Se il matrimonio è di breve durata non viene riconosciuto l’assegno divorzile

Tribunale di Verona, sent. del 15 maggio 2020, est. Dott.ssa Virginia Manfroni
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di VERONA
SEZIONE FAMIGLIA E INTERDIZIONI-INABILITAZIONI CIVILE
Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1277 /2017 promossa da:
CORNELIO (C.F. *** ), con il patrocinio dell’avv. C.L , elettivamente domiciliato in Indirizzo
Telematico presso il difensore avv. C.L.
RICORRENTE
contro
TULLIA (C.F. ***), con il patrocinio dell’avv. F.Z.G. , elettivamente domiciliato presso il difensore
avv. F.Z.G.
RESISTENTE
CONCLUSIONI
PARTE RICORRENTE: come da foglio di precisazione delle conclusioni depositato in via telematica in
data 3.12.19.
PARTE RESISTENTE: come da foglio di precisazione delle conclusioni depositato in via telematica in
data 5.12.19.
PUBBLICO MINISTERO: nulla.
[
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con sentenza parziale n. 939/18 depositata in data 13.4.18 è stato pronunciato lo scioglimento del
matrimonio contratto dalle parti in data 5.4.12.
Dall’unione tra le parti non nascevano figli.
In data 4.11.2015 le parti si separavano consensualmente prevedendo un assegno di mantenimento di
euro 300,00 in favore della sig.ra Tullia (cfr. doc. 2 ricorrente).
Stante l’intervenuta pronuncia sul vincolo, rimane da esaminare solo la richiesta di assegno divorzile da
parte della resistente nella stessa misura di cui all’assegno di mantenimento concordato dalle parti in
sede di separazione.
Con riferimento a tale domanda va considerato da un lato la durata del matrimonio, ovvero 3 anni anche
se preceduto da una convivenza di 5 anni; dall’altro lato le contrapposte condizioni economico
patrimoniali delle parti.
Parte ricorrente ha 55 anni ed è pensionato.
Dalla dichiarazione dei redditi 730/19 emerge un reddito netto annuale di euro 19.110,00 pari a un
reddito mensile netto di euro 1.592,00 (cfr. doc. 18 ricorrente).
Sostiene un costo mensile per finanziamenti vari pari a euro 486,00 (cfr. doc. 4 ricorrente) e ha
depositato in giudizio l’estratto conto con saldo negativo (cfr. doc. 17 ricorrente).
Abita in una casa di proprietà per cui non sostiene costi fissi abitativi (cfr. doc. 19 ricorrente).
Parte resistente è attualmente disoccupata e non documenta la ricerca di un impiego dalla separazione ad
oggi. Prima del matrimonio lavorava come impiegata mettendo a frutto il proprio titolo di ragioniera,
poi in concomitanza del matrimonio l’azienda per cui lavorava ha chiuso e la stessa, d’accordo con il
marito, non ha più reperito altra occupazione.
Documenta problemi di salute con certificato dell’11.12.18 (cfr. doc. 13 resistente) da cui non appare
desumibile alcuna impossibilità a svolgere mansioni lavorative, anche in considerazione della sua
capacità lavorativa specifica come impiegata ragioniera.
Con riferimento quindi alla domanda di assegno divorzile, occorre rilevare come in sede di separazione
consensuale in data 4.11.15 le parti avevano pattuito un contributo al mantenimento per la resistente di
euro 300,00 mensili.
Tale contributo è stato confermato dal Presidente in sede di udienza presidenziale per il divorzio in data
17.5.17.
Tuttavia non è più oggi possibile, anche alla luce del nuovo orientamento giurisprudenziale in materia,
prevedere un assegno divorzile per la resistente e ciò per una serie di ragioni.
In primo luogo la durata del matrimonio per soli 3 anni che impedisce il consolidamento dei doveri di
solidarietà familiare e assistenza tali da sopravvivere alla dissoluzione del vincolo con il divorzio.
Inoltre parte resistente non ha in alcun modo provato, né a monte allegato, di essersi attivata per la
reinserirsi nel mondo lavorativo, pur essendo in possesso di una professionalità specifica come
ragioniera che aveva in passato messo a frutto.
Inoltre anche le condizioni economiche del ricorrente non sono tali da giustificare un sacrificio
permanente delle proprie limitate disponibilità economiche (circa euro 1.100,00 mensili tolto il
finanziamento).
Infine va considerata la funzione assistenziale propria dell’assegno divorzile interpretata alla luce dei
principi costituzionali di cui agli art..2, 3 e 29 Cost.
Infatti alla luce della dissoluzione del vincolo matrimoniale che costituisce il proprium del divorzio, la
solidarietà che residua tra gli ex coniugi dal punto di vista economico ha il suo fondamento attivatore
unicamente nella mancanza dei mezzi adeguati da leggersi alla luce della genesi della stessa nella
ripartizione dei ruoli endofamiliari che ha causato la disparità reddituale esistente al momento dello
scioglimento del vincolo.
In altri termini, ove risulti accertato che la mancanza di mezzi adeguati di una parte e la disparità
economico reddituale tra i due ex coniugi dipenda, anche in considerazione della durata del matrimonio,
dalla ripartizione interna dei compiti di cura e accudimento della famiglia in misura
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preponderante in capo al coniuge meno forte economicamente, allora si attiva la residua solidarietà
economica di cui è espressione l’assegno divorzile.
Alla luce dell’insieme di tali elementi deve rigettarsi la richiesta di assegno divorzile avanzata dalla
resistente.
Ai sensi dell’art. 91 cpc le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo in
applicazione dei criteri medi di cui al DM 5514 così come aggiornati dal DM 37/18 e con una
diminuzione per la fase istruttoria, in ragione dell’assenza di istruttoria orale.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così
dispone:
1. Rigetta la domanda di assegno divorzile.
2. Condanna parte resistente al pagamento delle spese di lite sostenute dal ricorrente liquidate
nell’importo complessivo di euro 6.334,00 oltre al rimborso forfettario spese generali al 15%,
IVA, se dovuta, e CPA.
Così deciso a Verona, nella camera di consiglio del 14.4.20
Il Giudice est. Il Presidente
dott. Virginia Manfroni dott. Ernesto D’Amico

Responsabilità penale della moglie che sottrae beni del marito dalla casa ex coniugale

Trib. di Verona, ufficio del GIP, ord. 8 agosto 2020, est. Dott.ssa Giuliana Franciosi.
TRIBUNALE DI VERONA
Ufficio del Giudice per le indagini preliminari
ORDINANZA
Il Giudice per le indagini preliminari, dott.ssa Giuliana Franciosi,
letti gli atti del procedimento penale di cui in epigrafe, a carico di Cornelia, indagata in ordine al delitto di cui all’art. 388 c.p.
vista la richiesta di archiviazione avanzata dal P.M.;
vista l’opposizione di Gaio;
udite le parti comparse (con collegamento da remoto ex art. 83 comma 12 bis D. L. 18/2020) all’udienza del 12 giugno 2020 ed a
scioglimento della riserva assunta;
rilevato
Gaio, con denuncia-querela del 10.9.2019 ha esposto che Cornelia, sua coniuge separata, una volta costretta – a seguito di procedura
esecutiva – a rilasciare la casa familiare (della quale le era stata revocata l’assegnazione) lo aveva denunciato per l’asserita sottrazione di
una serie di beni mobili, pretestuosamente e ritorsivamente, tanto che il procedimento era esitato con richiesta di archiviazione.
Gaio esponeva, altresì, che, prima di venire a conoscenza della denuncia, aveva intimato a Cornelia la restituzione di alcuni beni personali
rimasti nella disponibilità della stessa – costituenti, in gran parte, gli stessi beni del quale era stato accusato della sottrazione – ottenendo
in sede civile autorizzazione a procedere al loro sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c.
L’esecuzione forzata del sequestro avveniva in data 21.8.2019 presso la (nuova) dimora di Cornelia con accesso dell’ufficiale giudiziario, il
quale non rinveniva alcuno dei beni oggetto del sequestro e raccoglieva le dichiarazioni di Cornelia, la quale, interpellata in merito
all’ubicazione dei beni, dichiarava di “riportarsi” agli scritti del suo legale.
Assumeva, pertanto, il querelante che Cornelia, con tale atteggiamento, aveva dolosamente eluso l’esecuzione del provvedimento
cautelare civile in materia di proprietà.
A tale proposito il querelante poneva in evidenza che in una missiva datata 11.5.2018 a firma del legale della donna – redatta nell’ambito
della controversia civile – si asseriva la disponibilità da parte della stessa di “molti dei beni” oggetto della richiesta di restituzione e del
successivo sequestro giudiziario.
Inoltre, veniva posto in evidenza che Cornelia rivestiva la qualità di custode dei beni oggetto del ricorso per sequestro giudiziario.
Il Pubblico Ministero ha avanzato richiesta di archiviazione assumendo che l’indagata aveva bensì asserito di avere a disposizione alcuni
dei beni, ma indicandone la collocazione in una dimora diversa quella ove sono stati cercati in sede di esecuzione del sequestro, luogo in
cui non vi è stato accesso, con conseguente mancanza di prova della violazione o elusione del provvedimento di sequestro.
N. +++/19 R.G. N.R.
N. +++/19 R.G. G.I.P.
Gaio si è opposto all’archiviazione ribadendo la sussistenza del reato.
Con memoria difensiva l’indagata ha argomentato di non rivestire la qualifica di custode e che la condotta dell’indagata non era
qualificabile quale elusione del provvedimento cautelare.
Ritenuto che l’ipotesi accusatoria, alla luce degli elementi circostanziali ricavabili dal carteggio intercorso in merito alla restituzione dei
beni, abbia adeguati elementi per essere sostenibile in giudizio
PQM
Visto l’art. 409 c.5c.p.p.
Ordina al Pm la formulazione dell’imputazione entro il termine di giorni 10 dalla
comunicazione della presente ordinanza.

Le inadempienze di un genitore configurano un illecito endofamiliare plurioffensivo

Tribunale di Cagliari, sez. II Civile, sentenza 12 febbraio 2020
Giudice Latti
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Caia e la figlia Tizia hanno citato in giudizio Sempronio, genitore di quest’ultima, al fine di ottenerne la
condanna al risarcimento danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa della privazione della figura
paterna, oltre alla determinazione di un assegno di mantenimento.
A sostegno delle domanda, le attrici hanno esposto:
– dalla relazione intercorsa nel 1993 tra la Caia e Sempronio, coniugato con un’altra donna, è nata la figlia
Tizia;
– il Sempronio veniva subito informato, ma mostrava, sin da subito, totale disinteresse per la figlia, ometteva
di riconoscerla e, solamente dopo la richiesta formulata, nella primavera 2012, da Caia, a seguito
dell’espletamento dell’esame del DNA, si addiveniva al riconoscimento della paternità, avvenuto il 25
febbraio 2013, presso il Comune di Cagliari;
– neanche dopo il riconoscimento di paternità, il Sempronio ha cercato alcun contatto con la figlia, cosicchè
la privazione della figura genitoriale paterna ha causato in Tizia uno stato di particolare sofferenza, per la
quale segue un percorso di psicoterapia, e, quindi, un danno non patrimoniale, che, adottando quale
parametro di riferimento le tabelle giurisprudenziali del Tribunale di Milano può essere quantificato in Euro
250.000,00;
– con riguardo all’assegno di mantenimento, si deve considerare che la figlia è studentessa universitaria e
vive a Cagliari in locazione, la madre ha da sempre goduto di redditi decisamente modesti ed il Sempronio è
dirigente medico I Fascia presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria X e svolge altresì la libera professione
negli studi di X; cosicchè potrebbe essere equo determinare l’ammontare dell’assegno di mantenimento in
Euro 1.500,00 mensili oltre al 50% delle spese straordinarie necessarie, quali mediche non coperte dal SSN,
tasse universitarie e testi universitari;
– Caia ha, inoltre, richiesto il risarcimento del danno patrimoniale subito per avere provveduto in via esclusiva
al mantenimento della figlia sin dalla nascita, da liquidare in via equitativa in Euro 220.000,00 (oltre al 50%
delle spese straordinarie documentate pari a complessivi Euro 1076,78);
– la condotta omissiva del convenuto ha, infine, causato a Caia anche un danno non patrimoniale, in quanto
dopo la nascita della figlia è tornata nel piccolo paese di origine, ha sempre provveduto in via esclusiva alla
stessa figlia così rinunciando a perseguire qualunque altro obbiettivo per affermarsi sul piano lavorativo e
personale e causando un profondo stato di frustrazione e conseguente depressione; cosicchè il danno non
patrimoniale in capo a Caia potrebbe essere determinato in via equitativa nella misura di Euro 80.000,00.
Si è costituito Sempronio, il quale ha chiesto il rigetto della domanda di parte attrice, eccependo:
– di avere intrattenuto nell’estate del 1993 dei rapporti extraconiugali con Caia, con la quale era intercorsa
una relazione sentimentale per circa tre mesi nel 1990, prima del suo matrimonio;
– durante quei rapporti extraconiugali venne concepita Tizia e dello stato di gravidanza la Caia lo informò nel
successivo mese di dicembre;
– di essersi reso disponibile ad un aiuto morale e materiale, pur chiarendo che “era un uomo sposato ed
innamorato della moglie e che il loro personale rapporto, di conseguenza, non avrebbe avuto alcun seguito”;
di non essersi, quindi, mai sottratto alle richieste della Caia, contrariamente a quanto affermato dalla
controparte, provvedendo al mantenimento di Tizia, prima attraverso i bonifici di Lire 500.000 mensili, poi di
Euro 500,00;
– di non avere potuto esercitare il proprio ruolo paterno, in quanto “per poter vedere la bambina…..avrebbe
dovuto spostare il baricentro della sua vita lontano dalla moglie e dalla famiglia”;
– di avere proceduto all’accertamento del DNA dopo avere ricevuto nel Marzo del 2012 la diffida del legale
della Caia, e di avere provveduto subito dopo a dichiarare la sua paternità, manifestando da subito la sua
disponibilità a venire incontro anche alle nuove esigenze della ragazza, ottenendo un rifiuto della signora
Caia.
La causa, istruita con produzioni documentali, interrogatorio formale e prova testimoniale, è stata tenuta a
decisione sulle conclusioni sopra trascritte.
Entrambe le parti attrici hanno formulato, nei confronti del convenuto Sempronio, distinte domande di
accertamento e condanna.
Tizia ha domandato nei confronti del genitore Sempronio l’accertamento del diritto ad un assegno di
mantenimento nella misura di Euro 1.500,00 mensili (da rivalutarsi annualmente) oltre al pagamento delle
spese straordinarie nella misura del 50%; l’attrice ha, inoltre, domandato il risarcimento danni non
patrimoniali nella misura di Euro 250.000,00 subiti a causa della privazione della figura paterna sin dalla
nascita.
Caia ha, invece, domandato il risarcimento del danno patrimoniale nella misura di Euro 220.000,00, subito
per avere provveduto in modo esclusivo dalla nascita al mantenimento della figlia, oltre al rimborso delle
spese straordinarie documentate; l’attrice ha, inoltre, richiesto il risarcimento del danno non patrimoniale
nella misura di Euro 80.000,00 causato dal mancato adempimento del genitore dei doveri di mantenere,
istruire, educare e assistere moralmente la figlia Tizia.
Le domande di parte attrice sono in parte fondate e devono essere accolte per quanto di ragione.
1) L’assegno di mantenimento per la figlia Tizia.
La domanda formulata dalla figlia Tizia trova il proprio fondamento normativo, in primo luogo, nelle norme
contenute nel codice civile, come modificate dalla riforma operata con la L. n. 219/2012 e con il d.lgs. n.
154/2013, a seguito della quale non vi è alcuna distinzione tra figli nati da genitori non coniugati e figli nati
da genitori coniugati.
A fronte del diritto del figlio di essere mantenuto nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali
e delle sue aspirazioni (cfr. art. 315 bis c.c), i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli
in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 316
bis c.c.); in particolare, salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori
provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove
necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da
determinare considerando (art. 337 ter c.c.):
1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
E’ circostanza del tutto irrilevante, per la determinazione dell’an e del quantum dell’assegno di
mantenimento, il fatto che la mancata frequentazione della figlia da parte del genitore sia dovuta a una scelta
volontaria della prima – peraltro non provata nella fattispecie in esame – in quanto tale decisione non
interferisce, in termini economici, col fatto che il genitore non vada incontro ad alcun diretto esborso o ad
alcuna cura in favore della figlia stessa (in questi termini, cfr. Cassazione civile sez. VI, 01/03/2018, n.4811).
Ciò premesso, nella quantificazione dell’importo dell’assegno di mantenimento per la figlia maggiorenne, al
fine di realizzare il principio di proporzionalità, occorre effettuare una valutazione comparata dei redditi e
delle sostanze di entrambi i genitori.
Dal limitato materiale probatorio emerge che Sempronio, sessantaduenne, – che non è contestato svolga la
professione di medico presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di X e la libera professione presso studi
privati – ha percepito (negli ultimi tre periodi di imposta documentati, dal 2015 al 2017) un reddito netto di
Euro 77.210,00 (detratta l’imposta netta e gli ulteriori oneri dal reddito complessivo) per il periodo di imposta
2015, di Euro 88.970,00 per il periodo di imposta 2016 e di Euro 80.648,00 per il periodo di imposta 2017,
per un reddito netto medio mensile di Euro 6.856,00; è, inoltre, proprietario esclusivo dell’abitazione
coniugale, nella quale convive con la moglie (che il Sempronio ha allegato avere svolto la professione di
anestesista, è stata collocata in pensione e ha documentato essere stata riconosciuta invalida al 91%, cfr.
doc. n. 22 di parte convenuta), e il figlio A., maggiorenne e che il convenuto ha documentato essere in cura
presso il Centro di salute mentale per abuso di alcolici, dismorfobie, dispercezioni uditive (cfr. doc. n. 7 di
parte convenuta).
Non sono state neanche allegate attività lavorative ovvero capacità professionali di Caia, sessantenne, la
quale convive, nel paese di Narcao, con la madre e la sorella, che si presume abbiano concorso e concorrano,
unitamente ad altri congiunti, al mantenimento del nucleo familiare.
Non sono stati in alcun modo allegati dalle parti ulteriori elementi dai quali desumere che le informazioni di
carattere economico non siano sufficientemente documentate e lo stesso art. 155 c.c., modificato dalla legge
n. 54/2006, prevede che l’eventuale accertamento della polizia tributaria possa essere richiesto sui redditi e
sui beni che siano stati oggetto di contestazione.
Con riguardo alla condizione della figlia Tizia, è pacifico che stia proseguendo gli studi universitari presso la
Facoltà di Medicina e sostenga oneri di locazione nella misura di circa 230,00 Euro mensili (cfr. doc. n. 4 di
parte attrice)
Al fine di determinare l’entità del contributo al mantenimento dovuto dal convenuto, occorre, quindi,
considerare le attuali esigenze della figlia, aumentate rispetto agli anni precedenti in considerazione dell’età
e degli studi universitari, la mancanza di capacità reddituali della madre e quelle, invece, apprezzabili del
padre, il quale ha, peraltro, un altro nucleo familiare, composto dalla moglie e da un figlio, e, infine, la valenza
economica dei compiti di cura assunti, in via pressochè esclusiva, dalla madre.
Sulla base di tali risultati di prova, e considerato che, secondo quanto dedotto dallo stesso convenuto, egli
ha provveduto, dal mese di marzo 2018, a versare l’importo di 1.000,00 Euro a titolo di mantenimento,
appare equo disporre che Sempronio, a titolo di contributo per il mantenimento della figlia, debba
corrispondere mensilmente la medesima somma di Euro 1.000,00, con decorrenza dalla data della domanda
(aprile 2017); oltre al 50% delle spese di istruzione e delle ulteriori spese straordinarie di carattere necessario
sostenute nell’interesse della figlia; tale assegno dovrà essere corrisposto nel domicilio indicato dalla figlia
entro il giorno cinque di ogni mese, e dovrà essere adeguato annualmente in misura che si ritiene congruo
determinare pari agli indici Istat di variazione del costo della vita.
2) Il danno non patrimoniale lamentato da Tizia.
L’attrice ha, inoltre, domandato il risarcimento danni non patrimoniali, nella misura di Euro 250.000,00, subiti
a causa della privazione della figura paterna sin dalla nascita.
Tale fattispecie è stata orami da tempo inclusa, dalla giurisprudenza di legittimità, nella nozione di illecito
endofamiliare, che comprende tutte le ipotesi in cui, nell’ambito di relazioni familiari, si realizzino lesioni ai
diritti della persona costituzionalmente garantiti, in conseguenza di una violazione dei doveri familiari: infatti,
i diritti inviolabili della persona rimangono tali anche in tale ambito, cosicché la loro lesione da parte di altro
componente della famiglia può costituire presupposto di responsabilità aquiliana (Cass. civ., sez. I, 15.9.2011,
n.18853; Cass. sez. I, 10.4.2012 n. 5652; Cass. Sez. 1, 22/11/2013 n. 26205; Cass. Sez. I, 22/07/2014, n. 16657;
Cass. sez. VI, 16/02/2015, n.3079; Cass. civ. sez. III, 27/05/2019, n.14382).
In particolare, il disinteresse del genitore nei confronti del figlio costituisce, in primo luogo, una grave
violazione degli obblighi genitoriali, così come sanciti dalle norme codicistiche, tra le quali quelle contenute
nell’art. 315 bis c.c.: “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai
genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni…ha diritto di
crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”; nell’art. 316 bis c.c. secondo il quale
“i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e
secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”, norme entrambe richiamate dagli artt. 147 e
148 c.c.
La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale ed assume, di conseguenza, pari decorrenza dalla
nascita del figlio (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7960 del 28/03/2017).
Il “diritto ad essere educato e mantenuto” deve essere inteso nel più ampio significato, desumibile dalla
lettura coordinata degli artt. 2 e 30 Cost., di condividere fin dalla nascita con il proprio genitore la relazione
filiale, sia nella sfera intima ed affettiva, di primario rilievo nella costituzione e sviluppo dell’equilibrio
psicofisico di ogni persona, sia nella sfera sociale, mediante la condivisione ed il riconoscimento esterno dello
status conseguente alla procreazione;
tali profili integrano il nucleo costitutivo originario dell’identità personale e relazionale dell’individuo e la
comunità familiare costituisce la prima formazione sociale che un minore riconosce come proprio riferimento
affettivo e protettivo.
Le suindicate garanzie, desumibili dalla fonte costituzionale, appaiono oltremodo rafforzate, oltre che dalla
Convenzione di New York del 20.11.89, sui diritti del fanciullo, ratificata con L. n. 176 del 1991, dalla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), che, all’art. 24, comma 3, afferma il diritto
per il bambino alla protezione e alle cure necessarie al suo benessere, nonché quello d’intrattenere relazioni
e contatti diretti con i propri genitori; altresì, dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come
interpretata dalle decisioni emesse in materia dalla Corte di Strasburgo, che – prevedendo agli artt. 8 e 14 il
diritto inviolabile al rispetto della vita privata e familiare (ascrivendo alla nozione di «vita familiare» anche la
relazione tra il figlio e ciascun genitore naturale, anche in assenza di convivenza tra i genitori, Keegan c.
Irlanda, ric. n. 16969/90, 26 maggio 1994) e il divieto di discriminazioni anche nel caso di figlio nato fuori del
matrimonio (Mitzinger c. Germania, ric. n. 29762/10, 9 febbraio 2017) – consente di individuare il diritto del
figlio di essere amato e assistito dai genitori, senza discriminazioni, individuando come espressione del diritto
fondamentale alla vita familiare la possibilità per genitori e figli di godere della reciproca presenza, con
continuità e assiduità di relazione.
In conclusione, il disinteresse del genitore, oltre a costituire una grave violazione degli obblighi genitoriali
come sopra descritti, incidendo su beni fondamentali, integra anche un illecito civile e consente un’autonoma
azione risarcitoria ai sensi dell’art. 2059 c.c., come reinterpretato alla luce dei principi enucleatati dalle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella nota decisione n. 26972 del 2008.
Nella fattispecie in esame, è pacifico che, pur essendo consapevole della gravidanza di Caia, il Sempronio se
ne sia disinteressato e la figlia Tizia, cresciuta con la completa assenza della figura paterna, sia stata
riconosciuta, a seguito dell’esame del DNA, solo all’età di diciotto anni, momento che visse con particolare
sofferenza (si veda, sul punto, la deposizione contenuta nel verbale d’udienza del 21.9.2017: “mi sentivo
indifesa, non protetta”).
Non è contestato, ed è comunque provato a seguito delle deposizioni testimoniali, che il Sempronio non
abbia mai incontrato la figlia, prima dell’udienza del 21.9.2017, neanche quando la bambina subì un grave
sinistro stradale il 23 giugno 1999 (teste Ma. An.) e nonostante il lungo ricovero in ospedale e l’intervento
chirurgico subito, limitandosi a consigliare alla madre la struttura sanitaria cui rivolgersi.
La partecipazione del padre agli obblighi genitoriali, quindi, si sarebbe limitata al versamento di somme di
denaro per il mantenimento, mediante spedizioni postali, contanti o con bonifici bancari; sul punto, rinviando
al successivo paragrafo l’esame dei risultati di prova, con riguardo alla sofferenza lamentata da Tizia, si deve
rilevare come sia pacifico che, anche nell’adempiere a tale obbligo materiale, il Sempronio abbia utilizzato
una modalità percepita dalla figlia come particolarmente avvilente, mediante l’effettuazione di bonifici con
la causale “trasferimento fondi”; né la sofferenza può ritenersi si sia attenuata a seguito dell’incontro con il
padre, conosciuto per la prima volta nella sua vita in un’aula giudiziaria (“Questo incontro è l’ennesima
conferma di quanto ho detto su di lui”).
E’ stato, infine, prodotto un certificato della dottoressa I.V., psichiatra psicoterapeuta, redatto in data
29.10.1994, (doc. 2 di parte attrice) che ha attestato come Tizia “sia affetta da problematiche psicologiche
inerenti la difficoltà ad accettare l’assenza della figura paterna. La sintomatologia presente nella giovane è
caratterizzata da senso di inadeguatezza, difficoltà nelle relazioni interpersonali, tono dell’umore disforicodepresso
e stato ansioso costante somatizzato ed in forma di fobie con condotte di evitamento. Il quadro
clinico ha ripercussioni sulle capacità di socializzazione in particolare con le figure di sesso maschile”.
Lo stato di sofferenza non si ritiene possa essere escluso, come allegato da controparte, dalla frequenza
dell’Università di X o dalla condivisione di un appartamento in locazione, considerato che, analogamente a
quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità per la perdita del rapporto parentale, la deprivazione
della figura paterna comporta un danno non patrimoniale presunto poiché lede differenti profili, connessi
all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e alla scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare
nucleare.
Anche le dichiarazioni rese dalla stessa Tizia durante l’udienza di comparizione confermano le sue difficoltà
esistenziali e gli ostacoli affrontati nello sviluppo della sua personalità (“la mia è stata una vita in salita”); il
fatto stesso di esercitare l’azione nei confronti del genitore, accettando di subire l’ulteriore carico di stress e
angoscia che il processo in sé comporta, può ritenersi una prova della persistenza di un pregiudizio irrisolto
nella costruzione della propria identità.
Può, quindi, considerarsi provato, mediante un meccanismo presuntivo, come la condotta gravemente
omissiva del convenuto abbia determinato, fin dalla nascita della figlia e senza soluzione di continuità, un
grave stato di sofferenza psicologica (“i suoi silenzi durante questi ventitrè anni mi hanno causato una grande
sofferenza”) derivante dalla privazione ingiustificata della figura paterna, sia sotto il profilo della relazione
affettiva, oltre che sotto il profilo della negazione dello status sociale conseguente; conseguentemente, si è
così determinata una lesione di carattere irreversibile, con riferimento ad entrambe le sfere sopradescritte,
del sopra descritto diritto di natura costituzionale.
La consapevolezza di non essere mai stata accolta come figlia (“non conosco questa persona”, ha tenuto a
precisare Tizia in sede di comparizione) non si ritiene possa avere natura transeunte, dovendosi presumere
che la mancanza del padre abbia inciso nello sviluppo psicofisico, causando un vuoto emotivo, relazionale e
sociale soprattutto nella fase più delicata dell’adolescenza, nella quale si forma la personalità dell’individuo.
Con riguardo all’eccezione di prescrizione, per giurisprudenza pacifica (in ultimo, cfr. Cassazione civile sez. III,
12/12/2019, n.32485) gli elementi costitutivi dell’eccezione sono l’inerzia del titolare del diritto fatto valere
in giudizio e la manifestazione della volontà di profittare dell’effetto ad essa ricollegato dall’ordinamento;
inoltre, essendo un’eccezione di merito non rilevabile d’ufficio, deve essere sollevata nella comparsa di
costituzione da depositare almeno venti giorni prima dell’udienza di prima comparizione.
Nel presente giudizio, il convenuto non solo ha sollevato l’eccezione di prescrizione esclusivamente in
relazione al danno patrimoniale richiesto da Caia (vedi memoria ex art. 183 n. 1. c.p.c.), manifestando, quindi,
la volontà di profittare dell’effetto della prescrizione solo con riguardo a quella pretesa; ma, soprattutto, è
incorso nella decadenza di cui all’art.167 c.p.c., non avendo formulato l’eccezione in sede di comparsa di
costituzione e risposta.
La mancata formulazione dell’eccezione di prescrizione (e, in ogni caso, la sua tardività) rende superfluo
l’esame dei suoi effetti nella fattispecie in esame, nella quale è configurabile un fatto illecito permanente, in
cui il comportamento, oltre a produrre l’evento dannoso, lo continua ad alimentare per tutto il tempo in cui
questo perdura, avendosi così coesistenza dell’uno e dell’altro (Cass.civ., sez. III, 20 dicembre 2000, n. 16009);
in questa ipotesi, caratterizzate dal perdurare nel tempo del comportamento lesivo e dal suo non esaurirsi in
unu actu perficitur (che cioè si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando peraltro permanere i suoi
effetti nel tempo, come nell’illecito istantaneo con effetti permanenti) la prescrizione ricomincia a decorrere
ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della
predetta condotta dannosa, sicché il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si
produce, ed in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica:
pertanto, il danno avrebbe potuto essere risarcito solo per il periodo successivo ai cinque anni anteriori alla
data alla quale il diritto al risarcimento era stato fatto valere. (Cass.civ., sez. III, 24 agosto 2007, n.17985;
Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2004, n. 6512).
Se, dunque, deve riconoscersi la sussistenza di una condotta illecita, lesiva, all’evidenza, di diritti
fondamentali della persona, occorre ora esaminare i criteri di quantificazione del risarcimento che si possono
enucleare dall’esperienza delle Corti di merito e di legittimità.
Si è affermato, in primo luogo, come la voce di pregiudizio in esame sfugga a precise quantificazioni in moneta
e, pertanto, si imponga la liquidazione in via equitativa ex art. 1226 cod. civ. (Cass. civ. Sez. I, 22/07/2014, n.
16657); in questa ipotesi, affinché la decisione non presenti i connotati della arbitrarietà, occorre indicare i
criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, risultando il potere discrezionale del giudice sottratto
a qualsiasi sindacato in sede di legittimità solo allorché si dia conto che sono stati considerati i dati di fatto
acquisiti al processo come fattori costitutivi dell’ammontare dei danni liquidati (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8213
del 04/04/2013; Cass. sez. 3, n. 16222 del 31/07/2015).
Ciò premesso, in ordine alla quantificazione in concreto del danno endofamiliare da privazione del rapporto
genitoriale, la giurisprudenza di legittimità ha affermato l’applicabilità, come riferimento liquidatorio, della
voce prevista dalle tabelle giurisprudenziali adottate dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano per la
perdita del genitore (Cass. civ. Sez. I, 22/07/2014, n. 16657; Cass. civ. sez. VI, 16/02/2015, n.3079); precisando
che, sebbene il cd. danno da lesione del rapporto parentale nelle ipotesi in cui una persona sia vittima (o
subisca gravi lesioni a causa) della condotta illecita di un terzo sia differente dal caso del genitore che si
disinteressi del figlio, tuttavia, le suindicate tabelle rimangano utilizzabili come parametro di valutazione, con
gli opportuni adattamenti.
In senso conforme, anche questo Tribunale ha utilizzato come riferimento il parametro equitativo del danno
da perdita parentale, specificando come non possa, tuttavia, essere assunto in modo integrale, “stante la
diversità della lesione, che in un caso è definitiva mentre nell’altro sempre eliminabile o suscettibile di
attenuazione” (Tribunale Cagliari, sent. 25/01/2017 nella causa civile iscritta al n. r.g. 7438/2010; conforme,
Tribunale di Roma, sent. 19/05/2017; Tribunale Catania sent. 12/04/2019; Tribunale Genova sent.
14/05/2018, n.1335; Tribunale Torino sent. 05/06/2014).
In ordine alla concreta quantificazione dell’importo, questo Tribunale, nel precedente citato, considerato “il
travaglio emotivo per l’assenza della figura paterna” che “si sviluppa soprattutto nel periodo infantile ed
adolescenziale” ha riconosciuto una somma pari a 1/3 di quella minima prevista dalle tabelle di Milano per il
decesso di un genitore, e pertanto la somma di Euro 54.660; il Tribunale di Roma ha determinato in Euro
70.826,25 l’ammontare complessivo per i danni non patrimoniali, “considerando nella quantificazione la
condotta del padre che pur a conoscenza dal 1988/1989 della morte dell’altro genitore non si è attivato per
adempiere ai propri doveri”; il Tribunale di Catania ha ridotto del 70% la somma liquidabile per la perdita del
rapporto parentale secondo le tabelle di Milano, riconoscendo un importo di Euro 72.750,00; il Tribunale di
Genova per una privazione della figura paterna della durata di 68 mesi, un importo pari complessivamente a
Euro 20.400,00; nella fattispecie esaminata dalla citata sentenza della Corte di Cassazione (sent. 16/02/2015,
n.3079), il danno non patrimoniale era stato liquidato in Euro 50.000,00.
Le tabelle giurisprudenziali adottate dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano, aggiornate al 2018,
prevedono, per la perdita del genitore, un importo compreso tra Euro 165.960 ed Euro 331.920.
Come accennato, tali valori sono stati ridotti, nei casi esaminati dalla giurisprudenza, in considerazione sia
del minore pregiudizio causato dall’abbandono da parte del padre rispetto alla perdita del padre stesso
cagionata dall’altrui illecito; sia dell’astratta “emendabilità” della situazione e, cioè, del possibile recupero
del rapporto, che contribuirebbe a ridurre ulteriormente il danno subito.
Occorre, tuttavia, osservare come tali valutazioni non possano formare oggetto di rigidi automatismi, bensì
di una valutazione in concreto, considerata la particolarità del conflitto che si è chiamati a risolvere.
Con ciò si vuole intendere che la lesione del rapporto parentale, e gli effetti che l’assenza paterna ha avuto
sullo sviluppo della personalità, sull’identità, sulla collocazione sociale della figlia, non necessariamente
possono considerarsi inferiori alla morte di un genitore: fermo restando il dolore provocato dalla perdita di
un affetto, può dubitarsi che il lutto per la perdita di un padre che abbia accompagnato il proprio figlio dalla
nascita alla maturità sia senz’altro superiore rispetto a quella di chi si sia sempre sentito abbandonato,
rifiutato e abbia provato l’indifferenza del proprio padre soprattutto negli anni in cui matura la propria
personalità.
Mentre la perdita di un padre amorevole ne avrebbe lasciato intatto il ricordo, che avrebbe avuto una positiva
influenza nella personalità della figlia, nella fattispecie in esame si evince chiaramente la sofferenza
dell’essere stati ignorati, senza margini di consolazione (“non conosco questa persona…in qualità di padre è
stato veramente poco…non c’è un livello di umanità”). Appare, pertanto, più opportuno ritenere che il
discostamento dalle tabelle di Milano sia giustificato, piuttosto, dalla loro estrazione da una casistica in
materia di infortunistica stradale e responsabilità medica che presuppone sistemi di gestione del rischio e, di
regola anche obbligatoriamente, meccanismi assicurativi, e, soprattutto, posizioni soggettive che non si
prestano ad una equiparazione con la particolare natura dei rapporti familiari.
Con riguardo alla “emendabilità della situazione”, nella fattispecie in esame è pacifico come la mediazione
familiare, peraltro raccomandata dal Giudice, non abbia dato un esito positivo e la figlia, già in sede di
comparizione, avesse manifestato le proprie perplessità (“si può sbagliare una, due, tre volte, ma non per
ventitrè anni”…”questo incontro è l’ennesima conferma di quanto ho detto su di lui”) e il proprio timore per
ulteriori delusioni; né appare provato che tale convincimento sia maturato da una condotta ostruzionistica
della madre, se si considera che la stessa Tiziaha tenuto a precisare, sempre in sede di comparizione, che la
madre è sempre stata “impeccabile; lei non ha mai parlato male di quest’uomo, non l’ha mai descritto come
un mostro, ha sempre detto che era un debole, ma non l’ha mai disprezzato”.
Nel caso concreto, pertanto, più che applicare meccanicamente una riduzione del quantum in considerazione
di un’astratta emendabilità della situazione, appare opportuno, sotto altro profilo, riflettere su come già la
sentenza possa aiutare a colmare il dolore e il vuoto affettivo sofferto e rappresentare, in una vicenda in cui
diritto e sentimenti si intersecano, una sorta di “risarcimento in forma specifica”.
Considerati i dati di fatto acquisiti al processo e i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, così
come sopra precisati, e adottato come dato di riferimento il valore tabellare, il risarcimento dovuto da
Sempronio per il danno non patrimoniale subito da Tiziaper la privazione della figura paterna deve essere,
pertanto, limitata ad Euro 75.000,00, comprensivo del danno da ritardato inadempimento.
3) Il danno patrimoniale lamentato da Caia.
Caia ha domandato il risarcimento del danno patrimoniale subito, quantificato in Euro 220.000,00, per essersi
fatta carico in modo esclusivo dalla nascita del mantenimento della figlia.
A fondamento della domanda, occorre richiamare le norme codicistiche sopra elencate (artt. 315 bis, 316 bis,
337 ter c.c.) che sanciscono l’obbligo dei genitori in misura proporzionale al proprio reddito e secondo la loro
capacità di lavoro professionale o casalingo e la pacifica giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il
genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento del figlio anche per la parte del
genitore che lo abbia successivamente riconosciuto, ha diritto di regresso per la corrispondente quota (Cass.
Sez. 1, n. 7960 del 28/03/2017; Cass. sez. 1, Sentenza n. 5652 del 10/04/2012;Cass.sez. 1, Sentenza n. 27653
del 20/12/2011).
Deve essere, peraltro, rigettata l’eccezione di prescrizione sollevata dal Sempronio, in quanto – a prescindere
dalla sua tardività, come già accennato – in ogni caso, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute
dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal
momento dell’accertamento della filiazione naturale (nel caso in esame avvenuto con il riconoscimento, a
seguito dell’indagine di laboratorio sul DNA in data 22.6.2012), che conseguentemente costituisce il “dies a
quo” della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale (Cass. sez. 1, Sentenza n. 15756 del 11/07/2006;
Cass.sez. 1, Sentenza n. 7986 del 04/04/2014).
Ciò premesso, secondo la giurisprudenza di legittimità, il quantum dovuto in restituzione nel periodo di
mantenimento esclusivo non può essere determinato sulla base dell’importo stabilito per il futuro nella
pronuncia relativa al riconoscimento del figlio naturale, via via devalutato, in quanto l’ammontare dovuto
trova limite negli esborsi presumibilmente sostenuti in concreto dal genitore che ha per intero sostenuto la
spesa senza però prescindere né dalla considerazione del complesso delle specifiche e molteplici esigenze
effettivamente soddisfatte o notoriamente da soddisfare nel periodo in considerazione né dalla
valorizzazione delle sostanze e dei redditi di ciascun genitore quali all’epoca goduti ed evidenziati,
eventualmente in via presuntiva, dalle risultanze processuali, né infine dalla correlazione con il tenore di vita
di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello dei suoi genitori (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 22506 del
04/11/2010); la stessa Corte di Cassazione, sebbene abbia ritenuto legittimo il ricorso all’equità, tuttavia,
trattandosi di spese già sostenute, ha affermato la necessità che queste siano, almeno attraverso
l’applicazione di un metodo presuntivo, adeguatamente provate nel loro an e nel quantum da chi alleghi di
averle sostenute anche in luogo dell’altro obbligato, secondo le regole generali dell’azione di regresso.
Ciò premesso in diritto, occorre richiamare la condizione reddituale di Sempronio ed, in particolare, i redditi
documentati dal periodo di imposta 1998 con tendenza crescente ed, in particolare:
1998 – reddito medio netto mensile di Euro 3.613,00
1999 – reddito medio netto mensile di Euro 3.715,00
2000 – reddito medio netto mensile di Euro 4.100,00
2001 – reddito medio netto mensile di Euro 3.941,00
2002 – reddito medio netto mensile di Euro 4.129,00
2003 – reddito medio netto mensile di Euro 4.394,00
2004 – reddito medio netto mensile di Euro 4.68500
2005 – reddito medio netto mensile di Euro 4.552,00
2006 – reddito medio netto mensile di Euro 5.107,00
2007 – reddito medio netto mensile di Euro 5.309,00
2008 – reddito medio netto mensile di Euro 5.462,00
2009 – reddito medio netto mensile di Euro 5.145,00
2010 – reddito medio netto mensile di Euro 5.815,00
2011 – reddito medio netto mensile di Euro 5.845,00
2012 – reddito medio netto mensile di Euro 6.719,00
2013 – reddito medio netto mensile di Euro 7.928,00
2014 – reddito medio netto mensile di Euro 6.769,00
Devono essere, inoltre, rilevate le assai modeste capacità reddituali di Caia; i bonifici effettuati durante il
giudizio dal 2017 al 2018 (per circa 8.000 Euro); infine, le somme che appare provato siano state versate dal
Sempronio attraverso la propria infermiera (dapprima pari a lire 700.000 e successivamente ad Euro 500,00),
come si desume dalla deposizione testimoniale della teste Me. e dalla lettera datata 4 Dicembre 2003 inviata
da Caia al Sempronio(documento 21/c di parte convenuta: “….la Signoria Vostra è pregata di inviare con la
massima urgenza le competenze dovute del mese di Agosto (l’estratto conto che il Banco di Sardegna invia
ogni mese, attesta che Lei non ha versato la suddetta mensilità). Inoltre le ricordo di applicare la corretta
conversione in Euro di tale cifra (Euro 361,52). Considerato che l’aumento del costo della vita dovuta
all’introduzione dell’Euro sul mercato, l’importo sinora versato risulta inadeguato, si richiede per la piccola
Tizia la cifra mensile di Euro 500.” Considerati tali risultati di prova, si deve richiamare la giurisprudenza sopra
citata – che ha affermato la necessità che il genitore che agisce in regresso debba adeguatamente provare le
spese sostenute nel loro an e nel quantum – e rilevare che, nella fattispecie in esame, Caia si è limitata a
produrre spese straordinarie recentemente sostenute per la figlia, nella misura di 1.076,78.
L’attrice non ha, cioè, provato, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità, ulteriori spese
effettivamente sostenute per la figlia, né ha allegato criteri in grado di sostenere, anche attraverso il ricorso
alle presunzioni semplici, le maggiori spese sostenute rispetto agli importi già corrisposti dal padre per il
mantenimento della figlia, quanto meno nella misura richiesta nel presente giudizio, se si considera,
soprattutto, che Caia non ha provato di avere mai svolto attività lavorativa e, quindi, di avere mai percepito
redditi propri con i quali provvedere al mantenimento della figlia.
Tutto ciò premesso, considerando per un verso le esigenze notoriamente da soddisfare nel periodo
dell’infanzia e dell’adolescenza (tuttavia inferiori rispetto a quelle attuali) e, per altro verso, le somme mensili
versate dal Sempronio(aumentate dopo qualche anno ad Euro 500,00) e il reddito da lui percepito (inferiore
rispetto al reddito attuale), la domanda di regresso formulata da Caia deve essere accolta nella misura assai
più ridotta di Euro 35.000,00, liquidata in via equitativa e già comprensiva delle spese documentate e del
danno da ritardato adempimento.
4) Il danno non patrimoniale lamentato da Caia ha domandato, infine, la condanna al risarcimento del danno
non patrimoniale, nella misura di Euro 80.000,00, rappresentato dall’avere dovuto sempre provveduto in via
esclusiva alla cura della figlia, così rinunciando a perseguire qualunque altro obbiettivo lavorativo e personale
e causando un profondo stato di frustrazione e depressione.
Premesso quanto sopra argomentato con riguardo all’eccezione di prescrizione, in ordine alla fondatezza
della domanda deve ritenersi condivisibile il principio affermato dalla giurisprudenza di merito (in un solo
precedente, Tribunale Roma, Sez. I, 29.02.2016, n. 4169), che ha riconosciuto la sussistenza di un danno
endofamiliare subito dal genitore che abbia provveduto in via esclusiva alle esigenze della figlia, senza poter
condividere con l’altro il ruolo genitoriale, la crescita e l’accudimento della figlia.
Infatti, l’art. 30 della Costituzione (“E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”),
riferendosi ad entrambi i genitori come soggetti obbligati, configura un obbligo reciproco la cui violazione
cagiona non solo al figlio, ma anche al genitore che da solo abbia accudito la prole, un danno non
patrimoniale; in tale condotta, pertanto, può ravvisarsi la violazione di un diritto costituzionalmente garantito
e, come tale, risarcibile secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ..
Deve, quindi, ritenersi che anche il diritto del quale Caia assume la lesione assurga al rango di diritto
fondamentale della persona.
Esula dalle finalità della presente decisione una completa trattazione della profonda evoluzione, in dottrina
e nella giurisprudenza, della relazione tra genitori e figli, che ha conosciuto un graduale allontanamento dalla
nozione di potestà che poneva l’accento sui poteri attribuiti ai genitori, per spostarsi sulla centralità
dell’interesse del minore; evoluzione, anche dettata dall’adeguamento dell’ordinamento interno alle fonti
sovranazionali, che ha condotto, infine, alla riforma della filiazione attuata con la l. n. 219/2012 e con il d.lgs.
n. 154/2013, che ha introdotto, all’art. 316 c.c., la nozione di responsabilità genitoriale, come posizione
soggettiva connessa esclusivamente alla procreazione.
E’ sufficiente osservare come il fondamento della responsabilità genitoriale sia da individuare nell’obbligo
dei genitori di assicurare ai figli un completo percorso educativo, garantendo loro il benessere, la cura,
un’equilibrata crescita spirituale e materiale secondo le possibilità socio- economiche dei genitori stessi.
Sono, pertanto, condivisibili le riflessioni svolte in dottrina in ordine all’intreccio di poteri e doveri che
caratterizza il compito dei genitori e la complessità della loro posizione giuridica soggettiva, tale da indurre a
definire il concetto di responsabilità genitoriale in termini di relazione.
Tale relazione si svolge certamente, ed in primo luogo, tra i genitori e figli, tanto che i doveri dei genitori, che
devono rispettare le inclinazioni naturali, le capacità e le aspirazioni dei figli, si definiscono nel tempo in
parallelo alla maturazione di questi ultimi e, quindi, in un ambito di relazione.
Tuttavia, appare corretto osservare come la responsabilità genitoriale, quale complessa situazione giuridica
soggettiva, si articoli anche su un ulteriore piano, quello attinente alla relazione tra genitori: infatti, si deve
ritenere che l’art. 30 della Costituzione, riferendosi ad entrambi i genitori come soggetti obbligati a
mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio, faccia sorgere un obbligo reciproco,
che, in quanto connesso alla procreazione, è naturalmente, strutturalmente condiviso.
Nel dettato costituzionale, cioè, è ravvisabile la previsione di un sistema, in cui i due genitori debbono
cooperare nella cura e nell’educazione del figlio, nell’interesse di quest’ultimo, ma anche di ciascuno di essi,
poiché l’adempimento del compito intanto è possibile ed è svolto adeguatamente, fisiologicamente, se
sussiste la collaborazione dell’altro.
Un ulteriore argomento di riflessione può trarsi dall’art. 709 ter c.p.c., introdotto dalla citata legge n.
54/2006, secondo il quale, nell’ambito delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della
responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento, in caso di gravi inadempienze o di atti che
comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità
dell’affidamento, il Giudice può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre
il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei
danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al
pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 Euro a un massimo di 5.000 Euro
a favore della Cassa delle ammende.
E’ vero che tali misure sono state qualificate come misure di coercizione indiretta, sul modello delle astreintes
del sistema francese, tese a favorire, nell’interesse del minore, l’adempimento di obbligazioni familiari di
carattere non patrimoniale e sul presupposto di un precedente provvedimento diretto a disciplinare le
modalità di affidamento, così da escludere l’applicabilità degli artt. 2043 e 2059 c.c. (nella giurisprudenza di
merito, cfr. Trib. Messina, 8 ottobre 2012; Trib. Novara, 21 luglio 2011); è, altresì, vero che anche la fattispecie
della condanna del genitore inadempiente al risarcimento del danno a favore dell’altro, prevista al n. 3)
dell’art. 709- ter c.p.c, appare tutelare il diritto di ciascun genitore a godere del rapporto con il figlio, piuttosto
che il diritto alla collaborazione nel senso sopra accennato; tuttavia, la norma, qualora le si volesse attribuire
(anche) una funzione reintegrativa, offre argomenti per ritenere che il legislatore, nel complesso e delicato
rapporto di filiazione, abbia inteso attribuire una rilevanza giuridica anche alla relazione tra i genitori.
Sotto altro profilo, si può, altresì, ritenere che il rifiuto di collaborazione abbia leso la dignità della madre per
le modalità con le quali è stato attuato, che nella vicenda in esame sono state particolarmente svilenti.
Sul punto, si può osservare come, in tema di illecito endofamiliare, nella giurisprudenza di legittimità, oltre
alla oramai pacifica risarcibilità del danno da privazione della figura genitoriale subito dal figlio, come sopra
descritta, sia stata affermata la risarcibilità del danno cagionato dalla violazione dell’obbligo di fedeltà,
qualora la condotta si concretizzi nella compromissione di un interesse costituzionalmente protetto;
evenienza che può verificarsi, naturalmente, non in ogni caso di violazione di tale obbligo, ma solo in casi e
contesti del tutto particolari, ove si dimostri che l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità
della fattispecie, abbia dato luogo (a lesione della salute del coniuge ovvero) ad una lesione della dignità della
persona, bene costituzionalmente protetto (Cass. civ. sez. I, 15/09/2011, n.18853).
Analogamente, nella vicenda in esame, con riguardo alla lesione della dignità della madre, si è fatto cenno
alla causale dei bonifici inviati a Caia (“trasferimento fondi”) ovvero alla consegna di denaro attraverso
intermediari, come l’infermiera dell’Ospedale nel quale lavorava il Sempronio; dalla deposizione testimoniale
della sorella X si può evincere, altresì, l’umiliazione subita dall’attrice quando portò il Sempronio a
conoscenza della gravidanza, ottenendo il rifiuto del riconoscimento; ovvero, come si è già accennato,
quando si rivolse al Sempronio a seguito del grave sinistro stradale subito dalla figlia.
Si tratta di fatti costitutivi che sono stati espressamente dedotti dalla parte attrice, la quale, a prescindere
dalla qualificazione giuridica attribuita, ha inequivocabilmente lamentato la violazione anche della sua
dignità.
Tutto ciò premesso, non si vogliono sottacere le perplessità che nascono da una sempre più ampia estensione
della responsabilità civile, alcune volte anche a favore di posizioni giuridiche soggettive che potrebbero
essere qualificate, al più, come aspettative.
Tuttavia, nella fattispecie in esame, tale ampliamento appare giustificato dalla configurabilità di una
posizione giuridica complessa, caratterizzata, oltre che da obblighi nei confronti del figlio, anche da diritti nei
confronti dell’altro genitore, la cui condotta non può ritenersi svincolata da un obbligo di solidarietà e di
rispetto della dignità personale.
In conclusione, si deve ritenere che, nello svolgersi del percorso evolutivo in materia di filiazione appena
accennato, il principio della bigenitorialità, introdotto con la legge n. 54/2006 e diretto ad assicurare un pari
ruolo ai genitori (a prescindere dalla sussistenza o meno di un vincolo matrimoniale ovvero dalla eventuale
coabitazione con il figlio), possa consentire di configurare un diritto fondamentale anche del genitore alla
partecipazione attiva, da parte dell’altro genitore, nel progetto educativo, di crescita e di assistenza della
prole.
Così configurato il diritto fondamentale in capo al genitore, si può presumere che l’assenza del padre, negli
anni in cui la condivisione della cura genitoriale è più che mai indispensabile, abbia ingenerato un
peggioramento della qualità della vita e un profondo turbamento non solo nella figlia Tizia, bensì anche in
Caia, la quale ha provato di non avere ricevuto la collaborazione e la solidarietà del padre, con modalità
particolarmente svilenti per la sua dignità, anche in momenti delicati della vita della bambina.
Accertata la sussistenza del danno connesso alla lesione di valori fondamentali della persona, occorre fare
ricorso al parametro della liquidazione equitativa di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c..
A ta1e fine possono essere richiamate, esclusivamente come parametro di riferimento i criteri di liquidazione
del danno connessi al decesso del coniuge o del convivente, sebbene, oltre ai rilievi critici sollevati nel
precedente paragrafo, si deve considerare che la perdita del coniuge o del convivente implichi la perdita
anche di altre forme di collaborazione, quali la coabitazione, il rispetto reciproco, la fede1tà, la reciproca
assistenza morale e materiale; pertanto, considerata la mancanza del solo sostegno derivante della
condivisione della genitorialità, seppure con le modalità sopra descritte, l’ammontare del risarcimento per i
danni non patrimoniali subiti dalla madre per la mancata partecipazione del padre alla crescita della figlia
può essere determinata in Euro 30.000,00.
Le spese processuali seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo (scaglione sino ad Euro
260.000,00; tariffa media).
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone:
1) condanna Sempronio al pagamento a favore di Tizia della somma di Euro 1.000,00 a titolo di
mantenimento, con decorrenza dal mese di aprile 2017; oltre al 50% delle spese di istruzione e delle
ulteriori spese straordinarie di carattere necessario sostenute nel suo interesse; tale assegno dovrà essere
corrisposto nel domicilio indicato dalla figlia entro il giorno cinque di ogni mese, e dovrà essere adeguato
annualmente in misura pari agli indici Istat di variazione del costo della vita;
2) condanna Sempronio al pagamento a favore di Tizia della somma di Euro 75.000,00, a titolo di
risarcimento dei danni non patrimoniali per la privazione della figura paterna;
3) condanna Sempronio al pagamento a favore di Caia della somma di Euro 35.000,00, liquidata
equitativamente a titolo di regresso per avere provveduto al mantenimento della figlia Tizia;
4) condanna Sempronio al pagamento a favore di Caia della somma di Euro 30.000,00, liquidata
equitativamente a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale subito per la mancata condivisione
delle cure genitoriali per la figlia Tizia;
5) condanna Sempronio al pagamento a favore delle attrici delle spese processuali, che liquida in Euro
13.430,00, oltre spese esenti, spese generali, IVA e CPA

La pignorabilita’ delle polizze vita linked

di Massimo Eroli, Professore aggregato nell’Università di Perugia

Ai sensi dell’art. 2, comma 1, n. III del d.lgs n. 209 del 7 settembre 2005 (codice delle assicurazioni private) rientrano nei rami assicurativi vita le assicurazioni sulla durata della vita umana le cui prestazioni principali sono direttamente collegate al valore di organismi di investimento collettivo del risparmio o di fondi interni ovvero ad indici o ad altri valori di riferimento, comunemente denominate unit o index linked.

Tali contratti assicurativi, oltre la compagnia di assicurazioni, prevedono l’indicazione di tre soggetti: il contraente, cioè colui che ha stipulato il contratto ed è la controparte contrattuale della compagnia assicurativa, l’assicurato, cioè colui sulla cui vita è stipulata l’assicurazione ed il beneficiario, cioè colui che riceverà iure proprio le prestazioni pattuite nel caso di morte dell’assicurato. Contraente ed assicurato possono coincidere, così come contraente e beneficiario nel caso l’assicurato sia un terzo.

Mentre l’assicurato come tale non vanta diritti nei confronti della compagnia assicurativa essendo solo necessario, per ovvi motivi, che presti a pena di invalidità il suo consenso per iscritto alla conclusione del contratto (art. 1919 secondo comma c.c.), il beneficiario, che non partecipa in alcun modo alla vicenda perfezionativa del contratto la cui esistenza può anche non conoscere, dovrà attendere la morte dell’assicurato perché il suo diritto verso l’assicurazione diventi attuale.

Se è vero che ai sensi dell’art. 1920 c.c., secondo lo schema generale del contratto a favore di terzo, il beneficiario acquista per effetto della designazione del contraente un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione, il contraente lo può revocare in qualsiasi momento, a meno che non abbia rinunciato per iscritto al potere di revoca ed il beneficiario abbia dichiarato al contraente, con comunicazione anche all’assicurazione, di voler profittare del beneficio (art. 1921 c.c.).

Inoltre il contraente, che appunto è l’unica parte contrattuale oltre la compagnia assicurativa e paga il premio, unico o periodico, ha di norma in forza di specifiche clausole del contratto dei diritti che possono anche far terminare anzitempo l’efficacia del contratto prima della morte dell’assicurato incidendo sul diritto del beneficiario (che quindi è più una aspettativa) fino ad estinguerlo, quali il diritto di riscatto parziale o totale, cioè il diritto potestativo di chiedere la liquidazione della polizza eventualmente con penalizzazioni varie, la possibilità di attivazione di un piano di decumulo finanziario, cioè l’erogazione di una prestazione ricorrente di importo predefinito attraverso la liquidazione del sottostante, la possibilità di convertire in rendita vitalizia il capitale assicurato.

E’ evidente che questo schema contrattuale si presta a molteplici scopi[1]: sia a far pervenire post mortem parte del proprio capitale ad un terzo fuori dalle pastoie e dalle regole del diritto successorio e relativa imposizione fiscale (il beneficiario anche se erede acquista iure proprio il diritto nei confronti dell’assicurazione) anche se rispetto ai premi pagati sono salve le disposizioni relative alla collazione, all’imputazione ed alla riduzione delle donazioni, sia a schermarlo verso possibili creditori considerato che l’art. 1923 c.c. prevede che le somme dovute dall’assicuratore al contraente o al beneficiario non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare[2], salve le disposizioni relative alla revocazione rispetto ai premi pagati[3].

La ratio di un tale privilegio sta nella finalità lato sensu previdenziale di questi contratti che, con tali limiti, viene ritenuta dal legislatore più meritevole di tutela rispetto agli interessi dei creditori[4].

Tanto che introducendosi con il d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 le forme pensionistiche complementari del sistema obbligatorio, tra cui i fondi pensione, all’art. 11, comma 10 dello stesso decreto legislativo è stato stabilito che i crediti relativi alle somme oggetto di riscatto totale o parziale e le somme oggetto di anticipazione non sono assoggettate ad alcun vincolo di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità mentre ferme restando l’intangibilità delle posizioni individuali costituite presso le forme pensionistiche complementari nelle fase di accumulo, le prestazioni pensionistiche in capitale e rendita e le anticipazioni sono sottoposte agli stessi limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità in vigore per le pensioni a carico degli istituti di previdenza obbligatoria.

Pur non applicandosi tale disciplina alle polizze vita è evidente a livello di principi generali dell’ordinamento quale ormai sia la classificazione e la ponderazione dei diversi interessi in gioco quando il debitore ponga in essere degli atti di disposizione del proprio patrimonio con questo tipo di finalità.

De iure condendo si può non essere d’accordo con questo depotenziamento della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. di cui è stata da ultimo espressione anche l’introduzione delle società di capitali unipersonali, ma l’interprete non può che fare i conti con il diritto positivo che permette tali limitazioni di responsabilità (si veda anche il fondo patrimoniale nel diritto di famiglia) in funzione di interessi ritenuti prevalenti rispetto all’esigenza di assicurare in ogni modo al creditore il soddisfacimento del suo credito.

Tornando alle polizze vita linked la circostanza che oltre alla funzione previdenziale abbiano anche una indiscutibile funzione di investimento ne ha fatto mettere in dubbio la stessa classificazione nell’ambito dei prodotti assicurativi[5], salvo poi scontrarsi ancora una volta con il dato normativo[6].

La giurisprudenza[7], infatti, per proteggere il contraente[8], assicurandogli la tutela riconosciuta dal testo unico finanza e dai regolamenti Consob agli investitori nei confronti degli intermediari ha ritenuto[9] che qualora mancasse la garanzia della conservazione del capitale alla scadenza (come accade assai spesso nelle polizze linked) il prodotto avrebbe dovuto essere considerato come un vero e proprio investimento finanziario con l’applicabilità delle relative norme.

Nonostante oggi la normativa specifica in tema di assicurazioni abbia introdotto notevoli doveri informativi dell’intermediario ed una adeguata protezione del contraente, il discrimen fra contratto assicurativo e contratto di investimento si è spostato dalla garanzia della conservazione del capitale alla scadenza all’effettività del trasferimento del rischio dall’assicurato all’assicuratore, rischio che deve esistere alla stipula del contratto e quindi all’effettività dell’esistenza del rischio demografico.

Riconoscendosi in questi contratti una causa mista, assicurativa e di investimento, si è ritenuto[10] che rientrino nella fattispecie tipica di cui all’art. 1882 c.c. e quindi nel contratto di assicurazione le polizze che operano la sostituzione della prestazione fissa dell’assicuratore con una variabile, agganciata a parametri di mercato, ma che mantengono comunque il rischio demografico; in tal caso, pur attuandosi un parziale trasferimento del rischio dall’assicuratore all’assicurato in ordine al valore finale della prestazione, il contratto mantiene comunque una funzione assicurativa, individuabile quale causa concreta del contratto, secondo gli ordinari criteri ermeneutici.

A tal proposito l’art. 9 del regolamento Isvap n. 32 dell’11 giugno 2009 prevede che detti contratti sono caratterizzati dalla presenza di un effettivo impegno da parte dell’impresa a liquidare prestazioni il cui valore sia dipendente dalla valutazione del rischio demografico e che le imprese nella determinazione delle coperture assicurative in caso di decesso tengono conto, ai fini del rispetto di tale principio dell’ammontare del premio versato dal contraente.

Quindi, mancando un parametro fisso, il giudice[11] deve valutare, anche ove sia prevalente la causa finanziaria, se la parte qualificata come assicurativa risponda ai principi dettati dal codice civile, dal codice delle assicurazioni e dalla normativa secondaria ad essi collegata con particolare riferimento alla ricorrenza del rischio demografico rispetto al quale il giudice di merito deve valutare l’entità della copertura assicurativa che, avuto riguardo alla natura mista della causa contrattuale, dovrà essere vagliata con specifico riferimento all’ammontare del premio versato dal contraente, all’orizzonte temporale ed alla tipologia dell’investimento.

A seguito dell’art. 4 numero 2) del regolamento UE n. 1286/2014 anche il Testo unico finanza prevede alla lettera w-bis3 del primo comma dell’art. 1 la nozione di prodotto di investimento assicurativo, definito dal regolamento europeo come “un prodotto assicurativo che presenta una scadenza o un valore di riscatto e in cui tale scadenza o valore di riscatto è esposto in tutto o in parte, in modo diretto o indiretto, alle fluttuazioni del mercato”, normando la tutela del contraente e gli ambiti di azione delle autorità di vigilanza.

Anche per effetto del diritto europeo, divenuti non più rilevanti con la nuova regolamentazione per tali polizze i problemi di tutela del contraente di fronte all’intermediario che si ponevano nella previgente disciplina, è quindi tramontato definitivamente il parametro della garanzia di conservazione del capitale a favore di quello dell’esistenza del rischio demografico, spostandosi il problema sulla misura di questo e la Corte di Giustizia[12] in occasione di pronuncia pregiudiziale sull’applicazione della direttiva 2002/92/CE sull’intermediazione assicurativa ha ritenuto che, per rientrare nella nozione di contratto di assicurazione, di cui all’articolo 2, punto 3, della direttiva 2002/92, un contratto di assicurazione sulla vita di capitalizzazione deve prevedere il pagamento di un premio da parte del contraente e, in cambio di tale pagamento, la fornitura di una prestazione da parte dell’assicuratore in caso di decesso dell’assicurato o del verificarsi di un altro evento di cui al contratto in discorso, accogliendo così una nozione assai minima di rischio demografico.

Di fronte ad una polizza linked quindi per capire se si tratta di un contratto assicurativo o finanziario si deve quindi solo valutare l’esistenza del rischio demografico[13] attraverso i parametri sopra indicati tra cui ha una primaria importanza (considerata la funzione previdenziale del contratto assicurativo vita) l’esame dell’orizzonte temporale dell’investimento.

A questo proposito una recente pronuncia di merito[14] ha ritenuto che nell’ambito dei mercati “regolati”, il potere del giudice in punto di qualificazione del rapporto non può atteggiarsi in maniera “ordinaria”, come avviene di fronte a un contratto stipulato tra soggetti operanti in settori indifferenti al controllo da parte di apparati pubblici deputati a funzioni di vigilanza. Il mercato dei prodotti assicurativi, al pari di quello dei prodotti finanziari, risulta infatti caratterizzato da un’articolata e puntuale normativa settoriale, di derivazione prevalentemente europea, nonché dalla presenza di specifiche autorità, nazionali (IVASS) e sovranazionali (EIOPA), di regolazione e vigilanza: all’interno di tale frastagliato universo, la riconducibilità di un prodotto all’interno della categoria assicurativa ovvero di quella finanziaria determina conseguenze rilevanti, in punto di individuazione della normativa applicabile e della autorità competente. Peraltro, trattandosi di mercati caratterizzati da stringenti riserve di attività, presidiate anche da norme penali, i relativi operatori sono autorizzati a svolgere soltanto alcune attività tassativamente indicate, non potendo di regola sconfinare nel perimetro di attività riservate a operatori di un mercato diversamente ritagliato. Infine va osservato che il c.d. “passaporto”, ossia la facoltà per una istituzione assicurativa o finanziaria (come del resto per gli enti creditizi) di operare e commercializzare nel mercato unico europeo i propri prodotti di investimento, facendo valere l’autorizzazione ottenuta nel Paese di origine (in base al principio del c.d. home country control e della relazione di fiducia tra autorità europee dello stesso settore), non opera indistintamente per qualunque prodotto oggetto di commercializzazione, ma trova applicazione soltanto per quelli rientranti in un determinato catalogo appartenente a precise categorie corrispondenti all’ambito oggettivo coperto dall’autorizzazione medesima. Da ciò deriva che il potere del giudice di riqualificazione di un contratto, a dispetto del nomen apparente, non può essere esercitato con modalità indifferenti al concreto dispiegarsi delle dinamiche operanti nei mercati in cui tale contratto si inscrive, dovendosi richiedere oneri di allegazione “rafforzati” in capo alla parte interessata alla diversa qualificazione del rapporto, laddove si tratti di contratti conclusi nell’ambito di mercati connotati da una forte impronta pubblicistica e da un sostrato regolamentare capillare. Infatti, l’attribuzione ab origine di tale nomen non presenta meri risvolti privatistici da ricondurre all’autonomia negoziale, ma è frutto di valutazioni tecnico-specialistiche “qualificate”, in quanto effettuate da soggetti professionali, alla luce delle norme imperative applicabili e sotto la supervisione delle rispettive autorità di vigilanza.

Di conseguenza in tale pronuncia si è giustamente ritenuto che ai sensi della disciplina sovranazionale direttamente applicabile, l’assenza di una garanzia di restituzione del capitale investito non costituisca elemento ostativo alla qualificazione del contratto come assicurativo e che altri dovrebbero essere gli elementi da valorizzare al fine di individuare una causa assicurativa ovvero previdenziale e così distinguerla da un investimento “schiettamente” finanziario: nel caso di copertura assicurativa occorre verificare se sussiste l’assunzione da parte della compagnia assicurativa di un rischio demografico, che presuppone valutazioni a carattere statistico-attuariale e conduce, sotto il profilo prudenziale, all’appostamento di riserve tecniche in bilancio.

L’assunzione di tale rischio e la funzione lato sensu previdenziale giustificano quindi l’applicabilità dell’art. 1923 c.c. che è espressione del favore legislativo per gli investimenti privati con finalità assicurativa.

In questo caso la tutela per i creditori del contraente è data in primo luogo dalla possibilità di esperire l’azione revocatoria, in primis ordinaria[15], rispetto ai premi pagati.

Poiché infatti l’evento pregiudizievole è il pagamento dei premi il contratto può essere dichiarato inefficace per i creditori nel termine di cinque anni con le modalità previste per gli atti a titolo oneroso[16], quando si provi che il debitore conosceva il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento e che la compagnia assicurativa fosse consapevole del pregiudizio o della preordinazione.

Inoltre i creditori del contraente, pur non potendo esperire l’azione esecutiva presso terzi contro l’assicuratore, potranno aggredire, una volta confuse con il patrimonio del debitore[17], le somme pagate a titolo di riscatto, di decumulo o rendita vitalizia.

Allo stesso modo i creditori del beneficiario, dopo che quanto pagato dall’assicurazione a seguito della morte dell’assicurato, sia venuto a far parte del patrimonio del primo.

Qualora valutando il contratto il giudice ritenesse che dal suo complesso non sia configurabile in alcun modo l’assunzione del rischio demografico da parte della compagnia assicuratrice e che quindi sia un contratto di investimento puro, ne conseguirebbe l’esistenza di un credito verso la compagnia assicuratrice per il controvalore, pignorabile con l’esecuzione presso terzi, e con la possibilità del giudice dell’esecuzione di ordinare la liquidazione dell’investimento per poi procedere all’assegnazione.

Verrebbero meno in tal caso non solo la previsione di impignorabilità ma anche ostacoli collegati alla non sostituibilità dell’ordine del giudice a facoltà contrattuali meramente eventuali nell’an anche in funzione di aspettative e diritti di terzi soggetti.

In un contratto di deposito ed amministrazione o in contratti di investimento di durata indeterminata se è vero che l’esigibilità del credito verso la controparte nasce solo dopo l’esercizio della relativa facoltà contrattuale di chiedere la restituzione e/o liquidazione del deposito o dell’investimento detto credito è comunque certo nell’an ma non nel quantum essendo comunque suscettibile di pronta liquidazione.

Qualora invece (come accade nella struttura del contratto assicurativo sulla vita) nello schema contrattuale il contraente potrebbe non essere mai creditore in quanto creditore potrebbe essere, verificandosi certe condizioni, un altro soggetto (ad esempio il beneficiario), è evidente che nel patrimonio del contraente non esiste un diritto di credito attuale e che il giudice dell’esecuzione non può sostituirsi de plano nell’esercizio di una facoltà contrattuale che spetta solo al contraente.

In questo caso però occorre chiedersi se il creditore possa esercitare l’azione surrogatoria di cui all’art. 2900 c.c. per far venire ad esistenza il credito del proprio debitore.

In un contratto assicurativo sulla vita sicuramente no, ostandovi l’impignorabilità[18], ma anche se il credito che si verrebbe a creare fosse pignorabile è da ritenersi che l’esercizio di una facoltà del tutto discrezionale sia escluso dall’ambito di operatività di una azione surrogatoria[19].

In una recente pronuncia di merito[20] è interessante vedere come il giudice si sia posto il problema della qualificazione della polizza, verificando se la stessa sia un prodotto assicurativo (se pure a componente causale mista, finanziaria ed assicurativa sulla vita) o un prodotto finanziario puro.

A tal fine ha richiamato il precedente orientamento di Tribunale Brescia, 13 giugno 2018 citandolo espressamente ed, enfatizzando la normativa di settore e la giurisprudenza comunitaria, ha ritenuto che perché un contratto possa essere qualificato quale assicurazione sulla vita non è necessario che sia garantita (neppure parzialmente) la restituzione del capitale investito né è imprescindibile il trasferimento del rischio dall’assicurato all’assicuratore. Si è quindi posta in contrasto con Cass. 6319/2019 ed il regolamento Isvap affermando che il prevedere l’assunzione di un rischio demografico rilevante da parte dell’assicuratore quale requisito indefettibile del contratto di assicurazione (in mancanza del quale verrebbe meno la causa propria del contratto stesso) si porrebbe in contrasto con la normativa e con la giurisprudenza comunitaria per cui per ricondurre un determinato contratto alla nozione di contratto di assicurazione, è sufficiente che sia previsto il pagamento di un premio da parte dell’assicurato e, in cambio di tale pagamento, la fornitura di una prestazione da parte dell’assicuratore in caso di decesso dell’assicurato o del verificarsi di un altro evento di cui al contratto in discorso.

Nel caso di specie comunque il contratto preso in esame era connotato dall’assunzione di un rischio demografico molto limitato, non inesistente, per cui il discrimen tra contratto assicurativo e di investimento puro va appunto cercato nella assoluta inesistenza di tali elementi, che però non è in concreto riscontrabile, anche per la vigilanza delle autorità di controllo, nei prodotti sul mercato.

Di contro è stato ritenuto da altri giudici di merito non sufficiente il rischio demografico con la previsione di variazione del valore di liquidazione pari solo all’1% del valore del sottostante, che potrebbe essere anche pari a zero, al momento della morte dell’assicurato[21]. In tal caso però il contratto non è nullo ma considerata la reale causa. essendo la sua funzione economico-sociale quella di consentire ai privati di investire le proprie sostanze nei rischiosi andamenti del mercato mobiliare azionario o di altro genere al fine principale di lucrare sui rialzi, ma non potendo certamente aver garanzia di preservarsi al riparo dai ribassi. si converte automaticamente in contratto finanziario.

In sede esecutiva è molto interessante una recentissima ordinanza, emessa in sede di accertamento dell’obbligo del terzo[22], che ha qualificato il rapporto con la compagnia assicurativa, intrattenuto tramite una società fiduciaria statica[23] terza pignorata, in parte come assicurazione sulla vita avente come beneficiario un soggetto estraneo al rapporto esecutivo, in parte come strumento finanziario in favore del contraente con riferimento alle ipotesi di riscatto, di decumulo finanziario e conversione in rendita del capitale maturato ed assegnando al creditore i crediti che eventualmente sarebbero venuti ad esistenza nel caso in futuro il contraente avesse esercitato tali facoltà contrattuali.

Ha quindi ritenuto che si trattava, in buona sostanza, di crediti condizionati all’esercizio di facoltà contrattuali attribuite al debitore esecutato e come tali suscettibili di assegnazione a condizione che quei crediti divengano attuali ed esigibili con l’esercizio della prevista facoltà discrezionale e per il relativo ammontare, sicché il terzo società fiduciaria dovrà procedere al pagamento in favore degli assegnatari soltanto quando e se la condizione si sia verificata.

Una tale soluzione però, anche se si considera il contratto misto e quindi non si esclude la finalità assicurativa, è giustificata solo dal fatto che il credito del debitore è verso la società fiduciaria in virtù del rapporto di mandato, mentre se il terzo pignorato fosse stato direttamente la società assicurativa sarebbe stata applicabile la previsione di impignorabilità di cui all’art. 1923 c.c., a meno appunto, valutatane la causa, di ritenere esclusiva la funzione finanziaria e quindi di non considerarlo come un contratto assicurativo.

Se infatti è possibile pignorare quanto ricevuto dal riscatto di una polizza vita in un procedimento presso terzi che veda come terzo la banca su cui è stata accreditata tale somma (e tale accredito potrebbe intervenire anche nelle more del pignoramento)[24], non si vede perché non sia possibile pignorare il credito del fiduciante nei confronti di una fiduciaria che abbia percepito tali attività dall’assicurazione (e che di norma sono accreditate su di un conto corrente bancario intestato alla fiduciaria per conto della fiduciante).

Unico dubbio è sulla pignorabilità del credito futuro[25], ma posto che il contratto fiduciario da vita ad un rapporto continuativo ed i possibili crediti del fiduciante verso la fiduciaria sono identificabili a sufficienza all’atto del pignoramento in conseguenza delle specifiche intestazioni fiduciarie in essere in quel momento, irrilevanti quelle successive all’estinzione della procedura esecutiva, la soluzione appare praticabile.

Chiaramente il credito potrebbe anche non venire mai ad esistenza ed a seguito della morte del contraente si estinguerebbe il rapporto fiduciario ed il beneficiario acquisterebbe verso l’assicurazione il diritto alla liquidazione della polizza. Per inciso in tal caso, l’assicurazione, estranea al procedimento esecutivo, dovrebbe effettuare la prestazione al beneficiario anche qualora si trattasse di un prodotto finanziario eseguendo ugualmente il contratto che anche in tal caso non appare non meritevole di tutela sotto il profilo causale per quello che riguarda il diritto del beneficiario.

Tuttavia non sembra che quella del contraente fiduciante (a differenza della posizione del beneficiario prima della eventuale definitività della sua indicazione) sia una mera aspettativa ed il rapporto giuridico da cui nascerebbe il credito futuro appare stabile e completamente identificato al momento del pignoramento.

Né la sua venuta ad esistenza è sottoposta alla “mera” volontà del debitore, posto che non è indifferente patrimonialmente per quest’ultimo farne avverare o meno il presupposto. Quindi si tratterebbe di semplice condizione potestativa, del tutto lecita, e non di condizione meramente potestativa che appunto implica l’assoluta indifferenza nel porla in essere o meno.

NOTE
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[1] Cfr. anche Albanese, Assicurazione sulla vita e protezione patrimoniale, in Contratto e Impr., 2016, 6, 1422.

[2] Civili per cui il divieto non vale per il penale: Cass. pen., 10 novembre 2016, n. 11945.

[3] Per una recente rassegna di giurisprudenza cfr. Percorsi di giurisprudenza – ambito di applicazione della disciplina sull’impignorabilità e insequestrabilità delle polizze vita, a cura di Candian e Landini, in Giur. It., 2018, 4, 980.

[4] Per Cass. SS.UU., 31 marzo 2008 n. 8271 la ratio consiste nel valore della “previdenza” (qui legata ai bisogni dell’età postlavorativa o derivante dall’evento morte di colui che percepisce redditi dei quali anche altri si avvalgano), che la norma in esame (unitamente ad eventuali e, in varia misura, concorrenti finalità di risparmio) è volta a tutelare (in via sia diretta, attraverso la garanzia del credito del singolo assicurato, sia indiretta attraverso la protezione del patrimonio dell’assicuratore, posto così al riparo dal contenzioso dei creditori, i cui costi andrebbero a detrimento degli assicurati per via di innalzamento dei premi).

[5] Così ad esempio Trib. Milano, 11 luglio 2014, ha negato l’impignorabilità sostenendo la funzione secondaria previdenziale della polizza in esame, che prevedeva una durata annuale con rinnovo tacito di anno in anno, rispetto a quella primaria di investimento.

[6] Cfr. anche per una rassegna della dottrina, Palmentola, Sulla pignorabilità delle polizze index linked, in Nuova Giur. Civ., 2011, 3, 10189.

[7] Si veda per tutte Cass. 18 aprile 2012, n. 6061 che per assicurare al contraente la tutela in seguito prevista normativamente per tutte le polizze linked ha ritenuto che il giudice del merito deve interpretare il contratto al fine di stabilire se esso, al di là del nomen iuris attribuitogli, sia da identificare effettivamente come polizza assicurativa sulla vita (in cui il rischio avente a oggetto un evento dell’esistenza dell’assicurato è assunto dall’assicuratore), oppure si concreti nell’investimento in uno strumento finanziario (in cui il rischio c.d di performance sia per intero addossato all’assicurato). In tal senso, sempre in termini di tutela del contraente, Trib. Rimini, 7 febbraio 2020; Trib. Milano, 30 aprile 2019; App. Palermo, 20 febbraio 2019; Trib. Taranto, 7 luglio 2018; Trib. Taranto 28 febbraio 2017; Trib. Milano, 13 febbraio 2017; App. Bologna, 28 luglio 2016; App. Milano, 11 maggio 2016. Per tali ragioni ha ritenuto la pignorabilità Trib. Parma, 10 agosto 2010, in Dir. e Fiscal. Assicur., 2011, 2, 710.

[8] Guffanti, Le polizze unit linked: un contratto a causa mista, in Società, 2019, 12, 1397, mette in rilievo come con l’attenuazione di tali problematiche connessa all’equiparazione normativa con gli investimenti in termini di tutela del contraente, il dibattito sia destinato a spostarsi su altri aspetti come quello appunto della pignorabilità.

[9] Da ultimo cfr. Cass. 30 aprile 2018, n. 10333

[10] Cass. 5 marzo 2019, n. 6319.

[11] Cass. 5 marzo 2019, n. 6319.

[12] Sentenza 31 maggio 2018 nella causa C-542/16

[13] Cfr. anche Lucchini Guastalla, La polizza unit linked tra causa finanziaria e causa assicurativa, in Nuova Giur. Civ., 2019, 5, 983 e Pancallo, Le polizze linked e le esigenze di tutela degli investitori, in Contratto e Impr., 2019, 2, 736, con ampi richiami di dottrina.

[14] Tribunale Brescia, 13 giugno 2018. Per la rilevanza della normativa comunitaria in tema di qualificazione anche Trib. Firenze, 20 novembre 2017.

[15] Alla dichiarazione di fallimento del beneficiario invece non consegue lo scioglimento del contratto, né il curatore – al pari di quanto previsto per le somme dovute, di regola già impignorabili secondo l’art.1923 cod. civ. – può agire contro il terzo assicuratore per ottenere il valore di riscatto della relativa polizza stipulata dal fallito quand’era in bonis, non rientrando tale cespite tra i beni compresi nell’attivo fallimentare ai sensi dell’art.46, primo comma, n.5 legge fall., considerata la funzione previdenziale riconoscibile al predetto contratto, non circoscritta alle sole somme corrisposte a titolo di indennizzo o risarcimento” (Cass. SS.UU., 31 marzo 2008 n. 8271)

[16] In tal senso Trib. Nola, 5 giugno 2008.

[17] In tal senso anche Gobio Casali, La pignorabilità delle somme dovute in relazione a polizze vita di natura prevalentemente finanziaria, in Giur. It., 2011, 7, 1560

[18] Patti, L’azione surrogatoria, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, Torino, 1985, XX, 130, 131

[19] Patti, Op. cit., 129.

[20] Trib. Bergamo 21 novembre 2019, n. 2426

[21] Tribunale Pisa, 6 maggio 2020. Nello stesso senso App. Bari, 13 febbraio 2020, in cui la differenza della prestazione caso morte era dell’1% di quella prevista per la liquidazione del sottostante se il decesso dell’assicurato fosse avvenuto ad un’età inferiore a 75 anni ed addirittura lo 0,10% se il decesso fosse avvenuto ad un’età superiore.

[22] Trib. Roma, 20 marzo 2020.

[23] Da ultimo Trib. Torino, 3 giugno 2016 in Quotidiano giuridico, 2016 ha ribadito che “come ha più volte affermato la giurisprudenza, alla società fiduciaria statica è riconosciuta soltanto la legittimazione a esercitare in nome proprio un diritto del mandante, che ne conserva l’effettiva titolarità (Cass. 14.10.1997 n. 10031 tra molte); le azioni quote e altri valori intestati alla società fiduciaria non entrano a fare parte del suo patrimonio, tanto da essere sottratti alla soddisfazione dei suoi creditori (Cass. 26.9.2013 n. 22099) ed essere per contro assoggettati a esecuzione per i debiti del mandante (Trib. Reggio Emilia 11.4.2012, Trib. Padova sez. Este 10.12.2012 entrambe su Il caso e Trib. Roma 10.5.2016 n. 9366 inedita), con pignoramento che deve farsi nella forma dell’art. 543 ss. c.p.c. al fine di accertare l’effettiva titolarità della partecipazione in capo al debitore, per tramite della dichiarazione positiva del terzo ex art. 547 c.p.c. o del successivo accertamento ex art. 549 c.p.c. (così le già cit. pronunce)

[24] Cass. 3 dicembre 1988, n. 6548.

[25] Riconosciuta se il rapporto sottostante è stabile per cui il credito può venire ad esistenza con un alto grado di probabilità (Cass. 26 ottobre 2002 n. 22731) e quindi l’eventualità è concreta e non meramente astratta.

La morte non è danno per chi viene a mancare

Corte di Cassazione 1 luglio 2020, n. 13261

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7775-2018 proposto da:
G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALSAVARANCHE 46, presso lo studio dell’avvocato MARCO CORRADI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCA PAVANETTO;
– ricorrente –
contro
AMISSIMA ASSICURAZIONI SPA, in persona del Procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE FORNACI 38, presso lo studio dell’avvocato FABIO ALBERICI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1696/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 25/08/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 30/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO ROSSETTI.
Svolgimento del processo
1. Nel 2010 G.M. convenne dinanzi al Tribunale di Venezia la società Carige Assicurazioni s.p.a. (che in seguito muterà ragione sociale in “Amissima Assicurazioni s.p.a.”; d’ora innanzi, ovunque ricorrente, “la Amissima”), esponendo che:
-) era padre di G.A.;
-) il 4.4.2002 il proprio figlio, all’epoca quindicenne, perse la vita in conseguenza di un sinistro stradale, avvenuto mentre il ragazzo era trasportato su un veicolo a motore di proprietà del padre e condotto dalla madre, T.P., anch’essa deceduta nell’occasione.
Chiese pertanto la condanna della società convenuta al risarcimento del danno patito iure proprio e jure hereditario in conseguenza del tragico evento. Tra gli altri danni, per quanto in questa sede ancora rileva, l’attore domandò il risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla vittima primaria, ed il cui credito risarcitorio era stato a lui trasmesso jure hereditario.
2. Tale ultima domanda venne rigettata dal Tribunale di Venezia, sezione di San Donà di Piave, con sentenza 28.11.2014 n. 2566. La Corte d’appello di Venezia con sentenza 25.8.2017 n. 1696 rigettò, su questo punto, il gravame proposto da G.M..
Ritenne la Corte d’appello che G.A. era purtroppo deceduto pochissimo tempo dopo il sinistro; che non vi era contezza che in tale periodo di tempo fosse stato cosciente, e che pertanto potesse avere acquisito e trasmesso al padre un credito risarcitorio.
3. Ricorre per cassazione avverso tale sentenza G.M., con ricorso fondato su due motivi.
La Amissima ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, congiuntamente, sia il vizio di violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato; sia quello di nullità della sentenza; sia la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., nonché degli artt. 2, 3, 32 Cost.
Nella illustrazione del motivo si sostiene:
-) che l’attore aveva chiesto, sia in primo grado che in appello, la condanna dell’assicuratore al risarcimento del danno patito da G.A. in conseguenza della perdita del diritto alla vita, ed il cui credito risarcitorio si era trasmesso jure hereditario all’odierno attore; e che nondimeno la Corte d’appello aveva trascurato di pronunciarsi su tale domanda;
-) che, in ogni caso, la Corte d’appello nell’escludere la sussistenza del danno jure hereditatis avrebbe disatteso i principi stabiliti dalla sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014 di questa corte;
-) che, ancora, la Corte d’appello ha errato nel negare che la vittima primaria avesse acquisito, e trasmesso al padre jure hereditario, il diritto al risarcimento del danno morale, patito nell’intervallo fra le lesioni e la morte; deduce che tale danno va risarcito a prescindere dall’esistenza di una lesione della salute, e che il relativo risarcimento è dovuto anche nel caso in cui la vittima primaria sia trascorsa dall’infortunio alla morte in stato di incoscienza (invoca, al riguardo, le sentenze di questa Corte n. 1716 del 7 febbraio 2012, e n. 13.530 dell’11 giugno 2009).
1.1. Il motivo è infondato in tutti i profili in cui si articola.
Nella parte in cui lamenta il vizio di omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno da lesione del diritto alla vita patito dalla vittima primaria, e da questa trasmesso jure hereditario all’odierno ricorrente, il motivo è in primo luogo inammissibile, giacché tale domanda non risulta formulata nel primo grado di giudizio.
In secondo luogo il motivo è infondato perché la Corte d’appello, richiamando (a p. 6, decimo rigo, della motivazione) la decisione pronunciata dalle Sezioni Unite di questa Corte n. 15350 del 22/07/2015, ha per ciò solo mostrato di recepirne e condividerne l’insegnamento, ovvero che non è risarcibile nel nostro ordinamento il danno “da perdita della vita”, poiché non è sostenibile che un diritto sorga nello stesso momento in cui si estingua chi dovrebbe esserne titolare.
In terzo luogo, e risolutivamente, anche a volere ritenere – in ipotesi – che il richiamo contenuto nella sentenza impugnata alla decisione con cui le Sezioni Unite di questa Corte hanno negato la risarcibilità del c.d. “danno da perdita della vita” sia stato talmente generico da non assolvere l’onere della motivazione, resterebbe il fatto che la suddetta pretesa, se fosse stata esaminata nel merito si sarebbe dovuta comunque rigettare. Dal punto di vista del diritto civile, infatti, la morte d’una persona può costituire un danno non patrimoniale per chi le sopravvive, e non per chi viene a mancare: e la diversa opinione sostenuta nella isolata decisione invocata dal ricorrente (Cass. 23.1.2014 n. 1361), come accennato, non può essere più condivisa dopo la pronuncia delle Sezioni Unite sopra ricordata, per l’appunto intervenute a comporre il contrasto.
Sicché, anche a supporre che la sentenza impugnata sia effettivamente incorsa in una omessa pronuncia, dovrebbe comunque trovare applicazione il principio secondo cui il vizio di omessa pronuncia non può mai condurre alla cassazione della sentenza impugnata, quando la questione non esaminata dalla sentenza d’appello era comunque infondata in punto di diritto, sicché la cassazione della sentenza con rinvio non potrebbe mai condurre ad una decisione diversa (Sez. 5 -, Sentenza n. 16171 del 28/06/2017, Rv. 644892 – 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5729 del 11/04/2012, Rv. 622281 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2313 del 01/02/2010, Rv. 611365 – 01).
1.3. Nella parte, infine, in cui il ricorrente lamenta che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto necessario, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla vittima primaria tra le lesioni e la morte, lo stato di coscienza della vittima, il motivo è parimenti infondato, alla luce dei principi già affermati da questa Corte nell’ampia motivazione dell’ordinanza pronunciata da Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018, a cui in questa sede si può fare rinvio.
2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto assorbita, invece di esaminarla, la questione relativa alla estinzione per confusione del credito risarcitorio a lui spettante jure haereditario.
2.1. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse, dal momento che, avendo la Corte d’appello escluso che la vittima primaria avesse acquisito e trasmesso al padre un credito risarcitorio, diviene irrilevante stabilire se nel caso di specie operasse il principio dell’estinzione dell’obbligazione per confusione. D’un credito inesistente, infatti, è vano discorrere se possa estinguersi: tanto per confusione, quanto per qualsiasi altra causa.
3. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1, quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1 comma, 17).
P.Q.M.
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna G.M. alla rifusione in favore di Amissima s.p.a. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 7.400, di cui Euro 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014 n. 55, ex art. 2, comma 2;
(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1, quater, per il versamento da parte di G.M. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 30 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2020

L’obbligo dei nonni è subordinato, e quindi sussidiario, rispetto a quello primario dei genitori

Cass. civ. Sez. I, Ord., 14 luglio 2020, n. 14951
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17360-2018 proposto da:
M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO MIGLIOSI;
– ricorrente –
contro
MA.AN., V.M., MA.VI., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TUNISI 4, presso lo studio dell’avvocato ALFONSO CIAMBRONE, rappresentati e difesi dall’avvocato FIAMMETTA MODENA;
– controricorrenti –
e contro
– intimati –
avverso la sentenza n. 312/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 07/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/02/2020 dal Consigliere Relatore Dott.ssa MELONI MARINA.
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Perugia, con sentenza in data 7/5/2020, ha confermato il decreto pronunciato dal Tribunale di Perugia in data 4-4-2016 con il quale M.A., ascendente paterno del minore M.C. veniva condannato a pagare l’assegno di 130,00 Euro mensili quale contributo al mantenimento del nipote da versarsi alla madre Ma.An..
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso in cassazione M.A. affidato a due motivi e memoria.
Ma.An., Ma.Vi. e V.M., ascendenti materni del minore C. resistono con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 316 bis c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto il giudice territoriale ha posto a suo carico il pagamento di un assegno quale contributo al mantenimento del nipote, sebbene la madre non abbia mai dimostrato lo stato di bisogno e tantomeno l’incapacità di provvedere da sola ai bisogni primari del figlio considerato che lavora stabilmente e convive con il figlio presso i suoi genitori.
Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 in quanto il giudice territoriale ha posto l’obbligo di pagamento dell’assegno a carico dell’ascendente paterno sebbene la madre del minore Ma.An. non abbia dimostrato di non poter incrementare il proprio reddito e sebbene risulti che il padre lavora come addetto accoglienza clienti presso la One Investigazioni srl.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, che qui si condivide (cfr. Cass. n. 10419 del 2018), l’obbligo di mantenimento dei figli minori ex art. 148 c.c. spetta primariamente e integralmente ai loro genitori sicchè, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui. L’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinchè possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli -che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori- è, infatti, subordinato e, quindi, sussidiario rispetto a quello, primario, dei genitori, non essendo, appunto, consentito rivolgersi agli ascendenti sol perchè uno dei due genitori non dia il proprio contributo, ove l’altro genitore sia in grado di mantenere la prole.
Nella fattispecie la sentenza di appello, che ha confermato sul punto la decisione di primo grado, è conforme alla giurisprudenza sopra riportata: la situazione economica della madre, che guadagna circa 1.100,00 Euro mensili, è stata ritenuta insufficiente a far fronte alle esigenze del minore, perchè è malato e necessita di terapie riabilitative, e ciò pur tenendo conto del contributo economico dei nonni materni, con i quali la donna abita. La Corte ha dato conto, inoltre, che la madre ha documentato l’impossibilità di riscuotere il mantenimento da parte del padre, che non ha mai versato alcun assegno per il contributo al mantenimento del figlio. E tali accertamenti non possono esser qui posti in discussione attenendo al merito.
Per quanto sopra, il ricorso deve essere respinto con condanna alle spese del soccombente. Trattandosi di processo esente, non è dovuto il raddoppio del contributo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità a favore del controricorrente che si liquidano in complessivi Euro 2.100,00 oltre spese forfetarie ed accessorie come per legge. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta/prima sezione della Corte di Cassazione, il 14 febbraio 2020.
Depositato in cancelleria il 14 luglio 2020

L’azione revocatoria e il trust familiare

Cass. civ. Sez. III, 06 luglio 2020, n. 13883;
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 23270-2017 proposto da:
R.L., RU.SI., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PIETRO DA CORTONA 8, presso lo studio
dell’avvocato SALVATORE MILETO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUCA
ALFREDO LANZALONE, MASSIMILIANO MONTAGNER;
– ricorrenti –
contro
BANCO POPOLARE SOC LOOP, GIA’ GESTIONE CREDITI BP SOC CONS PA, RU.MI.,
RU.AN., RU.CL.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 311/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 28/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/02/2020 dal Consigliere Dott.
STEFANO GIAIME GUIZZI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI CORRADO, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. R.L. e Ru.Si. ricorrono, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 311/17,
del 28 febbraio 2017, della Corte di Appello di Brescia, che – respingendo il gravame da essi
esperito avverso l’ordinanza ex art. 702-bis, del 17 dicembre 2013, del Tribunale di Cremona – ha
confermato l’accoglimento dell’azione revocatoria proposta dalla società Gestione Crediti B.P. S.p.a.
(oggi Banco Popolare Società Cooperativa), quale mandataria della società Banca Popolare di
Crema S.p.a., e volta alla declaratoria di inefficacia dell’atto del 14 maggio 2009, con cui gli odierni
ricorrenti istituivano il cd. “(OMISSIS)”.
2. In punto di fatto, i ricorrenti riferiscono di essere stati convenuti in giudizio, unitamente ai propri
figli C., A. e Ru.Mi., dalla mandataria della Banco Popolare di Crema, che agiva nei loro confronti,
ex art. 2901 c.c., sul presupposto che il suddetto atto dispositivo fosse pregiudizievole per la
posizione creditoria della mandante. Essa, infatti, vantando una fideiussione nei confronti di Ru.Si.,
quale garante della società (OMISSIS) S.r.l. (di cui era, oltre che socio come la moglie R.L., anche
amministratore unico), preso atto del piano di ristrutturazione dei debiti presentato, in data 22
maggio 2009, dalla società debitrice, revocava – secondo quanto comunicato con missiva del 5
agosto 2009 – tutti gli affidamenti a detta società, a suo tempo concessi, richiedendo, per l’effetto, il
pagamento spontaneo del debito, pari, allora, a Euro 193.940,30. In difetto di pagamento, pertanto,
la creditrice conseguiva, il 15 settembre 2009, un provvedimento monitorio che ingiungeva alla
debitrice, e al fideiussore, il pagamento dell’importo di Euro 198.817,12, provvedimento in forza
del quale – essendo stato lo stesso non opposto – iscriveva ipoteca sui beni societari.
Ciò premesso, dopo che la società debitrice veniva dichiarata fallita il 3 novembre 2010, la Banca
Popolare di Crema (o meglio, per essa, la sua mandataria), sul presupposto che il proprio credito
non potesse essere soddisfatto dalla vendita concorsuale dei beni immobili di proprietà della
debitrice, esperiva l’azione revocatoria affinchè fosse dichiarata l’inefficacia del predetto atto
istitutivo del (OMISSIS).
Accolta dal primo giudice la domanda, il gravame esperito dagli odierni ricorrenti veniva respinto
dal giudice di appello.
3. Avverso la decisione della Corte bresciana ricorrono per cassazione la R. e il Ru., sulla base –
come detto – di un unico motivo.
3.1. Il motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c. comma 1, n. 3) – deduce violazione e falsa
applicazione dell’art. 2901 c.c., “in relazione all’assoggettabilità a revocatoria dell’atto istitutivo di
trust”.
Si assume, infatti, che tale atto non possa essere assoggettato alla cd. “actio pauliana”, destinata ad
investire solo l’atto dispositivo con cui i beni sono trasferiti al fiduciario (trustee) o posti sotto il
controllo dello stesso, oppure segregati nel patrimonio del disponente, nell’interesse di un
beneficiario.
Richiama, sul punto, giurisprudenza di merito, secondo cui l’atto istitutivo del trust sarebbe
“neutro”, e dunque non ancora idoneo ad incidere sulla garanzia dei creditori.
4. Sono rimasti intimati la società Banco Popolare Società Cooperativa, nonchè M., A. e Ru.Cl..
Motivi della decisione
5. Il ricorso va rigettato.
5.1. Il motivo proposto, infatti, non è fondato.
5.1.1. Invero, proprio con riferimento ad altra azione revocatoria esperita nei confronti sempre degli
odierni ricorrenti, questa Corte ha già rilevato (cfr. Cass. Sez. 3, ord. 15 ottobre 2019, n. 25926, ma
nello stesso già Cass. Sez. 3, ord. 30 settembre 2019, n. 24212, nonchè Cass. Sez. 1, ord. 15 aprile
2019, n. 10498, Rv. 653878-01) che, nel trust, “dispositivo è l’atto col quale viene intestato al
trustee il bene conferito in trust”, ciò che, però, “non comporta che la relativa domanda revocatoria
debba essere necessariamente indirizzata negli immediati confronti di quest’atto”, e che “non possa,
per ciò stesso, essere utilmente proposta pure nei confronti dell’atto istitutivo del trust”.
In realtà, “nel caso in cui all’istituzione del trust abbia fatto poi seguito l’effettiva intestazione del
bene conferito al trustee – secondo quanto accaduto nella fattispecie concretamente in esame -, la
domanda di revocatoria, che assume ad oggetto l’atto istitutivo, appare comunque idonea a produrre
l’esito di inefficacia (dell’atto dispositivo) a cui propriamente tende la predetta azione (ove la
dichiarazione di inefficacia potesse essere emessa anche in assenza dell’effettiva esistenza di un atto
dispositivo, per contro, si fuoriuscirebbe senz’altro dalla funzione di conservazione patrimoniale che
risulta specificamente connotare, nel sistema del codice civile, come ripreso anche nella sede della
normativa fallimentare, lo strumento dell’azione revocatoria)” (Cass. Sez. 3, ord. n. 25926 del 2019,
cit.).
Per constatare “l’indicata idoneità”, prosegue la sentenza citata, “è sufficiente considerare che l’atto
di trasferimento e intestazione del bene conferito al trustee non risulta essere atto isolato e
autoreferente”, visto che nella “complessa dinamica di un’operazione di trust, lo stesso si pone, per
contro, non solo come atto conseguente, ma prima ancora come atto dipendente dall’atto istitutivo”,
sicchè è “in quest’ultimo atto, cioè, che l’atto dispositivo recupera la sua ragion d’essere e causa (in
ipotesi) giustificatrice” (Cass. Sez. 3, ord. n. 25926 del 2019, cit.).
Del resto, “è corrente osservazione in letteratura che il trustee risulta titolare di un “ufficio”, o di
una “funzione”; e che, quindi, è proprietario non già nell’interesse proprio, bensì nell’interesse altrui:
secondo i termini e i modi volta a volta appunto consegnatigli dell’atto istitutivo. La peculiare
proprietà del trustee non potrebbe perciò “sopravvivere” all’inesistenza, o al caducarsi, dell’atto che
viene nel concreto a conformare tale diritto (nel caso di specie al fine particolare della “tutela dei
bisogni della famiglia” basata sul rapporto di coniugio intercorrente tra Ru.Si. e R.L.). L’inefficacia
dell’atto istitutivo, come prodotta dall’esito vittorioso di un’azione revocatoria, reca con sè, dunque,
pure l’inefficacia dell’atto dispositivo. La domanda di revoca dell’atto istitutivo viene, in altri
termini, a colpire il fenomeno del trust sin dalla sua radice” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, ord. n.
25926 del 2019, cit.).
6. Essendo rimasti intimati la società Banco Popolare Società Cooperativa, nonchè M., A. e Ru.Cl.,
nulla va disposto quanto alle spese del presente giudizio.
7. A carico dei ricorrenti sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24
dicembre 2012, n. 228, art.1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, all’esito di udienza pubblica della Sezione Terza Civile della Corte di
Cassazione, riconvocatasi in camera di consiglio, nella medesima composizione, il 18 febbraio
2020.
Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

In tema di AdS la competenza della Corte d’Appello sul reclamo sussiste per qualsiasi provvedimento pronunciato dal G. T.?

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 26 agosto 2020, n. 17833

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul riscorso per conflitto di competenza, iscritto al n. 18498/2019 R.G., sollevato dalla Corte d’Appello di Catania con ordinanza del 05/06/2019 nel procedimento vertente tra:
L.E., da una parte e, L.R., S.C., G.E., PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI CATANIA, dall’altra, ed iscritto al n. 837/2018 R.G. di quell’Ufficio;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/06/2020 dal Consigliere Relatore Dott. LOREDANA NAZZICONE;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO IMMACOLATA, che chiede dichiararsi la competenza del Tribunale di Siracusa, in composizione collegiale.
Svolgimento del processo
Con ordinanza del 5 giugno 2018 la Corte d’appello di Catania ha sollevato conflitto negativo di competenza, dopo che il procedimento – volto al reclamo avverso il decreto, emesso l’11 luglio 2018, con cui il giudice tutelare aveva disposto l’apertura dell’amministrazione di sostegno e nominato amministratore l’avv. S. – era stato riassunto innanzi alla stessa, a seguito della declaratoria di incompetenza da parte del Tribunale di Siracusa con ordinanza del 27 settembre 2018.
La corte territoriale, premesso che l’oggetto del reclamo consiste nella mera individuazione della persona chiamata a svolgere le funzioni di amministratore, ha escluso che il provvedimento impugnato avesse natura decisoria, onde non può essere impugnato innanzi alla corte di appello, ai sensi dell’art. 720-bis c.c. Le parti non hanno svolto attività difensiva.
Il P.G. ha concluso per la declaratoria della competenza del Tribunale di Siracusa in composizione collegiale.
Motivi della decisione
1. – Il regolamento è ammissibile, per le ragioni già in passato enunciate da questa Corte.
Si è, infatti, chiarito (cfr. Cass. 12 dicembre 2018, n. 32071; Cass. 13 giugno 2019, n. 15925) che, a differenza del regolamento di competenza ad istanza di parte, quello d’ufficio è strutturato non già come un mezzo d’impugnazione, ma come uno strumento volto a sollecitare l’individuazione del giudice naturale precostituito per legge al quale compete la trattazione dell’affare, onde non si richiede che l’atto che vi abbia dato luogo sia impugnabile con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. o con il regolamento ad istanza di parte; esso è pertanto compatibile anche con il procedimento di cui all’art. 720-bis c.p.c. 2. – Nel merito, il Collegio reputa, allo stato della giurisprudenza di legittimità, di rimettere alle Sezioni unite la questione – su cui si registra un contrasto – circa l’interpretazione dell’art. 720-bis c.p.c. Alla stregua di tale disposizione, introdotta dalla 1. 9 gennaio 2004, n. 6, ai procedimenti in materia di amministrazione di sostegno si applicano alcune previsioni dettate per i procedimenti di interdizione ed inabilitazione, in quanto compatibili; si prevede, inoltre, che “contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo alla corte d’appello a norma dell’art. 739” (comma 2) e che “contro il decreto della corte d’appello pronunciato ai sensi del comma 2 può essere proposto ricorso per cassazione” (comma 3).
2.1. – Secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che si era consolidato nel corso di un decennio e sul quale vi era stato un certo consenso in dottrina, la previsione della corte d’appello quale giudice competente a decidere l’impugnazione avverso i decreti del giudice tutelare, ai sensi dell’art. 720-bis c.p.c., deve ritenersi limitata ai provvedimenti a natura decisoria e, dunque, idonei ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus; in ogni altro caso, vale a dire per tutti i provvedimenti di natura meramente ordinatoria ed amministrativa (assai più numerosi), che attengono alla gestione concreta e che sono, per definizione, sempre modificabili e revocabili in base ad una rinnovata valutazione degli elementi acquisiti, resta la competenza generale del tribunale in composizione collegiale per il procedimento di reclamo, ai sensi dell’art. 739 c.p.c. (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32071; Cass. 28 settembre 2017, n. 22693; Cass. 13 gennaio 2017, n. 784; Cass. 29 ottobre 2012, n. 18634).
In tal modo, in tema di amministrazione di sostegno si distingue tra: a) il decreto di apertura e chiusura della procedura, assimilabile per sua natura alle sentenze emesse nei procedimenti d’interdizione ed inabilitazione, e b) i decreti riguardanti le modalità di attuazione della tutela e la concreta gestione del patrimonio del beneficiario, fra cui anche quelli di designazione, revoca e sostituzione dell’amministratore, dunque non incidenti sullo status o su diritti fondamentali del beneficiario della tutela.
Solo nel primo caso, tale orientamento reputa applicabile l’art. 720-bis c.p.c., comma 2.
In sostanza – sulla base della ricordata distinzione – un differente regime trova applicazione sia con riguardo all’individuazione del giudice competente per il reclamo, sia in ordine alla proponibilità del ricorso per cassazione avverso il provvedimento emesso da quest’ultimo.
La tesi tradizionale si fonda – quanto al piano letterale – sulla lettera della norma, laddove, non a caso, si discorre di “decreto” al singolare: ad indicare che proprio e solo del decreto sull’an della procedura si tratta.
Quanto alla ratio della previsione, il particolare rilievo della misura attiene solo ai provvedimenti di apertura, di rigetto, di chiusura, di proroga dell’amministrazione di sostegno, ovvero solo quelli destinati per loro natura ad incidere sui diritti fondamentali e sulla capacità di agire della persona.
Sul piano pratico, poi, taluno sottolineava la scarsa efficienza di un sistema che imponesse il reclamo alla corte d’appello per qualsiasi, pur minuto, decreto del giudice tutelare, sebbene volto solo a nominare un certo soggetto alla funzione di amministratore in luogo di un altro, o ad autorizzare singoli atti di gestione: con aggravio di tempi e di costi del procedimento.
A tali argomenti, può aggiungersi quello, che parimenti sembra avere qualche rilevanza, della necessità di una lettura unitaria dell’art. 720-bis, e commi 2 e 3: invero, se il comma 3 enuncia in modo inequivoco la ricorribilità per cassazione del provvedimento reso in sede di reclamo, non è allora possibile restringere la facoltà del ricorso innanzi al giudice di legittimità ai soli provvedimenti aventi natura decisoria emessi dalla corte d’appello: con la conseguenza che, ammesso ex lege il ricorso per cassazione, finirebbe sempre per doversene, con ogni verosimiglianza, dichiarare l’inammissibilità in quanto involgente questione di puro fatto.
Onde, si potrebbe concludere, è giocoforza ritenere che alla corte medesima giungano, per via del reclamo, solo i provvedimenti decisori, essendo proprio questa la ratio sottesa alla espressa previsione del comma 3.
2.2. – Con tale orientamento si è posta in consapevole contrasto una recente sentenza della prima sezione civile, la quale è andata di contrario avviso, ritenendo che – ai fini dell’applicazione della speciale competenza della corte d’appello stabilita dall’art. 720-bis c.p.c., comma 2 – non possa assumere nessun rilievo la distinzione, sopra esposta, tra provvedimenti decisori e provvedimenti ordinatori assunti dal giudice tutelare nella materia dell’amministrazione di sostegno.
Tale distinzione, invero, è ivi ritenuta da confinare al problema della ricorribilità in Cassazione ex art. 111 c.p.c., comma 8, dei provvedimenti del giudice tutelare; laddove, quanto al diverso profilo del giudice competente per il reclamo, l’art. 720-bis c.p.c., comma 2, si atteggia come norma speciale rispetto all’art. 739 c.p.c. e dal chiaro tenore letterale, prevedendo espressamente che il reclamo debba essere proposto innanzi alla corte d’appello e non al tribunale, in qualsiasi caso (Cass. 11 dicembre 2019, n. 32409).
La tesi più recente argomenta nel senso che il paradigma elaborato per delineare l’ambito della ricorribilità per cassazione dei provvedimenti diversi dalle sentenze sia stato impropriamente esteso alla individuazione del giudice competente per il reclamo avverso i provvedimenti resi dal giudice tutelare in tema di amministrazione di sostegno.
Al contrario, l’art. 720-bis c.p.c., comma 2, prevede espressamente che contro i decreti del giudice tutelare “in materia di amministrazione di sostegno” il reclamo sia proposto dinanzi alla corte d’appello, con disposizione che, avendo carattere speciale, deve prevalere su quella generale risultante dall’art. 739 c.p.c. e art. 45 disp. att. c.c. La lettera della norma sarebbe insuscettibile di una diversa interpretazione ed, in tal modo, il legislatore avrebbe inteso concentrare presso la corte d’appello le impugnazioni in materia.
2.3. – Nel caso di specie, le doglianze proposte con il reclamo non hanno ad oggetto l’apertura dell’amministrazione di sostegno, ma l’individuazione della persona incaricata di coadiuvare la beneficiaria nella cura della propria persona e nella gestione dei propri interessi, avendo il reclamante contestato la scelta di un professionista estraneo al nucleo familiare ed instando per la nomina di sè medesimo all’incarico.
Diviene dunque rilevante l’adesione all’uno o all’altro degli orientamenti espressi.
2.4. – Il Collegio potrebbe, in questa sede, condividere l’una o l’altra soluzione e pronunciare di conseguenza sul regolamento.
Tuttavia, trattandosi di questione di interpretazione di una regola processuale, più che l’intimo convincimento di un singolo relatore o di un collegio rileva la individuazione di una presa di posizione definitiva che assicuri la certezza del diritto, essendo il processo non un fine in sè, ma un puro strumento per l’affermazione, il più efficiente ed effettiva possibile, della tutela dei diritti e degli interessi.
Donde la opportunità di definire un orientamento uniforme, che si ritiene di rimettere, in ragione della rilevanza assegnata dall’ordinamento alle relative sentenze (art. 374 c.p.c.), alle Sezioni unite della Corte di cassazione.
3. – In conclusione, va rimessa la causa al Primo presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, involgendo essa la seguente questione: se la competenza della corte d’appello sul reclamo, prevista dall’art. 720-bis c.p.c., sussista per qualsiasi provvedimento pronunciato dal giudice tutelare con riguardo alla misura dell’amministrazione di sostegno, in deroga all’art. 739 c.p.c., oppure se tale speciale competenza per l’impugnazione sussista unicamente per provvedimenti del giudice tutelare aventi natura decisoria, ferma restando la competenza del tribunale, alla stregua della disposizione comune predetta.
P.Q.M.
La Corte rimette la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 giugno 2020.
Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2020

Illegittima la consegna dei gameti criooconservati alla vedova

Trib.di Modena, sent. 8 maggio 2020
TRIBUNALE DI MODENA
PRIMA SEZIONE CIVILE
nella persona del Giudice dott. Umberto Castagnini ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 5574/2018 promossa da:
X (C.F. ***), con il patrocinio dell’avv. BERGAMINI SUSANNA elettivamente domiciliato presso il difensore avv. BERGAMINI SUSANNA
ATTORE
contro
AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA POLICLINICO DI MODENA (C.F. ***)
CONVENUTO
CONCLUSIONI
Parte attrice:
“Piaccia all’Onorevole Tribunale adito, disporre il rilascio, alla sig.ra X degli spermatozoi crioconservati già di apparternenza del defunto marito, sig. T., anzichè la loro distruzione, considerata pure, l’espressa volontà in tal senso del coniuge defunto, volontà prestata e non revocata prima della sua morte”. Vinte le spese, competenze ed onorari del giudizio”.
RAGIONI DI FATTO
E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
1. X ha convenuto in giudizio l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico di Modena affinché sia disposto il trasferimento intrauterino degli embrioni crioconservati e custoditi nel centro di procreazione medicalmente assistita del Policlinico di Modena per portare a termine il procedimento di PMA intrapreso congiuntamente al marito T. , deceduto il 18 agosto 2017; in via subordinata ha chiesto che sia ordinato all’Azienda Ospedaliera di rilasciare in favore dell’attrice i gameti crioconservati del defunto marito, depositati presso tale Centro.
A fondamento della domanda ha dedotto:
– che, seppure nel modulo prestampato sottoscritto dal marito, avente ad oggetto il consenso informato al congelamento dei propri spermatozoi, era previsto che “in caso di decesso del sottoscrittore” i gameti sarebbero stati distrutti, tale disposizione non rispecchiava affatto la volontà del T. che “considerava l’embrione fecondato come già fosse un proprio figlio, massima espressione del profondo amore che lo legava alla moglie”;
– che ella ha rinvenuto un documento sottoscritto di pugno dal marito, datato 6.12.2016, con cui lo stesso revocava il consenso alla distruzione degli spermatozoi in caso di decesso disponendo testualmente che “in caso di eventuale mio decesso dispongo che non siano eliminati i miei spermatozoi congelati dovendo questi servire per la procreazione futura e fortemente voluta di un figlio con la mia amata X. Essendo questo da entrambi voluto”;
– che il rifiuto da parte dell’Azienda Ospedaliera di continuare il processo di fecondazione assistita si pone in contrasto con il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) e viola il diritto a diventare genitori.
La convenuta, ritualmente citata in giudizio, è rimasta contumace.
Nel corso del procedimento sono state acquisite informazioni exart. 213 c.p.c dal centro di riproduzione in ordine allo stato del percorso di PMA atteso che dalla documentazione prodotta e dalle allegazioni non emergeva chiaramente se fosse stata effettuata la fecondazione in vitro e prodotti embrioni o se il ciclo si era invece arrestato nella prima fase.
L’Azienda Ospedaliera, con nota del 21.08.2019. a firma del Direttore Sanitario, ha comunicato che presso il centro di Medicina della Riproduzione sono depositati unicamente “spermatozoi crioconservati del sig. T. , perché la coppia non ha mai eseguito il ciclo di Procreazione Medicalmente Assistita di II livello (fecondazione in vitro con tecnica ICSI) e quindi non sono mai stati prodotti embrioni”.
All’udienza del 26 settembre 2019 la causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni in epigrafe trascritte con rinuncia da parte dell’attrice alla domanda avanzata in via principale.
2. L’azione proposta si colloca nell’ambito della tematica, particolarmente dibattuta, della procreazione medicalmente assistita e -in particolare-della fecondazione post mortemche rappresenta quello che è stato definito l’ultimo capitolo della “rivoluzione procreativa”.
Nel nostro ordinamento la fecondazione post mortemdeve ritenersi, in linea generale, vietata.
Ciò si desume chiaramente dall’art. 5, comma 1 della L.40/2004 il quale dispone che “possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” e dall’art. 12, comma 2 il quale prevede che “chiunque, a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5 applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi…è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro”; il comma 9 prevede altresì per tale ipotesi “la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria”.
Il divieto di fecondazione post mortemviene giustificato sulla base del rilievo per cui, così facendo, si darebbe vita a famiglie mono-genitoriali, privando i nascituri ab origine ed in maniera preordinata della possibilità di godere del sostegno e dell’affetto dell’altro genitore; ciò, diversamente dall’ipotesi in cui la perdita o l’allontanamento di uno dei due avvenga per cause naturali dopo il concepimento o la nascita
Secondo una parte degli interpreti tale tecnica si porrebbe in contrasto con gli artt. 29 e 30 Cost. che implicano il diritto del figlio ad essere istruito, educato e mantenuto da entrambi i genitori.
In ogni caso, anche a non voler ritenere la scelta del nostro legislatore costituzionalmente obbligata, tenuto conto che -entro certi limiti-tale tecnica è consentita in altri ordinamenti europei (ad esempio in Spagna, entro l’anno dal decesso), la scelta perseguita non può comunque ritenersi irragionevole, né in contrasto con il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU).
In questo senso, sia pure in una fattispecie diversa, si è pronunciata la Consulta chiarendo che”la materia tocca, al tempo stesso, “temi eticamente sensibili” (sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene “primariamente alla valutazione del legislatore” (sentenza n. 347 del 1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell’”area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale” (sentenza n. 84 del 2016). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014).
Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia della PMA, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano–segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso –un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria)”.
In particolare, decidendo in relazione alle limitazioni soggettive all’accesso alla PMA, la Corte Costituzionale ha affermato che “non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato. In questa prospettiva, l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae –due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile –rappresenti, in linea di principio, il <> più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale”. (Corte Costituzionale, 23 ottobre 2019, n. 221).
3.Tenuto conto del generale divieto di fecondazione post mortem vigente nel nostro ordinamento, si è posto il problema di individuare fino a quale momento entrambi i membri della coppia devono essere viventi per poter completare il procedimento di PMA.
Tale interrogativo è sorto perché la legge consente non solo la crioconservazione dei gameti (exart. 14, comma 8 L. 40/2004) ma anche degli embrioni (in seguito a Corte Costituzionale 8 maggio 2009, n. 151) per cui il decesso di uno dei membri della coppia può intervenire prima o dopo la fecondazione.
La giurisprudenza di merito si è orientata nel distinguere tali ipotesi consentendo alla donna di ottenere l’impianto dell’embrione già formato al momento della morte dell’altro membro della coppia (cfr. Tribunale di Palermo, 8 gennaio 1999; Tribunale di Bologna, 16 gennaio 2015), escludendo invece la possibilità di fecondazione in vitro post mortem (cfr. Tribunale di Bologna, 31 maggio 2012 n. 1522 in Foro it, 2012, I, 3349 conf. App. BO 11 dicembre 2013, n. 2203).
Tale distinzione è condivisibile poiché coerente con l’articolato normativo posto dalla L. 40/2004 e tiene conto della diversità ontologica tra gamete ed embrione.
I gameti umani sono cellule riproduttive destinate ad unirsi nel processo della fecondazione per dare origine ad un nuovo individuo. Essi possono inquadrarsi nella eterogenea categoria dei campioni biologici umani che ricomprende i materiali biologici provenienti dal corpo umano sottoposti o destinati ad un particolare trattamento . L’embrione, diversamente, è il frutto della fusione procreativa dei due gameti e presenta una sua sostanziale individualità e diversità dalle cellule che l’anno generato.
Come chiarito dalla Corte Costituzionale,”l’embrione, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riconducibile a mero materiale biologico. Con la citata sentenza n. 151 del 2009, questa Corte ha già, del resto, riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.; e l’ha bensì ritenuta suscettibile di “affievolimento” (al pari della tutela del concepito: sentenza n. 27 del 1975), ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti”(Corte Costituzionale, 11/11/2015, n.229).
Inoltre, passando all’articolato normativo posto dalla L. 40/2004, si osserva che l’art. 6 dispone che il consenso è revocabile solo fino alla fecondazione dell’embrione. Tale norma è da leggersi in combinato disposto con l’art. 14, comma 1 che vieta la soppressione di embrioni umani e con il principio affermato dalle linee guida approvate con DM 1 luglio 2015 secondo cui la “donna ha sempre il diritto di ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati”.
Si è pertanto ritenuto che il requisito soggettivo fissato dall’art. 5 della L. 40/2004, ovvero l’esistenza in via di entrambi i partner, debba essere riferito al momento dell’accesso alle tecniche di PMA, che coincide con l’informativa, atteso che il consenso di cui all’art. 6 è revocabile solo fino alla formazione dell’embrione.
Qualora la fecondazione dell’ovulo si verifichi prima della morte del coniuge, il decesso non può quindi ritenersi ostativo all’impianto in quanto non si pone un problema di attualità del consenso essendosi già consumato lo spatium deliberandi dei due membri della coppia. Tale soluzione inoltre risponde all’esigenza di garantire adeguata tutela all’embrione umano secondo lo spirito della L. 40/2004.
4.Nel caso in esame, come risulta dalla documentazione sanitaria acquisita dall’Azienda Ospedaliera, il decesso del sig. T. è tuttavia intervenuto prima della fecondazione dell’ovulo per cui, non essendovi alcun embrione formato, la fattispecie ricade nel divieto normativo di fecondazione post mortem.
X , nella evidente consapevolezza di non poter continuare il procedimento avviato in Italia, alla luce delle informazioni acquisite dall’Azienda Ospedaliera in corso di giudizio, in sede di precisazione delle conclusioni, ha insistito esclusivamente nella richiesta di rilascio degli spermatozoi crioconservati in forza della propria qualità di erede e della volontà espressa dal defunto marito.
Se dunque la domanda di portare a termine il percorso procreativo si pone in evidente contrasto con il divieto previsto dalla L. 40/2004, la richiesta di mera consegna degli spermatozoi crioconservati, formulata in maniera “neutra” pone degli ulteriori interrogativi ed impone di valutare se ed a quali limiti sia ammissibile nel nostro ordinamento la successione mortis causa dei gameti umani crioconservati e che rilevanza abbia la finalità per cui il rilascio viene richiesto.
5.1.Secondo una prima tesi (Tribunale di Roma, sez. II, 28 giugno 2013 n. 14146 in Nuovo Diritto Civile, n. 1, 2016) sarebbe da ritenersi pienamente ammissibile la successione mortis causa, sia testamentaria che legittima, dei gameti umani in quanto gli stessi andrebbero qualificati come beni, sottratti al commercio, ma pur sempre appartenenti ad un titolare e quindi trasmissibili anche agli eredi nei limiti di salvaguardia dell’integrità fisica (art. 5 c.c.) e purché non se ne faccia un uso a scopo di lucro.
Secondo tale impostazione, ai fini della trasmissibilità per via ereditaria, alcuna rilevanza assumerebbe l’utilizzo che ne verrà fatto e l’eventuale finalità vietata in quanto “il diritto alla restituzione non è impedito dall’obbligo di utilizzare la cosa ereditata per usi non consentiti, che saranno vietati quando e se posti in essere” (In tal caso la domanda era stata formulata dai genitori del figlio deceduto che manifestavano interesse ad ottenere tali campioni biologici quale “reliquia” del figlio).
5.2. Secondo una seconda tesi, che valorizza le peculiarità dei gameti umani e la loro attitudine riproduttiva, tali da distinguerli dalle altre categorie di campioni biologici, la successione mortis causa dei gameti sarebbe inammissibile in quanto in contrasto con il divieto di fecondazione post mortem.
Si è affermato che “l’autorizzazione alla distruzione dei gameti in caso di morte del depositante corrisponde, data la <> dell’oggetto del contratto e il <> ad un obbligo desumibile dalla legge (il divieto di fecondazione post mortem, collegato con i limiti alla disponibilità delle parti del corso di cui all’art. 5 c.c.) e dalle linee guida elaborate sulla base delle indicazioni del comitato nazionale di bioetica”.
“Secondo l’impostazione assunta dal legislatore italiano del 2004 ed alla quale ci si deve attenere, la specifica finalità della crioconservazione è quella di realizzare in conformità con le norme imperative vigenti nel nostro ordinamento, una futura riproduzione medicalmente assistita tra soggetti viventi, aventi in ogni momento la piena consapevolezza dell’atto da compiersi. Il tenore di tale conclusione impone di ritenere, dopo la morte del donatore, che il liquido seminale non possa essere consegnato al coniuge. L’univoca finalità riproduttiva che tale materiale possiede comporta che il profilo giuridico della sua circolazione non possa essere ricondotto sic et simpliciter al paradigma della proprietà, per cui non entra a far parte del patrimonio degli eredi in virtù delle regole proprie della successione mortis causa. Ciò implica il fatto che una eventuale disposizione testamentaria di segno opposto non possa dunque superare il divieto posto dalla legge…” (Tribunale di Roma, ord. 19 novembre 2018, Foro it., 2019, I, 692).
5.3.Secondo una tesi intermedia (Tribunale di Roma, ord. 8 maggio 2019 che ha riformato l’ordinanza del 21 dicembre 2018, in Foro it, 2019, I, 1952) la soluzione adottata nella sentenza del 2013 non sarebbe condivisibile in quanto frutto di una eccessiva semplificazione poiché assimila il gamete umano ad una qualsiasi altra res, senza tener conto delle sue peculiarità e dello speciale statuto giuridico.
In particolare, seppure viene condivisa la qualificazione giuridica dei gameti come “beni extra commercium”, allo stesso tempo ne viene valorizzato il legame che conservano con il corpo dal quale derivano, dopo la separazione, “in quanto portatori di informazioni personali di carattere sanitario, biologico e genetico, riferibili alla persona a cui appartengono” e “capaci di generare una nuova vita avente uno stretto legame biologico con tale persona”.
“Il diritto di proprietà sul corpo e sulle parti staccate perde una parte delle sue caratteristiche tipiche di (virtualmente) illimitata disponibilità e trasmissibilità ed acquista, per converso, una dimensione di inviolabilità (normalmente estranea al diritto di proprietà come tratteggiato nel nostro diritto) che ne esalta la componente di ius alios excludendi attraverso la centralità e l’indisponibilità del consenso informato dell’avente diritto e la sua revocabilità sostanzialmente illimitata”.
Muovendo da tale premesse, il Tribunale Capitolino -nell’ultima pronuncia citata-ritiene che i gameti non possano trasmettersi sulla base degli “automatismi tipici del diritto successorio (come nella successione legittima, nella quale si prescinde totalmente dalla volontà del de cuius in avente contrasto con l’essenzialità del consenso informato)”;tuttavia non potrebbe negarsi in capo al soggetto la “facoltà di disporne liberamente (quindi, anche mortis causa) purché mediante un’espressa manifestazione di volontà che integri gli estremi di una revoca del consenso informato precedentemente espresso” (con cui era stata autorizzata la distruzione in caso di decesso). Secondo tale orientamento sarebbe irrilevante il possibile futuro uso che il soggetto designato potrà fare di tale materiale biologico in quanto i divieti posti dall’ordinamento “potranno entrare in linea di conto se e quando, eventualmente la parte volesse servirsi dei gameti a fini riproduttivi”; ciò anche in considerazione del fatto che, nel caso esaminato, “la volontà testamentaria espressa dal de cuius non era corredata da alcuna motivazione o indicazione di scopo”.
Sulla base di tale orientamento, a fronte di una richiesta di condotta “neutra” -quale è la mera consegna degli spermatozoi crioconservati-in forza di un atto di ultima volontà del de cuius, non si potrebbe indagare l’utilizzo che il soggetto beneficiario farà di tali gameti trattandosi di un posterius irrilevante ai fini della validità dell’atto negoziale. Ciò in quanto l’esclusione di un bene dalla successione non può dipendere dallo scopo con cui si impiegherà il bene medesimo.
6. In assenza di una chiara e specifica previsione normativa, per rispondere agli interrogativi sollevati, il punto da cui occorre prendere le mosse è lo statuto giuridico dei campioni biologici e più in particolare dei gameti umani.
I campioni biologici, quando si staccano dal corpo, assumono dal punto di vista materiale una loro autonomia ontologica e funzionale rispetto al corpo. Allo stesso tempo, mantengono una indissolubile relazione con ilsoggetto, in quanto estrinsecano il suo patrimonio genetico mantenendo così una dimensione identitaria ed informativa.
Nell’ipotesi di gameti umani, tra le due polarità, rese persona, la seconda appare prevalente in quanto i gameti -come le altre categorie di campioni biologici umani-permettono di identificare il soggetto da cui provengono e fornire informazioni genetiche ma hanno anche la peculiarità di poter generare altri individui.
Se dunque la tendenza più fedele e rispettosa del principio personalistico esclude l’applicazione pura e semplice del modello proprietario nei rapporti tra individuo e parti staccate del proprio corpo, ciò vale, a maggior ragione, per i gameti umani tenuto conto delle loro peculiarità biologiche ovvero della loro capacità riproduttiva.
Non vi è uno statuto giuridico unitario per tutti i materiali biologici (organi, sangue, cellule riproduttive etc.), ma, come osservato in dottrina, dalla normativa in materia di trapianti, trasfusioni, sperimentazione, PMA si può osservare come l’intero sistema normativo sia ispirato al principio del consenso informato, al principio di finalità e caratterizzato da una articolata procedimentalizzazione.
In particolare:
a) Il consenso assume un ruolo fondamentale in tutti gli atti dispositivi che riguardano l’identità personale del soggetto e costituisce un “principio fondamentale in materia di tutela della salute” (Corte Cost. 438/2008).
In materia di PMA il consenso è disciplinato dall’art. 6 della L. 40/2004 e in relazione alle cellule riproduttive l’art. 14, comma 8 prevede che la crioconservazione dei gameti maschili e femminili possa avvenire “previo consenso informato e scritto”.
Poiché il consenso dell’interessato è necessario per chiedere la crioconservazione, parimenti appare necessario, per mantenerla, mutarla e farla cessare e per compiere -nei limiti previsti dalla legge-atti dispositivi.
b)Il regime di circolazione dei campioni biologici è inoltre ispirato al principio di finalità.
Trattasi di un corollario del consenso informato, già affermato sul terreno del trattamento dei dati personali e in materia di diritti della personalità (diritto all’immagine). Questo principio implica che il consenso che legittima l’utilizzo e la disposizione dei campioni biologici dispiega un’efficacia limitatamente all’utilizzo del quale il soggetto sia stato reso edotto e per il quale abbia espresso la propria autorizzazione.
In tal senso depongono almeno due disposizioni normative.
La prima è l’art. 22 della Convenzione di Oviedo, il quale prevede che: “Allorquando una parte del corpo umano è stata prelevata nel corso di un intervento, questa non può essere conservata e utilizzata per scopo diverso da quello per cui è stata prelevata in conformità alle procedure di informazione e di consenso appropriate”.
La seconda è l’art. 5, comma 30, del d.l. n. 3/2006, di attuazione della dir. n. 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche; conformemente a tale disposizione, “la domanda di brevetto relativa ad una invenzione che ha per oggetto o utilizza materiale biologico di origine umana deve essere corredata dell’espresso consenso, libero e informato a tale prelievo e utilizzazione, della persona da cui è stato prelevato tale materiale, in base alla normativa vigente”.
c)Infine, il quadro normativo in materia di campioni biologici è caratterizzato dall’adozione di diversi “procedimenti” che possono implicare requisiti di forma, autorizzazioni preventive, controllo da parte dell’autorità giudiziaria o di altri organi tecnici; la funzione è quella di dare pubblica garanzia della tutela di beni rilevanti (quali la salute di chi dona e di chi riceve), accertare la presenza di tutte le condizioni richieste dalla legge, ivi compresa la “libertà” e la “spontaneità” della determinazione volitiva.
7.1Così ricostruiti i principi informativi della materia si deve quindi escludere, stante la necessità che ogni atto dispositivo sia corredato dal consenso informato dell’interessato, la trasferibilità mortis causa dei gameti crioconservati agli eredi in forza delle norme in materia di successione legittima, in assenza di testamento, poiché così facendo si darebbe esclusivo risalto alla materialità del campione senza tener conto della dimensione personale dei gameti.
7.2.Più complessa è l’ipotesi in cui -come nel caso di specie- vi sia un atto dispositivo mortis causa da parte dell’interessato e quindi l’espressione di un consenso consapevole.
In questo caso, il principio di finalità impone comunque di valutare la ragione per la quale il consenso, libero e consapevole, è stato espresso.
In questo senso, non appare pienamente condivisibile quanto affermato dal Tribunale di Roma nell’ordinanza 8 maggio 2019 sopra richiamata, ovvero che l’utilizzo che sarà fatto dei gameti da parte del beneficiario è questione che non incide sulla validità ed efficacia dell’atto dispositivo e che, qualora vietato dalla legge, esso debba essere oggetto di autonoma sanzione nei confronti degli autori dell’illecito.
Il consenso informato prestato dall’interessato non è infatti un mero consenso all’atto traslativo ma altresì alla destinazione dei gameti e, in quanto tale, ne legittima uno specifico utilizzo (in conformità alle norme imperative in materia).
Una volta che la parte del corpo viene separata dal soggetto, essa è sottoposta ad un regime che ne involge la destinazione fissata; il principio di finalità rappresenta pertanto un limite all’autonomia privata ed alle norme codicistiche in materia di proprietà e successioni in quanto la “finalità” conforma il potere dispositivo e di godimento.
Orbene, nel caso di gameti crioconservati nell’ambito di una procedura di PMA, il consenso espresso a fini procreativi non consente la consegna dei campioni dopo il decesso in quanto il fine della procreazione non è più configurabile dopo la morte dell’interessato, stante il divieto normativo di fecondazione post mortem posto dall’art. 5 L. 40/2004. Né si può ritenere che il soggetto designato possa comunque ottenere il campione per farne un diverso utilizzo (ad es. per destinare i gameti alla ricerca, come “reliquia” del defunto etc), quand’anche lecito, in assenza di un ulteriore e specifico consenso da parte dell’interessato trattandosi di fini diversi da quelli per cui i gameti sono stati crioconservati.
8.1.Venendo al caso di specie, in conclusione, all’attrice non possono essere consegnati i gameti crioconservati del marito defunto in forza della sua qualità di erede universale di Giannece , non essendo ammissibile la successione mortis causa dei gameti in applicazione delle norme codicistiche in materia di successione legittima ab intestato.
8.2.Non è neppure accoglibile la richiesta fondata sull’atto dispositivo con cui il de cuius, revocando il precedente consenso informato alla distruzione dei gameti crioconservati, ha previsto che “in caso di eventuale mio decesso dispongo che non siano eliminati i miei spermatozoi congelati dovendo questi servire per la procreazione futura e fortemente voluta di un figlio con la mia amata X. Essendo questo da entrambi voluto”.
Tale disposizione esprime il consenso dell’interessato ma indica chiaramente la finalità procreativa per cui l’atto è compiuto. Per tale ragione è da ritenersi affetta da nullità per contrarietà a norme imperative stante il divieto di fecondazione post mortem posto dalla legge n. 40 del2004 a cui occorre fare riferimento.
In ogni caso, anche riconducendo il fine espresso alla categoria dei “motivi” – l’atto dovrebbe comunque considerarsi nullo ex art. 626 c.c rappresentando la fecondazione post mortemil motivo illecito determinante che ha indotto T. a disporre la consegna degli spermatozoi crioconservati alla moglie da parte del Centro che li conserva.
Conseguentemente, stante la nullità della seconda manifestazione volitiva, rimane valido ed efficace il precedente consenso informato rilasciato dall’interessato con il quale disponeva la distruzione degli spermatozoi crioconservati in caso di decesso.
8.3.Il fatto che l’attrice abbia formulato una richiesta di mera consegna degli spermatozoi crioconservati, senza richiedere formalmente di poter continuare il processo procreativo (oggetto della domanda principale, rinunciata) non consente comunque di superare il divieto posto dalla L. 40/2004.
La richiesta di una condotta “neutra” come quella della restituzione dei gameti implica infatti un potere dominicale pieno sui gameti invero insussistente, non essendo assimilabili ad un qualsiasi bene mobile.
In un quadro normativo caratterizzato da un elevato grado di procedimentalizzazione e di controllo, la finalità per cui la consegna dei gameti viene richiesta deve essere esplicitata al fine di valutare il rispetto dei limiti e dei vincoli posti dalle norme imperative e la conformità alla destinazione indicata dall’interessato nell’atto di consenso informato(in questo senso, in merito alla richiesta di consegna di embrioni soprannumerari, cfr. Tribunale di Roma, sez. I, 6 marzo 2016, che ha rigettato la domanda proprio per la mancata esplicitazione del fine a cui era rivolta la richiesta).
In ogni caso, la domanda di consegna per un diverso utilizzo da parte dell’attrice -quand’anche consentito (es. utilizzo a scopo di ricerca) non potrebbe comunque essere accolta in assenza di un consenso informato specifico dell’interessato in ordine a tale utilizzo.
9.Infine, nessun rilievo può assumere il principio affermato da Cassazione civile sez. I, 15/05/2019, n.13000, richiamata negli scritti difensivi finali, secondo cui il nato da pratiche di procreazione medicalmente assistita omologa, con l’utilizzo del seme crioconservato di chi sia deceduto prima della formazione dell’embrione -avendo prestato il consenso a quelle pratiche anche “post mortem”-assume lo stato di figlio matrimoniale di quell’uomo.
Tale principio è stato affermato in un caso di fecondazione post mortem effettuata all’estero per cui non veniva in rilievo la liceità o meno di tale pratica secondo la legislazione italiana, ma la disciplina in tema di filiazione da applicarsi al nato sul territorio nazionale per effetto di una tale -illecita o lecita che sia –pratica.
La Corte ha evidenziato che “la circostanza che si sia fatto ricorso all’estero a P.M.A. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse dal nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso”.
Il riconoscimento dello status filiationis, anche nell’ipotesi in cui le parti abbiano avuto accesso all’estero a tecniche vietate nel nostro ordinamento, rappresenta quindi una tutela apprestata ex post nell’ottica di salvaguardare il superiore interesse del minore, in quanto il bambino che è nato non può comunque subire le conseguenze negative derivanti dall’adozione di modalità procreative non consentite nel nostro ordinamento. Ciò non significa tuttavia che possa essere agevolato ex ante il compimento di atti che -nel nostro ordinamento-rimangono illeciti e/o vietati.
10.Alla stregua delle considerazioni che precedono, la domanda proposta non può trovare accoglimento.
Le spese di lite vanno dichiarate irripetibili in considerazione della mancata costituzione della parte convenuta.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente decidendo, così provvede:
– rigettale domande avanzate dall’attrice;
– dichiara irripetibili le spese di lite.
Così deciso il 10 aprile 2020
Il Giudice
dott. Umberto Castagnini
Pubblicazione il 08/05/2020

Il delitto di gelosia e la valutazione degli stati d’animo e della premeditazione.

Cass. pen. Sez. I, 09 luglio 2020, n. 20487
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Potenza;
nel procedimento a carico di:
C.A.;
avverso la sentenza del 11/01/2019 del GIP TRIBUNALE di POTENZA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere TALERICO PALMA;
non essendo pervenuta alcuna richiesta di discussione orale, si procede alla trattazione del ricorso
iscritto sul ruolo odierno, senza l’intervento del procuratore Generale e delle altre parti ai sensi del
D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, conv. con modificazioni in L. 24 aprile 2020, n. 27.
Il Procuratore generale di questa Corte, Dott. Pinelli Mario, ha concluso per iscritto chiedendo il
rigetto del ricorso; in data 11 giugno 2020, sono pervenute le conclusioni del difensore delle parti
civili, con allegata nota spese e il successivo 17 giugno quelle dei difensori dell’imputato, avv.ti
Paolo Carbone e Donatello Cimadoro, che hanno chiesto che il ricorso venga dichiarato
inammissibile.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza dell’11 gennaio 2019, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Potenza
riconosceva C.A. responsabile dell’omicidio volontario di F.R.G.R. nonchè del reato di porto in
luogo pubblico di una pistola Beretta calibro 7,65, con caricatore inserito, utilizzata nell’occasione
e, conseguentemente, lo condannava, unificati gli stessi sotto il vincolo della continuazione,
concessa l’attenuante del vizio parziale di mente, esclusa la ricorrenza delle aggravanti della
premeditazione e dei motivi abietti o futili, operata la riduzione per la scelta del rito, alla pena di
anni dieci, mesi otto di reclusione, nonchè al risarcimento del danno nei confronti delle costituite
parti civili da liquidarsi in separata sede e al pagamento di una provvisionale determinata nella
misura di 20.000.00 per ciascuna di esse; applicava, altresì, le pene accessorie di legge e la misura
di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia per anni tre.
Secondo la pronuncia di merito, il C. il (OMISSIS) si era recato sotto l’abitazione del G., che
riteneva avere una relazione con la moglie per ribadirgli di lasciarla stare, posto che in altra
occasione egli lo aveva affrontato, e, dopo averlo affiancato con l’auto, aveva esploso contro di
questi, numerosi colpi di arma da fuoco con la pistola Beretta calibro 7,65, regolarmente detenuta,
cagionandone la morte.
Alla stregua dei risultati peritali – che avevano accertato che il C. è “affetto da disturbo delirante di
gelosia e persecutorio con pregresso disturbo depressivo maggiore e possibile disturbo bipolare” e
che al momento del fatto la capacità di intendere e di volere del predetto era grandemente scemata
poichè era “totalmente obnubilato da un delirio di gelosia” – il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Potenza, valutate le concrete modalità degli accadimenti, riteneva che il fatto
commesso era “collegato a una patologia preesistente che è esplosa in un delirio di gelosia e in un
atto gravissimo nel quale detto delirio si è clamorosamente palesato”.
Per quanto rileva in questa sede, il giudicante reputava che l’aggravante della premeditazione era
incompatibile con l’accertato vizio parziale di mente del C. alla luce della giurisprudenza di
legittimità, secondo cui l'”apparentemente ferma e irrevocabile risoluzione criminosa che connota la
premeditazione diviene essa stessa il portato necessitato di processi patologici caratterizzati da deliri
e idee ossessive”.
Spiegava che proprio ciò era avvenuto nel caso di specie, in cui “l’idea ossessiva che la povera
vittima avesse una relazione con la Lace (ndr. la moglie dell’imputato) e addirittura con la prima
moglie, induceva il C. a meditare lungamente una reazione, tornando e ritornando su di una idea
fissa e ricorrente, immaginando fatti inesistenti, distorcendo la realtà sino a coltivare un delirio che,
facendogli perdere i contatti col reale, lo induceva a liberarsi del rivale (…) scaricandogli contro un
intero caricatore e non desistendo nel proposito neanche quando il G. era già in terra, gravemente
ferito”.
Quanto al trattamento sanzionatorio, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Potenza
riteneva di determinarlo nella misura indicata, fissando quale pena base per l’omicidio quella di anni
ventitre di reclusione “in ragione della incensuratezza del C. ma anche, nel contempo, della
efferatezza del delitto (ripetuti colpi di pistola di cui alcuni esplosi quando la vittima era già in
terra)”.
2. Avverso detta sentenza il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Potenza ha proposto
ricorso per cassazione, formulando due motivi di impugnazione.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente ha denunciato la “contraddittorietà e l’illogicità della
motivazione con riferimento al disconoscimento della circostanza aggravante della
premeditazione”.
Ha, al riguardo, evidenziato che proprio la “lunga meditazione di una reazione” con il “tornare e
ritornare sull’idea fissa e ricorrente”, evocata nella sentenza impugnata, rappresenta l’essenza
dell’aggravante della premeditazione e la dimostrazione di un fermo e costante radicamento nella
psiche dell’imputato e per un tempo consistente del proposito criminoso; che, inoltre, doveva
escludersi una concreta incompatibilità tra l’aggravante della premeditazione e il disturbo
diagnosticato all’imputato, come si evinceva dal passaggio motivazionale della sentenza in cui si
afferma che “la condizione psicopatologica in cui versava l’imputato era una condizione delirante
nella quale può accadere che il soggetto perda momentaneamente i contatti con la realtà che lo
circonda”; che i riferimenti contenuti nella sentenza in relazione alle dichiarazioni rese dalla moglie
dell’imputato, alle conclusioni peritali in merito all’esclusione del vizio totale di mente, alle
artificiose dichiarazioni del C. sulla reale dinamica dei fatti, volte a depistare le indagini
nell’immediatezza, erano tutte circostanze dalle quali emergeva come il proposito criminoso fosse
stato meditato nel tempo e il suo radicamento rimasto fermo e costante.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente ha denunciato “contraddittorietà e illogicità della
motivazione con riferimento alla determinazione del trattamento sanzionatorio e alle coordinate
normative dettate dagli artt. 132 e 133 c.p.”.
Secondo il ricorrente nell’iter logico – argomentativo della sentenza impugnata relativo al
trattamento sanzionatorio il giudicante ha omesso di considerare il tempo, il luogo e ogni altra
modalità dell’azione, così come pure la capacità a delinquere per come desumibile dal contegno
dell’imputato susseguente al reato (il C. la mattina del (OMISSIS) aveva cercato ossessivamente la
vittima, invano, sul luogo di lavoro, per poi rintracciarla sotto casa e ucciderla con numerosi colpi
di pistola, esplodendo l’ultimo colpo dinnanzi ai familiari della vittima e, quindi, fuggire;
successivamente la condotta dell’imputato era stata connotata da una volontà di alterare la reale
verificazione dei fatti.
Conseguentemente, sempre secondo il ricorrente, era stata inflitta “una pena non adeguata ai
parametri previsti dall’art. 133 c.p. che si colloca a ridosso del minimo edittale”.
3. In data 10 settembre 2019, l’avvocata Francesca Sassano, nella qualità di difensore di fiducia e
procuratore speciale delle costituite parti civili, ha depositato memoria, con la quale ha svolto una
serie di argomentazioni a sostegno della fondatezza del ricorso proposto dal Procuratore della
Repubblica di Potenza.
4. Dopo un preliminare rinvio, è stata disposta la trattazione scritta del processo per l’udienza
odierna, ai sensi del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, conv. con modificazioni in L. 24 aprile
2020, n. 27.
Quindi, il Procuratore generale di questa Corte, Dott. Pinelli Mario, ha concluso per iscritto
chiedendo il rigetto del ricorso; in data 11 giugno 2020, sono pervenute le conclusioni del difensore
delle parti civili, con allegata nota spese, e il successivo 17 giugno quelle dei difensori
dell’imputato, avvocati Paolo Carbone e Donatello Cimadoro, che hanno chiesto che il ricorso
venga dichiarato inammissibile.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e,
comunque, manifestamente infondati.
E, in vero, la sentenza impugnata è conforme alle risultanze peritali e ai principi di diritto più volte
affermati da questa Corte sia in tema di incompatibilità tra vizio parziale di mente e aggravante
della premeditazione, sia in tema di trattamento sanzionatorio.
2. Quanto al primo motivo di ricorso – con il quale si è dedotto, la “contraddittorietà e l’illogicità
della motivazione con riferimento al disconoscimento della circostanza aggravante della
premeditazione” – giova evidenziare che il difetto di motivazione valutabile in cassazione può
consistere solo in una mancanza o in una manifesta illogicità della motivazione stessa; il che
significa che deve mancare del tutto la presa in considerazione del punto sottoposto all’analisi del
giudice e che non può costituire vizio che comporti controllo di legittimità la mera prospettazione di
una diversa e, per il ricorrente, più adeguata, valutazione delle risultanze procedimentali.
Esula, infatti, dai poteri della Corte di legittimità quello di una rilettura degli elementi di fatto posti
a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito,
potendo e dovendo, invece, la Corte accertare se quest’ultimo abbia dato adeguatamente conto,
attraverso l’iter argomentativo seguito, delle ragioni che l’hanno indotto a emettere il
provvedimento.
3. Ebbene, non sembra che le argomentazioni della sentenza impugnata, in precedenza riportate e
alle quali ci si richiama al fine di evitare inutili ripetizioni, possano dirsi manifestamente illogiche.
La decisione impugnata, infatti, con motivazione esente da vizi logici, ha tenuto conto delle
conclusioni peritali, che avevano evidenziato come il C., “affetto da disturbo delirante di gelosia e
persecutorio con pregresso disturbo depressivo maggiore”, aveva sviluppato “un delirio di gelosia
che si era già manifestato con la prima moglie, anche se in forma meno strutturata, ma sempre in
relazione alla vittima” e che “da ultimo, al delirio di gelosia si è aggiunto un delirio di veneficio”,
sicchè, al momento del fatto, l’imputato era completamente ossessionato.
Ha, altresì, messo in evidenza che tale manifestazione morbosa di gelosia era incentrata sull’idea
che la moglie avesse una relazione con la vittima e che attorno a questa idea ossessiva si fossero
sviluppate vistose distorsioni della realtà che si erano spinte fino a indurre il C. a “coltivare un
delirio che, facendogli perdere i contatti col reale, lo induceva a liberarsi del rivale”.
E sulla base di tali evenienze, ha congruamente ritenuto che il processo volitivo caratterizzante
l’aggravante della premeditazione fosse stato concretamente influenzato dagli evidenziati aspetti
patologici correlati alla formazione e alla persistenza della volontà criminosa.
4. Tale argomentare è, a giudizio del Collegio, perfettamente conforme ai principi di diritto fissati
da questa Corte in tema di incompatibilità tra il vizio parziale di mente e l’aggravante in parola.
Più specificatamente, è stato affermato che “nell’ipotesi di accertato grave disturbo della personalità,
funzionalmente collegato all’agire e tale da incidere, facendola scemare grandemente, sulla capacità
di volere, l’accertamento della circostanza aggravante della premeditazione richiede un approfondito
esame delle emergenze processuali che porti ad escludere, con assoluta certezza, che la persistenza
del proposito criminoso sia stata concretamente influenzata da uno degli aspetti patologici correlati
alla formazione od alla persistenza della volontà criminosa” (Cass. Sez. 1, n. 17606 del 08/03/2016,
Rv. 267714; conformi, tra le tante, Cass. Sez. 1 n. 25608 del 21/05/2013, Rv. 255917, secondo cui
“la premeditazione può risultare incompatibile con il vizio parziale di mente nella sola ipotesi in cui
consista in una manifestazione dell’infermità psichica da cui è affetto l’imputato, nel senso che il
proposito coincida con un’idea fissa ossessiva facente parte del quadro sintomatologico di quella
determinata infermità”; Cass. Sez. 1, n. 9015 del 04/02/2009, Rv. 242878).
5. A fronte di ciò, le censure del ricorrente, in buona sostanza, riproducono profili già
adeguatamente vagliati dal giudice di merito con corretta e adeguata motivazione, e le stesse
finiscono con il prefigurare una rivalutazione e/o alternativa rilettura delle fonti probatorie, estranee
al sindacato di legittimità.
6. Quanto al secondo motivo di ricorso, lo stesso è inammissibile perchè afferente al trattamento
sanzionatorio benchè sorretto da sufficiente e non illogico argomentare.
E invero, il giudice di merito, nel procedere alla determinazione della pena base per l’omicidio
(peraltro, individuata in misura quasi pari al massimo edittale di anni ventiquattro di reclusione), ha
preso in considerazione i criteri tutti di cui all’art. 133 c.p., in particolare le modalità del fatto,
definito “efferato”, che lo hanno indotto anche a ritenere il C. non meritevole della concessione
delle circostanze attenuanti generiche.
Anche con riguardo a tale aspetto, quindi, il ricorso è meramente confutativo.
7. Nulla deve essere disposto in favore delle costituite parti civili, essendo stato il ricorso proposto
dalla parte pubblica.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2020.
Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2020