Ritiro del passaporto e autorizzazione del G.T.

Cass. civ., Sez. Unite, 28 settembre 2020, n. 20443
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22669/2018 proposto da:
M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI PORTA PINCIANA 6, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA, rappresentato e difeso dall’avvocato FAUSTO MANIACI;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– controricorrente –
e contro
QUESTURA DI MILANO, MINISTERO AFFARI ESTERI, B.S.;
– intimati –
avverso la sentenza 1622/2018 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 14/03/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/07/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
uditi gli avvocati Fausto Maniaci e Roberto Palasciano per l’Avvocatura Generale dello Stato.
Svolgimento del processo
Il signor M.A. chiedeva al Tar Lombardia l’annullamento del decreto del Questore di Milano del 20 marzo 2015 che aveva disposto il ritiro del passaporto e l’annotazione “non valido ai fini dell’espatrio” sulla carta d’identità e su ogni altro documento equipollente, in conseguenza del fatto che il coniuge, signora B.S., aveva revocato l’assenso all’espatrio, sul presupposto che egli avesse omesso, a partire dal (OMISSIS), di versare il contributo di mantenimento delle figli minori, stabilito dal Tribunale di Milano, con ordinanza del 12 marzo del 2013, in sede di separazione personale.
Il Tar rigettava l’impugnazione, rilevando che il Questore aveva esercitato un potere vincolato di ritiro del passaporto, a norma della L. 21 novembre 1967, n. 1185, art. 3, comma 1, lett. b) e art. 12, comma 1, in conseguenza del venir meno dell’assenso dell’altro coniuge che ne avrebbe legittimato il diniego, in presenza di figli minori.
Il gravame veniva rigettato dal Consiglio di Stato, con sentenza del 14 marzo 2018, per le seguenti ragioni: il ritiro del passaporto e l’annotazione sulla carta d’identità e sugli altri documenti equipollenti sono provvedimenti vincolati, sulla base del solo rilievo della sopravvenuta revoca dell’assenso dell’altro genitore di figli minori o, in sostituzione, della mancanza dell’autorizzazione del giudice tutelare, quest’ultima neppure richiesta dall’interessato; non residuava alcuna discrezionalità dell’autorità amministrativa, venendo in rilievo valutazioni sulle esigenze di tutela dell’interesse dei figli minori, già operate dal legislatore e rilevanti quale limite alla libertà di espatrio dei genitori di figli minori; la doglianza relativa alla violazione dell’art. 2, comma 2, Protocollo Addizionale n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che prevede che “Ogni persona è libera di lasciare qualsiasi paese ivi compreso il proprio”, non teneva conto che la Cedu (con sentenza 2 dicembre 2014, Battista c. Italia) aveva ritenuto che l’ingerenza statuale nella vita privata aveva una specifica basa legale nella L. n. 1185 del 1967, art. 12, allo scopo di garantire che il genitore assolva gli obblighi alimentari verso i figli, fermo restando il potere dell’autorità giudiziaria, tramite l’autorizzazione del giudice tutelare, di valutare il non automatismo, la proporzionalità e la temporaneità della misura restrittiva adottata; neppure condivisibile era la doglianza di violazione dell’art. 4 della direttiva n. 38/2014/CE del 29 aprile 2004, che rimette alla legislazione degli Stati nazionali di disciplinare il rilascio e il rinnovo della carta d’identità e del passaporto ai propri cittadini.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione M.A., illustrato da memoria, cui resiste il Ministero dell’interno.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, che denuncia violazione dei limiti esterni della giurisdizione per manifesta contrarietà della sentenza impugnata al diritto dell’Unione (artt. 4, 27, 30 e 31 della direttiva 38/2004/CE e 47 della Carta dei diritti fondamentali), il ricorrente critica la sentenza impugnata per avere negato che lo scopo della direttiva n. 38/2004/CE sia di uniformare la legislazione degli Stati membri circa le condizioni e i limiti in cui in ciascun Stato membro è condizionato il rilascio dei documenti validi per l’espatrio dei propri cittadini, avendo ritenuto che lo scopo sia solo quello di rafforzare la libertà di circolazione e soggiorno nel territorio dell’Unione, lasciando alle legislazioni nazionali la disciplina del rilascio o del rinnovo della carta d’identità e del passaporto. Egli sostiene che l’art. 27 della citata direttiva sia stata interpretata dalla Corte di giustizia nella sentenza 4 ottobre 2012, C-249/11, in senso incompatibile con la decisione impugnata, atteso che gli Stati membri possono limitare la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione soltanto per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica nessuno dei quali invocati, nella specie, dalle autorità amministrative e giurisdizionali – ma tali motivi non possono consistere in ragioni di tipo economico, quali sarebbero quelle addotte a fondamento della revoca del consenso da parte dell’ex coniuge per il rischio che l’altro coniuge obbligato possa espatriare per sottrarsi agli obblighi di mantenimento delle figlie minori. Il M. contesta che la Questura eserciti un potere vincolato, non bisognoso di contraddittorio preventivo, nè di istruttoria sulle ragioni per le quali uno dei genitori ritiri l’assenso all’espatrio, nè di specifica motivazione, a proposito dell’asserito mancato versamento del contributo di mantenimento delle figlie minori, nonchè insindacabile dal giudice amministrativo. A suo avviso, tale esito non sarebbe consentito dalla sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 4 giugno 2013, C-300/11, la quale, interpretando gli artt. 30 e 31 della direttiva, alla luce dell’art. 47 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione, aveva statuito che le decisioni che limitano il diritto alla libera circolazione negli Stati membri devono essere sostenute da motivi circostanziati e completi che devono rispettare i principi del contraddittorio e di proporzionalità (nel senso di corrispondere effettivamente ad obiettivi di interesse generale riconosciuti dall’Unione), in modo da consentire al “giudice incaricato del controllo di legittimità di una decisione (amministrativa) di prendere conoscenza sia dell’insieme dei motivi sia degli elementi di prova pertinenti sulla cui base la decisione medesima è stata adottata”.
Il secondo motivo denuncia violazione dei limiti esterni della giurisdizione, per manifesta contrarietà della sentenza impugnata al diritto dell’Unione, in relazione ai medesimi parametri sopra indicati, nonchè agli artt. 6 e 52 Carta dei diritti fondamentali e 2, comma 2, Protocollo Addizionale n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Il ricorrente rimprovera al Consiglio di Stato di avere ritenuto che consentire al giudice tutelare di negare o ritirare l’autorizzazione al rilascio del passaporto per il mancato rispetto degli obblighi alimentari nei confronti dei figli minori implichi una “ingerenza che aveva chiaramente una base legale nel diritto interno”. Tuttavia, la Corte di Strasburgo, nella sentenza Battista del 2014, aveva avvertito che la misura “può diventare sproporzionata e violare i diritti della persona nel caso in cui venga mantenuta per molto tempo” (p. 41) e che le autorità interne “hanno l’obbligo di controllare che ogni violazione del diritto di una persona di lasciare il suo paese sia, dall’inizio e per tutta la sua durata, giustificata e proporzionata rispetto alle circostanze”, talchè il controllo giurisdizionale deve permettere “di tenere conto di tutti gli elementi, ivi compresi quelli legati alla proporzionalità della misura restrittiva” (p. 42), contrariamente a quanto statuito dal Consiglio di Stato.
Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente, sono inammissibili.
La sentenza impugnata è fondata su due diverse rationes decidendi, ciascuna delle quali idonea da sola a sorreggere la decisione.
Ed infatti, ad avviso del Consiglio di Stato: a) il ritiro del passaporto e l’annotazione “non valida per l’espatrio” sulla carta d’identità del genitore obbligato al mantenimento di figli minori sono provvedimenti vincolati per l’amministrazione e vincolanti per il (e non sindacabili dal) giudice amministrativo, in conseguenza del mancato assenso (o, come nella specie, della revoca dell’assenso) da parte dell’altro genitore e della mancata autorizzazione del giudice tutelare; b) e comunque, il M. non era rimasto privo di tutela, in quanto avrebbe potuto “agevolmente superare lo stallo derivante dal ritiro dell’assenso del coniuge rivolgendosi al giudice tutelare, e dunque l’asserita “privazione della libertà personale” non è rimessa in modo definitivo all’autorità amministrativa, ma è rimessa alla valutazione dell’autorità giudiziaria nel pieno rispetto delle norme costituzionali e convenzionali invocate”; ed ancora, “le doglianze proposte potrebbero riferirsi alla pronuncia eventualmente adottata dall’autorità giudiziaria sulla richiesta di autorizzazione, e non al provvedimento amministrativo della Questura che si limita a fotografare una situazione di fatto: quella del ritiro dell’assenso”.
Questa seconda complessa argomentazione (sub b) integra una autonoma ratio decidendi, non censurata nel ricorso (nè nella memoria) e, dunque, idonea da sola a sorreggere la decisione impugnata, tanto più in quanto arricchita dal Consiglio di Stato con la considerazione che la disciplina di cui alla L. n. 1185 del 1967, art. 3, lett. b), è compatibile con la normativa comunitaria poichè “assicura il non automatismo, la proporzionalità e la temporaneità della misura restrittiva, e il controllo sulla sua legittimità da parte dell’autorità giudiziaria, proprio attraverso l’autorizzazione del giudice tutelare, i cui provvedimenti non sono definitivi, ma sempre modificabili o revocabili, e al quale l’interessato può rivolgersi in qualunque momento per ottenere il riesame della misura”.
E’ noto il principio secondo cui, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (tra le tante, Cass. n. 18641 del 2017). Tale principio è applicabile anche ai ricorsi avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, i quali possono essere esaminati rispetto alle censure di difetto di potere giurisdizionale sotto il profilo del superamento dei limiti esterni della giurisdizione, a condizione che i motivi siano formulati conformemente alle modalità redazionali previste dall’art. 366 c.p.c. e ai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’ammissibilità estrinseca delle singole censure (in tal senso, implicitamente, Cass. S.U. n. 9775 del 2020).
Il difensore del M. solo durante la discussione orale all’udienza pubblica ha affermato che, trattandosi di ritiro del passaporto e annotazione di non validità per l’espatrio sui documenti equipollenti, non sarebbe stato possibile attivare il procedimento giurisdizionale dinanzi al giudice tutelare, che si assume essere previsto solo ai fini del rilascio del documento. La suddetta critica, tuttavia, non è idonea a scalfire la ratio decidendi in esame (sub b), non solo, perchè nuova, non potendosi in sede di discussione orale prospettare, per la prima volta, una censura non espressamente dedotta con i motivi del ricorso (v. Cass. n. 541 del 1971) nè nel giudizio amministrativo pregresso, ma anche perchè implicante la implicita deduzione di un eventuale error in iudicando imputabile al Consiglio di Stato – tuttavia insindacabile dalle Sezioni Unite in sede di controllo dei soli limiti esterni della giurisdizione – nella interpretazione della normativa vigente, in particolare della L. n. 1185 del 1967, art. 12 e del D.P.R. 6 agosto 1974, n. 649, art. 2, comma 1 (sul ritiro del passaporto quando sopravvengono circostanze che ne avrebbero legittimato il diniego), in relazione all’art. 3, lett. b) (sull’intervento autorizzatorio del giudice tutelare quando manchi l’assenso dell’altro genitore ai fini del rilascio del passaporto) e della L. n. 1185 del 1967, art. 5 (sull’autorità competente a rilasciare e ritirare il passaporto: Ministro per gli affari esteri e, per delega, questori e rappresentanti consolari e diplomatici).
La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata resta validamente ancorata alla predetta e incensurata ratio decidendi, con la quale il Consiglio di Stato ha osservato che l’esito sfavorevole del giudizio per il ricorrente è addebitabile alla sua scelta di non attivare il procedimento dinanzi al giudice tutelare, dinanzi al quale egli avrebbe potuto neutralizzare il dissenso del coniuge, all’esito di una completa istruttoria del caso concreto da parte dello stesso giudice ordinario, nel rispetto dei principi evocati di proporzionalità e rispetto del contraddittorio, a prescindere dalla conformità a diritto di tale enunciazione.
Ne consegue l’inammissibilità delle censure proposte avverso l’altra ratio decidendi (sub a), con la quale, di conseguenza, i giudici amministrativi hanno ritenuto compatibile il sistema derivante dalla L. n. 1185 del , con gli artt. 27 e 31 della direttiva 2004/38/CE, come interpretati dalla Corte di giustizia (sentenza 4 giugno 2013, C-300/11, p. 53, 55, 59, 65), e con la giurisprudenza della Cedu (sentenze Battista c. Italia e, da ultimo, 17 dicembre 2019, Torresi c. Italia), che impongono la tutela del contraddittorio, la proporzionalità, la temporaneità e il non automatismo applicativo della misura restrittiva in esame.
L’esame della complessa questione illustrata nei due motivi di ricorso è, dunque, precluso, così come la correlata definizione dei limiti del controllo rimesso alle Sezioni Unite sulle sentenze del Consiglio di Stato, cui sia imputato il contrasto manifesto o potenziale con il diritto comunitario, rispettivamente nei casi di contrasto frontale con sentenze della Corte di giustizia o di rinvio pregiudiziale immotivatamente omesso alla stessa Corte ex art. 267 TFUE. Il ricorso è dunque inammissibile.
Le spese sono compensate, in considerazione della novità e complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile, compensa le spese processuali.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 7 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2020