l’infezione da citomegalovirus provocasse danni fetali avrebbe determinato nella S. un grave pericolo per la salute fisica o psichica (costituente, come detto, un necessario presupposto legittimante il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza);
nel caso in cui risultino integrate tutte le condizioni per praticare l’interruzione della gravidanza, accertare, alla stregua dei noti criteri individuati da questa Corte (cfr., per tutte, Cass., S.U. n. 25767/2015), se la S. vi avrebbe fatto ricorso.
8. Il secondo e il terzo motivo restano assorbiti.
9. L’unico motivo del ricorso incidentale condizionato (di cui si impone l’esame a seguito dell’accoglimento del primo motivo del ricorso principale) è inammissibile.
La ricorrente, pur ritenendo (correttamente) che l’eccezione di novità della domanda proposta in appello dalla S. e dal M. sia stata considerata assorbita dal giudice di secondo grado, prospetta un vizio di omissione di pronuncia che, tuttavia, è escluso in radice dal fatto stesso che la pronuncia sia mancata proprio in conseguenza del ritenuto assorbimento della questione, il quale comporta, per sua natura e secondo un principio di economia processuale, che non si debba pronunciare su questioni comunque “superate” (cfr. Cass. n. 4498/1996: “il vizio di omessa pronuncia correlato alla violazione dell’art. 112 c.p.c., è configurabile soltanto in ipotesi di mancanza di una decisione in ordine ad una domanda o ad un assunto che richieda una statuizione di accoglimento o di rigetto ed è pertanto da escludere quando ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie”; conforme Cass., n. 10001/2003).
Invero, una censura ai sensi dell’art. 112 c.p.c., avrebbe potuto essere prospettata solo nel caso in cui la Corte di appello avesse erroneamente ritenuto assorbita la questione della novità della domanda (cfr. Cass. n. 11459/2019, a mente della quale, solo l’illogica dichiarazione di assorbimento di un motivo di appello si risolve in una omessa pronuncia e, come tale, può essere censurata in sede di legittimità ai sensi dell’art. 112 c.p.c.
10. La Corte di rinvio provvederà anche sulle spese di lite.
11. Sussistono, in relazione al ricorso incidentale condizionato, le condizioni per applicare il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, quater.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri due motivi, e dichiara inammissibile il ricorso incidentale condizionato; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese di lite, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.
Ai sensi del il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2021.

La produzione del certificato dello stato di famiglia è idonea a dimostrare la qualità di chiamato all’eredità

Cass. Civ., Sez. III, ord. 11 gennaio 2021 n. 210 – Pres. Vivaldi, Cons. Rel. Gorgoni

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 36285/2018 R.G. proposto da:
S.P.R., L.G., M.A., C.E., in qualità di erede di C.N., MO.RO., A.L., in qualità di erede di MA.FR., P.A.M., rappresentati e difesi dall’Avv. MATTIA CRUCIOLI, e dall’Avv. ARNALDO LOMUTI, con domicilio eletto in Roma presso lo Studio di quest’ultimo, Piazzale Flaminio n. 9;
– ricorrenti –
contro
COMUNE DI POTENZA, in persona del Sindaco p.t., D.L.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Maria Rosa Zaccardo, con domicilio in Roma presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;
– controricorrente –
e nei confronti di:
AGENZIA DEL TERRITORIO DI POTENZA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 341/2018 della Corte d’Appello di Potenza del 18 maggio 2018, depositata il 29 maggio 2018.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 9 novembre 2020 dal Consigliere Dott. Marilena Gorgoni.
Svolgimento del processo
che:
S.P.R., L.G., M.A., C.E., in qualità di erede di C.N., Mo.Ro., A.L., in qualità di erede di Ma.Fr., e P.A.M. ricorrono per la cassazione della sentenza n. 341/2018 della Corte d’Appello di Potenza del 18 maggio 2018, depositata il 29 maggio 2018, non notificata, deducendo tre vizi di legittimità, illustrati con memoria.
Resiste con controricorso il Comune di Potenza.
Con atto di citazione del 24 maggio 2004 gli odierni ricorrenti, insieme con La.Gi., T.A. e Pa.Ca., nella veste di assegnatari di alloggi siti in (OMISSIS), realizzati con fondi della L. n. 219 del 1981, convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Potenza, il Comune di Potenza e l’Agenzia del Territorio di Potenza, perchè: a) fosse accertato e dichiarato il loro diritto all’assegnazione in proprietà a titolo gratuito degli alloggi loro assegnati e delle parti comuni, ai sensi del D.L. n. 244 del 1995, art. 21 bis, convertito in L. n. 341 del 1995; b) fosse ordinato al Comune di astenersi da qualsiasi atto e/o procedimento lesivo di tale loro diritto; c) l’Agenzia del Territorio di Potenza provvedesse alla stipula in loro favore degli atti di cessione in proprietà gratuita degli alloggi loro assegnati.
Il Comune di Potenza riconosceva che gli attori erano assegnatari degli alloggi realizzati con i fondi di cui alla L. n. 219 del 1981, ma escludeva il loro diritto di vedersene attribuita a titolo gratuito la proprietà, perchè, ai sensi della L. n. 341 del 1995, art. 21 bis, tale diritto presupponeva che gli alloggi fossero costruiti dallo Stato, che fossero prefabbricati, che fossero formalmente assegnati; mancando dette condizioni riteneva che gli assegnatari/attori vantassero solo il diritto all’esercizio del riscatto previsto dal Regolamento della Commissione di Liquidazione del Comune di Potenza del 3 dicembre 2001.
L’Agenzia del Territorio di Potenza restava contumace.
Il Tribunale di Potenza, con la decisione n. 658/2008, rigettava la domanda attorea, perchè riteneva che gli alloggi occupati non potessero essere oggetto di cessione a titolo gratuito, non essendo stati realizzati con i fondi di cui alla L. n. 291 del 1981, bensì dal Comune per il tramite dei fondi erogati dalla Cassa Depositi e prestiti, e che non avessero le caratteristiche dei prefabbricati.
Censurando la statuizione con cui il giudice di prime cure aveva ritenuto che gli alloggi di cui erano assegnatari non rientrassero tra quelli costruiti dallo Stato, ai sensi della L. n. 219 del 1981, e che non avessero i caratteri dei prefabbricati, gli attori già soccombenti in primo grado, investivano la Corte d’Appello di Potenza del gravame avverso decisione del Tribunale.
La Corte territoriale, con la decisione oggetto dell’odierno ricorso, rigettava l’appello e regolava le spese di lite, ritenendo che, pur rientrando gli alloggi per cui è causa tra quelli realizzati dallo Stato, posto che il Comune di Potenza aveva agito su autorizzazione del Commissario straordinario per le zone terremotate e con finanziamenti erogati a tale specifico scopo, essi non avessero i caratteri di cui al D.L. n. 75 del 1991, art. 2, lett. b.
Motivi della decisione
che:
1. Con il primo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i ricorrenti rimproverano alla Corte territoriale di aver violato e/o falsamente applicato gli artt. 110, 167, 171, 476 c.c., art. 346 c.p.c. e art. 111 Cost..
La sentenza d’appello aveva ritenuto passata in giudicato la decisione di prime cure nei confronti di Pe.Gi. e Ma.Fr., perchè non avevano proposto appello, senza considerare che per parte di Ma.Fr. l’atto di appello era stato introdotto da A.L., nella qualità di erede di Ma.Fr., come risultante dal certificato di morte e dallo stato di famiglia, che la sua qualità di erede non era stata contestata, che la esplicazione da parte del chiamato di un’attività incompatibile con la volontà di rinunciare e non rientrante in quella conservativa del patrimonio del de cuius integra gli estremi dell’accettazione tacita.
Il motivo è fondato.
Nel caso di azione proposta da un soggetto che si qualifichi erede in virtù di un determinato rapporto parentale o di coniugio, la produzione del certificato dello stato di famiglia è idonea a dimostrare l’allegata relazione familiare e, dunque, la qualità di soggetto che deve ritenersi chiamato all’eredità, ma non anche la qualità di erede, posto che essa deriva dall’accettazione espressa o tacita, non evincibile dal certificato; tuttavia, tale produzione, unitamente alla allegazione della qualità di erede, costituisce una presunzione iuris tantum dell’intervenuta accettazione tacita dell’eredità, atteso che l’esercizio dell’azione giudiziale da parte di un soggetto che si deve considerare chiamato all’eredità, e che si proclami erede, va considerato come atto espressivo di siffatta accettazione e, quindi, idoneo a considerare dimostrata la qualità di erede (Cass. 26/06/2018, n. 16814).
La statuizione errata relativa al passaggio in giudicato della sentenza di prime cure relativamente a Ma.Fr. va pertanto cassata. La fondatezza della censura esclude il passaggio in giudicato della sentenza di prime cure nei confronti di Ma.Fr..
Peraltro, per le ragioni che si vanno ad esporre con l’esame degli ulteriori motivi, tale conclusione non incide sull’esito complessivo del ricorso per cassazione. A.L. quale erede di Ma.Fr., infatti, propose insieme con gli odierni ricorrenti l’appello che fu rigettato.
La stessa ha proposto ricorso per cassazione – sempre unitamente agli altri odierni ricorrenti – contestando con le censure che si vanno ad esaminare con i motivi secondo e terzo le conclusioni della Corte d’Appello. Tali conclusioni però non sono condivisibili.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 224 del 1995, art. 21 bis, convertito in L. n. 341 del 1995, come successivamente modificata dalla L. n. 148 del 2005, del D.L. n. 75 del 1981, convertito in L. n. 219 del 1981, artt. 112, 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto che gli alloggi loro assegnati non fossero quelli previsti dalla L. n. 341 del 1995, art. 21 bis, cioè abitazioni mobili e ad elementi componibili da riservare alle famiglie colpite dal sisma, atteso che per detti immobili era prevista l’assegnazione formale e non la locazione ai sensi della L. n. 392 del 1978.
Il motivo è inammissibile.
La censura, benchè introdotta attraverso la deduzione di un error in iudicando, sollecita un diverso accertamento dei fatti che è incompatibile con i caratteri e con i limiti del giudizio di legittimità, perchè la Corte di Cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale, ma esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa.
Va altresì osservato che il vizio di violazione di legge, consistendo in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa, avrebbe richiesto non solo la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche la deduzione di specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina.
3. Con il terzo ed ultimo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e/o falsa applicazione del D.L. n. 341 del 1995, art. 21 bis, convertito in L. n. 341 del 1995, del D.L. n. 75 del 1981, convertito in L. n. 219 del 1981, artt. 112, 115 e 116 c.p.c., per avere la sentenza impugnata disatteso, perchè generico, il motivo di appello con cui, a confutazione di quanto ritenuto dal giudice di prime cure, avevano dedotto la natura prevalentemente provvisoria ed amovibile degli alloggi di cui erano assegnatari.
Tale motivo presenta caratteristiche analoghe a quelle del motivo precedente, sicchè ad esso si confanno le stesse conclusioni.
Ancor più evidente è, infatti, il tentativo dei ricorrenti di ottenere una rivalutazione di quanto, già oggetto di accertamento del giudice a quo, aveva indotto quest’ultimo a ritenere generiche le censure mosse alla sentenza del Tribunale: genericità che aveva portato all’inammissibilità del motivo di appello in maniera, peraltro, non assertiva, bensì supportata da specifici rilievi mossi agli argomenti confutativi degli appellanti, odierni ricorrenti.
4. In definitiva, il ricorso è rigettato.
5. Non deve provvedersi alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, attesa la tardività del controricorso.
La sentenza è stata, infatti, depositata il 29 maggio 2018; il ricorso risulta notificato il 7 dicembre 2018; il controricorso del Comune di Potenza è stato consegnato all’Ufficiale giudiziario il 26 febbraio 2019, quindi ben oltre il termine di cui all’art. 370 c.p.c..
6. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello corrisposto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2021

L’obbligo di mantenimento emerge anche da indici diversi dalle certificazioni dei redditi.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 20 gennaio 2021, n. 975
Presidente De Chiara – Relatore Caradonna
Rilevato che
1. Con sentenza n. 23900 depositata il 6 dicembre 2002, il Tribunale di Roma ha respinto la domanda di
addebito reciprocamente proposta dalle parti nel giudizio di separazione giudiziale e ha determinato, con
decorrenza dalla pronuncia, in Euro 500,00 mensili, oltre rivalutazione annuale secondo gli indici ISTAT, il
contributo a carico del marito per il mantenimento della moglie, riconosciuta priva di mezzi sufficienti e
tenuto conto della situazione economica del marito che aveva assunto che fin dal 1997 non aveva più
svolto la professione di avvocato per doversi dedicare ai propri genitori.
2. Ca. Re. ha proposto appello avverso la detta sentenza, insistendo per la pronuncia di addebito della
separazione alla moglie e chiedendo la revoca dell’assegno di mantenimento o, in via subordinata, la
riduzione ad Euro 200,00, mentre Na. Pi. ha contestato le difese avversarie chiedendo il rigetto
dell’appello.
3. La Corte di appello di Roma ha rigettato l’appello avanzato da Ca. Re., ritenendo non assolto l’onere
della prova sul nesso di causalità tra i comportamenti addebitati e l’intollerabilità della convivenza e
affermando che le indagini di polizia tributaria, seppure incomplete e non esaustive, avevano
sostanzialmente confermato la mancanza di redditi in capo alla Pi. e la sua ridotta capacità lavorativa per
le sue condizioni psichiche e l’inattendibilità delle dichiarazioni fiscali del Re., avvocato abilitato al
patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori (con almeno quindi dodici anni di professione), con papà
magistrato titolare di pensione adeguata a consentirgli di assumere una badante; titolare di curatele
fallimentari e con la disponibilità dell’appartamento di proprietà del padre dove esercitava la professione.
4. Avverso detta sentenza Ca. Re. ha proposto ricorso per cassazione svolgendo quattro motivi.
5. Na. Pi. ha depositato controricorso.
5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo Ca. Re. lamenta la violazione dell’art. 151 cod. civ. in relazione all’art. 183, commi
6 e 7, cod. proc. civ. perché la Corte territoriale aveva ritenuto la domanda di addebito sfornita di prova,
ma non aveva ammesso i mezzi istruttori che lo stesso aveva articolato sulla sintomatologia ansiosa e
depressiva della Pi. e sulle circostanze che la stessa non si occupava della spesa, era gelosa e aveva
colpito il marito, il 27 dicembre 2004, con uno schiaffo, graffiandolo anche sul viso.
2. Con il secondo motivo Ca. Re. lamenta la violazione dell’art. 156, comma 2, cod. civ., in relazione
anche all’art. 183, commi 6 e 7, cod. proc. civ., sulla misura dell’assegno di mantenimento stabilita dalla
Corte territoriale determinata sulla base di presunzioni e ritenuta eccessiva, avuto riguardo alle risultanze
delle indagini di polizia tributaria che avevano accertato che lui non possedeva beni immobili o mobili e
che la Corte non aveva disposto nuove indagini che avrebbero accertato che l’assicurazione sulla vita era
in realtà un’assicurazione sugli infortuni nello studio non più operativa e che i fallimenti di cui era stato
curatore erano incapienti e comunque erano stati chiusi prima del 2010.
Il ricorrente si duole, inoltre, della mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti anche al Tribunale
che avrebbero dimostrato che il reddito ricavato dalla professione di avvocato era saltuario, precario e
modesto e che aveva pochissimi clienti e che egli aveva anche dimostrato la correttezza delle denunce dei
redditi depositate.
3. Con il terzo motivo Ca. Re. lamenta la violazione dell’art. 156, comma 2, cod. civ., in relazione all’art.
360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., deducendo l’omesso esame dal fatto che il Re. aveva a
disposizione solo una stanza dell’appartamento di proprietà del padre e che viveva insieme al padre
nell’appartamento dal genitore messogli a disposizione.
4. Con il quarto motivo Ca. Re. lamenta la violazione dell’art. 156, comma 2, cod. civ., perché la Corte
territoriale non aveva valutato la disparità delle posizioni economiche tra i coniugi, non avendo
determinato, neanche in maniera presuntiva, l’ammontare del reddito annuo del Re..
4.1 II primo e il secondo motivo vanno trattati unitariamente perché inammissibili per la medesima
ragione.
Si osserva, infatti, che il ricorrente non indica quale delle ipotesi, tra quelle tassativamente indicate
dall’art. 360, comma 1, cod. proc. civ., viene dedotta, pur denunciando la violazione di plurime
disposizioni normative (artt. 151 e 156 cod. civ. e 183 cod. proc. civ.).
Il ricorrente, infatti, richiama nell’illustrazione dei motivi, parti della motivazione della sentenza
impugnata e svolge contestazioni riguardo ad essa, ma non evidenzia in relazione a quale specifico vizio
ed a quale specifica norma, che si assume violata o erroneamente applicata, omettendo di precisare le
affermazioni in diritto della sentenza che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della
fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, genericamente
richiamate nella intestazione del motivo, e senza ricondurre una specifica statuizione della sentenza alla
violazione di una determinata norma, impedendo così a questa Corte di adempiere al suo compito di
verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass., 9 marzo 2012, n. 3721).
Né è possibile, in ossequio al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, in assenza di ogni
specificazione al riguardo da parte del ricorrente, ricostruire la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità
sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360
cod. proc. civ..
4.2 Ed invero, come affermato da questa Corte, nel giudizio per cassazione, che ha ad oggetto censure
espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma primo, cod. proc. civ., il ricorso deve
essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle
cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di
formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass., sez. U., 24 luglio
n.17931; Cass., 7 maggio 2018, n. 10862).
Le modalità di deduzione del vizio, nel caso di specie, non sono state rispettate poiché il ricorrente si è
limitato a ribadire le medesime censure sollevate dinanzi alla Corte territoriale e a sovrapporre alle
argomentazioni della Corte le proprie senza prospettare differenti profili argomentativi e non ha svolto,
nella illustrazione dei motivi, con riferimento alle parti richiamate della motivazione della sentenza
impugnata oggetto di censura contestazioni con la specificazione dei vizi e delle norme che ha assunto
essere state violate o erroneamente applicate.
Per tale ragione i motivi sono inammissibili, in quanto risultano enunciati dal ricorrente senza la
completezza necessaria a renderli idonei ad assolvere allo scopo di configurarsi come valide critiche alla
sentenza impugnata.
5. Anche il terzo motivo è inammissibile.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte di appello ha omesso l’esame del fatto che aveva a
disposizione solo una stanza dell’appartamento di proprietà del padre e del fatto che viveva insieme al
padre nell’appartamento messogli a disposizione.
5.1 Con riguardo al vizio di omesso esame di un fatto decisivo, l’art. 360, comma primo, cod. proc. civ.,
come riformulato dall’art. 54 del decreto – legge n. 83/2012, convertito dalla legge n. 13/2012, ha
introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, ovvero
che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., 27 dicembre 2019, n.
34476; Cass., 29 ottobre 2018, n. 27415).
5.2 II fatto il cui esame sia stato omesso deve, come già detto, avere carattere decisivo, vale a dire che
se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia, e deve, altresì, essere stato
oggetto di discussione tra le parti, ovvero deve trattarsi necessariamente di un fatto controverso,
contestato e non dato per pacifico tra le parti.
5.3 Ne consegue che il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il dato
testuale o extratestuale da cui esso risulti esistente, il «come» e «quando» tale fatto sia stato oggetto di
discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi
istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico sia
stato comunque preso in esame, anche se la sentenza non abbia dato atto di tutte le risultanze
probatorie (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
5.4 Alla stregua dei principi tutti fin qui esposti il motivo in esame è inammissibile perché il ricorrente non
argomenta in ordine alla sua necessaria decisività, ciò che era necessario tenuto conto che la Corte di
appello, oltre a rilevare che il Re. aveva la piena disponibilità dell’appartamento ove esercitava la
professione di proprietà del padre e messo a sua disposizione, ha anche specificato che il Re. aveva svolto la professione di avvocato fin dal 1991; che la chiusura della partita IVA nel luglio 2007 era stata
temporanea (peraltro in pendenza delle trattative per la separazione ed era stata riaperta dopo l’udienza
presidenziale); che nel 2003 aveva acquisito la qualifica di avvocato abilitato al patrocinio innanzi alle
magistrature superiori che richiedeva come requisito l’esercizio della professione di avvocato per dodici
anni; che il padre era un magistrato a riposo che percepiva una pensione del tutto adeguata a
consentirgli di assumere una badante e che la titolarità di curatele fallimentari, incarichi di norma ben
retribuiti, richiedeva un’organizzazione adeguata.
Così addivenendo alla conclusione che erano emersi più elementi idonei a rendere non attendibili le
dichiarazioni fiscali del Re. e a far ritenere che il reddito conseguito fosse comunque superiore.
5.5 A ciò va aggiunto che la Corte ha anche esaminato la posizione della Pi. rilevando che la stessa era
priva di redditi ed aveva una limitata capacità lavorativa anche in ragione delle sue condizioni psichiche e
che, quindi, il divario economico esistente tra i coniugi giustificava il diritto al mantenimento disposto in
suo favore in ragione del dovere di solidarietà fra i coniugi che perdura anche in costanza di separazione.
In proposito, questa Corte ha affermato che la separazione personale, a differenza dello scioglimento o
cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i
«redditi adeguati» cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 cod. civ., l’assegno di mantenimento a favore
del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore
di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che
non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la
sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (Cass., 24
giugno 2019, n. 16809).
6. Il quarto motivo è infondato.
E’ orientamento di questa Corte, in tema di determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento,
che la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede necessariamente l’accertamento
dei redditi nel loro esatto ammontare, né la determinazione dell’esatto importo dei redditi posseduti
attraverso l’acquisizione di dati numerici o rigorose analisi contabili e finanziarie, essendo sufficiente una
attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi (Cass., 7
dicembre 2007, n. 25618; Cass., 5 novembre 2007, n. 23051; Cass., 12 giugno 2006, n. 13592).
I giudici della Corte di appello territoriale hanno correttamente applicato i superiori principi e hanno
svolto una valutazione comparativa dei mezzi economici a disposizione di ciascun coniuge al momento
della separazione, operando, alla luce delle acquisite risultanze processuali, una ricostruzione attendibile
delle situazioni patrimoniali e reddituali di entrambi i coniugi.
7. Il ricorso va, conclusivamente, rigettato.
Segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di Cassazione,
nella misura liquidata in dispositivo.
8. Va disposta, in ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle
generalità e degli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n.
196.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna Re. Ca. al pagamento, in favore di Piccirrili Na., delle spese del
giudizio di legittimità, che liquida, per ciascuna parte, in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della
legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso
principale, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri
dati identificativi ai sensi dell’art. 52 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196

Impone alla moglie un rapporto carnale: marito condannato per violenza sessuale

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 18 gennaio 2021, n. 1764

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 24/04/2019 della Corte d’appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Gianni Filippo Reynaud;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SECCIA Domenico, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente l’avv. Felice Cardillo, in sostituzione dell’avv. Mauro Barraco, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 24 aprile 2019, la Corte d’appello di Palermo, giudicando sul gravame proposto dall’odierno ricorrente, ha confermato la condanna del medesimo alle pene di legge per i reati, riuniti nel vincolo della continuazione, di maltrattamenti in famiglia in danno della figlia e della moglie e di un episodio di violenza sessuale nei confronti di quest’ultima.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, con il primo motivo, la violazione della legge penale ed il vizio di motivazione per essere stato ritenuto il reato di cui all’art. 572 c.p., sulla scorta delle inattendibili dichiarazioni rese dalle due persone offese. In ricorso si evidenziano le dichiarazioni menzognere rese dalla moglie dell’imputato (che nella deposizione testimoniale aveva inizialmente negato di avere a suo carico un procedimento penale per grave reato e che era stata smentita dal responsabile dei servizi sociali sulla frequenza dei rapporti con quell’ufficio, non avendo peraltro il teste confermato che ella avesse avuto un lavoro), censurando l’illogica spiegazione data in sentenza circa tali profili di inattendibilità e circa le ragioni che indussero la donna ad abbandonare l’abitazione coniugale. Si censura, inoltre, la ritenuta attendibilità della figlia dell’imputato, benchè la stessa avesse più volte negato di essere sottoposta a procedimento penale per falsa testimonianza, così mostrando, come la madre, una certa proclività al mendacio.
3. Con il secondo motivo di ricorso si lamentano violazione della legge penale e vizio di motivazione per essere stato ritenuto il reato di violenza sessuale, senza valutare le genuine spiegazioni date dall’imputato circa il consenso della donna all’atto sessuale – o la non percezione del dissenso da parte sua – e senza adeguatamente valutare l’alternativa ricostruzione del fatto, del tutto plausibile, sulla saltuaria consumazione di rapporti sessuali tra i due coniugi, pur in assenza di sentimenti amorosi.
4. Con il terzo motivo di ricorso si lamentano violazione della legge penale e vizio di motivazione per non essere stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., u.c., non effettuando la valutazione globale del fatto, caratterizzato da poca chiarezza circa l’effettiva coartazione della persona offesa e l’assenza di consenso da parte sua nel particolare quadro dei rapporti tra i coniugi.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per genericità, manifesta infondatezza e perchè propone doglianze non consentite in quanto attinenti alla valutazione del merito.
Ed invero, in ricorso ci si limita a riproporre sub specie di vizio motivazionale – questioni di accertamento di merito e valutazione delle prove che non possono formare oggetto di diversa considerazione in sede di legittimità e che sono state risolte con motivazione non illogica dalla sentenza impugnata, peraltro conforme a quella resa in primo grado.
1.1. La Corte territoriale ha dato – punto per punto – ampia, accurata, logica e convincente motivazione nel disattendere i motivi di doglianza contenuti nell’atto di appello e qui nuovamente (in parte) riproposti, senza che il ricorrente si confronti in modo critico con quelle argomentazioni, sì che sul punto l’impugnazione è innanzitutto generica, dovendosi ribadire il consolidato orientamento secondo cui non soddisfa il requisito di specificità un ricorso in cui siano riproposti gli stessi motivi sollevati nell’atto d’appello, senza che il ricorrente si confronti criticamente con le argomentazioni al proposito fornite dal giudice di secondo grado in sentenza (v. Sez. 4, n. 38202 del 07/07/2016, Ruci, Rv. 267611; Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo e a., Rv. 254584). In particolare, la genericità è causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). I motivi del ricorso per cassazione – che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito – si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicchè è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
1.2. Nel respingere le doglianze afferenti alla dedotta inattendibilità delle persone offese, neppure costituitesi parti civili, la sentenza impugnata (pagg. 5 ss.): attesta l’intrinseca credibilità delle dichiarazioni, reiterate senza significative contraddizioni, precise e circostanziate nello, ricostruzione di determinati episodi, nonostante il tempo trascorso e la frequenza delle condotte maltrattanti; esclude motivatamente qualsiasi intento calunniatorio nella loro condotta; motiva del pari logicamente circa la soggettiva attendibilità delle dichiaranti e l’irrilevanza delle menzogne – afferenti a questioni diverse, in alcun modo collegate con quelle oggetto di procedimento – riferite dalle testimoni per tentare, del tutto ingenuamente, di negare la sottoposizione a procedimenti penali; individua plurimi elementi di riscontro alle dichiarazioni rese, sui quali il ricorrente neppure si sofferma.
1.3. La sentenza, dunque, ha fatto buon governo del consolidato principio per cui le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte e aa., Rv. 253214; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajo e aa., Rv. 261730; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104). Del resto, proprio nell’ambito dell’accertamento di reati sessuali – e lo stesso vale per i crimini che si consumano tra le mura domestiche – la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l’accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi (Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F., Rv. 251661; Sez. 4, n. 30422 del 2,1/06/2005, Poggi, Rv. 232018). Qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci – ciò che, secondo la citata decisione delle Sezioni unite, può avvenire allorquando la persona offesa si sia costituita parte civile – questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, nè assistere ogni segmento della narrazione (Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312).
1.4. Del pari corretta è stata l’applicazione del principio – sovente affermato quando si tratti di valutare con maggior scrupolo deposizioni rese da soggetti non indifferenti, come i correi o le vittime del reato – secondo cui è legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni, purchè il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta per intero la stessa credibilità del dichiarante ovvero non infici la plausibilità delle altre parti del racconto (Sez. 6, n. 20037 del 19/03/2014, L., Rv. 260160) e purchè non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti, l’inattendibilità non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante, sia data una spiegazione alla parte della narrazione risultata smentita (Sez. 6, n. 25266 del 03/04/2017, Polimeni e a., Rv. 270153). Come detto, le false dichiarazioni inizialmente rese dalle testimoni, e poi ritrattate in corso di esame, avevano riguardo a fatti, infamanti per il loro coinvolgimento in vicende giudiziarie peraltro ben note alle parti processuali, che le due donne hanno inizialmente tentato di nascondere e che non hanno alcun riferimento – come la sentenza impugnata logicamente argomenta – con i fatti qui sub iudice.
Si aggiunga – quanto alle doglianze proposte in ricorso in relazione al dedotto contrasto con le dichiarazioni rese dal responsabile dei servizi sociali7 che il lamentato contrasto attiene, per un verso ad un solo profilo, all’evidenza assai marginale ed in alcun modo connesso al thema decidendum (vale a dire alla frequenza dei rapporti avuti dalla donna con i servizi sociali), per altro verso ad una circostanza (se la donna avesse avuto un lavoro, venti anni prima della fine della relazione) che, oltre ad essere del pari irrilevante rispetto alla prova dei fatti addebitati, il teste non ha sconfessato, essendosi limitato a non riferirne (si tratta, peraltro, di dichiarazioni rese a s.i.t. e acquisite sull’accordo delle parti senza che il dichiarante sia stato esaminato in dibattimento).
2. Il secondo motivo di ricorso è del pari inammissibile per analoghe ragioni. Si tratta, anche qui, di doglianza meramente reiterativa di critiche sollevate con il gravame, che sono state compiutamente ed attentamente analizzate dalla sentenza impugnata.
Al di là della genericità del motivo per le ragioni giù più sopra esposte (p.. 1.1.), nel dolersi di un inesistente vizio motivazionale, il ricorrente trascura peraltro di considerare che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali e senza che sia possibile dedurre nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217).). Ed invero, alla Corte di cassazione sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507), così come non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Anche la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, Terrusa, Rv. 257241; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342), ciò che nella specie, per quanto detto, non è.
2.1. Nell’argomentare che il rapporto sessuale fatto oggetto di contestazione fu consapevolmente imposto dall’imputato alla moglie – che manifestò il proprio dissenso, posto che da tempo i coniugi non avevano rapporti sessuali e vivevano da separati in casa – e fu da questa subito per paura di incorrere in ulteriori condotte maltrattanti, sì da costituire, peraltro, la molla che fece scattare nella donna, che da molti anni subiva le angherie e i soprusi del marito, la decisione di porre fine alla convivenza e di allontanarsi di casa con le figlie, la Corte territoriale ha reso motivazione del tutto logica, che non presta il fianco a censure in questa sede di legittimità.
2.2. Per altro verso, la sentenza ha fatto buon governo del consolidato principio interpretativo, condiviso dal Collegio e anche di recente ribadito, secondo cui, in tema di violenza sessuale, il mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza, non ha valore scriminante quando sia provato che la parte offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei suoi confronti, con conseguente compressione della sua capacità di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli, dovendo, in tal caso, essere ritenuta sussistente la piena consapevolezza dell’autore delle violenze del rifiuto, seppur implicito, ai congiungimenti carnali (Sez. 3, n. 17676 del 14/12/2018, dep. 2019, R., Rv. 275947; Sez. 3, n. 39865 del 17/02/2015, S., Rv. 264788; Sez. 3, n. 29725 del 23/05/2013, S., Rv. 256823).
3. Parimenti inammissibile per genericità e manifesta infondatezza è il terzo motivo di ricorso.
3.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità (Sez. 4, n. 16122 del 12/10/2016, L., Rv. 269600; Sez. 3, n. 6784 del 18/11/2015,, dep. 2016, D., Rv. 266272; Sez. 3, n. 21623 del 15/04/2015, K., Rv. 263821). In particolare, per il riconoscimento della circostanza attenuante deve potersi ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto (Sez. 3, n. 23913 del 14/05/2014, C., Rv. 259196; Sez. 3, n. 19336 del 27/03/2015, G., Rv. 263516), dovendosi escludere che la sola tipologia dell’atto possa essere sufficiente per ravvisare o negare tale attenuante (Sez. 3, n. 39445 del 01/07/2014, S., Rv. 260501).
3.2. La sentenza impugnata si è attenuta a tali principi, giudicando grave il fatto, sul rilievo che si trattò di un rapporto sessuale completo, realizzato anche con sodomizzazione, nei confronti della moglie da anni maltrattata. Si tratta di valutazione di merito logicamente motivata che non può essere in questa sede censurata.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, che – a tutela dei diritti o della dignità degli interessati – sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.
Così deciso in Roma, il 4 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2021.

Il palpeggiamento repentino del gluteo è violenza sessuale

Corte di Cassazione
sez. III Penale, sentenza 29 settembre – 12 novembre 2020, n. 31737
Presidente Rosi
Relatore Reynaud
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza dell’11 luglio 2019, la Corte d’appello di Trento, sez. dist. di Bolzano, accogliendo
il gravame proposto dal pubblico ministero e riformando la sentenza d’assoluzione resa all’esito del
giudizio abbreviato, ha condannato l’odierno ricorrente alla pena sospesa di dieci mesi di reclusione
in ordine al reato di cui all’art. 609 bis, ultimo comma, cod. pen., per aver in modo repentino
palpeggiato il gluteo di una minore, contro la volontà della medesima.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l’imputato ha proposto ricorso
per cassazione, deducendo, con il primo motivo, l’erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen.
per essere stata la condotta qualificata come atto sessuale nonostante la mancanza di prova circa la
parte del corpo toccata e l’assenza del fine di libidine. A differenza di quanto fatto dal giudice di
primo grado, la Corte territoriale aveva omesso di valutare il contesto in cui il contatto era avvenuto
e la dinamica intersoggettiva della vicenda quali riferite dall’imputato in una memoria difensiva.
3. Con il secondo motivo si lamenta il vizio di motivazione per errata ricostruzione dei fatti e
travisamento della prova testimoniale, non avendo la Corte territoriale correttamente interpretato e
valutato le dichiarazioni rese dall’unico testimone oculare nel corso della rinnovazione istruttoria,
dichiarazioni peraltro confuse ed incoerenti senza che il giudice abbia sul punto speso alcuna
motivazione. Non essendo stata la persona offesa mai escussa, né identificata, non v’era prova circa
la parte del corpo attinta dall’imputato, né prova che si trattasse di minore di età.
4. Proprio con riguardo all’incertezza sull’età – ed al conseguente dubbio sulla procedibilità d’ufficio
del reato – con l’ultimo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione e travisamento della prova
testimoniale, avendo il teste reso sul punto dichiarazioni contrastanti, affermando di non essere in
grado di riconoscere l’età degli adolescenti. Il totale disinteresse mostrato dalla ragazza per il
procedimento penale avrebbe inoltre dovuto indurre il giudice a interpretare in chiave di favor rei la
nozione di “volontaria sottrazione all’esame” che, per gli artt. Ili, quarto comma, Cost. e 526,
comma 1, cod. proc. pen. impedisce l’affermazione della penale responsabilità.
Considerato in diritto
1. Cominciando la disamina dal secondo motivo ricorso – pregiudiziale rispetto al primo – reputa il
Collegio che lo stesso sia manifestamente infondato e sottoponga a questa Corte una inammissibile
doglianza sulla ricostruzione del fatto.
Sulla base delle dichiarazioni rese dall’unico testimone oculare – il cui esame è stato oggetto di
rinnovazione istruttoria ex art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. – la Corte territoriale ha senza
incertezze ricostruito il fatto nel senso che l’imputato, nell’imboccare a piedi un porticato cittadino
provenendo dall’adiacente carreggiata e passando vicino ad un gruppetto di ragazzini, palpeggiò il
sedere di una di loro, che indossava pantaloncini corti, dandole una stretta al gluteo.
Contrariamente a quanto sostiene il ricorrente – che ha anche allegato al ricorso il verbale
contenente la trascrizione della deposizione testimoniale fonoregistrata – la Corte territoriale non ha
in alcun modo travisato la prova dichiarativa, né l’ha interpretata in modo illogico o ha omesso di
valutarne l’attendibilità.
Il dedotto travisamento sarebbe consistito “nella impossibilità che l’imputato si trovasse a destra del
teste”, come quest’ultimo avrebbe dichiarato, ma è evidente che se si tratta di dichiarazione del teste
non può parlarsi di travisamento probatorio, che ricorre quando nella motivazione si fa uso di
un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una
prova decisiva (Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499) ed è ravvisabile ed efficace
solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo
illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio travisato
od omesso (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e a., Rv. 258774).
Al di là di questo rilievo – che rende manifestamente infondata la doglianza -deve osservarsi come
la motivazione della sentenza impugnata ricostruisca con chiarezza il fatto nei termini sopra esposti
e attesti, senza che il ricorrente muova sul punto contestazioni di travisamento probatorio, che il
passante vide chiaramente l’imputato il quale, giratosi, toccò il sedere alla ragazzina, dandole “una
toccata”, “una schiacciata”. Il casuale testimone – che non conosceva né l’imputato, né la persona
offesa – ebbe una reazione del tutto coerente: immediatamente accortosi dell’intenzionalità del
palpamento, rimproverò l’imputato, contestandogli il fatto, seguendolo e telefonando alle forze di
polizia che poi intervennero identificandolo. La sentenza dà altresì atto – senza che il ricorrente
spenda sul punto parola – che l’imputato, dopo aver invano tentato di dileguarsi, accorgendosi che il
testimone continuava a seguirlo e che stava contattando telefonicamente la polizia, gli propose del
denaro per farlo desistere, disse “di lasciarlo stare”, che “c’era anche sua moglie” che “non l’avrebbe
fatto più”.
Ciò premesso, reputa il Collegio che la motivazione della sentenza non presti il fianco ad alcuna
censura, rammentandosi che alla Corte di cassazione sono precluse la rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente
plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito
(Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv.
235507), così come non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e
logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza
e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e
interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n.
20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362).
2. Alla luce di quanto appena osservato, è manifestamente infondato anche il primo motivo di
ricorso.
Per come ricostruito in sentenza, non v’è dubbio che si sia trattato di un intenzionale
palpeggiamento del sedere della ragazzina che indossava pantaloncini corti, fatto dall’imputato in
modo repentino, passando a fianco del gruppetto di coetanei in cui ella si trovava (probabilmente,
ha riferito il teste, turisti stranieri) per poi allontanarsi con rapidità (cosa che pure fecero, spaventati,
i giovani).
2.1. Contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, la Corte territoriale ha concluso, in modo
del tutto logico e giuridicamente corretto, che la condotta integrasse, sotto il profilo oggettivo e
soggettivo, il reato ascritto, assolvendo all’obbligo di rendere una motivazione rafforzata rispetto
alla sentenza d’assoluzione pronunciata in primo grado.
Quest’ultima, di fatti, pur avendo giudicato attendibile la versione resa dal testimone oculare, ha
tuttavia ritenuto che la lettera di giustificazioni scritta dall’imputato, in cui questi narrava la propria
versione dei fatti, pur essendo «possibile che si tratti di una dichiarazione di comodo costruita a
tavolino», inducesse a concludere che «non può escludersi del tutto l’ipotesi che i fatti siano andati
realmente come descritto dall’imputato».
Già il primo giudice, peraltro, aveva finito per ritenere che, sul piano oggettivo, l’imputato – che
pure ciò non aveva ammesso nella sua lettera, peraltro giudicata poco credibile anche nella parte in
cui l’imputato riferiva della sua interlocuzione con teste oculare – avesse effettivamente stretto con
la mano il gluteo di una ragazzina e la vera ratio decidendi della sentenza, compendiata nelle ultime
righe della motivazione, risiedeva nella «insufficienza di prove in ordine all’elemento soggettivo del
reato», essendosi espressamente prestata adesione (pag. 3 sentenza) «a quell’orientamento che
ritiene necessaria la prova del fine di libidine» per ritenere integrato il reato di violenza sessuale.
2.2. Ciò premesso, osserva il Collegio che la sentenza impugnata ha fatto buon governo del
principio secondo cui il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha
l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di
confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando
conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi ad imporre
la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel
provvedimento impugnato, (cfr. Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, Marsili, Rv. 262907; Sez. 6, n.
39911 del 04/06/2014, Scuto e a., Rv. 261589; Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, Rastegar, Rv.
254638).
In particolare, la sentenza impugnata – richiamando il consolidato orientamento di questa Corte – ha
esattamente rilevato l’errore in cui era caduto il primo giudice nel ritenere che il reato di cui all’art.
609 bis cod. pen. richieda che la condotta sia sorretta dalla finalità di concupiscenza sessuale, nel
contempo escludendo la plausibilità dell’alternativa spiegazione del gesto offerta dall’imputato.
2.3. Ed invero, questa Corte ha ripetutamente affermato che, ai fini della configurabilità del delitto
di violenza sessuale, per attribuire rilevanza a quegli atti che, in quanto non direttamente indirizzati
a zone chiaramente definibili come erogene, possono essere rivolti al soggetto passivo, anche con
finalità del tutto diverse, il giudice deve effettuare una valutazione che tenga conto della condotta
nel suo complesso, del contesto sociale e culturale in cui l’azione è stata realizzata, della sua
incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente tra i
soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante (Sez. 3, n. 964/2015 del 26/11/2014, Rv.
261634). Per la consumazione del reato è sufficiente che il colpevole raggiunga le parti intime della
persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia
di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all’azione dell’aggressore o che quest’ultimo
consegua la soddisfazione erotica (Sez. 3, n. 4674 del 22/10/2014, dep. 2015, S., Rv. 262472). E’
del pari consolidato il principio secondo cui l’elemento della violenza può estrinsecarsi, nel reato di
violenza sessuale, oltre che in una sopraffazione fisica, anche nel compimento insidiosamente
rapido dell’azione criminosa tale da sorprendere la vittima e da superare la sua contraria volontà,
così ponendola nell’impossibilità di difendersi (Sez. 3, n. 27273 del 15/06/2010, M., Rv. 247932;
Sez. 3, n. 46170 del 18/07/2014, J., Rv. 260985).
Quanto all’elemento soggettivo, secondo il consolidato orientamento interpretativo – condiviso dal
Collegio – non è necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del
piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura
oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a
soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito (Sez. 3,
n. 3648 del 03/10/2017, dep. 2018, T., Rv. 272449, resa in una fattispecie di palpeggiamento dei
glutei e del seno delle persone offese; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep. 2015, C, Rv. 263738,
relativa a fattispecie di palpeggiamenti e schiaffi sui glutei della vittima, nella quale la Corte ha
ritenuto che l’eventuale finalità ingiuriosa dell’agente non escludesse la natura sessuale della
condotta). Più in particolare, l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo
generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà
sessuale della persona offesa non consenziente (Sez. 3, n. 4913 del 22/10/2014, dep. 2015, P., Rv.
262470; Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013, S., Rv. 255907; Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013, S., Rv.
255907).
Il più recente orientamento richiamato in ricorso, non si discosta dai principi appena richiamati.
Il ricorrente cita la decisione in cui si è affermato che, in tema di atti sessuali, la condotta vietata
dall’art. 609-bis cod. pen. è solo quella finalizzata a soddisfare la concupiscenza dell’aggressore od a
volontariamente invadere e compromettere la libertà sessuale della vittima, con la conseguenza che
il giudice, al fine di valutare la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, non deve fare
riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ma deve tenere conto dell’intero contesto in
cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva (Sez. 3, n. 51582 del 02/03/2017, T.,
Rv. 272362; in motivazione, la Corte ha escluso che il compimento da parte dell’imputato – che
svolgeva attività di animatore volontario presso una struttura in cui erano ospitati bambini e
adolescenti – di giochi che implicavano un ripetuto coinvolgimento fisico fosse qualificabile solo
per questo ” atto sessuale”, essendo necessaria una verifica sulla direzione finalistica di tale
condotta, volta ad accertare se il contatto corpore corpori fosse stato posto in essere per esclusive
finalità ludiche o per soddisfare gli istinti sessuali).
La citata decisione non si pone in contrasto con il tradizionale orientamento interpretativo, posto
che, oltre a riconoscere la sussistenza dell’elemento soggettivo nei casi in cui la condotta – che sul
piano oggettivo deve pur sempre riguardare il compimento un “atto sessuale” – sia finalizzata a
soddisfare la concupiscenza dell’aggressore, la afferma anche laddove essa sia diretta a
volontariamente invadere e compromettere la libertà sessuale della vittima. Lungi dall’essere
focalizzata sull’elemento soggettivo, la ratio decidendi della richiamata sentenza appare piuttosto
incentrata – come la stessa massima più sopra riportata suggerisce e come la lettura della
motivazione conferma – sull’elemento oggettivo del reato di violenza sessuale, sul rilievo che non
tutti i contatti corporei con zone erogene possono essere considerati “atti sessuali” ai fini
dell’integrazione del reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. Speculare a tale precisazione è
l’affermazione -contenuta in una sentenza di poco successiva, parimenti evocata in ricorso -secondo
cui, in tema di atti sessuali, l’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 609-bis cod. pen. sussiste
anche nel caso in cui il distretto corporeo della vittima attinto dall’agente sia sessualmente
indifferente, ma a condizione che la porzione del corpo che l’agente pone a contatto con quello della
vittima sia connotata da valenza sessuale (Sez. 3, n. 38926 del 12/04/2018, C, Rv. 273916).
2.4. Nel caso di specie, per un verso, la parte del corpo attinta dal palpamento è certamente erogena,
e, comunque, non sessualmente indifferente; per altro verso, la dinamica descritta nella sentenza
impugnata restituisce l’evidenza di una chiara intrusione nella sfera sessuale di una ragazzina
sconosciuta, avendo la Corte territoriale del tutto logicamente rilevato l’assoluta inconsistenza, ed
incompatibilità con le risultanze istruttorie, della alternativa spiegazione data dall’imputato nella
memoria difensiva prodotta al primo giudice e da quest’ultimo invece, illogicamente, sia pur in
modo dubitativo, condivisa (vale a dire che egli avrebbe soltanto appoggiato le mani su uno o due
dei componenti il gruppo, che ostruiva il passaggio, per farsi largo e poter transitare).
3. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
Contrariamente a quanto allega il ricorrente, il testimone non ha avuto alcuna esitazione nel definire
certamente minorenne la ragazzina a cui l’imputato palpeggiò il sedere, concernendo il suo dubbio
sull’età soltanto il fatto se di anni ella potesse averne 10-12, ovvero 14-15.
Non miglior sorte merita l’ulteriore rilievo – peraltro neppure fatto oggetto di espressa doglianza di
violazione di legge – circa la riconducibilità della situazione concernente l’impossibilità di
esaminare la persona offesa alle previsioni che impediscono l’affermazione di responsabilità penale
dell’imputato in base a «dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente
sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore» (artt. 111, quarto comma, Cost. e 526,
comma 1 bis, cod. proc. pen.). E’ appena il caso di rilevare come le menzionate disposizioni
impediscano l’utilizzabilità di dichiarazioni accusatorie rese da chi si sottrae al controesame della
difesa e non siano in alcun modo riferibili a soggetti che non sono mai stati escussi nel
procedimento, del quale – come nella specie deve ritenersi per la persona offesa rimasta ignota –
finanche ignorano l’esistenza.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno
2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la
parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., oltre all’onere del pagamento delle
spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della
somma equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.