La vittima di stupro deve essere risarcita dallo Stato

Cass. civ., Sez. III, Sent., 24 novembre 2020, n. 26757- Pres. Traveglino, Rel. Cons. Vincenti

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 13168/2012 proposto da:
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio in carica, domiciliata ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è difesa per legge;
– ricorrente-
contro
A.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VICOLO ORBITELLI 31, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO ZENO ZENCOVICH, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati UMBERTO OLIVA e FRANCESCO BRACCIANI, giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
nonchè nei confronti:
PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA DI TORINO;
– intimata –
avverso la sentenza n. 106/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 23/01/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/2020 dal Consigliere Dott. VINCENTI ENZO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI CORRADO, che ha concluso per il rigetto del 1 e del 3 motivo, per l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto del 2 motivo, detratto dall’importo stabilito dalla Corte Subalpina l’indennizzo erogato in favore della controricorrente e dalla stessa percepito nel luglio 2020 per Euro 25.000,00;
udito l’Avvocato dello Stato PALATIELLO GIOVANNI;
udito l’Avvocato MARCO BONA.
Svolgimento del processo
1. – Una cittadina italiana, di origini rumene, residente stabile in Italia, fu, in Torino, nella notte tra il (OMISSIS), aggredita, sequestrata e costretta, con violenze e minacce, a praticare e a subire, ripetutamente, atti sessuali da parte di due cittadini rumeni, i quali, per tali fatti, vennero condannati in sede penale, in via definitiva, alla pena dieci anni e sei mesi di reclusione, oltre al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, con assegnazione, in favore della vittima dei suddetti reati violenti (e, segnatamente, del reato di violenza sessuale, previsto e punito dall’art. 609-bis c.p.), di una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 50.000,00, che, tuttavia, quest’ultima non riuscì ad ottenere in quanto i rei si erano resi latitanti.
1.1. – Nel febbraio 2009, quindi, la anzidetta cittadina italiana, residente stabile in Italia, vittima di reati intenzionali violenti, evocò in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, la Presidenza del Consiglio dei Ministri (di seguito anche solo: P.C.M.), affinchè ne venisse dichiarata la responsabilità civile per la mancata e/o non corretta e/o non integrale attuazione degli obblighi previsti dalla direttiva 2004/80/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, “relativa all’indennizzo delle vittime del reato” (di seguito anche solo: direttiva), e, in particolare, dell’obbligo, ivi previsto dall’art. 12, par. 2, a carico degli Stati membri, di introdurre, entro il 1 luglio 2005 (come stabilito dal successivo art. 18, par. 1), un sistema generalizzato di tutela indennitaria, idoneo a garantire un adeguato ed equo ristoro, in favore delle vittime di tutti i reati violenti ed intenzionali (compreso il reato di violenza sessuale), nelle ipotesi in cui le medesime siano impossibilitate a conseguire, dai diretti responsabili, il risarcimento integrale dei danni subiti.
1.2. – La P.C.M. si difese chiedendo il rigetto della domanda, adducendo (tra l’altro) che: a) la dir. 2004/80/CE si dovesse riferire unicamente alle situazioni transfrontaliere; b) che l’art. 12, par. 2, aveva un contenuto indeterminato, tale da demandare al legislatore interno sia la scelta delle singole fattispecie di reato cui riconnettere l’indennizzo ivi previsto, sia la determinazione della misura equa della somma da riconoscere in favore della vittima; c) che l’Italia già prevedeva un analogo sistema indennitario, in favore delle vittime di reati violenti e intenzionali, seppur limitatamente a determinate fattispecie, quali, in particolare, i crimini di matrice terroristica e di tipo mafioso, nonchè i reati usura e di estorsione.
2. – L’adito Tribunale, con sentenza del 26 maggio 2010, accertò, nel merito, l’inadempimento della Presidenza del Consiglio dei ministri per la mancata attuazione della direttiva 2004/80/CE, con condanna della medesima al pagamento, in favore della vittima del reato, della somma di 90.000,00 Euro, oltre interessi di legge dalla sentenza al saldo effettivo, nonchè alla refusione delle spese legali.
3. – Avverso tale sentenza interponeva gravame la P.C.M., che la Corte di appello di Torino, con sentenza resa pubblica il 23 gennaio 2012, accoglieva solo in parte, riformando unicamente sulla misura del risarcimento (che riduceva ad Euro 50.000, oltre accessori) l’impugnata sentenza e confermandola nel resto, con condanna dell’appellante Presidenza del Consiglio dei ministri anche al pagamento delle spese del grado.
3.1. – In particolare, la Corte di appello ribadiva che lo Stato italiano si era reso inadempiente per non aver dato attuazione alla direttiva n. 2004/80/CE, e, in particolare, per non aver ottemperato all’obbligo previsto dal richiamato art. 12, par. 2, da intendersi come volto a far sì che ogni Stato membro si dotasse di un generalizzato sistema di indennizzo in favore delle vittime di tutti i reati violenti e intenzionali, commessi nei rispettivi territori, ivi compreso quello di violenza sessuale.
3.2. – Quanto al presupposto dell’impossibilità per la vittima di conseguire il risarcimento del danno direttamente dagli autori del reato violento intenzionale, il giudice di secondo grado escludeva, come già affermato dal Tribunale, che l’attrice potesse ottenere dai due diretti responsabili un adeguato ristoro, seppur parziale, dei danni subiti, essendosi gli offensori resisi latitanti nelle more del giudizio di primo grado e non avendo mai manifestato forme di pentimento, nè offerto alcun ristoro patrimoniale in favore della vittima. Di talchè, non avrebbe avuto alcuna utilità pratica la proposizione di una causa civile risarcitoria nei confronti dei rei.
3.3. – In punto di liquidazione del danno, la Corte di appello riduceva, in via equitativa (facendo applicazione degli artt. 2056 e 1226 c.c.), a Euro 50.000,00 la somma spettante all’attrice a titolo di indennizzo – non coincidente con “un pieno risarcimento del danno” in ragione della natura, per l’appunto, indennitaria della responsabilità dello Stato italiano per omessa o tardiva attuazione della direttiva comunitaria non auto esecutiva, come da orientamento della giurisprudenza di legittimità di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 9147 del 2009 – per “la perdita subita… consistita nel non ricevere alcun indennizzo per la violenza sessuale subita, per non avere la Repubblica italiana previsto tale reato, intenzionale e violento, tra quelli che avrebbero dovuto consentirle di ottenere un equo ed adeguato indennizzo”. Reato che, nella specie, aveva cagionato all’attrice, appena diciottenne all’epoca dei fatti, “gravissime conseguenze di ordine morale e psicologico”, in ragione delle “minacce e violenze subite… per costringerla a subire a compiere atti sessuali ripetuti”.
4. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi, illustrati da memoria; ha resistito con controricorso, illustrato da memoria, l’originaria attrice.
4.1. – La causa è stata discussa all’udienza pubblica del 12 maggio 2015 e all’esito della camera di consiglio, con ordinanza interlocutoria n. 18003 del 2015, è stata rinviata a nuovo ruolo in attesa delle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (di seguito anche solo: CGUE) in relazione alla procedura di infrazione promossa dalla Commissione Europea, in data 22 dicembre 2014, contro la Repubblica italiana (Causa C-601/14) per omessa adozione di “tutte le misure necessarie al fine di garantire l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio”, di cui all’obbligo ex art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80/CE, nonchè al rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma, con ordinanza pronunciata il 24 marzo 2015, sull’interpretazione dell’art. 12, par. 2, della citata direttiva.
A seguito della definizione degli anzidetti giudizi dinanzi alla Corte di Lussemburgo (il primo con sentenza, Grande Sezione, 11 ottobre 2016, C-601/14; il secondo con ordinanza presidenziale del 28 febbraio 2017, a seguito di rinuncia al rinvio pregiudiziale da parte del Tribunale rimettente), depositate memorie da entrambe le parti, la causa è stata ulteriormente fissata per la discussione all’udienza del 27 ottobre 2017 e all’esito della relativa camera di consiglio è stata emessa – in ragione dello jus superveniens costituito dalla L. 20 novembre 2017, n. 167, entrata in vigore il 12 dicembre 2017 (che ha modificato la L. 7 luglio 2016, n. 122) – ordinanza interlocutoria n. 1196 del 2018, con la quale le parti ed il pubblico ministero sono stati invitati, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ad interloquire sulla portata e sugli effetti della anzidetta – legge sopravvenuta. A tal fine, nel termine assegnato, hanno depositato memoria la P.C.M. e la controricorrente. Rilevata la mancata comunicazione al pubblico ministero della precedente ordinanza interlocutoria, con ulteriore ordinanza interlocutoria del 2 novembre 2018, è stato assegnato alle parti tutte nuovo termine ai sensi dell’art. 384 c.p.c.: hanno, quindi, depositato memoria il pubblico ministero e la controricorrente.
Acquisite, dunque, le osservazioni del pubblico ministero e delle parti, all’esito della camera di consiglio in seconda riconvocazione ex art. 384 c.p.c., è stata emessa ordinanza interlocutoria n. 2964 del 31 gennaio 2019, con la quale è stato chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi in via pregiudiziale su due quesiti: l’uno avente ad oggetto la configurabilità, in relazione alla situazione di intempestivo e/o incompleto recepimento nell’ordinamento interno della direttiva 2004/80/CE, della responsabilità dello Stato membro anche nei confronti di soggetti non transfrontalieri; l’altro sulla possibilità di reputare “equo ed adeguato” l’indennizzo alle vittime di reato violento e intenzionale – e, segnatamente, del reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p., – stabilito in misura fissa dal D.M. 31 agosto 2017, nell’importo di Euro 4.800,00.
A seguito della definizione del giudizio di rinvio pregiudiziale, avutasi con la sentenza della CGUE del 16 luglio 2020, in C-129/19, è stata fissata per la discussione l’udienza odierna, in prossimità della quale entrambe le parti hanno depositato ulteriore memoria.
Motivi della decisione
1. – Va esaminata preliminarmente l’eccezione della P.C.M., di cui in particolare all’ultima memoria depositata, con la quale si chiede dichiararsi improcedibile la “domanda originaria per sopravvenuta cessazione della materia del contendere”.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, non si ravvisano, nella specie, i presupposti per una declaratoria di cessazione – della materia del contendere – ossia il venir meno della specifica situazione di contrasto fra le parti e, dunque, anche dell’interesse alla definizione del giudizio con una pronuncia in questa sede di legittimità sul fondo dell’impugnazione – in conseguenza dello jus superveniens che ha attribuito effetti retroattivi alla L. 7 luglio 2016, n. 122, là dove reca la disciplina sull’indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti.
L’art. 11 di detta legge (formulato proprio a seguito della procedura di infrazione, poi definita con la citata sentenza CGUE del 2016) ha previsto “il diritto all’indennizzo a carico dello Stato alla vittima di un reato doloso commesso con violenza alla persona e comunque del reato di cui all’art. 603-bis c.p., ad eccezione dei reati di cui agli artt. 581 e 582, salvo che ricorrano le circostanze aggravanti previste dall’art. 583 c.p.”. La determinazione degli importi dell’indennizzo sono stati rimessi ad un decreto ministeriale (art. 11, comma 3), nei limiti dello stanziamento in apposito Fondo (art. 14), e al quale potrà accedersi in base al possesso di specifiche condizioni (indicate dall’art. 12).
Per quanto ora interessa, la L. 20 novembre 2017, n. 167, art. 6, entrata in vigore il 12 dicembre 2017, ha stabilito al comma 2 che: “(D’indennizzo previsto dalla sezione II del capo III della L. 7 luglio 2016, n. 122, come modificata, da ultimo, dal presente articolo, spetta anche a chi è vittima di un reato intenzionale violento commesso successivamente al 30 giugno 2005 e prima della entrata in vigore della medesima legge”. Il successivo comma 3 dello stesso art. 6 ha poi previsto che la presentazione della domanda di concessione dell’indennizzo venga presentata, a pena di decadenza, entro il termine di centoventi giorni “dalla data di entrata in vigore della presente legge”; tuttavia, detto termine è stato riaperto e prorogato dapprima dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 594 e poi (sino al 31 dicembre 2020) dal D.L. n. 162 del 2019, art. 3, comma 2, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 8 del 2020. – Ne consegue che, per effetto dello jus superveniens – che non pone restrizioni alla platea dei destinatari dell’indennizzo, in termini di situazione transfrontaliera o meno – anche l’originaria attrice, vittima di violenza sessuale e di altri reati violenti nell’ottobre 2005, ne ha diritto, alle condizioni stabilite dalla L. n. 122 del 2016, e successive modificazioni.
A conferma di ciò l’originaria attrice ne ha effettivamente beneficiato dapprima nella misura di Euro 4.800,00 determinata dal D.M. 31 agosto 2017 (cfr. sentenza della CGUE del 16 luglio 2020, p.p. 26 e
29) e poi nella misura di Euro 25.000,00 determinata dal successivo D.M. 23 novembre 2019 (cfr. memoria da ultimo depositata dalla controricorrente).
Tuttavia, la pretesa azionata in giudizio dalla medesima attrice è quella del diritto al risarcimento del danno per l’inadempimento statuale all’obbligo di trasposizione tempestiva del diritto dell’Unione (art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80) e non già la pretesa di conseguire, in base al diritto nazionale, l’indennizzo attualmente stabilito a seguito della L. n. 122 del 2016.
Trattasi di domande aventi ad oggetto distinti causae petendi e petita.
La seconda, una prestazione indennitaria stabilita dalla legge, come effetto dell’attuazione di obblighi derivanti dalla partecipazione dello Stato all’Unione Europea; dunque, una obbligazione ex lege, da assolversi nei confronti degli aventi diritto, individuati dalla stessa disciplina di fonte legale e che prescinde dalla ricorrenza degli elementi costitutivi dell’illecito il quale, nel sistema della responsabilità civile, sia di fonte contrattuale, che aquiliana, si pone come indefettibile presupposto per la liquidazione del danno, ossia delle conseguenze pregiudizievoli da esso scaturenti (cfr. anche Cass., 4 novembre 2020, n. 24474).
La prima – alla luce della ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass., 17 maggio 2011, n. 10813 e, più di recente, Cass., 22 novembre 2019, n. 30502) – il diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva trasposizione di direttiva non autoesecutiva da parte del legislatore italiano nel termine prescritto dalla direttiva stessa, che va ricondotto allo schema della responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria. Responsabilità che, in ragione della natura antigiuridica del comportamento omissivo dello Stato anche sul piano dell’ordinamento interno, e dovendosi ricondurre ogni obbligazione nell’ambito della ripartizione di cui all’art. 1173 c.c., va inquadrata nella figura della responsabilità “contrattuale”, in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì da un illecito ex contractu e cioè dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente.
La circostanza che la consistenza del danno risarcibile trovi anzitutto corrispondenza nella misura dell’indennizzo in quanto è la relativa perdita che si manifesta come conseguenza dell’illecito contrattuale ascrivibile allo Stato (così da potersi definire il ristoro del danno come surrogato della mancata erogazione dell’indennizzo) non è, però, fattore che esaurisce, di per sè e indefettibilmente, la portata dell’obbligazione risarcitoria de qua, poichè, pure nel caso di un’applicazione retroattiva, regolare e completa delle misure di attuazione di una direttiva, che consenta di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della trasposizione tardiva della direttiva stessa, i relativi beneficiari possono dimostrare l’esistenza di perdite supplementari patite per il fatto stesso di non avere potuto usufruire nel momento previsto dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva e le quali andrebbero, dunque, parimenti risarcite (CGUE, sentenza del 10 luglio 1997, in procedimenti riuniti C-94/95 e C-95/95, Bonifaci e a.; CGUE, sentenza del 24 gennaio 2018, in procedimenti riuniti C-616/16 e C-617/16, Pantuso e a.). La liquidazione del danno in favore dell’originaria attrice ad opera della sentenza impugnata (Euro 50.000, oltre accessori) risponde anche alla logica da ultima evidenziata e delle relative ragioni se ne darà conto in sede di scrutinio del terzo motivo di ricorso.
Quanto ora anticipato consente, però, di esaminare nel fondo l’impugnazione proposta dalla P.C.M..
2. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10 (ex art. 5) TCE; dell’art. 4, comma 3, TUE; dell’art. 249 (ex art. 189), comma 3, TCE; dell’art. 117 Cost., comma 1; della Direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/80/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’indennizzo delle vittime del reato), in particolare, dell’art. 12, par. 2, in combinato disposto con i considerando 1, 2, 7, 10, 11 e 14 e con l’art. 18, par. primo; dell’art. 1173 c.c..
La Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che fossero ravvisabili, nel caso di specie, le condizioni giuridiche richieste ai fini della configurabilità, in capo allo Stato membro, della responsabilità per i danni causati ai privati, in conseguenza della violazione del diritto comunitario, male interpretando la direttiva 2004/80/CE. A tal fine il ricorrente assume che gli scopi e le finalità della direttiva citata sarebbero quelli di prevedere un sistema indennitario, per le vittime di reati intenzionali e violenti, limitatamente alle c.d. “situazioni transfrontaliere”, con esclusione delle situazioni meramente interne.
Ne consegue che la direttiva 2004/80/CE non sarebbe fonte di diritti direttamente azionabili dai residenti nei confronti dello Stato di appartenenza, in quanto finalizzata ad assicurare che, laddove sia commesso un reato violento ed intenzionale nel territorio di uno Stato membro diverso rispetto a quello in cui la vittima risiede, quest’ultima abbia accesso alle procedure di indennizzo previste nel luogo di consumazione del delitto
Inoltre, lo stesso art. 12, par. 2 – che impone a tutti gli Stati membri di provvedere all’introduzione di un sistema interno che garantisca un indennizzo equo ed adeguato alle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori -, interpretato alla luce del par. 1 dello art. 12 (che rimanda ai sistemi indennitari previsti dai singoli ordinamenti nazionali), indurrebbe a ritenere che esso non sia indirizzato ai Paesi che siano già dotati di un meccanismo di indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti. E, in tale prospettiva, rileva la circostanza che il legislatore italiano ha già provveduto ad introdurre, a partire dalla L. n. 466 del 1980 (sulle elargizioni in favore delle vittime del terrorismo), una serie di leggi speciali recanti procedure di indennizzo in favore delle vittime di fattispecie criminose di particolare allarme sociale (tra cui, quelle relative alla criminalità organizzata, all’attività estorsiva e all’usura, oltre che al terrorismo), sebbene non sia stato previsto analogo sistema indennitario a tutela delle “vittime dei reati legati alla criminalità comune” (e, quindi, del reato di violenza sessuale).
A dimostrazione del fatto che l’Italia fosse munita di un adeguato meccanismo indennitario, relativamente a diverse fattispecie di reati violenti ed intenzionali, non prevedendo la direttiva alcun obbligo di estendere detta procedura anche al reato di violenza sessuale, rileverebbe il fatto che, con la sentenza n. 112 del 29 novembre 2007, la Corte di Giustizia ha condannato la Repubblica italiana non già per l’inadempimento dell’obbligo prescritto ex art. 12, par. 2, entro il primo temine previsto dall’art. 18 (1 luglio 2005), bensì per la mancata conformazione, entro il secondo termine (1 gennaio 2006), delle procedure indennitarie già introdotte dal legislatore italiano, alle prescrizioni “legislative, regolamentari, amministrative” dettate dalla direttiva.
Ne conseguirebbe che, a fronte della indeterminatezza della disposizione di cui all’art. 12, par. 2, della direttiva, che non è preordinata ad attribuire diritti ai singoli, prescrivendo unicamente un obbligo di risultato, senza definire puntualmente i criteri per il raggiungimento dell’obiettivo prescritto, non può ravvisarsi a carico dello Stato italiano alcun inadempimento della predetta normativa, che rimette alla discrezionalità dei singoli Stati l’individuazione delle singole fattispecie indennizzabili, nonchè dei criteri in base ai quali determinare la liquidazione dell’indennizzo.
Peraltro, proprio in considerazione della scarsa chiarezza dell’art. 12, par. 2, citato e delle circostanze che hanno portato alla sua emanazione, tali da indurre lo Stato italiano a ritenere, ragionevolmente, la conformità al diritto Europeo del sistema indennitario già previsto, anteriormente al 1 luglio 2005, dall’ordinamento nazionale italiano, la presunta violazione della direttiva in esame non potrebbe essere qualificata come “grave e manifesta”, essendo, invero, l’eventuale inadempimento configurabile, al più, come un errore scusabile.
Quanto, poi, al nesso causale tra il presunto inadempimento della normativa Europea e il conseguente danno lamentato dalla originaria attrice, esso sarebbe escluso dal fatto che quest’ultima mai abbia provveduto a dare esecuzione alla provvisionale nei confronti dei due offensori.
La ricorrente ha proposto, infine, istanza affinchè questa Corte investa la CGUE, ai sensi dell’art. 267 TFUE (già art. 234 TCE), della questione pregiudiziale, in ordine alla portata dell’art. 12, par. II, della Direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/80/CE, se da interpretarsi nei termini sostenuti con il presente motivo di ricorso.
2.1. – Il primo motivo è infondato in tutta la sua articolazione.
2.1.2. – Anzitutto è infondata la censura che evoca una interpretazione della norma di cui all’art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80/CE in linea con un sistema di indennizzo calibrato su specifiche fattispecie di reati intenzionali violenti (sistema che lo Stato avrebbe già predisposto, con varie leggi, in favore di talune categorie di vittime: del terrorismo, di attività estorsiva ed usura, della criminalità organizzata), poichè la direttiva non avrebbe imposto l’obbligo di indennizzare anche le vittime di reati intenzionali violenti – tout court e, tra questi, in particolare il reato di violenza sessuale.
2.1.2.1. – Con la sentenza dell’11 ottobre 2016, “Commissione Europea c. Repubblica italiana”, in C-601/14, la CGUE (Grande Sezione) ha riconosciuto che la “Repubblica italiana, non avendo adottato tutte le misure necessarie al fine di garantire l’esistenza, nelle situazioni transfrontaliere, di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio, è venuta meno all’obbligo ad essa incombente in forza dell’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime di reato”.
Ciò sul presupposto – chiarito all’esito dell’interpretazione fornita dalla stessa Corte circa la complessiva portata della direttiva 2004/80 (cfr. p.p. da 37 a 44), che muove dalla premessa (esplicitata al p. 36) secondo cui, in ordine agli “obblighi imposti agli Stati membri in forza dell’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80, si deve tener conto non soltanto del tenore letterale di tale disposizione, ma anche degli obiettivi perseguiti da tale direttiva, nonchè del sistema istituito da detta direttiva nel quale questa disposizione si inserisce” – che l’anzidetto art. 12, par. 2, debba essere interpretato “nel senso che esso mira a garantire al cittadino dell’Unione il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite nel territorio di uno Stato membro nel quale si trova, nell’ambito dell’esercizio del proprio diritto alla libera circolazione, imponendo a ciascuno Stato membro di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio” (p. 45).
Dunque, l’obbligo nascente dall’art. 12, par. 2, della direttiva concerne qualsiasi reato intenzionale violento commesso sul territorio dello Stato membro e, quindi, anche il reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p..
2.1.3. – E’ infondata anche la doglianza che fa leva sull’interpretazione del citato art. 12, par. 2, come rivolto soltanto alla vittima c.d. “transfrontaliere” e non, quindi, alle vittime residente nel territorio dello Stato membro nel quale il reato intenzionale violento è stato commesso.
2.1.3.1. – Con tale doglianza la parte ricorrente intende accreditare la tesi per cui la norma anzidetta non sia preordinata a conferire diritti ai singoli “residenti e non transfrontalieri” e con ciò farne derivare l’insussistenza della responsabilità extracontrattuale dello Stato per danni causati ai singoli stessi da violazioni del diritto dell’Unione ad esso imputabili (nella specie, per illecito Eurounitario dello Stato-Legislatore inadempiente all’obbligo di attuare, tempestivamente, una direttiva comunitaria non self executing), in quanto detta responsabilità – come da giurisprudenza consolidata della CGUE (tra le molte, sentenza del 19 novembre 1991, in procedimenti riuniti C – 6/90 e C – 9/90, Francovich, Bonifaci e altri c. Italia; sentenza del 5 marzo 1996, in procedimenti riuniti C-46/93 e C-48/93, Brasserie Brasserie du Pecheur e Factortame e A., p. 51; sentenza del 15 novembre 2016, in C-268/15, Ullens de Schooten) – è configurabile in forza della concorrente ricorrenza di tre condizioni, tra cui la condizione anzidetta, che si aggiunge a quelle della violazione sufficientemente qualificata (o caratterizzata) e dell’esistenza di un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi. 1.1.3.2. – A tal riguardo, questa Corte, quale giudice di ultima istanza, ha chiesto alla CGUE di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE, sulla seguente questione di interpretazione del diritto dell’Unione:
“Dica la CGUE (nelle circostanze proprie della causa principale: concernente un’azione di risarcimento danni proposta da cittadina italiana, residente stabilmente in Italia, contro lo Stato-Legislatore per la mancata e/o non corretta e/o non integrale attuazione degli obblighi previsti dalla direttiva 2004/80/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, “relativa all’indennizzo delle vittime del reato”, e, in particolare, dell’obbligo, ivi previsto dall’art. 12, par. 2, a carico degli Stati membri, di introdurre, entro il 1 luglio 2005 (come stabilito dal successivo art. 18, par. 1), un sistema generalizzato di tutela indennitaria, idoneo a garantire un adeguato ed equo ristoro, in favore delle vittime di tutti i reati violenti ed intenzionali (compreso il reato di violenza sessuale, di cui l’attrice è stata vittima), nelle ipotesi in cui le medesime siano impossibilitate a conseguire, dai diretti responsabili, il risarcimento integrale dei danni subiti): a) se – in relazione alla situazione di intempestivo (e/o incompleto) recepimento nell’ordinamento interno della direttiva 2004/80/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, “relativa all’indennizzo delle vittime del reato”, non self executing, quanto alla istituzione, da essa imposta, di un sistema di indennizzo delle vittime di reati violenti, che fa sorgere, nei confronti di soggetti transfrontalieri cui la stessa direttiva è unicamente rivolta, la responsabilità risarcitoria dello Stato membro, in forza dei principi recati dalla giurisprudenza della CGUE (tra le altre, sentenze “Francovich” e “Brasserie du Pecheur e Factortame III”) – il diritto Eurounitario imponga di configurare un’analoga responsabilità dello Stato membro nei confronti di soggetti non transfrontalieri (dunque, residenti), i quali non sarebbero stati i destinatari diretti dei benefici derivanti dall’attuazione della direttiva, ma, per evitare una violazione del principio di uguaglianza/non discriminazione nell’ambito dello stesso diritto Eurounitario, avrebbero dovuto e potuto – ove la direttiva fosse stata tempestivamente e compiutamente recepita – beneficiare in via di estensione dell’effetto utile della direttiva stessa (ossia del sistema di indennizzo anzidetto)”. La prospettazione del quesito è stata così orientata, anzitutto, in base alla premessa che la giurisprudenza della CGUE in media res (sentenza del 28 giugno 2007, Dell’Orto, in C-467/05; sentenza del 12 luglio 2012, Giovanardi, in C-79/2011; ordinanza del 30 gennaio 2014, Paola C., in C-122/2013; sentenza dell’11 ottobre 2016, Commissione Europea c. Repubblica italiana, in C 601/14) fosse sufficientemente chiara nell’affermare la portata “transfrontaliera” dell’obbligo imposto dall’art. 12, par. 2, della direttiva, così da conferire un diritto ai singoli che avessero esercitato il proprio diritto alla libera circolazione e, quindi, essere rimasti vittime di reato intenzionale violento commesso nel territorio di Stato membro non di loro residenza (cfr. ord. int. n. 2964 del 2019, p.p. 34-39).
Ciò nonostante, in ragione della portata del citato art. 12, da leggersi – anche in ragione di quanto espresso dai “Considerando” della direttiva del 2004 (“Considerando 2” evocante la tutela della integrità personale; “Considerando 14” evocante il rispetto dei diritti fondamentali e i principi della Carta) – in combinazione proprio con i diritti fondamentali, parte integrante dei principi generali del diritto e, tra questi, quelli di uguaglianza e di non discriminazione, espressamente enunciati nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (rispettivamente, agli artt. 20 e 21), si è prospettato che l’obbligo indennitario generalizzato previsto dalla direttiva del 2004 potesse operare anche nei confronti dei residenti stabili nello Stato italiano (ossia nelle “situazioni puramente interne”), giacchè, proprio in forza di detti principi/diritti (e a prescindere, dunque, dagli effetti di estensione che, analogamente, il diritto nazionale avrebbe potuto determinare in base ai meccanismi giuridici da esso previsti), lo Stato medesimo non avrebbe potuto dare attuazione alla direttiva, tempestivamente, in modo ingiustificatamente discriminatorio nei confronti del cittadino residente stabile nel proprio territorio (cfr. ord. int. n. 2964 del 2019, p.p. 48-65).
E ciò in quanto “il principio generale di eguaglianza, espressione delle tradizioni costituzionali degli Stati membri, si pone, in quanto radicante un diritto fondamentale, come struttura portante – dunque, fondativa – dello stesso ordinamento dell’Unione (e non solo, quindi, come diritto che deve ricevere indefettibile tutela in quanto inviolabile), potendo così operare a livello assiologico in modo penetrante e trasversale rispetto a tutte le competenze ascritte all’Unione in forza dei Trattati” (cfr. ord. int. n. 2964 del 2019, segnatamente, p. 63).
2.1.3.2.1. – Giova, peraltro, evidenziare che una siffatta prospettiva non è rimasta estranea alle argomentazioni che sorreggono le conclusioni dell’Avvocato generale nella causa promossa a seguito della citata ordinanza interlocutoria, in esse (cfr. p.p. 100-124) suggerendosi – al fine di dirimere la portata interpretativa dell’art. 12, par. 2, della direttiva, non altrimenti reputata definibile nell’uno o nell’altro significato (ossia, come rivolta o meno a vittime soltanto transfrontaliere) – di far ricorso a criteri ermeneutici di ordine “costituzionale”, venendo, per l’appunto, richiamata (anche attraverso il rinvio di cui al citato “Considerando 14”) la Carta come parte del diritto primario vincolante e i diritti fondamentali da essa previsti, tra cui, in particolare, la dignità umana (art. 1) e il diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 6), ma anche l’art. 21 sul principio di non discriminazione, nella specie nel contesto “dell’eventuale discriminazione tra i diversi scenari transfrontalieri e della differenziazione tra i vari tipi di circolazione e di assenza di circolazione” (p. 110).
2.1.3.3. – La CGUE ha dato risposta al quesito in esame con la sentenza del 16 luglio 2020, Presidenza del Consiglio c. BV, in C- 129/2019, affermando che “(i)I diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che il regime della responsabilità extracontrattuale di uno Stato membro per danno causato dalla violazione di tale diritto è applicabile, per il motivo che tale Stato membro non ha trasposto in tempo utile l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime di reato, nei confronti di vittime residenti in detto Stato membro, nel cui territorio il reato intenzionale violento è stato commesso”.
A tale approdo la CGUE è giunta (cfr. p.p. 39-51) in forza di una interpretazione dell’art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80/CE che ha valorizzato, eminentemente, il tenore letterale di detta norma, la sua collocazione nel contesto del capo II (sui “(s)istemi di indennizzo nazionaliTh la portata generalizzata dell’obbligo gravante sugli Stati membri e, quindi, i “Considerando” 3, 6, 7 e 10, mettendo in rilievo rispettivamente: a) le conclusioni del Consiglio Europeo nella riunione di Tampere dell’ottobre 1999, sollecitanti “l’elaborazione di norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità, in particolare sull’accesso delle vittime alla giustizia e sui loro diritti al risarcimento dei danni”; b) il diritto all’indennizzo “indipendentemente dal luogo dell’Unione in cui il reato è stato commesso”; c) l’estensione del meccanismo indennitario a tutti gli Stati membri; d) le “difficoltà spesso incontrate dalle vittime di reati intenzionali violenti per farsi risarcire dall’autore del reato, in quanto questi può non possedere le risorse necessarie per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni alla vittima, oppure può non essere individuato o perseguito”.
Di qui, pertanto, l’affermazione che “l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 impone a ogni Stato membro di dotarsi di un sistema di indennizzo che ricomprenda tutte le vittime di reati intenzionali violenti commessi nei loro territori e non soltanto le vittime che si trovano in una situazione transfrontaliera” (p. 52), conferendo, dunque, “il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato non solo alle vittime di reati intenzionali violenti commessi nel territorio di uno Stato membro che si trovano in una situazione transfrontaliera, ai sensi dell’art. 1 di tale direttiva, ma anche alle vittime che risiedono abitualmente nel territorio di tale Stato membro” (p. 55).
La stessa CGUE ha, quindi, escluso (p. 53) che siffatta interpretazione fosse “rimessa in discussione” dalla propria precedente giurisprudenza (quella richiamata dall’ordinanza di rimessione di questa Corte), essendosi con essa “limitata a precisare che il sistema di cooperazione istituito dal capo I della direttiva 2004/80 riguarda unicamente l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere, senza tuttavia determinare la portata dell’art. 12, paragrafo 2, di tale direttiva, contenuto nel capo II della stessa” (p. 54).
– 2.1.3.4. – La portata applicativa dell’art. 12, par. 2, della direttiva è, dunque, quella di norma che non solo obbliga gli Stati membri a dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio, ma che consente anche ai soggetti residenti nello Stato membro, così obbligato, di poter usufruire dell’indennizzo, essendo, quindi, anch’essi titolari del diritto conferito, nella specie, dal diritto derivato dell’Unione.
E’ così integrata la prima delle tre condizioni affinchè possa configurarsi la responsabilità dello Stato per violazione del diritto Eurounitario.
2.1.3.5. – Anche la seconda delle tre menzionate condizioni è da reputarsi soddisfatta.
Alla luce della giurisprudenza Eurounitaria (tra le altre: sentenza del 5 marzo 1996, in procedimenti riuniti C-46/93 e C-48/93, Brasserie Brasserie du Pecheur; sentenza del 30 maggio 2017, in C-45/15, Safa Nicu Sepahan/Consiglio; sentenza del 10 settembre 2019, in C-123/18, HTTS/Consiglio), il criterio che assume decisività per considerare “sufficientemente qualificata” una violazione del diritto comunitario è quello della “violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro o di un’istituzione comunitaria, dei limiti posti al loro potere discrezionale” (così la citata sentenza del 5 marzo 1996) e ciò in considerazione di una serie elementi che possono essere valutati dal giudice, ossia la complessità delle situazioni da disciplinare, il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, nonchè l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva all’autorità nazionale o all’istituzione dell’Unione. “In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è manifesta e grave quando continua nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l’illegittimità del comportamento in questione” (così ancora la sentenza del 5 marzo 1996). Dovendosi, altresì, rammentare, a tale ultimo riguardo, che le sentenze (sia pregiudiziali e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione) della Corte di Lussemburgo hanno il valore di ulteriore fonte del diritto Eurounitario, indicandone il significato ed i limiti di applicazione, in quanto unica autorità giudiziaria deputata all’interpretazione delle norme dell’Unione con carattere vincolante per il giudice nazionale (tra le molte, Cass., 11 dicembre 2012, n. 22577; Cass., 8 febbraio 2016, n. 2468).
Nella specie, la violazione dell’art. 12, par. 2, citato, per un verso, è stata accertata dalla stessa CGUE (sentenza dell’11 ottobre 2016, in C-601/14) con declaratoria di responsabilità dell’Italia di esser venuta meno all’obbligo di dotarsi di un sistema generalizzato delle vittime di “tutti” i reati intenzionali violenti.
Per altro verso, la portata estensiva di detta norma, applicabile anche nei confronti delle vittime residenti nello Stato membro in cui il reato è stato commesso, è stata dalla CGUE medesima (sentenza del 16 luglio 29020, in C-129/199) affermata (nonostante lo stesso “smarrimento” ermeneutico e, quindi, i dubbi sulla chiarezza della norma denunciati dall’Avvocato generale nelle sue conclusioni – cfr. p.p. 100, 129 e 130 -, dai quali la stessa sentenza, del resto, prescinde del tutto) in forza di una interpretazione piana e diretta (senza altre mediazioni volte dissipare incertezze interpretative, non altrimenti palesate) della sola direttiva 2004/80/CE, di per sè ritenuta, ab origine, fonte chiaramente orientata a conferire anche alle vittime non transfrontaliere la tutela indennitaria da essa contemplata.
E lo stesso Giudice Europeo, oltre a non far cenno (quanto alla questione qui in esame) a particolari profili di ampia discrezionalità in capo allo Stato membro tenuto all’attuazione della direttiva medesima, ha espressamente escluso che sussistesse un diritto vivente unionale contrastante o solo anche disarmonico con la soluzione interpretativa raggiunta, come detto, già ritenuta propria delle virtualità applicative che la disposizione interpretata possedeva sin dall’inizio. Dunque, non coglie nel segno la censura di parte ricorrente che – asserendo anche esservi stato, con la sentenza del luglio 2020, un “overruling sostanziale”, determinativo di legittimo affidamento in capo allo Stato italiano su una diversa portata del diritto derivato dell’Unione – contesta potersi configurare nel caso all’esame una violazione sufficientemente qualificata dell’art. 12, par. 2, della direttiva.
2.1.3.6. – Quanto, infine, alla terza condizione, lo scrutinio della pertinente doglianza – che deduce l’insussistenza del nesso causale tra l’inadempimento della direttiva 2004/80/CE e il conseguente danno lamentato dalla originaria attrice in ragione del “fatto che quest’ultima mai abbia provveduto a dare esecuzione alla provvisionale nei confronti dei due offensori” – è rimesso all’esame del secondo motivo, di cui appresso.
3. – Con il secondo mezzo è prospettato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione.
Sarebbe illogica e contraddittoria la motivazione della decisione impugnata in relazione al fatto controverso e decisivo consistente nella sussistenza o meno del presupposto oggettivo – cui la dir. 2004/80/CE, ai sensi del “considerando” n. 10, subordina l’attivazione dei meccanismi indennitari predisposti dai singoli Stati membri, in favore della vittima di reato violento e intenzionale – della impossibilità, da parte di quest’ultima, di conseguire il risarcimento dai diretti responsabili.
A tal proposito, sarebbe inconferente l’affermazione della Corte di appello con la quale, accogliendo la prospettazione dell’appellata, osservava che l’instaurazione di un contenzioso civile, nei confronti dei due autori del reato, resisi latitanti, non potesse spiegare alcuna utilità, ai fini dell’ottenimento di un risarcimento da parte di questi ultimi, giacchè la direttiva non richiede la dimostrazione di aver intrapreso, infruttuosamente, un’azione civile nei confronti degli autori del reato, nè la Presidenza del Consiglio aveva mai sostenuto che tale prova fosse richiesta dalla normativa Europea.
La Corte distrettuale avrebbe, altresì, omesso di considerare che l’attrice, pur disponendo già di un titolo esecutivo nei confronti degli autori del reato, abbia attribuito rilevanza decisiva alla latitanza di costoro, mentre, ai sensi della direttiva non rileva la mera difficoltà, bensì la obiettiva impossibilità, di ottenere soddisfazione direttamente dagli offensori.
2.1. – Anche il secondo motivo è infondato in tutti i profili che il relativo sviluppo argomentativo esibisce, saldandosi il dedotto vizio motivazionale (secondo il regime previgente – applicabile ratione temporis al presente giudizio di legittimità – alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, recata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012) con la denunciata violazione di legge denunciata con il primo mezzo e che, nella sostanza, viene ulteriormente ribadita.
2.1.1. – Parte ricorrente muove dalla considerazione che la direttiva 2004/80/CE imponga, come presupposto oggettivo, l’obiettiva impossibilità” della vittima del reato intenzionale violento di conseguire il risarcimento dai diretti responsabili.
Una siffatta lettura del “Considerando 10”, dal quale detta premessa è tratta, (“Considerando” che così recita: “Le vittime di reato, in molti casi, non possono ottenere un risarcimento dall’autore del reato, in quanto questi può non possedere le risorse necessarie per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni, oppure può non essere identificato o perseguito”) non trova rispondenza nella lettera e nella ratio della disciplina recata dalla direttiva, che – come anche evidenziato nella sentenza della CGUE del 16 luglio 2020 (p. 51) – mette in rilievo la necessita di ovviare, attraverso il sistema indennitario da essa contemplato, alle oggettive “difficoltà” – e non la “impossibilità” postulata dal ricorrente – che la vittima di reato intenzionale violento può incontrare nel conseguire il risarcimento del danno patito, in conseguenza di fattori diversi attinenti alla persona del reo (privo di risorse economiche sufficienti, non individuabile ovvero non perseguibile).
Nè, sotto il profilo in esame, può avere diretto rilievo, stante la già rilevata diversità di oggetto e di petitum tra la causa risarcitoria promossa dall’attrice e la concessione dell’indennizzo ex lege, la disciplina recata dalla norma interna sopravvenuta di cui alla L. n. 122 del 2016, art. 12, comma 1, lett. b), come modificato dalla L. n. 167 del 2017, art. 6, là dove richiede che la vittima “abbia già esperito infruttuosamente l’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato per ottenere il risarcimento del danno dal soggetto obbligato in forza di sentenza di condanna irrevocabile o di una condanna a titolo di provvisionale”, altresì precisando (per quanto interessa) che “tale condizione non si applica quando l’autore del reato sia rimasto ignoto oppure quando quest’ultimo abbia chiesto e ottenuto l’ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato nel procedimento penale o civile in cui è stata accertata la sua responsabilità”.
Peraltro, quanto appena evidenziato in sede di interpretazione della direttiva 2004/80/CE potrebbe orientare, alla luce del canone dell’interpretazione adeguatrice della norma nazionale alla norma del diritto dell’Unione, anche la lettura della menzionata disciplina di accesso alla prestazione indennitaria de qua, la quale, se si misura direttamente con il profilo della insufficienza di risorse economiche in capo al reo e con quella della mancata individuazione del reo, tali da non poter soddisfare l’obbligazione risarcitoria in favore della vittima del reato, non esclude, di per sè, il rilievo, in forza di una lettura estensiva e secondo la ratio della norma sovranazionale, ulteriori oggettivi e seri ostacoli che possono presentarsi nel conseguimento da parte della stessa vittima del risarcimento ad essa spettante. E del resto in tal senso la norma interna è stata interpretata dallo stesso Stato italiano in quanto soggetto che ha in concreto provveduto all’erogazione dell’indennizzo in favore dell’attrice.
Ciò posto, si palesa, dunque, adeguata e non illogica la motivazione del giudice di appello che – proprio in armonia con il principio innanzi enunciato, ancorando essenzialmente il proprio convincimento alla sussistenza di una condizione di non superabile difficoltà di carattere oggettivo, da potersi ricondurre, come esemplificazione fattuale, nel più ampio concetto di non perseguibilità del reo – ha posto in evidenza come l’attrice, pur essendosi costituita parte civile nel giudizio penale, non avrebbe potuto ottenere dagli autori dei reati commessi in suo danno “un qualsiasi anche parziale risarcimento”, essendosi costoro, segnatamente, resisi “latitanti nel giudizio di primo grado e tali (essendo) rimasti nel giudizio di appello”, tanto da rendere inutile l’esperimento di una causa civile al fine di conseguire, dagli stessi, il risarcimento del danno.
Ne deriva, peraltro, la complessiva inconsistenza della doglianza che, alfine, lamenta (per i profili innanzi illustrati) la mancata integrazione della (terza) condizione di risarcibilità dell’illecito comunitario da parte dello Stato, essendo evidente la configurabilità del nesso di causa diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dalla vittima del reato per la tardiva trasposizione della direttiva 2004/80/CE. 3. – Con il terzo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1173, 2043, 2056 e 1226 c.c.; dell’art. 185 c.p.; dell’art. 12 della direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/80/CE; ed è, altresì denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione.
La Corte territoriale avrebbe errato nella liquidazione del quantum debeatur, riconoscendo, “per il danno non patrimoniale” subito dall’attrice, la somma esorbitante di Euro 50.000,00, giacchè tale importo, corrispondente alla provvisionale riconosciuta, in favore della vittima, in sede penale, sarebbe finalizzato a ristorare integralmente la medesima delle “gravissime conseguenze di ordine morale e psicologico connesse al reato”. In tal modo, il giudice di appello, pur avendo astrattamente confermato il carattere indennitario dell’obbligazione a carico dello Stato per la mancata attuazione della direttiva, avrebbe, poi, in concreto confuso il concetto di risarcimento con la nozione di indennizzo, essendo, di fatto, la somma liquidata preordinata al ristoro integrale dei danni subiti dalla vittima, siccome commisurata alla provvisionale liquidata in sede penale.
In definitiva, la Corte piemontese avrebbe incongruamente determinato il risarcimento a carico della Presidenza del Consiglio dei Ministri come se questo fosse chiamato a rispondere, quale diretto responsabile del reato, in sostituzione o in aggiunta all’effettivo autore del delitto, pur mancando, evidentemente, i presupposti che consentono la configurabilità di una responsabilità, diretta o indiretta, dello Stato per fatto altrui, ai sensi dell’art. 185 c.p.. Invero, i parametri di liquidazione dell’indennizzo dell’asserito danno conseguente al mancato recepimento della direttiva devono assumere una connotazione diversa rispetto ai criteri di determinazione del risarcimento del danno da illecito aquiliano.
3.1. – Il motivo è fondato solo in parte e nei termini appresso precisati.
3.1.1. – Occorre ribadire e puntualizzare, in primo luogo, quanto già evidenziato in precedenza (p. 1.1.) in ordine alla responsabilità dello Stato per omessa, incompleta o tardiva trasposizione di direttiva Eurounitaria nell’ordinamento interno, che riveste natura di illecito contrattuale e che, dunque, genera un’obbligazione risarcitoria in conseguenza di detto inadempimento, i cui effetti pregiudizievoli (perdita subita e mancato guadagno) sono da ristorare integralmente ai sensi dell’art. 1223 c.c. o con valutazione equitativa del danno non altrimenti dimostrabile nel suo preciso ammontare, ex art. 1226 c.c..
In questa prospettiva – che tiene conto anzitutto del principio di ristoro integrale del pregiudizio effettivamente patito dal creditore danneggiato – va letto il principio espresso dalla giurisprudenza di Lussemburgo, già ricordato, per cui il danno da illecito comunitario può anche essere risarcito in forma specifica, con un adeguamento completo alle disposizioni della direttiva non autoesecutiva da parte del legislatore nazionale ad effetto retroattivo, se ciò è sufficiente a rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della violazione del diritto unionale, fatta salva comunque la prova di un eventuale maggior danno subito per non aver potuto fruire, a suo tempo, dei vantaggi garantiti dalla norma (così anche CGUE, sentenza 10 luglio 1997, C-373/95, Maso e a., punti 39-42). Maggior danno che può essere di natura patrimoniale o anche non patrimoniale, giacchè anche l’inadempimento contrattuale può dar luogo a quest’ultimo tipo di pregiudizio (art. 2059 c.c.) allorquando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione (Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972).
3.1.2. – Ciò premesso, il criterio parametrico basilare per la valutazione e la liquidazione del danno patito dal soggetto danneggiato dall’inadempimento dello Stato nella tardiva attuazione della direttiva 2004/80/CE – al di là, quindi, dell’eventuale sussistenza di un maggiore pregiudizio – è, quindi, costituito dall’ammontare dell’indennizzo di cui esso, in quanto vittima del reato intenzionale violento, avrebbe avuto diritto ab origine come bene della vita garantito dall’obbligo di conformazione del diritto nazionale a quello dell’Unione.
Posta, dunque, tale indefettibile correlazione, ne sussiste un’altra che attiene al contiguo profilo (con effetti, come si vedrà, sulla prima evidenziata correlazione) del rapporto tra indennizzo ai sensi del citato art. 12, par. 2, e risarcimento del danno in sede civile conseguente al reato di violenza sessuale.
Tra i due diritti non vi è coincidenza, giacchè il primo – che risponde ad una esigenza di interesse generale volta a garantire un ristoro, altrimenti non conseguibile, alle vittime di determinati crimini che investono l’integrità, e la dignità, personale (cfr. i già richiamati “Considerando” 2 e 3) – è la risultanza di un intervento conformativo rimesso alla discrezionalità del legislatore, mentre per il secondo vale il principio, di più generale attinenza all’ambito dei danni alla persona e desumibile dagli artt. 2043 e 2059 c.c., della integralità del ristoro delle conseguenze pregiudizievoli patite dalla vittima del fatto illecito commesso dal suo autore.
Tuttavia, il “Considerando (6)” della direttiva 2004/80/CE afferma – per quanto qui interessa – che le vittime di reato nell’Unione Europea dovrebbero avere il diritto di ottenere “un indennizzo equo e adeguato per le lesioni subite”; in tal senso, poi, dispone lo stesso art. 12, par. 2, della medesima direttiva, prevedendo che il sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti debba garantire “un indennizzo equo ed adeguato delle vittime”.
Dunque, la discrezionalità legislativa, pur significativa, deve comunque essere necessariamente orientata dai criteri di “equità” ed “adeguatezza”, imposti dall’art. 12, par. 2, della citata direttiva.
3.1.3. – Nella specie, la tardiva trasposizione della direttiva 2004/80/CE – che, nei confronti di vittima non transfrontaliera di reati intenzionali violenti commessi nell'(OMISSIS), è avvenuta, come detto, soltanto a seguito dell’intervento novellatore di cui alla L. n. 167 del 2017, entrata in vigore il 12 dicembre 2017 – ha comportato il riconoscimento in favore dell’avente diritto vittima del “reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p.” (“salvo che ricorra la circostanza attenuante della minore gravità”) di un indennizzo dapprima quantificato, in base al decreto del Ministro dell’interno 31 agosto 2017 (emanato ai sensi della L. n. 122 del 2016, art. 11, comma 3 e successive modifiche), in un “importo fisso di Euro 4.800”. Importo che, soltanto a seguito del decreto del Ministro dell’interno del 22 novembre 2019 (successivo, dunque, alla pubblicazione dell’ordinanza interlocutoria n. 2964 del 2019, di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, par. 3, TFUE), è stato elevato, per lo stesso reato, alla misura fissa di “Euro 25.000”; valore incrementabile di un ammontare fino al massimo di Euro 10.000,00 per spese mediche e assistenziali.
3.1.4. – Questa Corte, con la citata ordinanza interlocutoria n. 2964 del 2019, dubitando della rispondenza ai criteri del citato par. 2 dell’art. 12 della direttiva dell’importo indennitario di Euro 4.800, ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi (anche) sul seguente quesito: “b) se l’indennizzo stabilito in favore delle vittime dei reati intenzionali violenti (e, segnatamente, del reato di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis c.p.) dal decreto del Ministro dell’interno 31 agosto 2017 (emanato ai sensi della L. 7 luglio 2016, n. 122, art. 11, comma 3 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea – Legge Europea 2015-2016) e successive modificazioni (recate dalla L. 20 novembre 2017, n. 167, art. 6 e dal della L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, commi 593-596)) nell’importo fisso di Euro 4.800” possa reputarsi “indennizzo equo ed adeguato delle vittime” in attuazione di quanto prescritto dall’art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80″.
Ciò sulla base di talune premesse (cfr., segnatamente, p.p. 75-78, 82-89), che muovono dal fornire concretezza ai criteri anzidetti, essendosi assunto che: a) il “criterio dell’equità” è, in generale, volto ad assicurare che l’indennizzo (e, dunque, la misura del suo importo) consideri anzitutto la gravità intrinseca del reato (nella specie, di violenza sessuale), come tale ponendo le vittime, in ragione della loro uguale dignità, in una situazione di tendenziale parità di trattamento; b) il “criterio dell’adeguatezza” richiede, invece, la individuazione di parametri di personalizzazione dell’indennizzo, tali da poter orientare la sua misura definitiva (anche là dove si venga a stabilire un massimale indennitario) in ragione di quelle circostanze, soggettive e oggettive, dell’accadimento criminoso violento, la cui rilevanza può essere tradotta in paradigmi guida della liquidazione.
Di qui, pertanto, le conclusive considerazioni secondo cui sarebbe possibile ravvisare una consonanza non solo tra detti criteri e quelli di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale conseguente al reato di violenza sessuale (“sebbene non si possa (nè si debba) poi addivenire ad una coincidenza necessaria di esiti, tra il risarcimento e l’indennizzo”: cfr. p. 87), ma, soprattutto, “in modo particolarmente significativo, proprio nell’esercizio della discrezionalità del legislatore italiano nel conformare gli indennizzi elargibili ai sensi delle leggi innanzi ricordate (ossia, le leggi volte a riconoscere indennizzi in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), avendo esso legislatore assunto, come guida della liquidazione, parametri “equi” (nella fissazione di importi in ragione della gravità dei reati violenti indennizzati) ed “adeguati” (nel dare rilievo ad una liquidazione ancorata anche alle circostanze concrete dell’accadimento criminoso)” (p. 88).
3.1.5. – La CGUE, con la sentenza del 16 luglio 2020, ha risposto al predetto quesito dichiarando: “(l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 dev’essere interpretato nel senso che un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come “equo ed adeguato”, ai sensi di tale disposizione, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito”.
Più in dettaglio, la CGUE ha posto in risalto (cfr. p.p. 57-69) che: a) nella determinazione dell’indennizzo gli Stati membri godono di un margine di discrezionalità; b) il sistema indennitario “non deve necessariamente corrispondere al risarcimento del danno che può essere accordato, a carico dell’autore di un reato intenzionale violento, alla vittima di tale reato”; c) l’indennizzo, di conseguenza “non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalla vittima”; d) l’indennizzo, tuttavia, non può essere “puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato” intenzionale violento; e) l’indennizzo “rappresenta un contributo al ristoro del danno materiale e morale subito da queste ultime” e, quindi, “può essere considerato “equo ed adeguato” se compensa, in misura appropriata, le sofferenze alle quali esse sono state esposte”; f) l’art. 12, par. 2, della direttiva “non può essere interpretato nel senso che osta a un indennizzo forfettario di tali vittime, in quanto la somma forfettaria assegnata a ciascuna vittima può variare a seconda della natura delle violenze subite”; g) lo Stato membro che opti per il regime forfettario di indennizzo “deve provvedere affinchè la misura degli indennizzi sia sufficientemente dettagliata, così da evitare che l’indennizzo forfettario previsto per un determinato tipo di violenza possa rivelarsi, alla luce delle circostanze di un caso particolare, manifestamente insufficiente”; h) la “violenza sessuale… (è) un reato, tra quelli intenzionali violenti, che può provocare le conseguenze più gravi”. Alla luce di tali considerazioni, la CGUE, nel concreto, ha ritenuto, quindi, che, “fatta salva la verifica da parte del giudice del rinvio, un importo forfettario di EURO 4.800 per l’indennizzo della vittima di violenza sessuale non sembra corrispondere, prima facie, a un “indennizzo equo ed adeguato”, ai sensi dell’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80″ (p. 68).
3.1.6. – Ai fini della decisione in questa sede – poste le interferenti correlazioni di cui si è detto (indennizzo art. 12 direttiva/risarcimento per illecito comunitario, da un lato, indennizzo art. 12 direttiva/risarcimento danno da reato, dall’altro), assume specifico rilievo, dunque, la funzione omologa assolta da indennizzo di cui alla direttiva 2004/80/CE e risarcimento del danno civile in favore della vittima del reato di violenza sessuale, essendo entrambi, seppur (come detto) non coincidenti quanto ai presupposti e titoli dell’erogazione, nonchè ai valori economici necessariamente implicati, comunque volti a ristorare (il primo in misura non integrale come invece il secondo) il danno morale e materiale subito dalla stessa vittima.
Ristoro che, per l’indennizzo, non deve, comunque, essere puramente simbolico, ma, anche là dove forfettariamente determinato, deve tener conto delle peculiarità del crimine e della sua gravità, soprattutto in termini di conseguenze effettuali, che, nella specie, vedono vulnerate non solo l’integrità, ma anche la dignità personale e la sfera di autodeterminazione della libertà sessuale (soprattutto, se non esclusivamente, nella c.d. violenza di genere).
3.1.7. – In forza di quanto illustrato, le censure di parte ricorrente sono prive di fondamento, giacchè la sentenza impugnata ha colto, anzitutto, la differenza giuridica e concettuale tra indennizzo ex art. 12, par. 2, della direttiva e risarcimento del danno civile per le conseguenze negative derivate alla vittima del reato nel caso di specie rilevante, evidenziando come il ristoro per la perdita del primo (seppure – in forza di una lettura in jure della sentenza delle Sezioni Unite n. 9147/2009 non del tutto coerente, sul punto, con la giurisprudenza ad essa successiva di cui si è dato conto al precedente p. 1.1. erroneamente qualificando come “indennizzo” anche quel ristoro che rappresenta, invece, il risarcimento del danno contrattuale per il c.d. illecito comunitario; dovendosi, quindi, in parte qua soltanto correggere la motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c.) non poteva pienamente coincidere con il secondo, sebbene, poi, la perdita subita dall’attrice in conseguenza del mancato conseguimento dell’indennizzo per la mancata trasposizione dello Stato italiano della direttiva 2004/80/CE (dunque, il risarcimento del danno per l’illecito comunitario) era da liquidarsi, in via equitativa, in relazione alle “gravissime conseguenze di ordine morale e psicologico connesse al reato”.
E in tal senso il fatto che – diversamente dalla liquidazione operata in primo grado (per un ammontare di Euro 90.000,00) – la Corte territoriale abbia fatto riferimento alla provvisionale stimata dal giudice penale (Euro 50.00,00) conferma (contrariamente a quanto opinata dalla P.C.M. ricorrente) come il riconosciuto risarcimento per l’illecito comunitario non fosse volto a riparare integralmente il danno patito dalla vittima della violenza sessuale. Si tratta, dunque, di liquidazione equitativa, in base all’art. 1226 c.c., che non solo non trascende nell’arbitrarietà (così da violare il paradigma legale di riferimento o da palesarsi decisione sorretta da motivazione al di sotto del consentito “minimo costituzionale”; cfr. anche Cass., 13 settembre 2018, n. 22272 e Cass., 20 giugno 20 giugno 2019, n. 16595), ma che, anzi, collocandosi nell’alveo dei principi sopra enunciati, tiene in debito conto, anzitutto, la evidenziata funzione omologa delle due poste – indennitaria e risarcitoria civile per il danno da reato -, pur nella loro riconosciuta diversità causale e di consistenza economica.
Inoltre, ai fini della considerazione della naturale correlazione tra misura dell’indennizzo stabilito normativamente in attuazione della direttiva 2004/80/CE e quella del risarcimento del danno per la mancata (tempestiva) trasposizione dell’art. 12, par. 2, citato, la stima di quest’ultimo operata dalla Corte territoriale, se, da un lato, non può rinvenire il proprio referente parametrico privilegiato nella posta indennitaria stabilita con il D.M. 31 agosto 2017, in Euro 4.800,00 (avendo la stessa Corte di giustizia ritenuto, “prima facie”, la non corrispondenza di detto indennizzo ai criteri di equità ed adeguatezza imposto dall’anzidetta norma della direttiva), mostra, per altro verso, come non possa ravvisarsi quel carattere di esorbitanza che la ricorrente ascrive alla decisione impugnata, giacchè, proprio a seguito dell’intervento dello stesso Stato tenuto all’erogazione ex lege, recato dal più recente D.M. 23 novembre 2019, si è di gran lunga ristretta la forbice tra il liquidato quantum risarcitorio e il valore dell’indennizzo stabilito dal successivo e più recente D.M. 22 novembre 2019, che per le vittime del reato di violenza sessuale ha previsto l’importo base fisso di Euro 25.000,00, con possibilità di incremento per spese mediche e assistenziali fino, come detto, ad un ammontare che può giungere, complessivamente, al massimo ad Euro 35.000,00.
Ciò posto, la liquidazione equitativa del giudice di appello va apprezzata anche in coerenza con la domanda svolta dall’attrice di risarcimento di tutti i danni “subiti e patendi” (cfr. p. 4 sentenza di appello) – e, dunque, pure di quelli derivati dal “mancato godimento” del beneficio, tra cui la pretesa di ristoro di pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali specificamente dedotti (p. 4 controricorso, corrispondente a quanto si rinviene nelle pp. da 39 a 43 dell’atto di citazione) – e come tale il quantum debeatur risulta ancorato ad una perdita (morale e materiale) patita dall’attrice che si è potuta alimentare pure in ragione del tempo trascorso in attesa della trasposizione della direttiva 2004/80/CE, non ancora effettuata, del resto, al momento della decisione di secondo grado (e anzi, come detto, procrastinatasi sino al dicembre 2017).
In ciò è consentito, quindi, ravvisare quel maggior danno subito dall’avente diritto per non aver potuto beneficiare, a suo tempo, dei vantaggi garantiti dalla norma attributiva del vantaggio (così anche CGUE, sentenza 10 luglio 1997, C-373/95, Maso e a., punti 39-42). Profilo, questo, per un verso, non attinto da congruente e tempestiva censura di parte ricorrente (là dove l’assunto che si rinviene a p. 3 della memoria da ultimo depositata – secondo cui l’attrice non ha richiesto “il risarcimento di ulteriori danni patiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari introdotti dalle leggi nazionali del 2016 e del 2017” – oltre ad essere smentito dal tenore dell’atto di citazione, non può integrare l’originaria doglianza, avendo la memoria funzione solo illustrativa delle ragioni di impugnazione fatte tempestivamente valere); mentre, per altro verso, dà contezza e ragione di quanto anticipato al p. 1.1.1. in ordine all’insussistenza dei presupposti per una declaratoria di cessazione della materia del contendere.
Il perimetro e i contenuti dell’impugnazione (della sola P.C.M.), unitamente all’esito dello scrutinio che precede, rendono, quindi, irrilevanti ulteriori valutazioni circa l’effettiva rispondenza ai criteri di equità ed adeguatezza della misura dell’indennizzo ex lege corrisposto da ultimo all’attrice nella misura fissata con D.M. 23 novembre 2019, difettando di rilevanza, pertanto, anche le rinnovate sollecitazioni della controricorrente (con la memoria da ultimo depositata) ad investire il Giudice delle leggi dei dubbi di costituzionalità della fonte normativa di rango primario da cui esso indirettamente promana.
3.2. – Nel contesto della denuncia di parte ricorrente che investe, in toto, il profilo del quantum debeatur deve, però, trovare rilievo proprio il fatto sopravvenuto della corresponsione in favore dell’originaria attrice e attuale controricorrente dell’indennizzo di cui alla L. n. 122 del 2016, e successive modificazioni, in quanto vittima di reato intenzionale violento.
Corresponsione che – come detto – è avvenuta dapprima per l’importo di Euro 4.800,00, di cui dà atto la stessa sentenza della CGUE del 16 luglio 2020 (p. 26), e poi per l’importo di Euro 25.000,00, di cui al D.M. 23 novembre 2019, che la stessa parte controricorrente (con la memoria da ultimo depositata) ha affermato di aver ricevuto in data 17 luglio 2020, quale somma “comprensiva del precedente importo di Euro 4.800,00” (p. 41 della memoria).
Pertanto, dal risarcimento dovuto all’attrice a titolo di danno per tardiva trasposizione nell’ordinamento interno della direttiva 2004/80/CE, liquidato dalla Corte di appello di Torino con la sentenza impugnata nella misura di Euro 50.000,00, oltre interessi legali dalla sentenza di primo grado (26 maggio 2012), deve essere detratta la somma di Euro 25.000,00 corrisposta all’attrice a titolo di indennizzo ex L. n. 12 del 2016 e successive modifiche.
3.3. – Queste le ragioni che sottendono all’applicazione anche al caso di specie dell’istituto della c.d. compensatio lucri cum damno (di seguito anche solo: compensatio).
3.3.1. – Giova, anzitutto, rammentare che tale istituto è inteso dal diritto vivente (in base all’approdo nomofilattico avutosi con le quattro coeve sentenze del 22 maggio 2018, dal n. 12564 al n. 12567, delle Sezioni Unite civili di questa Corte) “come regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno”. E’, dunque, un punto di vista che – salvo interventi legislativi specifici e settoriali – si colloca essenzialmente all’interno della materia della responsabilità civile, dovendo il giudice farsi carico di stimare e liquidare un danno da fatto illecito e non già di dover riconoscere il diritto ad una provvidenza legale o ad un indennizzo assicurativo.
Il fondamento positivo e assiologico della compensatio, dunque, si rinviene, in linea generale, all’interno della materia implicata, ossia nella norma dell’art. 1223 c.c., che esibisce sia il principio (di indifferenza), che la regola (causale) sui quali, anzitutto, si fonda l’istituto, salvo che esso non sia frutto di un’interposizione legislativa specifica, che nella specie – come si dirà più oltre – è dato ravvisare, sotto una determinata prospettiva, nella stessa L. n. 122 del 2016 e successive modificazioni.
A tal riguardo, le citate sentenze hanno individuano alcuni criteri orientativi che costituiscono i pilastri comuni attraverso i quali selezionare la classe di casi ai quali poter applicare, o meno, il cumulo tra risarcimento e beneficio collaterale.
I criteri filtranti sono tre: l’accertamento del nesso di causalità tra il fatto illecito e il beneficio; la valutazione della ragione giustificatrice del beneficio; la previsione legislativa di un meccanismo di surroga o rivalsa. Nel nostro caso, tuttavia, interessano i primi due, in quanto l’erogazione del beneficio collaterale proviene dallo stesso obbligato civile al risarcimento del danno.
Quanto al primo di detti filtri, viene in rilievo il congiunto operare dei già menzionati principio di c.d. indifferenza (il patrimonio del danneggiato non deve patire le conseguenze negative derivate dal fatto illecito, ma neppure giovarsi di questo) e regola della causalità giuridica (in questo caso anzitutto come “regola di struttura”, prima ancora che “regola di funzione”), che segna il criterio in base al quale – ossia secondo la teoria della cd. regolarità causale, fondata sull’id quod plerumque accidit – danno e vantaggio devono essere collegati eziologicamente all’illecito e ciò a prescindere dal titolo attributivo (legge o contratto che sia).
Il secondo criterio prescelto è, come detto, quello della “ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato”, in quanto il sistema ordinamentale non ammetterebbe la compensatio in forza di una mera operazione contabile, di “una regola categoriale destinata ad operare in modo bilancistico”, ma pretende la “giustizia del beneficio” e così suggerisce di verificare a fondo la causa della sua attribuzione, perchè solo se questa esibisse una funzione analoga a quella risarcitoria, propria dell’illecito, ne consentirebbe lo scomputo dal risarcimento stesso.
L’actio finium regondorum viene, quindi, a fondarsi proprio su un’indagine per “classi di casi”, volta a dare rilievo al legame tra la funzione assolta dal vantaggio e il danno; al di là, dunque, del titolo o della fonte attributiva del primo, ciò che diventa dirimente è l’esistenza o meno di detto stretto legame (od omologia funzionale), spezzato il quale, il cumulo deve essere consentito.
Come detto, non interessa il terzo dei menzionati criteri filtranti, in quanto la previsione di un meccanismo di recupero dell’indennizzo che si palesa come strumento volto a soddisfare un’esigenza di etica nell’allocazione degli effetti del fatto illecito – si rende necessaria in presenza di una situazione di duplicità di posizioni pretensive di un soggetto verso due soggetti diversi tenuti, ciascuno, in base ad un differente titolo (dunque, in presenza di un doppio rapporto bilaterale intersecantesi), mentre non assume rilevanza là dove, come nella fattispecie, è unico il soggetto (Amministrazione statale) obbligato al risarcimento del danno ed al pagamento della posta indennitaria.
In questo caso trova applicazione il principio secondo il quale nelle “ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria (…) vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa” (così le citate sentenze delle Sezioni Unite. In precedenza, Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n. 584, Cass., 14 marzo 2013, n. 6573, Cons. Stato, A.P., n. 1 del 2018; successivamente, tra le altre, Cass., 30 novembre 2018, n. 31007).
3.3.2. – Nel caso di specie, come detto, sussiste anche una interpositio legislatoris che ha mutuato i principi dell’istituto sopra illustrati e previsto una regola settoriale che ne ripropone direttamente gli effetti, muovendo – come non poteva non essere – dall’ambito prospettico che guarda all’erogazione del beneficio collaterale.
L. n. 122 del 2016, art. 12, comma 1, lett. e) ed e-bis), (come novellato, in sequenza, dalla L. n. 167 del 2017, art. 6, comma 1, lett. c) e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 593, lett. b), n. 1.1) e n. 1.2.), il quale disciplina le condizioni per l’accesso all’indennizzo, dispone: “e) che la vittima non abbia percepito, in tale qualità e in conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati, somme di denaro di importo pari o superiore a quello dovuto in base alle disposizioni di cui all’art. 11; e-bis) se la vittima ha già percepito, in tale qualità e in conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati, somme di denaro di importo inferiore a quello dovuto in base alle disposizioni di cui all’art. 11, l’indennizzo di cui alla presente legge è corrisposto esclusivamente per la differenza”.
La prospettiva, come detto, è dal lato del beneficio, che non sarà corrisposto o lo sarà in misura decurtata dell’importo percepito aliunde, mentre nel caso di specie è il risarcimento del danno a dover subire il diffalco in ragione della regola generale innanzi illustrata. Del resto, avendo l’attuale controricorrente percepito in misura piena l’indennizzo, la mancata incidenza dell’aliunde perceptum su quest’ultima posta si giustifica evidentemente in forza dell’essere il primo corresponsione a titolo non definitivo, come non lo era in quel momento la condanna esecutiva al pagamento della somma risarcitoria.
Tuttavia, anche la regola di settore ribadisce non solo valenza e portata della regola generale, ma la stessa certa applicazione al caso di specie in base al riscontro dei due criteri filtranti sopra ricordati.
Non può, infatti, dubitarsi – alla luce delle considerazioni già svolte – che sia il risarcimento del danno da illecito comunitario, che l’indennizzo ex lege trovino la loro comune sequenza determinativa, valutabile in termini di “conseguenza immediata e diretta” (quale locuzione identica che si rinviene nell’art. 1223 c.c. e nel citato art. 12 e, dunque, innescante una verifica in base all’id quod plerumque accidit, secondo la teoria della cd. regolarità causale) dal fatto comune generatore del reato intenzionale e violento commesso in danno della vittima, in quanto indefettibile fulcro intorno al quale si è muove la disciplina della direttiva 2004/80/CE, che ha dato origine all’obbligo dello Stato di darne attuazione.
Così come è evidente la comune funzione omnicomprensiva, compensativa/risarcitoria, svolta da entrambe le poste, ossia di garantire comunque alla vittima del reato intenzionale violento un ristoro per le conseguenze pregiudizievoli, morali e materiali, patite a seguito del crimine, non altrimenti risarcite dal reo.
Del resto, nella specie, l’omologia funzionale è ancor più evidente, essendo il risarcimento del danno da illecito comunitaria (in buona parte) surrogato dell’indennizzo di cui l’avente diritto non ha potuto godere in ragione dell’inadempimento statale agli obblighi sovranazionali.
3.3.3. – L’attuale controricorrente, come detto, ha percepito l’indennizzo nella misura di Euro 25.000,00 in data 17 luglio 2020, a seguito di provvedimento amministrativo assunto il 20 aprile 2020 dal comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso e dei reati intenzionali violenti del Ministero dell’interno, che gestisce il relativo.
Fondo di rotazione sul quale è versata la provvista per i benefici di legge (cfr. documento n. 10 allegato all’ultima memoria difensiva).
Si tratta, dunque, di corresponsione intervenuta nel corso del presente giudizio di legittimità, quale fatto pacifico, che non necessita di alcun accertamento da parte di questa Corte. Di tale fatto sopravvenuto il Collegio può e deve tenere conto ai fini della decisione.
In primo luogo, come da indirizzo consolidato di questa Corte (tra le altre, Cass., 24 settembre 2014, n. 20111), giova rammentare che la compensatio lucri cum damno integra un’eccezione in senso lato, ossia non la prospettazione di un fatto modificativo o impeditivo od estintivo del diritto altrui, ma una mera difesa in ordine all’esatta globale entità del danno effettivamente patito dal danneggiato, entità che resta l’oggetto iniziale della controversia e non è ampliata dalla detta valutazione. Come tale, essa può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice, il quale, per determinarne l’esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio.
Nel caso in esame, però, sia l’esistenza del fatto sopravvenuto, che gli effetti giuridici dello stesso in termini di presupposto per l’applicazione dell’istituto della compensatio sono stati dedotti e discussi dalle parti.
Segnatamente, la controricorrente, con l’ultima memoria (p. 43), ha ammesso, oltre che l’effettiva percezione dell’indennizzo, di non poter: “nega(re) che tra le “componenti” del danno liquidato in via equitativa dalla Corte territoriale sia da annoverarsi il “fattore” costituito dall’indennizzo negato”, sebbene, poi, in sede di discussione orale, nella pubblica udienza del 17 novembre 2020, ha genericamente contestato potersi operare il diffalco.
Parte ricorrente aveva già dedotto in sede di giudizio dinanzi alla Corte di giustizia (p. 26 della sentenza) il riconoscimento dell’indennizzo nella misura di Euro 4.800,00 e, con l’ultima memoria, ha insistito, come già rilevato, sulla valenza addirittura elidente delle ragioni creditorie dell’indennizzo previsto dal D.M. 23 novembre 2019, là dove, poi, in sede di ultima discussione orale, ha evidenziato l’esigenza di contenere il quantum debeatur attraverso lo scomputo dell’indennizzo percepito dalla controricorrente.
Infine, anche il pubblico ministero, in sede di ultima discussione orale, ha argomentato al riguardo, concludendo per la detrazione dell’indennizzo dall’importo risarcitorio liquidato dal giudice di appello.
Sicchè, il contraddittorio sulla questione in esame deve ritenersi adeguatamente spiegato e in guisa tale da non rendere necessaria una interlocuzione delle parti stesse ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 3, in quanto tale norma richiede come presupposto, per l’appunto, un rilievo officioso. In secondo luogo, questa Corte può conoscere del fatto sopravvenuto rappresentato dall’erogazione dell’indennizzo avvenuta in base al provvedimento amministrativo di riconoscimento e ciò facendo applicazione di quell’orientamento di questa Corte, risalente ma non più contraddetto, formatosi in materia di espropriazione per pubblica utilità e, segnatamente, nel caso di azione di risarcimento di danni per occupazione illegittima di un suolo da parte della pubblica amministrazione.
Orientamento in forza del quale si è affermato che l’emanazione sopravvenuta del decreto di espropriazione per pubblica utilità, configurandosi quale fatto estintivo dell’azionato diritto risarcitorio, “costituisce factum superveniens, equiparabile allo jus superveniens, che, per l’osservanza del principio della L. 20 marzo 1865, n. 2248, ex artt. 4 e 5, allegato E, in ordine all’intangibilità dell’atto amministrativo da parte dell’AGO e della sua applicazione ove conforme a legge, può essere utilmente dedotto per la prima volta anche nel corso della discussione orale in sede di legittimità, ove la relativa prova documentale non trova ostacolo nei limiti di ammissibilità ex art. 372 c.p.c.” (Cass., 26 marzo 1980, n. 2010; Cass., 14 maggio 1981, n. 3173; Cass., 17 aprile 1982, n. 2341).
In tal senso, anche l’erogazione del beneficio (indennizzo ex L. n. 122 del 2016), in forza del presupposto provvedimento amministrativo di riconoscimento, ha inciso direttamente ed immediatamente sul diritto soggettivo al risarcimento del danno fatto valere nel giudizio di merito e sull’oggetto dibattuto nel giudizio stesso, operando in via di ridimensionamento del quantum debeatur in applicazione delle norme e dei principi giuridici (generali e di settore) innanzi illustrati.
La sua deducibilità dinanzi a questa Corte va, quindi, ammessa per analogia a quanto si ritiene in punto di applicabilità immediata nel giudizio di cassazione dello ius superveniens, là dove il factum superveniens sia idoneo ad incidere sull’oggetto della causa sottoposta all’esame del giudice, essendo tale – e, quindi, equiparabile allo jus superveniens – allorchè il contenuto della situazione giuridica controversa abbia avuto (come avvenuto anche nel caso di specie) una definitiva modificazione a seguito di provvedimento della pubblica amministrazione.
Di qui, pertanto, anche il superamento dei limiti di prova della documentazione del fatto sopravvenuto rispetto a quanto prevede l’art. 372 c.p.c., non vertendosi in ambito di “atto istruttorio del giudizio di cassazione”, ma sul piano della “conoscenza che il giudice di legittimità può avere sia della norma giuridica sopravvenuta sia del fatto sopravvenuto, equiparabile alla prima nei sensi sopra delineati” (così la citata Cass. n. 2010/1980).
In questa prospettiva appare significativo il rilievo (da ascriversi alla risalente Cass., 17 aprile 1972, n. 1204) secondo cui, a fronte di una situazione mutata “per il sopravvenire di un fatto nuovo nella accezione di nuove circostanze di fatto, la disciplina giuridica di tale immutazione è del tutto analoga a quella che si determinerebbe a seguito della pubblicazione di una disposizione legislativa applicabile alla materia del contendere (ius superveniens). Non si tratta, qui, di porre riparo a una colpevole omissione, ma, fermo restando l’assoluto divieto di attività assertiva di fatti non dedotti nella precedente fase del – giudizio, si deve saggiare se un troppo spinto formalismo impedisca di ottenere nel corso del giudizio di rinvio, in armonia con il fondamentale principio della economia processuale, quello stesso risultato utile che altrimenti sarebbe giocoforza riconoscere aliunde, attraverso il ricorso ad altri istituti processuali, o che addirittura resterebbe definitivamente pregiudicato”. Sebbene tali argomenti la sentenza citata abbia speso in riferimento esclusivo al giudizio di rinvio conseguente alla cassazione (art. 394 c.p.c.), essi – alla luce della successiva giurisprudenza innanzi richiamata e del principio della durata ragionevole del processo ex art. 111 Cost., nel cui più ampio ambito trova garanzia il ricordato canone dell’economia processuale – corroborano ulteriormente il ragionamento giustificativo dell’estensione del principio di equiparabilità del factum superveniens allo jus superveniens anche nel giudizio di cassazione, ove in esso, beninteso, non si ponga questione alcuna di accertamento del fatto medesimo, così da mantenere intatti nella loro natura e funzione i poteri del giudice di legittimità, nonchè struttura e morfologia del giudizio di cassazione.
3.3.4. – Vanno, pertanto, rigettati i primi due motivi di ricorso e accolto, per quanto di ragione e nei termini di cui innanzi, il terzo motivo.
La sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione al motivo accolto e, poichè – essendo pacifico, come detto, il fatto sopravvenuto del pagamento dell’indennizzo – non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Pertanto, dall’importo risarcitorio liquidato dalla Corte territoriale di Euro 50.000,00, oltre interessi legali dalla sentenza di primo grado in data 26 maggio 2010 (alla data della decisione, del 17 novembre 2020, per complessivi Euro 5.022,43) essendo già avvenuta la conversione del credito di valore in valuta – va detratto l’importo di Euro 25.000,00 a titolo di indennizzo ex lege erogato in data 17 luglio 2020, con imputazione dello stesso, ai sensi dell’art. 1194 c.c., dapprima agli interessi medio tempore maturati (Euro 5.017,34) e poi alla somma capitale (nella misura residua di Euro 19.982,66). Ne consegue che la Presidenza del Consiglio dei ministri va condannata al pagamento, in favore dell’attuale controricorrente, della somma di Euro 30.022,43, oltre interessi legali dalla anzidetta data della decisione al saldo.
In forza di una valutazione complessiva dell’esito della lite, deve ritenersi del tutto preponderante la soccombenza della parte attualmente ricorrente (che ha visto accogliere solo residualmente l’impugnazione in questa sede e in ragione del factum superveniens; esito che, per altro verso, elide comunque i presupposti per una condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., commi 1 e 3), ciò comportando che la stessa parte deve sopportare integralmente le spese dell’intero giudizio (comprensivo dell’incidente processuale dinanzi alla CGUE ai sensi dell’art. 234, par. 3, TFUE, in cui gli esborsi trovano giustificazione in forza della documentazione allegata alla memoria da ultimo depositata: doc. da 11.1 a 11.5), come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta i primi due motivi di ricorso e accoglie il terzo motivo nei termini di cui in motivazione;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del Consiglio in carica, al pagamento, in favore della controricorrente, della somma di Euro 30.022,43, oltre interessi legali dal 17 novembre 2020 al saldo;
condanna, inoltre, la Presidenza del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese dell’intero giudizio che liquida: in Euro 2.000,00 per diritti, Euro 6.000,00 per onorari ed Euro 600,00 per esborsi, oltre accessori di legge, per il primo grado; in Euro 1.200,00 per diritti, Euro 7.300,00 per onorari, oltre spese forfettarie ed accessori di legge, per il secondo grado; in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e in Euro 1.171,91, e agli accessori di legge;
dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 e successive modificazioni.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 17 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2020

La costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace con l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c.

Trib. Teramo, Sent., 13 ottobre 2020 – Giud.: Mastro

TRIBUNALE ORDINARIO di TERAMO
SEZIONE CIVILE
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Mariangela Mastro, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. 1764/2012 r.g. e vertente
TRA
N.B. SPA (già B.M.), rappresentata e difesa dall’avv. Pietro Referza;
PARTE ATTRICE
E
M.G.
CONVENUTO CONTUMACE
E
P.P.
CONVENUTA CONTUMACE
E
M.V., rappresentato e difeso dall’avv. Divinangelo D’Alesio;
CONVENUTO
E
P.S. S.r.l. unipersonale e per essa, in qualità di mandataria, I.I. S.P.A., rappresentata e difesa dall’avv. Andrea Fioretti;
INTERVENUTO
Svolgimento del processo
Ai sensi dell’art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c., come modificato dall’art. 45 co. 17 della L. 18 giugno 2009, n. 69, la presente sentenza viene motivata attraverso una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
Con atto di citazione notificato in data 2-4 agosto 2012 la B.M. S.p.A. ha convenuto in giudizio dinanzi all’intestato Tribunale M.G., P.P. e M.V., esponendo quanto segue:
– di essere creditrice di M.G. della somma di Euro 21.926,00 per scoperto di conto corrente n. (…) e per prestito chirografario;
– che il credito era stato accertato nel decreto ingiuntivo n. 408/2012, emesso dal Tribunale di Teramo in data 12 giugno 2012 e notificato il 26 giugno 2012;
– che con atto per Notar R.L., rep. N. (…) del (…), trascritto in data 18 ottobre 2011, reg. gen. N. 15168, reg. part. N. (…), i coniugi G.M. e P.P. avevano costituito un fondo patrimoniale sui seguenti beni, di proprietà esclusiva di G.M.:
1) appartamento ad uso abitazione censito nel Catasto fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…) sub. (…), in via G. B. n. 14, piano 1, int. 2, scala 1, cat. (…), classe (…), vani 7, rendita Euro 777,27;
2) appartamento ad uso abitazione censito nel catasto fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…), sub (…), via G. B. piano 2, z.c. 1 cat. (…) classe (…), vani 7,5, rendita Euro 823,79;
3) appartamento ad uso abitazione censito nel Catasto Fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…), sub (…), via G. B. piano 2-3, interno 5, scala 1, z.c. 2, vani 7, rendita Euro 777,27;
– che, inoltre, con scrittura privata munita di sottoscrizione autenticata dal Notaio S.R., rep. N. (…) racc. n. (…) in data 27 ottobre 2011, trascritta in data 8 novembre 2011, reg. gen. 10527, reg. part. (…), M.G. aveva venduto al fratello M.V. i seguenti beni di sua proprietà:
1) area urbana sita in via N. U., censita in Catasto Fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…), piano terra, area urbana, consistenza mq 200, senza rendita;
2) porzione di fabbricato ad uso civile abitazione censito in Catasto fabbricati del Comune di T. al foglio (…) p.lla (…) sub (…), via G. B., piano 1, z.c. 1, cat. (…), classe (…), vani 1,5, rendita Euro 166,56;
3) fondaco censito in Catasto fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…) sub (…), via G. B., piano S1, z.c. 1, cat. (…), classe (…), consistenza mq 22, rendita 62,49;
Ravvisando parte attrice gli estremi per un’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., è stato introdotto il presente giudizio.
Con comparsa di costituzione e risposta del 30 novembre 2012 si è costituito in giudizio M.V., contestando la domanda attorea e deducendo di non aver avuto mai conoscenza dell’esposizione debitoria del fratello, sicché ha concluso chiedendo il rigetto della domanda, evidenziando l’insussistenza dell’elemento soggettivo della partecipatio fraudis del terzo richiesto dalla legge per la revocatoria degli atti a titolo oneroso successivi al sorgere del credito.
Non si è costituito in giudizio il convenuto M.G., pertanto, all’udienza del 21 dicembre 2012, verificata la regolarità della notifica, ne era dichiarata la contumacia.
Parimenti non si è costituita in giudizio P.P., malgrado l’atto di citazione le sia stato regolarmente notificato, pertanto deve dichiararsene la contumacia.
Così instauratosi il contraddittorio, la causa è stata istruita mediante l’audizione di testimoni; in data 21 giugno 2016 si è costituita in giudizio N.B., subentrata all’originaria attrice B.M., dando atto di aver trasferito il credito oggetto di causa a R.G.C. S.p.A., e di aver ricevuto a sua volta da quest’ultima mandato per la gestione e il recupero dei crediti oggetto di cessione.
In data 18 maggio 2018 si è costituita in giudizio ai sensi dell’art. 111 c.p.c. la società I.I. S.p.A., in qualità di mandataria di P.S. s.r.l., cui R. ha ceduto, unitamente ad altri, il credito in discussione, in data 15 giugno 2017.
In data 8 febbraio 2019 il fascicolo è stato assegnato alla scrivente e, all’udienza del 3 giugno 2020, celebratasi mediante trattazione scritta, la causa è stata assunta in decisione, sulle conclusioni declinate dalle parti, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.
Motivi della decisione
Deve preliminarmente essere dichiarata la contumacia di P.P., non costituitasi in giudizio pur essendo stata regolarmente citata.
La domanda attorea è fondata e come tale deve essere accolta.
1) FONDO PATRIMONIALE COSTITUITO IN DATA 18 OTTOBRE 2011
Con specifico riguardo alla domanda di revocatoria del fondo patrimoniale costituito da M.G. e P.P., valga quanto segue.
Come la Suprema Corte ha avuto modo di affermare (cfr. Cass., 17/01/2007, n. 966), la costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. (cfr. Cass., 07/03/2005 n. 4933; Cass., 02/08/2002, n. 11537, Cass. 21/05/1997, n. 4524; Cass., 02/09/1996, n. 8013; Cass., 18/03/1994, n. 2604 ), azione di per sé volta a tutelare il creditore rispetto agli atti di disposizione del patrimonio posti in essere dal debitore, senza che sia possibile effettuare alcun distinguo circa lo scopo ulteriore da quest’ultimo avuto di mira con il compimento dell’atto dispositivo (a tale stregua considerandosi soggetti all’azione revocatoria anche gli “atti aventi un profondo valore etico e morale”, come ad es. il trasferimento della proprietà di un bene effettuato a seguito della separazione personale per adempiere al proprio obbligo di mantenimento nei confronti dei figli e del coniuge, in favore di quest’ultimo: in tali termini cfr. Cass., 26/07/2005, n. 15603).
La costituzione del fondo patrimoniale prevista dall’articolo 167 c.c., che va ricompresa tra le convenzioni matrimoniali, comporta invero, in presenza di figli minori, un limite di disponibilità di determinati beni, vincolati a soddisfare i bisogni della famiglia (cfr. Cass., 28/11/2002, n. 16864; Cass., 01/10/1999, n. 10859 ).
A tale stregua essa limita l′aggredibilità dei beni conferiti solamente alla ricorrenza di determinate condizioni (art. 170 c.c.), rendendo più incerta, problematica o anche solo più difficile la soddisfazione del credito, conseguentemente riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti (cfr. da ultimo Cass., 15/272007, n. 3470; Cass., 17/1/2007, n. 966; Cass., 15/3/2006, n. 5684), in violazione dell’art. 2740 c.c., che impone al debitore di rispondere con tutti i suoi beni dell’adempimento delle obbligazioni, a prescindere dalla relativa fonte.
Da ultimo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che: “Si deve ritenere ammissibile l’azione revocatoria per fare dichiarare l’inefficacia di un atto di disposizione con il quale si costituisce un fondo patrimoniale rivolto a soddisfare esigenze familiari: il presunto contrasto con le esigenze della famiglia tutelate a livello costituzionale, infatti, va escluso considerando il carattere facoltativo del fondo e la rimessione della sua eventuale costituzione alla libera scelta dei coniugi” (Cass. civ., Sez. III, n. 7250 del 22.03.2013).
Le condizioni per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria consistono nell’esistenza di un valido rapporto di credito tra il creditore che agisce in revocatoria e il debitore disponente; nell’effettività del danno, inteso come lesione della garanzia patrimoniale a seguito del compimento da parte del debitore dell’atto di disposizione; nella ricorrenza, in capo al debitore, ed eventualmente in capo al terzo, della consapevolezza che, con l’atto di disposizione venga a diminuire la consistenza delle garanzie spettanti ai creditori.
In presenza di un atto a titolo gratuito, qual è la costituzione di fondo patrimoniale stante l’assenza di un sinallagma di corrispettività fra i disponenti (cfr. Cass., 08/08/2007, 17448; Cass., 07/07/2007, n. 15310; Cass., 17/01/2007, n. 966; Cass., 23/03/2005, n. 6267; Cass., 20/06/2000, n. 8379), anche quando è posta in essere dagli stessi coniugi (cfr. Cass., 07/03/2005, n. 4933; Cass., 22/01/1999, n. 591; Cass., 18/03/1994, n. 2604; Cass., 15/01/1990, n. 107), giacché essa non può considerarsi integrare l’adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ai fini dell’esperimento della revocatoria ordinaria sono necessarie e sufficienti le condizioni di cui al n. 1 dell’art. 2901 c.c. (cfr. Cass., 17/6/1999, n. 6017).
Nell’ambito della nozione ampia di “credito” ivi accolta, non limitata in termini di certezza, liquidità ed esigibilità, bensì estesa fino a comprendere le legittime ragioni o aspettative di credito coerentemente con la funzione propria dell’azione (la quale non persegue scopi specificamente restitutori bensì mira essenzialmente a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori, inclusi quelli meramente eventuali: cfr. Cass., 29/10/1999, n. 12144; Cass., 24/7/2003, n. 11471 ), è certamente da considerarsi ricompreso il credito vantato da parte attrice in forza della posizione debitoria assunta da M.G. nei confronti della banca, posta a fondamento del D.I. n. 408 del 2012 emesso dal Tribunale di Teramo.
Invero, la Corte di Cassazione ha affermato che: “L’atto di costituzione del fondo patrimoniale, anche quando è posto in essere dagli stessi coniugi, costituisce un atto a titolo gratuito che può essere dichiarato inefficace nei confronti del creditore, qualora ricorrano le condizioni di cui al n. 1 dell’art. 2901 c.c. Nell’ambito della nozione lata di credito accolta dalla norma citata, non limitata in termini di certezza, liquidità ed esigibilità, ma estesa fino a comprendere le legittime ragioni o aspettative di credito – in coerenza con la funzione propria dell’azione revocatoria, la quale non persegue scopi specificamente restitutori, bensì mira a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori – deve considerarsi ricompresa la fideiussione” (Cass. Civ., Sez. III, n. 24757 del 07.10.2008).
Avendo l’azione revocatoria ordinaria la funzione di ricostituzione della garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, e non anche della garanzia specifica, ne consegue che deve ritenersi sussistente l’interesse del creditore, da valutarsi ex ante – e non con riguardo al momento dell’effettiva realizzazione – , a far dichiarare inefficace un atto che renda maggiormente difficile e incerta l’esazione del suo credito, sicché per l’integrazione del profilo oggettivo dell’eventus damni non è necessario che l’atto di disposizione del debitore abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, determinando la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma è sufficiente che abbia determinato o aggravato il pericolo dell’incapienza dei beni del debitore, e cioè il pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante, ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell’eventuale esazione coattiva del credito medesimo.
Ad integrare il pregiudizio alle ragioni del creditore (eventus damni) è a tale stregua sufficiente una variazione sia quantitativa che meramente qualitativa del patrimonio del debitore (cfr. Cass., 18/3/2005, n. 5972; Cass., 27/10/2004, n. 20813; Cass., 29/10/1999, n. 12144 ), e pertanto pure la mera trasformazione di un bene in altro meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, com’è tipico ad es. del danaro (cfr. Cass., 17/01/2007, n. 966), in tal caso determinandosi il pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva (cfr. Cass., 07/07/2007, n. 15310; Cass., 15/27/2007, n. 3470; Cass., 01/06/2000, n. 7262 ).
Il riconoscimento dell’esistenza dell’eventus damni non presuppone peraltro una valutazione sul pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore istante, ma richiede soltanto la dimostrazione da parte di quest’ultimo della pericolosità dell’atto impugnato, in termini di una possibile, quanto eventuale, infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore (cfr. Cass., 09/03/2006, n. 5105).
Non essendo richiesta, a fondamento dell’azione revocatoria ordinaria, la totale compromissione della consistenza patrimoniale del debitore, ma soltanto il compimento di un atto che renda più incerta o difficile la soddisfazione del credito, l’onere di provare l’insussistenza di tale rischio, in ragione di ampie residualità patrimoniali, incombe allora, secondo i principi generali, al convenuto nell’azione di revocazione che eccepisca l’insussistenza, sotto tale profilo, dell’ eventus damni (cfr. Cass., 18/03/2005, n. 5972; 15 Cass., 06/08/2004, n. 15257; Cass., 24/07/2003, n. 11471).
Con riguardo alla vicenda in commento, come già osservato, alcun dubbio sussiste in ordine alla posizione debitoria assunta dal convenuto M.G. nei confronti dell’istituto di credito; quanto all’ eventus damni, pur in assenza di elementi che possano fornire un quadro complessivo della situazione economica dei convenuti, rimasti contumaci, è lecito presumere che l’atto dispositivo di cui trattasi abbia effettivamente comportato un’importante contrazione della garanzia patrimoniale, in ragione della molteplicità e della consistenza dei beni conferiti al fondo, sicché deve senz’altro ritenersi sussistente l’elemento oggettivo dell’eventus damni, così come descritto dalla giurisprudenza innanzi citata. Quanto al requisito soggettivo, quando l’atto di disposizione è anteatto rispetto al sorgere del credito, ai sensi dell’art. 2901, 1 co. n. 1, c.c., è necessaria la dolosa preordinazione dell’atto da parte del debitore al fine di pregiudicarne il soddisfacimento. Diversamente, nel caso in cui l’atto disposizione sia successivo non è invero necessario il dolo specifico, e cioè la consapevole volontà del debitore di pregiudicare le ragioni del creditore.
Non è cioè necessaria la volontà del debitore, alla data della stipulazione dell’atto di disposizione assunto come pregiudizievole, che l’atto dispositivo medesimo venga compiuto al fine di porsi in una situazione di totale o parziale impossidenza, in modo da precludere o rendere difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto (cfr. Cass., 27/2/1985, n. 1716). Deve per converso ritenersi al riguardo sufficiente il dolo generico, sostanziantesi nella mera previsione e volontà del pregiudizio da arrecare ai creditori.
Ad integrare l′ animus nocendi o consilium fraudis previsto dalla norma è da ritenersi invero sufficiente che il debitore compia l’atto dispositivo nella previsione dell’insorgenza del debito e del pregiudizio (come detto da intendersi anche quale mero pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell’esazione coattiva del credito medesimo per il creditore – cfr. Cass., 23/09/2004, n. 19131).
Trattandosi di un atteggiamento soggettivo, tale elemento psicologico va provato dal soggetto che lo allega, e può essere accertato anche mediante il ricorso a presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito, ed è incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione (cfr. in particolare Cass., 21/09/2001, n. 11916).
Ebbene, nel caso di specie deve ritenersi che il credito vantato dalla banca sia anteriore rispetto all’atto di disposizione oggetto di revocatoria.
Invero, sebbene l’atto di costituzione del fondo patrimoniale risulti anteriore rispetto all’emissione del decreto ingiuntivo, al fine di ravvisare l’anteriorità di un atto dispositivo del proprio patrimonio rispetto al credito che si intende tutelare attraverso la proposizione dell’azione revocatoria non può non tenersi conto delle particolarità che derivano dai contratti che hanno determinato la posizione debitoria, che istituiscono rapporti (bancari) di lunga durata, soggetti a modificazioni nel corso del tempo. In particolare, non può non tenersi conto che i rapporti negoziali tra i debitori e l’istituto di credito erano sorti già negli anni precedenti. Ciò porta a ritenere che l’atto dispositivo del patrimonio fosse successivo al sorgere del debito nei confronti della banca.
Tanto premesso, può legittimamente presumersi che il non rilevante spazio di tempo intercorso tra la posizione di sofferenza registrata dal conto corrente aperto da M.G. presso la N.B. (già B.M.) e la costituzione del fondo patrimoniale sia da considerarsi come un elemento significativo ai fini della valutazione della sussistenza di detto elemento psicologico: in altre parole, è inverosimile ipotizzare che il M. non fosse a conoscenza della propria esposizione debitoria nei confronti dell’istituto di credito.
Ne consegue l’accoglimento della spiegata domanda.
2) ATTO DI VENDITA DEL 27 OTTOBRE 2011
È altresì fondata la domanda di revocatoria della vendita mediante la quale M.G. ha venduto alcuni immobili di sua proprietà al fratello M.V., con scrittura privata autenticata del 27 ottobre 2011.
Fermo restando quanto già osservato sinora in merito alla sussistenza, sul piano oggettivo, del credito e dell’eventus damni, e, sul piano soggettivo, del consilium fraudis in capo al debitore, è necessario – trattandosi di atto a titolo oneroso successivo al sorgere del credito – indagare in ordine all’esistenza della c.d. partecipatio fraudis in capo al terzo acquirente, M.V..
La partecipatio fraudis del terzo M.G. ricorre nel caso di specie per i motivi ivi di seguito indicati.
La consapevolezza dell’evento dannoso da parte del terzo contraente consiste nella generica conoscenza del pregiudizio che l’atto posto in essere dal debitore può arrecare alle ragioni dei creditori, non essendo necessaria la collusione tra terzo e debitore; d’altra parte, il requisito della scientia damni può essere provato per presunzioni semplici, massimamente se fondate sulla qualità delle parti del negozio fraudolento e sulla sua tempistica rispetto alla pretesa del creditore (Cass. n. 1068/2007; n. 25016/2008; n. 3676/2011).
Si è già evidenziato come l’atto impugnato sia stato stipulato pochi mesi prima la messa in mora, da parte della banca, del convenuto M.G., il quale evidentemente era a conoscenza della propria esposizione debitoria, facilmente dagli estratti conto emessi dalla banca.
È opportuno sottolineare, inoltre, che M.G. e M.V. sono fratelli germani.
Al riguardo, la Suprema Corte ha chiarito che: “La prova della “participatio fraudis” del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente” (Cass. Civ., Sez. III, n. 5359 del 05.03.2009).
Nel caso di specie, oltre alla sussistenza dello stretto vincolo parentale, occorre considerare che i due fratelli abitano nello stesso stabile, come pacificamente ammesso dallo stesso M.V., di talché è inverosimile ipotizzare che quest’ultimo non fosse a conoscenza delle condizioni finanziarie del fratello.
Del resto, il medesimo M.V. ha affermato, in più occasioni e finanche in sede di scritti conclusivi, che al momento della cessione era a conoscenza della “crisi di liquidità” in cui versava il fratello: deve pertanto ritenersi che il terzo acquirente non poteva ignorare la potenzialità lesiva dell’atto al momento della stipula.
Va pertanto accolta anche la domanda di revocatoria dell’atto di vendita del 27 ottobre 2011.
3) SPESE
All’accoglimento, per le ragioni innanzi esposte, della domanda di parte attrice, consegue, in ragione della soccombenza, la condanna delle convenute, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di lite sostenute dall’attrice e dall’intervenuta, liquidate come da dispositivo secondo il valore della controversia.
Segnatamente, all’attrice (N.B. s.p.a., già B.M.) dovranno essere liquidate le spese processuali relative alle fasi di studio, introduttiva e istruttoria della controversia secondo i parametri medi a tal riguardo, deve osservarsi che non rileva la mancata precisazione delle conclusioni da parte dell’originaria creditrice, poiché secondo consolidata giurisprudenza “nell’ipotesi in cui il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in modo generico, vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate” (cfr., tra le altre, Cass., Sez. 6, Ordinanza n. 22360 del 30/09/2013).
All’intervenuta dovranno invece essere liquidate le spese processuali relative alla sola fase decisionale, secondo i parametri minimi, in ragione della ridotta attività processuale espletata.
P.Q.M.
il Tribunale di Teramo, Sezione Civile, in composizione monocratica in persona del Giudice dott.ssa Mariangela Mastro, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 1764/2012 R.G., disattesa ed assorbita ogni ulteriore istanza, deduzione ed eccezione, così provvede:
1) dichiara la contumacia di P.P.;
2) accoglie la domanda attorea e, per l’effetto,
3) dichiara l’inefficacia, nei confronti di P.S. s.r.l., dell’atto per Notar R.L., rep. N. (…) del (…), trascritto in data 18 ottobre 2011, reg. gen. N. 15168, reg. part. N. (…), con il quale i coniugi G.M. e P.P. hanno costituito fondo patrimoniale sui seguenti beni: 1) appartamento ad uso abitazione censito nel Catasto fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…) sub (…), in via G. B. n. 14, piano 1, int. 2, scala 1, z.c.1, cat. (…), classe (…) vani 7 rendita Euro 777,27; 2) appartamento ad uso abitazione censito nel catasto fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…), sub (…), via G. B. piano 2, z.c. 1 cat. (…) classe (…), vani 7,5, rendita Euro 823,79; 3) appartamento ad uso abitazione censito nel Catasto Fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…), sub (…), via G. B. piano 2-3, interno 5, scala 1, z.c. 2, vani 7 rendita Euro 777,27;
4) dichiara l’inefficacia, nei confronti di P.S. s.r.l., della scrittura privata munita di sottoscrizione autenticata dal Notaio S.R., rep. N. (…) racc. n. (…) in data (…), trascritta in data 8 novembre 2011, reg. gen. 10527, reg. part. (…), con la quale M.G. ha venduto al fratello M.V. i seguenti beni di sua proprietà: 1) area urbana sita in via N. U., censita in Catasto Fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…), piano terra, area urbana, consistenza mq 200, senza rendita; 2) porzione di fabbricato ad uso civile abitazione censito in Catasto fabbricati del Comune di T. al foglio (…) p.lla (…) sub (…), via G. B., piano 1, z.c. 1, cat. (…), classe (…), vani 1,5, rendita Euro 166,56; 3) fondaco censito in Catasto fabbricati del Comune di T. al foglio (…), p.lla (…) sub (…), via G. B., piano S1, z.c. 1, cat. (…), classe (…), consistenza mq 22, rendita 62,49;
5) ordina la trascrizione della presente sentenza presso la Conservatoria dei RR. II. con esonero del Conservatore da ogni responsabilità;
6) condanna i convenuti M.G., P.P. e M.V., in solido tra loro, al pagamento delle spese del presente procedimento in favore dell’attrice N.B. S.p.A. (già B.M. S.p.a.), che liquida in complessivi Euro 3673,00 di cui Euro 458,00 per spese ed Euro 3215,00 per compensi, oltre accessori di legge se dovuti nonché rimborso forfettario delle spese generali nella misura di legge;
7) condanna i convenuti M.G., P.P. e M.V., in solido tra loro, al pagamento delle spese del presente procedimento in favore dell’intervenuta che liquida in complessivi Euro 810,00 per compensi, oltre accessori di legge se dovuti nonché rimborso forfettario delle spese generali nella misura di legge;
Così deciso in Teramo, il 11 ottobre 2020.
Depositata in Cancelleria il 13 ottobre 2020.

L’improcedibilità dell’azione di disconoscimento per decadenza

Trib. Arezzo, Sent., 24 giugno 2020 – Pres. rel. Labella

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Arezzo, Sezione Civile,
riunito in Camera di Consiglio, in persona dei seguenti signori Magistrati:
Dr.ssa Carmela Labella – Presidente rel.
Dr.ssa Lucia Faltoni – Giudice
Dr. Andrea Mattielli – Giudice on.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 2885 /2019 R.G.,
avente ad oggetto: disconoscimento di paternità,
promossa
da
M.A. nato il (…), in G. IN P. (B.) rappresentato e difeso, per delega in atti, dall’avv. STIMOLA CLAUDIA , ed elettivamente dom.to presso il suo studio
PARTE ATTRICE
CONTRO
C.P., nata il (…) , in G. IN P. (B.) elettivamente dom.ta presso l’avv. BIANCHINI SIMONA, che la rappresenta e difende come in atti
PARTE CONVENUTA
E
M.F., nato a M. (A.), il (…), in persona del Curatore Speciale, avv. Cellai Sidonia ( come da provvedimento del Giudice Tutelare del 6.08.2019), elettivamente dom.ta presso l’avv. DONATI ANNA, che lo rappresenta e difende come in atti
PARTE CONVENUTA
Con l’intervento del Procuratore della Repubblica di Arezzo
INTERVENUTO
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto di citazione notificato in data 20 settembre 2019, M.A., proponeva azione di disconoscimento di paternità nei confronti del figlio M.F., nato in data 02.05.2014, e della moglie C.P. assumendo di aver contratto matrimonio con la C. in data 20.01.2007 e che quest’ ultima, madre del minore, aveva omesso di riferire ad esso attore di aver intrattenuto, durante il periodo di concepimento del minore, rapporti intimi con un altro uomo, generando nel proprio compagno la falsa rappresentazione di essere il padre biologico. Chiedeva, pertanto, di accertare e dichiarare che esso attore non era il padre biologico del minore, con ogni conseguenziale ordine all’ ufficiale di stato civile e con vittoria delle spese del giudizio.
Costituendosi in giudizio, C.P. non si opponeva alla domanda di parte attrice.
Con comparsa depositata in data 16 gennaio 2020 si costituita M.F., in persona del Curatore Speciale, avv. Cellai Sidonia, ed esponeva che F.M. era venuto alla luce in data 2.05.2014 e solo ad agosto 2019 il padre aveva depositato istanza per la nomina di un curatore speciale, cui aveva notificato la citazione il 20.09.2019; che, a dire di esso esponente, il novellato art. 244 c.c. prevedeva che il marito poteva disconoscere il figlio entro un anno dalla nascita o, se provava l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, dal giorno in cui ne aveva avuto conoscenza; in ogni caso l’azione non poteva essere mai esercitata oltre cinque anni dalla nascita del minore; che, a dire di esso curatore speciale, la legge si preoccupava di tutelare anche il bambino, i suoi sentimenti e il senso di “appartenenza” che una paternità – seppur adottiva – generava sempre in chi viveva con dei genitori; che, peraltro, il termine quinquennale, che determinava l’improcedibilità dell’azione, era rilevabile d’ufficio, stante consolidata giurisprudenza di legittimità; che, infatti, a dire di esso convenuto “( …) in tema di azione di disconoscimento di paternità, il termine previsto dall’art. 244 cod. civ., di natura decadenziale, afferisce a materia sottratta alla disponibilità delle parti, così che il giudice, a norma dell’art. 2969 cod. civ., deve accertarne “ex officio” il rispetto, dovendo correlativamente l’attore fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, senza neppure che possa spiegare rilievo, in proposito, la circostanza che nessuna delle parti abbia eccepito l’eventuale decorso del termine stesso (…) “(Cass. n. 785/2017). Tutto ciò premesso, chiedeva, in rito, di dichiarare l’improcedibilità della domanda attorea in quanto proposta oltre il termine decadenziale perentorio, di cui all’art. 244, comma quarto, c.c.; nel merito, rigettare la domanda in quanto contraria al prevalente interesse del minore; con vittoria di spese del giudizio.
All’udienza del 21 gennaio 2020, la causa passava in decisione, sulle conclusive richieste dei procuratori delle parti in epigrafe riportate, con la concessione dei termini, ex art. 190 c.c., rimasti sospesi dal 9.03.2020 sino all’ 11 maggio 2020, ex art. 83, comma secondo, D.L. n. 18 del 2020 ed ex art. 36, comma secondo, D.L. n. 23 del 2020, e, dunque, andati definitivamente a scadere in data 15.06.2020.
L’eccezione preliminare di improcedibilità della domanda appare fondata e, pertanto, deve essere accolta.
Ed, infatti, secondo l’insegnamento della Suprema Corte, da cui questo Collegio non ha alcun motivo per discostarsi ( cfr, in tal senso, Cass. Sez. I, sentenza n. 785 del 13/01/2017 ), “(…) In tema di azione di disconoscimento di paternità, il termine, di natura decadenziale, previsto dall’art. 244 c.c. afferisce a materia sottratta alla disponibilità delle parti, così che il giudice, giusta l’art. 2969 c.c., deve accertarne “ex officio” il rispetto, mentre l’attore deve correlativamente fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, senza che alcun rilievo possa spiegare, in proposito, la circostanza che nessuna delle parti abbia eccepito l’eventuale decorso del termine stesso (…)”.
Nel caso in esame è pacifico che il minore F. sia nato in data 02.05.2014 e, del resto, la circostanza risulta anche provata dalla documentazione allegata all’ atto di citazione.
Inoltre, dalla documentazione pure allegata all’atto di citazione emerge che l’atto di citazione è stato notificato ad entrambi i convenuti in data 20.09.2019.
E’ evidente, pertanto, che alla data del 20.09.2019 era oramai decorso il termini di cinque anni di cui all’art. 244, comma quarto, c.c..
Ed, infatti, ai sensi del citato art. 244, comma quarto, c.c. “(…) Nei casi previsti dal primo e dal secondo comma l’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dal giorno della nascita (…)” del minore.
E’ appena il caso di evidenziare che l’eccezione è rilevabile d’ ufficio in quanto la norma mira a tutelare l’interesse del minore, la cui tutela è centrale anche nell’ azione di disconoscimento della paternità, atteso che la ricerca della verità biologica non ha preminenza assoluta, in quanto, in un’ ottica di bilanciamento, devono garantirsi anche la certezza e la stabilità degli status, nonché dei rapporti affettivi sviluppatisi all’interno della famiglia e l’identità così acquisita dal figlio, non necessariamente correlata al dato genetico.
Non resta, pertanto, che dichiarare l’improcedibilità dell’azione di disconoscimento in parola per intervenuta decadenza, ex art. 244, comma quarto c.c..
Ogni altra richiesta e/o questione resta assorbita nella presente decisione.
La natura della controversia ed il non essere entrati nel merito della causa – per aver accolto l’eccezione preliminare – giustifica l’integrale compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da M.A., con atto di citazione notificato in data 20.09.2019, nei confronti di C.P. e M.F. in persona del Curatore Speciale, avv. Cellai Sidonia, preso atto delle conclusioni del P.M., così provvede:
dichiara l’improcedibilità dell’azione di disconoscimento di paternità per intervenuta decadenza, ex art. 244, comma quarto c.c.;
ogni altra richiesta e/o questione resta assorbita nella presente decisione.
compensa integralmente le spese processuali.
Così deciso in Arezzo, il 23 giugno 2020.
Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2020.

Interesse del figlio ad accedere alle informazioni sulla maternità in confronto al diritto della madre all’anonimato.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 30 gennaio – 22 settembre 2020, n. 19824
Presidente Valitutti – Relatore Fidanzia
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 28 luglio 2017 la Corte d’Appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto –
rigettando l’appello proposto da V.A.M.G. , ha confermato la sentenza del 19 maggio 2014 con cui il
Tribunale di Taranto ha giudizialmente accertato che M.A. era figlio di V.C. .
La Corte d’Appello ha condiviso l’impostazione del giudice di primo grado secondo cui le prove raccolte
(consulenza immunogenetica, deposizioni di testi non legati da vincoli di parentela e/o affinità, verbale di
testamento olografo) integrano plurimi indizi gravi, precisi e concordanti nell’unico senso che M.A. è figlio
di V.C. .
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione V.A.M.G. affidandolo a due motivi.
M.A. si è costituito in giudizio con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo V.A.M.G. ha dedotto la violazione e falsa applicazione del R.D. 8 maggio 1927, n.
798, art. 9, artt. 190 e 191 c.c. del Regno d’Italia, D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, art. 269 c.c., D.Lgs. n.
196 del 2003, art. 93, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamenta la ricorrente che nel bilanciamento dei contrapposti interessi del figlio di accedere alle
informazioni sulle proprie radici e della madre all’anonimato, deve attribuirsi prevalenza al secondo ove la
scelta iniziale dell’anonimato non sia stata revocata.
Peraltro, nell’ipotesi in cui la madre sia morta e non abbia mai revocato la scelta dell’anonimato, il diritto
del figlio di conoscere le generalità della madre non può più essere esercitato, anche perché il legislatore
ha fissato in cento anni il termine per l’accesso ai dati.
Ne consegue l’inammissibilità della domanda proposta dal sig. M. .
2. Il primo motivo non è fondato.
Va preliminarmente osservato che il diritto della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto –
invocato, nel caso di specie, dalla ricorrente per impedire l’accertamento giudiziale della maternità nei
confronti della propria madre premorta – trova il proprio riconoscimento nel nostro ordinamento in una
pluralità di norme che, integrandosi tra loro, ne consentono la tutela nel modo più ampio:
– il D.P.R. 3 novembre 2000, art. 30, comma 1, secondo cui “la dichiarazione di nascita è resa da uno dei
genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha
assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”;
– il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 1 (codice in materia di dati personali), secondo cui “il
certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono
identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui al
D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi
abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”;
– La L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, secondo cui “L’accesso alle informazioni non è
consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno
solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso
all’adozione a condizione di rimanere anonimo”;
– l’allegato del D.M. 16 luglio 2001, n. 349, prescrive in caso di donna che vuole partorire in anonimato
(figlio non riconosciuto o di filiazione ignota) che si deve indicare il codice 999 per “Donna che non vuole
essere nominata”.
Il diritto della madre all’anonimato è stato oggetto anche di un intervento della Consulta, che nella
sentenza n. 278/2013, nel riconoscerne il fondamento costituzionale, ha evidenziato che riposa
sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea
gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per
la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché
la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili. La salvaguardia della vita e della salute sono,
dunque, i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di
favorire, per se stessa, la genitorialità naturale.
Se è pur vero che nella stessa sentenza sopra citata la Corte Costituzionale ha cercato di conciliare
l’esigenza di riservatezza della identità della madre con il diritto del figlio a conoscere le proprie origini
(riconosciuto dall’art. 8 CEDU per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del 25
settembre 2012, Godelli contro Italia), giungendo a dichiarare costituzionalmente illegittimo la L. n. 184
del 1983, art. 28 comma 7, come sostituito dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, comma 2, nella parte in
cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza –
la possibilità per il giudice di interpellare la madre (che ha dichiarato di non voler essere nominata) su
richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione, tuttavia, tale statuizione non ha
affatto inteso comprimere in alcun modo la pienezza del diritto all’anonimato riconosciuto alla madre. È
stata, infatti, da un lato, contemplata la possibilità di revoca di tale scelta solo se ciò corrisponde alla
reale volontà della stessa genitrice, e, dall’altro, è stato correttamente rilevato che la previsione della
irreversibilità della scelta può non corrispondere affatto all’effettivo interesse della stessa madre,
venendosi sostanzialmente ad “espropriare” la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione,
“trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio”.
Nell’esame degli interessi che vengono in considerazione nel presente procedimento, non secondario
rilievo deve, d’altra parte, attribuirsi anche al diritto (nel caso di specie rivendicato dal controricorrente)
all’accertamento dello status filiationis.
In particolare, questa Corte ha già statuito (vedi Cass. n. 24292/2016; conf. Cass. n. 11887/2015, Cass.
n. 4020/2017) che “il diritto del figlio ad uno “status” filiale corrispondente alla verità biologica costituisce
una delle componenti più rilevanti del diritto all’identità personale che accompagna senza soluzione di
continuità la vita individuale e relazionale non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi.
L’incertezza su tale “status” può determinare una condizione di disagio ed un “vulnus” allo sviluppo
adeguato ed alla formazione della personalità riferibile ad ogni stadio della vita. La sfera all’interno della
quale si colloca il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente a verità attiene al nucleo dei
diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost. e art. 8 CEDU) intesi nella dimensione individuale e
relazionale”. Con tali articolate e condivisibili argomentazioni questa Corte ha ritenuto manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., sollevata in quel giudizio dalla parte
ricorrente, che aveva lamentato che la previsione di imprescrittibilità dell’azione di accertamento
giudiziale della paternità o maternità, escluderebbe qualsiasi possibilità di valutazione da parte del giudice
della domanda di dichiarazione giudiziale nei casi in cui l’azione sia proposta con notevole ritardo (in
quella fattispecie circa quaranta anni), con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità
dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, imponendogli a distanza di molto tempo un
accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessato avrebbe potuto richiedere prima.
In realtà, proprio la previsione della imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale sia della
maternità che della paternità – unitamente a quella che la prova può essere data con ogni mezzo, a
norma dell’art. 269 c.c., comma 2 – dimostra come il legislatore abbia inteso assicurare una piena tutela
a tale diritto, riconoscendo l’interesse all’accertamento dello status di filiazione corrispondente alla verità
biologica, in quanto componente essenziale del diritto all’identità personale, in ogni momento della vita di
una persona e quindi anche in età adulta.
Deve, tuttavia, osservarsi che, ad avviso di questa Collegio, nel bilanciamento dei valori di rango
costituzionale che si impone all’interprete, al cospetto del diritto al riconoscimento dello status di
filiazione, quello della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto si ponga comunque in
posizione preminente. Quest’ultimo diritto, infatti, come sopra già evidenziato, è finalizzato a tutelare i
beni supremi della salute e della vita, oltre che del nascituro, della madre, la quale potrebbe essere
indotta a scelte di natura diversa, fonte di possibile forte rischio per entrambi, ove, nel momento di
estrema fragilità che caratterizza il parto, la donna che opta per l’anonimato avesse solo il dubbio di poter
essere esposta, in seguito, ad un’azione di accertamento giudiziale della maternità.
Dunque, in tale prospettiva e per garantire ampia tutela alla donna che compie tale difficile scelta, il
diritto all’anonimato non può essere in alcun modo sacrificato o compresso per tutta la durata della vita
della madre.
Tale regola può essere, al limite, derogata (consentendo quindi l’esercizio dell’accertamento giudiziale
della maternità) solo ove fosse stata proprio la madre – come, peraltro, è accaduto nel caso che forma
oggetto del presente procedimento – con la propria inequivocabile condotta, ad aver manifestato la
volontà di revocare nei fatti la scelta, a suo tempo presa, di rinuncia alla genitorialità giuridica,
accogliendo nella propria casa il bambino come un figlio.
Tuttavia, al di fuori del caso limite sopra enunciato, la tutela del diritto all’anonimato della madre, per
tutta la durata della vita della stessa, deve essere, come detto, massima.
A diverse conclusioni si deve, invece, addivenire con riferimento al periodo successivo alla morte della
madre, in relazione al quale il diritto all’anonimato in oggetto è suscettibile di essere compresso, o
indebolito, in considerazione della necessità di fornire piena tutela – a questo punto – al diritto
all’accertamento dello status di filiazione.
È pur vero che questa Corte, con la sentenza n. 22838/2016, ha espressamente affermato che ogni
profilo di tutela dell’anonimato non si esaurisce con la morte della madre, non dovendosi escludere la
protezione dell’identità “sociale” costruita in vita da quest’ultima, in relazione al nucleo familiare e/o
relazionale eventualmente costituito dopo aver esercitato il diritto all’anonimato (e proprio in relazione a
tale esigenza è stato statuito che il trattamento delle informazioni relative alle origine del figlio deve
essere circondato da analoghe cautele e in modo corretto e lecito, senza cagionare danno anche non
patrimoniale all’immagine, alla reputazione, e ad altri beni di primari rilievo costituzionale di eventuali
terzi interessati, come discendenti e/o familiari).
Tuttavia, non vi è dubbio che, in relazione a quanto sopra illustrato con riferimento all’ampiezza del
diritto all’accertamento dello status di figlio naturale, nel bilanciamento dei valori di rango costituzionale
che si impone all’interprete per il periodo successivo alla morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti
degli eredi e discendenti della donna che ha optato per l’anonimato non può che essere recessiva rispetto
a quella del figlio che rivendica il proprio status.
In conclusione, venendo meno per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita
ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell’anonimato, non vi sono più elementi ostativi
non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione (come affermato da Cass. 15024/2016 e Cass.
22838/2016), ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio
naturale, ex art. 269 c.c..
Tale soluzione si impone anche per una lettura costituzionalmente orientata della norma sopra citata –
alla luce degli artt. 2 e 30 Cost., ma anche art. 24 Cost. – oltre che internazionalmente orientata (art. 117
Cost.). In proposito, l’art. 8 CEDU, nella lettura datane dalla Corte EDU (Corte EDU, 22/09/2012, Godelli
c. Italia, Corte EDU, 13/02/2003, Odievre c. Francia), tende essenzialmente a premunire l’individuo
contro ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non contentandosi di ordinare allo Stato di astenersi da
simili ingerenze, ma aggiungendovi obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata; tra
questi non può non rientrare il diritto a proporre le azioni che lo stesso ordinamento nazionale offre per il
riconoscimento dello status di figlio naturale di una persona.
Ne consegue che, nel caso di specie, l’azione di accertamento giudiziale della maternità proposta da M.A.
dopo il decesso della madre è pienamente ammissibile per due ordini di ragioni:
– è stata proposta dopo che il diritto della madre premorta a mantenere l’anonimato si era, per le ragioni
sopra illustrate, indebolito;
– in ogni caso, è stata proposta per ottenere l’accertamento della maternità nei confronti di una donna
che aveva dimostrato nei fatti – come sarà evidenziato nell’ulteriore corso della trattazione – di aver
superato essa stessa l’originaria scelta dell’anonimato, trattando l’odierno controricorrente come uno dei
suoi figli.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.c., comma 3, in
relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamenta la ricorrente che le circostanze di fatto in base alle quali la Corte d’Appello ha accertato il
rapporto di filiazione per cui è procedimento sono del tutto diverse rispetto a quelle normativamente
richieste, che presuppongono l’accertamento della identità di colui che si pretende essere il figlio e di colui
che fu partorito dalla donna che si assume essere madre.
In particolare, i giudici di merito non hanno accertato lo stato di gravidanza di colei che si sostiene essere
madre nei mesi che precedettero la nascita del sig. M. , nè che V.C. abbia partorito un figlio nel gennaio
1934.
In mancanza di tali imprescindibili accertamenti, la prova specifica della maternità non è stata conseguita
dal richiedente, avendo la Corte d’Appello fondato la decisione su semplici indizi e non su una prova.
4. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che è costante orientamento di questa Corte che, in tema di mezzi utilizzabili per provare la
paternità naturale – analogo ragionamento vale per la maternità naturale – l’art. 269 c.c., ammette anche
il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell’”id quod
plerumque accidit”, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e
rigorosa della paternità, sicché risultano utilizzabili, raccordando tra loro le relative circostanze indiziarie,
sia l’accertato comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona a cui favore
si chiede la dichiarazione di paternità (cd. “tractatus”), sia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle
relazioni sociali (cd. “fama”), sia, infine, le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su
campioni biologici di stretti parenti (nella specie, madre e fratello) del preteso genitore. (Cass. n.
1279/2014).
Inoltre, il principio della libertà di prova, sancito dal citato art. 269 c.c., comma 2 – e riferibile anche alla
maternità naturale – non tollera surrettizie limitazioni, nè mediante la fissazione di una sorta di gerarchia
assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, nè,
conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di merito di una sorta di “ordine cronologico” nella
loro ammissione ed assunzione, a seconda del “tipo” di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi
di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge (Cass. 6694/2006; Cass. 14976/2007;
Cass. 12971/2012; Cass. 3479/2016).
I giudici di merito hanno fatto buon uso di tali principi, accertando il rapporto di filiazione del sig. M. con
la sig.ra V. all’esito della valutazione di un complesso di circostanze, quali la consulenza immunogenetica,
che ha concluso per un sicuro rapporto di parentela biologica tra i due, nonché le deposizioni di testi non
legati da vincoli di parentela e/o affinità (ad eccezione di uno) con il richiedente, da cui sono emersi sia il
“tractatus”, ovvero che sin dalla tenera infanzia il M. era stato trattato dalla V. come uno dei suoi figli
(che lo aveva accolto nella propria casa), sia la “fama”, essendo opinione comune in paese che il M. fosse
figlio della V. , tanto è vero che alla morte di Vi.Ci. , figlio di V.C. , fu chiamato dai Carabinieri lo stesso
M. per il riconoscimento del cadavere, essendo ritenuto dalla comunità “fratello” del defunto.
Non vi è dubbio che le censure della ricorrente – che vuole circoscrivere le circostanze di fatto in base alle
quali valutare il rapporto di filiazione a quelle strettamente inerenti alla fase dello stato di gravidanza ed
alla nascita – si pongano in netto contrasto con l’art. 269 c.c., comma 2, che consente di provare la
maternità con ogni mezzo, oltre ad essere inammissibili, in quanto di merito, essendo finalizzate a
sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito e ad accreditare una
diversa ricostruzione della vicenda processuale.
Il rigetto del ricorso non comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali,
sussistendo, in ragione della novità delle questioni trattate, giusti motivi per una compensazione integrale
delle spese di lite.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Compensa tra le parti le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte
del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso
principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
“Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento
dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a)”.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

ICI. Per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente e i suoi familiari dimorano abitualmente

Cass. civ., Sez. V, Sent., 4 novembre 2020, n. 24538 – Pres. Chindemi, Cons. Rel. Cirese

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –
Dott. CIRESE Marina – rel. Consigliere –
Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 7685-2018 proposto da:
S.M.A.G., con domicilio eletto in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato difeso dall’Avvocato FABIO PACE, giusta procura a margine;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI MARCIANA MARINA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA GIULIA DI GALLESE 6, presso lo studio dell’avvocato FILADELFO DE MARCO, rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLA BRUGIONI, giusta procura in calce;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 244/2018 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di LIVORNO, depositata il 08/02/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/02/2020 dal Consigliere Dott. MARINA CIRESE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SALZANO FRANCESCO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avvocato SANTORI per delega dell’Avvocato PACE che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito per il controricorrente l’Avvocato IARIA per delega dell’Avvocato BRUGIONI che si riporta agli scritti.
Svolgimento del processo
S.M.A.G. impugnava l’avviso di accertamento ICI emesso per il 2011 dal Comune di Marciana Marina in relazione ad un immobile sito nel medesimo comune di sua proprietà ed in cui egli aveva la residenza per omesso versamento di 1.232 Euro in ragione del mancato riconoscimento delle agevolazioni tributarie per l’abitazione principale, in quanto risultava che la moglie, non separata, del medesimo risiedeva anagraficamente a Milano con le figlie.
La Commissione Tributaria Provinciale di Livorno accoglieva il ricorso del contribuente.
Proposto appello avverso detta pronuncia da parte del Comune, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana con sentenza in data 8 febbraio 2018 accoglieva il gravame, ritenendo che il D.L. n. 504 del 1992, art. 8 stabilisce che ai fini della spettanza delle agevolazioni ICI vi debba essere non solo la dimora abituale del contribuente ma anche quella dei suoi familiari, tranne il caso di separazione e divorzio legalmente comprovate, non anche con dichiarazioni di terzi, prive di efficacia probatoria nel contenzioso tributario.
Avverso detta sentenza il contribuente proponeva ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi; il Comune di Marciana Marina si costituiva con controricorso chiedendone il rigetto.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso rubricato “Violazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 dell’art. 112 c.p.c. per avere fondato la decisione circa la spettanza dell’agevolazione sull’accertamento della asserita non coincidenza della dimora abituale del contribuente con la residenza anagrafica, circostanza questa non oggetto di contestazione in sede di avviso di accertamento” parte ricorrente deduceva la illegittimità della sentenza impugnata che si fonda su presupposti non oggetto della domanda introduttiva del giudizio cristallizzata nell’avviso di accertamento.
2. Con il secondo motivo di ricorso rubricato “Violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 per avere confermato la legittimità dell’avviso di accertamento sulla base di presupposti fattuali e giuridici non contenuti nella motivazione dell’avviso di accertamento medesimo” parte ricorrente deduceva la illegittimità della sentenza impugnata per avere escluso la agevolazione ICI sulla base di elementi in fatto ed in diritto non recati dalla motivazione dell’avviso di accertamento.
3. Con il terzo motivo di ricorso rubricato “Violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, artt. 2697 e 2729 c.c., artt. 115 e 167 c.p.c., per avere ritenuto che le dichiarazioni di terzi dedotte in atti, aventi secondo la Cassazione valore indiziario, non siano idonee, sole o unitamente ad altri elementi di prova, a provare la frattura del rapporto familiare” parte ricorrente deduceva l’illegittimità della sentenza impugnata per avere fatto non corretta applicazione delle norme che disciplinano le prove nel processo tributario essendo state acquisite n. 21 dichiarazioni di terzi che attestano la frattura del rapporto coniugale da valutarsi autonomamente o unitamente agli ulteriori elementi dedotti in atti.
4. Con il quarto motivo d’impugnazione, rubricato “Violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 8, comma 2, e art. 144 c.c. per non aver riconosciuto la spettanza dell’agevolazione ICI in presenza della prova agli atti della frattura del rapporto di convivenza” il ricorrente deduceva lì illegittimità della sentenza impugnata per avere disconosciuto l’esenzione in ragione della diversa residenza degli appartenenti al nucleo familiare.
5. Con il quinto motivo di ricorso, rubricato “Violazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, degli artt. 111, 112, 131 e 132 c.p.c. per avere la sentenza della CTR omesso di pronunciarsi sul motivo di appello afferente la violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7 per omessa motivazione del provvedimento sanzionatorio” il ricorrente deduceva che sentenza della CTR aveva omesso di pronunciarsi sul motivo di appello afferente la violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7 per omessa motivazione del provvedimento sanzionatorio.
Va esaminato preliminarmente il quarto motivo di ricorso.
La questione sottoposta all’esame della Corte riguarda la spettanza o meno delle agevolazioni tributarie previste a titolo di ICI per l’abitazione principale in un caso in cui l’immobile costituisca la dimora abituale di un solo coniuge mentre l’altro, nella specie, la moglie, si sia trasferito in un’altra abitazione, sita in diverso comune, insieme ai figli.
A sostegno della richiesta di esenzione l’odierno ricorrente, sin dal giudizio di primo grado, assumeva di essere nell’annualità in contestazione (2011) separato di fatto dalla moglie, situazione comprovata dal fatto che successivamente era intervenuta la separazione legale tra i coniugi.
Il Comune di Marciana Marina, invece, poneva a base dell’avviso di accertamento il dettato del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 8, comma 2 che circoscrive la definizione di abitazione principale a quella dove risiede l’intero nucleo familiare cosicchè nella specie il contribuente avrebbe illegittimamente fruito dell’agevolazione in quanto presso l’immobile non dimorava l’intero nucleo familiare.
Così sinteticamente descritta la fattispecie per cui è processo, occorre premettere che in tema di agevolazioni fiscali a titolo di ICI, il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 8 prevede un beneficio fiscale in relazione all’unità immobiliare adibita ad abitazione principale dal soggetto passivo dell’imposta.
L’art. 8, comma 2, D.Lgs. citato chiarisce che “per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietai, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente”. Secondo la giurisprudenza di legittimità ai fini della spettanza della detrazione e dell’applicazione dell’aliquota ridotta prevista per le “abitazioni principali”, un’unità immobiliare può essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisca la dimora abituale non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione nell’ipotesi in cui tale requisito sia riscontrabile solo nel ricorrente ed invece difetti nei familiari (Cass., sez. 6-5, 21/06/2017, n. 15444, Rv. 645041 -01; Cass., sez. 5, 15/06/2010, n. 14389, Rv. 613715 – 01).
Trattandosi peraltro di norma agevolativa fiscale, è norma di stretta interpretazione e quindi non estensibile ai casi non espressamente previsti in quanto costituisce comunque deroga al principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost..
Con riguardo al concetto di “abitazione principale” considerato dalla norma, va altresì considerato che la giurisprudenza di legittimità (vedi Cass. Sez. 5 n. 14389/2010 in motivazione) ha richiamato quello tradizionale di “residenza della famiglia” desumibile dall’art. 144 c.c., comma 1, ritenendo così legittima l’applicazione al primo dell’elaborazione giurisprudenziale propria della norma codicistica, in particolare del principio per il quale per “residenza della famiglia” deve intendersi il “luogo” di “ubicazione della casa coniugale” perchè questo luogo “individua presuntivamente la residenza di tutti i componenti della famiglia”, “salvo che” “tale presunzione sia superata dalla prova” che lo spostamento… della propria dimora abituale sia stata causata dal “verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza”.
Pertanto occorre distinguere l’ipotesi in cui due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, da quella, in cui risulti accertato che il trasferimento della dimora abituale di uno dei coniugi sia avvenuto “per la frattura del rapporto di convivenza, cioè di una situazione di fatto consistente nella inconciliabilità della prosecuzione della convivenza, sotto lo stesso tetto, delle persone legate dal rapporto coniugale, con conseguente superamento della presunzione di coincidenza tra casa coniugale e abitazione principale” (per la differenziazione di tali ipotesi vedi Cass., sez. 6-5, 17/5/2018, n. 12050).
Nel primo caso, infatti, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed automa rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l’abitazione principale” ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della “abitazione principale” del suo nucleo familiare.
Ciò per impedire che la fittizia assunzione della dimora o della residenza in altro luogo da parte di uno dei coniugi crei la possibilità per il medesimo nucleo familiare di godere due volte dei benefici per la abitazione principale. Nel secondo caso, invece, la frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi, intesa quale separazione di fatto, comporta una disgregazione del nucleo familiare e, conseguentemente, l’abitazione principale” non potrà essere più identificata con la casa coniugale (vedi da ultimo Cass., Sez. 5, n. 15439/19). Pertanto, alla luce dei principi fin qui esposti, ha errato la CTR nel ritenere tout court esclusa l’agevolazione ICI per il solo fatto che i due coniugi vivessero in due abitazioni diverse, considerato peraltro che l’odierno ricorrente risultava residente presso l’immobile de quo (vedi certificato allegato al ricorso) e che l’altro coniuge non aveva beneficiato di tale agevolazione (avendo provveduto al pagamento dell’Ici il proprietario dell’immobile concesso in comodato alla L.).
Del pari fondato è il terzo motivo di ricorso.
Ed invero, una volta ritenuto che al fine di stabilire la spettanza o meno delle agevolazioni ICI per l’abitazione principale sia necessario accertare per quali ragioni i coniugi non dimorassero entrambi presso l’immobile de quo, ovvero se si verta o meno in una ipotesi di separazione di fatto, la sentenza impugnata ha errato nel ritenere che non possano essere valutate al fine di fornire la prova di tali circostanze le dichiarazioni di terzi, ritenute dalla CTR “.. prive di efficacia probatoria nel contenzioso tributario..”.
A riguardo va premesso che nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 si riferisce alla prova da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento che, proprio perchè assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (vedi Cass., Sez. 6-5, n. 29757/2018).
Tali dichiarazioni hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c., danno luogo a presunzioni. In questo ambito, al fine di evitare che l’ammissibilità di tali dichiarazioni possa pregiudicare la difesa del contribuente ed il principio di uguaglianza delle parti, è necessario riconoscere che, al pari dell’Amministrazione finanziaria, anche il contribuente possa introdurre nel giudizio innanzi alle Commissioni Tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale per far valere le proprie ragioni.
Tali dichiarazioni possono essere introdotte nel giudizio tributario avendo le stesse valenza indiziaria in proprio favore, in conformità ai principi del giusto processo ex art. 6 CEDU (vedi da ultimo Cass., Sez. 6-5, n. 6616/2018; Cass. Sez.6- 5, n. 21153/2015).
La CTR, quindi, ha fatto malgoverno dei principi fin qui enunciati in tema di valenza delle prove nel giudizio tributario, per non aver valutato le dichiarazioni di terzi, unitamente altri elementi di prova dedotti in atti, al fine di stabilire la sussistenza o meno nella specie di una frattura del rapporto di convivenza dei coniugi.
I restanti motivi di ricorso sono assorbiti.
In conclusione, in accoglimento dei motivi 3 e 4 del ricorso, assorbiti gli altri, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR della Toscana, in diversa composizione, affinchè valuti le prove versate in atti alla luce dei principi dianzi enunciati.
Alla stessa demanda altresì la regolamentazione delle spese di lite.
P.Q.M.
in accoglimento dei motivi nn. 3 e 4 del ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Toscana, in diversa composizione, cui rinvia anche per la disciplina delle spese di lite.
Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente del Collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020

Condannato il marito per insulti quotidiani alla moglie

Cass. Pen., Sez. IV, Sent., 03 dicembre 2020, n. 34351

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente –
Dott. NARDIN Maura – rel. Consigliere –
Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere –
Dott. RANALDI Alessandro – Consigliere –
Dott. TANGA Antonio Leonardo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 06/03/2019 della CORTE APPELLO di BOLOGNA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MAURA NARDI;
letta la requisitoria del Procuratore generale in persona del Sostituto Procuratore LUCA TAMPIERI;
che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 6 marzo 2019 la Corte di Appello di Bologna, in sede di giudizio di rinvio, ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Bologna con cui C.G. era stato dichiarato responsabile del reato di cui all’art. 572 c.p., per avere sottoposto la moglie S.H. e la figlia minore A.M. a continue vessazioni percosse e violenze, nonchè del reato di cui all’art. 609 bis c.p., comma 1, per avere costretto la moglie a subire atti sessuali contro la sua volontà, assolvendo il medesimo dal reato di cui all’art. 572 c.p. nei confronti della figlia e riconoscendo l’attenuante di cui all’art. 609 bis, u.c., per il reato di violenza sessuale nei confronti della moglie.
2. La Corte di Cassazione con sentenza n. 31426 del 13 aprile 2018, in sede rescindente, aveva annullato la sentenza della Corte di Appello di Bologna in data 20 aprile 2017, che confermava la sentenza di condanna del Tribunale di Bologna con cui C.G. era stato condannato per i reati di cui all’art. 609 bis c.p., comma 1 e art. 572 c.p. limitatamente alla condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia, per difetto di motivazione in ordine circa la ripetività ed ossessività degli atti, necessaria ai fini della sussistenza del delitto, nonchè alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., u.c. non essendo il diniego sorretto da valida valutazione circa i mezzi, le modalità esecutive e di coartamento della persona offesa.
3. Avverso la sentenza resa in sede rescissoria propone ricorso, a mezzo del suo difensore, C.G. affidandolo ad un unico articolato motivo.
4. Con la doglianza fa valere il vizio di motivazione, sotto il profilo della contraddittorietà e dell’illogicità in ordine all’omessa valutazione di una prova decisiva al fine della valutazione della credibilità della persona offesa. Rileva che la Corte territoriale è incorsa in errore avendo ritenuto che con la sentenza di annullamento fosse stato richiesto al giudice del rinvio di limitarsi a valutare l’abitualità degli atti di maltrattamento, mentre il mandato affidato dalla Corte di cassazione doveva ritenersi relativo all’accertamento della sussistenza degli atti vessatori, ciò implicando una valutazione sostanziale della credibilità della persona offesa. Osserva che seppure la Corte territoriale abbia premesso di non dover provvedere al vaglio delle dichiarazioni di S.H., in realtà le ha analizzate, ritenendole pienamente affidabili, senza tuttavia occuparsi di riconsiderare tutto il materiale probatorio a disposizione. In particolare, il giudice di seconda cura ha omesso di esaminare le dichiarazioni rese da S.H. alla polizia giudiziaria in data 22 settembre 2013, trasfuse nella relazione di servizio acquisita dal giudice di prima cura, pur a fronte delle plurime sollecitazioni della difesa in questo senso. Assume che siffatte dichiarazioni, per il momento storico nel quale sono intervenute, si dimostrano di assoluta rilevanza. Invero, la relazione di servizio riporta che il 22 settembre 2013 gli operanti di una volante della Polizia di Stato, intervennero presso l’abitazione del nucleo familiare, a seguito della segnalazione da parte di S.H. di atti di maltrattamenti da parte dell’imputato nei confronti della figlia, accusa dalla quale C. è stato assolto dalla sentenza impugnata. Osserva che l’episodio si colloca a ridosso delle condotte vessatorie assertivamente realizzatesi nei confronti della moglie nel periodo giugno-luglio 2013, oggetto della contestazione di questo processo. Rileva che la persona offesa sentita dagli operanti che avevano constatato dallo S.D.I. la presenza di denunce per violenza sessuale e maltrattamenti di famiglia relative all’anno 2012, formulate da S.H., aveva dichiarato che dopo quegli episodi, – che pure l’avevano indotta a lasciare l’abitazione rifugiandosi dal fratello per un mese – il marito non aveva più reiterato le condotte denunciate nei suoi confronti. Le dichiarazioni spontaneamente rese in quell’occasione, in un ambiente scevro da condizionamenti, divergono da quelle rese successivamente nel corso del procedimento. Nondimeno, nè siffatta dichiarazione, nè quella resa avanti al Tribunale dei minorenni di Bologna – con cui S.H. ribadiva l’assenza di atti di violenza verbale o fisica, dichiarando di avere “un pò esagerato” – è stata coerentemente giudicata dai giudici di merito ai fini della valutazione di credibilità della persona offesa. La Corte territoriale, infatti, si è limitata a considerare quanto affermato in sede di giudizio minorile sull’allontanamento del padre dalla casa familiare alla cui cura era affidata la figlia come un tentativo della madre di tenere unita la famiglia, laddove un vaglio complessivo delle plurime dichiarazioni della persona offesa avrebbe consentito una migliore rappresentazione del reale svolgimento dei fatti, inducendo necessariamente una diversa valutazione dell’affidabilità di S.H.. L’omessa considerazione di quanto affermato dalla medesima il 22 settembre 2013, dunque, mina gravemente l’impianto argomentativo della sentenza impugnata e ne impone l’annullamento.
5. Con requisitoria scritta, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il motivo è manifestamente infondato.
2. Come correttamente ritenuto dal giudice del rinvio, il mandato del giudice di legittimità, in sede rescindente, non era affatto quello di procedere ad una nuova valutazione della credibilità della persona offesa, bensì quello di valutare se le condotte indicate nell’atto di imputazione fossero inquadrabili nel delitto di cui all’art. 572 c.p. in quanto connotate da ripetitività tale da costituire quella continuità ed abitualità che configura la condotta materiale del reato, dovendo questa consistere nella sottoposizione del familiare ad una serie di sofferenze fisiche e morali che, isolatamente considerate, potrebbero anche non costituire reato, (ex multis Sez. 6, n. 9923 del 05/12/2011 – dep. 14/03/2012, S., Rv. 252350), accompagnata, sotto il profilo soggettivo, dalla coscienza e volontà dell’agente di porre in essere siffatti atti vessatori.
3. Ora, è vero che nell’adempiere al compito assegnato dalla sentenza di annullamento, la Corte territoriale ripercorre il racconto della persona offesa, richiamando le considerazioni già svolte in sede di merito, in particolare in relazione alla rimessione di querela per i fatti precedentemente denunciati – e non per quelli oggetto del presente processo – ed alle dichiarazioni rese avanti al Tribunale per i minorenni, in data 27 marzo 2014, nonchè al matrimonio contratto con l’imputato, successivamente al periodo in cui ricadono gli episodi contestati, ma lo fa per fugare ogni residuo dubbio sulla sussistenza degli atti da cui è scaturita l’accusa di maltrattamenti in famiglia. Nè, d’altro canto, il giudice della rescissione, aveva affrontato, ritenendola illogica od incompleta, la motivazione circa l’affidabilità della persona offesa, vizio che dalla lettura della sentenza di annullamento non pare neppure essere stato effettivamente sottoposto alla censura del giudice di legittimità.
4. Non era, pertanto, richiesto alla Corte, in sede rescissoria, di completare il vaglio della testimonianza della persona offesa in relazione all’affidabilità complessiva della narrazione, attraverso la rivisitazione delle sue affermazioni ponendola a confronto con la documentazione acquisita al procedimento, fra cui la difesa indica le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria in data 22 settembre 2013.
5. Ciò di per sè rende inammissibile il ricorso. D’altro canto, la Corte territoriale con la sentenza qui impugnata rappresenta gli episodi di prevaricazione nei confronti della vittima, consistiti in continui insulti (sei una scrofa, come sei brutta, copriti, fai schifo, sei grassa, dovrei cambiare le porte perchè non ci entri più, tra dieci anni ti cambio con una più giovane e più bella) pronunciati nella quotidianità della vita e non solo nel corso di litigi, nel far mancare alla persona offesa i mezzi finanziari necessari per l’acquisto di beni di prima necessità, cui si sono accompagnate le sporadiche condotte violente riferite ed accertate. Siffatte considerazioni sono sufficienti a sorreggere il giudizio di ripetitività ed abitualità dei comportamenti richiesto dal delitto di cui all’art. 572 c.p. costituendo il nucleo di un abituale comportamento vessatorio ai danni della moglie dell’imputato.
21. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Si dispone l’oscuramento dei dati personali.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila alla Cassa delle Ammende.
Oscuramento dati.
Così deciso in Roma, il 25 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2020.

Azione revocatoria esperibile in presenza di scientia damni.

Cass. 11 settembre 2020 n. 25857
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta da
Dott. Dario Sestini – Presidente –
Dott. Francesco De Stefano – Rel. Consigliere –
Dott. Stefano Olivieri – Consigliere –
Dott. Francesco Maria Cirillo – Consigliere –
Dott. Cristiano Valle – Consigliere –
Ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 35363/2018 R.G. proposto da LV RR in ROMA, PIAZZA COLA DI
RIENZO 92, presso Io studio dell’avv. GIUSEPPE LA SPINA, che li rappresenta e difende –
ricorrenticontro
Azienda X di CB S.N.C. Società X, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA COLLINA 24, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO
MORELLI, rappresentata e difesa dall’avvocato FABIO FEDELI; – controricorrenti –
contro
BS, RB – intimati – avverso la sentenza n. 153/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,
depositata il 03/03/2018;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del di 11/09/2020 dal relatore
Dott. Franco DE STEFANO;
rilevato che:
ricorrono, con atto notificato per la cassazione della sentenza del 03/03/20 la Corte d’appello la
reiezione delle loro domande di simulazione assoluta o subordinata revocatoria di un atto di
compravendita immobiliare da parte di BR – già convivente more uxorio della prima e genitore
con lei del secondo, inadempiente alla corresponsione di assegno di mantenimento per quest’ultimo
– in favore dell’Azienda X e CB;
la ragione del rigetto, dopo che era intervenuto in causa in proprio anche GA e che era stata
dispiegata da SB autonoma domanda revocatoria anch’essa respinta, è stata individuata non solo
nell’esclusione della simulazione assoluta dinanzi alla prova di una volontà delle parti di porre in
essere un negozio, ma pure nella carenza di prova sull’elemento soggettivo della revocatoria in capo
all’acquirente, configurato quale necessaria partecipazione di questi alla pure evidente dolosa
preordinazione dell’alienante ai danni del credito degli attori; e tanto per essere stato qualificato il
credito per la contribuzione al mantenimento come non ancora insorto al momento dell’atto
revocando, essendo a quel tempo solamente stata proposta la relativa domanda al giudice;
degli intimati (BR , Azienda X di CB società agricola e SB resistente con controricorso la sola
azienda agricola;
avviato il ricorso alla trattazione all’adunanza camerale del di 11/09/2020, non risultano depositate
memorie ai sensi del penultimo periodo dell’art. 380-bis l cod. proc, civ., come inserito dal comma
1, lett. f), dell’art. 1-bis d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con modif. dalla I. 25 ottobre 2016, n.
197;
considerato che:
in ricorso questi sono i dati di fatto rilevanti per la causa:
– la convivenza more uxorio della prima con BR ,
allietata il 31/05/1997 dalla nascita del figlio (che, prima della riforma di cui all’art. 1, comma 11,
legge 10 dicembre 2012, n. 219, andava qualificato naturale) R , era durata dal 1993 ai primi mesi
del 2002;
– la L , venuta meno con la convivenza ogni contribuzione del genitore naturale alle spese di
mantenimento del figlio (cui quello era tenuto ai sensi dell’art. 148 cod.civ., anche come modificato
dalla legge appena richiamata), aveva agito per conseguire una contribuzione del padre alle spese di
mantenimento del figlio, attivandosi, tra l’altro, con domanda proposta davanti al giudice civile il
12/06/2002;
– l’atto di disposizione di cui si chiede la revoca, relativo ad una villa in X e ultimo cespite
immobiliare rimasto in testa all’ex compagno (che si era disfatto pure di ingente patrimonio
mobiliare e dell’azienda suinicola annessa alia villa), era stato rogato il 26/06/2002, dopo che il
22/08/2001 l’immobile era stato scorporato – riacquisito così al patrimonio del R – dalla coeva
vendita dell’azienda suinicola;
i ricorrenti VLe RR articolano cinque motivi ed in particolare:
-col primo (rubricato «violazione art. 2901 c.c. … in ordine all’esperibilità dell’azione revocatoria
anche quando il credito manchi della certezza, della liquidita e della esigibilità e quindi anche
quando si tratti di credito eventuale e/o condizionato o di aspettativa e/o ragione di credito»)
lamentano che erroneamente e stata esclusa dalla corte territoriale l’esperibilità della revocatoria in
presenza di una mera aspettativa e/o ragione di credito da accertare giudizialmente, come nella
specie, in cui il credito per il rimborso delle spese di mantenimento e per il concorso a quello futuro
già sussisteva, come dimostrato dall’avvio del giudizio civile in tempo anteriore;
– col secondo [rubricato «violazione dell’art. 132 n. 4) c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 4) c.p.c. e
all’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, con violazione
in via derivata dell’art. 2901, comma 1), n. 1), c.c., il tutto ex art. 360 n. 5) e n. 3) c.p.c., con
riguardo all’anteriorità o posteriorità del credito rispetto all’atto impugnato per revocatoria e alle
conseguenti condizioni soggettive per l’esercizio della revocatoria], deducono che, poiché
occorreva riferirsi alla data in cui era insorte l’aspettativa (anteriore quindi al suo riconoscimento in
giudizio, solo questo effettivamente successivo), il credito era da qualificarsi anteriore rispetto
all’atto e, quindi, doveva considerarsi sufficiente la mera consapevolezza di arrecare pregiudizio
agli interessi dei creditori;
-col terzo [rubricato «violazione dell’art. 2901, comma 1, n. 2, c.c., in relazione all’art. 360 n. 3)
c.p.c., con riferimento alla ritenuta insussistenza dell’elemento soggettivo»], adducono l’erroneità
della esclusione, da parte della corte d’appello, della conoscibilità della sussistenza del credito
cautelato o comunque la scorrettezza dell’impostazione che esigeva la partecipazione del terzo alla
dolosa preordinazione del debitore (che pure era stata data per scontata), anziché la sola
consapevolezza del pregiudizio: comunque ribadendo la sufficienza, quale oggetto della tutela, di
una mera aspettativa o ragione di credito non ancora accertata;
-col quarto [rubricato: «violazione degli artt. 342 c.p.c. e/o 132 n 4) c.p.c. in relazione all’art. 360 n.
4) c.p.c., omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti con
violazione dell’art. 360 n. 5) c.p.c. e, per conseguenza, dell’art. 2901, comma 1) n. 2) c.c., in
relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c.»], contestano la conclusione della carenza di prova, osservando
doversi qualificare meramente apparente la motivazione sul punto, in presenza invece di molti
elementi dedotti come specifico motivo di appello: la concatenazione vendita azienda – riacquisto
villa – rivendita villa; la mancata presa di possesso della villa da parte degli acquirenti; l’entità vile
del prezzo; la carenza di accessi alla villa da parte degli acquirenti; il carattere simulato di un furto
per costringere l’attrice a lasciare la villa; la mancata permanenza della villa nell’ambito aziendale;
l’unicità del fine – e sua conoscenza da parte degli acquirenti – del R nel senso di fuggire
all’estero per sposare altra straniera);
-con il quinto ed ultimo [rubricato: «violazione degli artt. 2727, 2729, 2901, comma 1), n. 2), c.c.,
in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. con riguardo all’esistenza, negata dalla Corte di merito, anche
della participatio del terzo alla dolosa preordinazione del debitore, quand’anche non necessaria,
trattandosi di atto di vendita posteriore al sorgere del credito»], infine, la L e il R sostengono che,
poiché il rapporto di convivenza era cessato nei primi mesi del 2002 e la prima si era subito attivata
per farsi riconoscere l’assegno di mantenimento, il credito era insorto prima dell’atto di
disposizione; e che c’erano comunque elementi presuntivi idonei a desumere la prova della
participatio degli acquirenti, cioè quelli già esaminati col quarto motivo (conclusi da sostanziale
inutilizzazione del bene per oltre sedici anni);
deve dapprima negarsi rilievo al mancato coinvolgimento di GA: egli è stato parte in causa in primo
e secondo grado, ma, benché tanto si ricavi solo in via indiretta dagli atti di causa, solo quale
interventore adesivo alle ragioni della convenuta originaria Aziend X, evidentemente società
semplice tra lui stesso e l’altro socio BC , sicché nei suoi confronti la causa è evidentemente da
qualificarsi scindibile e, atteso il tempo trascorso dalla proposizione dell’impugnazione e dalla
pubblicazione della sentenza gravata, non vi e più nemmeno motivo di applicare l’art. 332 cod.
proc, civ.;
correttamente vanno qualificati meri intimati SB (interventore volontario in primo grado – con atto
11/07/2008: v pag. 7 sentenza di primo grado, n. 559 del 19/03/20 Tribunale di Perugia – per
esperire autonoma azione revocatoria e soccombente anche lui davanti al tribunale) e, a seguito di
notifica del ricorso ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ. in evidente rispetto dei relativi presupposti e
formalità, BR sia pure mediante una loro congiunta disamina e previa opportuna riqualificazione
della censura come complessivamente dispiegata, i motivi primo, secondo e terzo vanno ritenuti
fondati; invero, malamente la corte territoriale indaga sull’elemento soggettivo del terzo quale
participatio sull’erroneo presupposto della posteriorità del credito rispetto all’atto revocando,
ritenendo che il credito alla contribuzione al mantenimento del figlio possa dirsi sorto solo con
l’eventuale provvedimento giudiziale e quindi in tempo di certo successivo alla compravendita
stessa, nonostante la relativa domanda fosse a quest’ultima anteriore;
ora, è vero che si è esclusa la legittimazione proprio all’azione revocatoria in capo all’aspirante
all’assegno di mantenimento prima del provvedimento presidenziale e che il relativo credito è stato
reputato come insorgente con quest’ultimo (Cass. 07/03/2017, n. 5618), ma il principio non può
sorreggere la conclusione della corte territoriale; infatti, detto principio: da un lato, è stato enunciato
senza specifico riferimento all’elemento soggettivo del terzo rilevante ai fini dell’azione
revocatoria; dall’altro lato e soprattutto, si riferisce al diverso istituto dell’assegno correlato
all’incoato procedimento di separazione personale dei coniugi, sicché deve coordinarsi allora:
-in via preliminare, col generale principio per il quale l’obbligo dei genitori di mantenere la prole
sussiste per il solo fatto di averla generata e prescinde da ogni statuizione del giudice al riguardo
(per tutte: Cass. 16/10/2003, n. 15481; Cass. 04/05/2000, n. 5586; Cass. 26/09/1987, n. 7285);
-da una parte, con la corrente affermazione della sufficienza, per l’attivazione della tutela del
creditore con l’actio pauliana, della sussistenza dei presupposti del credito, in particolare non
rilevando la data dell’accertamento giudiziale (per limitarsi alle più recenti, che pure richiamano
principi affermati da lunghissimo tempo: Cass, ord. 05/09/2019, n. 22161; Cass. ord. 26/11/2019, n.
30737);
-d’altra parte, col generale principio della sufficienza della proposizione della domanda giudiziale
prima dell’atto revocando, non potendo ridondare a danno di chi ha ragione il tempo necessario a
far valere il diritto (in tal senso, proprio in materia di assegno di mantenimento: Cass. 11/04/2000,
n. 4558) e di norma retroagendo, per le pronunce dichiarative, l’effetto della sentenza al tempo della
proposizione della domanda;
-infine, se non in via dirimente, con Io specifico principio proprio della materia familiare, per il
quale la domanda con cui uno dei genitori abbia chiesto la condanna dell’altro al pagamento di un
assegno di mantenimento per i figli va accolta, in mancanza di espresse limitazioni, con decorrenza
dalla data della sua proposizione e non da quella della sentenza, atteso che i diritti ed i doveri dei
genitori verso la prole, salve le implicazioni dei provvedimenti relativi all’affidamento, non
subiscono alcuna variazione a seguito della pronuncia giudiziale, rimanendo identico l’obbligo di
ciascuno dei genitori di contribuire, in proporzione delle sue capacita, all’assistenza ed al
mantenimento dei figli (Cass. 03/11/2004, n. 21087; Cass. 16/10/2003, n. 15481; Cass. 20/08/1997,
n. 7770);
pertanto, essendo pacifico che almeno la proposizione della domanda giudiziale di condanna del
padre alla corresponsione di un assegno di mantenimento e temporalmente anteriore rispetto all’atto
di disposizione, ai fini dell’elemento soggettivo da verificare nella fattispecie un tale atto va
qualificato successivo all’insorgenza della ragione di credito;
ne consegue che non era necessaria la prova della participatio, bastando in capo al terzo la mera
consapevolezza del pregiudizio delle ragioni creditorie (scientia damni), sicché a questo andava
specificamente rivolta l’intera analisi del compendio probatorio;
poiché tanto non è avvenuto, la gravata sentenza va cassata, in applicazione del seguente principio
di diritto: «poiché il credito vantato dal genitore per il contributo da parte dell’altro genitore al
mantenimento del figlio minore regolarmente riconosciuto è da ritenersi insorto non oltre il
momento della proposizione della relativa domanda, ai fini dell’azione revocatoria ordinaria avente
ad oggetto un’alienazione immobiliare posta in essere dopo la proposizione di una tale domanda,
quel credito va qualificato come insorto anteriormente all’alienazione ed è allora sufficiente, ad
integrare l’elemento soggettivo della revocatoria dispiegata contro il genitore inadempiente
alienante, che il terzo acquirente sia stato consapevole del pregiudizio delle ragioni creditorie, non
occorrendo prova della participatio fraudis e cioè della conoscenza,da parte di quest’ultimo, della
dolosa preordinazione dell’alienazione ad opera del disponente rispetto al credito»;
a tanto consegue l’assorbimento in senso tecnico del quarto e quinto motivo, dovendo il giudice del
rinvio, che si individua nella medesima corte territoriale in diversa composizione e a cui si demanda
pure di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità in relazione all’andamento complessivo
della lite, rivalutare il materiale probatorio alla luce di quanto effettivamente a tal fine necessario e,
comunque, non focalizzandosi sulla dolosa preordinazione, ma esclusivamente sulla
consapevolezza generica del pregiudizio per le ragioni dei creditori in capo alla controparte dell’atto
di disposizione oggetto della revocatoria;
l’accoglimento, sia pur parziale, del ricorso esclude la sussistenza dei presupposti per l’applicazione
dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge
n. 228 del 2012, in tema di contributo unificato per i giudizi di impugnazione;
p.q.m. accoglie i primi tre motivi di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la gravata sentenza e rinvia alia
Corte d’appello di Perugia, in di versa composizione, pure per le spese del presente giudizio di
legittimità. Cosi deciso in Roma addì, 11/09/2020.

Assegno di divorzio di importo simbolico e pensione di reversibilità

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2020, n. 20477
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 26.6.2014, la Corte d’appello dell’Aquila ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva accolto la domanda di I.E.D. volta ad ottenere la condanna dell’INPS a corrisponderle una quota della pensione di reversibilità del proprio defunto coniuge, dal quale era divorziata in forza di sentenza del Tribunale Superiore della California.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che, poiché l’appellata si era vista attribuire dal giudice americano, in sede di scioglimento del matrimonio, il «sostegno alla moglie» nella misura di un dollaro all’anno, doveva considerarsi, ai fini della fruizione della pensione di reversibilità, titolare di un assegno equiparabile all’assegno di divorzio di cui all’art. 5, l. n. 898/1970.
Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione l’INPS, deducendo un motivo di censura, poi ulteriormente illustrato con memoria. I.E.D. ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 9, l. n. 898/1970, e dell’art. 5, l. n. 263/2005, per avere la Corte di merito ritenuto che l’odierna controricorrente, essendosi vista attribuire dal Tribunale Superiore della California, in sede di scioglimento del matrimonio, il «sostegno alla moglie» nella misura di un dollaro all’anno, potesse considerarsi titolare di un assegno equiparabile all’assegno di divorzio ai fini della fruizione della pensione di reversibilità: sostiene invece l’istituto ricorrente che, a tal fine, non sarebbe sufficiente l’attribuzione d’una somma meramente simbolica.
Il motivo è fondato.
La disciplina della pensione di reversibilità spettante al coniuge divorziato è contenuta nell’art. 9, comma 2°, l. n. 898/1970, il quale, nel testo risultante dalla modifica apportata dall’art. 13, l. n. 74/1987, stabilisce, per quanto qui rileva, che «in caso di morte dell’ex coniuge […] il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, […] sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, alla pensione di reversibilità […]».
A sua volta, l’art. 5, comma 6°, l. n. 898/1970, nel testo introdotto dall’art. 10, l. n. 74/1987, prevede che «con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».
Nell’interpretare la prima delle due disposizioni cit., questa Corte ha in passato affermato che, prevedendo quale requisito per il riconoscimento del trattamento di reversibilità l’essere il coniuge divorziato «titolare di assegno ai sensi dell’art. 5», la norma svincolerebbe la sua concreta attribuzione e la sua misura da qualsiasi collegamento con i criteri che sovrintendono al riconoscimento di quell’assegno ed alla determinazione del suo quantum, rendendolo dovuto anche quando l’ammontare dell’assegno divorzile sia stato determinato in misura minima o anche meramente simbolica: non si tratterebbe, infatti, di una prosecuzione con altro debitore del diritto all’assegno divorzile del quale si era titolari nei confronti dell’ex coniuge, ma di un autonomo diritto, di natura squisitamente previdenziale, alla pensione di reversibilità, che prescinderebbe da ogni pronuncia giurisdizionale circa la spettanza dell’assegno stesso (Cass. S.U. n. 159 del 1998), la quale, conseguentemente, potrebbe formare oggetto di accertamento incidenter tantum nei confronti dell’ente previdenziale (così, in specie, Cass. nn. 457 del 2000 e 6429 del 2005).
Tale ultima implicazione è stata oggetto di rimeditazione da parte di questa Corte a seguito dell’emanazione dell’art. 5, l. n. 263/2005, il quale, nel dettare l’interpretazione autentica dell’art. 9, commi 2° e 3°, l. n. 898/1970, ha previsto che «per titolarità dell’assegno ai sensi dell’articolo 5 deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi del predetto articolo 5 della citata legge n. 898 del 1970»: si è infatti ritenuto, in armonia con il tenore testuale della legge interpretativa, che il diritto del coniuge divorziato alla pensione di reversibilità presuppone che il richiedente al momento della morte dell’ex coniuge sia titolare di assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto ai sensi dell’art. 5, l. n. 898/1970, non essendo sufficiente che egli versi nelle condizioni per ottenerlo e neppure che in via di fatto o anche per effetto di private convenzioni intercorse tra le parti abbia ricevuto regolari erogazioni economiche dal de cuius quando questi era in vita (Cass. n. 5422 del 2006, cui hanno dato continuità, tra le altre, Cass. nn. 21129 del 2006, 12149 del 2007, 23300 del 2010, 12546 del 2011, 25053 del 2017).
Non è stata invece fin qui oggetto di espressa riconsiderazione l’ulteriore affermazione espressa da Cass. S.U. n. 159 del 1998, secondo cui, ancorando il diritto alla pensione di reversibilità alla mera titolarità dell’assegno divorzile, l’art. 9, l. n. 898/1970, ne svincolerebbe la concreta attribuzione da qualsiasi collegamento con i criteri che sovrintendono al riconoscimento di quell’assegno ed alla determinazione del suo quantum, rendendola dovuta anche quando l’ammontare dell’assegno divorzile sia stato determinato in misura minima o anche meramente simbolica. E’ però vero che, nel negare la spettanza del trattamento di reversibilità al coniuge divorziato allorché il diritto all’assegno divorzile sia già stato definitivamente soddisfatto con la sua corresponsione in unica soluzione, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 22434 del 2018, hanno svolto argomentazioni che inficiano la premessa logica di tale affermazione e che, ad avviso del Collegio, non possono che riverberarsi anche sulla conseguenza che ne era stata tratta.
Muovendo dall’interpretazione che della normativa in esame ha dato Corte cost. n. 419 del 1999, le Sezioni Unite di questa Corte hanno infatti rinvenuto il presupposto per l’attribuzione del trattamento di reversibilità a favore del coniuge divorziato nel venir meno del sostegno economico apportato in vita dall’ex coniuge scomparso e la sua finalità nel sopperire a tale perdita economica, così identificando la “titolarità” dell’assegno nella fruizione attuale, da parte del coniuge divorziato, di una somma periodicamente versata dall’ex coniuge come contributo al suo mantenimento (così Cass. S.U. n. 22434 del 2018, cit., in motivazione). Ed è evidente che, se la ratio dell’attribuzione del trattamento di reversibilità al coniuge divorziato è da rinvenirsi nella continuazione del sostegno economico prestato in vita all’ex coniuge, non può considerarsi all’uopo decisivo un trattamento determinato in misura minima o anche meramente simbolica, come invece sostenuto da Cass. S.U. n. 159 del 1998: è necessario piuttosto che il trattamento attribuito al coniuge divorziato possieda i requisiti tipici previsti dall’art. 5, l. n. 898/1970, ovvero, e più precisamente, che esso sia idoneo ad assolvere alle finalità di tipo assistenziale e perequativo-compensativa che gli sono proprie, di talché, pur non mettendo necessariamente capo ad un contributo volto al conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, consenta tuttavia all’ex coniuge il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, riconoscendogli in specie il ruolo prestato nella formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (Cass. S.U. n. 18287 del 2018).
Quanto appena detto, ovviamente, non vale a rimettere in discussione la natura strettamente previdenziale della pensione di reversibilità, che – come esattamente rilevato da Cass. S.U. n. 159 del 1998 – non può certamente Identificarsi nella prosecuzione con altro debitore del diritto all’assegno divorzile del quale si era titolari nei confronti dell’ex coniuge: significa piuttosto ricondurre i presupposti del diritto alla pensione di reversibilità alla ratio della sua estensione al coniuge divorziato, laddove il precedente orientamento, attribuendo rilevanza perfino ad assegno fissato in misura simbolica, finiva con il porsi in contrasto con la stessa lettera dell’art. 9, l. n. 898/1970, che individua quale presupposto per il trattamento previdenziale il fatto che l’ex coniuge «sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5».
Ed è appena il caso di soggiungere che una diversa soluzione porterebbe all’esito irragionevole di assicurare al coniuge divorziato una condizione migliore rispetto a quella di cui godeva quando l’ex coniuge era in vita, il che non può dirsi conforme né alla lettera né alla ratio dell’istituto (v. in tal senso già Cass. nn. 23300 del 2010 e 12546 del 2011, entrambe cit.).
Pertanto, avendo la Corte di merito erroneamente ritenuto che il riconoscimento all’odierna controricorrente del sostegno in un «importo simbolico» (nella specie, come dianzi esposto, in ragione di un dollaro all’anno) fosse di per sé solo sufficiente a guadagnarle la pensione di reversibilità, senza condurre alcun accertamento in ordine all’idoneità della somma riconosciuta ad assolvere alle finalità per cui l’art. 5, l. n. 898/1970, ha istituito l’assegno divorzile, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Anche l’avvocato negligente deve essere pagato

Cass. Civ., Sez. VI – 3, Ord., 12 novembre 2020, n. 25464

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 34599-2018 proposto da:
F.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLA CANCELLERIA 85, presso lo studio dell’avvocato BARBARA PAOLE che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
S.N. & SOCI S.N.C.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2582/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 01/10/2020 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO.
Svolgimento del processo
1. La S.N. e soci s.n.c. si avvalse del patrocinio dell’avv. F.R. in un giudizio volto ad ottenere il riconoscimento, nei confronti della propria società di assicurazione, dell’indennizzo derivante da un furto subito nel proprio esercizio commerciale.
La domanda fu respinta sul rilievo che la prova necessaria al suo accoglimento era stata dal difensore tardivamente prodotta e che il richiamo al contratto di assicurazione avrebbe dovuto essere compiuto con la memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, trattandosi di una precisazione della domanda.
A seguito dell’esito negativo di tale causa, la società S.N. e soci s.n.c. convenne in giudizio l’avv. F.R., davanti al Tribunale di Roma, chiedendo che fosse condannato al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità professionale per le manchevolezze a lui riconducibili nello svolgimento dell’attività difensiva, nonchè per ottenere il riconoscimento di nulla dovere versare al professionista per l’attività svolta.
Si costituì in giudizio il convenuto, chiedendo il rigetto della domanda. Il Tribunale rigettò la domanda.
2. La pronuncia è stata impugnata dalla società soccombente e la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 20 aprile 2018, in parziale riforma di quella di primo grado, ha dichiarato che la società appellante nulla doveva all’avv. F. a titolo di onorari professionali ed ha condannato il professionista alla rifusione della somma di Euro 2.598,40 a titolo di esborsi sostenuti, nonchè al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
Ha osservato la Corte territoriale che l’appello era fondato nella parte in cui aveva imputato al difensore l’omessa formulazione dei capitoli di prova in relazione alle specifiche modalità del furto, omissione che integrava gli estremi della negligenza professionale. In relazione, però, alla quantità ed al valore della merce rubata, pur avendo omesso l’avv. F. di chiedere una prova specifica, la società S.N. neppure nel giudizio di appello aveva “capitolato apposite circostanze o depositato documenti atti a supportare il lamentato danno”. Ciò nonostante, meritava accoglimento il motivo di appello relativo all’accertamento negativo del credito professionale ed agli esborsi sostenuti in dipendenza del rigetto della domanda proposta contro la società di assicurazione, somma quest’ultima da ritenere dovuta in quanto collegata all’accertato inadempimento professionale.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma ricorre l’avv. F.R. con atto affidato a tre motivi.
La società S.N. e soci non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375, 376 e 380-bis c.p.c., e non sono state depositate memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione dell’art. 2236 c.c. e dell’art. 1176 c.c., comma 2, nonché dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte d’appello ritenuto sussistente la responsabilità professionale nonostante non vi fosse un nesso di causalità tra il comportamento omissivo del professionista ed il rigetto della domanda contro la società di assicurazione.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione dell’art. 2229 c.c., e dell’art. 2233 c.c., comma 1, per avere la sentenza ritenuto inesistente il diritto del professionista al pagamento del compenso professionale, pur avendo escluso l’esistenza di una negligenza tale da causare il danno lamentato.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere la Corte di merito condannato l’avv. F. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio pur in presenza di un accoglimento molto limitato della domanda e, quindi, di una sostanziale reciproca soccombenza.
4. Il primo ed il secondo motivo, benchè tra loro diversi, possono essere trattati congiuntamente, e sono entrambi fondati.
La sentenza impugnata, pur avendo evidenziato alcune negligenze professionali imputabili all’avv. F. nella causa nella quale egli aveva assistito la società S.N., ha poi rigettato la domanda risarcitoria avanzata da quest’ultima, limitandosi a riconoscere soltanto l’insussistenza del diritto al compenso professionale.
Costituisce acquisizione pacifica nella giurisprudenza di questa Corte, alla quale l’odierna pronuncia intende dare continuità, il principio per cui l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., può essere opposta dal cliente all’avvocato che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale, purchè la negligenza sia idonea a incidere sugli interessi del primo, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole del giudizio ed essendo contrario a buona fede l’esercizio del potere di autotutela ove la negligenza nell’attività difensiva, secondo un giudizio probabilistico, non abbia pregiudicato le possibilità di vittoria (v. le sentenze 5 luglio 2012, n. 11304, 15 dicembre 2016, n. 25894, e 22 marzo 2017, n. 7309). Ancora più di recente, poi, si è ribadito che “nell’ipotesi in cui un’azione giudiziale svolta nell’interesse del cliente non abbia potuto conseguire alcun risultato utile, anche a causa della negligenza o di omissioni del professionista, non è solo per questo ravvisabile un’automatica perdita del diritto al compenso da parte del professionista, ove non sia dimostrata la sussistenza di una condotta negligente causativa di un effettivo danno, corrispondente al mancato riconoscimento di una pretesa con tutta probabilità fondata” (ordinanza 21 giugno 2018, n. 16342).
La Corte d’appello non ha fatto buon governo di tali principi perchè, mentre da un lato ha riconosciuto la sostanziale irrilevanza delle negligenze imputate all’avv. F. – sul rilievo che la società appellata non aveva in alcun modo precisato, neppure in appello, quale fosse l’entità del danno realmente subito – ha poi, contraddittoriamente, negato il diritto del professionista al compenso; condannando per di più il medesimo alla rifusione della somma di Euro 2.598,40 (probabilmente pari alla condanna alle spese subita dalla società S.N. nel giudizio patrocinato dall’avv. F.). Ne consegue che, data l’ininfluenza delle negligenze, la Corte di merito avrebbe dovuto indagare in modo chiaro e preciso sulle ragioni per le quali ha negato il diritto al compenso professionale, apparendo l’eccezione di inadempimento impropriamente applicata.
2. Il terzo motivo rimane assorbito.
3. In conclusione, sono accolti il primo ed il secondo motivo, con assorbimento del terzo.
La sentenza impugnata è cassata e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, affinchè riesamini la questione alla luce delle indicazioni contenute nella presente pronuncia.
Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese dell’odierno giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, con assorbimento del terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione personale, anche per le spese del presente giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, il 1 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2020.

Permane l’ammissibilità dell’impugnazione per difetto di veridicità di riconoscimento di paternità compiacente.

Corte Cost. 25 giugno 2020 n. 127
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, promosso dalla Corte
d’appello di Torino, sezione per la famiglia, nel procedimento vertente tra A. C., nella qualità
di curatore speciale di R.F. A., e M. A. e altro, con ordinanza del 4 ottobre 2017, iscritta al n.
245 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3,
prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Giuliano Amato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020, svolta ai
sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Nel corso di un giudizio di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di
veridicità, la Corte d’appello di Torino, sezione per la famiglia, con ordinanza del 4 ottobre 2017 ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, nella parte in cui non
esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che abbia
compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicità.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto innanzitutto con l’art.
3 della Costituzione, per l’irragionevole disparità di trattamento tra chi abbia consapevolmente
effettuato il riconoscimento non veridico e chi abbia prestato il consenso alla fecondazione assistita
eterologa: mentre, nel primo caso, l’art. 263 cod. civ. consente all’autore del riconoscimento di
proporre l’impugnazione per difetto di veridicità, invece l’art. 9, comma 1, della legge 19 febbraio
2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) preclude tale impugnazione
a chi abbia prestato consenso al concepimento mediante fecondazione medicalmente assistita.
L’irragionevolezza della disposizione censurata risiederebbe, inoltre, nel consentire a chi abbia
consapevolmente scelto di instaurare un rapporto di filiazione di sacrificare l’interesse del soggetto
riconosciuto come figlio sulla base di una personale riconsiderazione dei propri interessi,
«accampando quale causa quello di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole, ossia la
non veridicità del riconoscimento medesimo».
La disposizione censurata si porrebbe in contrasto, altresì, con l’art. 2 Cost., per la violazione dei
principi di responsabilità individuale, di solidarietà sociale e di tutela dell’identità personale del
figlio.
2.- Il giudizio a quo ha ad oggetto l’appello, proposto dalla curatela di una minore, avverso la
sentenza con cui il Tribunale ordinario di Torino – in accoglimento della domanda proposta
dall’autore del riconoscimento della stessa minore quale figlia – ha annullato per difetto di veridicità
tale riconoscimento, effettuato nel 2004, disponendo le relative annotazioni sui registri dello stato
civile. Il giudice a quo riferisce che non forma oggetto di contestazione tra le parti la piena
consapevolezza della falsità del riconoscimento da parte del suo autore.
2.1.- Il giudice a quo premette che nel caso in esame non è in discussione nemmeno il rispetto del
termine di decadenza per la proposizione dell’azione, posto che la domanda è stata proposta nella
vigenza della precedente disciplina che ne prevedeva l’imprescrittibilità. In ogni caso, il decreto
legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a
norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), all’art. 104, comma 10, consente in via
transitoria di beneficiare del termine di un anno dall’entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 154 del
2013.
Dopo avere disatteso l’eccezione di nullità della sentenza per il mancato interpello della minore, il
rimettente dichiara di condividere la ricostruzione normativa e l’interpretazione fatta propria dal
giudice di primo grado, non potendo essere accolti i rilievi dell’appellante, nel senso di attribuire
prevalenza all’interesse della minore alla propria identità familiare, comunque realizzatasi.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. sarebbe, dunque, rilevante nel caso
in esame, poiché la riforma della sentenza impugnata potrebbe avere luogo solo laddove fosse
accolta la questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata.
2.2.- Quanto al merito delle questioni, la Corte di appello premette che non è in discussione la
pienezza della discrezionalità legislativa nella disciplina delle diverse situazioni, fermo restando il
limite della non manifesta irragionevolezza.
Peraltro, le situazioni fattuali alle quali fanno riferimento sia la disposizione censurata, come
ridisegnata dal d.lgs. n. 154 del 2013, sia l’art. 9 della legge n. 40 del 2004 – sotto il profilo
soggettivo di colui che pone in essere l’atto determinativo dello “status” del nato, quale figlio
proprio – sarebbero assolutamente identiche. In entrambi i casi, infatti, sussistono la consapevolezza
di non essere il padre biologico del riconosciuto e la volontà di assumere la paternità e la
responsabilità, quale genitore, di un figlio che non è biologicamente il proprio.
In entrambi i casi, alla base del riconoscimento, vi sarebbe un atto consapevole e contra legem: nel
caso dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004, il consenso alla pratica di procreazione assistita di tipo
eterologo e, nel caso del riconoscimento cosiddetto “di compiacenza”, la violazione dell’art. 567 del
codice penale. Tuttavia, mentre l’art. 9 della legge n. 40 del 2004 preclude l’impugnazione del
riconoscimento per difetto di veridicità, l’art. 263 cod. civ. legittima l’autore del riconoscimento non
veritiero all’azione di impugnazione dello stesso.
Osserva il giudice a quo che la ratio sottesa al divieto dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del
2004 è rappresentata dalla necessità di rispettare il principio, deducibile dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali e entrato a far parte integrante dell’ordinamento italiano,
secondo il quale in ogni provvedimento legislativo, amministrativo o giudiziario riguardante un
minore l’interesse di quest’ultimo deve sempre essere considerato preminente. Il rimettente
richiama, a questo riguardo, la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176; la Convenzione
europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa
esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
Dovrebbe, quindi, escludersi che colui che, consapevole della difformità dalla realtà biologica,
altrettanto consapevolmente abbia scelto di instaurare con un minore un rapporto di filiazione, possa
successivamente sacrificare lo status del figlio solo perché la riconsiderazione dei propri interessi, la
natura dei quali neanche è tenuto a rappresentare, lo avrebbe indotto a ritrattare il riconoscimento
già prestato, adducendo una circostanza di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole,
ossia la non veridicità del riconoscimento medesimo.
Ad avviso della Corte d’appello, la situazione in esame sarebbe sostanzialmente identica a quella
considerata dall’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004. Tuttavia, la tutela accordata al minore
in quest’ultimo caso è viceversa negata nel caso dell’art. 263 cod. civ.
Il rimettente dubita, quindi, della legittimità della disparità di trattamento derivante dall’art. 263 cod.
civ., sia in relazione al principio di uguaglianza e ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost., sia in
relazione ai principi di responsabilità individuale e di solidarietà sociale, nonché di tutela
dell’identità personale, che trovano espressione nell’art. 2 Cost.
Al riguardo, il rimettente osserva che l’identità personale trova il suo elemento caratterizzante
proprio nel nome, quale autonomo segno distintivo di tale identità, e che nel contesto sociale
l’acquisizione del nome è l’effetto di più immediata percezione del riconoscimento di paternità (è
richiamata la sentenza di questa Corte n. 13 del 1994). Nel caso di specie, sia in considerazione
della minore età del soggetto riconosciuto, sia della sua volontà di non rinunciare allo status di
figlia, sia del considerevole arco di tempo durante il quale, pubblicamente, si è manifestata la
paternità dell’autore del riconoscimento, il cognome paterno è divenuto autonomo segno distintivo
dell’identità personale della minore.
2.3.- Si osserva, inoltre, che la questione di legittimità costituzionale sollevata non sarebbe
riconducibile ai precedenti già esaminati dalla Corte costituzionale nelle pronunce n. 134 del 1985,
n. 158 del 1991 e n. 7 del 2012, tutte relative alla modulazione del termine per la proposizione
dell’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ., perché nel caso in esame il dubbio di legittimità
costituzionale attiene alla legittimazione all’azione di impugnazione.
D’altra parte, ad avviso del rimettente, l’art. 9 sarebbe idoneo a rappresentare il tertium
comparationis, ai fini della valutazione di omogeneità rispetto alla fattispecie disciplinata dall’art.
263 cod. civ. Invero, come affermato dalla indicata ordinanza n. 7 del 2012, il divieto del
disconoscimento della paternità o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, in
caso di procreazione medicalmente assistita eterologa, «configura una ipotesi di intangibilità ex lege
dello status, la quale (come tale) incide non già sul profilo della imprescrittibilità dell’azione di cui
alla norma censurata, quanto piuttosto su quello completamente diverso (e qui non censurato) della
legittimazione alla impugnazione medesima». Il giudice a quo fa rilevare che è proprio la
legittimazione di colui che impugna il riconoscimento che viene in considerazione nel caso in
esame, non già la imprescrittibilità dell’azione.
2.3.1.- Il rimettente osserva, infine, che il petitum rivolto a questa Corte non sarebbe volto a una
pronuncia additiva di principio, né alla mera abrogazione dell’art. 263 cod. civ. Infatti, la fattispecie
dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 coincide con quella del riconoscimento per
compiacenza sotto il profilo della consapevolezza della non corrispondenza tra il rapporto di
filiazione dichiarato e la effettiva relazione biologica. L’eliminazione di questa irragionevole
disparità di trattamento dovrebbe avvenire mediante l’esclusione della legittimazione all’azione di
cui all’art. 236 cod. civ. del solo soggetto che ha operato un riconoscimento cosiddetto
“compiacente”, mentre rimarrebbe intatto il restante contenuto normativo della disposizione
censurata, né si verificherebbe alcun vuoto normativo.
3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto nel giudizio per il tramite dell’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a
quo siano dichiarate inammissibili e comunque manifestamente non fondate.
3.1.- Preliminarmente, è eccepita l’inammissibilità delle questioni poiché volte a ottenere una
pronuncia additiva che, sostituendosi alla discrezionalità del legislatore, attribuirebbe rilevanza
esclusiva all’interesse del minore, vietando l’azione di impugnazione del riconoscimento a chi lo
abbia effettuato nella consapevolezza della sua non veridicità.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, inoltre, l’inammissibilità delle questioni per
insufficiente ricostruzione del quadro normativo, tale da riflettersi nel difetto di motivazione sulla
non manifesta infondatezza. Il giudice a quo non avrebbe considerato la portata delle modifiche
introdotte dal d.lgs. n. 154 del 2013, che ha sostituito l’originaria imprescrittibilità
dell’impugnazione dell’autore del riconoscimento con la previsione di un rigoroso limite temporale
(un anno dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita). L’art. 104 dello stesso
d.lgs. n. 154 del 2013 ha poi previsto che, per i riconoscimenti effettuati in precedenza, i termini
decorrano dalla data di entrata in vigore dello stesso d. lgs. n. 154 del 2013, ossia dal 7 febbraio
2014. Il rimettente non avrebbe, quindi, spiegato perché la sostituzione dell’originaria
imprescrittibilità con un limite temporale assai ristretto non valga ad attuare un bilanciamento
ragionevole degli interessi contrapposti: quello del figlio alla stabilità dell’assetto familiare e quello
dell’autore del riconoscimento non veritiero al ristabilimento della verità e all’esclusione di una falsa
relazione parentale.
3.2.- Nel merito, non sussisterebbe la denunciata disparità di trattamento, poiché le situazioni poste
a raffronto dal rimettente non sarebbero equiparabili.
Ad avviso della difesa statale, l’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, laddove vieta il
disconoscimento della paternità qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita
di tipo eterologo, sarebbe una norma speciale, che disciplina una situazione particolare. Con essa il
legislatore ha scelto di privilegiare la tutela del figlio nato dalla fecondazione eterologa, la quale si
fonda sul preventivo consenso di coloro che, per effetto di essa, risulteranno genitori.
Diverso sarebbe il caso contemplato dall’art. 263 cod. civ., in cui il nato ha acquisito lo status di
figlio per filiazione naturale. Rispetto a esso, rimarrebbe la volontà legislativa di attribuire
prevalenza al favor veritatis e di consentire il disconoscimento, sebbene entro limiti temporali ben
circoscritti. Questo bilanciamento tra veridicità del riconoscimento e interesse superiore del minore
è riservato alla discrezionalità legislatore (sono richiamate le sentenze n. 158 del 1991 e n. 134 del
1985 e l’ordinanza n. 7 del 2012).
Inoltre, l’Avvocatura generale dello Stato richiama anche la sentenza n. 272 del 2017, che proprio
con riferimento all’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, nel raffronto con l’art. 263 cod. civ.,
constata che «in questo caso, in un’ipotesi di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità
biologica, il bilanciamento è stato effettuato dal legislatore attribuendo la prevalenza al principio di
conservazione dello status filiationis».
L’Avvocatura generale dello Stato fa notare che anche la giurisprudenza di legittimità, di recente, ha
rilevato che l’azione di cui all’art. 263 cod. civ. possiede la peculiare natura delle azioni di stato, le
quali incidono in materia dominata da interessi pubblici e sono perciò sottratte alla disponibilità dei
privati «senza che ciò violi l’art. 3 Cost.» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 21
febbraio 2019, n. 5242).
Le situazioni disciplinate dagli artt. 263 cod. civ. e 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 sarebbero
dunque basate su presupposti fattuali non coincidenti, tali da giustificare, sul piano della
ragionevolezza, la previsione di discipline differenti.
Ed invero, si osserva che la prestazione del consenso alla procreazione assistita di tipo eterologo
costituisce una conditio della nascita stessa, ossia presume una scelta di genitorialità che precede
l’esistenza del soggetto che nascerà ed è diretta alla formazione di un embrione. In questo caso,
l’irretrattabilità della scelta e la preclusione dell’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. sono volte
a proteggere il nascituro, evitando di esporlo a eventuali ripensamenti successivi e imponendo la
responsabilizzazione di chi sceglie di farlo venire al mondo.
La difesa statale fa, inoltre, rilevare che l’esclusione di un legame parentale fra il donatore dei
gameti e il nascituro (prevista dall’art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004) sarebbe coerente con
questa impostazione. La preclusione di azioni di contestazione o di rivendicazione della
genitorialità, in contrasto con la volontà manifestata dagli attori della vicenda nel momento in cui vi
hanno dato avvio, sarebbe volta a prevenire i possibili conflitti che la particolare situazione della
fecondazione assistita eterologa potrebbe determinare.
Con la disciplina dell’art. 263 cod. civ., invece, il legislatore ha ritenuto di lasciare uno spazio al
favor veritatis, sulla base del rilievo che nel breve arco di tempo indicato (un anno o al massimo
cinque), l’identità personale potrebbe non essere considerevolmente incisa, ferma l’eventuale diversa
valutazione giudiziale basata sull’interesse del minore, che è comunque sempre sotteso e immanente
alla materia delle azioni di stato, come chiarito dalla citata sentenza n. 272 del 2017. In questo caso,
l’accertamento della verità naturale, anche attraverso l’impugnazione da parte dell’autore di un
riconoscimento non veritiero, appare un mezzo non irragionevole per prevenire successivi conflitti e
per stabilizzare gli stati personali dei soggetti coinvolti.
Le scelte sottese alle discipline in esame sarebbero di peso diverso: l’una (quella del consenso alla
procreazione assistita di tipo eterologo) investe profili di genitorialità che riguardano il nascituro sin
da un momento antecedente al concepimento e sarebbe connotata dalla consapevolezza
dell’irretrattabilità della decisione (al pari della genitorialità naturale) e della recisione definitiva di
ogni legame con il donatore di gameti, con conseguente impossibilità di individuare in futuro altre
figure genitoriali; l’altra (quella del riconoscimento consapevolmente non veritiero) riguarda lo
status di un soggetto esistente, la cui genitorialità naturale potrebbe peraltro essere appurata anche
successivamente, in virtù dell’esercizio delle opportune azioni di stato da parte di altri legittimati.
Gli elementi caratterizzanti le diverse situazioni giustificano scelte normative diverse, non
censurabili sul piano della ragionevolezza.
3.3.- Quanto alla lamentata violazione dell’art. 2 Cost., la difesa statale ribadisce che i diversi regimi
impugnatori muovono da situazioni fattuali diverse ed hanno una ratio che poggia su un
bilanciamento di valori, di competenza del legislatore, che non appare irragionevole. Da ciò
discenderebbe la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 263 cod. civ.
anche in riferimento all’art. 2 Cost.
Considerato in diritto
1.- La Corte d’appello di Torino, sezione per la famiglia, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 263 del codice civile, nella parte in cui non esclude la legittimazione ad
impugnare il riconoscimento del figlio da parte di chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della
sua non veridicità.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto innanzitutto con l’art.
3 della Costituzione, per l’irragionevole disparità di trattamento tra chi abbia consapevolmente
effettuato il riconoscimento non veridico e chi abbia prestato il consenso alla fecondazione assistita
eterologa: mentre, nel primo caso, l’art. 263 cod. civ. consente all’autore del riconoscimento di
proporre l’impugnazione per difetto di veridicità, l’art. 9, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n.
40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) preclude tale impugnazione a chi
abbia prestato consenso al concepimento mediante fecondazione medicalmente assistita.
L’irragionevolezza della disposizione censurata consisterebbe, inoltre, nel consentire, a chi abbia
consapevolmente scelto di instaurare un rapporto di filiazione, di sacrificare l’interesse del soggetto
riconosciuto come figlio, sulla base di una personale riconsiderazione dei propri interessi,
«accampando quale causa quello di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole, ossia la
non veridicità del riconoscimento medesimo».
La disposizione censurata si porrebbe in contrasto, altresì, con l’art. 2 Cost., per la violazione dei
principi di responsabilità individuale, di solidarietà sociale e di tutela dell’identità personale del
figlio.
2.- In via preliminare, occorre esaminare le eccezioni formulate dal Presidente del Consiglio dei
ministri, intervenuto nel giudizio incidentale per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato. La
difesa statale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni in quanto volte a ottenere una pronuncia
additiva che, sostituendosi alla discrezionalità del legislatore, attribuisca rilevanza allo stato
soggettivo di mala fede dell’autore del riconoscimento e ne escluda la legittimazione ad impugnare.
Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere
subordinato all’interesse del minore all’appartenenza familiare.
Questa eccezione è priva di fondamento.
Il petitum del rimettente mira a precludere l’impugnazione del riconoscimento a chi lo abbia
effettuato nella consapevolezza della sua non veridicità. L’obiettivo perseguito dal giudice a quo è
volto a delimitare l’ambito dei soggetti legittimati a proporre l’azione, escludendone chi abbia
consapevolmente effettuato un riconoscimento falso. L’intervento richiesto è, dunque, limitato alla
verifica del fondamento costituzionale di questa legittimazione, che, ove risultasse manifestamente
irragionevole e contraria all’art. 2 Cost., così come ipotizzato dal rimettente, sarebbe per ciò stesso
estranea alle scelte discrezionali rimesse al legislatore. Del resto, sono rinvenibili nell’ordinamento
altre fattispecie di preclusione dell’azione ex art. 263 cod. civ., in considerazione di interessi ritenuti
meritevoli di tutela. Nessuna manipolazione creativa deriverebbe, pertanto, dall’eventuale
accoglimento delle questioni (in questo senso, ex plurimis, sentenze n. 212 e n. 113 del 2019).
2.1.- Non è fondata neppure l’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura
generale dello Stato, relativa all’insufficiente ricostruzione del quadro normativo, per l’omessa
considerazione delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154
(Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10
dicembre 2012, n. 219).
In particolare, ad avviso dell’interveniente, il giudice a quo non avrebbe spiegato perché la
previsione di rigorosi limiti temporali per l’impugnazione del riconoscimento, proposta dal suo
autore, non valga a realizzare un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di accertamento della
verità e l’interesse alla stabilità degli status personali.
Tuttavia, il giudice rimettente, dopo avere dato atto delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 154 del
2013, ha evidenziato che nel giudizio a quo l’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. è stata
proposta prima dell’entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 154 del 2013. Pertanto, come riconosciuto
anche dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 14
febbraio 2017, n. 3834), a questo giudizio non era applicabile la disciplina dell’art. 263, secondo e
quarto comma, cod. civ., come novellato dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013, in vigore dal 7
febbraio 2014 e, in particolare, non erano applicabili i nuovi termini per la proposizione dell’azione.
In quanto proposta nella vigenza della disciplina precedente, l’impugnazione proposta dall’autore
del riconoscimento non era soggetta a termini. Pertanto, nel caso oggetto del giudizio a quo,
l’impugnazione – ancorché proposta a distanza di otto anni dal riconoscimento – era tempestiva.
La rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è dunque scalfita
dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 154 del 2013, né la motivazione del rimettente denota lacune
nella ricostruzione del quadro normativo.
Va, inoltre, rilevato che le modifiche introdotte dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013 sono
intervenute sulle disposizioni dei commi secondo e quarto dell’art. 263 cod. civ. e non su quella
oggetto di censura. Infatti, mentre la previsione dei soggetti legittimati ad impugnare è contenuta
nel primo comma dell’art. 263 cod. civ., le condizioni e i termini per la proposizione dell’azione,
invece, sono disciplinate nei successivi commi e sono proprio questi ad essere stati profondamente
modificati dal disegno riformatore del 2013. È vero che tali modifiche non possono non incidere sul
significato attuale dello stesso primo comma, rimasto per parte sua immutato, ma ciò attiene al
merito della questione, non alla sua ammissibilità.
3.- Nel merito, non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ.,
sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. e alla denunciata disparità di trattamento con l’art. 9, comma
1, della legge n. 40 del 2004.
3.1.- La prospettazione del giudice a quo fa leva sulla ritenuta affinità della situazione dell’autore
del riconoscimento consapevolmente falso rispetto a quella di chi abbia prestato il consenso alla
procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. L’art. 9 della legge n. 40 del 2004 preclude
espressamente l’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. – oltre che l’azione di disconoscimento
della paternità, nei casi previsti dall’art. 235, primo comma, numeri 1) e 2), cod. civ. – al coniuge o
al convivente che abbia prestato il proprio consenso a tecniche di procreazione medicalmente
assistita. È siffatta preclusione ad essere indicata dal rimettente come tertium comparationis, al fine
di evidenziare la disparità di trattamento rispetto alla disposizione censurata.
Il giudice a quo richiama l’ordinanza n. 7 del 2012, in cui questa Corte ha ritenuto che la previsione
dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 configura «una ipotesi di intangibilità ex lege dello
status» e ravvisa delle significative analogie tra la dichiarazione di riconoscimento
consapevolmente falsa e il consenso prestato alla procreazione medicalmente assistita. L’elemento
unificante delle due situazioni è individuato nella volontaria e consapevole instaurazione del
rapporto di filiazione, con conseguente assunzione della responsabilità genitoriale. La ratio della
preclusione di cui al suddetto art. 9, comma 1, sarebbe pertanto estensibile all’impugnazione del
riconoscimento per compiacenza.
3.2.- Tuttavia, nel caso del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, il divieto
d’impugnare il riconoscimento è riferito a particolari situazioni, specificamente qualificate dal
legislatore, e riveste carattere eccezionale. Esso è volto a sottrarre il destino giuridico del figlio ai
mutamenti di una volontà che, in alcuni casi particolari e a certe condizioni, tassativamente previste,
rileva ai fini del suo concepimento. È per questo stesso motivo che la legge speciale nega – sempre
in via d’eccezione – il diritto di anonimato della madre (art. 9, comma 2, della legge n. 40 del 2004).
Si tratta, dunque, di eccezioni rispetto al regime generale della filiazione e il carattere derogatorio si
accentua nell’ambito di una disciplina che connette effetti giuridicamente rilevanti a tecniche
altrimenti espressamente vietate.
Né possono essere equiparate la volontà di generare con materiale biologico altrui e la volontà di
riconoscere un figlio altrui: nel primo caso, la volontà porta alla nascita una persona che altrimenti
non sarebbe nata; nel secondo caso, la volontà del dichiarante si esprime rispetto a una persona già
nata. Invero, anche la condizione giuridica del soggetto riconosciuto risulta differente: mentre per la
persona nata attraverso procreazione medicalmente assistita eterologa un eventuale accertamento
negativo della paternità non potrebbe essere la premessa di un successivo accertamento positivo
della paternità biologica, stante l’anonimato del donatore di gameti e l’esclusione di qualsiasi
relazione giuridica parentale con quest’ultimo (art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004).
Viceversa, nel caso del falso riconoscimento esiste un genitore “biologico”, la cui responsabilità
può venire in gioco.
D’altra parte, il divieto di impugnazione del riconoscimento, previsto dall’art. 9, comma 1, della
legge n. 40 del 2004, si riferisce a un contesto in cui operano alcune garanzie associate alla figura e
all’intervento del medico. Viceversa, la fattispecie del riconoscimento per compiacenza è destinata a
realizzarsi in situazioni “opache”, al di fuori del circuito medico-sanitario disegnato dalla legge
speciale, talora addirittura per aggirare la disciplina dell’adozione, come dimostra la previsione di
cui all’art. 74 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), che prevede,
infatti, l’attivazione di poteri ufficiosi di segnalazione, accertamento e di impugnazione, ove
ricorrano indici del carattere fraudolento del riconoscimento.
Dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il
proprio consenso non è, dunque, desumibile un principio generale in base al quale, ai fini
dell’instaurazione del rapporto di filiazione, è sufficiente il solo elemento volontaristico o
intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione, ovvero dall’adesione a un
comune progetto genitoriale. È pur vero che lo sviluppo scientifico ha reso possibili forme di
procreazione svincolate dal legame genetico e che l’ordinamento ne ha preso atto. Tuttavia, la
disciplina del rapporto di filiazione rimane tuttora strettamente connessa all’esistenza di un rapporto
biologico tra il nato ed i genitori.
Non è possibile, pertanto, fondare la valutazione di irragionevolezza postulata dal giudice a quo
sulla disparità di trattamento con la disciplina di cui all’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004.
La differente natura delle fattispecie impedisce, infatti, di considerare la scelta normativa
dell’indicato art. 9 come un idoneo tertium comparationis ai fini della valutazione della
ragionevolezza estrinseca della disposizione dell’art. 263 cod. civ. Si tratta di fattispecie differenti e
la diversità delle rispettive discipline si sottrae ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati in
nome del principio d’eguaglianza.
4.- La questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è fondata neppure in
riferimento alla violazione dell’art. 2 Cost., nonché all’irragionevolezza intrinseca della disposizione
in esame.
4.1.- Occorre premettere che, per quanto le argomentazioni del giudice a quo ruotino principalmente
attorno all’art. 3 Cost., sussiste un’intima connessione tra le censure che evocano il canone di
ragionevolezza e quelle relative alla violazione del diritto all’identità personale, garantito dall’art. 2
Cost.
Nella prospettiva del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con i richiamati
principi costituzionali nella parte in cui essa consente l’impugnazione per difetto di veridicità anche
a chi abbia effettuato il riconoscimento, pur essendo consapevole della sua falsità.
L’irragionevolezza consisterebbe, quindi, nel consentire a chi abbia instaurato un rapporto di
filiazione, nella consapevolezza della sua falsità, di vanificare il riconoscimento, sacrificando gli
interessi del soggetto riconosciuto sulla base di una esclusiva riconsiderazione dei propri.
L’assunto del rimettente riflette la tradizionale interpretazione dell’art. 263 cod. civ. offerta dalla
giurisprudenza di legittimità nei casi di riconoscimento consapevolmente falso (Corte di cassazione,
sezione prima civile, sentenze 14 febbraio 2017, n. 3834, e 24 maggio 1991, n. 5886; ordinanza 21
febbraio 2019, n. 5242). Essa si fonda sulla assoluta prevalenza da attribuire all’interesse, di natura
pubblicistica, all’accertamento della verità, rispetto a qualsiasi altro interesse che con esso venga in
conflitto e quindi anche rispetto al diritto, anch’esso dotato di copertura costituzionale, all’identità
sociale del soggetto riconosciuto, nonché alla necessità di far valere le responsabilità, inerenti alla
qualità di genitore, assunte con il riconoscimento.
4.2.- Si tratta, tuttavia, di un’impostazione ormai superata dall’evoluzione normativa e
giurisprudenziale, anche di questa Corte.
Sul rilievo che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità
biologica rispetto a quella legale, siffatta evoluzione ha portato a negare l’assoluta preminenza del
favor veritatis e ad affermare la necessità della sua ragionevole comparazione con altri valori
costituzionali.
In più occasioni, infatti, il legislatore, cui l’art. 30, quarto comma, Cost. demanda il potere di fissare
limiti e condizioni per far valere la genitorialità biologica nei confronti di quella legale, ha attribuito
prevalenza al consenso alla genitorialità e all’assunzione della conseguente responsabilità rispetto al
favor veritatis.
4.2.1.- È certo un significativo passaggio di questa evoluzione il richiamato art. 9, comma 1, della
legge n. 40 del 2004 che, in un caso di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità giuridica,
tanto specifico e peculiare da non valere, come si è detto, come tertium comparationis, fa comunque
prevalere l’interesse alla conservazione dello status, così riconoscendo che la corrispondenza tra lo
stato di figlio e la verità biologica, pur auspicabile, non è elemento indispensabile dello status
filiationis.
Anche le novità apportate dal d.lgs. n. 154 del 2013 si pongono nella direzione indicata. Se, da un
lato, è stato garantito senza limiti di tempo l’interesse primario ed inviolabile del figlio a ottenere
l’accertamento della mancata corrispondenza tra genitorialità legale e genitorialità biologica,
dall’altro lato sono stati introdotti rigorosi termini per la proposizione dell’azione da parte degli altri
legittimati, assicurando così tutela al diritto alla stabilità dello status acquisito, in particolare
laddove ad impugnare il riconoscimento sia il suo stesso autore. Il nuovo testo dell’art. 263 cod. civ.
prevede, infatti, che il termine per proporre l’azione di impugnazione – originariamente
imprescrittibile – è di un anno, se ad agire è l’autore del riconoscimento, e di cinque anni per gli altri
legittimati.
Ciò dimostra la volontà di tutelare gli interessi del figlio, evitando il protrarsi di un’incertezza
potenzialmente lesiva della solidità degli affetti e dei rapporti familiari. È stata così riconosciuta e
garantita la tendenziale stabilità dello stato di filiazione, in connessione con il consolidamento in
capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a
mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica
della procreazione.
In questa prospettiva, va anche notata la decorrenza del termine per la proposizione dell’azione: non
dalla nascita, ma da un momento successivo, quello dell’annotazione del riconoscimento nell’atto di
nascita. In questo modo è stato attribuito rilievo, ai fini della proponibilità dell’azione e del
consolidamento del diritto all’identità personale che essa ha di fronte, non all’età del figlio – in
genere, ma non necessariamente, un minore – bensì alla durata del rapporto di filiazione, anche se
iniziato in un momento successivo alla nascita.
4.2.2.- D’altra parte, l’assolutezza del principio di prevalenza dell’interesse all’accertamento della
verità biologica della procreazione è stata superata anche dalla giurisprudenza di legittimità che, da
tempo, ha riconosciuto come l’equazione tra “verità naturale” e “interesse del minore” non sia
predicabile in termini assoluti, essendo viceversa necessario bilanciare la verità del concepimento
con l’interesse concreto del figlio alla conservazione dello status acquisito (Corte di cassazione,
sezione prima civile, ordinanza 21 febbraio 2020, n. 4791; sentenze 3 aprile 2017, n. 8617, 15
febbraio 2017, n. 4020, 22 dicembre 2016, n. 26767, 8 novembre 2103, n. 25213 e 19 ottobre 2011,
n. 21651; sezione sesta civile, sentenza 23 settembre 2015, n. 18817).
4.2.3.- Anche la giurisprudenza di questa Corte ha preso atto di questa evoluzione, non solo con il
riconoscimento che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito
della famiglia» (sentenza n. 162 del 2014), ma anche con l’affermazione dell’immanenza
dell’interesse del figlio, specie se minore, nell’ambito delle azioni volte alla rimozione dello status
(sentenze n. 272 del 2017, n. 494 del 2002, n. 170 del 1999 e ordinanza n. 7 del 2012).
In particolare, proprio con riferimento alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod.
civ., questa Corte ha sottolineato che «[l]’affermazione della necessità di considerare il concreto
interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell’ordinamento
sia interno, sia internazionale […]. Non si vede conseguentemente perché, davanti all’azione di cui
all’art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se
l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia
davvero idonea a realizzarlo […]; se l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica […] ed
imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità» (sentenza n. 272 del
2017).
In definitiva, la necessità di valutare l’interesse alla conservazione della condizione identitaria
acquisita, nella comparazione con altri valori costituzionalmente rilevanti, è già contenuta nel
giudizio di cui all’art. 263 cod. civ. ed è immanente a esso. Si tratta, infatti, di una valutazione
comparativa che attiene ai presupposti per l’accoglimento della domanda proposta ai sensi dell’art.
263 cod. civ. e non alla legittimazione dell’autore del riconoscimento inveridico.
4.3.- Pertanto, nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del
suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la
verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e
predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di
operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei
soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso
alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ.
È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa
considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma
anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia.
In conclusione, anche nell’impugnazione del riconoscimento proposta da chi lo abbia effettuato
nella consapevolezza della sua falsità, «la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in
questi casi [deve] tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso»
(sentenza n. 272 del 2017). Tra queste variabili, rientra sia il legame del soggetto riconosciuto con
l’altro genitore, sia la possibilità di instaurare tale legame con il genitore biologico, sia la durata del
rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del
falso riconoscimento (in particolare nelle azioni, come quella oggetto del giudizio a quo, esercitate
prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 154 del 2013), sia, infine, l’idoneità dell’autore del
riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile,
sollevata dalla Corte d’appello di Torino, sezione per la famiglia, in riferimento agli artt. 2 e3 della
Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.