Svariati gli indici per ponderare il quantum del mantenimento del figlio

Cass. 23 ottobre 2020, n. 23336

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFFERRI Andrea – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11279-2019 proposto da: C.N., P.G., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DELLA MELORIA 27, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA D’ALESSANDRO, rappresentate e difese dall’avvocato BRUNO PILIA; – ricorrente – contro C.G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 19, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI MARIA DEIANA, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO ANTONIO SANNA; – controricorrente – avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI SEIONE DISTACCATA di SASSARI, depositata il 25/01/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott.ssa PARISE CLOTILDE.
Fatto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.La Corte d’appello di Cagliari- sezione distaccata di Sassari, con ordinanza n. 194/2019 depositata il 25-1-2019, in accoglimento, per quanto di ragione, del reclamo presentato da C.G.R. avverso l’ordinanza emessa in data 2510-2018 dal Tribunale di Nuoro, ha stabilito l’obbligo del padre reclamante di versare alla madre P.G. la somma di Euro 900,00 (così ridotta quella di Euro 1.200, riconosciuta dal Tribunale) quale contributo al mantenimento della figlia maggiorenne N., annualmente indicizzato a mezzo Istat, fino all’autosufficienza economica della figlia.
2. Avverso detta ordinanza P.G. e C.N. propongono ricorso per cassazione affidato ad un motivo, resistito con controricorso da C.G.R.
3. Con unico articolato motivo le ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 315 bis c.c., art. 316 bis c.c., comma 1 e art. 337 ter c.c., comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Lamentano errata applicazione di norme di diritto, nonché illogica e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Dolendosi della violazione dei suindicati articoli, deducono che il mantenimento dovuto dal padre alla figlia N., nata il 27 maggio 2000, è stato quantificato senza rispettare il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparativa dei redditi dei due genitori. Ad avviso delle ricorrenti la Corte territoriale, pur avendo dato atto della palese sproporzione dei redditi dei due genitori, non ha considerato che la madre risulta di fatto priva di redditi, risultando esiguo il reddito dalla stessa guadagnato nel 2017 quale rappresentante di Vorwerk Italia s.a.s., né ha considerato la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti solo dalla madre. Deducono, inoltre, che le attuali esigenze della figlia non sono state valutate in concreto, ossia tenendo conto del “livello sociale economico in cui si colloca la figura del padre”, e lamentano che sia stata omessa un’indagine esaustiva e comparativa di tutte le “sostanze” delle parti e dei bisogni e prospettive di vita della figlia, essendo la motivazione dell’ordinanza impugnata meramente apparente. Richiamano la giurisprudenza di questa Corte e le risultanze probatorie sulla situazione economica dei due genitori e sostengono che sia incontestabile l’incongruità dell’importo del contributo di mantenimento come quantificato dalla Corte territoriale (Euro 900 mensili).
4. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
4.1. Con la censura che è stata articolata sub specie del vizio di violazione di legge le ricorrenti non deducono l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, che implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, ma, viceversa, allegano un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa.
Le ricorrenti assumono, infatti, che la violazione del principio di proporzionalità consegua dalla mancata o errata valutazione comparativa dei redditi dei due genitori, e quindi il vizio denunciato è mediato dalla valutazione delle risultanze istruttorie. La doglianza così formulata è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge, ossia alla violazione di legge in senso proprio, ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, lamentando le ricorrenti l’erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta (Cass. n. 24054/2017).
4.2. In parte manifestamente infondata e in parte inammissibile è la doglianza con cui si denuncia il vizio motivazionale, consistente, ad avviso delle ricorrenti, nell’apparenza della motivazione per avere la Corte territoriale ridotto l’assegno di mantenimento, benché avesse accertato la notevole sproporzione tra i redditi dei due genitori, nonché nell’omessa considerazione sia della valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti solo dalla madre, sia dei bisogni e prospettive di vita della figlia, in relazione al “livello sociale economico in cui si colloca la figura del padre”.
La Corte territoriale, dopo aver esaminato le questioni di carattere economico, dando conto in dettaglio della situazione reddituale di ciascun genitore in base alle risultanze istruttorie, ha ritenuto, con adeguata motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014), congruo l’importo di Euro 900 del mantenimento posto a carico del padre per la figlia, ponderando in concreto ogni aspetto della fattispecie (pag. 4 ordinanza impugnata-età, scuola frequentata, inclinazioni della ragazza, città dove vive, livello economico sociale della figura del padre).
Non è, dunque, in alcun modo ravvisabile la mera apparenza della motivazione lamentata dalle ricorrenti, da intendersi nel senso chiarito dalla Giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte con la citata sentenza, avendo i Giudici d’appello espresso, con motivazione ben più che superiore al “minimo costituzionale”, il proprio convincimento, basato sulla valutazione dei fatti di rilevanza.
Detta valutazione rientra nel sindacato di merito, incensurabile in cassazione, ove adeguatamente motivato, come nella specie.
Sono inammissibili le deduzioni relative all’omessa considerazione sia della valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti solo dalla madre, sia dei bisogni e prospettive di vita della figlia, in quanto volte a sollecitare una rivalutazione del merito non consentita in sede di legittimità, senza che, peraltro, neppure sia allegata la decisività dei fatti il cui esame sembra essere prospettato come omesso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 2.200, di cui Euro 100 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 15 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2020

Riconosciuto l’assegno divorzile se c’è stato sacrificio economico e professionale.

Trib. di Verona, sent. del 22 ottobre 2020, est. Marco Nappi Quintilliano
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di VERONA
sezione I civile
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g R.G., promossa da:
CORNELIO (C. F. ***), rappresentato e difeso dall’avv. GBS come da mandato difensivo in
atti
RICORRENTE
contro
GAIA (C. F.***), rappresentata e difesa dagli avv.ti. BML e AC come da mandato difensivo in
atti
RESISTENTE
con l’intervento ex lege del
PUBBLICO MINISTERO, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Verona
Avente a oggetto: divorzio contenzioso – Cessazione effetti civili del matrimonio.
CONCLUSIONI
All’udienza del 6.2.2020, parte resistente ha precisato le seguenti conclusioni:
“Disporsi che Cornelio corrisponda a Gaia, a titolo di assegno divorzile, l’importo di €
1.400,00 mensili lordi, somma da versarsi, in via anticipata, a mezzo bonifico bancario con
valuta fissa entro il giorno cinque di ogni mese a far data dal mese di novembre 2017 e da
rivalutarsi annualmente secondo gli indici Istat con decorrenza dal mese di novembre 2018.
2. Condannarsi il ricorrente alla rifusione integrale delle spese di lite.
3. Condannarsi il ricorrente alla rifusione integrale delle spese di CTU sostenute pari ad euro
2.000,00 comprensive degli oneri di legge.
Si chiede la concessione dei termini massimi di legge per il deposito di memorie ex articolo
190 CPC.”
In data 11.2.2020, il Pubblico Ministero ha concluso nel seguente modo: “nulla oppone”.
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con ricorso introduttivo, Cornelio chiedeva la pronuncia di cessazione degli effetti civili del
matrimonio contratto con la moglie, ritenendo sussistenti i relativi presupposti di legge, nonché
l’adozione di ulteriori provvedimenti di carattere economico.
Si costituiva in giudizio la resistente, la quale non si opponeva all’accoglimento della domanda
di cessazione degli effetti civili del matrimonio, mentre contestava la fondatezza delle avverse
domande e chiedeva il riconoscimento di un assegno divorzile per un importo mensile di €
1.400,00.
Sentite le parti all’udienza del 31.1.2019 ed esperito senza esito il tentativo di conciliazione, il
Presidente disponeva la prosecuzione del giudizio, adottando i provvedimenti provvisori e
urgenti risultanti dal verbale dell’udienza predetta.
All’udienza del 23.5.2019, quindi, veniva chiesta la pronuncia parziale di cessazione degli
effetti civili del matrimonio.
Pronunciata la sentenza non definitiva sullo status e istruita la causa, veniva disposto un rinvio
all’udienza del 6.2.2020, per la precisazione delle conclusioni.
Parte resistente precisava quindi le conclusioni così come indicato in epigrafe. Non venivano
invece precisate le conclusioni del ricorrente, avendo il difensore di quest’ultimo rinunciato
precedentemente al mandato difensivo con atto del 31.7.2019.
Ciò brevemente premesso, in questa sede deve essere esaminata unicamente la domanda
relativa all’assegno divorzile reclamato dalla resistente, essendo già intervenuta, come detto, la
pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato tra le parti.
Sul punto, va brevemente ripercorso l’acceso dibattito giurisprudenziale manifestatosi nel corso
degli ultimi anni e culminato nelle note pronunce della Corte di legittimità (cfr. sentenza
dell’10.05.2017, n. 11504 e, da ultimo, sentenza resa a Sezioni Unite dell’11.8.2018).
E invero, con la sentenza n. 11504/2017, la Cassazione aveva precisato che il diritto
all’ottenimento dell’assegno divorzile era condizionato ad una verifica giudiziale che si
articolava necessariamente in due fasi, improntata alla netta distinzione tra criteri attributivi e
determinativi della misura dell’assegno divorzile: una prima fase, concernente l’ “an debeatur”,
informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi, quali
“persone singole”, e il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto
all’eventuale riconoscimento del diritto all’assegno divorzile fatto valere dal coniuge
richiedente; una seconda fase, riguardante il “quantum debeatur”, improntata al principio della
solidarietà economica tra i coniugi, che investe soltanto la determinazione dell’importo
dell’assegno stesso.
Secondo tale impostazione, nello specifico, nel procedere alla verifica del profilo dell’an
debeatur, il giudice doveva valutare se la domanda dell’ex coniuge soddisfacesse le condizioni
di legge non con riguardo a “un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di
matrimonio” ma con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica dello
stesso, desunta dai principali indici (salvo altri ritenuti rilevanti nell’ambito delle singole
fattispecie) quali il possesso di redditi di qualsiasi specie e/o cespiti patrimoniali mobiliari, le
capacità e possibilità effettive di lavoro personale, la stabile disponibilità di una casa di
abitazione (v: Cass. civ. 22.06.2017, n. 15481; Trib. Venezia, 24 maggio 2017; Tribunale
Milano, sez. IX, 22.05.2017).
Con la citata successiva pronuncia delle Sezioni Unite (sentenza n. 18287/18), da ultimo, la
Cassazione è intervenuta nuovamente nel vivace dibattito sviluppatosi conseguentemente,
talvolta con risvolti di critica al sopra citato ultimo orientamento, evidenziando che entrambi i
criteri in passato adottati (quello parametrato sul tenore di vita, ex Cass. SS.UU. 11490/1990, e
quello rapportato alla autosufficienza economica dei coniugi di cui alla sentenza n.
11504/2017), lungi dal delimitare efficacemente la discrezionalità giudiziale, “sono esposti al
rischio dell’astrattezza e del difetto di collegamento con la effettiva relazione matrimoniale.”
Con riguardo al primo dei due suddetti criteri, la Suprema Corte, invero, ha rilevato come la
preminenza assegnata alla comparazione delle rispettive condizioni patrimoniali dei coniugi sia
foriera, in alcune particolari ipotesi, di rischi di ingiustificata locupletazione di una delle parti.
In relazione al radicale revirement attuato nel 2017, la Corte ha evidenziato invece il carattere
fortemente riduttivo della portata precettiva della norma ex art. 5, comma 6, della l. 898/70,
nella parte in cui questo orientamento rischia di obliterare la considerazione degli indicatori
contenuti nella prima parte di tale norma.
Sulla base di tali argomentazioni, quindi, la Corte ha ritenuto di dover abbandonare la rigida
bipartizione tra criteri attributivi e determinativi, condivisa, sia pur con diverse implicazioni,
dalle precedenti pronunce sopra indicate, ritenendo che il diritto all’assegno divorzile debba
essere subordinato a una valutazione concreta ed effettiva dell’adeguatezza dei mezzi delle parti
e della loro incapacità a procurarseli per ragioni oggettive, fondata in primo luogo sulle
condizioni economico-patrimoniali delle parti e collegata causalmente alla valutazione degli
altri indicatori contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6 delle legge 898/70, aventi natura
equiordinata; ciò “al fine di accertare se l’eventuale rilevante disparità della situazione
economico-patrimoniale degli ex coniugi all’atto dello scioglimento del vincolo sia dipendente
dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio,
con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione
dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, in relazione alla durata, fattore di
cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del
patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità
professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche in
relazione all’età del coniuge richiedente ed alla conformazione del mercato del lavoro.”
Tale impostazione è stata ritenuta l’unica in grado di salvaguardare la natura “perequativa e
riequilibratrice” propria dell’assegno divorzile, alla stregua del principio di solidarietà che
continua a permeare il vincolo coniugale anche dopo il suo dissolvimento.
In definitiva, secondo tale impostazione ermeneutica, il diritto all’assegno divorzile implica una
indagine sui fattori causali determinativi della diseguaglianza economica tra i coniugi,
dovendosi accertare se tale disparità, all’atto dello scioglimento del vincolo, sia dipendente o
meno dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise dalle parti in costanza
di matrimonio e dai ruoli endofamiliari che ciascun coniuge ha scelto consapevolmente di
attribuirsi. “Ove la disparità abbia questa radice causale e sia accertato che lo squilibrio
economico patrimoniale conseguente al divorzio derivi dal sacrificio di aspettative
professionali e reddituali fondate sull’assunzione di un ruolo consumato esclusivamente o
prevalentemente all’interno della famiglia e dal conseguente contribuito fattivo alla
formazione del patrimonio comune e a quello dell’altro coniuge, occorre tenere conto di
questa caratteristica della vita familiare nella valutazione dell’inadeguatezza dei mezzi e
dell’incapacità del coniuge richiedente di procurarseli per ragioni oggettive.”
Il diritto a tale contributo, quindi, deve originare da una comparazione delle condizioni
economico-patrimoniali dei due coniugi e deve mirare a garantire non già il raggiungimento di
un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza bensì l’ottenimento di “un
livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in
particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente
sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente”, alla luce
della natura perequativo-compensativo sottesa all’assegno divorzile che discende, a sua volta,
“direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà”.
Fatte queste necessarie premesse in punto di diritto, nel caso di specie va preliminarmente
rilevato che il rapporto di coniugio si è dipanato per poco più di 36 anni (considerando la data
di celebrazione del matrimonio e quella della separazione personale delle parti) e che da tale
unione sono nate tre figli.
Con riguardo alle condizioni reddituali e patrimoniali delle parti, quindi, la sig.ra Gaia ha dato
atto di svolgere attualmente una attività lavorativa per la quale percepisce l’importo mensile di
€ 430,00, evidenziando di aver lavorato, in costanza di matrimonio, per metà della giornata, e
di essersi conseguentemente potuta più intensamente dedicare all’attività di accudimento della
prole e alle esigenze del nucleo familiare (circostanze non contestate dalla controparte).
La stessa, ancora, ha precisato di aver acquistato l’attuale immobile ove vive, utilizzando le
somme ricavate dalla vendita dell’ex casa coniugale (in regime di comproprietà con il
ricorrente) e quelle derivanti dal disinvestimento dei depositi bancati detenuti unitamente al
medesimo ricorrente in costanza di matrimonio; al riguardo, la sig.ra Gaia ha documentato di
essere attualmente titolare di alcuni titoli azionari, pari a un valore di circa € 52.000,00,
acquistati utilizzando le somme residuate dalle operazioni negoziali appena citate.
In relazione alla situazione del sig. Cornelio, ancora, vanno evidenziate le incongruenze,
riscontrate già dal Presidente nell’ambito dell’udienza presidenziale, esistenti tra l’entità degli
oneri economici assolti dallo stesso e le risultanze delle sue dichiarazioni dei redditi.
Una circostanza che aggrava la non attendibilità della condizione di difficoltà economica del
ricorrente, come paventata dallo stesso, è quella legata all’avvenuto trasferimento integrale
delle quote societarie detenute da quest’ultimo al 100 % (relative a una società avente come
oggetto sociale lo svolgimento di attività di consulenza aziendale), disposto in favore della
sorella, priva di qualunque competenza specifica nel settore in cui opera la suddetta società
(circostanza allegata dalla resistente e in alcun modo contestata dalla controparte).
Sempre il ricorrente, inoltre, risulta essere amministratore della Studio Cornelios.r.l., nonché
componente del consiglio d’amministrazione della B.B. del Società XYZ; il medesimo
ricorrente, al riguardo, ha dichiarato di essere stato assunto da tale società in qualità di
dipendente.
Orbene, nell’ambito della C.T.U., disposta al precipuo scopo di ricostruire l’articolata
situazione patrimoniale del ricorrente medesimo, quest’ultimo ha omesso di depositare
l’analitica documentazione reddituale come richiesta dal Consulente tecnico d’ufficio,
impedendo, conseguentemente, lo svolgimento di qualunque tipo di indagine peritale.
La condotta tenuta dal sig. Cornelio, dunque, si pone in palese contrasto con quanto prescritto
ex art. 5, comma 9, l. divorzio e indicato altresì, in maniera specifica, nel Protocollo di famiglia
siglato da questo Tribunale in data 3.12.2018.
La violazione del dovere di lealtà processuale che la suddetta norma pone a carico di entrambe
le parti, al fine di consentire l’adozione di una pronuncia che sia il più possibile aderente
all’effettiva condizione economica delle stesse, trova una specifica sanzione, per l’ipotesi della
sua inosservanza, nella possibilità per il giudice di trarre dal contegno processuale delle parti
argomenti di prova ex art. 116 c.p.c.
Alla luce di quanto appena precisato, questo Collegio, pertanto, ritiene che vada valorizzata la
persistente assenza in capo alla resistente di redditi che, pur a fronte dei relativi risparmi
personali, siano idonei a garantire alla stessa, in maniera stabile, una piena condizione di
autosufficienza economica (anche considerando la sua età e l’attuale conformazione del
mercato del lavoro, nonché la mancata titolarità di ulteriori beni immobili rispetto a quello
adibito ad abitazione personale), circostanza che delinea una situazione patrimoniale della
sig.ra Gaia non molto dissimile rispetto a quella configuratasi in sede di separazione
consensuale e che aveva indotto la controparte a riconoscere alla moglie l’assegno di
mantenimento attualmente previsto.
Devono altresì essere debitamente considerati il comportamento processuale tenuto dal sig.
Cornelioe sopra specificato, i redditi presumibilmente posseduti da quest’ultimo, nonché il
pacifico e prevalente apporto, rispetto a quello del marito (dedicatosi, come dallo stesso
affermato, a una proficua carriera – cfr. quanto dichiarato nella seconda memoria ex art. 183,
VI. co, c.p.c.), dato dalla resistente alla conduzione del nucleo familiare e, da ultimo, il lungo
lasso temporale in cui si è dipanato il matrimonio, cui deve essere necessariamente ancorata la
misura dell’assegno in esame (cfr. art. 5, comma 6, L. 898/1970).
In definitiva, in aderenza alle coordinate ermeneutiche di cui sopra, ritiene il Collegio che
debba confermarsi quanto statuito in sede d’udienza presidenziale (provvedimento a sua volta
confermativo di quanto previsto nell’ambito del giudizio di separazione), dovendosi quindi
prevedere in capo al sig. Cornelio l’obbligo di corrispondere alla sig.ra Gaia, entro il giorno 5
di ogni mese, l’importo mensile di € 700,00 a titolo di assegno divorzile, importo da
considerarsi al netto delle relative imposte (che graveranno dunque sul ricorrente) e soggetto
alla relativa rivalutazione annuale secondo gli indici ISTAT.
Le spese di lite, stante la soccombenza reciproca delle parti, devono essere integralmente
compensate.
Le spese di C.T.U. invece, tenuto conto del fatto che tale accertamento si è reso necessario per
appurare gli effettivi redditi percepiti dal sig. Cornelio nonché del comportamento assunto
dallo stesso nel corso delle operazioni peritali (che ne ha inficiato il regolare svolgimento),
devono essere poste integralmente a carico di quest’ultimo, con riguardo ai rapporti interni con
la controparte, ferma restando la solidarietà esterna verso il C.T.U.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così dispone:
pone a carico di Giorgio Cornelio l’obbligo di corrispondere in favore di Rina Gaia, entro il
giorno 5 di ogni mese, la somma di € 700,00 a titolo di assegno divorzile, importo da
considerarsi al netto delle relative imposte e soggetto alla relativa rivalutazione annuale
secondo gli indici ISTAT;
dispone che le spese di lite siano integralmente compensate fra le parti;
pone le spese relative alla C.T.U., nei rapporti interni tra le parti, integralmente a carico di
Cornelio, ferma restando la solidarietà esterna verso il C.T.U.
Così deciso nella camera di consiglio del giorno 22.10.2020.
Il Giudice relatore Il Presidente
Marco Nappi Quintiliano Ernesto D’Amico

Le azioni di nullità non si trasmettono agli eredi salvo che l’evento morte sopravvenga nel corso del giudizio

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 16 ottobre 2020, n. 22599
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18430-2018 proposto da:
L.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO ESBARDO;
– ricorrente –
Contro
V.S., V.P., V.F., F.M., F.V., nella qualità di eredi di C.M.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ULPIANO 29, presso lo studio dell’avvocato FABIO CRISCUOLO, rappresentati e difesi dall’avvocato MANUELA DE SENSI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 308/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 14/02/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 01/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’Appello di Catanzaro, adita da C.M.M., aveva dichiarato l’efficacia nello Stato italiano della sentenza ecclesiastica, emessa dal Tribunale ecclesiastico Regionale Calabro di Reggio Calabria, che aveva pronunciato la nullità del matrimonio concordatario contratto tra C.M.M. e L.G.. La L. si era costituita in giudizio e si era opposta alla delibazione della sentenza ecclesiastica, eccependone la contrarietà all’ordine pubblico italiano per l’instaurazione tra le parti di una convivenza matrimoniale protrattasi per un tempo superiore a tre anni (precisamente otto anni). La Corte aveva rilevato che la convenuta nel sollevare l’eccezione nella propria comparsa di costituzione non aveva dimostrato l’effettivo svolgersi tra le parti di una convivenza coniugale avente le specifiche connotazioni richieste ai fini di configurare una causa preclusiva alla delibabilità della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio sotto il profilo della sua contrarietà all’ordine pubblico italiano. Secondo il giudice di secondo grado, la L., infatti, non aveva allegato comportamenti e fatti specifici tali da far configurare la convivenza matrimoniale come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo.
La L. propone ricorso per Cassazione e formula tre motivi. Il C. si costituisce e deposita controricorso. La ricorrente ha depositato memoria. Gli eredi di C.M. hanno depositato atto d’intervento volontario.
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7. Secondo la ricorrente, è illogica e contraddittoria la motivazione con la quale la Corte d’Appello, con riferimento all’eccezione sollevata dalla L. per la non delibabilità della sentenza ecclesiastica, ritiene assente un supporto probatorio agli atti in giudizio, essendo in atti la comparsa di risposto del C. nel giudizio separativo ed essendo stata richiesta l’acquisizione della documentazione relativa a tale giudizio ed in particolare l’interrogatorio formale del C..
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 3 (principio di ragionevolezza) e dell’art. 7 Cost. e dell’art. 8 Concordato Lateranense.
Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello nel dichiarare l’efficacia in Italia della sentenza ecclesiastica si è limitata a richiamare la sentenza ecclesiastica, senza sottoporre al suo vaglio critico altri elementi per approfondire e indagare sugli aspetti della convivenza, nonostante la sollevata eccezione della ricorrente. Il giudice di secondo grado ha tralasciato qualsiasi altro elemento circa la stabilità, la continuità, il legittimo affidamento, la responsabilità della convivenza.
Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2967 c.c. per non avere il giudice di secondo grado disposto nulla sulle richieste di prova formulate dalla L. e per aver basato il proprio convincimento solamente su quanto era stato evidenziato nella sentenza ecclesiastica.
Il C. nel controricorso deduce l’inammissibilità del ricorso della L., perchè tardivamente proposto oltre il termine di 60 giorni dalla notificazione del provvedimento impugnato, così come previsto dall’art. 326 c.p.c. Nella specie la sentenza della Corte d’Appello è stata notificata il 1/3/2018 ed il ricorso per cassazione risulta notificato il 15 giugno 2018.
L’eccezione deve essere disattesa. Come esattamente rilevato nella memoria di parte ricorrente la sentenza impugnata no risulta notificata presso il domicilio eletto nella comparsa di risposta del giudizio presso la Corte d’Appello. Quest’ultimo, come verificato mediante accesso agli atti (consentito in funzione della natura processuale del vizio), dal Collegio è indicato presso lo studio legale dell’avv. Carlo Esboardo, in Castrovillari Corso Calabria, 120. Peraltro risulta anche precisato che tutte le notificazioni e comunicazioni devono essere effettuate all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario, anch’esso esplicitato nell’atto difensivo.
Deve essere disattesa, del pari, anche la richiesta di declaratoria della cessazione della materia del contendere per decesso di C.M. in corso di giudizio. L’art. 127 c.c. esclude la fondatezza di questo assunto, in quanto stabilisce che le azioni di nullità (come quella di cui è causa, ancorchè derivante dall’accertamento del giudice canonico) non si trasmettono agli eredi se non quando l’evento morte intervenga in corso di giudizio avente ad oggetto l’accertamento della nullità. Nel caso di specie, il giudizio di riconoscimento della dichiarazione di nullità pronunciata dal giudice canonico costituisce lo strumento per rendere operativa nel nostro ordinamento la predetta statuizione oggetto di diverso giudizio. Peraltro la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che la sopravvenienza nel corso del giudizio della morte di uno dei coniugi non configura un atto interruttivo, nè determina la cessazione della materia del contendere ma consente la prosecuzione del procedimento salva l’esigenza (garantita nella specie con l’atto d’intervento) di avvertire gli eventuali eredi per assicurare il contraddittorio ed il diritto di difesa. (Cass. 527 del 1985; 4066 del 1982).
I tre motivi di ricorso, da trattare congiuntamente, sono manifestamente infondati. La Corte d’Appello ha fondato il proprio giudizio negativo relativo all’effettività della convivenza su una pluralità di fattori, comprensivi delle risultanze del giudizio ecclesiastico che, peraltro, non le era impedito di valutare liberamente ex art. 116 c.p.c.. Ha formulato un giudizio complessivo, selezionando le acquisizioni probatorie secondo un giudizio incensurabile in sede di giudizio di legittimità, ove, come nella specie, sia ampiamente argomentato. La dedotta contraddittorietà delle dichiarazioni del C. nelle diverse sedi giudiziarie, oltre a riguardare dichiarazioni di parte, sono state con valutazione incensurabile ritenute irrilevanti alla luce delle altre acquisizioni probatorie esaminate e valorizzate nella sentenza impugnata.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con applicazione della soccombenza in ordine alle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali da liquidarsi in E 4000 per compensi ed E 100 per esborsi, oltre accessori di legge.
Sussistono i requisiti processuali per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

La sospensione degli sfratti disposta in ragione dell’emergenza pandemica non si applica alle esecuzioni immobiliari

Tribunale Mantova, 20 Agosto 2020. Est. Bernardi.
SEZIONE SECONDA
Il Giudice dell’Esecuzione,
– letti gli atti del procedimento esecutivo immobiliare n. 87-1/18 R.G. e sciogliendo la riserva di cui al verbale d’udienza del 18-8-2020, così provvede:
– rilevato che, con ricorso depositato il 25-5-2020, C. G. e D. S. L. (debitori-esecutati) hanno proposto opposizione agli atti esecutivi in relazione al decreto di trasferimento del cespite sito in C. di M., via L., 22, meglio descritto nell’atto introduttivo, emesso il 3/4-3-2020, instando per la sospensione dell’esecuzione;
– rilevato che gli opponenti, hanno dedotto 1) che l’immobile è stato alienato, nell’ambito della procedura coattiva, a un prezzo notevolmente inferiore rispetto a quello giusto; 2) che sarebbe stato violato il disposto di cui all’art. 38 t.u.b. per superamento del limite di finanziabilità del mutuo fondiario di cui il cespite in questione era gravato; 3) che troverebbe applicazione il disposto di cui all’art. 54 ter del decreto legge n. 18/2020 convertito con legge n. 27/2020 sicché sussisterebbero i presupposti per disporre temporaneamente la sospensione della procedura esecutiva in questione;
– osservato che B. I. e M. A., acquirenti del cespite oggetto del decreti di trasferimento, costituitisi, hanno contestato la fondatezza del ricorso chiedendone la reiezione con la condanna della controparte ex art. 96 c.p.c. deducendo 4) la tardività dell’opposizione essendo stato il ricorso notificato il 30-6-2020; 5) l’inapplicabilità alla fattispecie del disposto di cui all’art. 54 del decreto-legge n. 18/2020 convertito con legge n. 27/2020 posto che gli opponenti hanno trasferito la loro abitazione prevalente in Funes fin dall’ottobre 2018; 6) l’infondatezza delle ulteriori deduzioni poste a fondamento dell’opposizione;
– rilevato che il creditore procedente B. s.p.a. si è costituito parimenti deducendo l’infondatezza dell’opposizione sulla base delle medesime ragioni dedotte dalla difesa degli acquirenti e sopra sinteticamente riportate, chiedendo, in via subordinata, nel caso di accertata violazione del disposto di cui all’art. 38 t.u.b., che venga disposta la conversione del mutuo da fondiario a ipotecario;
– osservato che il difensore dell’intervenuto Z. A. d. P. s.r.l., comparso in udienza, non si è costituito e si è rimesso a giustizia;
– considerato preliminarmente che Z. A. d. P. s.r.l., non essendosi formalmente costituito, non può ritenersi parte del presente giudizio;
– osservato che il motivo articolato sub 2) è inammissibile atteso che con esso si fa valere una ragione di una opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., non più consentita in quanto proposta dopo che è stata disposta la vendita senza che siano stati enunciati i motivi contemplati dall’art. 615 II co. u.p. c.p.c.;
– rilevato che il motivo di opposizione sub 1) può essere delibato essendo tempestivo il ricorso da qualificarsi, in parte qua, come proposto ex art. 617 c.p.c. dovendosi avere riguardo, quanto al rispetto della disciplina prevista dall’art. 617 c.p.c., al giorno di deposito del ricorso (25-5-2020), rispetto al momento di emissione dell’atto impugnato (il 4-3-2020) nonché alla sospensione dei termini processuali disposta dall’art. 36 del 23/2020, conseguendone che l’ultimo giorno utile per depositare l’opposizione (ex art. 617 c.p.c.) era il 28-5-2020, termine che, pertanto, è stato rispettato dagli opponenti;
– considerato, quanto alla doglianza sub 1), che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il potere di sospendere la vendita, attribuito dall’art. 586 c.p.c. (nel testo novellato dall’art. 19 bis della legge n. 203 del 1991) al giudice dell’esecuzione dopo l’aggiudicazione perché il prezzo offerto è notevolmente inferiore a quello giusto, può essere esercitato allorquando: a) si verifichino fatti nuovi successivi all’aggiudicazione; b) emerga che nel procedimento di vendita si siano verificate interferenze illecite di natura criminale che abbiano influenzato il procedimento, ivi compresa la stima stessa; c) il prezzo fissato nella stima posta a base della vendita sia stato frutto di dolo scoperto dopo l’aggiudicazione; d) vengano prospettati, da una parte del processo esecutivo, fatti o elementi che essa sola conosceva anteriormente all’aggiudicazione, non conosciuti né conoscibili dalle altre parti prima di essa, purché costoro li facciano propri, adducendo tale tardiva acquisizione di conoscenza come sola ragione giustificativa per l’esercizio del potere del giudice dell’esecuzione (cfr. Cass. 10-6-2020 n. 11116; Cass 21-9-2015 n. 18451; Cass. 14-2-2017 n. 3791; Cass. 23-2-2010 n. 4344), laddove da parte degli opponenti non è stata nemmeno dedotta la verificazione di fatti nuovi o di interferenze illecite;
– ritenuto, quanto al profilo sub 3), che alla esecuzione in esame non può trovare applicazione il disposto di cui all’art. 54 ter del decreto-legge n. 18/2020 convertito con legge n. 27/2020 posto che presupposto per l’applicazione della norma è che l’immobile oggetto di esecuzione costituisca l’abitazione principale del debitore laddove, dalla documentazione in atti, risulta che gli opponenti non risiedono nel cespite coattivamente alienato, essendosi trasferiti sin dall’ottobre del 2018 in Funes;
– considerato altresì che non può nemmeno trovare applicazione il disposto di cui all’art. 103 del decreto-legge n. 18/2020 nel testo attualmente vigente (come invocato dagli opponenti nel corso dell’udienza del 18-8-2020), posto che l’art. 17 bis del decreto-legge n. 34/2020 convertito con legge n. 77/2020, nell’intento anche di chiarire l’esatto ambito di applicazione della norma (che, nella originaria stesura, ha dato luogo ad applicazioni contrastanti in giurisprudenza), ha previsto il differimento al 31-12-2020 dell’esecuzione degli sfratti degli immobili adibiti a uso abitativo e non abitativo come chiarito dalla rubrica di tale disposizione e come si evince dagli atti parlamentari, norma che non contiene riferimenti alle esecuzioni immobiliari;
– osservato che rimane fermo quanto stabilito con proprio decreto del 30-5-2020;
– considerato che non ricorrono le condizioni per l’applicazione del disposto di cui all’art. 96 c.p.c. non essendo, allo stato, configurabile nel comportamento degli opponenti la mala fede o la colpa grave;
– ritenuto pertanto che non ricorrono i gravi motivi per disporre la sospensione della procedura esecutiva e che, le spese, nei soli rapporti tra gli opponenti, gli acquirenti e il creditore procedente, seguono la soccombenza (cfr. Cass. 31-5-2019 n. 15082; Cass. 24-10-2011 n. 22033) e vengono liquidate come da dispositivo, applicandosi i parametri medi di cui al d.m. 55/2014 con la maggiorazione di cui all’art. 4 co. 8 del predetto decreto ricorrendone i presupposti, mentre nessuna statuizione può essere adottata con riguardo alla posizione del terzo intervenuto nell’esecuzione in quanto non costituito nel presente sub-procedimento;
p.t.m.
– rigetta l’istanza di sospensione;
– rigetta la domanda proposta ex art. 96 c.p.c.;
– condanna gli opponenti, in solido fra loro, a rifondere a B. I. e M. A. le spese di lite che si liquidano in € 4.320,00 per onorari, oltre al rimborso delle spese generali pari al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge;
– condanna gli opponenti, in solido fra loro, a rifondere a B. s.p.a. le spese di lite che si liquidano in € 4.320,00 per onorari, oltre al rimborso delle spese generali pari al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
– assegna agli opponenti termine perentorio di giorni trenta per l’inizio del giudizio di merito, previa iscrizione a ruolo a cura della parte interessata e osservati i termini a comparire di cui all’art. 163 bis c.p.c., ridotti della metà.
Si comunichi.

La convivenza esclude ogni residua solidarietà postconiugale.

Tribunale di Parma, 2 settembre 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA
Sezione Prima Civile
in composizione collegiale nelle persone dei signori Magistrati:
dott.ssa Angela Chiari – Presidente rel.
dott.ssa Maria Pasqua Rita Vena – Giudice
1 Massima a cura dell’avv. Valeria Mazzotta, componente comitato esecutivo e presidente Ondif
sez. bolognese.
1
dott. ssa Silvia Orani – Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 6729 del Ruolo Generale del 2015
promossa da
X , con il patrocinio dell’avv. Barbara Ponzi (ricorrente)
contro
Y , con il patrocinio dell’avv. Elisabetta Fanciroli (convenuta)
e con l’intervento del
PUBBLICO MINISTERO in sede
In punto a: Divorzio contenzioso
* * *
CONCLUSIONI
Il Procuratore del ricorrente chiede e conclude:
“Voglia il Tribunale Ill.mo. contrariis rejectis, previa ogni declaratoria, anche incidentale, del
caso e di legge:
a) in via principale e nel merito, dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio
contratto con rito concordatario in Collecchio (PR) il 21/09/2000, fra i sigg. X e Y e
trascritto nell’anno 2000 nei Registri di Stato Civile del Comune di Collecchio (PR) al n.
27 P.2 S.A e, per l’effetto. ordinare all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di
Collecchio di procedere alla trascrizione della emananda sentenza nei registri degli atti di
matrimonio del suddetto Comune;
b) in via principale e nel merito, confermare relativamente alla figlia minore M____ ogni
provvedimento assunto con riferimento all’affidamento, alla collocazione, al
mantenimento ed alle spese ordinarie e straordinarie, ed adottare con riferimento al
diritto di visita, in forza di quanto esplicitato in narrativa, i provvedimenti più opportuni,
nell’interesse della minore, atti a far rispettare da parte della resistente le modalità e i
tempi di frequentazione;
c) in via principale e nel merito, dichiarare, per tutte le ragioni esposte in narrativa, che la
sig.ra Y , per carenza dei presupposti di legge, non ha il diritto ad ottenere, da parte del sig.
X , la somministrazione periodica di un assegno divorzile pari ad € 700,00, da rivalutarsi
secondo indici Istat;
d) in via subordinata e nel merito, nella denegata ipotesi in cui dovesse essere riconosciuto
l’assegno divorziale a favore della sig.ra Y, assegnare alla resistente, previo accertamento
delle sue capacità e possibilità lavorative, un termine certo entro cui attivarsi per reperire
2
una attività lavorativa, decorso inutilmente il quale alla stessa dovrà essere in ogni caso
negato, per tutte le ragioni esposte in narrativa, l’assegno divorziale;
e) la via ulteriormente subordinata e nel merito, nella denegata ipotesi in cui l’Ill.mo
giudicante, dovesse riconoscere, anche solo per un determinato periodo temporale, il
diritto all’assegno divorziale a favore della sig.ra Y dichiarare, per tutte le ragioni esposte in
narrativa. la revisione in diminuzione del suo importo;
f) in ogni caso con vittoria di spese, diritti e onorari oltre IVA e CPA, come per legge”.
Il procuratore della convenuta chiede e conclude:
“Dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato a Collecchio (PR) il
21.09.2000 tra X , nato a Parma il 21.09.1973 e residente in Langhirano (PR) Via
Tomasicchio 7/2 e Y , nata a Fiorenzuola d’Arda (PC) il 16.10.1978 e residente a
Langhirano (PR) alla Via O. Ferrari 4 int. 10, disponendo, ai fini delle conseguenti
annotazioni con ordine all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Colleeehio (PR), di
procedere alla trascrizione dell’emananda sentenza, e in particolare
NEL MERITO, in via definitiva:
1) confermare l’affidamento condiviso della figlia minore M______ nata il ___.08.2002
(prossima alla maggiore età), da collocarsi in via alternata quindicinale presso ciascun
genitore come da relazione del CTU in data 02.04.2019 a firma dott.ssa C. Zilioli e negli
stessi termini ivi indicati confermare i diritti di visita e di permanenza con ciascun genitore
per il week-end, le vacanze estive e le festività;
2) dichiarare il sig. X tenuto al pagamento in favore della figlia minorenne M____, della
somma pari ad € 700,00 mensile, rivalutabile annualmente secondo gli indici ISTAT,
nonché il 100% delle spese straordinarie, già tra le parti concordate in sede di separazione
consensuale;
3) dichiarare il sig. X tenuto al pagamento in favore della moglie Y disoccupata e non
economicamente autosufficiente di un assegno divorzile pari ad € 700,00 mensili,
rivalutabili annualmente secondo gli indici ISTAT, fino a quando non troverà una stabile
occupazione;
4) disporre, ai sensi dell’art. 12 bis della L. 898/70, a carico di X il versamento in favore di
Y della quota di T.I.R. percepita, ovvero da percepire all’atto della cessazione del rapporto
di lavoro, in misura pari al 40% dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto
di lavoro è coinciso con il matrimonio.
In ogni caso e sempre con vittoria di spese, competenze e onorari di lite, oltre ad accessori
come di legge”.
* * *
FATTO
Con ricorso depositato il 30.12.2015 il ricorrente X chiedeva dichiararsi ex art. 3 n. 2, lett.
h) della legge 898/1970 la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con Y ,
3
essendo intervenuta separazione consensuale omologata l’11.3.2013 dal Tribunale di
Parma ed essendosi protratta ininterrottamente la separazione dalla comparizione dei
coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nel giudizio separativo.
In ordine alle condizioni di divorzio, parte ricorrente, dopo avere premesso che
dall’unione era nata la figlia M_____ il ___ agosto 2002, chiedeva che fosse confermato
l’assegno a suo carico stabilito in sede di separazione per il mantenimento della figlia, pari
ad curo 300,00 mensili, altre al 100% delle spese straordinarie, ma chiedeva che fosse
revocato l’assegno per il mantenimento della moglie, previsto in base agli accordi di
separazione omologati nella misura di € 700,00 mensili.
A tal fine esponeva:
– di essere amministratore dell’impresa di famiglia Cav. *** srl;
– di percepire per tale attività un compenso di € 1.500,00 mensili;
– di non essere proprietario di immobili e di non avere altri redditi;
– in sede di separazione le parti avevano concordato di fissare la residenza abituale di
M_______ presso l’abitazione del padre, che doveva farsi carico di tutte le spese sia
ordinarie che straordinarie di mantenimento della minore;
– di avere versato alla moglie, in base agli accordi di separazione, un importo una tantum di
€ 16.500,00 “a titolo di fondo pensione” e di averle trasferito la propria autovettura Fiat Bravo,
a fronte del pagamento della somma simbolica di € 50,00;
– di essersi fatto carico di un assegno di € 700,00 in favore della moglie al fine di aiutarla
ad affrontare le spese di trasferimento e sistemazione in una nuova abitazione, avendo la Y
espresso nell’atto di separazione la propria volontà di trasferirsi in una nuova abitazione:
– tale contributo era inteso come transitorio, in quanto era già all’epoca troppo gravoso
per l’onerato ed avendo la moglie la capacità di produrre un adeguato reddito proprio;
– in costanza di matrimonio la famiglia aveva tenuto un tenore di vita estremamente
semplice.
La convenuta Y si costituiva in giudizio con memoria difensiva con la quale aderiva alla
domanda di divorzio, ma chiedeva che fosse disposto il collocamento preferenziale della
figlia presso di sé, con conferma delle condizioni di separazione, che prevedevano a carico
dell’X un assegno di € 700,00 per il mantenimento della moglie e di € 300.00 per il
mantenimento della figlia, oltre al 100% delle spese straordinarie.
A tal line la resistente allegava che:
– la figlia M______ conviveva con la madre, pur avendo conservato la residenza anagrafica
presso l’abitazione del padre;
– di sostenere un canone di locazione di € 100,00 mensili;
– di essere disoccupata e di aver chiesto l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato;
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– di avere svolto lavori di carattere saltuario, come barista, standista e baby sitter solo per
periodi limitati di tempo.
Innanzi al giudice designato a svolgere le funzioni presidenziali comparivano entrambe le
parti, le quali allegavano che era insorto un conflitto in ordine alla iscrizione della figlia
minore alla scuola superiore e sul punto il ricorrente proponeva istanza ex art. 709 ter
c.p.c.
All’esito dell’audizione, esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione, il
Presidente delegato disponeva CTU sulle capacità genitoriali, chiedendo altresì al CTU di
esprimersi in ordine alle ragioni del contrasto tra i genitori in merito alla scelta dell’istituto
scolastico a cui iscrivere la bambina, alle rispettive ragioni e motivazioni, indicando quale
fosse la scelta più idonea nell’interesse della minore, previa sua audizione.
Nel corso della CTU le parti raggiungevano un accordo sulla scuola di iscrizione della
minore e il consulente tecnico d’ufficio confermava l’opportunità dell’affidamento della
minore in via condivisa ad entrambi i genitori già prevista in sede di separazione e
suggeriva un regime di frequentazione di M_____ con ì genitori modulato su tempi
sostanzialmente paritari.
All’esito del deposito della CTU e, sentite nuovamente le parti, che dichiaravano di
concordare in ordine ai tempi di permanenza della minore con i genitori indicati dal
CTU, il Presidente delegato disponeva il collocamento della minore presso entrambi i
genitori con alternanza settimanale, confermando le ulteriori condizioni previste in sede di
separazione, previa specificazione delle spese straordinarie a carico delle parti.
Il P.M., notiziato della pendenza della causa, dichiarava di intervenire nel processo.
Introdotta la fase contenziosa, venivano assunte le prove orali dedotte dalle parti ed
espletate indagini tributarie sui redditi e sull’effettivo tenore di vita del ricorrente.
Indi, disposta ulteriore integrazione peritale in ordine i tempi di permanenza della minore
con i genitori, la causa veniva rimessa alla decisione del Collegio, previa assegnazione alle
parti dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle difese finali.
* * *
MOTIVI DELLA DECISIONE
Sulla domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio
La domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio è fondata e merita
accoglimento.
Dai documenti prodotti risulta provato che fra le parti vi è stata separazione a far tempo
dal 18.2.2013, data di comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nel
giudizio separativo.
Ricorre quindi l’ipotesi prevista dall’art. 3 n. 2 lett. b) della L. 01.12.70 n. 898.
Lo stato di separazione protratto in modo ininterrotto fin dalla comparizione dei coniugi
5
all’udienza ex art. 711 c.p.c., quale attestato dalle allegazioni di entrambe le parti e dalla
diversità delle residenze certificate agli atti, nonché il fallimento del tentativo di
conciliazione nella fase presidenziale, oltre alla insistenza di entrambe le parti nella
domanda di divorzio rappresentano tutti elementi univoci a riprova che l’unione materiale
e spirituale della coppia non può più essere ricostituita.
Consegue l’accoglimento della chiesta pronuncia di cessazione degli effetti civili del
matrimonio.
Sull’affidamento, sul collocamento della figlia minore
e sui tempi di permanenza della minore con entrambi i genitori
Devono essere esaminate anzitutto le domande relative all’affidamento e al collocamento
della figlia minore, benché quest’ultima sia ormai prossima alla maggiore età.
Quanto all’affidamento deve certamente confermarsi il regime di affidamento condiviso,
richiesto concordemente da entrambe le parti e ritenuto opportuno ed idoneo
nell’interesse della minore dal CTU.
Quanto al suo collocamento e ai tempi di permanenza della minore con i genitori deve
confermarsi il regime già in atto di collocamento alternato della minore presso entrambi i
genitori con cadenza quindicinale, suggerito dal CTU nella seconda relazione peritale,
regime a cui le parti hanno prestato piena adesione, attuandolo proficuamente nelle more
del procedimento.
La ragazza è attualmente iscritta alla Scuola Alberghiera di Salsomaggiore Terme, che
frequenta con profitto, nonostante la distanza dalla sede di residenza (entrambi i genitori
risiedono a Langhirano), grazie anche all’ausilio dei nonni paterni che hanno messo a
disposizione della ragazza la loro seconda casa sita in Salsomaggiore Terme e che si sono
attivati per accompagnare o prelevare M_____ da scuola nelle giornate in cui la stessa non
si avvale dei mezzi pubblici.
Tale scuola, che rappresentava la prima opzione espressa dalla minore, è stata scelta dalle
parti dopo un iniziate conflitto, che ha visto contrapposti il padre che, ritenendo
impraticabile la scelta della scuola di Salsomaggiore Terme, proponeva una scuola di
Parma ad indirizzo analogo (indirizzo turistico alberghiero) e la madre, che, sempre sul
presupposto della impraticabilità per ragioni di distanza della scuola di Salsomaggiore
Terme, proponeva di non iscrivere la figlia a scuola, facendola studiare a casa con un
corso on line, reso disponibile da un Istituto privato (tale Istituto Bellini) mediante un
programma di supporto all’istruzione parentale rivolto ai figli di itineranti.
Nel corso della CTU le parti hanno verificato, per contro, la concreta possibilità per la
figlia di raggiungere la scuola di prima scelta sita a Salsomaggiore Terme mediante mezzi
pubblici e nei giorni di rientro pomeridiano con l’ausilio dei nonni paterni, che hanno
messo a disposizione di M_______ la loro casa di Salsomaggiore Terme e si sono fatti
carico dell’onere del prelievo dalla ragazza da scuola e del suo riaccompagnamento a
Langhirano nei giorni di rientro scolastico pomeridiano.
A fronte delle perplessità manifestate dal CTU rispetto alla scelta della scuola
6
privata on line proposta dalla madre, le parti hanno opportunamente risolto l’iniziale
conflitto, rendendo possibile alla figlia un percorso scolastico tradizionale, conforme e
coerente con le inclinazioni e i desideri manifestati dalla ragazza.
Benché il contrasto sia stato concordemente risolto dalle parti, deve evidenziarsi sul punto
la radicale inopportunità dell’opzione proposta dalla madre, non essendovi ragioni per
non iscrivere la figlia a scuola. facendole seguire dei corsi privati on line.
Invero, sia la minore che i genitori avevano ed hanno residenza stabile a Langhirano, il che
già di per sé rendeva incomprensibile la richiesta della madre di avvalersi di un programma
di supporto all’istruzione parentale rivolto ai figli di itineranti, che avrebbe privato la figlia
non solo della normale interrelazione con i ragazzi della sua età, ma anche della didattica
in presenza, tanto più necessaria nell’indirizzo alberghiero prescelto dalla figlia, che
richiede un significativo monte ore di laboratori pratici, necessari a consentire la successiva
scelta dell’indirizzo del triennio.
Si aggiunga che l’istituto indicato dalla Y , tale istituto Bellini, come appurato dal CTU,
neppure poteva garantire alla figlia l’offerta formativa indicata dalla stessa Y. se non per il
recupero degli anni persi.
Si sottolinea la circostanza in quanto rilevante ai fini delle ulteriori questioni controverse,
come meglio verrà specificato in prosieguo.
Sulla domanda di assegno divorzile
Quanto alla domanda di assegno divorzile deve osservarsi quanto segue.
X ha chiesto la revoca dell’assegno a suo carico per il mantenimento della moglie
allegando, tra l’altro, la circostanza che la moglie avrebbe intrapreso una stabile convivenza
con un nuovo compagno, che esercitava ed esercita un’attività itinerante di giostrante, tale
G. o G..
Sul punto la convenuta Y ha dichiarato al CTU (v. integrazione peritale) di frequentare
tale persona, ma di non avere in corso una convivenza.
Dall’istruttoria orale è emerso quanto segue.
Il teste A_____, padre del ricorrente, ha così dichiarato: “Quando la sig.ra Y non è a
Langhirano è via con il sig. G.. Ho visto diverse volte il sig. G. a Langhirano. La figlia M_____ ha
confermato la convivenza tra la madre e il sig. G. … mia nipote dice che molto spesso la madre è via
con il compagno”.
A domanda del giudice, il teste ha così precisato: “le circostanze di cui sopra le ho riferite perché
ho visto alcune volte a Langhirano la sig.ra Y con il G.. Inoltre mia nipote M______ mi ha riferito
queste circostanze. Quando M_____ si è fatta male alla gamba, tre anni fa, l’ho portata al pronto
soccorso e lì è arrivata la madre accompagnata dal sig. G. detto G., che ho appunto conosciuto in
quell’occasione. Preciso che io l’ho conosciuto e lo conosco come G.. Non so quale è il suo cognome”.
Il teste, a domanda del legale della Y, ha così precisato: “non sono mai entrato nella casa della
Y e quindi effettivamente non ho mai visto lì il G., ma il fatto che qualche volta si trattenga e
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dorma dalla B___ mi è stato riferito da mia nipote M_____”.
Il teste A____, fratello di parte convenuta, ha così dichiarato: “quando la figlia rimane da
mio fratello, la sig.ra Y è via con il compagno nella zona tra il Piemonte e la Lombardia. La Y so
che collabora con il sig. G.. Non so se ha un banchetto di vendita di zucchero a velo, dolciumi. È
capitato che anche M____ fosse presente durante la trasferta lavorativa e dormisse in roulotte …
Principalmente vivono nella casa del sig. G.. Mi é capitato di incontrarli insieme in paese”.
A domanda del giudice, il teste ha così precisato: “le circostanze che ho riferito le ho dette
perché ho visto la sig.ra Y un paio di volte a Langhirano con il nuovo compagno che viene
soprannominato G.. Una o due volte la Y ha portato M____ dal padre accompagnata dal G.. Mia
nipote M_____ spesso riferisce che la mamma è con il G. e parla di località tra il Piemonte e la
Lombardia. Quando sta da noi M____ dice quasi sempre che la madre è con il G. e che lo
accompagna in queste trasferte. M_____ ha detto che il G. ha un banco di dolciumi/zucchero a
velo che apre nelle fiere/giostre. Preciso che vedo tutti i giorni mia nipote quando è dal padre perché
abitiamo insieme nello stesso stabile. La vedo anche nei giorni in cui sta con la madre perché spesso
dopo la scuola fa un salto da noi a trovare i nonni”.
Il teste, a domanda del legale della Y, ha così precisato: “non frequento e non entro nella casa
della Y. So chi è il G., ma non gli ho mai parlato”.
La teste di parte convenuta ___ F____, cugina della Y ha così riferito: “non mi risulta sia in
corso alcuna convivenza stabile e continuativa tra la sig.ra Y e il sig. G.. Non mi risulta che la sig.ra
Y vada via con il sig. G.. Preciso che nella sfera amicale e di conoscenza non mi risulta che ci sia un
tale sig. G.. Ho sempre visto la Y solo con la figlia M____”.
A domanda del giudice, la teste ha così precisato: “sono in buoni rapporti con mia cugina Y.
Siamo molto amiche. Y___ ha una nuova relazione con un signore che si chiama G. di nome, ma
non si chiama G.. Ma non ha una stabile convivenza. Lo posso dire perché quando vado a trovare Y
trovo solo lei o lei e la figlia. Non ci sono uomini in casa. Vedo e sento mia cugina spessissimo, quasi
tutti i giorni e a casa sua non vive alcun uomo. Posso dire che qualche volta accompagna il
fidanzato nei suoi trasferimenti quando non ha con sé la figlia, ma non è mantenuta da G.”.
Il teste, a domanda del legale della Y, ha così precisato: “Abito a Scandiano e Langhirano dista
30 km. Preciso che sento Y quasi tutti i giorni e la vedo all’incirca una volta alla settimana o una
volta ogni due settimane. Y non ha ancora presentato G__ ai suoi genitori. So che è stato un
rapporto un po’ altalenante. Non ricordo quando è iniziata la relazione. È un andirivieni. Ora è
una decina di giorni che l’ha lasciata”.
Il teste di parte convenuta, ____ X___, amico della Y, ha così dichiarato: “Fino al 2015
abitavo a Langhirano anche io come la Y. Ho ancora i parenti a Langhirano e frequento ancora la
Y che non mi ha mai riferito di un nuovo compagno. Vado a Langhirano per trovare i parenti una o
due volte al mese e il più delle volte mi trovo a prendere un caffè anche con la Y”.
In sede di integrazione peritale, depositata il 2.4.2019 la convenuta dichiarava al CTU di
frequentare una persona impegnata come giostraio e dichiarava che “M____ lo aveva
conosciuto perché mi sembrava giusto. Un paio di anni fa è venuto a Langhirano, ci ha offerto una
pizza fuori, poi si è fermato a dormire a casa, sul divano. Poi ci ha invitate al lago, e siamo andate
io e M____ una settimana”. Aggiunge: “È vero, quando M____ è dal padre, io se posso vado dai
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miei, o da qualche altra parte se mi chiamano per aiutare . Lo faccio anche perché quando vado dai
miei non ho spese né di luce, né di gas”.
Ancora in sede di integrazione peritale la figlia minore dichiarava al CTU, a proposito
della persona frequentata dalla madre, “di averla conosciuta a Langhirano, e di avere poi
trascorso una settimana a Laveno, sul Lago Maggiore, dove svolgeva la sua attività. M___ avrebbe
dormito in un camper con la madre, mentre il compagno avrebbe utilizzato un altro camper. ‘Mi
sono trovata bene anche lì, e mi sono fatta degli amici … lui comunque gira abbastanza lontano, in
Piemonte’ “.
Il CTU inoltre sottolineava che “Anche M____ riferisce che, in coincidenza con i suoi periodi di
permanenza presso il padre, ‘la mamma parte’, e resterebbe in contatto con lei telefonicamente”.
Dalle dichiarazioni sopra riportate emerge, dunque, indubbiamente che la Y intrattiene da
diversi anni e certamente a far tempo dal 2017 (vedi le dichiarazioni soprariportate rese
dalla stessa Y al CTU nel 2019), una relazione con una persona impegnata come giostraio.
Trattasi, all’evidenza di una relazione stabile e pubblica, tant’è che il nuovo compagno era
stato introdotto già due anni prima dell’integrazione peritale alla figlia minore, che è stata
peraltro portata dalla madre in vacanza con il nuovo compagno.
Risulta indubbiamente poi che la Y sia quasi sempre con il compagno nelle trasferte che
questi effettua per il suo lavoro di giostraio in Piemonte e Lombardia nelle due settimane
in cui la minore è collocata ogni mese presso il padre.
Tale circostanza emerge senza ombra di dubbio dalle testimonianze del nonno paterno e
dello zio paterno della minore, che hanno riportato le dichiarazioni di M____ e che
risultano pienamente attendibili.
Tali dichiarazioni infatti non contrastano in alcun modo con le dichiarazioni dei testi di
parte convenuta, i quali si sono limitati ad affermare che non vi è coabitazione della Y con
il nuovo compagno nella casa condotta in locazione dalla medesima Y. La teste di parte
convenuta F_____ ha anzi confermato la circostanza che la Y “accompagna il fidanzato nei
suoi trasferimenti quando non ha con sé la figlia”.
Il fatto che la Y stia spessissimo, se non sempre. con il nuovo compagno quando la figlia
non è con lei trova poi riscontro nelle stesse dichiarazioni della Y rese al CTU (“quando
M_____ è dal padre, io se posso vado dai miei, o da qualche altra parte se mi chiamano per
aiutare”), nonché, senz’ombra di dubbio, nelle dichiarazioni rese al CTU dalla figlia minore
M____ (“Anche M____ riferisce che, in coincidenza con i suoi periodi di permanenza presso il
padre, ‘la mamma parte’, e resterebbe in contatto con lei telefonicamente”).
Ciò premesso, deve evidenziarsi che, secondo il più recente indirizzo della
Cassazione “L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di
fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti pregressa fase di
convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità
dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di
quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto –
costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in
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cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e
consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e,
quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che
confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo” (Cass. Sez. 1, n. 6855 del 2015;
successivamente confermato da Cass. Sez. 6 – 1, n. 2466 del 2016).
Nel richiamato precedente la Corte dì legittimità ha ritenuto che la causa estintiva prevista
dall’art. 5 L. div. andasse “letta” estensivamente ricomprendendo in essa non solo il caso
delle nuove nozze (con la conseguente formazione di una famiglia fondata sul
matrimonio), ma anche quello della formazione di una famiglia di fatto, per quanto nata
da una relazione non formalizzata, ma pur sempre tutelata sul piano costituzionale (art. 2
Cost.).
In base al più recente indirizzo, dunque, non ha rilievo ai fini della permanenza del diritto
all’assegno il fatto che la convivenza abbia o non abbia influito “in melius” sulle condizioni
economiche dell’avente diritto, come affermato dalla più risalente giurisprudenza.
Tale più recente orientamento deve ritenersi condivisibile in quanto conforme al principio
dell’autoresponsabilità, ossia al rilievo che la scelta esistenziale, libera e consapevole di
instaurare una stabile convivenza more uxorio, comporta l’esclusione di ogni residua
solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare
nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Come sottolineato dalla Suprema Corte, tale conclusione trova fondamento nel “principio
di autoresponsabilità, ossia nel compimento di una scelta consapevole e chiara, orgogliosamente
manifestata con il compimento di fatti inequivoci, per aver dato luogo ad una unione personale
stabile e continuativa, che si è sovrapposta con effetti di ordine diverso, al matrimonio, sciolto o
meno che sia. Ovviamone, in caso di instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova
famiglia, ancorché di fatto, si è rescissa ogni connessione ‘con il tenore ed il modello di vita
caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale’, poiché la nuova comunità familiare
(per quanto non basata sul vincolo coniugale) ha fatto venire definitivamente meno ogni presupposto
per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto ne resta
definitivamente escluso” (così Cass. Sez. 1, n. 32871 del 19/12/2018).
ll concetto di convivenza è nozione diversa dalla mera coabitazione, essendo la
coabitazione esclusivamente un indice della convivenza, intesa come communio omnis vitae.
Invero, come ben chiarito da Cass. n. 7128 del 2013 e da Cass. Sez. 3, n. 9178 del
13/04/2018, l’assenza di coabitazione non esclude che vi possa essere convivenza, quando
risulti dimostrata una relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza
morale e materiale.
In particolare, come rileva la citata Cass. Sez. 3, n. 9178 del 13/04/2018 “se la coabitazione
è stata finora indicata come un indice rilevante dell’esistenza di una famiglia di fatto, individuando
l’esistenza di una casa comune all’interno della quale si svolge il programma di vita comune, non è
stato peraltro ritenuto un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, fosse determinante al
fine di escludere la configurabilità cIeiIa della convivenza … da intendere quale stabile legame
tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti,
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anche quando non sia contraddistinto da coabitazione”.
Del resto, come rilevato dal precedente sopra menzionato, “è necessaria prendere atto del
mutato assetto della società, … dal quale emerge che ai fini della configurabilità di una convivenza
di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al
passato” e tale cambiamento nell’attuale contesto sociale comporta “che si instaurino e si
mantengano rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che ín passato (non
solo nelle famiglie di fatto ma, ugualmente, anche all’interno delle famiglie fondate sul matrimonio) e
deve indurre a ripensare al concetto stesso di convivenza la cui essenza non può appiattirsi sulla
coabitazione. Sono tutte situazioni in cui può esistere una famiglia di fatto o una stabile convivenza,
intesa come comunanza di vita e di affetti, in un luogo diverso rispetto a quella in cui uno dei due
conviventi lavori o debba, per suoi impegni di cura e assistenza, o per suoi interessi personali o
patrimoniali, trascorrere gran parte della settimana o del mese, senza che per questo venga meno la
famiglia. Esistono anche realtà in cui le famiglie, siano esse di fatto, o fondate sul matrimonio, si
formano senza avere neppure, per un periodo di tempo più o meno lungo, una casa comune, intesa
come casa dove si svolge la vita della famiglia, in quanto ognuno dei due partners è tenuto per i
propri impegni professionali o per particolari esigenze personali, a vivere o a trascorrere la gran parte
della settimana o del mese in un luogo diverso dall’altro. … Il dato della coabitazione, all’interno
dell’elemento oggettivo della convivenza è quindi attualmente un dato recessivo. Esso deve essere
inteso come semplice indizio”.
La coabitazione, dunque, si profila come mero indice della esistenza di una convivenza di
fatto, da considerare unitariamente agli altri elementi allegati e provati e non come
elemento essenziale di essa, la cui eventuale mancanza, di per sé, possa legittimamente
portare ad escludere l’esistenza di una convivenza.
Peraltro, come sottolineato da Cass. Sez. 3, n. 9178 del 13/04/2018, “la nozione di
convivenza di fatto, intesa come un rapporto di fatto che si caratterizzi, oltre che per l’esistenza di
una relazione affettiva consolidata, per la spontanea assunzione di diritti ed obblighi, tali da darle
una stabilità assimilabile a quella coniugale, trova ora il suo supporto normativo nella legge n. 76
del 2016, che all’art. 1, definisce 1 conviventi di fatto come ‘due persone maggiorenni unite
stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolati
da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile’, individuando
sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza
morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne
scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco”.
Più specificamente che, in base a tali premesse, la Cassazione nel precedente richiamato ha
affermato i seguenti principi di diritto: “1) si ha convivenza more uxorio, … qualora due persone
siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e
volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale; 2) ai fini
dell’accertamento della configurabilità della convivenza more uxorio, í requisiti della gravità, della
precisione e della concordanza degli elementi presuntivi, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in
relazione al complesso degli indizi (quali, a titolo meramente esemplificativo, un progetto di vita
comune, l’esistenza di un conto corrente comune, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi
alle spese familiari, la prestazione di reciproca assistenza, la coabitazione), i quali devono essere
valutati non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri”.
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Nel caso in esame, la stessa convenuta ha riconosciuto che è intercorsa fra lei ed il nuovo
compagno una relazione sentimentale protratta per diversi anni, ma nega di avere con il
medesimo convissuto, in base alla sola assenza del dato della coabitazione, avendo i due
mantenuto diversa residenza anagrafica.
Senonché dall’istruttoria è emerso, come già sopra evidenziato, che la convenuta ogni
qualvolta la figlia è con il padre accompagna il nuovo compagno nelle trasferte lavorative.
La circostanza si ribadisce è stata riferita dalla stessa figlia delle parti al CTU (“Anche M___
riferisce che, in coincidenza con i suoi periodi di permanenza presso il padre, ‘la mamma parte’, e
resterebbe in contatto con lei telefonicamente”).
Appare dunque evidente che con il nuovo compagno la Y ha una relazione stabile e
condivide con lui trasferte di lavoro, all’evidenza coadiuvandolo nella sua attività di
commerciante giostraio.
La stabile relazione ha certamente comportato l’elaborazione di progetto di vita comune.
Di ciò ne è riscontro il coinvolgimento della figlia nella relazione affettiva della madre.
Invero, il nuovo compagno è stato dalla Y presentato alla figlia già anni fa e con esso la
minore ha rapporti frequenti (v. le dichiarazioni anche del padre dell’X il quale ha
riportato che in occasione di un ricovero in ospedale la Y si era recata al nosocomio
accompagnata dal G. e v. dichiarazioni del fratello dell’X, il quale ha riferito che in alcune
occasioni la Y aveva portato M____ dal padre accompagnata dal G.) e con esso la fanciulla
ha addirittura trascorso periodi di vacanza.
Solo un progetto di vita comune con il nuovo compagno può poi spiegare la iniziale
richiesta della madre nella primavera del 2016 di non iscrivere la figlia alla scuola superiore
per farla seguire privatamente con un corso on line da un istituto privato nell’ambito di un
programma di sostegno scolastico per figli degli itineranti, richiesta poi abbandonata dalla
Y dopo le esplicite contrarie indicazioni del CTU.
Invero, tale iniziale richiesta della Y, oltre che del tutto inopportuna per la tutela dei
bisogni educativi, delle inclinazioni e delle capacità della figlia, non trovava alcuna
giustificazione logica, salvo ipotizzare appunto la volontà della Y di iniziare un nuovo
percorso di vita, al seguito appunto di una compagnia itinerante.
Tale progetto di vita inizialmente comprendeva anche la figlia M_____, che non a caso
così riferiva al CTU: “Se faccio la scuola qua mia madre mi lascerebbe da mio papà. Lei non ci sta
bene a Langhirano, ma neanche io mi sento a casa mia. Se faccio la scuola on line posso andare via
con la mamma” ( v. pag. 10 della prima relazione peritale).
A fronte delle perplessità manifestate dal CTU, fortunatamente la resistente ha
abbandonato l’iniziale proposito, consentendo alla figlia di iscriversi nella scuola di sua
prima scelta, ma certamente la circostanza è indicativa di un chiaro progetto di vita che la
Y ha coltivato con il nuovo compagno e che successivamente la convenuta ha poi
comunque attuato, senza, per fortuna, il coinvolgimento della figlia.
Considerato che gli elementi evidenziati costituiscono indici gravi, precisi e concordanti in
ordine alla sussistenza di una convivenza more uxorio tra la Y ed il nuovo compagno,
ovverossia di una relazione caratterizzata da stabilità e da mutua assistenza morale e
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materiale e ciò ancorché non vi sia stata e non vi sia tra i due una formale coabitazione,
avendo mantenuto residenze separate, presumibilmente nell’intenzione comune di
consentire alla resistente di continuare a percepire l’assegno a carico del marito.
In base a quanto esposto, l’assegno a carico del ricorrente deve essere revocato con
decorrenza dalla data della domanda (dicembre 2015).
Sull’assegno a carico del padre per il mantenimento della figlia
Quanto all’assegno a carico del padre a titolo di contributo di mantenimento della figlia,
deve osservarsi quanto segue.
Come è noto, ciascuno dei genitori è tenuto a provvedere al mantenimento dei figli in
misura proporzionale al proprio reddito e la corresponsione dell’assegno di mantenimento
è finalizzata alla realizzazione di tale principio di proporzionalità e il giudice nella
determinazione dell’ammontare di tale assegno deve tenere in considerazione le esigenze
dei figli, il tenore di vita goduto da questi in costanza di convivenza con entrambi i
genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi
i genitori e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun
genitore.
Ciò premesso, occorre evidenziare che la Y, ammessa al gratuito patrocinio, è formalmente
disoccupata, come lo era anche all’epoca della separazione.
È plausibile che la stessa svolga lavori saltuari (come ammesso dalla stessa resistente) e che
collabori con il nuovo compagno nell’attività di giostraio quando lo accompagna nelle sue
trasferte.
La resistente è gravata di un canone dì affitto di € 420,00 mensili.
X è amministratore della società di famiglia Cav. srl e ha dichiarato di percepire un reddito
da lavoro di circa € 1.500,00 mensili, invariato rispetto all’epoca della separazione.
Lo stesso vive nella casa coniugale di proprietà della ditta di famiglia per la quale paga un
canone di € 1.600,00 annui (pari ad € 133,00 mensili).
Il ricorrente non è formalmente titolare di quote nella società di famiglia che amministra.
Benché le indagini tributarie svolte non abbiano evidenziato redditi ulteriori rispetto a
quelli dichiarati, deve affermarsi l’inattendibilità delle risultanze.
Invero, il ricorrente in sede di separazione si impegnava a versare alla moglie una somma
di € 1.000,00 mensili (700,00 per il mantenimento della moglie e 300,00 per il
mantenimento della figlia), oltre a farsi carico di tutte le spese straordinarie relative alla
figlia.
Tale impegno, diversamente da quanto allegato dall’attore, non era affatto “inteso
come transitorio”, ma era previsto dai coniugi senza alcun limite temporale, né era
ricollegato a situazioni temporanee.
Nell’ambito del presente procedimento il ricorrente ha chiesto di confermare l’assegno a
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suo carico per il mantenimento di M____, ribadendo la volontà di farsi carico di tutte le
spese straordinarie relative alla figlia.
All’evidenza non è plausibile che l’attore in sede di separazione si sia volontariamente
accollato un assegno mensile di € 1.000,00 complessivi, oltre al 100% delle spese
straordinarie relative alla figlia, salvo ammettere che abbia redditi aggiuntivi, oltre ai
dichiarati € 1.500,00 mensili.
Ciò premesso, tenuto conto dei parametri indicati ed, in particolare delle presumibili
maggiori risorse economiche del padre rispetto ai redditi dichiarati (ma anche della pari
permanenza della figlia presso i genitori), del venir meno per il padre dell’assegno a suo
carico per il mantenimento della convenuta ed, infine, delle spese abitative che la madre
deve affrontare anche nell’interesse della figlia, di cui ha il collocamento per pari tempo,
previa conferma dei precedenti provvedimenti provvisori appare, allo stato, congruo
quantificare in € 700,00 l’assegno di mantenimento periodico che il padre dovrà versare
per la figlia mensilmente a far tempo dalla data della presente sentenza oltre rivalutazione
annuale ISTAT, tenuto conto peraltro della generale irripetibilità, in caso di revoca
dell’assegno in favore del coniuge, di ratei nelle more versati.
Tale assegno appare congruo anche tenendo conto dei redditi potenziali, comunque
limitati, che la Y può ricavare da eventuali lavori saltuari.
Deve essere infine accolta la domanda concorde delle parti con cui le stesse hanno chiesto
di prevedere a carico del padre tutte le spese straordinarie relative alla figlia meglio
specificate in dispositivo.
Sulla domanda della convenuta relativa alla quota del TFR spettante al marito
Stante il mancato riconoscimento dell’assegno divorzile deve essere rigettata la domanda
della convenuta di riconoscimento della quota del TFR spettante al marito.
Sulle spese di lite
Quanto alle spese di giudizio tenuto conto della natura del contenzioso, dei rapporti tra le
parti e degli esiti del giudizio si ritengono sussistere le ragioni per disporne l’integrale
compensazione.
Quanto alle spese di CTU, le stesse devono essere poste a carico del ricorrente, che
peraltro ha già anticipato le relative spese, avendo lo stesso, con l’istanza ex art. 709 ter
c.p.c. richiesto il relativo accertamento.
P.Q.M.
Il Tribunale di Parma, definitivamente pronunciando nella causa promossa da X nei
confronti di Y , iscritta al n. 6729 del Ruolo Generale dell’anno 2015, così provvede:
1) PRONUNCIA la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il 21 settembre
2000 in COLLECCHIO (PR) da X , nato a Parma il 21.9.1973 e Y , nata a Fiorenzuola
d’Arda (PC) il 16.10.1968, trascritto nel Registro Atti di Matrimonio del Comune di
COLLECCHIO, anno 2000, parte II, Serie A n. 27.
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2) ORDINA all’Ufficiale dello stato civile del predetto Comune di procedere
all’annotazione della presente sentenza.
3) AFFIDA la figlia minore della coppia _____ in via condivisa ad entrambi i genitori. La
minore avrà residenza anagrafica presso l’abitazione del padre e collocamento paritario
presso entrambi i genitori secondo lo schema previsto dalla CTU nell’integrazione peritale,
da intendersi qui integralmente recepito anche con riferimento ai periodi delle vacanze
natalizie, pasquali ed estive.
4) Confermati i precedenti provvedimenti provvisori in ordine al mantenimento della
figlia. PONE a carico di X l’obbligo di corrispondere a Y , a titolo di contributo per il
mantenimento della figlia, la somma di € 700,00 da versare entro il giorno 10 di ogni
mese, con decorrenza dal mese successivo al deposito della presente sentenza, oltre
rivalutazione annuale secondo gli indici ISTAT.
5) Revoca l’assegno a carico dell’X per il mantenimento della moglie a decorrere dalla data
della domanda (dicembre 2015).
6) PONE a carico di X l’obbligo di corrispondere a Y entro 10 giorni dalla presentazione
della documentazione attestante la relativa spesa, il 100% degli esborsi sostenuti dalla
madre per la figlia e specificamente:
a) il 100% delle seguenti spese sostenute dalla madre anche senza previo accordo con il
padre: spese medico-specialistiche, protesiche, terapeutiche non coperte o non
integralmente coperte dal Servizio Sanitario Nazionale e dalla polizza sanitaria di cui
dispone la madre, purché debitamente prescritte dal medico di base; ticket sanitari, tasse,
imposte e costi di iscrizione alla scuola pubblica e trasporto pubblico da e per la scuola;
testi di studio, particolari attrezzature didattiche di norma escluse dall’ordinario
equipaggiamento scolastico (es. computer e relativi accessori e aggiornamenti purché di
costo unitario non superiore a € 200,00), gite scolastiche che importino un costo non
superiore a € 200,00; lezioni private di sostegno scolastico ove consigliate dall’insegnante
ad entrambi i genitori; corsi di ordinaria pratica sportiva e scoutistica (con il limite di un
corso all’anno per ciascun figlio) con relative attrezzature e spese accessorie, quali oneri di
trasferta, ritiri estivi, partecipazione a tornei di categoria; baby-sitting in caso di malattia
della prole e/o del genitore affidatario in mancanza di strutture logistiche gratuite (es.
genitore non affidatario o parenti disponibili); centri-vacanza, soggiorni estivi a iniziativa
delle locali parrocchie e/o enti analoghi (colonie) e luoghi assimilati;
b) il 100% delle seguenti spese straordinarie purché preventivamente concordate dai
genitori: imposte, tasse e rette relative alla frequentazione di scuole private; corsi educativi
e sportivi di rilevante impegno finanziario e agonistico, quali ippica, tennis, sci, scherma,
nautica, golf, educazione musicale allorché implichi la frequentazione del Conservatorio
e/o l’acquisto di costosi strumenti musicali (il genitore che abbia prestato il proprio
consenso alla frequentazione dei corsi anzidetti, non potrà sottrarsi dal partecipare a tutte
le relative spese accessorie, quali acquisto e rinnovo periodico delle relative attrezzature,
oneri di trasferta per la partecipazione a concorsi, gare e tornei, ritiri e soggiorni di
esercitazione e studio); corsi privati per l’apprendimento delle lingue straniere; soggiorni
all’estero; gite scolastiche che importino una spesa superiore a € 200,00; viaggi di
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istruzione e/o diporto, vacanze estive e/o invernali e di ogni altra spesa straordinaria.
Ove l’importo unitario delle dette spese sia superiore a € 150,00, la Y potrà richiedere all’X
l’anticipato versamento.
Le spese straordinarie subordinate al consenso di entrambi i genitori s’intenderanno
accettate dall’altro, qualora a fronte della richiesta scritta del genitore, da effettuarsi
mediante raccomandata a.r. o via pec o via email, l’altro entro dieci giorni dal ricevimento
della richiesta non esprima per iscritto, mediante raccomandata a.r. o via pec o via email,
parere discordante motivato.
7) DISPONE l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti
8) PONE definitivamente a carico del ricorrente í compensi liquidati in corso di causa in
favore del CTU dott.ssa ZILIOLI.
Così deciso in Parma, nella Camera di Consiglio del 26 maggio 2020.
IL PRESIDENTE REL.
dott.ssa Angela Chiari

Interpretazione della clausola contrattuale costitutiva del diritto reale di servitù di passaggio

Cassazione civile, sez. II, 09 Ottobre 2020, n. 21858. Pres. Di Virgilio. Est. Oliva
Fatto
Con atto di citazione notificato il 7.12.2004 A.B. evocava in giudizio C.D. innanzi il Tribunale di Savona, esponendo di aver acquistato con atto del 2.4.1992 da B.L. , a sua volta avente causa del convenuto C.D. , un appartamento con annesso diritto di comproprietà su un’area scoperta, e di essere transitato sino al 2000, in base al proprio titolo di acquisto, attraverso un cancello che era stato poi chiuso dal convenuto. Invocava quindi l’accertamento, in proprio favore, del diritto di servitù di passaggio sul terreno del convenuto, lungo il percorso utilizzato sino alla predetta interclusione.
Si costituiva in giudizio C.D. resistendo alla domanda e invocandone il rigetto. In particolare, il convenuto eccepiva che in base all’atto del 30.4.1980, con il quale egli aveva venduto a B.L. la proprietà da questa poi ceduta al P. nel 1992, l’acquirente aveva ricevuto il diritto di passaggio attraverso un percorso diverso da quello indicato dall’attore in atto di citazione.
Con sentenza n. 875/2011 il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che la servitù si fosse costituita in base all’atto del 1980 e secondo il tracciato ivi indicato, differente da quello rivendicato dal P. .
Avverso detta decisione interponeva appello il P. . Si costituiva in seconde cure il D. per resistere il gravame; a seguito del decesso di parte appellata, il giudizio proseguiva nei confronti dell’erede D.K. .
Con la sentenza impugnata, n. 906/2016, la Corte di Appello di Genova rigettava il gravame.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione A.B. affidandosi a tre motivi.
Resiste con controricorso D.K. .
In prossimità dell’adunanza camerale, la parte ricorrente ha depositato memoria.
Motivi
Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1364, 1367, 1059 c.c., artt. 112, 113 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato i titoli di provenienza allegati al fascicolo del giudizio di merito, affermando -in violazione del principio di cui all’art. 1059 c.c. – l’esistenza di un diritto di servitù, a favore del ricorrente, su un terreno del quale lo stesso è comproprietario. Inoltre la Corte ligure avrebbe ulteriormente errato nel dar rilievo, ai fini della decisione, ad una possibile futura interclusione del fondo, che in effetti non risulterebbe attuale.
Con il secondo motivo, suscettibile di trattazione unitaria con il primo, il ricorrente denuncia l’omesso esame di fatti decisivi ed omessa motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, perché la Corte territoriale, nell’ambito del processo di interpretazione dei titoli di provenienza allegati agli atti del giudizio di merito, avrebbe trascurato di considerare il tenore letterale delle espressioni usate dalle parti nella clausola dell’atto del 1980 costitutiva del diritto reale in discussione, che non potevano valere ad escludere la volontà del dante causa D. di costituire detto diritto sui terreni di sua proprietà esclusiva, e non invece su quelli oggetto della cessione a favore della B. , dante causa dell’odierno ricorrente.
Le due censure sono fondate.
La motivazione con la quale la sentenza impugnata ha respinto l’appello si risolve invero nella seguente espressione: “L’appello è infondato. Le espressioni “terzi” e “aventi causa” hanno significati del tutto differenti ed è da ritenersi che quella indicante “terzi” sia stata utilizzata consapevolmente da un tecnico del diritto quale il notaio rogante, non essendovi alcuna necessità di fare riferimento a terzi per indicare la proprietà dei terreni del D. . La pattuizione, pur comportando il passaggio anche su proprietà di terzi, non era in concreto inutile, dato che di fatto si tratta di un percorso che il P. utilizza per raggiungere la strada passando in parte dalla proprietà D. e parte dal giardino di cui è comproprietario, mentre nel caso di una futura interclusione del tratto adibito ad orto, sussisterebbero gli estremi per ottenere il passaggio coattivo” (cfr. punto 5, pag. 5, della sentenza impugnata).
Tale passaggio logico è oggettivamente perplesso, in quanto, sotto un primo profilo, a nulla rileva – come giustamente sostiene parte ricorrente – la futura interclusione di tutto o parte della proprietà P. , posto che la valutazione sull’esistenza o meno del diritto reale di servitù va condotta con esclusivo riguardo all’attualità.
Inoltre, non è appagante il richiamo al fatto che la clausola sia stata redatta da un tecnico del diritto qual è il notaio, poiché l’interpretazione del contenuto del contratto va condotta con riferimento alla volontà delle parti stipulanti, non del notaio; di talché la consapevolezza di quest’ultimo sul significato tecnico delle espressioni utilizzate non soltanto non è rilevante, ma appare addirittura fuorviante, ai fini dell’indagine sull’effettiva volontà dei paciscenti.
Infine, non appare rilevante, ai fini della decisione sulla sussistenza o meno del diritto di servitù rivendicato dal P. , la circostanza che questi transiti anche su terreno di cui è comproprietario, posto che il transito può costituire uno dei modi con cui si esercita il diritto dominicale sul bene. Ai fini di ipotizzare la costituzione di un diritto reale di servitù a favore del fondo di proprietà esclusiva ed a carico di quello in proprietà comune, infatti, occorre la manifestazione, in concreto, di una signoria di fatto tale da alterare la naturale destinazione del secondo, per asservirlo, in tutto o in parte, a vantaggio del primo. Si è infatti affermato, in materia di condominio, che “… ove ciascun condomino utilizzi le cose, gli impianti ed i servizi comuni nel rispetto della loro destinazione, egli ne gode in virtù e per effetto del proprio diritto di condominio, ma, se delle cose stesse gode secondo una destinazione diversa, è nella facoltà degli altri partecipanti alla comunione impedire tale forma abusiva di godimento, ovvero consentirla espressamente, con la ulteriore conseguenza che, riconosciuto al condomino, con carattere definitivo, il diritto di godere delle cose degli impianti e dei servizi comuni in modo diverso da quello consentito dalla loro specifica destinazione, e qualora tale godimento si risolva in un peso imposto su di esse a vantaggio di un piano o di una porzione di piano di proprietà esclusiva, tale diritto deve qualificarsi come vera e propria servitù prediale costituita su di una cosa comune a vantaggio di un piano o di una porzione di piano dell’edificio” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3749 del 15/04/1999, Rv. 531103). Se quindi da un lato, e in linea generale, non può applicarsi il principio per cui nemini res sua servit al rapporto tra bene in proprietà comune e bene in proprietà esclusiva, poiché l’intersoggettività del rapporto è data dal concorso degli altri titolari del fondo servente (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6994 del 17/07/1998 (Rv. 517286; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 13106 del 03/10/2000, Rv. 540707 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21020 del 06/08/2019, Rv. 655193; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26807 del 21/10/2019, Rv. 655658), occorre sempre, dall’altro lato, una indagine in concreto al fine di verificare se effettivamente l’utilizzazione del bene comune che venga fatta dal comproprietario di esso rientri, o meno, nei limiti del libero esercizio del diritto di comproprietà, potendosi ritenere costituito solo nella seconda ipotesi un diritto di servitù a carico del fondo in comune e a favore di quello in proprietà esclusiva.
È quindi errato affermare in termini assoluti, come sembrerebbe fare implicitamente il giudice di merito, che nell’ambito della nozione di “terzi” indicata nella clausola costitutiva del diritto di servitù siano compresi anche i comproprietari del bene in proprietà comune diversi dal P. , titolare del diritto di servitù, in assenza di una preventiva indagine circa il contenuto del diritto esercitato da quest’ultimo e la sua ricomprensibilità, o meno, nell’ambito delle prerogative del comproprietario.
Nella specie si configura quindi una motivazione oggettivamente incoerente e affetta da insanabili contrasti logici, che come tale può costituire oggetto del sindacato di questa Corte, anche nei limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo in vigore a seguito della novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. Sez. U., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Ne consegue l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso con assorbimento del terzo, relativo al regime delle spese di lite, la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio della causa alla Corte di Appello di Genova, in differente composizione, la quale avrà cura di adeguarsi ai seguenti principi di diritto:
1) “Nell’interpretazione della clausola contrattuale costitutiva del diritto reale di servitù di passaggio occorre indagare esclusivamente la volontà delle parti, restando irrilevanti quella del notaio rogante o di eventuali altri professionisti o ausiliari coinvolti a vario titolo nella redazione dell’atto. Non è quindi possibile far derivare alcuna conseguenza dal grado di consapevolezza che il notaio, o i predetti diversi professionisti e ausiliari, possano aver avuto di una specifica clausola o espressione letterale in concreto utilizzata nell’atto costitutivo del diritto reale.
2) Ai fini della configurabilità di un diritto di servitù a carico di un bene immobile in proprietà comune e a favore di altro bene immobile in proprietà esclusiva di uno dei comproprietari del primo, è necessario svolgere una indagine in concreto al fine di verificare se l’esercizio del diritto sul fondo servente da parte del contitolare dello stesso rientri, o meno, nei limiti delle prerogative del comproprietario; solo quando tale limite sia superato, infatti, è possibile configurare un diritto in re aliena, ai cui fini l’intersoggettività del rapporto è assicurata dalla presenza di contitolari del fondo servente diversi da quello del fondo dominante”.
P.Q.M.
la Corte accoglie i primi due motivi del ricorso e dichiara assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Genova in diversa composizione, la quale si atterrà ai principi di diritto enunciati in motivazione.

Illegittimo il provvedimento di diniego dell’Arma chiesto ai fini del ricongiungimento con la compagna convivente

Cons. Stato, Sez. IV, Sent., 17 giugno 2020, n. 3896

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10490 del 2019, proposto da Ministero della difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Rocco Mauro -OMISSIS-, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – sezione staccata di Reggio Calabria -OMISSIS-.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Visti l’art. 84, comma 5, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, e l’art. 4, comma 1, del D.L. 30 aprile 2020, n. 28;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 giugno 2020 il consigliere Giuseppe Castiglia;
Dato atto che per le parti nessuno è comparso;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. In data 28 maggio 2018 l’originario ricorrente, appuntato dell’Arma dei carabinieri in servizio presso il nucleo investigativo di -OMISSIS-, ha chiesto – ai sensi dell’art. 398 del regolamento generale dell’Arma – il trasferimento in -OMISSIS- ai fini del ricongiungimento con la propria compagna convivente more uxorio in un paese della provincia di -OMISSIS-.
2. Con nota del 14 febbraio 2019 il Comando generale dell’Arma ha dichiarato inammissibile la domanda ai sensi dell’art. 2, comma 1, della L. 7 agosto 1990, n. 241, per difetto dei requisiti previsti dalla circolare n. 944001-1/T-16/Pers. Mar. del 9 febbraio 2010, non sussistendo fra gli interessati un rapporto di coniugio.
3. Il militare ha impugnato il provvedimento avverso proponendo un ricorso che il TAR per la Calabria – sez. staccata di Reggio Calabria, ha accolto con sentenza in forma semplificata -OMISSIS, compensando fra le parti le spese di lite.
Il Tribunale territoriale ha osservato in premessa che l’Amministrazione non avrebbe contestato l’effettività della convivenza né opposto ostacoli di ordine organizzativo all’accoglimento dell’istanza. Nel merito della questione, ha ritenuto illegittima la nota impugnata in quanto, indiscussa la differenza tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, il diritto all’unità familiare (diritto inviolabile dell’uomo ai sensi dell’art. 2 Cost.) dovrebbe intendersi nella sua accezione più ampia – secondo una interpretazione discendente dalle norme sovranazionali (Carta di Nizza, Convenzione EDU), dai principi affermati dalla Corte costituzionale e dalla L. 20 maggio 2016, n. 76 – e valere anche per la prima. La nota inoltre contrasterebbe con la circolare del Comando generale prot. (…) del 27 luglio 2005, tuttora vigente, che in termini generali equiparerebbe il militare convivente a quello ammogliato quando possa essere dimostrata la convivenza more uxorio.
4. Il Ministero della difesa ha interposto appello avverso la sentenza di primo grado articolando tre motivi di doglianza.
I) Il provvedimento impugnato sarebbe stato adottato in forma semplificata con motivazione sintetica ai sensi dell’art. 2, comma 1, della L. n. 241 del 1990, con riferimento cioè alla sola assenza dell’unione matrimoniale fra il ricorrente e la compagna. Ciò non significherebbe che non abbiano avuto rilievo ulteriori cause impeditive emerse nel corso dell’istruttoria procedimentale e acquisite in giudizio, che costituirebbero elementi per relationem della motivazione: a) preminenti esigenze di organico e di servizio, espresse nei pareri della scala gerarchica; b) mancata dimostrazione di una effettiva e stabile convivenza (nonostante una certificazione anagrafica in atti, dalle stesse dichiarazioni degli interessati risulterebbe che non sono coabitanti e aventi dimora abituale nel medesimo Comune).
II) La L. n. 76 del 2016 non avrebbe carattere generale e omnicomprensivo, ma avrebbe inteso equiparare i conviventi ai coniugi solo per gli specifici profili considerati, da considerarsi perciò di carattere tassativo. Sarebbe ragionevole la differenza di regime tra unioni civili e convivenze di fatto, perché solo queste ultime potrebbero scegliere in alternativa la tutela piena dell’unione coniugale. L’ampia discrezionalità nei trasferimenti disposti in deroga alla pianificazione annuale a domanda, giustificati dall’esigenza di rispondere a particolari situazioni di fatto, implicherebbe una valutazione delle domande relative improntata a criteri di particolare rigore.
III) La circolare del 2005 andrebbe letta alla luce della circolare del 2010 (specificamente dedicata al ricongiungimento al coniuge lavoratore, senza alcun riferimento alla situazione di convivenza) e alla L. n. 76 del 2016, interpretata nei termini di cui si è detto. Le linee guida del 2017 dello Stato maggiore della difesa, come pure la successiva circolare del 31 maggio 2017 del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, equiparerebbero le sole unioni civili al rapporto di coniugio ai fini del trasferimento per ricongiungimento familiare.
5. L’Amministrazione ha anche chiesto la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata.
6. Il militare si è costituito in giudizio per resistere all’appello sostenendo la correttezza dell’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina vigente, adottata dal TAR.
7. Con successiva memoria, in via subordinata, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della L. n. 76 del 2016 se intesa in senso restrittivo, nel senso cioè di non prevedere il diritto o l’interesse legittimo al trasferimento per tutelare la convivenza more uxorio.
8. Alla camera di consiglio del 6 febbraio 2020, sull’accordo delle parti, la trattazione della domanda cautelare è stata riunita a quella del merito della causa.
9. All’udienza del 4 giugno 2020, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, e dell’art. 4, comma 1, del D.L. 30 aprile 2020, n. 28.
10. Va premesso che il carattere effettivo della convivenza tra il resistente e la sua compagna è attestato dai certificati di residenza in atti.
11. Il primo motivo dell’appello è infondato.
12. Richiamando espressamente l’art. 2, comma 1, della L. n. 241 del 1990 l’Amministrazione si è avvalsa della possibilità di motivare il diniego di trasferimento in forma semplificata con riguardo alla sola circostanza – evidentemente ritenuta decisiva – della inesistenza di un unione matrimoniale fra il militare e la compagna.
13. Così facendo, tuttavia, ha corso il rischio che la legittimità del provvedimento adottato fosse vagliata al solo metro dell’unica motivazione addotta, come appunto è accaduto, e non può ora recuperare le ragioni ulteriori emerse a suo tempo nell’istruttoria procedimentale (esigenze di organico e di servizio; mancanza di una effettiva e stabile convivenza) e non manifestate nel diniego, che – in disparte il punto della loro fondatezza – non possono certo ora valere come non consentita integrazione postuma della motivazione dell’atto impugnato.
14. Con il secondo e il terzo motivo dell’appello l’Amministrazione sostiene la contestata legittimità del provvedimento impugnato con riguardo alla normativa pertinente, sia di fonte primaria che interna.
15. In primo luogo, viene in questione l’art. 1 della L. n. 76 del 2016 che, nei commi da 36 a 67, disciplina il fenomeno della convivenza di fatto, intendendo a tal fine “per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” (comma 36).
16. La legge equipara espressamente i diritti dei conviventi di fatto a quelli dei coniugi in relazione a fattispecie tipiche (ordinamento penitenziario, malattia e ricovero, abitazione nella casa di comune residenza, accesso agli alloggi dell’edilizia popolare, diritti nell’impresa familiare, risarcimento del danno per morte del convivente di fatto).
17. L’Amministrazione appellante sostiene che l’equiparazione varrebbe solo per le fattispecie espressamente elencate dalla legge. Per il privato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente conforme, non vi sarebbero invece ragioni per giustificare un diverso trattamento con riguardo al ricongiungimento familiare.
18. Risulta evidente che, nel regolamentare le unioni civili tra persone dello stesso sesso e la convivenza di fatto, il legislatore del 2016 ha seguito approcci diversi. Solo alle prime, infatti, è attribuito un trattamento tendenzialmente improntato al modello proprio del rapporto coniugale (si veda, come norma di chiusura, il comma 20), mentre alle altre è riservata una equiparazione limitata a profili particolari (Cass. civ., sez. lav., 3 novembre 2016, n. 22318, che peraltro sembra escludere la legittimità di discriminazioni relative a diritti fondamentali della persona).
19. Non qui sta però il nocciolo della questione in questa sede effettivamente controversa. La quale consiste piuttosto nel vedere se, data la normativa primaria nei termini di cui si è detto, la normativa interna dell’Arma dei carabinieri discrimini o possa legittimamente discriminare, ai fini del ricongiungimento, tra le diverse tipologie di rapporto familiare (matrimonio, unione civile, stabile convivenza di fatto).
20. Nell’ambito di tale normativa:
– la circolare del 2005 equipara in linea di principio il militare convivente more uxorio a quello sposato ai fini dell’applicazione delle pertinenti norme regolamentari; stabilisce tuttavia che al primo non compete il diritto al ricongiungimento familiare riconosciuto dalle specifiche norme di legge che fanno esplicito riconoscimento al rapporto di coniugio;
– la circolare del 2010 prevede che, per consentire il ricongiungimento al coniuge lavoratore, il militare possa presentare domanda di trasferimento ai sensi dell’art. 398 del regolamento generale dell’Arma;
– la circolare del 2017, sulla base delle linee guida diramate dallo Stato maggiore della difesa, estende il beneficio al personale legato da unione civile.
20. In conclusione, l’ordinamento generale equipara il rapporto di convivenza more uxorio a quello di coniugio solo rispetto a fattispecie tipiche, fra le quali non rientra il ricongiungimento familiare. L’ordinamento di settore opera all’inverso, generalizzando la normativa applicabile salva appunto l’eccezione del diritto al ricongiungimento familiare. In sintesi, è indubbio che – diversamente da quanto sembra ritenere il TAR – la normativa interna non è nel senso dell’equiparazione dei diversi rapporti in vista, appunto, del ricongiungimento familiare.
21. Detto questo, al secondo quesito posto al 19 va data però risposta negativa.
22. A questo proposito, il Collegio condivide l’orientamento della III sezione di questo Consiglio di Stato che, in una materia contermine a quella di cui si discute, equipara il convivente al coniuge ai fini dell’ottenimento o del rinnovo del permesso di soggiorno (31 ottobre 2017, n. 5040; 29 dicembre 2017, n. 6186; 12 luglio 2018, n. 4277). E ciò fa ritenendo che tale più ampia interpretazione della legge “non risponde solo ad un fondamentale principio di eguaglianza sostanziale, ormai consacrato, a livello di legislazione interna, anche dall’art. 1, comma 36, della L. n. 76 del 2016, per quanto qui rileva, sulle convivenze di fatto tra “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, ma anche alle indicazioni provenienti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, anche in questa materia, si è premurata di chiarire che la nozione di “vita privata e familiare”, contenuta nell’art. 8, 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo includa, ormai, non solo le relazioni consacrate dal matrimonio, ma anche le unioni di fatto nonché, in generale, i legami esistenti tra i componenti del gruppo designato come famiglia naturale” (sentenza n. 5040/2017).
23. La giurisprudenza della Corte EDU – valorizzata dall’indirizzo in questione – afferma che il diritto del singolo al rispetto della propria vita privata e familiare, sotto specie di tutela dell’unità familiare, costituisce un limite alle prerogative statali di gestione dei flussi migratori e che, conformemente al diritto internazionale generale, rientra in tali prerogative la regolamentazione dell’ingresso, del soggiorno e dell’allontanamento degli stranieri. Secondo la Corte, in attento bilanciamento tra diritto al ricongiungimento familiare e prerogative statali, da un lato le misure di espulsione possono costituire un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare, la cui legittimità deve essere vagliata alla luce del 2 dell’art. 8 della Convenzione (legalità, necessità in una società democratica, proporzionalità); dall’altro lato, il rispetto degli obblighi positivi scaturenti dall’art. 8 può, in determinate circostanze, imporre agli Stati contraenti di autorizzare il ricongiungimento familiare di cittadini stranieri (riassuntivamente, da ultimo, sentenze 23 febbraio 2016, n. 68453, Pajic c. Croazia, ric. n. 68453/13; 15 marzo 2016, n. 31039, Novruk e altri c. Russia, ricc. n. 31039/11, n. 48511/11, n. 76810/12, n. 14618/13, n. 13817/14; 8 novembre 2016, n. 56971, El Ghatet c. Svizzera, ric. 56971/10; 14 febbraio 2019, n. 57433 Narjiis c. Italia, ric. n. 57433/15).
24. Sembra dunque ragionevole dedurne che, là dove non si manifesti una esigenza di tutela della sovranità dello Stato, il diritto al rispetto della vita privata e familiare possa e debba espandersi nella sua interezza.
25. L’equiparazione – ovviamente ristretta al solo profilo di specie – al rapporto matrimoniale e all’unione civile della stabile convivenza di fatto, attestata da certificazioni anagrafiche, appare per di più del tutto coerente con la giurisprudenza della Corte costituzionale la quale, ferma restando la discrezionalità del Parlamento nell’individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni affettive diverse da quella matrimoniale, si è riservata la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni con il controllo di ragionevolezza (sentenza 15 aprile 2010, n. 138), come infatti più volte è avvenuto per le convivenze more uxorio (a partire dalle sentenze 7 aprile 1988, n. 404, e 20 dicembre 1989, n. 559; da ultimo sentenza 23 settembre 2016, n. 213).
26. Poiché nella specie la questione interpretativa non coinvolge norme primarie, non vi è alcun incidente di costituzionalità da sollevare, essendo invece necessario e sufficiente disapplicare in parte qua la pertinente normativa interna.
27. Sulla scorta delle considerazioni precedenti, l’esigenza di tutela dell’unità della famiglia, alla quale è improntato l’istituto del ricongiungimento (Corte costituzionale, 30 maggio 2008, n. 183), non può non prevalere sulle difformi previsioni della normativa interna dell’Arma dei carabinieri.
28. In conclusione l’appello deve essere va respinto con conferma della sentenza impugnata.
29. Restano salvi i poteri dell’Amministrazione, che valuterà ex novo la sussistenza dei presupposti necessari per accordare il trasferimento richiesto dal privato ricorrente.
30. Considerata la novità della questione, le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate fra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa fra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità dell’interessato, incarica la segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellata.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 giugno 2020 con l’intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi, Presidente
Giuseppe Castiglia, Consigliere, Estensore
Daniela Di Carlo, Consigliere
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
Alessandro Verrico, Consigliere

Il riconoscimento della filiazione delle due madri è un ambito riservato alla discrezionalità del legislatore

Corte cost., sent. 4 novembre 2020, n. 230

LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Mario Rosario MORELLI
Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, della L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e dell’art. 29, comma 2, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), promosso dal Tribunale ordinario di Venezia, nel procedimento di volontaria giurisdizione instaurato da S. S. e A. B., con ordinanza del 3 aprile 2019, iscritta al n. 108 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione di S. S. e A. B., nonché gli atti di intervento dell’Avvocatura per i diritti LGBTI APS e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 ottobre 2020 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi gli avvocati Susanna Lollini per l’Avvocatura per i diritti LGBTI APS, Umberto Saracco per S. S. e A. B. e l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 20 ottobre 2020.
1.- Nel corso di un giudizio per rettifica di atto di nascita – proposto da due donne, le quali, premesso di essere unite civilmente e di avere, una di esse con il consenso dell’altra, avviato (all’estero) pratica di fecondazione medicalmente assistita dalla quale è nato un bambino, chiedevano dichiararsi l’illegittimità del rifiuto opposto dall’Ufficiale dello stato civile alla loro richiesta congiunta di indicare il minore come figlio di entrambe e non della sola partoriente – l’adito Tribunale ordinario di Venezia, ritenutane la rilevanza, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 20, della L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), “nella parte in cui limita la tutela … delle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai “soli diritti … e doveri nascenti dall’unione civile””, e dell’art. 29, comma 2, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del D.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26 (Regolamento recante attuazione dell’articolo 5, comma 1, della L. 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione), nella parte in cui “limita la possibilità di indicare il solo genitore “legittimo, nonché di quelli che rendono … o hanno dato il consenso ad essere nominati” e non anche alle donne tra loro unite civilmente e che abbiano fatto ricorso (all’estero) a procreazione medicalmente assistita”, in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117 primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con L. 27 maggio 1991, n. 176, con particolare riferimento all’art. 2.
Secondo il rimettente, il combinato disposto delle norme censurate pregiudicherebbe, infatti, alcuni diritti inviolabili della persona, quali il diritto alla genitorialità e il diritto alla procreazione nell’ambito di una unione civile legalmente riconosciuta nell’ordinamento italiano; discriminerebbe i cittadini per il loro orientamento sessuale ed in considerazione delle condizioni patrimoniali in cui versano le coppie; introdurrebbe, anche avuto riguardo al panorama della legislazione europea, un irragionevole divieto basato su discriminazioni per mere ragioni legate all’orientamento sessuale dei componenti la coppia.
2.- Innanzi a questa Corte si sono costituite le due parti ricorrenti nel giudizio principale, le quali hanno richiesto:
– in via principale, la dichiarazione di inammissibilità della questione sollevata per non avere il Tribunale rimettente adeguatamente motivato “in merito alle ragioni per le quali non sia stato possibile addivenire ad una interpretazione conforme a Costituzione” della normativa denunciata;
– in via subordinata, la dichiarazione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, dovendo le norme censurate essere interpretate nel senso che esse consentono la formazione in Italia di un atto di nascita in cui siano riconosciuti come genitori due donne che abbiano fatto accesso all’estero a tecniche di fecondazione eterologa, quando esse siano unite civilmente;
– in via ulteriormente gradata, la dichiarazione di fondatezza della questione di legittimità costituzionale per contrasto della normativa, che ne forma oggetto, con i parametri nazionali e sovranazionali evocati dal rimettente. A loro avviso, non sarebbe dato, infatti, rinvenire nell’ordinamento interno “un diritto o un interesse di pari rango costituzionale che il legislatore avrebbe l’obbligo di tutelare attraverso l’esclusione di altri esseri umani dall’esercizio dei diritti fondamentali prescritti dagli artt. 2 e 30 Costituzione e 8 CEDU, nonché dalla Convenzione dei Diritti del Fanciullo, esclusivamente in ragione dell’orientamento sessuale delle persone a cui si sottraggono questi diritti”.
3.- È anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
L’Avvocatura generale dello Stato – che lo rappresenta e difende – ha contestato, sotto ogni profilo, la fondatezza della riferita questione.
A suo avviso, l’iter argomentativo del rimettente muoverebbe “dall’assunto, del tutto apodittico e indimostrato, dell’esistenza nel sistema giuridico di un “diritto alla bigenitorialità”” e finirebbe per “esprimere unicamente e semplicemente una impostazione decisamente “adultocentrica”, lontana o che, comunque, non tiene affatto conto del principio del “best interest of the child” ovvero della necessità di adottare tra più soluzioni astrattamente possibili quella più conforme e adatta alle esigenze del minore”.
Ciò che troverebbe conferma anche nella giurisprudenza della Corte EDU, per la quale, pur non potendosi ignorare il dolore provato da coloro i quali vedono frustrato il proprio desiderio di genitorialità, resta comunque escluso che la Convenzione sancisca “alcun diritto di diventare genitore”, atteso anche che quest’ultima aspirazione deve comunque cedere rispetto al superiore interesse del nascituro che, infatti, non verrebbe adeguatamente tutelato ove venissero consentite pratiche di fecondazione assistita al di fuori dei limiti consentiti dalla normativa vigente (in questo senso, CEDU, grande camera, 24 gennaio 2017, Paradiso Campanelli contro Italia).
4.- È intervenuta, infine, come terzo ad adiuvandum, l’Avvocatura per i diritti LGBTI Aps, la quale – premessa l’ammissibilità del proprio intervento -ha rassegnato conclusioni sostanzialmente in linea con quelle espresse dalle parti costituite.
5.‒ Nell’imminenza dell’udienza, sia le parti indicate, sia il Presidente del Consiglio che l’Avvocatura LGBTI, hanno presentato memorie, con le quali hanno ulteriormente argomentato le rispettive conclusioni.
Motivi della decisione
1.- L’art. 1, comma 20, della L. 20 maggio 2016, n. 76, recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, dispone che “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla L. 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. A sua volta, l’art. 29, comma 2, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, recante “Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127”, come modificato dall’art. 1, comma, 1, lettera c), del D.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26 (Regolamento recante attuazione dell’articolo 5, comma 1, della L. 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione), articolo rubricato “Atto di nascita”, prevede che “nell’atto di nascita sono indicati il luogo, l’anno, il mese, il giorno e l’ora della nascita, le generalità, la cittadinanza, la residenza dei genitori del figlio nato nel matrimonio nonché di quelli che rendono la dichiarazione di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio e di quelli che hanno espresso con atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati, il sesso del bambino e il nome che gli viene dato ai sensi dell’articolo 35”.
2.- Con l’ordinanza emessa nel giudizio di cui si è detto nel Ritenuto in fatto, il Tribunale ordinario di Venezia dubita della legittimità costituzionale del predetto comma 20 dell’art. 1 della L. n. 76 del 2016, “perché, limitando l’applicabilità delle leggi speciali alle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai “soli diritti e … doveri nascenti dall’unione civile”, nel combinato disposto con l’art. 29, 2 comma D.P.R. n. 396 del 2000 preclude loro la possibilità di essere indicate, entrambe, quali genitori nell’atto di nascita quantunque siano unite civilmente e … abbiano fatto ricorso (all’estero) alla procreazione medicalmente assistita”.
Secondo il rimettente, il “combinato disposto” delle due così denunciate norme violerebbe infatti:
a) l’art. 2 della Costituzione, poiché l’inapplicabilità delle regole sulla genitorialità intenzionale alle coppie di donne unite civilmente “non realizza il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”;
b) l’art. 3, primo e secondo comma, Cost., per la disparità di trattamento, che ne conseguirebbe, “basata sull’orientamento sessuale e sul reddito in quanto privilegia chi dispone dei mezzi economici non solo per concepire, ma anche per far nascere il figlio all’estero e richiedere, con ormai sicuro successo, la trascrizione in Italia dell’atto di nascita straniero” e, per altro verso, discrimina il nato, sul piano della sua tutela sia morale che materiale, “in considerazione delle caratteristiche della relazione tra i genitori ed in particolare se questa sia omosessuale”;
c) l’art. 30 Cost., poiché “sia per gli adulti che per il nato, l’attuale impossibilità di indicare due madri unite civilmente nell’atto di nascita formato in Italia non rispetta il principio di tutela della filiazione di cui” al parametro evocato. Mentre “una concezione progressista di tale principio indurrebbe, infatti ad affrancarne la realizzazione dalla tradizionale dimensione naturalistico – fattuale, tutelandola come diritto pretensivo che, ove il progresso scientifico la consenta, non può essere escluso o limitato, se non in funzione di interessi che il Legislatore consideri, legittimamente, pari – ordinati”;
d) l’art. 117 primo comma Cost., in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848, e con la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con L. 27 maggio 1991, n. 176, con particolare riferimento all’art. 2. Si desumerebbe da tali fonti “un principio internazionale definitivamente acquisito, quello per cui il matrimonio non costituisce più il discrimen nei rapporti tra genitori e figli, né per gli uni – che hanno visto riconosciuto il diritto non solo a formarsi una famiglia, ma altresì a diventare genitori, anche oltre i limiti imposti dalla natura (sterilità, identità di sesso dei partner) e comunque per effetto di una manifestazione di volontà svincolata dal dato biologico; né per gli altri, che debbono godere della medesima tutela indipendentemente dalla forma del legame tra coloro che ne assumono la genitorialità”.
3.‒ Preliminarmente, va confermata l’allegata ordinanza, con la quale è stata esclusa l’ammissibilità dell’intervento dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, poiché titolare di meri interessi indiretti e generali correlati ai suoi scopi statutari e non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale.
4.‒ Ancora in via preliminare, va esaminata l’eccezione di inammissibilità, formulata dalle parti costituite, per adombrata carenza, nell’ordinanza di rimessione, di una adeguata motivazione in ordine alla esclusa possibilità di addivenire ad una interpretazione delle norme denunciate conforme a Costituzione.
4.1.‒ L’eccezione non è fondata.
Il rimettente non ha mancato, infatti, di prendere in considerazione la praticabilità di una “via ermeneutica alla tutela” richiesta dalle ricorrenti. Ma è poi pervenuto ad escluderla per l’ostacolo, a suo avviso non superabile, rinvenibile nella lettera (in particolare nell’incipit) dell’art. 1, comma 20, della L. n. 76 del 2016, oltre che nella preclusione normativa all’accesso delle coppie dello stesso sesso alla procreazione medicalmente assistita. E tanto basta, poiché attiene al merito, e non più all’ammissibilità della questione, la condivisione o meno del presupposto interpretativo della normativa censurata (da ultimo, sentenze n. 32 e n. 11 del 2020, n. 189, n. 187 e n. 179 del 2019).
5.‒ Nel merito è, in primo luogo, comunque esatta la premessa esegetica da cui muove il giudice a quo.
5.1.‒ È pur vero che, come sostengono le due ricorrenti, la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in poi: PMA) è legata anche al “consenso” prestato, e alla “responsabilità” conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa.
Ciò, infatti, si desume sia dall’art. 8 della L. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) – per cui, appunto, i nati a seguito di un percorso di fecondazione medicalmente assistita hanno lo stato di “figli nati nel matrimonio” o di “figli riconosciuti” della coppia che questo percorso ha avviato – sia dal successivo art. 9 che, con riguardo alla fecondazione di tipo eterologo, coerentemente stabilisce che il “coniuge o il convivente” (della madre naturale), pur in assenza di un suo apporto biologico, non possa, comunque, poi esercitare l’azione di disconoscimento della paternità né l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.
Ma occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie “di sesso diverso”, atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
5.2.‒ Tanto è espressamente disposto dall’art. 5 della citata L. n. 40 del 2004: norma della quale non è possibile l’interpretazione adeguatrice pretesa dalle ricorrenti medesime.
Con la recente sentenza n. 221 del 2019, questa Corte – nel respingere le censure di illegittimità costituzionale rivolte al predetto art. 5 e all’art. 12, commi 2, 9 e 10, nonché agli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della L. n. 40 del 2004, per asserito contrasto con i parametri di cui agli artt. 2, 3, 11, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, e con altre disposizioni sovranazionali – ha, tra l’altro, affermato che “l’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è … fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale”. Ha, inoltre, ricordato come in questo senso si sia espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
Con la successiva sentenza n. 237 del 2019, questa Corte ha altresì affermato che ad opposte conclusioni neppure può poi condurre la L. n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso – non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto “dal rinvio che il comma 20 dell’art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano, infatti, escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante”.
E ancor più di recente, la Corte di legittimità, in una fattispecie analoga a quella oggetto del procedimento a quo, ha, a sua volta, ribadito che non può essere accolta la domanda di rettificazione dell’atto di nascita di un minore nato in Italia, mediante l’inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, sebbene la prima avesse in precedenza prestato il proprio consenso alla pratica della procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero, poiché nell’ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 3 aprile 2020, n. 7668).
5.3.‒ Resiste, dunque, a censura l’affermazione assunta in premessa dal rimettente, che lo induce a chiedere a questa Corte se “l’attuale impossibilità di indicare due madri unite civilmente nell’atto di nascita formato in Italia” violi o meno, “sia per gli adulti che per il nato”, i parametri evocati.
6.‒ In realtà, i precetti di cui agli artt. 2, 3, 30 Cost. e i parametri europei e convenzionali, congiuntamente richiamati attraverso l’intermediazione dell’art. 117, primo comma, Cost., così come non consentono l’interpretazione adeguatrice della normativa censurata – alla quale lo stesso rimettente esclude di poter pervenire – allo stesso modo neppure, però, ne autorizzano la reductio ad legitimitatem, nel senso dell’auspicato “riconoscimento delle donne omosessuali civilmente unite quali genitori del nato da fecondazione eterologa praticata dall’una con il consenso dell’altra”.
Ed invero, la scelta, operata dopo un ampio dibattito dal legislatore del 2016 – quella, cioè, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una “vita familiare” – sottende l’idea, “non … arbitraria o irrazionale”, che “una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato” (sentenza n. 221 del 2019). E tale scelta non viola gli artt. 2 e 30 Cost., per i profili evidenziati dal giudice a quo, perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.
A sua volta, l’art. 30 Cost. “non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli” e “la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori … non implica che … possa esplicarsi senza limiti” (sentenza n. 162 del 2014). E ciò poiché deve essere bilanciata, tale libertà, “con altri interessi costituzionalmente protetti: … particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico” (sentenza n. 221 del 2019).
Quanto poi al prospettato vulnus all’art. 3 Cost., è pur vero che la giurisprudenza, anche di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 15 giugno 2017, n. 14878 e 30 settembre 2016, n. 19599), ammette il riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione nei confronti di “due madri”, ma, come è stato già rilevato, “la circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia” (sentenza n. 221 del 2019).
Né diversamente rilevano, infine, le richiamate fonti europee, poiché sia la Carta di Nizza sia la CEDU, in materia di famiglia, rinviano in modo esplicito alle singole legislazioni nazionali e al rispetto dei principi ivi affermati. E, in particolare, la giurisprudenza della Corte EDU ha affermato in più occasioni che, nelle materie che sottendono delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; grande camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria). Nello stesso senso la Corte EDU ha recentemente chiarito che gli Stati non sono tenuti a registrare i dettagli del certificato di nascita di un bambino nato attraverso la maternità surrogata all’estero per stabilire la relazione legale genitore-figlio con la madre designata: l’adozione può anche servire come mezzo per riconoscere tale relazione, purché la procedura stabilita dalla legislazione nazionale ne garantisca l’attuazione tempestiva ed efficace, nel rispetto dell’interesse superiore del minore (grande camera, parere 10 aprile 2019). A medesime conclusioni deve pervenirsi con riguardo al diritto alla genitorialità di cui alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, diritto che è riconosciuto non già in termini assoluti, ma solo ove corrisponda al migliore interesse per il minore (best interest of the child).
7.- Se, dunque, il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata, non potendosi escludere la “capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali” (sentenza n. 221 del 2019).
Non privo di rilievo, in questa prospettiva, è poi il fatto che, ai fini della (ammessa) trascrivibilità in Italia di certificati di nascita formati all’estero, l’annotazione sugli stessi di una duplice genitorialità femminile è stata riconosciuta, dalla ricordata giurisprudenza, non contraria a principi di ordine pubblico, secondo le disposizioni di diritto internazionale privato (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193; oltre alle già citate sentenze n. 14878 del 2017 e n. 19599 del 2016).
8.- L’obiettivo auspicato dal Tribunale di Venezia, quanto al riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente, ex L. n. 76 del 2016, non è, pertanto, come detto, raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità della disposizione di segno opposto, recata dalla legge stessa e da quella del collegato D.P.R. n. 396 del 2000.
Esso è, viceversa, perseguibile per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente “attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre … il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale” (sentenza n. 84 del 2016).
Da qui l’inammissibilità, per tal profilo, della questione in esame.
9.- La questione è posta, peraltro, anche sotto un altro, connesso e parallelo profilo, che è quello relativo al vulnus che si assume arrecato all’interesse del minore, nel caso concreto in cui una delle due donne civilmente unite abbia (sia pur in violazione del divieto sub art. 5 della L. n. 40 del 2004), con il consenso dell’altra, portato a termine, all’estero, un percorso di fecondazione eterologa, da cui sia poi nato, in I., quel minore.
9.1.- Per questo secondo aspetto, la giurisprudenza ha già preso in considerazione l’interesse in questione, ammettendo l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della L. 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). In questa chiave, “si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962)” (sentenza n. 221 del 2019).
Una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la “madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono, ancora una volta, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, della L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e dell’art. 29, comma 2, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con L. 27 maggio 1991, n. 176, dal Tribunale ordinario di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2020.
Allegato: Ordinanza letta all’udienza del 20 ottobre 2020

Emergenza Covid 19 – Disposizioni del Segretario Generale della Giustizia amministrativa

AVVISO
PER I SIGNORI AVVOCATI DELLE AMMINISTRAZIONI E DEL LIBERO FORO
OGGETTO: Udienze da remoto ai sensi dell’art. 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137. Comunicazioni.
La ripresa, a decorrere dal 9 novembre 2020, delle udienze da remoto, ai sensi dell’art. 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, rende opportuno ricordare, al fine di assicurare la corretta celebrazione delle udienze, che:
a) la discussione orale da remoto va chiesta con specifico atto separato – e non in seno al ricorso o ad altro scritto difensivo – nel quale sia chiaramente e inequivocabilmente espressa la volontà di discutere la causa;
b) nella istanza di richiesta di discussione orale, l’avvocato è pregato di indicare anche il proprio numero di cellulare, per essere contattato ove sorgano problemi in occasione della convocazione in udienza camerale o pubblica;
c) gli avvocati che intendono discutere da remoto, nel momento in cui accedono alla piattaforma Microsoft Teams -utilizzando il link all’uopo inviato dalla competente Sezione-, ai sensi del comma 4 dell’art. 3 delle Specifiche tecniche (Allegato 3 del D.P.C.S.) devono «autenticarsi come “ospite/guest” e immettere, quale nome, una stringa costituita obbligatoriamente dai seguenti dati nell’ordine indicato:
L’Avvocatura dello Stato utilizza un nome del tipo “AVVOCATURASTATO”».
Il mancato inserimento del numero e dell’anno del ricorso o dell’appello al momento dell’identificazione sulla piattaforma non consentono al presidente di individuare la causa da ammettere alla discussione da remoto. Pertanto, l’immissione di tali informazioni è consigliata anche per l’Avvocatura dello Stato, al fine di snellire le procedure di ammissione alla discussione;
d) terminata la discussione, l’avvocato deve attendere di essere escluso dalla riunione e non può abbandonarla sua sponte.
Si rappresenta che anche alle Segreterie degli Uffici giudiziari saranno ricordate le regole principali per un corretto svolgimento delle udienze da remoto, con particolare riferimento, tra l’altro:
d1) all’organizzazione del numero di chiamate nelle diverse fasce tale da ridurre la durata della permanenza dei difensori nella cd. “sala di attesa”;
d2) all’indicazione -nel decreto che individua le fasce orarie di discussione delle cause (pubblicato sul sito internet della Giustizia amministrativa) o in diverso documento ben visibile al Foro interessato dalla singola udienza – di un recapito telefonico dedicato alla singola udienza, al quale l’avvocato interessato potrà rivolgersi per il solo caso di difficoltà a partecipare alla discussione telematica;
d3) alla pubblicazione delle fasce orarie sul sito istituzionale in tempo utile a consentire al Foro di organizzare l’eventuale partecipazione, nello stesso giorno, a diverse udienze o camere di consiglio.
Infine, coloro che intendano partecipare all’udienza da remoto sono invitati a prendere visione dell’informativa relativa al trattamento dei dati personali ai sensi degli artt. 13 e 14 del Regolamento (UE) 2016/679, pubblicata sul sito internet della Giustizia amministrativa nella sezione “Privacy”.
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Decreto ingiuntivo: l’estratto autentico delle scritture contabili rilasciato dal Comune è privo di valenza probatoria

Tribunale Ordinario di Mantova
Seconda Sezione Civile
Il Giudice del Tribunale Ordinario di Mantova, Seconda Sezione Civile, dott. Giorgio Bertola, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di primo grado iscritta al n° 3706/2017 del R.A.C.C. in data 17/10/2017, iniziata con atto di citazione in opposizione
d a
– ANTONIO (C.F. con il patrocinio dell’avv. MASSIMO, elettivamente domiciliato in ,
attore / opponente
c o n t r o
– SOCIETA’ COOPERATIVA AGRICOLA LA LIBERTA’ (C.F. 00392570206), in persona del legale rappresentante pro tempore, con il patrocinio dell’avv. ,
convenuta / opposta
avente per oggetto: Vendita di cose mobili,
trattenuta in decisione all’udienza di precisazione delle conclusioni del 30/06/2020, nella quale le parti hanno formulato le seguenti
CONCLUSIONI
– per ANTONIO “Piaccia al Tribunale Ill.mo previo accertamento, nel caso di specie, dell’insussistenza di una transazione commerciale ex D.Lgs. 231/2002, dichiarare che nulla è dovuto da Antonio alla Soc. Coop. Agricola La per alcun titolo o ragione, sia per capitale sia per interessi moratori a’ sensi del medesimo D.Lvo 231/2002 e, conseguentemente, revocare, dichiarare nullo e/o inefficace il decreto ingiuntivo opposto. Con vittoria di spese e compensi di giudizio”;
– per SOCIETA’ COOPERATIVA AGRICOLA LA LIBERTA’: “In via principale: rigettata ogni domanda di parte opponente perché infondata in fatto e in diritto, confermare il decreto ingiuntivo n. 1327/2017 Ing. emesso dal Tribunale di Mantova ad istanza di Società Cooperativa Agricola La nei confronti di Antonio, ed ivi residente in via
In subordine, e per il caso di eventuale revoca del decreto ingiuntivo opposto: condannare Antonio, , a pagare alla Società Cooperativa Agricola La con sede in San Benedetto Po la somma di € 8.017,00, o quella somma maggiore o minore che dovesse risultare in corso di causa, oltre ad interessi di mora ai tassi di cui al D. Lgs. 231/02 sugli importi in linea capitale dal dovuto al saldo effettivo. Con vittoria di spese, anche forfettarie, competenze professionali, oltre alle eventuali spese di consulenza e all’imposta di registro sia in relazione al decreto ingiuntivo opposto che alla sentenza che deciderà sull’opposizione.
In via istruttoria: si insiste per l’ammissione delle prove richieste con memoria istruttoria ex art. 183, comma 6 c.p.c. del 3.10.2018 non ammesse”.
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Antonio si è opposto al decreto ingiuntivo ottenuto dalla Società cooperativa contestando il valore probatorio delle sole fatture prodotte in sede monitoria, la illegittima applicazione degli interessi di mora di cui alla 231/2002 non sussistendone i requisiti soggettivi, nel merito ha contestato di aver mai ricevuto od ordinato la merce indicata nelle predette fatture che infatti erano prive delle bolle di consegna.
Ha dedotto l’attore che egli è comproprietario di due fondi rustici per complessive 102 biolche mantovane che fu oggetto di un contratto di affitto con la convenuta/opposta. La convenuta avrebbe dovuto corrispondere un canone di affitto di 300 euro a biolca/anno. La convenuta negli anni 2009 e 2010 sarebbe stata morosa nel pagamento del canone tanto che la procedura concordataria aveva chiesto alla parte di precisare il proprio credito prova questa che non solo l’attore non era debitore della convenuta, ma era addirittura creditore per canoni non pagati.
Ha svolto domanda riconvenzionale per il mancato pagamento dei canoni di affitto in relazione al fondo affittato alla convenuta.
Si è costituita la convenuta contestando le domande attoree e chiedendone il rigetto.
L’opposizione è fondata e va integralmente accolta. Quanto alla contestazione sulla prova idonea ad ottenere il decreto ingiuntivo, la stessa è fondata.
Dall’esame del doc. 4 si evince che lo stesso è composto da estratti delle scritture contabili che però risultano autenticati da un funzionario del Comune di Goito il quale si è limitato ad attestare la mera conformità di quelle fotocopie alle parti di scritture esibite in originale. Quella autentica non contiene invece alcun riferimento a come sono state tenute le scritture contabili esibite.
La parte invoca il potere certificativo anche del funzionario comunale in forza dell’art. 18 del DPR 445/2000.
La citazione è manifestamente infondata.
L’esame dell’art. 18 del DPR 445/2000, fonte normativa che viene dai più ricordata come facente parte del pacchetto semplificazione delle leggi Bassanini, riconosce al funzionario comunale un potere di autentica, ma con i seguenti limiti: “2. L’autenticazione delle copie puo’ essere fatta dal pubblico ufficiale dal quale e’ stato emesso o presso il quale e’ depositato l’originale, o al quale deve essere prodotto il documento”.
La ratio legis del comma 2 è fin troppo evidente. Si vuole consentire al funzionario il cui ufficio abbia formato o che detenga l’originale, di rilasciare un’autentica di una fotocopia di quel medesimo documento. Se così non fosse il cittadino che volesse ottenere l’autentica di un documento detenuto in originale dalla PA dovrebbe preliminarmente chiedere alla PA la consegna di quell’originale, procedere a crearne una copia per poi tornare dalla medesima PA per ottenerne l’autentica. Poiché l’intervento legislativo si inserisce in una complessiva operazione di semplificazione delle attività della PA appariva e appare certamente tuttora, che una PA che detenga un documento in originale possa rilasciare, a richiesta del privato, una copia autentica di un documento che ella detiene o che lei stessa ha formato.
Proprio questa è la semplificazione che mira a raggiungere la norma citata perché elimina almeno un paio di passaggi burocratici a cui invece prima il cittadino era obbligato a sottostare.
La norma però non dice che il funzionario comunale abbia un generalizzato potere di autentica rispetto a qualunque documento, ma solo a quelli che la sua PA detiene in originale o ha formato. La ratio appare anche logica visto che ha riguardo ad un documento che evidentemente deve essere prodotto in un procedimento amministrativo di cui è parte la stessa PA che lo detiene o che ha formato l’originale.
La semplificazione è tutta qui, nel non esigere dal cittadino la produzione nel procedimento amministrativo di un documento già detenuto in originale dalla PA procedente.
Sull’applicabilità al processo civile del DPR 445/2000, anche se in una fattispecie parzialmente difforme visto che aveva riguardo alla materia ereditaria, hanno avuto modo di esprimersi financo le Sezioni Unite nel 2014 con la decisione n. 12065 del 29/05/2014 le quali hanno escluso che la disciplina del DPR 445/2000 possa trovare pedissequa applicazione nel processo civile che è invece regolato da sue specifiche norme.
Nel caso di specie va infatti ricordato che, al fine di ottenere un decreto ingiuntivo, il secondo comma dell’art. 634 c.p.c. illustra chiaramente cosa sia una prova scritta.
La norma prevede che lo siano, tra gli altri, le scritture contabili autenticate purché “regolarmente tenute”. La precisazione non è stata certamente un vezzo del legislatore perché se si vanno a leggere gli articoli 2710 e 2219 c.c. si ricava che le scritture contabili possono eccezionalmente fare anche prova a favore di colui che le produce, contro la regola generale che invece le scritture contabili fanno prova contro l’imprenditore, solo se le predette scritture contabili siano regolarmente tenute.
Quando le scritture contabili possano dirsi regolarmente tenute è precisato dall’art. 2219 c.c. laddove si specifica che le scritture non devono contenere cancellature, abrasioni, spazi bianchi ecc.
La ragione appare fin troppo ovvia.
Se la regola generale è che le scritture contabili fanno prova contro l’imprenditore, il legislatore per consentire al creditore di potersi precostituire una prova a sé favorevole, come previsto dall’art. 2710 c.c., esige che quella contabilità sia tenuta con rigore al fine di evitare che l’imprenditore, dopo aver falsificato la propria contabilità, possa anche avvalersene come prova scritta privilegiata per ottenere un decreto ingiuntivo.
Quella “autentica” del Comune di Goito nulla certifica quanto alla regolare tenuta delle scritture così che essa è inidonea a fondare l’emissione di un decreto ingiuntivo che andrà pertanto inevitabilmente revocato anche laddove dovesse risultare fondata la domanda introdotta nel giudizio monitorio.
Il giudizio di opposizione tuttavia apre un ordinario giudizio di cognizione sul credito azionato in via monitoria dal convenuto/opposto così che il presente giudizio non potrà concludersi con la mera constatazione della illegittimità del decreto ingiuntivo, dovendo necessariamente entrare nel merito della domanda introdotta nel ricorso monitorio. All’esito dell’istruttoria non può che prendersi atto della manifesta infondatezza della domanda di condanna introdotta da parte convenuta/opposta.
Proprio il medesimo teste Grandisoli, che nella prospettazione della convenuta/opposta era colui che aveva rilasciato la dichiarazione scritta di cui al doc. 5 nel quale dichiarava di aver consegnato la merce di cui ai prospetti allegati all’attore/opponente, ha radicalmente smentito di poter affermare che il abbia ordinato la merce di cui la convenuta ha chiesto il pagamento e ha smentito altresì di avergli mai consegnato alcunché al punto che nel corso della sua deposizione ha anche dichiarato di non aver mai visto il Il teste ha specificato che lui provvedeva a smistare i prodotti tra le aziende agricole ed i contoterzisti una volta che arrivavano, tuttavia ha escluso di aver fatto gli ordini o di aver consegnato la merce all’attore.
Neppure il teste Zacché ha fornito alcuna utile prova alle allegazioni della convenuta/opposta visto che ha dichiarato di non ricordare l’ordine dell’aratura del
Neppure il Presidente della Cooperativa ha saputo confermare la destinazione, alla Cooperativa ovvero al della merce indicata nelle fatture.
La convenuta/opposta, non essendo stata in grado di fornire alcun elemento di prova del suo presunto credito, soccombe.
Le spese del presente procedimento seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo ai sensi del D.M. 55/2014. Quanto alla richiesta compensazione si deve osservare che nessuna influenza può avere il fatto che l’attore/opponente abbia introdotto una domanda riconvenzionale che poi è stata stralciata perché di competenza della sezione specializzata agraria poiché la proposizione di una domanda avanti ad un giudice incompetente non è minimamente paragonabile, nel bilanciamento da dover operare per valutare quale delle due parti risulti soccombente all’esito del giudizio, con la condotta di chi, sulla base di fatture riferibili a merci mai consegnate, chieda ed ottenga un decreto ingiuntivo manifestamente infondato. Inoltre non va dimentico che una pronuncia in rito sulla competenza non può mai assurgere a rigetto nel merito poiché il procedimento prosegue, se correttamente riassunto, avanti al giudice individuato come competente sicché ritenere l’ordinanza che declina la competenza come un provvedimento che comporta la soccombenza sulla domanda di merito appare manifestamente infondato.
P. Q. M.
Il Giudice, ogni diversa domanda ed eccezione reiette ed ogni ulteriore deduzione disattesa, definitivamente pronunciando,
1) Accoglie l’opposizione perché fondata e per l’effetto;
2) Revoca il decreto ingiuntivo opposto;
3) Condanna SOCIETA’ COOPERATIVA AGRICOLA LA LIBERTA’ (C.F. ), in persona del legale rappresentante pro tempore, a rifondere ad ANTONIO le spese di lite del presente procedimento che si liquidano in € 145,50 per esborsi ed € 4.835,00 per compenso, oltre al rimborso delle spese forfettarie pari al 15% sul compenso ex DM 37/2018, C.N.P.A. ed I.V.A.;
Così deciso in Mantova, il 23 ottobre 2020. IL GIUDICE
– Dott. Giorgio Bertola