Il solo esame obiettivo non può accertare di per sé l’insussistenza di postumi invalidanti permanenti

Cassazione civile, sez. VI, 01 Luglio 2020, n. 13292. Pres. De Stefano. Est. Cigna.
Fatto
Con citazione 24-10-2011 A.B. convenne in giudizio dinanzi al Giudice di Pace di Torre Annunziata F.R. e l’INA ASSITALIA SpA per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni subiti in occasione del sinistro verificatosi il giorno 3-10-2010 in (*) , allorquando, mentre era intenta ad attraversare la strada sulle strisce pedonali, era stata investita dall’autovettura Renault Twingo, di proprietà della F. ed assicurata per la rca con la detta Compagnia, a seguito di negligente manovra di retromarcia, riportando lesioni personali consistenti in “trauma scheletrico coscia dx. Trauma articolare coxofemorale dx, bacino con S.L.O.”
Si costituì la Generali Business Solution S.c.p.A., in qualità di mandataria e rappresentante dell’INA ASSITALIA SpA, contestando l’”an” ed il “quantum debeatur”; F.R. rimase contumace.
Con sentenza 1781/2012 l’adito Giudice di Pace dichiarò la F. esclusiva responsabile del sinistro e condannò i convenuti in solido al pagamento di Euro 7.591,35, oltre interessi e spese.
Con sentenza 2593/2018 del 28-11-2018 il Tribunale di Torre Annunziata, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla Compagnia, ridusse la condanna alla somma di Euro 2.306,06, comprensiva di interessi e rivalutazione; in particolare il Tribunale limitò il risarcimento ai postumi di natura temporanea (e ad Euro 10,00 per spese), ed escluse invece il risarcimento per i postumi permanenti per come richiesti dalle tabelle delle micropermanenti di cui D.M. 3 luglio 2003, non evincendosi dalla CTU nè un esito doloroso nè una limitazione funzionale; nello specifico evidenziò, infatti, che il CTU, da un lato, aveva effettuato l’esame obiettivo e nulla aveva rilevato in ordine ad esiti permanenti per come precisati dalle dette tabelle (dall’esame risultava infatti non dolente la palpopressione del bacino, completo l’accosciamento, nella norma dell’età i movimenti); dall’altro, aveva ritenuto, in base alle “risultanze dell’esame obiettivo” che residuavano postumi permanenti, rappresentati da “esiti di frattura branca ischio pubica di dx”, che configuravano una percentuale di danno biologico pari al 3,5%.
Avverso detta sentenza A.B. propone ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi.
F.R. e Generali Business Solution S.c.p.A non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3-violazione e/o errata applicazione degli artt. 112, 113 c.p.c., degli artt. 2043, 2054 e 2056 c.c., del D.L. n. 1 del 2012, del art. 139 Cod. Ass. e del D. 3 LUGLIO 2003 con riferimento agli artt. 2 e 32 Cost., si duole che il Tribunale, sulla sola base dell’esame obiettivo con le risultanze di cui sopra (assenza di dolore ed accosciamento completo) effettuato sei anni dopo l’incidente, abbia accertato la sussistenza esclusivamente del danno attinente all’inabilità temporanea, senza riconoscere anche il danno biologico di natura permanente, derivante dalla documentata “frattura branca ischio pubica di dx”.
Con il secondo motivo la ricorrente, in subordine, denunzia – ex art. 360 c.p.c., n. 5 – la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per il mancato esame, da parte del Giudice d’Appello, delle risultanze della CTU in ordine alle valutazioni strumentali.
Con il terzo motivo la ricorrente, in subordine, denunzia – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione degli artt. 112, 113, 99, 91 e 92 c.p.c., dolendosi che il Tribunale l’abbia condannata alle refusione parziale delle spese di lite relative al grado d’appello.
Il primo motivo è fondato, con conseguente assorbimento degli altri due, proposti in via subordinata.
Come già precisato da questa S.C., “in tema di risarcimento del danno da cd. micropermanente, la disposizione contenuta nel D.L. n. 1 del 2012, art. 32, comma 3 ter, conv., con modif., dalla L. n. 27 del 2012, costituisce non già una norma di tipo precettivo, ma una “norma in senso lato”, a cui può esser data un’interpretazione compatibile con l’art. 32 Cost., dovendo essa esser intesa nel senso che l’accertamento del danno alla persona deve essere condotto secondo una rigorosa criteriologia medico-legale, nel cui ambito, tuttavia, non sono precluse fonti di prova diverse dai referti di esami strumentali, i quali non sono l’unico mezzo utilizzabile ma si pongono in una posizione di fungibilità ed alternatività rispetto all’esame obiettivo (criterio visivo) e all’esame clinico” (Cass. 26249/2019)
Il solo esame obiettivo, pertanto, non può comportare, di per sé, l’insussistenza di postumi invalidanti permanenti, in contrasto con quanto affermato dalla stessa CTU e con la documentata “frattura branca ischio pubica di dx”.
Al riguardo va, inoltre, evidenziato che la stessa tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità di cui al D.M. 3 luglio 2003 comporta un danno biologico permanente da 3 a 5% per “esiti attendibilmente dolorosi di frattura extra articolare di bacino ben consolidata e in assenza o con sfumata ripercussione funzionale”.
Erroneamente, pertanto, il Tribunale, sulla sola base delle risultanze dell’esame obiettivo, ha escluso il risarcimento per i postumi permanenti, senza considerare la documentata “frattura branca ischio pubica di dx” e la stessa su menzionata tabella.
In conclusione, quindi, va accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento degli altri due; per l’effetto, va cassata, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza, con rinvio al Tribunale di Torre Annunziata, in persona di diverso Magistrato, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso; assorbiti gli altri due; cassa, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di Torre Annunziata, in persona di diverso Magistrato.

Funzione assistenziale, compensativa e perequativa dell’assegno divorzile

Cassazione civile, sez. I, 28 Febbraio 2020, n. 5603. Pres. Rosa Maria Di Virgilio. Est. Valitutti.
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 19112/2015 proposto da:
A.B., elettivamente domiciliato in Roma, Via *, presso lo studio dell’avvocato B. M. T., che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato F. F., giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
P.D.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 261/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 02/02/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 29/11/2019 dal Cons. Dott. VALITUTTI ANTONIO.

Svolgimento del processo
1. Con decreto del 27 marzo 2007, il Tribunale di Rovigo omologava la separazione consensuale dei coniugi A.B. e P.D., ponendo a carico del marito – in assenza di figli nati dal matrimonio concordatario, celebrato il (*) – un assegno di mantenimento a favore della moglie, nella misura di Euro 150,00 mensili. Con successiva sentenza n. 146/2013, il Tribunale di Rovigo – su ricorso di A.B. – pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso, elevando ad Euro 300,00 mensili, rivalutabili annualmente secondo indici Istat, l’assegno di mantenimento a favore della P.. 2. La Corte d’appello di Venezia, con sentenza n. 261/2015, depositata il 2 febbraio 2015, rigettava l’appello proposto da A.B., confermando in toto la decisione di primo grado. La Corte territoriale riteneva la situazione economica del marito – il quale svolgeva l’attività retribuita di autista – migliore di quella della moglie, che esercitava un’attività irregolare (prestazioni di manicure) e non fissa, laddove – al tempo della separazione – la medesima risultava regolarmente assunta presso lo stesso salone di parrucchiere-estetista.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha, quindi, proposto ricorso A.B. nei confronti di P.D., affidato a due motivi, illustrati con memoria ex art. 380 bis. 1. c.p.c.. L’intimata non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, A.B. denuncia la violazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
1.1. Il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello, sebbene fosse stata raggiunta in giudizio la prova della capacità lavorativa e reddituale della P., abbia fondato la conferma dell’obbligo per il marito di corrispondere un assegno di mantenimento alla moglie esclusivamente sul rilievo che la saltuaria occupazione, dalla medesima svolta dopo la separazione, non era tale da assicurarle un tenore di vita almeno tendenzialmente analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio. In siffatta, erronea, prospettiva, l’assegno era stato addirittura elevato, rispetto a quanto convenuto in sede di separazione.
1.2. Il motivo è fondato.
1.2.1. Il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede, invero, l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
1.2.2. La natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, conduce, quindi, al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente, non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata, peraltro, alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (Cass. Sez. U., 11/07/2018, n. 18287; Cass., 23/01/2019, n. 1882).
1.2.3. Tanto premesso, va rilevato che, nel caso di specie, la Corte veneta non si è attenuta ai principi di diritto suesposti.
1.2.3.1. Il mantenimento dell’assegno, stabilito dal Tribunale nella misura di Euro 300,00 mensili (il doppio di quanto stabilito in sede di separazione), è stato, invero, giustificato dal giudice di appello esclusivamente sulla base del criterio – la cui rilevanza è stata, invece, esclusa dall’indirizzo più recente della giurisprudenza di legittimità – dell’inidoneità del guadagno ricavato dalla moglie, in forza dell’attività lavorativa prestata, a consentirle un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio. E ciò in quanto tale attività – non essendo più la P. assunta presso il salone di bellezza, presso il quale prestava attività dipendente al tempo della separazione – sarebbe saltuaria ed irregolare sotto il profilo fiscale e previdenziale.
1.2.3.2. La Corte territoriale non ha, per contro, operato – ai fini di pronunciarsi in ordine alla spettanza, o meno, dell’assegno divorzile ed alla corretta quantificazione dello stesso – un’effettiva valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, mancando qualsiasi accertamento, a fronte dell’indicazione del reddito (Euro 1.850,00 mensili) percepito dal marito, in ordine all’effettivo guadagno che la P. realizza con l’attività svolta, che comunque – in quanto in concreto accertata evidenzia una capacità lavorativa e reddituale della medesima. E ciò al fine di stabilire – in applicazione del, sopra enunciato, principio di solidarietà – se tale guadagno sia tale da consentire, o meno, alla donna di mantenere un livello di vita dignitoso.
1.2.3.3. E’ del tutto mancata, infine, la valutazione in ordine al contributo dato dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale dell’ex coniuge, in relazione alla durata del matrimonio, secondo i principi enunciati dalla giurisprudenza succitata.
1.3. Per tali ragioni, il motivo va accolto, restandone assorbito il secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto la valutazione del materiale istruttorio da parte della Corte d’appello.
2. L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame del merito della controversia, facendo applicazione dei principi di diritto suesposti, e provvedendo, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbito il secondo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Dispone, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, che in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, il 29 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020

Deontologia e diffamazione fra avvocati a mezzo fax.

Cass. pen. Sez. V, 11 giugno 2020, n. 17958;
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
parte civile P.C. nata a (OMISSIS);
nel procedimento a carico di:
C.R., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 05/02/2019 del TRIBUNALE di UDINE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Elisabetta Maria Morosini;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Orsi Luigi, che ha
concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore della parte civile, avv. Lina Caputo, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del
ricorso e depositando conclusioni scritte e nota spese;
udito il difensore dell’imputato, avv. Emanuela Vergine, che ha concluso chiedendo il rigetto del
ricorso della parte civile.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata il Tribunale di Udine, investito dell’appello proposto dalla parte civile
P.C., ha confermato la sentenza con cui il giudice di pace aveva assolto C.R. dal reato di
diffamazione, perché “non punibile per la ritenuta provocazione”.
Il fatto consisteva nell’avere l’imputato, di professione avvocato, inviato in data 28 marzo 2014 un
fax all’avv. Federica Tosel – legale della P. che rivendicava nei confronti del primo il pagamento
delle prestazioni rese dal proprio negozio di lavanderia – del seguente tenore: “su quanto riferitole,
v’è ben poco da replicare se non che tali vaneggiamenti si attagliano appieno alla veste lavorativa
della Sua assistita”.
I giudici di merito hanno riconosciuto la valenza diffamatoria dello scritto, ma hanno ritenuto che il
fatto fosse stato commesso nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di
esso.
Il fax dal contenuto diffamatorio era stato preceduto da un fax trasmesso in data 27 marzo 2014
dagli avvocati Federica Tosel e Alessandro Tosel, che, per conto della P., contestavano al C. di aver
in precedenza lanciato al volto della donna, per tacitarne le pretese, una banconota da 500 Euro
all’interno di un locale pubblico.
Questa accusa sarebbe ingiusta perché non veritiera, in quanto sarebbe stata P.C. a lanciare la
banconota, ricevuta dal C., al C. stesso e non viceversa, come dichiarato dai testimoni Z. e B.
presenti all’episodio svoltosi all’interno del bar.
2. Avverso la pronuncia ricorre la parte civile P.C., tramite il difensore e procuratore speciale,
articolando un unico motivo con il quale denuncia violazione di legge.
Dopo aver premesso che il giudice di secondo grado, a differenza del giudice di pace, ravvisava il
fatto ingiusto non in una condotta scomposta della persona offesa (lancio della banconota) bensì
nell’invio di una missiva da parte dei legali di quest’ultima.
Sostiene la ricorrente che, su tali basi, difetterebbero i presupposti della esimente della
provocazione, in quanto:
– il fax trasmesso il 27 marzo 2014 dagli avvocati Federica Tosel e Alessandro Tosel all’avv. C.
(collega e parte in causa) era misurato nei toni e nei contenuti;
– esteso non può integrare gli estremi del “fatto ingiusto” di cui all’art. 599 c.p. si da giustificare la
reazione scomposta del destinatario che, in replica ai propri colleghi, ha insultato la persona dagli
stessi rappresentata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato.
2. E’ pacifico che non costituisce “fatto ingiusto” lo scambio di corrispondenza tra avvocati in
relazione a una contesa.
Il caso di specie però è diverso.
La missiva degli avvocati Tosel, recante in calce la firma della P., è diretta all’avv. C., che viene
direttamente chiamato in causa essendo parte della controversia afferente il pagamento di
prestazioni fornite in suo favore dal negozio di lavanderia della P..
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, insindacabile in questa sede, la missiva degli
avvocati Tosel rivolge al C. un’accusa non rispondente al vero: quella di aver tenuto un
comportamento censurabile ai danni della P., quando invece era stato il C. a patire quella condotta
per mano della P..
Non è quindi la forma dell’atto a costituire fatto ingiusto, ma il contenuto della lettera di
contestazione laddove attribuisce al C. un fatto deprecabile non commesso, ma subito.
Con un apprezzamento in fatto, incensurabile nel giudizio di legittimità, il Tribunale ha ravvisto il
carattere dell’ingiustizia obiettiva nelle “false accuse” di cui al fax del 27 marzo 2014 che hanno
scatenato la reazione irosa del C. con il fax del 28 marzo, certamente diffamatorio, ma ritenuto non
punibile ai sensi dell’art. 599 c.p.
Il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi enucleati dalla giurisprudenza di legittimità
secondo cui “ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono: a) lo “stato
d’ira”, costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in
rapporto di immediatezza con il “fatto ingiusto altrui”; b) il “fatto ingiusto altrui”, che deve essere
connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole
giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato
momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità
personale; c) un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l’offesa e la
reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche
adeguatezza tra l’una e l’altra condotta” (cfr. da ultimo Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv.
275894).
3. Consegue il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 5 marzo 2020.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2020

Condotte previste dalla fattispecie di pornografia minorile.

Cass. pen. Sez. III, 10 giugno 2020, n. 17803
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
R.V., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 14/12/2018 della CORTE APPELLO di MESSINA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ANGELO MATTEO SOCCI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. FIMIANI PASQUALE, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza;
Il difensore delle parti civili, Avv. Mariacristina Cuzzola, deposita conclusioni scritte alle quali si riporta e nota spese delle quali chiede la liquidazione.
Dichiara l’ammissione a gratuito patrocino.
Il difensore dell’imputato, Avv. Carlo Autru Ryolo, chiede l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Messina con sentenza del 14 dicembre 2018, in parziale riforma della
decisione del Tribunale di Messina del 16 febbraio 2017, ha assolto R.V. dal reato di cui agli artt.
81, 609 quater e 609 septies c.p. – capo A – perché il fatto non sussiste e rideterminata la pena per la
residua imputazione – capo B – in anni 8 e mesi 2 di reclusione (art. 81 e 600 ter c.p. e art. 600
sexies c.p., comma 1, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso,
commesse anche in tempi diversi, riprendendo i minori P.A., P.R. e Pa.Ro. nell’atto di compiere atti
sessuali tra loro e con R.V., realizzava materiale pornografico. Con l’aggravante di aver commesso
il fatto in danno di minore degli anni 14. Commesso fino a novembre 2010).
2. L’imputato ha proposto ricorso in cassazione per i motivi di seguito enunciati, nei limiti
strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
2. 1. Violazione di legge (art. 283 c.p.p., comma 2 bis) per l’utilizzazione contro l’imputato delle
dichiarazioni rese in altro processo penale nel quale non partecipava il difensore dell’odierno
imputato.
Nel procedimento principale in esito all’annullamento della decisione della Corte di appello di
Messina da parte della Cassazione con la sentenza n. 2653 del 16 maggio 2017 erano riascoltati i
minori P.R. e Pa.Ro.. All’audizione non partecipava il difensore del ricorrente non essendo egli
parte del processo.
Senza un formale provvedimento di acquisizione delle dichiarazioni in oggetto le stesse sono state
ampiamente valutate dalla Corte di appello, anzi la condanna si basa esclusivamente su dette
dichiarazioni che ai sensi dell’art. 283 c.p.p., comma 2 bis, sono da ritenersi inutilizzabili per
l’assenza del difensore al momento delle dichiarazioni, in altro procedimento penale.
Le dichiarazioni in oggetto comunque sono in parte favorevoli all’imputato (da ciò l’assoluzione per
il capo A) poiché i minori escludevano categoricamente la consumazione di rapporti sessuali con il
ricorrente.
2. 2. Mancanza e manifesta illogicità della motivazione relativamente all’affermazione della
responsabilità, con travisamento delle prove.
La Corte di appello valuta esclusivamente le dichiarazioni dei minori alla Corte di appello in altro
processo, di cui si è eccepita l’inutilizzabilità. L’attendibilità delle dichiarazioni è posta in serio
dubbio dalle precedenti dichiarazioni dei minori che avevano falsamente dichiarato di aver avuto
rapporti sessuali con il ricorrente per poi smentirli categoricamente. La Corte di appello, però,
illogicamente ritiene costanti le dichiarazioni dei minori e, quindi, attendibili. Inoltre, la sentenza
ritiene minuziose e dettagliate le dichiarazioni, ma manca qualsiasi indicazione da parte dei minori
degli strumenti utilizzati per la realizzazione dei filmini e sui soggetti ripresi dagli eventuali filmati.
L’attendibilità dei minori andrebbe meglio valutata in relazione soprattutto alle prime dichiarazioni
non inquinate. La Corte di appello omette di citare le contrastanti dichiarazioni di Pa.Ro. e le
diverse dichiarazioni dei due minori persone offese, sostenendo la reiterazione delle accuse nei
confronti dell’imputato in palese contrasto con le risultanze dibattimentali.
La Corte di appello omette comunque di valutare prove rilevanti e determinanti: verbale di
dichiarazioni testimoniali del 3 settembre 2011 nel quale P.R. non attribuisce al ricorrente alcun
ruolo, sia nelle violenze e sia nel filmare i rapporti sessuali; relazione della Dott.ssa D.P., acquisita
in udienza, dalla quale emergeva che, dalle dichiarazioni dei due minori, il ricorrente (definito E. il
(OMISSIS)) non aveva fatto niente né sesso e neanche filmini (“registro”); dichiarazioni della
Dott.ssa Pi. in Corte di appello il 9 novembre 2018 dalle quali emergeva che la minore Pa.Ro. non
presentava segni di violenze sessuali; denuncia per il reato di falsa testimonianza nei confronti di G.
e So. da parte del ricorrente.
2. 3. Totale assenza della motivazione relativamente alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale in appello. La sentenza di appello avendo ricostruito il fatto in maniera difforme
dalla decisione di primo grado avrebbe dovuto motivare in maniera rafforzata, invece manca
qualsiasi motivazione sulla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale formulata con il
terzo motivo dell’atto di appello. Non si comprende neanche se la Corte abbia acquisito o no le
S.I.T. allegate all’atto di appello sulle quali c’era stato il consenso delle parti all’acquisizione. La
richiesta di rinnovazione assumeva un particolare aspetto proprio per l’acquisizione delle
dichiarazioni dei minori rese in altro processo e sulle quali si è fondata la condanna per il capo B
dell’imputazione.
2. 4. Contraddittorietà della motivazione.
La sentenza afferma che sussiste la prova evidente della violenza sessuale da parte dell’imputato,
ma contraddittoriamente assolve lo stesso dal reato, perché il fatto non sussiste.
Contraddittoriamente la sentenza richiama tutta la motivazione del primo grado ma poi ricostruisce
il fatto in maniera diversa con l’assoluzione per il capo A. 2. 5. Violazione di legge (art. 600 ter
c.p.).
Elemento centrale del reato e l’esistenza oggettiva di materiale pedopornografico. Nel caso in
giudizio non è stato rinvenuto alcun materiale pedopornografico. I due minori non sono stati in
grado di riferire con quale strumento erano effettuati i pretesi filmini, e neanche il contenuto degli
stessi. Casomai i fatti andrebbero qualificati nell’art. 600 ter c.p., comma 6 con relativa prescrizione
del reato.
2. 6. Mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione, con travisamento della prova
(verbale di perquisizione e sequestro).
La Corte di appello avrebbe dovuto spiegare in base a quali elementi poteva ritenersi raggiunta la
prova sulla sussistenza della condotta addebitata al ricorrente. I due minori sono stati imprecisi sulla
sussistenza di filmati, anche relativamente alla strumentazione usata e al loro contenuto. Manca
qualsiasi prova oggettiva della reale sussistenza di filmini pedopornografici. I soggetti erano minori
all’epoca dei fatti e, quindi, avrebbero potuto equivocare sulla funzione dell’imputato al momento
dei fatti, egli poteva usare un telefonino non per registrare filmati.
Inoltre, le eventuali riprese potrebbero essere solo di maggiorenni.
L’imputato è stato perquisito, il 24 marzo 2011, e nessun elemento di prova nei suoi supporti
informatici (un P.C. portatile, due telefonini, una macchina fotografica e diversi CD) è stato
rinvenuto.
Tale dato della perquisizione risulta oggettivamente inconciliabile con la valutazione della Corte di
appello dell’esistenza di filmini pedopornografici. Il ragionamento della Corte di appello per l’esito
della perquisizione, negativo, risulta totalmente illogico.
2. 7. Contraddittorietà della motivazione, con travisamento della prova.
La Corte di appello travisando le prove ha ritenuto responsabile il ricorrente per il capo B
dell’imputazione. La foto n. 7 dell’imputato, dell’album fotografico mostrato alla minore Ro., non è
stata riconosciuta. La minore nell’audizione davanti alla Corte di appello, citata, riconosceva,
invece, quale autore delle registrazione dei filmati il soggetto della foto n. 4.
Tutto questo si pone in radicale contrasto con la sicurezza della prova (del riconoscimento del
ricorrente) ritenuta dalla sentenza impugnata. Anche P.R. nel verbale di dichiarazioni testimoniali
del 3 settembre 2011 pur riconoscendo il ricorrente non attribuiva allo stesso nessun ruolo nelle
violenze sessuali e nei filmati.
La Corte di appello avrebbe dovuto meglio valutare le incertezze sui riconoscimenti fotografici
come anche affermato nella sentenza della Cassazione che ha annullato la sentenza della Corte di
appello di Messina nel procedimento principale di cui alle violenze sessuali contro i due minori
(Cassazione n. 2653/2016). Infatti, solo R. riconosceva l’imputato, ma in ben due dichiarazioni
precedenti aveva escluso che questi effettuasse delle riprese video.
Il semplice riconoscimento in dibattimento non è da solo idoneo ad affermare la responsabilità in
presenza di diverse dichiarazioni precedenti.
Inoltre, alcuni genitori avevano dichiarato che il fantomatico E. (responsabile delle video riprese)
era possessore di una Jeep gialla e il ricorrente mai ha avuto l’uso di una tale vettura.
2. 8. Violazione di legge (art. 600 ter c.p. e art. 2) nella parte in cui erroneamente la Corte di appello
ha ritenuto che per i fatti commessi prima del 2012 si configura il reato anche senza l’accertamento
di un pericolo di diffusione.
La Corte di appello richiama acriticamente la decisione delle Sezioni Unite della Cassazione (n.
51815/2018) e ritiene che non sia necessario accertare il pericolo di diffusione del materiale
pedopornografico per la configurabilità del reato.
La sentenza impugnata non si confronta con le problematiche connesse all’applicabilità della norma
(come interpretata dalle Sezioni Unite della Cassazione), ai fatti commessi sino al novembre 2010.
La questione è diversa dal c.d. overruling in malam partem (che potrebbe venire in rilievo per le
condotte commesse dopo l’entrata in vigore della L. n. 172 del 2012). Anche se nella decisione delle
Sezioni Unite c’è il riferimento alle modifiche del 2006 (L. 6 febbraio 2006, n. 38) il principio di
diritto (emergente dalla lettura della motivazione) riguarda la nuova fattispecie come risultante dalle
modifiche del 2012, con la L. n. 172.
E’ evidente, quindi, la violazione dell’art. 2 c.p. per l’erronea applicazione dell’art. 600 ter c.p. nella
formulazione attuale invece che in quella vigente all’epoca dei fatti. La sentenza per l’accoglimento
di questo motivo potrebbe annullarsi senza rinvio in quanto la stessa decisione di merito esclude il
pericolo della diffusione del materiale pedopornografico.
2. 9. Mancanza della motivazione sul trattamento sanzionatorio.
La Corte di appello nel quantificare la pena ha eliminato solo l’aumento per la continuazione per il
capo A, senza rideterminare la pena base. Invero tenuto conto della rivisitazione della vicenda la
pena andava irrogata nel minimo edittale.
2. 10. Violazione di legge (art. 62 bis c.p.) e mancanza della motivazione.
L’assoluzione dell’imputato per il capo A avrebbe dovuto indurre la Corte di appello a rivalutare il
giudizio sulla gravità dei fatti.
La sentenza usa mere formule di stile che non possono considerarsi motivazione adeguata.
2.11. Con successiva memoria l’imputato ha ribadito l’insussistenza oggettiva del reato di cui all’art.
600 ter c.p. e, comunque, il vizio della motivazione della sentenza impugnata, in merito alla
valutazione delle prove; inoltre, l’identificazione del ricorrente risultava dubbia, dalle stesse
contraddittorie dichiarazioni dei due minori.
Ha chiesto pertanto l’annullamento della decisione impugnata.
Motivi della decisione
3. Il ricorso risulta fondato relativamente alla motivazione sulla sussistenza dell’elemento oggettivo
del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1.
Al ricorrente è contestato di aver ripreso i minori (realizzazione di materiale pornografico) nell’atto
di compiere atti sessuali tra loro e con R.V.. Per i reati di cui al capo A (artt. 81, 609 quater e 609
septies c.p.) il ricorrente è stato assolto perché il fatto non sussiste.
3. 1. Il concreto pericolo di diffusione del materiale pedopornografico, eventualmente detenuto e
prodotto dal ricorrente non risulta rilevante. Sul punto le Sezioni Unite di questa Corte,
ultimamente, hanno affermato che per la configurabilità del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma
1, non è necessario l’accertamento del pericolo di diffusione del materiale pedopornografico: “Ai
fini dell’integrazione del reato di produzione di materiale pedopornografico, di cui all’art. 600-ter
c.p., comma 1, non è richiesto l’accertamento del concreto pericolo di diffusione di detto materiale”
(Sez. U, n. 51815 del 31/05/2018 – dep. 15/11/2018, M, Rv. 27408701).
L’accertamento del pericolo di diffusione sicuramente è condizione in favor rei, e quindi bisogna
valutare se il mutamento di giurisprudenza sia applicabile, o no, anche alle condotte precedenti (art.
2 c.p. e art. 7 CEDU).
L’art. 7 della CEDU – così come conformemente interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU
– non consente l’applicazione retroattiva dell’interpretazione giurisprudenziale di una norma penale
nel caso in cui il risultato interpretativo non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la
violazione è stata commessa. (Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013 – dep. 29/08/2013, Agrama e altri,
Rv. 25658401; vedi anche Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016 – dep. 24/05/2016, P.G., P.C. e altro in
proc. Tronchetti Provera, Rv. 26716401, e Sez. 5, n. 42996 del 14/09/2016 – dep. 12/10/2016, P.M.,
P.C. in proc. Ciancio Sanfilippo, Rv. 26820301).
Tuttavia, nel caso in giudizio la stessa decisione delle Sezioni Unite citata (n. 51815 del 31/05/2018
– dep. 15/11/2018, M, Rv. 27408701) esclude la sussistenza di overruling (“Fatta questa premessa,
deve rilevarsi che, in riferimento alla questione qui in esame, il problema dell’overruling in malam
partem non viene comunque in rilievo, essendo ormai generalizzato – come visto – il pericolo di
diffusione del materiale realizzato utilizzando minorenni; con la conseguenza che l’esclusione di
tale pericolo quale presupposto per la sussistenza del reato non determina in concreto un
ampliamento dell’ambito di applicazione della fattispecie penale, essendo completamente mutato il
quadro sociale e tecnologico di riferimento ed essendo parallelamente mutato anche il quadro
normativo sovranazionale e nazionale”).
Non risulta, pertanto, rilevante, nel nostro caso, l’accertamento del concreto pericolo di diffusione di
detto materiale.
Lo stesso ricorrente, del resto, non prospetta la questione dell’overruling, ma altra questione.
4. La questione assorbente e preliminare che viene in rilievo nel caso in giudizio è la sussistenza o
no della stessa produzione di materiale pornografico, questione evidentemente preliminare e
assorbente su tutti gli altri motivi di ricorso. Sul punto le due sentenze di merito non forniscono
adeguata risposta alle critiche specifiche della difesa del ricorrente.
Nella sentenza impugnata si ritiene elemento certo la realizzazione di filmini e foto da parte del
ricorrente dei minori nell’atto di compiere atti sessuali. Tuttavia, dalle stesse dichiarazioni dei
minori, riportate nelle sentenze di merito, emerge come non è chiaro che tipo di riprese fossero
effettuate, con quale strumento di ripresa e in quali momenti delle vicende sessuali in accertamento.
Invero, “In tema di pornografia minorile, la definizione introdotta nell’art. 600-ter c.p., dalla L. 1
ottobre 2012, n. 172, art. 4, comma 1, lett. h) (ratifica ed esecuzione della Convenzione di
Lanzarote del 25 ottobre 2007) si caratterizza per il suo maggior rigore rispetto a quella precedente
(desunta dalla L. 11 marzo 2002, n. 46 di ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione sui
diritti dell’infanzia stipulato a New York il 6.9.2000), in quanto si contenta della rappresentazione
“per scopi sessuali” degli organi genitali del minore e non esige più l’esibizione lasciva degli stessi.
Pertanto, essa non può trovare applicazione nelle fattispecie realizzatesi prima dell’entrata in vigore
della L. n. 172 del 2012 ” (Sez. 3, n. 3110 del 20/11/2013 – dep. 23/01/2014, C, Rv. 25931701; vedi
anche Sez. 5, n. 33862 del 08/06/2018 – dep. 19/07/2018, R, Rv. 27389701).
I fatti del presente giudizio sono anteriori alla modifica normativa, commessi fino a (OMISSIS).
5. Risulta, pertanto, essenziale un accertamento concreto ed in fatto (non effettuato dalla sentenza
impugnata) sulla strumentazione utilizzata per la realizzazione dei filmati e delle foto e sui momenti
di effettiva ripresa dei minori, che non può restare nel vago, essendo l’elemento oggettivo del reato
in relazione alla normativa applicabile al tempo dei commessi reati. Ciò in relazione alle
dichiarazioni dei minori sulla partecipazione del ricorrente ai reati di cui al capo A (dai quali
l’imputato è stato assolto perché il fatto non sussiste) e alle stesse dichiarazioni contrastanti sulla
partecipazione del ricorrente alla realizzazione dei filmati.
Inoltre, si deve anche rilevare che nessun filmato o foto risultano rinvenuti (anche dalle
perquisizioni e dai sequestri di strumentazione all’imputato).
La sentenza deve pertanto annullarsi con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Reggio
Calabria.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, in relazione alla conferma della condanna per il delitto di cui al
capo B (art. 600 ter c.p.) con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Reggio Calabria, cui
rimette anche la regolamentazione delle spese tra le parti di questo giudizio di legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2020

Avvocato: divieto di utilizzare l’apparente gratuità della prestazione per accaparrarsi clienti

CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
SENTENZA
sul ricorso presentato dall’avv. [RICORRENTE], nato a [OMISSIS] il [OMISSIS] (cf
[OMISSIS]), iscritto all’Ordine degli Avvocati di Terni, con studio in [OMISSIS], avverso la
decisione in data 21/11/16, con la quale Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense di
Perugia gli infliggeva la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della
professione forense per mesi tre;
Il ricorrente, avv. [RICORRENTE] è comparso personalmente;
Per il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Terni, regolarmente citato, nessuno è
presente;
Per il Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense di Perugia regolarmente citato, nessuno
è presente;
Udita la relazione del Consigliere avv. Mario Napoli;
Inteso il P.G., il quale rileva che la prescrizione è maturata in parte, limitatamente ad una
frazione, non così per il pagamento avvenuto successivamente; conclude pertanto per l’
accoglimento parziale del ricorso limitatamente al terzo motivo, per il solo capo A, con
riduzione della sanzione e rigetto nel resto;
Inteso il ricorrente, il quale ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;
FATTO
Con il ricorso in trattazione, l’Avv. [RICORRENTE] impugna la decisione con la quale il
Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense dell’Umbria gli ha inflitto la sanzione
disciplinare della sospensione per mesi tre dall’esercizio della professione forense,
giudicando l’incolpato colpevole dei seguenti capi di incolpazione:
a) “Per aver indotto la signora [TIZIA] a conferirgli l’incarico di procedere in giudizio contro
la [BANCA] con la promessa che i suoi onorari sarebbero stati pagati solo a causa vinta e
che le sarebbero stati richiesti solo gli oneri per le spese processuali. Con violazione degli
artt. 5, 6 e 19 del Codice Deontologico Forense. In Terni sino al gennaio 2013”;
b) “Per aver, successivamente, chiesto ed ottenuto dalla signora [TIZIA] compensi
professionali che in precedenza aveva promesso dovergli essere pagati solo a causa
vinta, giustificandoli, falsamente, quali mere spese proporzionali al valore della causa, con
violazione degli artt. 5, 6 e 19 del Codice Deontologico Forense. In Terni sino al gennaio
2013”;
c) “Per aver indotto la signora [TIZIA], in occasione dell’incontro tenutosi per la
prosecuzione del giudizio dopo la sua sospensione professionale, a non revocargli il
mandato, dicendo, falsamente, che la causa era la sua e la doveva condurre lui. In Terni
tra il 13/01/2012 e il 13/01/2013”.
d) “Per aver offerto alla signora [TIZIA], dopo che il giudizio di primo grado aveva dato
esito negativo, di procedere al ricorso in appello ed eventuale Cassazione, gratuitamente.
In Terni il 05/03/2014”.
La notizia di illecito, che ha originato il procedimento disciplinare, era contenuta
nell’esposto presentato al COA di Terni dalla Sig.ra [TIZIA], in data 1 aprile 2014, integrato
con missiva del 24 aprile 2014, con cui l’esponente precisava di aver ricevuto una nota
dall’Avv. [RICORRENTE] per l’importo di Euro 11.233,26 con l’invito a pagare
immediatamente e comunque entro tre giorni.
L’avv. [RICORRENTE] negava i fatti e gli accordi e, successivamente, il 31 ottobre 2014,
comunicava l’intervenuta transazione bonaria della vertenza, confermata anche
dall’esponente, che depositava copia dell’atto transattivo.
Malgrado ciò, il Consiglio Distrettuale Disciplinare dell’Umbria apriva il procedimento
disciplinare e, acquisite le testimonianze del Dott. [OMISSIS] e dell’Avv. [OMISSIS], che
confermavano le circostanze poste a base dell’esposto e la responsabilità dell’incolpato
per i comportamenti illeciti disciplinari ascritti, irrogava nei confronti del ricorrente la
sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per mesi tre (ritenendo
applicabile la sanzione “base” della censura che, ai sensi dell’art. 37 del vigente CDF e
stante la ritenuta gravità dei fatti, poteva essere aumentata fino alla sospensione
dell’esercizio dell’attività professionale per un periodo non superiore a un anno).
Proponeva ricorso avverso tale decisione l’Avv. [RICORRENTE] in data 18 gennaio 2017
(e, dunque, tempestivamente), a firma dello stesso, il quale censurava la decisione per i
motivi che seguono:
1. Prescrizione dell’azione disciplinare. A giudizio del ricorrente, l’azione disciplinare
avente ad oggetto l’illecito consistito, secondo la decisione impugnata, nell’avere
l’incolpato offerto alla Sig.ra [TIZIA] di svolgere gratuitamente prestazioni professionali,
salvo poi chiedere alla stessa compensi mascherati da anticipazioni e/o spese, si sarebbe
prescritta.
Tale eccezione di prescrizione troverebbe fondamento nelle seguenti ragioni:
a) la promessa di gratuità della prestazione professionale, contestata dal CDD procedente,
risale alla primavera del 2009, mentre l’esposto presentato dalla Sig.ra [TIZIA] è del 27
marzo 2014.
b) il primo pagamento effettuato dall’esponente risale anch’esso alla primavera del 2009
ed è stato tempestivamente fatturato (6 novembre 2009);
c) se falsa promessa vi è stata, la stessa si è avuta con carattere istantaneo nel 2009 a
nulla rilevando, in tal senso, il momento del pagamento (in parte effettuato nel 2009 e in
parte nel 2013);
d) alla fattispecie concreta in esame si dovrebbe applicare retroattivamente, in ossequio al
principio del favor rei, il nuovo regime della prescrizione introdotto dall’art. 56 della legge
n. 247 del 2012, così come confermato, facendo leva su quanto previsto dall’art. 65,
comma 5, della stessa legge n. 247 del 2012, dalla sentenza della Corte di Cassazione n.
18077 del 15 settembre 2015. La nuova disciplina della prescrizione è, difatti, più
favorevole della precedente (art. 51 del R.D.L. n. 1578 del 1933), in quanto prevede che
l’esercizio del potere disciplinare non possa, in ogni caso, a prescindere dalle interruzioni,
protrarsi per oltre sette anni e mezzo.
e) la decorrenza del termine di prescrizione è interrotta dall’atto di apertura del
procedimento disciplinare, dalla formulazione del capo di imputazione, dal decreto di
citazione a giudizio per il dibattimento, dalla sospensione cautelare e da tutti gli atti di
natura propulsiva, probatoria o decisoria posti in essere dall’organo di disciplina;
f) sono inidonee, invece, ad interrompere il termine prescrizionale le attività istruttorie
informali compiute dall’organo di disciplina anteriormente all’apertura del procedimento
disciplinare, in quanto non univocamente espressive della potestà punitiva dell’organo
medesimo;
g) il CDD dell’Umbria, quindi, non avrebbe neanche dovuto aprire il procedimento
disciplinare, in quanto la relativa azione si era prescritta, al più tardi, alla fine del 2014;
h) nel caso di specie, infatti, l’azione disciplinare è stata esercitata ben oltre i 5 anni
rispetto al momento in cui si sarebbe verificato l’illecito e, comunque, quando è pervenuta
la condanna erano già decorsi sia i sette anni e mezzo previsti dall’art. 56 della legge n.
247 del 2012 sia i cinque anni previsti dall’art. 51 del R.D.L. n. 1578 del 1933.
2. Asserita violazione di legge ed eccesso di potere con riferimento all’art. 10, comma
3, del Regolamento CNF sul procedimento disciplinare n. 2/2014 e agli artt. 97 e 24 della
Costituzione (eccessiva ed immotivata durata del procedimento disciplinare). Il ricorrente
lamenta che il procedimento disciplinare de quo si è articolato in un numero eccessivo di
udienze (sette) e per un periodo di tempo eccessivo (un anno) a causa dell’arbitraria
dilatazione dei tempi dell’istruttoria determinata da scelte immotivate del CDD procedente
il quale ha violato i principi di buon andamento e ragionevolezza cui deve ispirarsi l’azione
amministrativa nonché il principio di concentrazione cui il procedimento disciplinare deve
conformarsi, stante il rinvio alle disposizioni del codice di procedura penale operato
dall’art. 10, comma 3, del Regolamento CNF sul procedimento disciplinare n. 2/2014 .
Il CDD dell’Umbria, infatti, sostiene l’Avv. [RICORRENTE], anziché istruire per un anno il
procedimento disciplinare, con dispendio di risorse e tempi e con disagi per l’attività
professionale dell’incolpato (domiciliato a 90 chilometri di distanza dalla sede del CDD),
stante l’assenza dei testi alle prime due udienze, avrebbe potuto e dovuto decidere sulla
base del materiale probatorio in proprio possesso (id est dell’atto di transazione
intervenuto tra esponente e incolpato e delle missive, inviate al CDD, con le quali la Sig.ra
[TIZIA] ha ritrattato i contenuti dell’esposto).
3. Asserito travisamento del fatto e delle prove da parte del CDD procedente.
Secondo l’Avv. [RICORRENTE], il CDD procedente avrebbe completamente travisato i
fatti di causa ed erroneamente valutato le prove raccolte nel corso del giudizio
amministrativo.
Il ricorrente deduce, più specificatamente sul punto, quanto segue:
a) il CDD, anziché dare rilievo, a fini probatori, ai contenuti della missiva inviata
dall’esponente al CDD in data 24.10.2014 e al successivo atto di transazione (atti dal
valore confessorio con i quali la Sig.ra [TIZIA] ha sostanzialmente ritrattato le accuse
formulate nell’esposto), ha acquisito le dichiarazioni dell’esponente, attribuendo alle stesse
efficacia probatoria piena in senso sfavorevole all’incolpato: né il CDD ha indicato le
ragioni per cui ha deciso di attribuire rilevanza alla testimonianza della Sig.ra [TIZIA]
anziché alle dichiarazioni rese per iscritto dalla stessa. Il CDD, inoltre, ha fondato la
decisione sulle dichiarazioni dell’esponente senza vagliarne l’attendibilità e senza che le
stesse abbiano trovato riscontro nelle dichiarazioni rese dai testi [OMISSIS] e [OMISSIS].
b) con riguardo ai capi di imputazione sub a) e b), il CDD procedente non ha dato conto, in
alcun passaggio della motivazione, della circostanza per cui le somme di denaro
corrisposte dalla Sig.ra [TIZIA] (€ 4.500) sono state oggetto dell’emissione, da parte
dell’Avv. [RICORRENTE], di due fatture (la prima del 6.11.2009 e la seconda del
26.2.2013) inviate all’esponente nelle quali era chiaramente indicato che i pagamenti
erano relativi ad onorari e non a spese. Nessun rilievo ha attribuito il CDD al fatto che la
Sig.ra [TIZIA], pur ricevendo le due fatture con imputazione delle somme ad onorari,
provvide al pagamento delle stesse senza muovere contestazioni di sorta. è del tutto
inverosimile quanto dichiarato, in merito, dinanzi al CDD dalla Sig.ra [TIZIA] ovvero che la
stessa non lesse il contenuto delle fatture. è indicativa, invece, la circostanza, del tutto
pretermessa dal CDD, per cui l’esponente, ricevuta la seconda fattura con la chiara
dizione “onorari” inviatale a febbraio 2013, non mosse alcun rilievo sulla stessa fino alla
data (dicembre 2013) di emissione della sentenza relativa al giudizio intentato dalla Sig.ra
[TIZIA] contro la [BANCA], con esito alla stessa sfavorevole e relativa condanna alle
spese.
c) con riguardo, invece, al capo di imputazione sub c), nessun riscontro, sul piano
probatorio, ha trovato l’accusa relativa alle pressioni che l’incolpato avrebbe esercitato
sulla Sig.ra [TIZIA] al fine di indurla a non revocargli il mandato dopo il provvedimento di
sospensione dall’esercizio della professione.
4. Asserito difetto di motivazione. Il ricorrente censura la mancanza e/o superficialità
e/o incompletezza della motivazione.
5. Asserita insussistenza dell’illecito disciplinare di accaparramento della clientela.
A giudizio dell’Avv. [RICORRENTE], il CDD dell’Umbria ha errato nel ritenere che alcune
delle condotte poste in essere dall’incolpato (in particolare l’aver promesso di non chiedere
onorari con l’obiettivo, prima, di convincere l’esponente a non revocargli il mandato dopo
la sospensione dall’esercizio della professione e, poi, di indurre l’esponente a conferirgli
l’incarico di presentare appello) siano sussumibili nella fattispecie incriminatrice prevista
dall’art. 19 del previgente CDF (“Divieto di accaparramento della clientela”), attuale art. 37
CDF.
Nel caso di specie, infatti, si legge nell’atto di impugnazione, l’incolpato si sarebbe limitato
a promettere alla propria cliente di svolgere gratuitamente le proprie prestazioni
professionali così da indurla in errore mentre ben altra sarebbe, come si desume dalla
lettura del divieto generale e dei quattro canoni complementari previsti dall’art. 19 del
previgente CDF, attuale art. 37 CDF, la fattispecie prefigurata dalla norma deontologica, la
quale mira ad evitare che l’avvocato compia azioni ben più articolate e complesse onde
procacciarsi clienti, con l’aiuto di terzi comunque remunerati.
Le condotte contestate dal CDD, così come sopra riportate, invece, conclude il ricorrente,
hanno caratteri ben diversi e sono di portata e gravità notevolmente inferiori a quelle
idonee a violare il divieto di cui all’art. 19 del previgente CDF, attuale art. 37 CDF.
6. Asserita eccessività della sanzione inflitta. Il ricorrente si duole anche
dell’eccessività della sanzione inflittagli dal CDD dell’Umbria, risultante nella sospensione
dall’esercizio della professione per tre mesi.
A sostegno di tale doglianza, l’Avv. [RICORRENTE] deduce quanto segue:
a) il CDD dell’Umbria, dopo aver erroneamente inquadrato la fattispecie de qua in termini
di accaparramento della clientela (di per sé sanzionata con la sanzione edittale della
censura), ha ritenuto rilevanti, ai fini dell’inasprimento della suddetta sanzione edittale, i
precedenti disciplinari dell’incolpato.
b) tra tali precedenti, tuttavia, non risultano episodi analoghi a quello contestato essendo
gli stessi relativi a vicende di minima rilevanza. In relazione a tali precedenti, peraltro, il
ricorrente ha proposto un ricorso di carattere generale al CNF a mezzo del quale ha
contestato la carenza del requisito di imparzialità dei componenti del COA di Terni per la
loro appartenenza a logge massoniche.
c) se il ricorso di cui sopra fosse accolto (dal CNF o dalla Cassazione) anche le minori
sanzioni disciplinari subite in passato dall’Avv. [RICORRENTE] perderebbero rilevanza di
precedente, al pari della misura cautelare della sospensione dall’esercizio della
professione.
d) l’unico grave provvedimento disciplinare subito dal ricorrente è sub iudice, al pari del
processo penale dal quale esso ha preso le mosse.
Alla luce dei suddetti motivi, il ricorrente chiede la revoca e /o l’annullamento e /o la
cassazione del provvedimento disciplinare impugnato e, per l’effetto, l’assoluzione dagli
addebiti contestati.
DIRITTO
1. La prescrizione dell’azione disciplinare.
Ritiene questo Consiglio opportuno esaminare per prima l’eccezione di prescrizione
dell’azione disciplinare, essendo questa preliminare alla valutazione degli altri motivi di
ricorso presentati dall’Avv. [RICORRENTE].
Come evidenziato al punto 1 della ricostruzione in fatto, il ricorrente sostiene che l’azione
disciplinare avente ad oggetto l’illecito contestato, che consiste nell’aver offerto alla Sig.ra
[TIZIA] di svolgere gratuitamente prestazioni professionali, salvo poi chiedere alla stessa
compensi mascherati da spese, si sarebbe prescritta.
Per procedere all’esame di tale doglianza, è necessario svolgere alcune premesse:
– Il ricorrente fa riferimento solo alle condotte contestate nei capi di incolpazione sub
a) e b), mentre nulla è contestato rispetto ai capi sub c) e d), le cui condotte, del resto, si
collocano in date successive a quelle di cui ai capi precedenti. In particolare, la condotta
sub c) si colloca tra il 13 gennaio 2012 e il 13 gennaio 2013, mentre la condotta sub d)
risale al 5 marzo 2014. Pertanto, non appare comprensibile l’affermazione del ricorrente
secondo cui il CDD dell’Umbria “non avrebbe neanche dovuto aprire il procedimento
disciplinare”, posto che, relativamente ai capi c) e d), l’Avv. [RICORRENTE] nulla ha
dedotto a sostegno di un’eventuale prescrizione dell’azione disciplinare (fermo restando
che, come noto, la prescrizione dell’azione disciplinare è rilevabile d’ufficio in ogni stato e
grado del giudizio. Cfr. CNF, 6 novembre 2017, n. 162).
– Quanto alla decisione del CDD dell’Umbria, si rileva come i giudici, pur senza
esplicitarlo nella motivazione, ma come si evince dalla lettura delle date di commissione
degli illeciti indicate in calce ai capi di incolpazione sub a) e sub b), abbiano ritenuto che le
condotte si siano protratte fino al gennaio 2013, ovvero fino al momento in cui la Sig.ra
[TIZIA] ha provveduto al pagamento della seconda somma richiesta dall’incolpato (€
2.500,00).
– Al contrario, il ricorrente, nel formulare l’eccezione di prescrizione, non indica con
precisione gli elementi fattuali rilevanti ai fini della valutazione della fondatezza della
stessa, quali la data esatta del dies a quo e dei possibili atti interruttivi, restando, sul
punto, molto generico.
– La sentenza della Corte di Cassazione n. 18077 del 15 settembre 2015, citata dal
ricorrente come pronuncia a favore dell’applicabilità retroattiva della nuova disciplina della
prescrizione di cui all’art. 56 della legge n. 247 del 2012, in realtà conferma l’applicabilità,
ai fatti antecedenti all’entrata in vigore della nuova legge professionale, della vecchia
disciplina di cui all’art. 51 del R.D.L. n. 1578 del 1933. Si legge, infatti, nella motivazione
della sentenza citata, avente ad oggetto proprio fatti antecedenti all’entrata in vigore della
legge n. 247 del 2012, quanto segue: “la prescrizione applicabile al caso di specie è quella
quinquennale R.D.L. n. 1578 del 1933, ex art. 51 e la stessa deve ritenersi compiuta”.
Svolte le dovute premesse, ai fini della valutazione circa la fondatezza dell’eccezione di
prescrizione, risulta determinante procedere all’esame delle seguenti questioni:
a) La normativa applicabile in tema di prescrizione, precedente (art. 51 RDL n.
1578/1933) o attuale (art. 56 L. n. 247/2012). La giurisprudenza della Corte di
Cassazione e di codesto Consiglio è costante e pacifica nell’affermare che, per l’istituto
della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio
generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative, sicché è
inapplicabile, a fatti antecedenti, lo jus superveniens introdotto con l’art. 56, comma 3,
della legge n. 247/12 (cfr. ex multis, Cass. SSUU, 25 marzo 2019, n. 8313, 18 aprile 2018,
n. 9558, ord. 27 ottobre 2016, n. 21693). Si rinviene, infatti, un solo ed isolato precedente
giurisprudenziale – che per completezza si riporta – secondo il quale l’art. 65, 5o comma, l.
n. 247 del 2012, laddove sancisce che le norme del nuovo codice deontologico forense si
applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in
vigore, se più favorevoli, spiegherebbe i propri effetti anche con riguardo al regime della
prescrizione (Cass. SSUU, 27 ottobre 2015, n. 21829). Ciò precisato, alla luce
dell’orientamento assolutamente maggioritario, nel caso in esame trova applicazione la
disciplina di cui all’art. 51 RDL n. 1578/1933, il quale prevede che “l’azione disciplinare si
prescrive in cinque anni” (per ogni atto interruttivo della prescrizione inizia a decorrere un
nuovo ed uguale termine). Non appare, quindi, fondata la richiesta, formulata dall’Avv.
[RICORRENTE], di applicazione del termine prescrizionale complessivo (massimo e,
quindi, comprensivo di eventuali interruzioni) di 7 anni e mezzo previsto dall’art. 56 della
legge n. 247 del 2012.
b) La decorrenza della prescrizione: il dies a quo. Fermo quanto sopra indicato, ai
fini della valutazione della fondatezza dell’eccezione di prescrizione è necessario stabilire
se le violazioni deontologiche contestate all’incolpato siano di carattere istantaneo, id est
violazioni che si consumano o si esauriscono al momento stesso in cui vengono
realizzate, o se le stesse risultino integrate da condotte protrattesi e mantenute nel tempo,
costituendo illeciti c.d. permanenti. Una violazione deontologica deve essere considerata
di carattere istantaneo se la lesione avviene, si consuma e diventa irreparabile già con la
commissione del fatto dannoso, mentre è di carattere permanente se il pregiudizio al
valore protetto cessa soltanto col venire meno della condotta. La decorrenza del termine
prescrizionale ha inizio, infatti, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza
domestica e di legittimità, dalla data della commissione del fatto nel primo caso e da quella
della cessazione della condotta nel secondo (cfr. CNF, 21 giugno 2018, n. 71, 21
dicembre 2006, n. 183, Cass. SSUU, 30 giugno 2016, n. 13379).
c) Gli atti interruttivi della prescrizione. L’interruzione del termine quinquennale di
prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti degli esercenti la professione forense è
diversamente disciplinata nei due distinti procedimenti del giudizio disciplinare: nel
procedimento amministrativo, quale è quello di fronte ai COA e ai CDD, trova applicazione
l’art. 2945, primo comma cod. civ., secondo cui per effetto e dal momento dell’interruzione
inizia un nuovo periodo di prescrizione; nella fase giurisdizionale davanti al Consiglio
Nazionale Forense opera invece il principio dell’effetto interruttivo permanente di cui al
combinato disposto degli artt. 2945, secondo comma e 2943 cod. civ., effetto che si
protrae durante tutto il corso del giudizio e nelle eventuali fasi successive
dell’impugnazione, fino al passaggio in giudicato della sentenza (cfr. CNF, 24 novembre
2017, n. 188). Mentre la nuova disciplina (art. 56 L. n.247/2012), tra l’altro inapplicabile al
caso de quo, tipizza gli atti che hanno efficacia interruttiva della prescrizione disciplinare
(ossia la comunicazione all’iscritto della notizia dell’illecito, la notifica della decisione del
CDD e la notifica della sentenza pronunciata su ricorso dal CNF), se si applica la
previgente disciplina, per valutare l’esistenza o meno di atti interruttivi della prescrizione
bisogna fare riferimento all’orientamento della giurisprudenza, che è costante
nell’identificare come atti interruttivi la delibera dell’apertura del procedimento e gli altri atti
propulsivi del procedimento (cfr. CNF, 1 giugno 2017, n. 61, 6 novembre 2017, n. 162, 19
dicembre 2014, n. 191). Nel caso in esame, il primo atto avente efficacia interruttiva è,
dunque, la delibera di apertura del procedimento disciplinare, adottata dal COA di Terni in
data 17 giugno 2014, ma comunicata al ricorrente soltanto in data 9 settembre 2014 e 7
ottobre 2014, a seguito del provvedimento di riunione dei procedimenti. Con riguardo,
invece, agli atti compiuti dall’organo di disciplina anteriormente alla formale apertura del
procedimento disciplinare, essi, in quanto attività istruttorie informali anteriori all’apertura
del procedimento, sono ininfluenti quali potenziali eventi interruttivi della prescrizione
dell’azione disciplinare (cfr. CNF, 31 dicembre 2009, n. 267).
Alla luce delle considerazioni svolte e dell’orientamento giurisprudenziale maggioritario e
costante, codesto Consiglio ritiene applicabile il termine prescrizionale di cui all’art. 51
RDL n. 1578/1933, il quale prevede che “l’azione disciplinare si prescrive in cinque anni”.
Tale termine non risulta essere decorso per le condotte di cui ai capi di incolpazione sub c)
e d), risalenti al 2012 e al 2013, poiché il termine quinquennale è stato interrotto dalla
delibera di apertura del procedimento, comunicata in data 9 settembre e 7 ottobre 2014, a
seguito del provvedimento di riunione dei procedimenti. Per quanto riguarda, invece, le
condotte di cui ai capi di incolpazione sub a) e b), il dies a quo dal quale ha iniziato a
decorrere il termine prescrizionale appare più discutibile. Relativamente al capo a), il
Consiglio giudicante considera che la violazione si sia consumata ed esaurita nel
momento della commissione del fatto dannoso, ovvero nella primavera dell’anno 2009,
quando l’Avv. [RICORRENTE] ha falsamente promesso che avrebbe chiesto il pagamento
degli onorari solo a causa vinta; pertanto, il termine prescrizionale quinquennale risulta
essere decorso, poiché la delibera dell’avvio del procedimento, identificabile come primo
atto interruttivo della prescrizione, è stata comunicata al ricorrente in data 9 settembre e 7
ottobre 2014, a seguito del provvedimento di riunione dei procedimenti. Non appare invece
prescritta la condotta sub b), relativa all’aver chiesto ed ottenuto dalla signora [TIZIA] i
compensi professionali che in precedenza aveva promesso dovergli essere pagati solo a
causa vinta, poiché l’ultimo pagamento è intervenuto nel 2013 ed è quindi in tale momento
che si può considerare essere cessata la condotta dannosa.
In conclusione, l’eccezione di prescrizione formulata dal ricorrente pare condivisibile solo
relativamente alla condotta identificata al capo di incolpazione sub a).
2. Asserita violazione di legge ed eccesso di potere con riferimento all’art. 10,
comma 3, del Regolamento CNF sul procedimento disciplinare n. 2/2014 e agli artt.
97 e 24 della Costituzione (eccessiva ed immotivata durata del procedimento
disciplinare).
In relazione al secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente denuncia l’eccessiva e
immotivata durata del procedimento disciplinare, si rileva come il procedimento
disciplinare avanti al Consiglio territoriale abbia natura amministrativa, sicché non si
applica l’art. 111 Cost. (con i correlati enunciati principi del giusto processo e della sua
ragionevole durata, pertinenti alle sole attività giurisdizionali), bensì l’art. 97 Cost.,
secondo il quale vanno assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Ciò premesso, è altresì vero che il procedimento disciplinare ha natura amministrativa
speciale, in quanto disciplinato specificamente dalle norme dell’Ordinamento forense, che
non contengono termini perentori per l’inizio, lo svolgimento e la definizione del
procedimento stesso davanti al Consiglio territoriale all’infuori di quelli posti a tutela del
diritto di difesa, nonché quello di prescrizione dell’azione disciplinare.
Quanto al valore attribuibile, nell’ambito del procedimento disciplinare, alla rinuncia
all’esposto e alla transazione intervenuta tra esponente e incolpato, è principio pacifico del
Consiglio Nazionale Forense che l’azione disciplinare non rientra nella disponibilità delle
parti, sicché la rinuncia all’esposto da parte dei soggetti esponenti così come l’eventuale
dichiarazione delle parti di essere pervenute ad una risoluzione bonaria della controversia
non condiziona né implica l’estinzione o l’interruzione del procedimento, né attenua la
gravità del comportamento dell’incolpato. Inoltre, la transazione intervenuta tra le parti al
fine di risolvere stragiudizialmente le questioni tra loro sorte, non nega che le condotte
contestate all’Avv. [RICORRENTE] siano effettivamente avvenute, ma ne muta la
considerazione.
In riferimento, infine, all’ulteriore doglianza, formulata dal ricorrente nell’ambito del motivo
di impugnazione qui in esame, inerente alla asseritamente arbitraria decisione, adottata
dal CDD, di rinviare le udienze istruttorie in cui i testimoni sono risultati assenti, e di non
rinviare, invece, le udienze in cui a risultare assente è stato l’incolpato, giova rammentare
quanto stabilito dall’art. 21 del Regolamento CNF n. 2/2014 sul procedimento disciplinare,
secondo il quale il CDD, in caso di mancata comparizione dell’incolpato, non dovuta a
legittimo impedimento o assoluta impossibilità a comparire, procede in sua assenza.
Pertanto l’operare del CDD dell’Umbria, oltre a essere coerente con le indicazioni
giurisprudenziali e con la normativa citata, appare anche nei fatti proporzionato e corretto
e, per tali ragioni, anche il secondo motivo di ricorso non merita accoglimento.
3. Asserito travisamento del fatto e delle prove da parte del CDD procedente.
Come sopra riportato, secondo l’Avv. [RICORRENTE] il CDD procedente avrebbe
completamente travisato i fatti di causa ed erroneamente valutato le prove raccolte nel
corso del giudizio amministrativo. Sul punto, pare condivisibile e pacifico il principio per cui
rientra nella discrezionalità dell’organo di disciplina la valutazione e l’apprezzamento delle
prove. Infatti, il principio del libero convincimento opera anche in sede disciplinare, sicché
il Giudice della deontologia ha ampio potere discrezionale nel valutare ammissibilità,
rilevanza e conferenza delle prove dedotte. Nel caso in esame, non solo c’è stata la
deposizione dettagliata e credibile da parte dell’esponente, ma tale deposizione è stata
altresì avvalorata da quella del Dott. [OMISSIS], soggetto terzo che non aveva interesse
nella vicenda, il quale ha effettivamente confermato la circostanza che l’Avv.
[RICORRENTE] si era impegnato a non chiedere onorari.
4. Asserito difetto di motivazione.
In relazione a tale doglianza, relativa all’asserita mancanza e/o superficialità e/o
incompletezza della motivazione, rileva questo Consiglio che è ben vero che la decisione
del CDD dell’Umbria appare in taluni punti un po’ stringata, ma sussiste in capo all’organo
giudicante in appello il potere di completamento della motivazione della decisione di primo
grado. La mancanza di adeguata motivazione, pertanto, non costituisce motivo di nullità
della decisione di primo grado, in quanto, alla motivazione carente, il Consiglio Nazionale
Forense, quale giudice di legittimità e di merito, può apportare le integrazioni che ritiene
necessarie, in relazione a tutte le questioni sollevate nel giudizio sia essenziali che
accidentali. Anche il quarto motivo di ricorso, dunque, non è accoglibile.
5. Asserita insussistenza dell’illecito disciplinare di accaparramento della
clientela.
In relazione al quinto motivo di ricorso, giova preliminarmente rilevare come, mentre i
quattro canoni complementari dell’art. 19 del previgente CDF sono relativi a specifiche
fattispecie incriminatrici che certamente – ed in tale misura in accordo con quanto dedotto
dal ricorrente – non sono integrate dalle condotte qui in esame, il divieto generale previsto
in apertura della medesima disposizione proibisce, invece, più genericamente, qualsiasi
condotta finalizzata all’acquisizione di clientela che sia posta in essere con modalità non
conformi alla correttezza e al decoro: “è vietata ogni condotta diretta all’acquisizione di
rapporti di clientela … con modi non conformi alla correttezza e decoro”). Sul punto, è
pacifica tradizione del Consiglio Nazionale Forense ritenere che, sebbene sia ammissibile
offrire di svolgere l’attività professionale forense a titolo gratuito, non è invece accettabile
né rispettoso dei principi deontologici utilizzare l’apparente gratuità della prestazione per
accaparrarsi clienti che, altrimenti, potrebbero non conferire l’incarico. Pertanto, la
decisione del CDD dell’Umbria di censurare la condotta dell’Avv. [RICORRENTE] pare
condivisibile e, pertanto, il quinto motivo di ricorso è anch’esso respinto.
6. Asserita eccessività della sanzione inflitta.
Con riguardo alla doglianza in esame, è necessario, innanzitutto, riportare il consolidato
orientamento giurisprudenziale in base al quale ai procedimenti disciplinari in corso al
momento dell’entrata in vigore del nuovo Codice Deontologico si applicano, anche per
quanto concerne il regime sanzionatorio, le norme eventualmente più favorevoli previste
dalle nuove disposizioni codicistiche. In ossequio a tale riconosciuta prassi, il CDD
dell’Umbria ha sanzionato l’Avv. [RICORRENTE] per la violazione degli artt. 5, 6 e 19 del
previgente CDF che sono stati trasfusi, rispettivamente, negli artt. 9 e 37 del vigente CDF.
La violazione dell’art. 37 del vigente CDF comporta l’applicazione della sanzione edittale
della censura, mentre nessuna sanzione è prevista per la violazione dei generali doveri di
cui all’art. 9 del vigente CDF. Il CDD dell’Umbria ha irrogato la sanzione della sospensione
di tre mesi dall’esercizio della professione forense individuando come pena base la
censura prevista per l’accaparramento della clientela e inasprendo la stessa alla luce della
gravità dei fatti e dei precedenti disciplinari a carico dell’incolpato. è stato quindi applicato
l’art. 22, comma 2, lettera b), del vigente CDF secondo il quale “Nei casi più gravi, la
sanzione disciplinare può essere aumentata, nel suo massimo: b) fino alla sospensione
dall’esercizio dell’attività professionale non superiore a un anno, nel caso sia prevista la
sanzione della censura …”.
Pur condividendo le ragioni per cui il CDD dell’Umbria ha ritenuto di irrogare la sanzione
della sospensione dalla professione per tre mesi, il Consiglio giudicante ritiene opportuno
rivalutare l’entità della pena alla luce della differente valutazione del capo di incolpazione
sub a). Infatti, come si è avuto modo di evidenziare supra, la violazione contestata, seppur
accertata nella sua storicità, è ormai prescritta, essendosi consumata ed esaurita nel
momento della commissione del fatto dannoso, ovvero nella primavera dell’anno 2009, per
indicazione della stessa reclamante, quando l’Avv. [RICORRENTE] aveva falsamente
promesso che avrebbe chiesto il pagamento degli onorari solo a causa vinta.
Alla luce di suddette considerazioni e dell’intervenuta prescrizione degli illeciti contestati al
capo di incolpazione sub a), il Consiglio ritiene di ridurre la pena inflitta dal CDD
dell’Umbria, riducendo la sanzione della sospensione dalla professione forense da mesi
tre a mesi due.
Il sesto motivo di ricorso è pertanto accolto, quantomeno parzialmente.
P.Q.M.
visti gli artt. 50 e 54 del R.D.L. 27.11.1933, n. 1578, gli artt. 59 e segg. del R.D. 22.1.1934,
n. 37 e gli artt. 35 e segg. della L. 31.12. 2012, n. 247,
vista l’intervenuta prescrizione delle condotte di cui al capo di incolpazione sub a);
il Consiglio Nazionale Forense accoglie parzialmente il ricorso e dispone la sospensione
della professione dall’attività professionale forense per mesi due.
Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità
di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli
interessati riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma nella camera di Consiglio del 13 giugno 2019.
IL SEGRETARIO IL PRESIDENTE
f.to Avv. Rosa Capria f.to Avv. Andrea Mascherin
Depositata presso la Segreteria del Consiglio nazionale forense,
oggi 6 dicembre 2019.
LA CONSIGLIERA SEGRETARIA
f.to Avv. Rosa Capria
Copia conforme all’originale
LA CONSIGLIERA SEGRETARIA
Avv. Rosa Capria

Avvocati e violenza privata al collega di studio.

Cass. pen. Sez. V, Sent., 21 maggio 2020, n. 15633
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
R.D.A., nato a (OMISSIS) parte civile;
nel procedimento a carico di:
B.R., nato a (OMISSIS);
D.R.E., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 18/01/2018 della CORTE APPELLO di NAPOLI;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. EPIDENDIO TOMASO, che
ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore;
L’avvocato ARONNE SALVATORE CLAUDIO insiste per l’accoglimento del ricorso e deposita
conclusioni.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 18/01/2018 la Corte d’appello di Napoli, investita dall’appello proposto dal P.M.
e dalla parte civile R.D., ha confermato la decisione di primo grado, che aveva assolto: a) B.R. dai
reati di cui agli artt. 392 e 610 c.p., contestatigli per avere impedito, con l’arbitraria sostituzione
della serratura e poi sbarrando l’ingresso con il proprio corpo, al R. di accedere all’appartamento
adibito a studio legale associato e di ritirare materiale di lavoro e pratiche di studio, perché il fatto
non costituisce reato; a) D.R.E., dal reato di cui all’art. 378 c.p., contestatogli per avere, con varie
false dichiarazioni, aiutato il B. ad eludere le investigazioni perché il fatto non sussiste.
2. La Corte d’appello, rispetto alla condivisa ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, ha
ritenuto generiche ed assertive le doglianze degli appellanti, sottolineando: a) che era rimasto
accertato che nella mattina del (OMISSIS) l’avv. B. aveva impedito all’avv. R., con il quale
condivideva, assieme all’avv. D.R., lo studio di accedere a quest’ultimo, prima inserendo la chiave
all’interno della serratura e poi, quando il D.R. stava entrando nell’appartamento, sbarrando
l’ingresso col proprio corpo; b) che difettava, nel caso di specie, l’elemento oggettivo del reato di
violenza privata, dal momento che lo studio nel quale il R. aveva cercato di entrare era quello in cui,
per mera cortesia, il B. lo aveva ospitato, con l’intesa che si trattava di una sistemazione
temporanea; c) che nel giudizio civile promosso dal R. al fine di tutelare il suo possesso
sull’immobile non era emerso l’esercizio di un potere di fatto corrispondente ad un diritto reale sulla
cosa; d) che l’esame delle dichiarazioni rese dai testi e dalla stessa parte civile non aveva consentito
di far chiarezza sui rapporti di ciascuno con i locali e con gli arredi, né erano emersi elementi idonei
a rivelare l’esistenza di un rapporto di collaborazione professionale, non essendo decisivo il fatto,
confermato da tre testimoni, che esistesse una targa affissa all’esterno del palazzo, recante i nomi
dei tre professionisti; e) che irrilevante era del pari la proposta di convenzione con il Comune di
Riardo, poiché lo stesso R. aveva negato l’esistenza di una associazione professionale; f) che il R.
non era al corrente del contenuto della locazione dell’immobile del quale era parte il solo B.; g) che
irrilevante era il fatto che i professionisti si fossero ripartiti le spese relative ai lavori di
ristrutturazione; h) che difettavano i requisiti di una associazione professionale in quanto i tre
colleghi svolgevano attività autonoma, quanto alla trattazione delle pratiche; i) che il R. dava un
contributo indistinto e marginale alle spese correnti di studio e alla manutenzione, attraverso
sporadiche elargizioni in denaro; I) che, in definitiva, doveva ritenersi che il B. si fosse determinato
a tenere la condotta descritta, perché esasperato dall’indolenza del R. nel procedere ad abbandonare
il locale nel quale era ospitato; m) che, d’altra parte, l’imputato aveva messo immediatamente a
disposizione del R. gli arredi di sua pertinenza, come comprovato dal telegramma inviato il giorno
dei fatti; n) che, pertanto, non era ravvisabile alcuna condotta violenta o minacciosa idonea a
impedire la libera determinazione di altri, né un esercizio arbitrario di ragioni, giacché queste ultime
non avevano la consistenza di diritti attuali e pieni; o) che le superiori considerazioni escludevano
in radice la sussistenza del reato di cui all’art. 378 c.p.; p) che, in ogni caso, non si era verificato
alcun ostacolo all’attività di accertamento dei fatti, giacché l’esistenza di numerosi testimoni aveva
consentito una immediata e non equivoca ricostruzione della vicenda; q) che l’attribuzione, nel capo
di imputazione, al D.R. della falsa dichiarazione secondo la quale non esisteva alcuna associazione
di fatto rappresentava “un assunto inammissibilmente anticipativo di statuizioni di esclusiva
pertinenza del giudice, peraltro dimostratosi privo di fondamento”; r) che anche la parte del capo di
imputazione relativa alle dichiarazioni concernenti la possibilità del ritiro di fascicoli e di beni
personali, per come formulata, costituiva un “evidente fuor d’opera ed un’intrusione da parte
dell’accusa nell’iter logico conducente alla decisione, spettante unicamente al Giudicante”; s) che,
infine, né gli appellanti né il P.G. d’udienza avevano richiesto la rinnovazione della prova
dichiarativa che la Corte non aveva disposto d’ufficio, per le ragioni sopra ricordate.
3. Nell’interesse del R. è stato proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico, articolato
motivo, con il quale si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, rilevando: a) che
incomprensibile era il percorso che aveva condotto la Corte territoriale ad escludere la sussistenza
del reato di violenza privata, dopo avere essa stessa ricostruito i fatti nei termini sopra riassunti; b)
che l’invio del telegramma, successivamente alla consumazione del reato, era del tutto irrilevante,
anche perché il R. era riuscito a riacquistare la disponibilità dei propri fascicoli professionali, solo
dopo avere richiesto l’intervento dell’autorità giudiziaria; c) che neppure era comprensibile
l’assoluzione del D.R., tenuto conto che la puntuale ricostruzione dei fatti non era stata immediata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato.
Va premesso che l’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 610 c.p. (ma analoghe
considerazioni possono svilupparsi anche per il reato di ragion fattasi) si identifica in qualsiasi
mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo
consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti
ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (v., ad es., Sez. 5,
n. 4284 del 29/09/2015 – dep. 02/02/2016, G, Rv. 26602001, che ha ritenuto integrato il reato di
violenza privata nella condotta di chi – il marito nei confronti della moglie, nella specie – impedisca
l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione,
chiudendone a chiave la serratura).
Ora, in disparte la questione della qualificazione delle condotte poste in essere dal B., che richiederà
una puntuale selezione e valutazione dei fatti rilevanti da parte del giudice di merito, rileva il
Collegio che le considerazioni dedicate dalla Corte territoriale alla natura dei rapporti tra l’imputato
e il ricorrente sono prive di concludenza e presentano profili di evidente contraddittorietà.
Non riesce, infatti, ad intendersi come possa affermarsi l’esistenza di una sistemazione temporanea
del R., una volta dimostrata l’esistenza persino di una targa, affissa all’esterno del palazzo, recente i
nomi anche dei professionisti che occupavano lo studio (appunto il B., il R. e il D.R.).
La Corte d’appello svaluta quest’ultimo elemento senza spiegare per quale ragione esso non sarebbe
decisivo, nel confermare che in quel luogo il R. svolgeva, evidentemente con l’accordo degli altri
professionisti, la propria attività professionale.
E, del resto, proprio il cenno della sentenza impugnata all’esistenza di arredi che il B. aveva
immediatamente messo a disposizione del R. conferma la tesi di un rapporto stabile con i locali.
Ad essere irrilevante, ai fini della sussistenza dell’illecito (salvo, si ripete, il tema della
qualificazione) è, invece, l’esistenza o non di una associazione professionale o di un rapporto
locatizio diretto del R. con il proprietario dell’immobile o, ancora, di una situazione qualificabile in
termini di possesso, al fine dell’esercizio delle azioni civilistiche poste a protezione di quest’ultimo.
A fronte di uno svolgimento dell’attività professionale del R. nei locali in esame, appare evidente
che la condotta accertata dai giudici di merito si sia tradotta in un impedimento che ha costretto il
ricorrente a tollerare di astenersi dall’avere accesso agli strumenti con i quali esercitava la propria
professione. L’esistenza di ragioni che avrebbero consentito al B. di escludere dall’immobile il R.
può assumere rilievo, come si diceva, ai fini della qualificazione della condotta come esercizio
arbitrario delle proprie ragioni, ma non certo a consentire una violenta condotta idonea ad incidere
sulla libertà di autodeterminazione del secondo.
A tal riguardo, peraltro, neppure s’intende il significato della puntualizzazione della sentenza
impugnata secondo cui quest’ultima ipotesi delittuosa sarebbe esclusa dall’esistenza di “diritti attuali
e pieni”.
Del pari assertiva è l’affermazione secondo la quale la responsabilità del D.R. sarebbe esclusa dal
fatto che la presenza di numerosi testimoni avrebbe consentito di permettere una immediata ed
univoca ricostruzione dei fatti.
E ciò senza dire che, comunque, è configurabile il tentativo di favoreggiamento personale quando si
compiono atti idonei ed univocamente volti ad aiutare qualcuno ad eludere le investigazioni, ma
l’azione non viene portata a termine per cause indipendenti dalla volontà dell’agente (Sez. 6, n. 6662
del 06/12/2016 – deo. 13/02/2017, Calore, Rv. 26954101).
Del tutto incomprensibile è poi il cenno alla rilevanza della condotta del D.R., quanto alla
possibilità per il R. di ritirare i fascicoli e i beni personali, in cui la Corte d’appello, invece, di
esaminare fatti e prove si impegna in una polemica contro il capo di imputazione che avrebbe
realizzato una intrusione nell’iter logico della decisione “spettante unicamente al giudicante”, per
poi arrestarsi a tale constatazione e non illustrare le conclusioni rivendicate alla propria competenza.
Per il resto, è certamente esatto che il giudice di appello che riformi, anche su impugnazione della
sola parte civile e ai soli effetti civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso
apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare,
anche d’ufficio, l’istruzione dibattimentale, venendo in rilievo la garanzia del giusto processo a
favore dell’imputato coinvolto nel procedimento penale, dove i meccanismi e le regole di
formazione della prova non conoscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di
natura esclusivamente civilistica (v., di recente, Sez. 5, n. 32854 del 15/04/2019, Gatto Rv.
27700001).
Ma siffatto obbligo rappresenta un posterius che si pone per il giudice d’appello, quando si avverta
il dubbio sull’attendibilità di una prova decisiva.
Nel caso di specie, il riferimento non è perspicuo, dal momento che la Corte d’appello non pare aver
messo in discussione la ricostruzione fattuale fondata sulle prove raccolte.
2. In conseguenza dei superiori rilievi, questa Corte, alla luce della estinzione per prescrizione dei
reati, intervenuta in epoca successiva alla sentenza di primo grado, annulla la sentenza impugnata e
rinvia, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello, che
provvederà anche alla regolamentazione delle spese.
P.Q.M.
Annulla a sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame al giudice civile competente per valore in
grado di appello. Spese di parte civile al definitivo.
Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2020

Addebito al marito che va a vivere con l’amante.

Tribunale di Velletri, sent. 23 aprile 2020, n. 664 – Pres. Rel. Garri
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di primo grado iscritta al numero di R.G. 2962/17
avente ad oggetto: separazione giudiziale coniugi
promossa da
M.L., nato a V. (R.) il (…), cod. fisc. (…), rappresentato e difeso dall’avv. Massimo GUADAGNO, cod. fisc. (…), giusta delega in calce al ricorso introduttivo, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Colleferro (RM), alla Via Bruno Buozzi n. 35;
PARTE ATTRICE RICORRENTE
Contro
D.A. nata a R. il (…) C.F. (…), residente in L. (R.), Via dei V. n. 66, rappresentata e difesa dall’avv. Alessia ROCCA del Foro di Tivoli (C.F. (…)) con il patrocinio a carico dello Stato (Istanza n. 546/2017 del 31.12.2017 (all. 1), con domicilio digitale eletto ai fini del presente procedimento ai sensi dell’art. 16-sexies D.L. n. 179 del 2012 convertito in L. n. 221 del 2012 come modificato dal D.L. n. 90 del 2014 convertito in L. n. 114 del 2014 all’indirizzo PEC alessia.rocca@pecavvocatititvoli.it e comunque presso il suo studio in San Vito Romano (RM) Viale Paolo VI n. 135 si indicano, ai sensi dell’art. 176 c.p.c., quale numero di fax per la ricezione degli avvisi di cancelleria il n. (…) e quale indirizzo di posta elettronica alessia.rocca@pecavvocatitivoli.it;
PARTE CONVENUTA RESISTENTE
E con l’intervento del Pubblico Ministero presso il Tribunale;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso ritualmente notificato alla sig.ra D.A., il sig. M.L. chiedeva che il Tribunale adito disponesse, in sede presidenziale, i provvedimenti temporanei ed urgenti come qui appresso indicati:
A) i coniugi vivranno separati con l’obbligo del mutuo rispetto. B) La casa coniugale, sita in L. (R.), alla Via D. V. n. 66, int. 4, di proprietà di entrambi i coniugi al 50%, verrà lasciata nella disponibilità della Sig.ra D.A. con tutti i mobili ivi contenuti, e continuerà a risiedervi con i figli. C) Il mutuo residuo relativo all’immobile sito in L. (R.), alla Via D. V. n. 66, int. 4, verrà assunto al 50% da entrambi i coniugi; in particolare, a fronte di rate mensili di Euro 700,00 cadauna, il Sig. M.L. verserà l’importo di Euro 350, mentre la restante parte pari ad Euro 350,00 verrà corrisposta dalla Sig.ra A.. D) L’autovettura modello Renault CLIO targata (…), di proprietà della Sig.ra A., resterà in uso alla medesima. E) I figli minori F. e C.L. continueranno a risiedere con la Sig.ra A. e su di essi entrambi i genitori continueranno ad esercitare la potestà genitoriale, in regime di affidamento condiviso, con collocazione prevalente presso la madre, con facoltà per il padre di vederli e tenerli con sé secondo le seguenti modalità: il martedì ed il giovedì dalle ore 14,00 alle ore 19.30, salvo modifica dei giorni e dell’orario da concordare previamente con la madre, anche in base alle esigenze dei ragazzi e degli impegni di lavoro del sig. M.L.; ed ogni due settimane dalle ore 10,00 del sabato alle ore 10,00, con pernotto, alle ore 19.30 della domenica allorché li ricondurrà presso la madre. Quanto alle festività, i minori, previo accordo tra i genitori, trascorreranno le solennità natalizie e pasquali alternativamente con il padre e con la madre. Il giorno dei rispettivi compleanni verrà passato con entrambi i genitori. Per quanto concerne il periodo estivo (mese di agosto), i figli, previo accordo tra coniugi, resteranno per quindici giorni con la madre e per i restanti quindici con il padre. In difetto di accordo tra i genitori, il padre potrà vedere e tenere con sé i minori dal 16 agosto al 30 agosto. F) Il Sig. M.L. verserà mensilmente (entro il giorno 05 di ogni mese), per il mantenimento dei figli minori, l’importo complessivo di Euro 400/00 (Euro 200 per ciascun figlio), annualmente rivalutabile secondo gli indici ISTAT, oltre al 50% delle spese mediche, scolastiche e straordinarie per i bambini. G) Il Sig. M.L. corrisponderà alla Sig.ra D.A. l’importo di Euro 300/00 quale assegno di mantenimento, annualmente rivalutabile secondo gli indici ISTAT.
Si costituiva la Sig.ra D.A. con patrocinio a carico dello Stato, aderendo alla domanda di separazione, ma chiedendo che venisse pronunciata la separazione con addebito al marito, il quale avrebbe intrattenuto una relazione extraconiugale da anni, ovvero già in costanza di matrimonio, con un’altra donna, con la quale, attualmente, sarebbe convivente.
Inoltre, la resistente chiedeva un contributo al mantenimento per sé pari ad Euro 2.000,00, essendo priva di occupazione, nonché un assegno di mantenimento di complessivi Euro 1.000.00 per i figli minori, oltre alla concorrenza al pagamento delle spese straordinarie nella misura dell’80%.
Per quanto concerne l’affidamento concordava con il ricorrente in ordine al regime dell’affido condiviso dei figli minori, F. e C., con collocamento prevalente presso la madre nella casa coniugale, con possibilità per il padre di vederli secondo le modalità meglio specificate nella comparsa ed in particolare con una frequentazione compatibile con la tenera età del figlio C..
A scioglimento della riserva assunta dal Presidente f.f. del Tribunale di Velletri all’udienza del 14.09.2017, venivano adottati i seguenti provvedimenti:
1) Autorizza i coniugi a vivere separati con l’obbligo di mutuo rispetto. 2) Dispone l’affidamento condiviso dei figli minori F. e C. con collocazione prevalente presso la madre signora D.A. con la quale è rimasto a convivere anche l’altro figlio maggiore d’età, E.. 3) La casa coniugale lasciata in godimento alla signora D.A., unitamente al relativo arredo. 4) Possibilità per il padre di vedere e tenere con sé i figli minori quando lo desideri previo accordo con la madre e, in assenza di accordo, due pomeriggi ogni settimana nei giorni di martedì e giovedì, in assenza di diverso accordo tra le parti, dall’uscita da scuola fino alle ore 20,00 e, per la sola F., a week end alterni dal sabato mattina fino alla domenica alle ore 20,00, compatibilmente con le esigenze della ragazza. Per quanto riguarda C., possibilità per il padre di vederlo e tenerlo con sé nel week end anche per l’intera giornata del sabato e della domenica riaccompagnandolo presso la casa della madre alle ore 19,30, senza pernottamento, in ragione della tenera età del bambino; nel periodo estivo, possibilità per il sig. L. di restare 15 giorni con la figlia F., anche non consecutivi, previo accordo tra i genitori, festività natalizie e pasquali ad anni alterni tra i genitori; opportunità, per il padre, di tenere con sé il figlio C. per 15 giorni, dalle ore 09,30 sino alle ore 19,30, senza pernotto. 5) Obbligo per il sig. L. di corrispondere, a titolo di concorso per il mantenimento dei figli minori, F. e C., la somma di Euro 1.000,00 complessivi, rivalutabili secondo gli indici ISTAT annuali, oltre al 50% delle spese straordinarie, mediche e scolastiche, previamente concordate; ed Euro 600,00, rivalutabili secondo gli indici ISTAT annuali, per il mantenimento della sig.ra A..
Con la medesima ordinanza il Presidente nominava il giudice istruttore e fissava l’udienza di comparizione e trattazione, assegnando al ricorrente termine di giorni 30 prima dell’udienza sopra indicata per il deposito di memoria integrativa ex art. 163 c.p.c. ed alla resistente termine di giorni 10 prima dell’udienza sopra indicata per la costituzione in giudizio ai sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c., nonché per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.
Di ciò è stata data comunicazione al P.M., in ossequio al disposto di cui all’art. 70 c.p.c. ed in conformità con l’orientamento giurisprudenziale consolidato (tra le altre, v. Cass. 24.05.05 n. 10894; 07.02.03 n. 1829) secondo cui l’obbligatorietà dell’intervento del P.M. nelle cause di separazione dei coniugi, come nelle altre cause in cui tale partecipazione è imposta dalla legge, non richiede che un rappresentante di detto ufficio sia presente alle udienze istruttorie, o prenda conclusioni in occasione della rimessione della causa al Collegio, ma postula soltanto che detto ufficio sia informato del processo, per poter esercitare in esso i poteri attribuiti dall’ordinamento, ivi compreso quello di presentare conclusioni con comparsa scritta davanti al Collegio.
All’udienza di prima comparizione del 24/01/2018, successivamente al deposito rispettivamente della memoria integrativa e della comparsa di costituzione e risposta, il G.I. a scioglimento della riserva relativamente alle istanze di integrazione della ordinanza presidenziale del 23.09.2017, disponeva che:
– “i giorni di sabato e domenica che il minore C. deve trascorrere con il padre, la madre lo consegni entro le ore 10:00 dei predetti giorni”,
– “l’assegno per il mantenimento del coniuge e dei figli a carico del sig. L.M., sia da questi versato entro il giorno 5 di ogni mese, a decorrere dal prossimo mese di maggio 2018”.
Inoltre, su istanza concorde dei procuratori, concedeva alle parti i triplici termini di cui all’art. 183 6 comma, c.p.c. rinviando, per la decisione sulle istanze istruttorie, all’udienza del giorno 31 ottobre 2018.
Nelle memorie predette le difese delle parti incentravano la controversia su due questioni fondamentali: i) la quantificazione degli assegni di mantenimento per la resistente e per i figli ad esclusione di E. in quanto maggiorenne ed economicamente autosufficiente; ii) la domanda di addebito formulata dalla A. basata sulla relazione extraconiugale del L. con la sig.ra C.B..
In ordine alla crisi coniugale la difesa del L., dopo aver addotto in ricorso una sopravvenuta incompatibilità caratteriale tra i coniugi quale causa della crisi, nella memoria integrativa ha precisato che sussistevano “primi sintomi” di una crisi risalenti a “10 anni or sono”, quando la signora A. avrebbe, inspiegabilmente, iniziato ad avere un atteggiamento di freddezza, tanto da costituire una “barriera” che ha a mano a mano allontanato i consorti.
Nella comparsa di costituzione e risposta e nelle successive memorie ex art. 183 c.p.c., la difesa della resistente contestava tale ricostruzione rilevando che tali affermazioni trovavano puntuale smentita nella decisione maturata nel 2012 dai coniugi di acquistare in proprietà una casa per la famiglia contraendo un mutuo nel novembre 2012 e, soprattutto, di avere un altro figlio nel 2015 (nonostante le condizioni di salute della A. sconsigliassero una nuova gravidanza, soprattutto per l’età di 46 anni). Inoltre, parte resistente evidenziava come negli anni di matrimonio i coniugi avessero avuto una perfetta intesa di coppia, anche dal punto di vista lavorativo tale da determinare una crescita dell’attività imprenditoriale con profitti che hanno consentito alla famiglia di vivere molto agiatamente.
Ad avviso di parte resistente, il sig. L. avrebbe, in realtà, vissuto due “vite parallele” a partire dal settembre 2011, allorquando avrebbe iniziato la relazione con la signora C.B. (sua attuale compagna, con la quale convive dall’aprile 2016 unitamente ai due figli di lei) di cui la moglie solo a dicembre 2015 avrebbe scoperto la esistenza.
Tale situazione sarebbe stata confermata, ad avviso della difesa della sig.ra A., dallo stesso L. in un messaggio inviato alla moglie in data 18.3.2016 nel quale si legge testualmente “… sono stato bravissimo a non fartene accorgere (…)”.
La relazione extra-coniugale, scoperta nel dicembre 2015, dapprima minimizzata come una “semplice sbandata”, sarebbe stata anche ammessa dalla stessa amante del marito con la quale la resistente avrebbe avuto un fitto scambio di messaggi WhatsApp. In particolare, la difesa riporta un messaggio in cui la signora B. scrive alla A. che il 23/9 (anno 2015) hanno festeggiato 5 anni; in un altro messaggio la signora B. riferisce “quando è nato ___ (C.) lui stava a letto a casa mia”.
Il rapporto coniugale, quindi, sarebbe stato irrimediabilmente compromesso con la scoperta nel dicembre 2015 della relazione extraconiugale intrattenuta dal sig. L. con l’attuale compagna C.B. (pochi mesi dopo la nascita del figlio C.) e, all’esito di un duro confronto con il marito, nel corso del quale questi ammetteva la relazione.
In conclusione, la ricostruzione offerta dalla difesa della sig.ra A. dimostrerebbe come il tradimento del marito sia stato la causa della rottura del matrimonio, non corrispondendo al vero che il sig. L. dopo essersi rifugiato nell’aprile del 2016 presso la casa della sig.ra B. si sarebbe ripresentato presso la casa coniugale per “risolvere i problemi insorti”, e dopo un solo giorno, la A. lo avrebbe inspiegabilmente cacciato via in malo modo.
Per quanto riguarda le questioni economiche la difesa della A. ha insistito per una corresponsione di ammontare di gran lunga superiore a quanto proposto in ricorso dal L., attesa la reale e non dichiarata capacità reddituale del ricorrente quale titolare di una ditta di manutenzione di impianti di riscaldamento che durante il matrimonio avrebbe consentito alla famiglia una vita agiata e piena di svaghi, vacanze frequenti e costose, nonché un complessivo tenore di vita compatibile con il riconoscimento di un assegno alla moglie di Euro 2.000,00 mensili e ai due figli di complessivi Euro 1.000,00.
In particolare, la difesa della resistente deduce che gli incassi quotidiani per l’attività svolta dal ricorrente sarebbero andati da un minimo di Euro 250,00 a 700/800 Euro per una media di circa 5 interventi al giorno; tali ricavi sarebbero incompatibili con le dichiarazioni di natura fiscale in considerazione della consolidata pratica adottata di richiedere per gli interventi predetti il pagamento in nero senza ricevuta, circostanza questa ben nota alla signora A. che, in ragione del ruolo svolto di contabile, riceveva giornalmente l’elenco degli interventi eseguiti. A dire della resistente vi era in uso tra le parti un codice di comunicazione per distinguere gli interventi con ricevuta e quelli senza, ovvero misti, che superavano di gran lunga quelli con ricevuta. Di questi interventi, come detto, prendeva nota a fine giornata la signora A. alla quale venivano consegnate le schede degli interventi recanti le annotazioni “s/r” (senza ricevuta) e “c/r” (con ricevuta) (V. Doc. 13 e Doc. 14).
Ad oggi l’attività del sig. L.M. prosegue proficuamente con l’impresa familiare costituita unitamente al figlio E. come socio al 49%.
Per quanto concerne lo svolgimento da parte della A. di attività lavorativa presso la Trattoria Prati, la difesa della resistente ne contestava la sussistenza.
In ordine alla situazione reddituale la difesa del ricorrente deduceva viceversa come la situazione lavorativa attualmente abbia risvolti completamente diversi rispetto al passato considerato che il L. lavora con il mandato di assistenza di un solo marchio (Extraflame/Nordica), mandato che viene rinnovato annualmente e senza diritto di esclusiva; inoltre, le zone di competenza sarebbero state ridotte drasticamente con l’apertura di nuovi centri assistenza che hanno come competenza la provincia di Latina che in passato era di competenza esclusiva del ricorrente, e sulla quale ora non può più operare.
Pertanto, gli introiti derivanti dalla attività si sarebbero notevolmente ridotti a causa della concorrenza; parte ricorrente inoltre contestava la allegazione circa le entrate in c.d. nero atteso che nel settore nel quale lavora il sig. L. ormai da diversi anni durante gli interventi vi è l’obbligo di rilasciare il “Libretto di Climatizzazione” che attesta la regolarità della manutenzione sui prodotti di riscaldamento e questo di conseguenza prevede l’emissione di ricevuta, stessa cosa avviene nel caso di sostituzione di parti di ricambi sulle quali viene riconosciuta la garanzia di 2 anni da parte dell’azienda produttrice esclusivamente presentando un documento fiscale che attesta il periodo di sostituzione dello stesso ed è importante ricordare che il sig. L. lavora con tariffe che gli vengono obbligate dalla azienda madre come da listini che gli vengono inviati annualmente.
A riprova di quanto detto la difesa del L. allegava che l’utile netto relativo all’anno 2017 è stato pari ad Euro 30.003,00 così ripartito tra il ricorrente ed il figlio E.: il 49%, pari ad Euro 14.701,00 è spettato al sig. E.L. e la somma di Euro 15.302,00, pari al 51%, al sig. M.L..
A seguito dell’espletamento dei termini di cui sopra, l’odierno giudicante in sostituzione definitiva del precedente assegnatario, a scioglimento della riserva assunta all’udienza predetta, ammetteva con ordinanza del 24/11/2018 le prove per testi che venivano escussi successivamente.
I testi afferenti alla dedotta attività lavorativa della resistente hanno dichiarato quanto segue:
il teste S. ha riferito: “vado abitualmente a ritirare le pizze da asporto presso la trattoria Prati di Lariano e in una sola occasione nell’estate del 2018 ho intravisto in cucina la signora A. che conosco personalmente” ” Vado a prendere le pizze li quasi tutti i fine settimana e in altre occasioni non ho visto la signora anche per la collocazione della cucina all’interno del locale”;
il teste D.L. ha riferito: “nell’estate del 2018 in occasione di una cena con i miei collaboratori della ditta ho visto la signora A. in cucina” “Mi sono recato altre due volte alla trattoria Prati successivamente a questo episodio e non ho visto la signora A.; in occasione di una sagra nel giugno del 2018 che lavorava per la trattoria Prati che aveva uno stand all’interno della sagra stessa”.
In ordine alla circostanza relativa alla pratica di dissimulare gli incassi ha riferito il teste L.A., fratello del ricorrente che ha dichiarato: “ho lavorato con mio fratello fino all’ottobre del 2015 e successivamente mi sono dimesso.” Sui capitoli da 9 a 14 dichiara: Sugli interventi di assistenza eseguiti da me accanto all’importo indicavo la dicitura sr ossia senza ricevuta. Sul capitolo 19 nulla so; io incassavo di media circa Euro 300,00 giornalieri; eravamo io e mio fratello a fare gli interventi”.
Infine, ha deposto come teste la sig.ra C.B., attuale convivente del signor L. che ha testualmente dichiarato: “La mia relazione col L. è iniziata nel 2016” “Confermo quanto scritto nei messaggi di cui al doc. 15, ma preciso di aver scritto certe cose solo per rabbia, atteso che sebbene avesse intrapreso una relazione con me sin dal giugno 2016, (il L.) frequentava saltuariamente anche la moglie dal punto di vista intimo; a riprova la A. mi mandava messaggi in tal senso”.
Alla udienza del 20/11/2019 il G.I. tratteneva la causa in decisione assegnando i termini di legge di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito degli scritti conclusionali.
1. Separazione personale
La domanda di separazione personale formulata per quanto sopra detto da entrambe le parti deve essere accolta, in quanto l’indisponibilità delle parti ad una riconciliazione, per tutto il tempo in cui il processo si è protratto, dimostra che la convivenza coniugale è divenuta intollerabile.
Non vi è contestazione sull’impossibilità di ricostruire il consorzio familiare. L’elevata conflittualità che ha caratterizzato i rapporti tra le parti e la separazione iniziata, su autorizzazione del Presidente che ha pronunciato i provvedimenti provvisori, per tutta la durata del processo conducono ad escludere la possibilità di una riconciliazione tra i coniugi ed a riconoscere l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
2. Addebito
Va ricordato che in punto di diritto la pronuncia di addebito della separazione presuppone l’accertamento da parte del giudice non solo, ovviamente, del comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi ai doveri coniugali, ma anche che tale violazione abbia causato la crisi matrimoniale e che sussista, pertanto, un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza, condizione presupposta per la pronuncia di separazione (cfr. Cass. sez. 1, n. 279 del 12/01/2000; n. 23071 del 16/11/2005; n. 9877 del 28/04/2006; n. 18074 del 20/08/2014; sez. 6-1, ord. n. 3923 del 19/02/2018).
La pronuncia di addebito postula, quindi, in ogni caso, l’accertamento che il comportamento contrario ai doveri coniugali abbia causato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (Cass. Sez. I, 20/08/2014, n. 18074) mentre non può operare nei casi in cui emerga che il rapporto sia già compromesso per incompatibilità caratteriale o altre cause, poiché in questo caso la condotta è conseguenza e non causa della crisi coniugale già in atto.
Quale corollario di questi principi, e del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., la giurisprudenza è altrettanto consolidata nel ritenere che “grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà” (Cass. sez. 6-1, ord. n. 3923 del 19/02/2018; conforme sez. 1, sent. n. 2059 del 14/02/2012).
In punto di fatto, l’istruttoria svolta ha permesso di dimostrare che la relazione extraconiugale del L. con la B. è pacificamente anteriore alla crisi coniugale e che questa ha causato il definitivo allontanamento dell’odierno ricorrente dalla casa coniugale nel mese di Aprile 2016.
La anteriorità della relazione anzidetta è comprovata dalle risultanze della deposizione della teste B., attuale compagna del L., la quale ha confermato la riconducibilità a sé dei messaggi Whatsapp intercorsi nell’agosto 2016 con la A. in cui riferisce la esistenza della relazione antecedentemente alla convivenza con il L. stesso e, in particolare, che allorquando la resistente aveva partorito il terzo figlio C. nell’agosto 2015, il L. “era a letto” con lei. Inoltre, sempre in tale conversazione la B. conferma, in risposta a precisa domanda della A., che tale relazione extraconiugale durava da circa 5 anni e che il 23 settembre del 2015 avevano festeggiato 5 anni di relazione. Queste circostanze contenute nei messaggi predetti sono da ritenersi provate proprio in considerazione della espressa conferma da parte della B. circa la riconducibilità a lei degli stessi; la circostanza che la teste abbia tentato di modificare la tempistica della sua relazione con il L. dichiarando “di aver scritto certe cose solo per rabbia, atteso che, sebbene avesse intrapreso una relazione con me sin dal giugno 2016 (il L.) frequentava saltuariamente anche la moglie dal punto di vista intimo; a riprova la A. mi mandava messaggi in tal senso”, non sia da ritenere plausibile e credibile in considerazione della attuale stabilità di relazione fra la stessa e l’odierno ricorrente. E’ da ritenersi, invero, più attendibile quanto riferito dalla B. tramite messaggi in un momento in cui la situazione non era ancora sfociata nella attuale lite giudiziaria.
D’altra parte, la anteriorità della relazione è suffragata dalla condotta del L. che nell’aprile 2016 ha abbandonato la casa coniugale per trasferirsi senza soluzione di continuità presso l’abitazione della B.; è da rilevarsi come tale comportamento non possa che ritenersi compatibile esclusivamente con uno stabile e consolidato rapporto pregresso che ha determinato il L. non appena possibile a trasferirsi presso la B. con la quale intratteneva da tempo una relazione extraconiugale.
Ciò posto, è evidente che la crisi coniugale e la rottura della convivenza fra i coniugi sia stata determinata dalla decisione unilaterale del ricorrente di abbandonare la casa coniugale in relazione alla sua decisione unilaterale di andare a convivere con la B., abbandonando definitivamente la propria famiglia nell’aprile del 2016 a soli sei mesi dalla nascita del suo terzo figlio. Tale condotta è stata determinata dalla scelta del L. di abbandonare la sua famiglia per consolidare definitivamente la sua relazione extraconiugale che ha, quindi, determinato in via irreversibile la rottura del rapporto di coniugio.
In altri termini, la relazione extraconiugale risalente a più di cinque anni antecedenti ha determinato irreversibilmente il L. a rompere definitivamente ogni relazione con la A. e dunque ad abbandonare la casa familiare.
Pertanto, la domanda di addebito deve essere accolta.
3. Affidamento dei figli minori e regolamentazione del diritto di visita paterno
Occorre rilevare come, successivamente all’ordinanza presidenziale che ha disposto l’affidamento congiunto dei figli minori ad entrambi i genitori e la collocazione degli stessi presso la madre con conseguente assegnazione della casa coniugale alla medesima, la difesa del sig. M.L. ha concentrato le proprie istanze ed allegazioni esclusivamente sulla questione della quantificazione dal punto di vista economico degli assegni medesimi.
Inoltre, l’attuale età del figlio minore C. fa ritenere al Collegio di poter modificare il vigente regime di visita del padre prevedendo il pernotto presso lo stesso sempre che il minore abbia garantito uno spazio a lui dedicato presso l’abitazione del L..
Conseguentemente, non essendovi alcuno specifico motivo per modificare l’attuale assetto come predisposto dal Presidente f.f. ritiene il Collegio di dover confermare le condizioni tuttora vigenti sia con riferimento all’affidamento, al collocamento ed alla conseguente assegnazione della casa coniugale.
Pertanto, si dispone l’affidamento condiviso dei figli minori F. e C. con collocazione prevalente presso la madre signora D.A. con conseguente assegnazione dell’abitazione familiare in comproprietà tra i coniugi. Dispone inoltre che il padre possa vedere e tenere con sé i figli minori quando lo desideri previo accordo con la madre e, in assenza di accordo, due pomeriggi ogni settimana nei giorni di martedì e giovedì, in assenza di diverso accordo tra le parti, dall’uscita da scuola fino alle ore 20, nonché a week end alterni dal sabato mattina dalle ore 10,00 della mattina fino alla domenica alle ore 20, tenendo conto delle esigenze dei figli. Inoltre, il padre potrà trascorrere con i figli minori, nel periodo delle vacanze estive, 15 giorni, anche non consecutivi (o in diversi periodi concordati tra i coniugi), pervio accordo con la madre, nonché le festività natalizie e pasquali, alternando, quanto alle prime, il periodo tra il 24 e il 30 dicembre e il periodo tra il 31 dicembre ed il 6 gennaio e, quanto alle seconde, alternando le annualità e prevedendo che i giorni di Pasqua e il Lunedì successivo siano alternati tra i genitori, salvo diverso accordo tra le parti.
4. Assegno di mantenimento per i figli
Per quanto concerne il mantenimento per i figli minorenni le parti non hanno discusso in ordine all’an debeatur, ma hanno dissentito esclusivamente in relazione alla quantificazione del medesimo.
In proposito, ci si deve rifare ai parametri delineati dall’art. 337 ter c.c., ovvero, alle condizioni economiche del coniuge obbligato, alle esigenze di vita dei figli in base alla loro età ed al tempo di permanenza presso ciascun genitore (che incide sul contributo poiché nei periodi di frequentazione con il genitore non collocatario, questi provvede in via diretta al mantenimento dei figli).
Al riguardo la Suprema Corte (Sez. 1, Sentenza n. 17089 del 10/07/2013) ha affermato il principio secondo cui “Il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, stabilito dall’art. 147 cod. civ., obbliga i coniugi a far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione – fino a quando la loro età lo richieda – di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione. Tale principio trova conferma nel nuovo testo dell’art. 155 cod. civ., come sostituito dall’art. 1 L. 8 febbraio 2006, n. 54, il quale, nell’imporre a ciascuno dei coniugi l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, individua, quali elementi da tenere in conto nella determinazione dell’assegno, oltre alle esigenze del figlio, il tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di convivenza e le risorse economiche dei genitori, nonché i tempi di permanenza presso ciascuno di essi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura da loro assunti.”. Tali principi sono stati anche di recente ribaditi dalla Cassazione (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 4811 del 01/03/2018) che ha ribadito, in particolare, la rilevanza del principio di proporzionalità secondo cui “A seguito della separazione personale dei coniugi, nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio minore, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello per non aver effettuato un’adeguata indagine circa le risorse patrimoniali e reddituali di ciascuno dei genitori, ed avere pure espressamente trascurato la maggiore capacità patrimoniale del padre, comunque accertata nel caso concreto).”.
Con riferimento alle capacità economiche, è stato chiarito come il parametro di riferimento ai fini della determinazione del concorso dei genitori negli oneri finanziari è costituito non soltanto dalle sostanze materiali, ma anche dalla capacità di lavoro, professionale o casalingo, di ciascun coniuge, implicando quindi una valorizzazione anche delle accertate potenzialità reddituali (cfr. art. 316 bis primo comma, c.c.).
Invero, quanto al coniuge obbligato, deve aversi riguardo non solo e non tanto esclusivamente al reddito, quanto alla sua complessiva capacità economica (cfr. Cass. sez. 6-1, n. 17667 del 4/09/2015), comprensiva di ogni utilità economicamente valutabile (Cass. sez. 1, n. 9718 del 23/04/2010 e n. 3502 del 13/02/2013).
In base a questi criteri rileva il Collegio come vada nel caso di specie confermato l’ammontare stabilito in sede presidenziale di complessivi Euro 1.000,00 (Euro 500,00 ciascuno) a titolo di contributo al mantenimento dei figli, atteso che il L. ha una reale capacità reddituale non compatibile con quanto dichiarato in termini di utili derivanti dalla impresa familiare costituita con il figlio maggiorenne pari a circa Euro 15.000,00 annui. Invero, è da ritenere presumibile, alla luce della gestione pregressa delle società riconducibili al L. come emergente dalla documentazione in atti nonché dalla deposizione del fratello A.L., socio della cooperativa esercente la medesima attività di impresa ad oggi svolta dal ricorrente, che gran parte degli introiti nella misura di circa il 50% vengano percepiti in nero con la corresponsione del danaro da parte del cliente per il servizio prestato senza la emissione della prescritta ricevuta. A tal riguardo, il teste A.L. ha confermato che, quando era socio lavoratore della cooperativa G., incassava per accordo con gli altri due soci, odierne parti del presente giudizio, gran parte dei corrispettivi per i servizi svolti senza emissione di ricevuta. Al riguardo è da ritenersi che tale prassi purtroppo assai diffusa nel paese continui ad essere utilizzata anche per la gestione della attuale impresa familiare costituita dal L. con il figlio E., per cui è presumibile che il ricorrente possa in concreto fare affidamento su introiti ben più alti di quelli dichiarati a fini fiscali.
Conseguentemente, è da ritenere induttivamente che il L. percepisca almeno un utile pari al doppio di quello dichiarato con la conseguenza che possa fare affidamento su circa Euro 3.000,00 mensili.
Tale situazione reddituale fa ritenere congruo un ammontare pari ad Euro 1.000,00 mensili per i figli. Per quanto concerne le spese straordinarie rileva il Collegio che lo squilibrio economico fra i coniugi (la A. è attualmente disoccupata avendo perso la sua occupazione di addetta alla contabilità della impresa del marito) possa comportare una ripartizione all’80% a carico del L. da corrispondersi alla A. previo accordo in ordine alla decisione circa il sostenimento delle stesse. 5. Assegno di mantenimento per la moglie
In punto di diritto si ricorda che, secondo la giurisprudenza, occorre avere riguardo al fatto che la separazione, a differenza del divorzio, “presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale” (Cass. sez. 1, n. 12196 del 16/05/2017); è poi stato chiarito che, oltre ai redditi del coniuge obbligato – o meglio, alla sua complessiva capacità economica (cfr. Cass. sez. 6-1, n. 17667 del 4/09/2015), comprensiva di ogni utilità economicamente valutabile (Cass. sez. 1, n. 9718 del 23/04/2010 e n. 3502 del 13/02/2013), occorre tenere conto anche di altri fattori (le “circostanze” non tipizzate e non individuate dall’art. 156 c.c.), costituiti da tutti quegli elementi fattuali di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito ed idonei ad incidere sulle condizioni economiche delle parti (in questi termini Cass. sez. 1, n. 605 del 12/01/2017); con particolare riferimento, tra i fattori da valutare, alla capacità lavorativa del coniuge richiedente, la Suprema Corte ha evidenziato che “l’attitudine al lavoro proficuo … quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, qualora venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche” (Cass. sez. 6-1, n. 5817 del 9/03/2018; sez. 1, n. 3502 del 13/02/2013). Sintetizzando i principi sopra richiamati, si può dunque affermare che i tre presupposti per ottenere il mantenimento a favore di uno dei coniugi sono la non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente l’assegno, la mancanza da parte del beneficiario di adeguati redditi propri, la sussistenza di una disparità economica tra i due coniugi, dovendosi precisare, come già detto, che con il termine di “reddito” il legislatore ha voluto riferirsi non solo al denaro ma anche ad ogni altra diversa utilità, purché economicamente valutabile (ex multis Cass. 4543/1998; Cass. 19291/2005; Cass. 6769/2007; Cass. 2445/2015).
L’onere probatorio di dimostrare i suddetti presupposti grava, ovviamente, sulla parte che chiede l’attribuzione dell’assegno in suo favore, che non solo deve provare la mancanza di redditi adeguati o addirittura il suo stato di indigenza (Cass. sez. 1, n. 4204 del 24/02/2006), e, più in generale, la sua attuale condizione patrimoniale, ma anche il tenore di vita avuto in costanza di matrimonio e l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive – quest’ultima “da valutarsi in relazione alla situazione esistente nell’attualità e, in particolare, alla possibilità, per il richiedente, di svolgere un’attività lavorativa adeguata alla sua qualifica, posizione sociale e condizioni personali, d’età e di salute” (Cass. Sez. 6-1, ord. n. 25781 del 30/10/2017). Sulla scorta dei superiori principi giurisprudenziali osserva il Collegio come la domanda di parte resistente vada accolta con riferimento all’an debeatur considerata la non opposizione da parte del L. che nelle conclusioni ha chiesto che il Tribunale riconoscesse alla A. “un assegno di Euro 300/00 quale assegno di mantenimento, annualmente rivalutabile secondo gli indici ISTAT.”.
Le odierne parti controvertono, pertanto, esclusivamente in ordine al quantum debeatur.
Al riguardo, ritiene il Tribunale congruo quanto stabilito in sede presidenziale, atteso che la A. risulta pacificamente essere stata impegnata a tempo pieno sia per la famiglia da ormai circa 20 anni che nel lavoro di contabile al servizio della impresa del coniuge da cui è fuoriuscita a seguito della separazione, per cui allo stato attuale non possiede una stabile attività lavorativa che le consenta la percezione di una autonoma retribuzione mensile. Tale situazione comporta un evidente squilibrio reddituale fra le parti che impone il riconoscimento alla stessa di un assegno di mantenimento al fine di consentirle di godere di un tenore di vita se non identico, ma, comunque, analogo a quello sostenuto durante la vita coniugale. Peraltro, la circostanza dedotta dal resistente circa le potenzialità della ricorrente di trovare una idonea attività lavorativa non è suffragata da alcun elemento specifico; la attuale precaria e saltuaria attività lavorativa quale cameriera presso la trattoria “Prati” non consente di ritenere la resistente economicamente autonoma ed autosufficiente, sebbene faccia presumere una sua potenzialità reddituale.
Ritiene, pertanto, il Collegio congruo un assegno mensile pari ad Euro 600,00 oltre rivalutazione ISTAT, come quantificato in sede presidenziale.
5. Spese di lite
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa, così provvede:
1) Dichiara la separazione personale tra M.L. e D.A. con addebito al sig. L.M., ordinando l’annotazione al competente Ufficio dello Stato Civile del Comune di Velletri;
2) dispone l’affidamento condiviso dei figli minori ad entrambi i genitori, con collocamento prevalente presso la madre cui viene assegnata la casa coniugale;
3) dispone che entrambi i genitori esercitino la responsabilità genitoriale, assumendo di comune accordo, tenendo conto della capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli minori, le decisioni di maggior interesse per gli stessi – riguardanti l’istruzione, l’educazione e la salute – mentre per le sole questioni di ordinaria gestione, limitatamente a ciò che attiene all’organizzazione della vita quotidiana, la responsabilità genitoriale sarà esercitata dal genitore presso cui i minori sono collocati;
4) dispone che il padre possa vedere e tenere con sé i figli minori quando lo desideri previo accordo con la madre e, in assenza di accordo, due pomeriggi ogni settimana nei giorni di martedì e giovedì, in assenza di diverso accordo tra le parti, dall’uscita da scuola fino alle ore 20, nonché a week end alterni dal sabato mattina dalle ore 10,00 della mattina fino alla domenica alle ore 20, tenendo conto delle esigenze dei figli. Inoltre, il padre potrà trascorrere con i figli minori, nel periodo delle vacanze estive, 15 giorni, anche non consecutivi (o in diversi periodi concordati tra i coniugi), previo accordo con la madre, nonché le festività natalizie e pasquali, alternando, quanto alle prime, il periodo tra il 24 e il 30 dicembre e il periodo tra il 31 dicembre ed il 6 gennaio e, quanto alle seconde, alternando le annualità e prevedendo che i giorni di Pasqua e il Lunedì successivo siano alternati tra i genitori, salvo diverso accordo tra le parti.
5) determina in complessivi Euro 1.000,00 (Euro 500,00 mensili ciascuno) annualmente rivalutabili in base agli indici ISTAT, l’assegno quale contributo di mantenimento dovuto da M.L. ai figli da corrispondersi al 5 di ogni mese alla madre D.A. tramite bonifico bancario su c/c intestato alla stessa, con decorrenza dalla pubblicazione della presente sentenza, fermi i provvedimenti assunti in corso di causa;
6) dispone che L.M. contribuisca al 80% delle spese straordinarie per i figli, così come individuate e disciplinate dal protocollo in uso presso questo tribunale, da intendersi qui riportato;
7) determina in complessivi Euro 600,00 annualmente rivalutabili in base agli indici ISTAT, l’assegno quale mantenimento dovuto da M.L. alla D.A. da corrispondersi al 5 di ogni mese tramite bonifico bancario su c/c intestato alla stessa, con decorrenza dalla pubblicazione della presente sentenza, fermi i provvedimenti assunti in corso di causa;
8) rigetta ogni altra domanda;
9) condanna M.L. al pagamento delle spese di lite in favore di P.S. che liquida in complessivi Euro 7.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge.
Così deciso dal Tribunale Ordinario di Velletri, riunito in camera di consiglio in data 9 marzo 2020.
Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2020.

Abuso della qualità di magistrato

Cassazione Sez. Un. Civili, 28 Maggio 2020, n. 10086. Pres. Mammone. Est. Lombardo
FATTO
1. Con ordinanza del 9 novembre 2018, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Caltanissetta applicò la misura dell’interdizione dall’esercizio delle funzioni per il periodo di un anno nei confronti del Dott. A.B., magistrato in servizio presso il Tribunale di A. con funzioni di giudice, nell’ambito di un procedimento penale nel quale erano emersi, a suo carico, gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di corruzione in atti giudiziari (artt. 81 cpv., 110, 319 e 321 c.p.), in concorso con l’ipotizzato soggetto corruttore, C.D., attinto a sua volta dalla misura cautelare della sospensione, per la durata di un anno, dall’attività di amministratore giudiziario e di ausiliario dell’Autorità Giudiziaria.
A seguito dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare, sia il Ministro della Giustizia che il Procuratore Generale presso questa Suprema Corte chiesero la sospensione cautelare obbligatoria dell’incolpato dall’esercizio delle funzioni e dallo stipendio, nonchè il suo collocamento fuori dal ruolo organico della Magistratura, ai sensi del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 21.
Il Ministro chiese inoltre, per i medesimi fatti, anche la sospensione cautelare facoltativa ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22 per l’eventualità che fossero venuti meno i presupposti della sospensione cautelare obbligatoria.
In entrambe le richieste degli organi titolari dell’azione disciplinare, fu ipotizzata a carico del Dott. S. la sussistenza dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d) (“illecito disciplinare conseguente a reato”).
Il Ministro della Giustizia contestò altresì al magistrato gli “illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni” previsti: dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. a) per la violazione dei doveri di imparzialità, correttezza riserbo ed equilibrio, con ingiusto danno arrecato ad una delle parti; dall’art. 2, comma 1, lett. c), per la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione; e dall’art. 2, comma 1, lett. d), per aver tenuto comportamenti gravemente scorretti nei confronti di una delle parti.
La vicenda atteneva alla condotta tenuta dal Dott. S., quale giudice del Tribunale di A. delegato a provvedere sull’istanza di fallimento avanzata dalla locale Procura della Repubblica nei confronti della società sportiva calcistica “(*)” s.p.a. e alle utilità che il magistrato aveva ottenuto da C.D., presidente del consiglio di amministrazione della detta società.
In particolare, il Dott. S. fu incolpato dal Ministro della Giustizia:
“dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 4, lett. d) in relazione alla commissione dei fatti reato qui di seguito indicati:
A) D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d), in relazione agli artt. 81 cpv., 110, 319 e 321 c.p., perchè, in concorso con C.D., con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, nella sua qualità di Giudice del Tribunale di A. delegato nell’ambito del procedimento n. 392/2017 R.G. relativo alla istanza di fallimento presentata dalla Procura della Repubblica di A. nei confronti della società “(*)” s.p.a. e dunque di pubblico ufficiale, 1) alterava il corretto svolgimento della procedura prefallimentare sopra citata, tenendo le condotte sotto meglio indicate:
– omettendo di astenersi in presenza di gravi ragioni di convenienza, ex art. 51 c.p.c., comma 3, atteso che era legato da un pregresso rapporto di conoscenza ed estrema confidenza con C.D., Presidente del Consiglio di Amministrazione della “(*)” s.p.a.;
– nominando, quale componente del collegio peritale investito della valutazione in ordine alla sussistenza dello stato di insolvenza della società sopra indicata, SA.Da., sebbene quest’ultimo si trovasse, a sua volta, in una situazione nella quale avrebbe potuto essere ricusato ex art. 63 c.p.c., comma 2, in ragione dei rapporti personali e professionali con C.D. medesimo, noti al Giudice;
– fornendo, una volta individuati, per il tramite del consulente nominato SA.Da., gli aspetti di maggiore criticità nella valutazione della sussistenza dello stato di insolvenza della “(*)” s.p.a., a D.T.F.P., legale della summenzionata società, indicazioni sulla condotta da tenere per elidere gli effetti delle summenzionate criticità;
impartendo, a SA.Da., direttive finalizzate a non far emergere, nell’elaborato peritale, criticità delle quali entrambi erano a conoscenza, invitandolo:
o a non svolgere accertamenti sulla solvibilità di Alyssa s. a. (debitore di “(*)” s.p.a. per l’ammontare di 40.000.000,00) e di E.F. (fideiussore del credito sopra indicato), sebbene inizialmente il SA. segnalasse la necessità di effettuare una visura alla centrale rischi in riferimento a tutte le società del cosiddetto “Gruppo Z.” e comunque riferisse al Giudice che la valutazione della solvibilità del debitore era parametro fondamentale per vagliare la possibilità di svalutare un credito;
o a non inserire considerazioni in merito alla fittizietà dell’operazione di cessione ad Alyssa s. a. delle quote di H. s.p.a., sebbene entrambi ne fossero consapevoli;
o ad effettuare, in seno alla relazione di consulenza, simulazioni in ordine alla integrale svalutazione del credito di Euro 40.000.000,00 vantato da “(*)” s.p.a., ma solo bilanciando l’eventualità con quella, segnalata come priva di qualsivoglia addentellato a dati reali e/o accertati nel procedimento, della promozione della “(*)” s.p.a.;
2) redigendo, all’esito della summenzionata procedura, un decreto di rigetto dell’istanza, da considerarsi atto contrario ai doveri di ufficio in quanto adottato, per le ragioni sopra indicate, in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale a lui attribuito, riceveva o comunque accettava la promessa per sè e per altri, da C.D., Presidente della “(*)” s.p.a., privato corruttore interessato all’esito della procedura, delle seguenti utilità:
– per P.V., persona con la quale intratteneva una relazione sentimentale, la collocazione nel comitato etico della “(*)” s.p.a., ruolo appositamente creato per lei, con rimborso mensile pari ad Euro 1.000,00;
– per P.V. e gli altri membri della sua famiglia, 4 biglietti in “Tribuna autorità”, del valore di Euro 150,00 ciascuno, per la partita (*);
– per P.F., fratello di P.V. e dunque soggetto legato a quest’ultima, la promessa nell’inserimento nel collegio difensivo di Z.M. nel procedimento penale n. 5310/2017;
– per P.V. e gli altri membri della sua famiglia, 3 biglietti in “Tribuna autorità”, del valore di Euro 150,00 ciascuno, per la partita (*);
– per sè stesso, un pass per posteggiare nel “piazzale antistante ippodromo”, in occasione della partita (*), nonchè l’ingresso nella sala riservata della Tribuna autorità nel corso dell’intervallo ed alla Tribuna autorità (alla quale si accede mediante acquisto di un biglietto del costo di Euro 150,00, senza riduzione per i bambini) nel corso del secondo tempo della competizione, unitamente al figlio e a due compagni di scuola del medesimo, sebbene avesse acquistato, per sè stesso e per i bambini 4 biglietti di “Tribunale laterale” al costo di Euro 30,00 per l’unico adulto e Euro 14,00 per i minori;
per sè stesso, la partecipazione della classe prima F della scuola media (*), frequentata dal figlio G., alle commemorazioni di F.G., tenutesi alla aula-bunker di (*).
A (*). Così ponendo in essere gli estremi costitutivi del delitto di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio.
Notizia circostanziata dei fatti acquisita il 27 novembre 2018 (data di ricezione della imputazione provvisoria elevata in sede cautelare dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta).
B) D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. a), perchè, quale Giudice del Tribunale di A., violando i doveri di imparzialità, correttezza, riserbo ed equilibrio, arrecava un ingiusto danno alla massa dei creditori di “(*)” s.p.a. e un indebito vantaggio a quest’ultima società, alterando e pilotando l’esito del procedimento n. 392/2017 R.G. relativo alla istanza di fallimento presentata dalla Procura della Repubblica di A. nei confronti della suddetta società, in modo tale da far emettere dal collegio un provvedimento di rigetto dell’istanza non fondato sulle effettive emergenze procedimentali, in particolare:
– nominando, quale componente del collegio peritale investito della valutazione in ordine alla sussistenza dello stato di insolvenza della società sopra indicata, SA.Da., sebbene quest’ultimo si trovasse, a sua volta, in una situazione nella quale avrebbe potuto essere ricusato ex art. 63 c.p.c., comma 2, in ragione dei rapporti personali e professionali con C.D. medesimo, noti al Giudice;
– fornendo, una volta individuati, per il tramite del consulente nominato SA.Da., gli aspetti di maggiore criticità nella valutazione della sussistenza dello stato di insolvenza della “(*)” s.p.a., a D.T.F.P., legale della summenzionata società, indicazioni sulla condotta da tenere per elidere gli effetti delle summenzionate criticità;
impartendo, a SA.Da., direttive finalizzate a non far emergere, nell’elaborato peritale, criticità delle quali entrambi erano a conoscenza, invitandolo:
o a non svolgere accertamenti sulla solvibilità di Alyssa s. a. (debitore di “(*)” s.p.a. per l’ammontare di Euro 40.000.000,00) e di E.F. (fideiussore del credito sopra indicato), sebbene inizialmente il SA. segnalasse la necessità di effettuare una visura alla centrale rischi in riferimento a tutte le società del cosiddetto “Gruppo Z.” e comunque riferisse al Giudice che la valutazione della solvibilità del debitore era parametro fondamentale per vagliare la possibilità di svalutare un credito;
o a non inserire considerazioni in merito alla fittizietà dell’operazione di cessione ad Alyssa s.a. delle quote di H. s.p.a., sebbene entrambi ne fossero consapevoli;
o ad effettuare, in seno alla relazione di consulenza, simulazioni in ordine alla integrale svalutazione del credito di Euro 40.000.000,00 vantato da “(*)” s.p.a., ma solo bilanciando l’eventualità con quella, segnalata come priva di qualsivoglia addentellato a dati reali e/o accertati nel procedimento, della promozione della “(*)” s.p.a.;
– redigendo, all’esito della summenzionata procedura, un decreto di rigetto dell’istanza, da considerarsi atto contrario ai doveri di ufficio in quanto adottato, per le ragioni sopra indicate, in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale a lui attribuito.
Notizia circostanziata dei fatti acquisita il 27 novembre 2018 (data di ricezione della imputazione provvisoria elevata in sede cautelare dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta).
C) D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c), perchè, quale Giudice del Tribunale di A., ometteva di astenersi nel procedimento n. 392/2017 R.G. relativo alla istanza di fallimento presentata dalla Procura della Repubblica di A. nei confronti della società “(*)” s.p.a., pur in presenza di gravi ragioni di convenienza, ex ad. 51 c.p.c., comma 3, atteso che era legato da un pregresso rapporto di conoscenza ed estrema confidenza con C.D., Presidente del Consiglio di Amministrazione della società intimata.
Notizia circostanziata dei fatti acquisita il 27 novembre 2018 (data di ricezione della imputazione provvisoria elevata in sede cautelare dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta).
D) D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), perchè, Giudice del Tribunale di A. delegato nell’ambito del procedimento n. 392/2017 R.G. relativo alla istanza di fallimento presentata dalla Procura della Repubblica di A. nei confronti della società “(*)” s.p.a., poneva in essere comportamenti gravemente scorretti nei confronti delle parti (e, in particolare, della Procura istante), alterando e pilotando l’esito del procedimento n. 392/2017 R.G. relativo alla istanza di fallimento presentata dalla Procura della Repubblica di A. nei confronti della società “(*)” s.p.a. in modo tale da far emettere dal collegio un provvedimento di rigetto dell’istanza non fondato sulle effettive emergenze procedimentali, in particolare:
– nominando, quale componente del collegio peritale investito della valutazione in ordine alla sussistenza dello stato di insolvenza della società sopra indicata, SA.Da., sebbene quest’ultimo si trovasse, a sua volta, in una situazione nella quale avrebbe potuto essere ricusato ex art. 63 c.p.c., comma 2, in ragione dei rapporti personali e professionali con C.D. medesimo, noti al Giudice;
– fornendo, una volta individuati, per il tramite del consulente nominato SA.Da., gli aspetti di maggiore criticità nella valutazione della sussistenza dello stato di insolvenza della “(*)” s.p.a., a D.T.F.P., legale della summenzionata società, indicazioni sulla condotta da tenere per elidere gli effetti delle summenzionate criticità;
– impartendo, a SA.Da., direttive finalizzate a non far emergere, nell’elaborato peritale, criticità delle quali entrambi erano a conoscenza, invitandolo:
o a non svolgere accertamenti sulla solvibilità di Alyssa s.a. (debitore di “(*)” s.p.a. per l’ammontare di ? 40.000.000,00) e di E.F. (fideiussore del credito sopra indicato), sebbene inizialmente il SA. segnalasse la necessità di effettuare una visura alla centrale rischi in riferimento a tutte le società del cosiddetto “Gruppo Z.” e comunque riferisse al Giudice che la valutazione della solvibilità del debitore era parametro fondamentale per vagliare la possibilità di svalutare un credito;
o a non inserire considerazioni in merito alla fittizietà dell’operazione di cessione ad Alyssa s.a. delle quote di H. s.p.a., sebbene entrambi ne fossero consapevoli;
o ad effettuare, in seno alla relazione di consulenza, simulazioni in ordine alla integrale svalutazione del credito di Euro 40.000.000,00 vantato da “(*)” s.p.a., ma solo bilanciando l’eventualità con quella, segnalata come priva di qualsivoglia addentellato a dati reali e/o accertati nel procedimento, della promozione della “(*)” s.p.a.;
– redigendo, all’esito della summenzionata procedura, un decreto di rigetto dell’istanza, da considerarsi atto contrario ai doveri di ufficio in quanto adottato, per le ragioni sopra indicate, in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale a lui attribuito.
Notizia circostanziata dei fatti acquisita il 27 novembre 2018 (data di ricezione della imputazione provvisoria elevata in sede cautelare dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta)”.
Il Dott. S. fu inoltre incolpato dal Procuratore Generale:
“dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, lett. d), per avere commesso i fatti costituenti reato – per i quali al predetto risulta applicata la misura cautelare personale della sospensione dal pubblico ufficio inerente le attività di magistrato per anni uno, emessa dal Gip presso il Tribunale di Caltanissetta in data 9 novembre 2018 ed eseguita il 26 novembre 2018 – idonei a ledere l’immagine del magistrato, di seguito indicati come si evincono – e testualmente si riportano – dalla stessa ordinanza cautelare:
S.G. (in concorso con C.D.).
1) delitto di cui agli artt. 81 cpv., 110, 319 e 321 c.p. perchè, in concorso tra loro, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi:
S.G. nella sua qualità di giudice delegato nell’ambito del procedimento n. 392/2017 RG del Tribunale di A. relativo alla istanza di fallimento presentata dalla Procura della Repubblica di A. nei confronti della (*) spa e dunque di pubblico ufficiale, per avere alterato il corretto svolgimento della procedura pre-fallimentare sopra citata, tenendo le condotte sotto meglio indicate:
omettendo di astenersi in presenza di gravi ragioni di convenienza, ex art. 51 c.p.c., comma 3, atteso che era legato da un pregresso rapporto di conoscenza ed estrema confidenza con C.D., Presidente del Consiglio di Amministrazione della (*) spa;
– nominando quale componente del collegio peritale investito della valutazione in ordine alla sussistenza dello stato di insolvenza della società sopra indicata, SA.Da. sebbene quest’ultimo si trovasse a sua volta in una situazione nella quale avrebbe potuto essere ricusato ex art. 63 c.p.c., comma 2 in ragione di rapporti personali e professionali con C.D. medesimo, noti al giudice;
– fornendo, una volta individuati, per il tramite del consulente nominato SA.Da., gli aspetti di maggiore criticità nella valutazione della sussistenza dello stato di insolvenza della (*) s.p.a., indicazioni sulla condotta da tenere per elidere gli effetti delle summenzionate criticità;
– impartendo, a SA.Da., direttive finalizzate a non far emergere, nell’elaborato peritale, criticità delle quali entrambi erano a conoscenza, invitandolo: a) a non svolgere accertamenti sulla solvibilità di Alyssa s. a. (debitore della (*) spa per l’ammontare di 40 milioni di Euro) e di E.F. (fidejussore del credito sopra indicato sebbene inizialmente Sa. segnalasse la necessità di effettuare una visura alla centrale rischi in riferimento a tutte le società del cosiddetto gruppo Z. e comunque riferisse al giudice che la valutazione della solvibilità del debitore era parametro fondamentale per vagliare la possibilità di svalutare un credito; b) a non inserire considerazioni in merito alla fittizietà dell’operazione di cessione ad Alyssa s. a. delle quote di H. spa, sebbene entrambi fossero consapevoli; c) ad effettuare in seno alla relazione di consulenza simulazioni in ordine alla integrale svalutazione del credito di 40 milioni di Euro vantato dalla (*) s.p.a., ma solo bilanciando l’eventualità con quella, segnalata come priva di qualsivoglia addentellato a dati reali e/o accertati nel procedimento, della promozione della (*) s.p.a.;
redigendo, all’esito della summenzionata procedura, un decreto di rigetto dell’istanza, da considerarsi atto contrario ai doveri d’ufficio in quanto adottato, per le ragioni sopra indicate, in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale a lui attribuito, riceveva o comunque accettava la promessa, per sè e altri, da C.D., Presidente della (*) s.p.a., privato corruttore interessato all’esito della procedura, delle seguenti utilità:
– per P.V., persona con la quale intratteneva una relazione sentimentale, la collocazione nel comitato etico della (*) spa, ruolo appositamente creato per lei con rimborso mensile pari a Euro 1.000,00;
– per P.V. e gli altri membri della sua famiglia, 4 biglietti in Tribuna autorità del valore di Euro 150,00 ciascuno per la partita (*);
– per P.F., fratello di P.V. e dunque soggetto legato a quest’ultima, la promessa di inserimento nel collegio difensivo di Z.M. nel procedimento penale n. 5310/2017;
– per P.V. e gli altri membri della sua famiglia 3 biglietti in Tribuna autorità del valore di Euro 150,00 ciascuno per la partita (*);
– per sè stesso, un pass per posteggiare nel piazzale antistante l’ippodromo, in occasione della partita (*), nonchè l’ingresso alla sala riservata della Tribuna autorità nel corso dell’intervallo ed alla Tribuna autorità (alla quale si accede mediante acquisto del biglietto del valore di Euro 150,00 senza riduzione per i bambini) nel corso del secondo tempo della competizione unitamente al figlio e a due compagni di scuola del medesimo, sebbene avesse acquistato per sè stesso e per i bambini 4 biglietti di Tribuna laterale al costo di Euro 30,00 per l’unico adulto e Euro 14,00 ciascuno per i minori;
– per sè stesso, la partecipazione della classe prima F della scuola media (*) frequentata dal figlio G., alle commemorazioni di F.G., tenutesi all’aula bunker di (*).
A (*)”.
All’udienza del 20/09/2019, il Procuratore generale integrò l’originaria contestazione con la seguente:
“2) delitto di cui all’art. 323 c.p., commi 1 e 2, perchè, nella qualità di giudice delegato nell’ambito del procedimento del Tribunale di A. relativo al fallimento della società (*) s.r.l. (con sede in Borgetto A. via Circonvallazione snc, esercente l’attività di ristorazione con somministrazione, p.i. (*)) e dunque di pubblico ufficiale, nello svolgimento delle sue funzioni:
– omettendo di astenersi nei casi previsti dalla legge e segnatamente per la presenza di gravi ragioni di convenienza, ex art. 51 c.p.c., comma 3;
– e comunque in violazione della summenzionata disposizione nonchè dell’art. 97 Cost. che prevede che “i pubblici ufficiali sono organizzati secondo le disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”;
– nominando P.V., persona con la quale intratteneva una relazione sentimentale, curatore della procedura sopra indicata, intenzionalmente le procurava l’ingiusto vantaggio patrimoniale rappresentato dal conferimento alla medesima, nonostante la giovane età, del summenzionato incarico in un fallimento “grosso”, vantaggio ingiusto in quanto la nomina era il frutto di un esercizio del potere discrezionale orientato, non già a perseguire l’interesse pubblico, bensì ad assicurare alla P. una “realizzazione” all’interno della Sezione Fallimentare di A..
Con l’aggravante di avere procurato a P.V. un vantaggio patrimoniale di rilevante entità.
A (*).
Notizia circostanziata dei fatti acquisita il (*). In data (*)”.
2. – Decidendo sulla richiesta di misura cautelare avanzata dai titolari dell’azione disciplinare, il Consiglio Superiore della Magistratura, con ordinanza n. 14 del 10/01/2019, dispose nei confronti del Dott. S., ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 21 e 22 sia la sospensione cautelare “obbligatoria” che quella “facoltativa” dalle funzioni e dallo stipendio, nonchè il suo collocamento fuori dal ruolo organico della Magistratura, con corresponsione di un assegno alimentare nella misura indicata nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 10, comma 2.
3. – Successivamente, nell’ambito del procedimento penale, intervenne la pronuncia del Tribunale del Riesame di Caltanissetta (ordinanza n. 600/2018, depositata il 4.02.2019), con la quale fu esclusa la configurabilità, a carico del Dott. S., del reato di corruzione propria di cui all’art. 319 c.p. (“corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio”) e fu invece ritenuto configurabile il reato di “corruzione per l’esercizio della funzione” previsto dall’art. 318 c.p., provvedendosi così a ridurre la durata della misura cautelare interdittiva da 12 a 6 mesi.
Tale ordinanza fu oggetto di ricorso per cassazione e questa Suprema Corte, con sentenza n. 37098 del 2 aprile 2019 (depositata il 4 settembre 2019), annullò senza rinvio l’ordinanza del Tribunale del Riesame e l’ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Caltanissetta applicativa della misura cautelare.
Dopo la pronuncia della Corte di cassazione, il Procuratore generale, all’udienza del 20/09/2019, contestò all’incolpato l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d), in ordine ai fatti di cui al contestato delitto di cui all’art. 323 c.p., concernente l’incarico di curatore fallimentare che, nei primi mesi dell’anno 2018, il Dott. S. aveva conferito, nell’ambito del fallimento della società “(*)” s.r.l., all’avv. P.V., alla quale l’incolpato era legato da una relazione sentimentale.
Il difensore dell’incolpato chiese, poi, al Consiglio Superiore della Magistratura, la revoca della sospensione cautelare obbligatoria e facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio.
4. – Con ordinanza n. 104 del 2019, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha disposto la revoca della misura della sospensione cautelare obbligatoria dalle funzioni e dallo stipendio già adottata nei confronti del magistrato; ha dichiarato inammissibile la richiesta di applicazione della misura del trasferimento provvisorio dell’incolpato, avanzata dal Procuratore Generale all’udienza del 20/09/2019 in relazione ai fatti di cui al reato di abuso d’ufficio ipotizzato dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta e oggetto di contestazione suppletiva in sede di disciplinare; ha, infine, sostituito la misura della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio, già applicata al Dott. S., con quella del trasferimento provvisorio del medesimo ad altro ufficio di un distretto limitrofo (ufficio individuato nel Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, facente parte del limitrofo distretto della Corte di Appello di Messina), in relazione all’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), così modificata la qualificazione giuridica del fatto contestato al capo a), punto 2, dell’incolpazione elevata dal Ministro della Giustizia.
4.1. – In primo luogo, la Sezione disciplinare ha preso atto della richiamata sentenza di questa Corte che aveva escluso la sussistenza, a carico del Dott. S., di gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di corruzione di cui all’art. 318 c.p. (quale era stato ritenuto dal Tribunale del Riesame), ritenendo così doverosa secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 21, comma 3, – la revoca della sospensione cautelare obbligatoria dalle funzioni e dallo stipendio.
4.2. – In secondo luogo, la Sezione disciplinare ha dichiarato inammissibile la richiesta di applicazione della misura cautelare del trasferimento provvisorio dell’incolpato, avanzata dal Procuratore Generale, in ordine ai fatti di cui al diverso reato di cui all’art. 323 c.p. (concernente l’incarico di curatore fallimentare conferito dal Dott. S. all’avv. P.V. nell’ambito del fallimento della società “(*)” s.r.l.); ciò in quanto, i fatti oggetto di tale ipotesi di reato (per la quale non era consentita l’applicazione di alcuna misura cautelare in sede penale e, conseguentemente, neppure l’applicazione della misura cautelare disciplinare della sospensione obbligatoria ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 21) non erano mai stati oggetto di contestazione nel procedimento cautelare disciplinare, cosicchè per essi il Procuratore generale non aveva a suo tempo formulato richiesta di sospensione facoltativa ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22 risultando così “nuova” la domanda di applicazione del trasferimento provvisorio dell’incolpato.
4.3. – Infine, il Consiglio Superiore della Magistratura, prendendo atto della insussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di corruzione (secondo l’epilogo della vicenda processuale cautelare penale), ha tuttavia ritenuto – sulla base di elementi di prova diversi dalle risultanze delle intercettazioni (ritenute inutilizzabili dai giudici penali), costituiti dagli accertamenti eseguiti dalla polizia giudiziaria e dalle dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti e dallo stesso Dott. S. – che sussistesse comunque il fumus relativamente ad alcuni segmenti dei fatti contestati al capo A), punto 2, dell’incolpazione del Ministro della Giustizia e che tali vicende fattuali – consistenti nell’avere il Dott. S. usato la qualità di magistrato per ricevere una serie di “favori” da parte del Dott. G., presidente della società calcistica “(*)”, nel periodo immediatamente successivo al deposito del decreto con il quale il Tribunale di A. aveva rigettato l’istanza di fallimento della predetta società – configurassero l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a).
Conseguentemente, il Consiglio Superiore della Magistratura, qualificando giuridicamente il fatto contestato al capo A), punto 2, dell’incolpazione elevata dal Ministro della Giustizia, come corrispondente all’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), ha provveduto a sostituire l’originaria misura della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio, disposta nei confronti Dott. S., con quella del trasferimento provvisorio del magistrato al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con funzioni di giudice.
5. – Per la cassazione di tale ordinanza ha proposto ricorso il Dott. A.B. sulla base di quattro motivi.
Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.
Il ricorrente, in prossimità dell’udienza, ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo, si deduce – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), – la nullità dell’ordinanza impugnata per difetto di correlazione tra fatto “addebitato” e fatto “ritenuto”, assumendosi che il Consiglio Superiore della Magistratura avrebbe applicato una misura cautelare sostitutiva della precedente per un fatto diverso da quello contestato. Secondo il ricorrente, l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d), (contestato col capo di incolpazione A, punto 2) e l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), (ritenuto dal C.S.M.) si porrebbero in rapporto di alterità tra loro, diversi essendo gli elementi costitutivi delle due fattispecie, con ciò determinandosi la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
La censura non è fondata.
In tema di correlazione tra accusa e sentenza, la giurisprudenza penale di questa Suprema Corte ha costantemente affermato che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale della fattispecie concreta nei suoi elementi essenziali, tale cioè da pervenire ad una sostituzione dell’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio per l’esercizio del diritto di difesa (Cass. pen., Sez. Un., n. 36551 del 15/07/2010; Cass. pen., Sez. Un., n. 16 del 19/06/1996). L’attribuzione in sentenza al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione dell’art. 521 c.p.p., quando la condotta contestata resta identificabile in quella ritenuta in sentenza, ricorrendo un “rapporto di continenza” tra la prima e la seconda (Cass., pen. Sez. 3, n. 11861 del 13/07/1999; Cass. pen., Sez. 3, n. 31317 del 05/06/2019). Infatti, la sussistenza di un “rapporto di continenza” tra il fatto contestato e quello ritenuto dal giudice esclude la configurabilità della violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza (Cass. pen., Sez. 3, n. 15820 del 25/11/2014); tale violazione, invece, sussiste quando tra il fatto contestato e quello ritenuto dal giudice esista un rapporto di eterogeneità, nel senso che tra il primo e il secondo non sia possibile individuare un nucleo comune (Cass. pen., Sez. 2, n. 12207 del 17/03/2015; Cass. pen., Sez. 3, n. 15820 del 25/11/2014; Cass. pen., Sez. 2, n. 28898 del 22/05/2008; Cass. pen., Sez. 3, n. 35225 del 28/06/2007; Cass. pen., Sez. 3, n. 11861 del 13/07/1999; Cass. pen., Sez. 5, n. 500 del 10/12/1998; Cass. pen., Sez. 1, n. 2421 del 26/01/1995).
In continuità con tali principi, queste Sezioni Unite Civili, con riguardo al procedimento disciplinare a carico di magistrati, hanno statuito che la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura può dare al fatto contestato una diversa definizione giuridica, purchè il fatto concretamente accertato sia stato descritto in tutti i suoi elementi costitutivi nel capo di incolpazione (Cass., Sez. Un., n. 4954 del 12/03/2015). Deve, in particolare, ritenersi che si ha modificazione del fatto, dalla quale scaturisce la mancanza di correlazione tra l’addebito contestato e quello diverso ritenuto in sentenza, soltanto quando venga operata una trasformazione o sostituzione degli elementi costitutivi dell’addebito, ma non quando gli elementi essenziali della contestazione formale restano immutati nel passaggio dalla contestazione all’accertamento dell’illecito, variando solo elementi secondari e di contorno, ovvero quando ai primi si aggiungono altri elementi sui quali l’incolpato abbia comunque avuto modo di difendersi nel procedimento (Cass., Sez. Un., n. 20730 del 28/09/2009; Cass., Sez. Un., n. 227 del 28/05/2001; Cass., Sez. Un., n. 6956 del 16/07/1998; da ultimo, Cass., Sez. Un., n. 10415 del 27/04/2017, che ha escluso il difetto di correlazione tra il fatto addebitato e quello ritenuto in sentenza, per essere stato riconosciuto – rispetto a quanto ipotizzato nel capo di incolpazione – un diverso orientamento finalistico nella condotta del magistrato, rilevante ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), consistita nell’acquisizione di un ingiusto vantaggio, rappresentato dall’ottenimento di utilità personale del magistrato).
Queste Sezioni Unite hanno perciò ribadito il principio secondo cui, in tema di procedimento disciplinare riguardante magistrati, il principio di correlazione tra accusa e sentenza risulta violato quando fatto “addebitato” e fatto “ritenuto” non presentino un nucleo comune, così ponendosi in rapporto di “eterogeneità”, ma non quando si pongano in “rapporto di continenza” (Cass., Sez. Un., n. 26138 del 06/12/2011); ed hanno precisato che il rispetto del principio della necessaria correlazione tra il fatto addebitato e quello ritenuto in sentenza va valutato non in senso rigorosamente formale, ma con riferimento alla finalità cui esso è diretto, cosicchè la sua violazione è ipotizzabile esclusivamente in presenza di un effettivo pregiudizio per la possibilità di difesa; pertanto, l’osservanza del principio del contraddittorio – richiamato anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (in particolare, con la sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia) – è assicurata quando il giudice di merito provveda alla riqualificazione giuridica del fatto direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione dell’interessato, essendo comunque possibile contestare tale diversa definizione mediante il ricorso per cassazione (Cass., Sez. Un., n. 26548 del 27/11/2013; Cass., Sez. Un., n. 4954 del 12/03/2015, cit.; v. anche Cass., Sez. Un., n. 27172 del 20/12/2006).
Nella specie, il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo aver ritenuto insussistente il fumus dei contestati illeciti disciplinari di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d) (“commissione di un fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato”) e art. 2, comma 1, lett. a), c) e d) (“Illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”) ha tuttavia ritenuto – sulla base di materiale probatorio diverso dalle risultanze delle intercettazioni telefoniche (ritenute inutilizzabili in sede penale), costituito dalle dichiarazioni rese dalla persona informata sui fatti avv. P.V. e dallo stesso indagato Dott. S. nel corso dell’interrogatorio reso dinanzi al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Caltanissetta che sussistesse il fumus dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a) in relazione al fatto contestato al capo A), punto 2, dell’incolpazione elevata dal Ministro della Giustizia, così riqualificato giuridicamente il medesimo.
In particolare, nel capo A), punto 2, di incolpazione è stato contestato al Dott. S. il fatto di avere redatto – quale giudice del Tribunale di A. – un decreto di rigetto dell’istanza di fallimento presentata dalla locale Procura della Repubblica nei confronti della società di calcio “(*)” s.p.a. e di aver ricevuto per sè e per altri, da C.D. (presidente della detta società), diverse utilità, quale retribuzione per il provvedimento adottato.
Una volta ritenuti insussistenti in sede penale i gravi indizi di colpevolezza in ordine all’ipotizzato delitto di corruzione (con particolare riferimento alla sussistenza del nesso sinallagmatico che, in ipotesi, avrebbe legato la dazione o la promessa delle utilità all’esercizio delle funzioni) e una volta venuto meno il fumus dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4 il Consiglio Superiore della Magistratura ha ritenuto che il fatto costituisse comunque l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma, 1, lett. a).
Tale riqualificazione giuridica del fatto è stata legittimamente compiuta dal giudice disciplinare, in quanto i fatti qualificati come costituenti l’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), sono tutti compresi nella contestazione di cui alla lett. A), punto 2, del capo di incolpazione.
Infatti, il Consiglio Superiore della Magistratura, nel ritenere sussistente l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a) – che punisce il magistrato che, al di fuori dell’esercizio delle funzioni, fa “uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sè o per altri” – ha considerato alcuni degli elementi del fatto contestato al capo A), punto 2 di incolpazione (la qualità di giudice del Tribunale di A. delegato alla trattazione dell’istanza di fallimento presentata dalla locale Procura della Repubblica; il ricevimento o comunque l’accettazione della promessa di diverse utilità per sè o per altri dal presidente della società di cui era stato chiesto il fallimento), escludendo invece di considerare la redazione, da parte del Dott. S., del decreto di rigetto dell’istanza di fallimento che, secondo l’originaria contestazione, sarebbe stata sinallagmaticamente collegata alle utilità ricevute.
E allora, la Sezione disciplinare non ha operato alcuna trasformazione o sostituzione degli elementi costitutivi dell’addebito, nè ha considerato elementi di fatto non contestati; semmai, il giudice disciplinare ha considerato un’area più ristretta del fatto contestato, tenendo conto solo di alcuni elementi di esso, quelli assistiti da idonea base probatoria, e tralasciando di considerare gli altri, non supportati da adeguato fumus probatorio.
:(n sostanza, tra il fatto “contestato” con il capo di incolpazione di cui alla lett. A), punto 2, e quello “ritenuto” nell’ordinanza impugnata esiste un “rapporto di continenza”, nel senso che gli elementi costituenti il fatto ritenuto sono tutti inclusi tra gli elementi costituenti il fatto contestato. Tale rapporto di continenza esclude in radice la sussistenza della dedotta violazione del principio di correlazione tra fatto “addebitato” e fatto “ritenuto”.
Non vale evidenziare – come fa il ricorrente – il rapporto di alterità tra l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d), (contestato col capo di incolpazione) e l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), (ritenuto dal C.S.M.), avuto riguardo alla diversa struttura dei due illeciti, per il fatto che il primo è un “illecito funzionale”, che esige un nesso sinallagmatico tra l’ingiusto vantaggio ricevuto dal magistrato e l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, mentre il secondo è un “illecito extrafunzionale”, nel quale il conseguimento dell’ingiusto vantaggio è conseguenza del mero uso della “qualità” di magistrato.
Trattasi di una “alterità giuridica”, che attiene agli elementi costitutivi della fattispecie giuridica astratta e che – in quanto tale non determina alcuna una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza; anzi, la detta “alterità giuridica” tra l’illecito “contestato” e quello “ritenuto” dal giudice disciplinare costituisce la naturale conseguenza della riqualificazione giuridica del fatto, il quale rimane tuttavia il medesimo in ragione dell’evidenziato rapporto di continenza.
Da ultimo, va osservato che, in ogni caso, la nuova qualificazione giuridica del fatto non ha determinato alcun pregiudizio per la difesa, in quanto il Consiglio Superiore della Magistratura, escluso il fumus del nesso sinallagmatico che – nella contestazione – poneva l’esercizio della funzione in collegamento con le utilità ricevute, ha considerato tali utilità solo in rapporto all’uso della qualità di magistrato, di per sè inclusa – trattandosi di un minus – nella contestazione.
Alla stregua di quanto sopra, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:
“In tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, quando tra il fatto “contestato” nel capo di incolpazione e quello “ritenuto” nel provvedimento decisorio esiste un “rapporto di continenza”, nel senso che gli elementi costituenti il fatto ritenuto sono tutti inclusi tra gli elementi costituenti il fatto contestato, non è configurabile la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e legittimamente il Consiglio Superiore della Magistratura può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto”.
2. – Col secondo motivo, si deduce – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e c), – l’inosservanza e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 13, commi 1 e 2 e art. 22, comma 2, per avere la Sezione disciplinare disposto la sostituzione della misura della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio con quella del trasferimento provvisorio del Dott. S. ad altra sede, senza il necessario impulso degli organi titolari dell’azione disciplinare (per di più dichiarando inammissibile la richiesta di applicazione del trasferimento temporaneo avanzata in udienza dal Procuratore Generale) e senza instaurare il necessario contraddittorio.
Anche questa censura è infondata.
In disparte l’assoluta inconferenza del richiamo del ricorrente alla dichiarata inammissibilità della richiesta di applicazione di misura cautelare avanzata dal Procuratore Generale in relazione ad un capo di incolpazione diverso da quello oggetto del presente ricorso, non sussiste il preteso difetto di iniziativa dei titolari dell’azione disciplinare necessario per legittimare la disposta applicazione del trasferimento provvisorio dell’incolpato ad altra sede.
Va invero considerato che la misura del trasferimento temporaneo dell’incolpato ad altro ufficio del distretto limitrofo è stata applicata, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22 in sostituzione della precedente più grave misura della sospensione facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio, a suo tempo adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura, ai sensi del medesimo art. 22, su espressa richiesta del Ministro della Giustizia.
Non è mancata, dunque, l’iniziativa del titolare dell’azione disciplinare con riferimento alla misura originariamente applicata, rispetto alla quale la misura del trasferimento temporaneo ad altro ufficio costituisce mera attenuazione. Ed invero, il Consiglio Superiore della Magistratura, ritenendo di non poter accogliere l’istanza di revoca della originaria misura avanzata dall’incolpato, ha provveduto alla sostituzione della misura cautelare “più grave” (sospensione facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio) con quella “meno grave” (trasferimento temporaneo dell’incolpato ad altro ufficio del distretto limitrofo), secondo la graduazione prevista dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22 (cfr. Cass., Sez. Un., n. 22570 del 28/10/2011).
E allora, non solo non è pertinente il richiamo, da parte del ricorrente, al disposto del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 13, comma 2, (norma non applicata, nella specie, dal C.S.M.), ma questa sostituzione della misura più grave con quella meno grave non abbisognava della richiesta dei titolari dell’azione disciplinare.
Deve, infatti, ritenersi che, nel procedimento disciplinare a carico di magistrati, ai fini della sostituzione di una misura “più grave” con una “meno grave” (c.d. sostituzione in melius) non è necessaria la richiesta del pubblico ministero, ma è sufficiente sentire il parere del medesimo, che ha carattere di parere obbligatorio e non vincolante (cfr., con riguardo al processo penale, Cass. pen., Sez. 1, n. 13981 del 04/02/2003; Cass. pen., Sez. 2, n. 1690 del 17/04/1996).
Nella specie, il Consiglio Superiore della Magistratura ha sentito il pubblico ministero in camera di consiglio; pertanto, la sostituzione in melius della misura cautelare disposta dal giudice disciplinare risulta legittima, risolvendosi essa nell’accoglimento parziale dell’istanza di revoca avanzata dall’incolpato.
Quanto detto esclude anche la pretesa violazione del principio del contraddittorio. Infatti, la misura meno grave è stata applicata con riferimento a fatti compresi nel capo di incolpazione (con riguardo al quale era stata adottata la prima più grave misura), in relazione ai quali l’incolpato ha avuto modo di esercitare il diritto di difesa.
Sul punto, vanno pertanto enunciati i seguenti principi di diritto:
– “In tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, ai fini della sostituzione di una misura cautelare “più grave” con una “meno grave” (c.d. sostituzione in melius) non è necessaria la richiesta del pubblico ministero, ma è sufficiente sentire il parere del medesimo, che ha carattere di parere obbligatorio e non vincolante”;
– “In tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, a fronte della istanza con la quale l’incolpato ha chiesto la revoca della misura della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio applicata ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22, comma 1, legittimamente il Consiglio Superiore della Magistratura può, anche in assenza di espressa richiesta dei titolari dell’azione disciplinare, anzichè accogliere l’istanza, sostituire la detta misura con quella meno gravosa del trasferimento provvisorio ad altro ufficio di un distretto limitrofo prevista dal medesimo art. 22, in quanto tale sostituzione in melius non costituisce una nuova iniziativa cautelare nei confronti dell’incolpato, ma si risolve nell’accoglimento parziale dell’istanza di revoca avanzata dall’incolpato, in relazione alla quale è sufficiente acquisire il parere del pubblico ministero”.
3. – Col terzo motivo, si deduce – ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), – l’inosservanza e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a) nonchè la manifesta illogicità della motivazione dell’ordinanza impugnata, per avere il Consiglio Superiore della Magistratura ritenuto la sussistenza dell’illecito disciplinare di cui al citato art. 3, nonostante che il Dott. S. non avesse fatto alcuna spendita della sua qualità di magistrato e nonostante che i c.d. “vantaggi” che il magistrato aveva ottenuto dal G. fossero dovuti a mere ragioni di cortesia, ascrivibili all’antico rapporto di conoscenza personale che legava i due.
Il motivo è privo di fondamento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, in tema di illeciti disciplinari extrafunzionali, il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), ha il duplice fine di preservare la fiducia nell’imparzialità del magistrato, in relazione alla possibilità che l’abuso della qualità per un fine ingiusto determini negli interlocutori il dubbio circa la sua permeabilità a richieste di soggetti interessati a influenzarlo nell’esercizio delle funzioni, e di garantire una linearità di comportamento, riconducibile al dovere generico di correttezza nella vita privata; inoltre, l’ingiusto vantaggio non viene in considerazione solo in quanto contra ius, dovendosi accogliere una nozione più ampia di ingiustizia, comprendente anche gli scopi che mirano all’ottenimento di trattamenti di favore non comunemente praticati, ma richiesti tramite la spendita della qualità di magistrato quale strumento diretto al loro raggiungimento (Cass., Sez. Un., n. 30424 del 23/11/2018, in una fattispecie nella quale il magistrato aveva “segnalato” i nominativi di due suoi conoscenti all’amministratore giudiziario di una procedura di prevenzione per propiziarne l’assunzione presso un distributore di carburante sequestrato, così ingerendosi nell’attività gestionale della procedura).
La norma disciplinare mira a sanzionare l’uso strumentale della qualità di magistrato, posta in essere al di fuori dell’esercizio delle funzioni, al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sè o per altri (in questo senso anche, Sez. disciplinare C.S.M., sent. n. 9 del 2017; n. 109 del 2018; n. 109 del 2018).
Orbene, contrariamente a quanto assume il ricorrente, la fattispecie disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), – punendo “l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sè o per altri”, al di fuori dell’esercizio delle funzioni – non esige la esplicita spendita della qualità di magistrato (che, d’altra, può risultare superflua quando la stessa sia nota), ma – come detto – solo l’uso strumentale della stessa.
Sul punto, questa Suprema Corte ha già statuito che, in relazione all’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, lett. a), l’abuso della qualità di magistrato, al fine di ottenere un trattamento di miglior favore per sè o per altri, può anche essere effettuato “implicitamente” quando la conoscenza della qualità è nota a chi elargisce i vantaggi ingiusti nel contesto nel quale si svolge la condotta illecita (Cass., Sez. Un., n. 33089 del 16/12/2019).
In sostanza, l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), sussiste sol che il magistrato, al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, strumentalizzi la sua qualità per conseguire ingiusti vantaggi per sè o per altri; non è necessaria la esplicita spendita della qualità quando questa è nota all’interlocutore, rilevando piuttosto l’approfittamento della stessa per conseguire ingiusti vantaggi.
Sul punto, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:
“In tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, ai fini della consumazione dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, lett. a), non è necessaria la spendita esplicita della qualità di magistrato, quando questa è nota all’interlocutore, essendo piuttosto necessario l’uso strumentale della detta qualità, posto in essere al di fuori dell’esercizio delle funzioni, allo scopo di conseguire vantaggi ingiusti per sè o per altri”.
Nella specie, il Consiglio Superiore della Magistratura ha spiegato come la qualità di magistrato del Dott. S. fosse ben nota al G., col quale esisteva un “pregresso rapporto di confidenza”, seppure i rapporti tra i due erano stati “interrotti volutamente durante la pendenza del procedimento fallimentare”, per poi riprendere subito dopo. Non occorreva, pertanto, e sarebbe stata del tutto superflua, la esplicita spendita della qualità di magistrato, da parte del Dott. S., presso il G..
Quanto alla doglianza circa la ritenuta sussistenza di correlazione tra l’uso della qualità di magistrato e il conseguimento dei vantaggi ingiusti, la censura è inammissibile perchè si risolve in una critica all’accertamento e alla valutazione del fatto.
L’ordinanza impugnata ha spiegato che il Dott. S., dopo il deposito del decreto di rigetto dell’istanza di fallimento della società di calcio “(*)” della quale il G. era presidente, riprendeva i contatti col medesimo, dal quale otteneva una serie di vantaggi per sè e per altri, tra i quali – secondo il Consiglio Superiore della Magistratura – “assume rilievo decisivo il vantaggio indirettamente conseguito dal Dott. S. mediante la promessa prima – della designazione quale componente del Comitato etico dell'(*) dell’avv. P.V., con la quale egli intratteneva una relazione sentimentale,; e poi (…) della concreta designazione della stessa, avvenuta con Delib. del Cda della società calcistica in data 29 giugno 2018, quale componente del comitato etico, con retribuzione risultata pari ad Euro 6.000 annui”.
Dopo aver evidenziato gli altri vantaggi ottenuti dal Dott. S. per sè e per altri – elencati nel capo di incolpazione A), punto 2 – dal legale rappresentante di una società che era stata parte di una controversia giudiziaria decisa dal detto magistrato con provvedimento giudiziario ad essa favorevole, la Sezione disciplinare ha sottolineato che “La stretta sequenza temporale dei decritti vantaggi rispetto al decreto giurisdizionale di rigetto dell’istanza di fallimento – vantaggi conseguiti presso il rappresentante della parte processuale che aveva ottenuto un provvedimento favorevole di grande importanza per la sopravvivenza stessa della società calcistica rappresentata dal G. – evidenzia come il Dott. S. potè ottenere i suddetti benefici esclusivamente spendendo, in via implicita, la sua qualifica di magistrato. D’altro canto, i rapporti con il Dott. G. erano stati in passato di confidenza, ma mai di amicizia o frequentazione (come ripetutamente rivendicato dal Dott. S. nel suo interrogatorio), di talchè la disponibilità manifestata nei suoi riguardi dal Dott. G., dopo l’emissione del provvedimento a quest’ultimo favorevole, non poteva certo ricondursi ad un insussistente legame personale tra i due”.
La motivazione della sentenza impugnata sul punto, che evidenzia l’approfittamento della qualità di magistrato posto in essere dal Dott. S. e l’ingiustizia dei vantaggi ottenuti, è esente da vizi logici e giuridici e rimane, pertanto, insindacabile in sede di legittimità.
4. – Col quarto motivo, infine, si deduce – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, con riferimento all’individuazione delle esigenze cautelari poste a fondamento della misura del trasferimento ad altra sede.
Anche questa censura è inammissibile.
Il Consiglio Superiore della Magistratura ha puntualmente motivato in ordine alla sussistenza del periculum in mora, rappresentato dalla perdurante lesione del bene giuridico tutelato dalla norma di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a).
Il giudice disciplinare, in particolare, ha sottolineato che “il clamore suscitato dalla vicenda anche dal punto di vista mediatico, la notevole rilevanza che la procedura fallimentare della società di calcio professionistica della città inevitabilmente aveva assunto, in una con l’improvvida condotta tenuta dal Dott. S. dopo la redazione del provvedimento – con il coinvolgimento nella vicenda di una professionista con la quale intratteneva in quel periodo una relazione sentimentale e che frequentava per ragioni di lavoro il tribunale di A. – impongono di disattendere la richiesta della Difesa e di disporre l’allontanamento del Dott. S. dalla sede giudiziaria di A., ove la compromissione della sua immagine di magistrato e del suo prestigio appare di perdurante rilievo – pur a fronte della ridimensionata gravità della vicenda penale a suo carico – tale da non essere emendabile con un semplice trasferimento ad altre funzioni, sempre all’interno del tribunale di A.. Nelle more pertanto dello svolgimento del procedimento disciplinare questa Sezione ritiene che ricorrano nella specie i presupposti per il trasferimento provvisorio dell’incolpato ad altro ufficio di un distretto limitrofo, individuato nel Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto”.
La motivazione dell’ordinanza sul punto non presenta vizi logici e giuridici, superando così il vaglio di legittimità; per il resto la censura si risolve nella sollecitazione di una rivalutazione dei fatti, che non può trovare ingresso nel giudizio di cassazione.
5. – In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 (tremila) per compensi, oltre spese prenotate a debito.