Sottrazione internazionale di minori ed illegittimità del decreto di rimpatrio

Cassazione civile, sez. I, 17 Aprile 2019, n. 10784. Pres. Maria Acierno. Est. Campese.
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 29847/2017 r.g. proposto da:
H.A., (cod. fisc. (*)), rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato F. S., presso il cui studio (*) elettivamente domicilia in Dolo (VE), alla *.
– ricorrente –
contro
S.A.; PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI VENEZIA.
– intimati –
avverso il decreto del TRIBUNALE DI VENEZIA, depositato il 18/09/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/2019 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso chiedendo accogliersi il ricorso;
udito, per la ricorrente, l’Avv. A. G., per delega dell’Avv. F. S., che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso.

Svolgimento del processo
1. H.A. ha proposto ricorso per cassazione, recante quattro motivi, contro il “decreto” del Tribunale per i Minorenni di Venezia del 15/18 settembre 2017, notificatole il 12 ottobre 2017 dal difensore della sua controparte in quella sede. Detto provvedimento: i) dichiarò illecito il trasferimento del minore Sa.Al. (nato in (*), figlio di S.A. e di H.A.), dal (*) in (*), nel (*), perchè effettuato senza il consenso del padre del bambino che esercitava, in via esclusiva, la responsabilità genitoriale sullo stesso; li) ordinò il ritorno immediato di Sa.Al. in (*), presso il padre S.A.. Quest’ultimo e la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Venezia non hanno qui svolto difese.
1.1. In particolare, il tribunale minorile lagunare, posta la pacificità della circostanza che quel trasferimento era avvenuto senza il consenso del padre dell’indicato minore, ritenne inapplicabile l’art. 13, lett. b), della Convenzione dell’Aja del 1980, perchè, a suo giudizio, un eventuale rimpatrio del bambino in (*), presso il padre “…non lo espone a pericoli psichici, poichè egli verrà reinserito in un ambiente familiare, sociale e scolastico che conosce e nel quale era inserito bene, come dimostrano i risultati scolastici conseguiti in (*), e poichè il padre ha dimostrato di avere un ruolo positivo nella cura ed educazione del figlio, per tal verso essendo in grado di assicurargli la serenità necessaria al suo equilibrato sviluppo psico-fisico”. Il medesimo giudice considerò, inoltre, “superflua l’audizione del minore, atteso che, per il suo grado di maturità non completo, stante la ancora tenera età, è ragionevole ritenere che le sue espressioni di volontà siano non pienamente genuine ed influenzabili dal genitore di riferimento del momento”.

Motivi della decisione
1. I formulati motivi prospettano, rispettivamente:
I) “Violazione art. 360 c.p.c., n. 3 – Illegittimità dell’ordinanza n. 271/2017 impugnata (così testualmente la rubrica del motivo. Ndr) Violazione e falsa applicazione art. 13, comma 1, lett. B), della Convenzione dell’Aja, per omessa valutazione dei rischi connessi al rimpatrio del minore in (*) – Omessa e contraddittoria motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’art. 13 della Convenzione dell’Aja 1980”. Si censura il provvedimento impugnato per non aver minimamente motivato la decisione di disattendere completamente la relazione del NPI ULSS (*) dal collegio stesso incaricato di valutare le condizioni psicofisiche del minore Al., e per non aver accolto la richiesta di audizione di quest’ultimo per una presunta sua immaturità;
II) “Violazione art. 360 c.p.c., n. 5 – Violazione di legge per omessa ed errata valutazione ed interpretazione della volontà del minore – Violazione di legge per falsa ed erronea applicazione dell’art. 3 Convenzione di Strasburgo 25 gennaio 1996, esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77”. Si critica nuovamente la mancata audizione del minore, soprattutto perchè lo stesso aveva già manifestato una chiara e precisa volontà oppositiva al rientro in (*);
III) “Violazione di legge art. 360 c.p.c., n. 3 – Illegittima valutazione di merito estranea alle competenze del tribunale adito ex art. 112 c.p.c.”. Si ascrive al giudice di merito di aver proceduto ad una illegittima comparazione tra i due genitori in ordine alla loro capacità genitoriale;
IV) “Violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 5 – Travisamento di fatti e di documenti prodotti – Omessa, carente motivazione”. Si imputa al tribunale di non aver tenuto conto delle risultanze della relazione del NPI ULSS (*) e di avere, addirittura, travisato la documentazione prodotta senza fornire motivazione alcuna di tale interpretazione.
2. Il ricorso, di cui risulta l’avvenuta rituale e tempestiva notificazione alla controparte, oltre che al Pubblico Ministero presso il Tribunale per i Minorenni di Venezia, è fondato per la seguente, assorbente, ragione.
2.1. Questa Corte ha già, condivisibilmente, affermato che nel procedimento per la sottrazione internazionale di minore, l’ascolto di quest’ultimo (che può essere espletato anche da soggetti diversi dal giudice, secondo le modalità da lui stabilite) costituisce adempimento necessario ai sensi dell’art. 315-bis c.c., introdotto dalla L. n. 212 del 2012, senza che osti, in senso contrario, la mancata previsione normativa dell’obbligatorietà desumibile dalla L. n. 64 del 1994, art. 7, comma 3.
2.1.1. Detta audizione, infatti, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure che lo riguardano, ai sensi degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la L. 20 marzo 2003, n. 77. Tale adempimento è, dunque, doveroso, ex art. 13, comma 2, della Convenzione de L’Aja, essendo finalizzato, anche, a valutare l’eventuale opposizione del minore al ritorno, salvo che esistano particolari ragioni – che il giudice di merito deve indicare specificamente – che ne sconsiglino l’audizione, nel caso in cui questa possa essere dannosa per il minore, tenuto conto anche del suo grado di maturità (cfr. Cass. n. 18649 del 2017; Cass. n. 3319 del 2017; n. 7479 del 2014; n. 13241 e 17201 del 2011; Cass., SU. n. 22238 del 2009).
2.1.2. In altri termini, il diritto all’ascolto riveste, ormai, assoluta centralità nell’attuale assetto della materia, della quale costituisce regola fondamentale e tendenzialmente inderogabile, di guisa che il giudice non potrebbe sottrarsene nell’orientare l’asse della propria discrezionalità in questo campo in direzione di una più attenta valorizzazione della figura del minore e dell’essere egli “parte in senso sostanziale” del relativo procedimento.
2.1.3. Nemmeno è trascurabile, poi, nell’economia del procedimento, la circostanza che l’audizione del minore non è incombente fine a sè stesso, volto a dare mero adempimento ad un obbligo più generalmente sancito dalla legge, ma mira, nel segno di un’accresciuta considerazione della dignità del minore quale persona in grado di esprimere una volontà autonoma, a mettere il giudice in condizioni di poter valutare de visu et de auditu, quando non vi osti più generalmente l’età, se l’opposizione al rientro palesata dal minore sia espressione di una matura e consapevole capacità di giudizio. Ciò perchè, come questa Corte ha già avuto occasione di precisare, sottolineando i riflessi procedimentali che si danno in questo caso, nell’ipotesi in cui il minore, provvisto delle necessaria capacità di discernimento, palesi la propria contrarietà al rientro, non può “opporsi una valutazione alternativa” basata su altri indici fattuali oggetto di disamina, ma si deve procedere ad “un preciso ed autonomo giudizio prognostico che dalle ragioni del rifiuto prenda le mosse”, in difetto discendendone una determinazione non conforme ai parametri indicati dall’art. 13 Convenzione predetta “in quanto appunto svolta senza alcuna precisa verifica delle ragioni dell’opposizione della minore” (cfr. Cass. n. 18846 del 2016, richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 18649 del 2017). Tanto più, dunque, l’ascolto del minore diventa necessario in caso di opposizione al rientro, quanto più se ne consideri l’effetto ostativo che vi ricollega lo stesso disposto normativo, onde la sua omissione, per i rilevanti effetti che possono derivarne sul piano procedimentale, determinando la reiezione dell’istanza ovvero la necessità di un ulteriore svolgimento istruttorio, non può trovare giustificazione nella circostanza che il minore sia stato ascoltato altrove, risultando in tale ipotesi l’ascolto da parte del giudice adempimento del tutto doveroso.
2.2. Nella specie, il diniego di audizione risulta ricondotto soltanto all’inopportunità dell’ascolto del minore in ragione della sua età, da cui si desume la mancanza di genuinità delle sue dichiarazioni e la sua influenzabilità dal genitore di riferimento del momento.
2.2.1. Tuttavia, il mero dato anagrafico non può, di per sè solo, notoriamente ed attendibilmente fondare una siffatta valutazione, che appare, dunque, aprioristica, essendo il minore nato nell’aprile del 2008, e considerando, anche, le finalità cui è volto tale necessario momento istruttorio e gli effetti che possono esservi ricollegati.
2.2.2. Nè, peraltro, al fine di escludere l’ascolto del minore medesimo, è invocabile, sul filo anche dei limiti di ordine discrezionale già individuati da questa Corte, la circostanza che la sua audizione si sarebbe rivelata inutile per il conflitto di lealtà genitoriale in cui lo stesso si sarebbe potuto trovare. Invero, la giurisprudenza di legittimità, ha già ammonito – in modo tanto più condivisibile quanto più sommariamente sbrigativa risulti la giustificazione in contrario offerta dal decidente – che “la predisposizione di un contesto che tenda a mettere a proprio agio il minore ed a favorirne la spontaneità e la chiarezza delle dichiarazioni costituisce un compito del Tribunale e non un elemento di criticità nella valutazione del contenuto delle stesse” (cfr. Cass. n. 18846 del 2016; Cass. n. 18649 del 2017). Ne discende, dunque, che sarebbe stato onere del tribunale, una volta divisata l’obbligatorietà dell’incombente, allestire le condizioni minimali attraverso le quali procedere all’audizione del minore e così verificarne la capacità di discernimento e l’attendibilità del rifiuto al rimpatrio già esternato in altra sede.
3. Il decreto va, dunque, cassato con rinvio al Tribunale di Venezia, che, nel decidere, in diversa composizione, sulla richiesta di rimpatrio, farà applicazione degli enunciati principi e provvederà sulle spese di questo giudizio di legittimità.
4. Va, disposta, infine, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Venezia, in diversa composizione, per il relativo nuovo esame e per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di cassazione, il 15 marzo 2019.

Si applica l’art. 1443 c.c. quando il contratto è concluso dal legale rappresentante del minore senza autorizzazione.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 4 febbraio 2020, n. 2460
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 17807/2017 R.G. proposto da:
E.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Roberto De Vito, con domicilio eletto in Roma, via Carlo Conti Rossini, n. 26, presso lo studio dell’Avv. Sabrina Metta;
– ricorrente –
contro
K.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Elisa Stevenazzi;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1780/2017 della Corte d’appello di Milano, depositata il 28/04/2017;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 settembre 2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;
udito l’Avvocato Sabrina Metta, per delega;
udito l’Avvocato Mario Occhipinti, per delega;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo il rigetto.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza dell’11 febbraio 2015 il Tribunale di Monza annullò, per difetto della preventiva autorizzazione del giudice tutelare, la transazione con la quale K.R., in rappresentanza del figlio minore Da., a fronte del quietanzato versamento di alcuni acconti e dell’impegno a versare l’ulteriore somma forfettaria di Euro 60.000, aveva rinunciato nei confronti dell’ E. ad ogni ulteriore pretesa discendente dall’essere il minore unico erede della madre E.I., già socia, con il fratello D., della Assifutura S.a.s. di E.D. & C..
Il Tribunale respinse inoltre la domanda riconvenzionale spiegata dal convenuto di ripetizione della somma di Euro 162.000 di cui alla scrittura impugnata.
2. La Corte d’appello di Milano ha integralmente confermato tale decisione rigettando i motivi di gravame con i quali l’appellante si doleva, per quanto ancora in questa sede rileva:
– del rigetto della preliminare eccezione di inammissibilità della domanda per difetto della preventiva necessaria autorizzazione del giudice tutelare (in tesi tardivamente prodotta dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6);
– del rigetto della subordinata domanda riconvenzionale di ripetizione di indebito.
3. Avverso tale sentenza E.D. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste K.D., depositando controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 320 c.c. e dell’art. 182 c.p.c., in relazione al rigetto della preliminare eccezione di inammissibilità della domanda.
Lamenta che erroneamente il giudice a quo ha ritenuto sanato il difetto di autorizzazione del legale rappresentante del minore a stare in giudizio con la tardiva produzione di detta autorizzazione, effettuata dopo il decorso dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6. Sostiene infatti che l’art. 182 c.p.c., consente bensì la regolarizzazione degli atti concernenti la capacità di stare in giudizio ma stabilisce a tal fine termini perentori fissando anche le modalità con cui tale regolarizzazione deve essere effettuata: termini e modalità nella specie non osservati dal momento che il tribunale, nonostante la relativa eccezione fosse stata sollevata sin dal primo atto difensivo, non rilevò il difetto di autorizzazione nè si espresse in merito.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 1422 e 2033 c.c., in relazione al rigetto della domanda riconvenzionale subordinata.
Al riguardo la Corte d’appello ha escluso il dedotto vizio di ultrapetizione osservando che: la sentenza di primo grado si era limitata a rigettare la domanda riconvenzionale proposta; “le somme riconosciute nella scrittura e corrisposte trovano la propria fonte e causa giustificatrice nella qualità di unico erede di K.D. legittimato ad entrare in possesso dei beni dell’asse ereditario, circostanza come ben detto dal primo giudice mai contestata”; non sussiste pertanto il difetto di causa alla base dell’esercizio dell’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c..
Con il motivo in esame il ricorrente reitera in sostanza detta eccezione rilevando che, con l’atto introduttivo del giudizio, controparte aveva chiesto unicamente la declaratoria di annullamento della scrittura privata mentre non aveva svolto alcuna domanda di accertamento della debenza delle somme erogate (pari a complessivi Euro 162.000), nè era stata conseguentemente svolta alcuna attività istruttoria sul punto.
Sotto il secondo profilo (violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1422 e 2033 c.c.) lamenta in sostanza che la Corte d’appello, in contrasto con la qualificazione dell’atto come transazione – implicante l’esistenza di una lite sulle reciproche pretese alle quali con quel contratto le parti rinunciano proprio al fine di comporla o prevenirne l’insorgenza – ha erroneamente affermato che esso ricorrente non aveva mai posto in discussione il diritto di controparte di ottenere gli importi ivi indicati quale unico erede della madre E.I. e ne ha conseguentemente riconosciuto la spettanza in assenza di alcuna valutazione nel merito della fondatezza della relativa pretesa.
Soggiunge che costituisce un salto logico l’ulteriore affermazione secondo cui gli importi riconosciuti nella transazione annullata avrebbero dovuto considerarsi quali acconti rispetto ad ulteriori importi ancora spettanti.
Osserva, in conclusione, che l’annullamento dell’atto priva l’attribuzione di danaro della sua unica causa giustificatrice, rendendo irrilevante anche un’eventuale indagine volta a stabilire se vi fosse o meno una sperequazione e fondando la pretesa restitutoria secondo le norme sulla ripetizione di indebito.
3. E’ infondato il primo motivo di ricorso (da ricondurre, giova precisare, alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denunciandosi con esso un preteso error in procedendo nel quale sarebbe incorso il giudice d’appello nel rigettare la reiterata eccezione di inammissibilità della domanda introduttiva per difetto di legittimazione ad processum in capo all’attore che agiva in rappresentanza del figlio minore).
La decisione sul punto della Corte d’appello, oltre che sul rilievo sanante, ex art. 182 c.p.c., della autorizzazione prodotta in corso di causa successivamente allo scadere dei termini concessi ex art. 183 c.c., comma 6 – sul quale unicamente si appunta la censura del ricorrente – trova alternative e autosufficienti giustificazioni anche in altre due considerazioni, non fatte segno di alcuna critica in ricorso e che, in quanto pienamente corrette in diritto e ciascuna, di per sè, assorbente, rendono irrilevante l’esame della questione posta con riferimento alla detta alternativa ratio.
3.1. La prima considerazione poggia sul principio, incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte e direttamente discendente dalla previsione di cui all’art. 322 c.c. (a mente della quale “Gli atti compiuti senza osservare le norme dei precedenti articoli del presente titolo possono essere annullati su istanza dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale o del figlio o dei suoi eredi o aventi causa”), secondo cui il difetto di autorizzazione del legale rappresentante del minore a stare in giudizio non può essere fatto valere dalle altre parti, essendo tale autorizzazione posta a tutela del minore (Cass. 29/03/1979, n. 1808).
3.2. La seconda poggia sul rilievo della intervenuta ratifica, dell’attività precedentemente svolta dal rappresentante, operata dal rappresentato, una volta divenuto maggiorenne, attraverso la sua costituzione nel giudizio d’appello.
Sul punto, la Corte d’appello s’è invero correttamente adeguata al consolidato principio giurisprudenziale secondo il quale il difetto di legittimazione processuale del genitore che agisca in giudizio in rappresentanza del figlio, non più soggetto a potestà per essere divenuto maggiorenne, può essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio da quest’ultimo operata manifestando, in modo non equivoco, la propria volontà di sanatoria (v. Cass. 08/11/2012, n. 19308; 29/09/2011, n. 19881; 14/12/2004, n. 23291).
Appare evidente invero che se tale ratifica può ammettersi in ipotesi in cui il potere di rappresentanza difetta in radice, a fortiori è da ammettersi, con gli stessi effetti, nell’ipotesi minore in cui il potere sussiste ma difetta soltanto della condizione richiesta per essere validamente esercitato.
Tanto più tale principio merita di essere ribadito, anche con riferimento alla fattispecie in esame, alla luce del novellato testo dell’art. 182 c.p.c., comma 2 (introdotto come noto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 2, applicabile alla fattispecie ratione temporis), che, estendendo alla procura il previsto meccanismo di sanatoria con efficacia ex tunc, ha radicalmente innovato il sistema, chiaramente ispirandosi all’obiettivo di garantire la riduzione delle ipotesi di nullità ed il rafforzamento degli strumenti di sanatoria degli atti processuali nulli, in modo da ridurre al minimo,
se non eliminare del tutto, le ipotesi, giustamente ritenute “antieconomiche”, di rigetto della domanda in rito.
4. Con il secondo motivo il ricorrente svolge due distinte censure, la prima delle quali prospetta un error in procedendo (per il mancato rilievo di un asserito vizio di ultrapetizione), la seconda invece un error in iudicando (per l’erronea applicazione delle norme in tema di transazione, invalidità del contratto e ripetizione di indebito).
4.1. La prima di esse è inammissibile e, comunque, infondata.
4.1.2. Il preliminare rilievo di inammissibilità discende, ex art. 366 c.p.c., n. 6, dalla constatazione che il ricorrente omette di fornire l’indicazione specifica dei termini della domanda riguardo alla quale sarebbe stata operata la ultrapetizione e dei termini dell’appello con cui la questione era stata proposta.
4.1.2. E’ agevole comunque rilevare, ad abundantiam, la palese infondatezza della censura, non potendosi certamente predicare alcun vizio di ultrapetizione.
Al di là delle argomentazioni svolte, il decisum delle sentenze di merito non contiene infatti alcuna statuizione di condanna o di accertamento che attribuisca all’attore/appellato un bene dallo stesso non richiesto, ma ben diversamente, come rettamente rilevato in sentenza, si limita a rigettare la domanda riconvenzionale -effettivamente svolta dal convenuto – di ripetizione delle somme da questo corrisposte al primo; la sentenza dunque si mantiene pienamente entro i confini delineati dalle domande ed eccezioni svolte negli atti introduttivi e con l’atto di appello.
4.2. Analoghi rilievi – di inammissibilità, anzitutto, e, comunque, di infondatezza – debbono svolgersi con riferimento alla seconda censura.
4.2.1. Questa invero è anzitutto inammissibile poichè anch’essa postulata senza l’osservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti su cui si fonda, previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
Ancora una volta parte ricorrente omette infatti di precisare i termini della domanda riconvenzionale cui il motivo si riferisce, i termini della difesa svolta riguardo ad essa dalla controparte e i termini che riguardo ad essa aveva assunto la decisione di primo grado e quelli dell’appello proposto sul punto.
D’altro canto, il tenore della motivazione del giudice d’appello fa riferimento alla motivazione della sentenza di primo grado ed indica una precisa causale giustificativa della reiezione della domanda riconvenzionale basata sull’annullamento della transazione.
Ne segue che non solo non viene dimostrato affatto su che cosa fosse basata la riconvenzionale subordinata ed in particolare sul se fosse fondata sulla mera pretesa, per il caso di accoglimento della domanda principale, di una restituzione dell’attribuzione patrimoniale, ma, soprattutto, quand’anche potesse supporsi che la riconvenzionale era stata fondata solo su questo, resterebbe che non ci è stato fatto constare che la parte attrice non avesse allegato, in via di eccezione, che, pur annullata la transazione, la condictio indebiti non sussistesse per essere quell’attribuzione fondata sulla ragione indicata dalla sentenza impugnata.
4.2.2. Può in ogni caso rilevarsi, ad abundantiam, l’infondatezza della critica, per una ragione in iure diversa e per così dire logicamente prioritaria e assorbente rispetto a quella adottata in sentenza: regula iuris che attiene al riparto dell’onere probatorio in ipotesi quale quella in esame e che è opportuno qui enunciare anche nell’esercizio del potere di correzione della motivazione ex art. 384 c.p.c., comma 4.
Secondo principio affermato da un risalente arresto della giurisprudenza di questa Corte, ma successivamente a quanto consta incontrastato, e che, in quanto pienamente condiviso, può qui ribadirsi, l’art. 1443 c.c. – secondo cui, qualora il contratto è annullato per incapacità di uno dei contraenti, questi non è tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio (incombendo al solvens l’onere di provare l’eventuale vantaggio ricevuto dall’incapace e la relativa misura) – si applica anche nel caso in cui il contratto, anzichè essere stato stipulato personalmente dall’incapace, sia stato stipulato in suo nome da chi lo rappresentava senza la prescritta autorizzazione (Cass. 04/03/1968, n. 681; v. anche, per un’analoga estensione a quest’ultima fattispecie della norma di cui all’art. 1442 c.c., comma 2, circa la decorrenza dell’azione di annullamento determinata dalla incapacità o minore età della parte: Cass. 23/03/1977, n. 1140, e Cass. 06/03/1993, n. 2725, ove si evidenzia come la parificazione tra le due ipotesi – del contratto concluso direttamente dall’incapace e di quello invece concluso dal suo rappresentante legale senza le autorizzazioni degli organi tutelari prescritte dalla legge – discenda dall’essere anche la seconda, come la prima, caratterizzata da un vizio dell’atto determinato dalla sua stipulazione senza le garanzie previste dalla legge nell’interesse dell’incapace, e dal ricorrere pertanto, in entrambi i casi, della medesima esigenza di tutela dell’incapace dagli effetti negativi dell’inerzia del tutore).
Alla luce di tale principio, applicabile pertanto anche alla fattispecie in esame, non incombeva al minore (accipiens) l’onere di provare di aver diritto alle somme ricevute indipendentemente dalla annullata transazione, ma al solvens convenuto/appellante dar prova del vantaggio indebito ricevuto dalla controparte.
L’esonero dalla restituzione è invero determinato, anche in tal caso, dalla presunzione che il contraente incapace non abbia tratto profitto dalla controprestazione ricevuta (Cass. n. 681 del 1968). Ciò in quanto la legge presume che (l’incapace) ha mal disposto del suo patrimonio, così come che possa aver dissipato la prestazione ricevuta e, pertanto, il rischio di tale situazione ricade sull’altro contraente che abbia contrattato con l’incapace e possa vedersi rifiutata la restituzione della sua prestazione ove non provi che di essa l’incapace abbia tratto vantaggio (Cass. 21/11/1975, n. 3913), essendo peraltro anche escluso che possa assumere rilievo la buona o malafede dell’altro contraente (Cass. 07/07/2017, n. 16888).
Nel caso di specie pertanto, in mancanza di alcuna allegazione e prova, da parte del solvens, dell’indebito vantaggio ricevuto dalla controparte, corretta deve ritenersi la decisione impugnata.
5. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Rifiuto della richiesta di divorzio innanzi all’ufficiale dello stato civile.

Corte di Cassazione, 4 febbraio 2020, n. 2451
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24666/2019 R.G. proposto da:
C.M.L., da sè medesima rappresentata e difesa, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la
Cancelleria civile della Corte di cassazione;
– ricorrente –
contro
UFFICIALE DELLO STATO CIVILE DEL COMUNE DI SOAVE;
– intimato –
avverso il decreto della Corte d’appello di Venezia depositato il 17 giugno 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3 dicembre 2019 dal Consigliere Dott.
Mercolino Guido.
Svolgimento del processo
che, con decreto del 14 febbraio 2019, il Tribunale di Verona rigettò l’impugnazione proposta da
C.M.L. avverso il rifiuto opposto dall’Ufficiale dello stato civile del Comune di Soave alla ricezione
delle dichiarazioni presentate il 14 settembre 2018, aventi ad oggetto la cessazione degli effetti
civili del matrimonio contratto dalla ricorrente con B.D., ai sensi del D.L. 12 settembre 2014, n.
132, art. 12, convertito con modificazioni dalla L. 10 novembre 2014, n. 162;
che il reclamo proposto dalla C. è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’Appello di Venezia
con decreto del 17 giugno 2019, in quanto proposto dalla parte personalmente, senza l’assistenza di
un difensore;
che avverso il predetto decreto la C. ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi;
che l’intimato non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
che con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 13 e 24
Cost., degli artt. 75 e 99 c.p.c., dell’art. 6 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e
dell’art. 47 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, censurando il decreto
impugnato per aver dichiarato inammissibile il reclamo, senza considerare che, ai sensi dell’art. 82
c.p.c., interpretato in conformità dei principi costituzionali e comunitari, l’assistenza di un difensore
munito di procura è necessaria soltanto in mancanza del requisito prescritto dall’art. 75 c.p.c.,
consistente nel libero esercizio dei diritti fatti valere;
che con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione della L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 19,
osservando che, nel dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il reclamo, ai sensi del D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, art. 13, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, il
decreto impugnato non ha tenuto conto dell’esenzione da qualsiasi spesa o imposta prevista per i
procedimenti di divorzio;
che con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.L. n. 132 del
2014, art. 12, sostenendo che, nel ritenere legittimo il rifiuto dell’Ufficiale di stato civile, in
considerazione del patto di trasferimento patrimoniale contenuto nell’accordo, il Tribunale ha
travisato la portata di quest’ultimo e della Circolare del Ministero dell’interno 24 aprile 2015, n. 6, la
quale circoscrive il divieto previsto dall’art. 12 citato ai patti traslativi di diritti reali;
che il ricorso è inammissibile, in quanto non sottoscritto da un difensore abilitato al patrocinio
dinanzi alle giurisdizioni superiori e munito di procura speciale, ma dalla parte personalmente, e
non notificato alla controparte;
che infatti, ai sensi dell’art. 82 c.p.c., comma 3, e art. 365 c.p.c., salvi i casi in cui la legge dispone
altrimenti, dinanzi alla Corte di cassazione la parte non può stare in giudizio personalmente, ma
solo col ministero di un avvocato iscritto nell’apposito albo previsto dal R.D.L. 27 novembre 1933,
n. 1578, art. 33, il quale dev’essere munito di procura speciale;
che l’obbligo di avvalersi di un difensore qualificato ai fini della proposizione del ricorso per
cassazione non si pone in alcun modo in contrasto con le norme costituzionali che tutelano il diritto
di difesa, ben potendo la legge ordinaria subordinare a modalità particolari l’esercizio di quel diritto,
alla sola condizione che non ne sia resa impossibile o estremamente difficile l’esplicazione (cfr.
Corte Cost., sent. n. 47 del 1971), e non apparendo d’altronde irragionevole, nell’ottica di una tutela
effettiva, rapportare alla fruizione della giurisdizione della Corte suprema la più elevata competenza
professionale da parte del difensore, più volte riconosciuta come elemento connotante la qualità di
cassazionista (cfr. Cass., Sez. VI, 6/03/2019, n. 6445; Cass., Sez. lav., 21/03/1991, n. 3051);
che, come già precisato da questa Corte, l’art. 82 c.p.c., comma 3, e art. 365 c.p.c. non possono
ritenersi neppure in contrasto con la CEDU, art. 6, comma 3, lett. c) o con l’art. 14, comma 3, lett.
d), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato con L. 25 ottobre 1977, n. 881, i
quali, nel riconoscere alla parte il diritto di difendersi personalmente, si riferiscono al processo
penale, e non spiegano pertanto alcuna incidenza sul patrocinio nel processo civile (cfr. Cass., Sez.
VI, 11/12/2014, n. 26133; Cass., Sez. II, 27/12/ 2012, n. 23925; Cass., Sez. I, 3/10/1988, n. 5335);
che il materiale difetto di notificazione del ricorso per cassazione comporta a sua volta la
declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, trattandosi di una situazione rispetto alla quale
valgono le stesse conseguenze che derivano dal vizio di giuridica inesistenza della notificazione
stessa (cfr. Cass., Sez. III, 15/10/2015, n. 20893; Cass., Sez. VI, 16/02/2012, n. 2267; 8/06/2011, n.
12509);
che il ricorso va dichiarato pertanto inammissibile, senza che occorra provvedere al regolamento
delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato;
che, trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.
Depositato in cancelleria il 4 febbraio 2020

Rifiuto del padre di sottoporsi ad indagini ematologiche per l’accertamento della paternità naturale

Cassazione civile, sez. VI, 08 Novembre 2019, n. 28886. Pres. Genovese. Est. Loredana Nazzicone.
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 863-2018 proposto da:
I.V., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato S. M.;
– ricorrente –
contro
R.E., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato P. A.;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 795/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 23/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. NAZZICONE LOREDANA.
Svolgimento del processo
– che è stato proposto ricorso, sulla base di due motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari n. 795 del 23 giugno 2017 la quale ha respinto l’impugnazione contro la decisione di primo grado, che aveva dichiarato la paternità giudiziale dell’odierno ricorrente e accolto anche le conseguenti domande accessorie avanzate da R.E., aventi ad oggetto l’obbligo di mantenimento e il risarcimento dei danni patrimoniali e non, subiti a causa dell’assenza della figura paterna;
– che si difende con controricorso R.E.;
– che il ricorrente ha depositato memoria;
– che è stata formulata la proposta per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., avverso cui non sono stati espressi rilievi.

Motivi della decisione
– che i motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c., poichè il giudice di secondo grado ha riconosciuto all’odierna controricorrente il diritto al mantenimento sin dalla nascita;
2) nullità della sentenza e violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.c., comma 2, e dell’art. 116 c.p.c., comma 2, poichè la corte barese ha fondato la propria decisione sul rifiuto del ricorrente di sottoporsi all’esame ematico, senza valutare le ragioni di tale rifiuto (timore del nocumento fisico e psicologico arrecato da un esame così invasivo) e senza consentirgli di provare la propria estraneità alla vicenda attraverso prove testimoniali o, comunque, ricorrendo ad accertamenti che non implicassero prelievi ematici;
– che il primo motivo è inammissibile, poichè la corte di merito non ha operato il riconoscimento del diritto al mantenimento della controparte sin dalla nascita e nessuna domanda risultava formulata a tal titolo;
– che il secondo motivo è manifestamente infondato;
– che la decisione della corte d’appello risulta pienamente conforme ai principi elaborati da questa Corte per cui, “nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda” (e multis Cass. 16226/2015; Cass. 6025/2015);
– che, peraltro, la corte di appello ha anche dato atto dell’acquisizione di elementi di confronto che suffragano l’attendibilità della ricostruzione fornita dalla R., quali la precedente azione -poi non coltivata – intrapresa diversi anni prima dalla madre della stessa al fine di ottenere una dichiarazione giudiziale di paternità;
– che, pertanto, la corte ha dato atto delle ragioni, conformi ai principi affermati, del proprio convincimento e non è, d’altronde, stato neppure addotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c. n. 5, comma 1;
– che la condanna alle spese segue la regola della soccombenza.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte costituita, di Euro 3.100 (di cui Euro 100 per esborsi), oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento, sono omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 53.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio.

Responsabilità genitoriale. I genitori devono sorvegliare i figli sul giusto impiego di whattsapp.

Massima del Tribunale per i Minorenni, Caltanissetta, sentenza 8 ottobre 2019
L’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore, fondamento della responsabilità dei genitori per il fatto illecito dal suddetto commesso, può esser ritenuta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 c.c.
In virtù della disposizione di cui all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989 (e ratificata dallo Stato italiano con la legge 27 maggio 1991, n. 176) in base alla quale nessun fanciullo può essere oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione, nonché della correlata previsione – contenuta nell’art. 3 della stessa Convenzione – secondo la quale in tutte le decisioni relative ai fanciulli emanate (anche) dall’autorità giudiziaria l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente, il diritto alla riservatezza del minore, nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali (diritto di cronaca e diritto alla “privacy”) deve essere considerato assolutamente preminente.

Per operare una deroga alla regola dell’affidamento condiviso occorre che uno dei genitori manifesti carenza o inidoneità educativa.

Tribunale Napoli Sent., 3 dicembre 2019 – Pres. Rel. Sica
riunito in camera di consiglio, ha pronunziato la seguente
SENTENZA
nel procedimento n. 5988 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell’anno 2018, tra
B.V., elettivamente domiciliato in Napoli alla via Tasso 65 presso lo studio dell’avv. Gigliola Savastano, che
lo rappresenta e difende, come da procura in calce al ricorso;
RICORRENTE
E
R.A., elettivamente domiciliata in Napoli al Centro Direzionale, Isola F12, presso lo studio dell’avv. Sara
Perrotta, che la rappresenta e difende, come da procura in calce alla comparsa di costituzione;
RESISTENTE
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso depositato l’1 marzo 2018, V.B. esponeva che, nel mese di gennaio del 1999, aveva instaurato una
relazione sentimentale con A.R., caratterizzata da forti contrasti, che erano acuiti dalle difficoltà da lui
rinvenute nel reperire un’attività lavorativa; che, in particolare, dopo aver svolto il servizio militare a Rivolto,
era dapprima ritornato a Napoli, ove era stato assunto da una ditta e, dopo circa un anno, si era trasferito a
Parma, comune nel quale aveva lavorato, quale dipendente di un’azienda, sino all’anno 2012; che nel mese di
novembre del 2012, avendo cessato l’attività svolta, era rientrato a Napoli; che, allorchè la R. era in stato di
gravidanza, il rapporto si era incrinato; che il 10 gennaio 2013 era nata la figlia M., riconosciuta unicamente
dalla resistente per volontà di quest’ultima; che, attesi i conflitti intercorrenti con la R., incontrava la minore
una volta alla settimana alla presenza della madre.
Chiedeva, quindi, al Tribunale di Napoli di essere autorizzato a riconoscere M.R. quale propria figlia, e di
regolamentare le modalità di visita paterne nonché l’attribuzione del suo cognome, con vittoria di spese e
condanna della resistente al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.
Con decreto del 20 marzo 2018, il Presidente assegnava al ricorrente il termine di giorni sessanta per notificare
il ricorso all’altro genitore e stabiliva l’udienza del 12 settembre 2018 per la comparizione delle parti.
In data 26 luglio 2018 si costituiva in giudizio, mediante il deposito di memoria, A.R., la quale non si opponeva
alla domanda di riconoscimento della piccola M. proposta dal ricorrente, e, tuttavia, deduceva che il B. non
aveva mai manifestato interesse nei riguardi della bambina; che, peraltro, l’istante era stato condannato, alla
pena di mesi quattro di reclusione per il reato di lesioni commesse nei suoi confronti.
Concludeva, quindi, affinché venisse disposto l’affidamento esclusivo a lei della minore, regolamentate le
modalità di visita da parte del padre, stabilito a carico di quest’ultimo il contributo mensile di Euro 400 per il
mantenimento della figlia, oltre alla corresponsione del 50% delle spese straordinarie, e che venisse posposto
il cognome paterno a quello assunto dalla minore alla nascita, con vittoria di spese.
Con sentenza non definitiva del 9 ottobre 2018, il Tribunale dava atto della mancata opposizione della R. al
riconoscimento della figlia da parte del B. e rinviava per l’adozione dei provvedimenti accessori all’udienza
del 13 marzo 2019.
Con ordinanza del 21 marzo 2019 il Tribunale disponeva la produzione in giudizio del certificato integrale di
nascita della minore, stabiliva, in via provvisoria, l’affidamento della bambina ad entrambi i genitori, con
collocazione prevalente presso l’abitazione materna, regolamentava il diritto di visita del B. e poneva a carico
di quest’ultimo il contributo mensile di euro trecento per il mantenimento della figlia, oltre alla corresponsione
della metà dell’importo delle spese straordinarie.
All’udienza del 6 novembre 2019 il Collegio riservava la decisione.
Deve essere preliminarmente rilevato che il ricorrente ha ritualmente provveduto al riconoscimento della figlia,
come emerge dalla certificazione prodotta in giudizio.
Per quanto concerne i provvedimenti accessori, giova premettere che la L. n. 154 del 2013 ha operato, all’art.
316 cod. civ., la sostituzione dell’espressione “potestà genitoriale” con quella di “responsabilità genitoriale”,
intendendo quest’ultima come quella situazione giuridica complessa idonea a riassumere i doveri, gli obblighi
e i diritti derivanti per il genitore dalla filiazione.
Il legislatore dà, in tal modo, rilievo al concetto di responsabilità che individua la funzione di considerare il
minore un soggetto di diritti e centro di imputazione di interessi che i genitori hanno il dovere, e, quindi la
responsabilità, di tutelare.
Inoltre, la regola generale, secondo cui “la responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori”, già
contenuta nel previgente art. 155, comma 3, cod. civ., è oggi collocata nell’art. 337 ter, comma 3, cod. civ.
Invero, tale ultima norma impone, in caso di separazione della coppia genitoriale, di adottare provvedimenti
nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, di garantire il suo diritto a mantenere un rapporto
equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e di conservare relazioni significative con gli ascendenti e
con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Ne discende che il combinato disposto degli artt. 316, comma 4, 337 ter, comma 3 e 337 quater cod. civ.
consente di ribadire che costituisce principio generale dell’ordinamento l’esercizio congiunto della
responsabilità genitoriale, per cui il figlio deve fare riferimento ad entrambe le figure genitoriali.
Ai suindicati rilievi deve aggiungersi che la costante giurisprudenza della S.C. ha ripetutamente affermato che
la regola prioritaria dell’affidamento condiviso ad entrambi i genitori è derogabile solo ove la sua applicazione
risulti pregiudizievole per l’interesse del minore, il quale costituisce l’unico criterio di valutazione (ex plurimis,
Cass. 6535/2019).
In particolare, l’individuazione delle circostanze ostative all’affidamento condiviso, non tipizzate dal
legislatore, è demandata alla decisione del giudice, che dovrà accertare se la peculiarità della fattispecie
giustifichi, in via di eccezione, l’affidamento esclusivo.
La giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, al riguardo, chiarito che la mera conflittualità esistente fra i
coniugi non preclude l’affidamento condiviso, poiché avrebbe altrimenti una applicazione solo residuale,
finendo di fatto con il coincidere con il precedente istituto dell’affidamento congiunto.
La S.C. ritiene, invece, che, per operare una deroga alla regola dell’affidamento condiviso, occorre che risulti,
nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o, comunque,
tale da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore, come nell’ipotesi di una sua
anomala condizione di vita, di insanabile contrasto con il figlio, di obiettiva lontananza (Cass., 16593/2008).
Discende da tali considerazioni che la scelta dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una
motivazione, non più solo in positivo, sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche, in negativo, sulla
inidoneità educativa del genitore che si esclude dal pari esercizio della responsabilità genitoriale e sulla non
rispondenza, quindi, all’interesse del figlio, dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di
affidamento (Cass. 7477/2014).
Osserva, anzitutto, il Collegio che, se l’affido condiviso ha, indubbiamente, anche la funzione di
responsabilizzare entrambi i genitori nel percorso di cura e crescita dei figli, esso ha la ragion d’essere
principalmente nell’interesse del minore a poter contare sull’apporto paritario dei genitori medesimi in ordine
alle scelte che lo riguardano, e nell’esigenza, da parte sua, di potersi confrontare con punti di vista talvolta
differenti.
La resistente giustifica, invece, la richiesta di affido esclusivo con l’assunto che il B. non sarebbe un genitore
responsabile, in quanto non interessato alla crescita della minore, sia sul piano affettivo, sia sul versante
economico, in quanto non contribuisce al suo mantenimento.
Va, tuttavia, osservato che il B. incontra con regolarità la minore, secondo le modalità stabilite dal Tribunale,
mostrando, in tal modo, la volontà di mantenere con lei un solido legame
Discende da tali rilievi che l’affidamento condiviso non appare pregiudizievole per la bambina, bensì
rispondente al suo interesse.
Va, poi, disposta la collocazione presso l’abitazione materna, ove vive stabilmente. In ordine alle modalità di
visita della figlia da parte del B., si ravvisa opportuno stabilire che egli potrà tenerla con sé il mercoledì ed il
venerdì, prelevandola a scuola alle ore 16, accompagnandola a seguire le attività extrascolastiche che la
bambina in quei giorni pratica, e riportandola a casa della madre alle ore 20,30; a settimane alterne, dalle ore
10 del sabato alle ore 18 della domenica; ad anni alterni, il 24 o il 25 dicembre, il 31 dicembre o l’1 gennaio;
ad anni alterni, il giorno di P. o il L. in A.; per quindi giorni nel periodo estivo.
Vanno, altresì, determinate le modalità di contribuzione del ricorrente al mantenimento della figlia.
Osserva, al riguardo, il Collegio che, secondo il costante orientamento della S.C., sussiste l’obbligo di entrambi
i genitori, che svolgono attività lavorativa produttiva di reddito, di contribuire al soddisfacimento dei bisogni
dei figli minori, in proporzione alle proprie disponibilità economiche, ai sensi degli artt. 315 e 316 cod. civ.,
in diretta applicazione dell’art. 30 Cost. (Cass. 23630/2009).
Il giudice può disporre, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico, al fine di realizzare tale
principio di proporzionalità, e, nel determinare l’importo dell’assegno per il minore, deve considerare le “attuali
esigenze del figlio”, che si concretizzano in bisogni, abitudini, legittime aspirazioni della minore, e in genere
nelle sue prospettive di vita, le quali non potranno non risentire del livello economico- sociale in cui si colloca
la figura del genitore (Cass. 23411/2009, Cass. 7644/2005).
In sostanza, il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole impone ai genitori di far fronte alle molteplici
esigenze dei figli che, al di là dei bisogni strettamente alimentari, si estendono anche all’aspetto abitativo,
scolastico, sanitario e sociale. In tale valutazione, occorre tenere presente il contesto socio-economico, le
abitudini di spesa, l’ambiente territoriale in cui il figlio vive, così da assicurargli un tenore di vita adeguato alle
potenzialità economiche dei genitori.
Al riguardo, il parametro di riferimento per una corretta determinazione del concorso negli oneri finanziari in
capo a ciascun genitore è costituito dalle rispettive sostanze e capacità lavorative.
Invero, il B., come da lui dichiarato all’udienza del 6 novembre 2019, è in procinto di essere assunto da una
azienda che opera nel settore degli autoricambi, mentre la R. è dipendente di una ditta con la retribuzione
mensile di Euro 900.
Premesso che, nella specie non è possibile stabilire tenore di vita del minore atteso che i genitori non hanno
convissuto dopo la nascita, deve darsi allora preminente rilievo alle esigenze connaturate all’età di M. ed
all’attività lavorativa svolta dalle parti.
Sulla scorta di tali elementi, deve essere posto a carico del B., a titolo di contributo al mantenimento del minore,
un assegno mensile di euro trecentocinquanta.
Tenuto conto dell’entità dell’assegno ordinario occorre specificare che lo stesso andrà a coprire le spese per
vitto, alloggio, abbigliamento ordinario, inclusi i cambi di stagione, spese per materiale scolastico di
cancelleria corrente, medicinali da banco (comprensivi anche di antibiotici, antipiretici e comunque medicinali
necessari alla cura di patologie ordinarie e/o stagionali), nonché utenze e consumi.
Per quanto concerne, poi, le spese straordinarie deve premettersi che il dovere di mantenere, istruire ed educare
i figli, obbliga i genitori a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo
alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, di istruzione, sportivo, sanitario e sociale, all’assistenza morale e
materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli stessi lo richieda, di una stabile
organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione.
Ne consegue che non sussiste duplicazione del contributo nel caso sia stabilito un assegno di mantenimento
omnicomprensivo con chiaro riferimento a tutti i bisogni ordinari e, contemporaneamente, si predisponga la
misura della partecipazione del genitore alle spese straordinarie, in quanto non tutte le esigenze sportive,
educative e di svago rientrano tra le spese straordinarie (Cass., Ordinanza n. 21273/2013).
Tuttavia, in tema di mantenimento della prole, devono reputarsi spese “straordinarie” quelle che, per la loro
rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli.
In sostanza, quindi, vanno considerate tali non solo quelle oggettivamente imprevedibili nell’an, ma, altresì,
anche quelle che, sebbene relative ad attività prevedibili, non possono essere determinate nel quantum ovvero
attengono ad esigenze episodiche e saltuarie.
Sulla base di tali rilievi, ritiene il Collegio di dover precisare che debbono essere considerate spese
straordinarie: 1) quelle scolastiche di istruzione: iscrizioni e rette di scuole, iscrizioni, rette ed eventuali spese
alloggiative, ove fuori sede, di università, pubbliche e private, ovvero spese di trasporto per raggiungere la
scuola o l’università (abbonamento trasporto pubblico), ripetizioni, viaggi di istruzione organizzati dalla
scuola, spese per libri di testo; 2) spese di natura ludica o parascolastica del tipo: corsi di lingua o attività
artistiche, corsi di informatica, centri estivi, viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente senza i
genitori, spese di acquisto e manutenzione straordinaria di messi di trasporto nonché per bolli e assicurazioni
connessi, spese per ricarica telefonica; 3) spese sportive: attività sportiva comprensiva dell’attrezzatura e di
quanto necessario per lo svolgimento di eventuale attività agonistica; 4) spese medico sanitarie non effettuate
tramite SSN, spese mediche e di degenza per interventi presso strutture pubbliche o private convenzionate,
esami diagnostici, analisi cliniche, visite specialistiche, spese ortodontiche e oculistiche, cicli di psicoterapia.
In considerazione dei redditi dei genitori, le spese straordinarie devono essere poste a loro carico nella misura
del 50% ciascuno.
Al riguardo, le parti dovranno far riferimento al protocollo di intesa firmato dal Presidente del Tribunale di
Napoli e dal Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli il 7.3.2018, anche in relazione alle
modalità con le quali dovranno preventivamente concordare le spese, salvo quelle cosiddette “obbligatorie”.
Il B. ha, poi, chiesto che venga attribuito al figlio il proprio cognome, in sostituzione di quello materno.
Giova precisare in punto di diritto che l’art. 262 cod. civ., nella precedente formulazione, prevedeva che “se la
filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte
della madre, il figlio (naturale) può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello
della madre”.
La suindicata disposizione venne dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 297 del
1996, nella parte in cui non prevedeva che il figlio naturale, nell’assumere il cognome del genitore che lo aveva
riconosciuto, potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua
scelta, aggiungendolo, il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome fosse divenuto autonomo
segno distintivo della sua identità personale.
In seguito all’indicato intervento manipolativo, la giurisprudenza ha univocamente interpretato la norma in
base al principio secondo cui i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del
suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della
sua personalità sociale, sicché la scelta, anche officiosa, del giudice è ampiamente discrezionale, con
esclusione di qualsiasi automaticità e non può essere condizionata né dal favor per il patronimico o per un
prevalente rilievo della prima attribuzione, né dall’esigenza di equiparare il risultato a quello derivante da
alcuna alle diverse regole che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo (ex plurimis, Cass.
23635/2009; Cass., 2644/2011; Cass., 1264/2015; Cass. 17976/2015).
Ne discende che nella scelta di anteporre, anziché di posporre o sostituire, a quello della madre, il cognome
del padre che ha riconosciuto il figlio successivamente, non sussiste alcuna violazione della predetta norma, la
quale è stata successivamente modificata dalla disposizione, non innovativa, dell’art. 27, comma uno lettera c)
del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, la quale ha stabilito che “il figlio può assumere il cognome del padre
aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”.
Orbene, oltre che nei casi in cui ne possa derivare un diretto pregiudizio al minore in ragione della cattiva
reputazione del padre, l’assunzione del patronimico con esclusione del cognome materno non può essere
disposta quando l’esclusione di detto cognome, ormai naturalmente associato al minore nel contesto sociale in
cui egli si trova a vivere, si risolva in una ingiusta privazione di un elemento distintivo della sua personalità
(ex plurimis, Cass. 16989/2007).
Osserva, pertanto, il Collegio che nella specie deve ritenersi che l’aggiunta del cognome del B., postponendolo
a quello materno, come richiesto dalla R., giovi al minore al fine di favorire, anche nella collettività sociale di
appartenenza, il suo inserimento nel contesto familiare paterno e, quindi, la sua percezione di essere
componente, a pieno titolo, oltre che della famiglia della resistente, anche del nucleo dell’altro genitore.
D’altra parte, tenuto conto dell’età, il minore non ha ancora acquisito con il matronimico, nei suoi rapporti
personali e sociali, una definitiva identità, suscettibile di sconsigliare l’aggiunta, mediante l’anteposizione, del
cognome paterno.
Sulla base delle anzidette considerazioni deve essere attribuito al minore il cognome “R.B.” in luogo di “R.”.
Va, infine, rigettata la domanda di condanna della R. al risarcimento dei danni ex art. 96 cod. proc. civ. non
ricorrendone i presupposti.
Atteso l’esito del giudizio e la condotta processuale delle parti, le spese processuali devono essere interamente
compensate.
La complessità della situazione del nucleo familiare rende opportuno invitare i genitori ad intraprendere un
percorso di sostegno alla genitorialità ed inviare copia del provvedimento al giudice tutelare perché eserciti i
suoi poteri ai sensi dell’art. 337 cod. civ.
P.Q.M.
Il Tribunale, tredicesima sezione civile, definitivamente pronunciando, così provvede:
a) Affida la figlia minore ad entrambi i genitori, con residenza prevalente presso l’abitazione materna;
b) Disciplina il diritto-dovere del padre di frequentare il minore nei termini di cui in parte motiva, da intendersi
in questa sede interamente trascritti;
c) Pone a carico di V.B. l’obbligo di corrispondere alla resistente la somma mensile di Euro 350, rivalutabile
annualmente secondo gli indici Istat, a titolo di contributo al mantenimento della figlia;
d) Pone a carico di entrambi i genitori l’obbligo di contribuire, nella misura del 50%, alle spese straordinarie
occorrenti per la minore, come individuate nel Protocollo di intesa firmato dal Presidente del Tribunale di
Napoli e dal Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli il 7.3.2018;
e) Dispone che alla minore M.R., nata a N. il (…), venga attribuito il cognome “R.B.” in sostituzione di quello
“R.”;
f) Dispone che copia del presente provvedimento venga inviata all’Ufficiale di Stato Civile per l’annotazione
prevista dal D.P.R. n. 396 del 2000;
g) Rigetta la domanda di risarcimento formulata ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.;
h) Dichiara interamente compensate le spese processuali;
i) Dispone la trasmissione di copia del presente provvedimento al giudice tutelare per i provvediment i di cui
all’art. 337 cod. civ.
Così deciso in Napoli, nella camera di consiglio del 6 novembre 2019.
Depositata in Cancelleria il 3 dicembre 2019.

Per il reato di violenza sessuale, va qualificato come “atto sessuale” anche il bacio sulla bocca che sia limitato al semplice contatto delle labbra.

Cass. pen. Sez. III, Sent., 21 gennaio 2020 n. 2201;
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.M.N.A., nato a (OMISSIS);
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere SCARCELLA ALESSIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale CANEVELLI PAOLO,
che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore presente, Avv. Massimiliano Capuzi, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza 11.02.2019, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza
5.11.2012 del tribunale di Roma, appellata dal C., dichiarava n. d.p. in relazione al capo b) perché
estinto per prescrizione, eliminando la relativa pena, e, riconosciuta per il capo a), l’attenuante di cui
all’art. 609-bis c.p., u.c., rideterminava la pena in 2 anni di reclusione, riconoscendo al medesimo i
doppi benefici di legge.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di
fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, c.p.p., articolando tre motivi di ricorso, di
seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.
2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione all’art. 609-bis c.p.
In sintesi, premesso che la fattispecie in esame atterrebbe ad un tentativo di bacio ad una prostituta
che i giudici di merito avrebbero ritenuto erroneamente inquadrabile nel reato consumato di
violenza sessuale, sostiene il ricorrente che la lettura della norma sarebbe stata erronea. Richiamata
dottrina sull’argomento secondo cui solo il bacio profondo connoterebbe sessualmente l’atto come
integrante gli estremi della violenza sessuale, sostiene che anche volendo applicare la più rigorosa
giurisprudenza in materia, deve comunque ribadirsi la necessità per il giudice, al fine di affermare la
configurabilità del delitto in esame, di operare una valutazione che tenga conto della condotta nel
suo complesso, del contesto in cui l’azione si è svolta e dei rapporti intercorrenti tra le parti (il
richiamo è a Cass. 10248/2014), ciò al fine di evitare eccessive dilatazioni della connotazione
sessuale del comportamento, contrarie ai principi di tassatività e determinatezza e contrarie al senso
comune. Nella specie, non vi sarebbe stato alcun bacio profondo, ed, anzi, il mero tentativo di
effusione non avrebbe integrato l’illecito penale applicando la richiamata giurisprudenza, trattandosi
di un’azione di routine irrilevante nell’ambito di un rapporto sessuale mercenario già iniziato.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 56 e 609-bis c.p. e
correlato vizio di motivazione.
In sintesi, sostiene il ricorrente che dagli atti processuali emergerebbe essersi trattato comunque di
un tentativo, come sarebbe provato dalle dichiarazioni dibattimentali rese dalla p.o. all’ud.
1.10.2012, di cui la difesa riporta un estratto.
La sentenza sarebbe quindi giuridicamente errata e manifestamente illogica nella parte in cui
confligge con le risultanze dibattimentali.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, vizio di motivazione sotto il profilo della mancanza e della
manifesta illogicità.
In sintesi, si sostiene che i giudici di merito hanno ritenuto credibile la versione della p.o. laddove la
stessa ha affermato che, pur avendo concordato con l’imputato una prestazione sessuale a
pagamento ed il relativo importo, avrebbe poi deciso di recedere da tale accordo non intendendo
farsi baciare dall’uomo. Diversamente, i giudici non avrebbero creduto alla versione difensiva,
secondo cui la p.o., piuttosto che recedere dai propri intendimenti, aveva tentato di fuggire dopo
aver ricevuto una telefonata dai suoi protettori che verosimilmente l’avvisavano dell’arrivo delle
pattuglie dei vigili urbani. Da qui vi era stato il tentativo dell’uomo di trattenere la p.o. per
adempiere alla pattuizione sessuale, e la successiva “baruffa” con i protettori della ragazza che
avevano malmenato l’imputato. La motivazione offerta dalla Corte d’appello sul punto sarebbe
manifestamente illogica in quanto contraddetta dagli atti processuali. Ed invero, secondo la Corte
d’appello, la tesi difensiva non avrebbe tenuto conto della circostanza per cui l’abbigliamento solo
parzialmente indossato non le precludeva alcun tipo di movimento, laddove, diversamente, come
sostenuto da uno degli agenti operanti, tale F., sentito all’ud. 17.04.2012, la ragazza avrebbe avuto il
pantalone abbassato solo sulla gamba sx, mentre invece la gamba dx era libera, priva di slip, e con il
pantalone calato sulla gamba sx. L’illogicità, per il ricorrente, risulterebbe evidente, laddove
attribuisce piena liberà di movimento alla p.o. che, invece, era impedita dalla sua parziale
vestizione, tanto che gli operanti l’avevano trovata in loco, non riuscendo a fuggire come invece i
suoi protettori, sanzionandola con la multa prevista dalle ordinanze comunali emanate per
combattere la prostituzione su strada, verbale che viene allegato al ricorso. Inoltre, aggiunge il
ricorrente, i giudici avrebbero omesso di tenere in considerazione il referto del PS – allegato al
ricorso – ove erano annotate le lesioni riscontrate sull’imputato il giorno dei fatti, lesioni compatibili
con la riferita aggressione da parte dei protettori della donna, a riscontro della versione difensiva,
senza tuttavia che i giudici si fossero soffermati sul punto.
Motivi della decisione
4. Deve premettersi che tutti i motivi di ricorso presentano un vizio comune, in quanto affetti da
inammissibilità per genericità e manifesta infondatezza.
4.1. Sono anzitutto affetti da genericità per aspecificità, in quanto non si confrontano con le
argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con
considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive
svolte nei motivi di appello (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità
senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di
inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il
ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che
ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che
risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione
impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del
09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
4.2. Gli stessi sono inoltre da ritenersi manifestamente infondati, atteso che la Corte d’appello ha,
con motivazione adeguata e del tutto immune dai denunciati vizi, spiegato le ragioni per le quali ha
disatteso le identiche doglianze difensive esposte nei motivi di impugnazione.
5. Ed invero, dalla lettura della sentenza emerge come i giudici, proprio tenendo conto delle
dichiarazioni della p.o., hanno scrupolosamente escluso che si potesse ritenere con rassicurante
certezza che vi fu un costringimento iniziale all’atto sessuale, atteso che la donna trovò comunque
opportuna l’esecuzione della prestazione ad un prezzo inferiore rispetto a quello pattuito, senza
esplicitare il dissenso, se non allontanandosi per ritornare alla propria postazione lavorativa,
recedendo dal dissenso subito dopo. Per i giudici di appello, dunque, l’attività invasiva della sfera
sessuale fu limitata all’iniziativa di baciarla e strapparle i vestiti indossati, non investendo l’intero
rapporto sessuale, ma con modalità di esecuzione non gradite perché al di fuori del perimetro delle
attività che la donna era solita consentire ai propri clienti. Del resto, come risulta dalla lettura della
prima sentenza (le cui motivazioni si integrano reciprocamente con quella d’appello e viceversa:
Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), la dinamica dei fatti
ebbe svilupparsi secondo modalità che videro la donna reagire al comportamento dell’uomo che
aveva iniziato a baciarla ed a strapparle i vestiti, provocando il tentativo di fuga della ragazza che,
bloccata dall’uomo, cadde rotolando per terra in mezzo alle spine, tanto che la ragazza aveva
iniziato ad urlare, tentativo che l’uomo aveva cercato di impedire, mettendole violentemente la
mano in bocca, colpendola con un pugno. Tale dinamica dei fatti, del resto, si legge nella sentenza
di primo grado, venne corroborata dalle dichiarazioni degli operanti che, allertati dalle urla,
notarono l’imputato e la donna, quest’ultima priva di slip, carponi per terra, mentre invocava aiuto e
che si presentava in lacrime, riferendo di essere stata malmenata dall’imputato, oltre che con vistosi
segni di violenza al collo, venendo accompagnata ad un presidio sanitario dove le vennero prestate
le prime cure, e diagnosticate lesioni compatibili con la violenza descritta dalla p.o. e non con la
dinamica dei fatti descritta dall’imputato che aveva riferito essersele procurate a causa del semplice
rotolamento nel prato. Inoltre, aveva aggiunto il primo giudice, non si comprendeva il motivo per
cui, secondo il racconto dell’imputato, la p.o., raggiunta dall’ipotetico protettore che avrebbe colpito
l’imputato e si era allontanato, non lo avesse seguito, quanto meno per non essere ritenuta
responsabile delle lesioni inferte dal suo protettore all’imputato. La credibilità della ragazza,
peraltro, non era stata incisa dalle fallaci dichiarazioni del teste indotto dalla difesa, il quale era
stato smentito dallo stesso imputato e dalla p.o., i quali avevano riferito di essersi trovati da soli
nello spazio apparato attiguo al giardino al momento della consegna della somma di denaro –
laddove il teste aveva riferito di essere stato presente all’atto della dazione -, come parimenti
inattendibile era stato il medesimo teste nel dichiarare di essere stato presente sui luoghi sino a che
non venne allontanato dalla polizia municipale, affermazione sconfessata dallo sviluppo
cronologico degli eventi. I giudici di appello, peraltro, si prendono carico anche di confutare, con
motivazione non manifestamente illogica, la versione difensiva dell’imputato resa in appello,
secondo cui la p.o. non era riuscita ad unirsi alla fuga dei suoi protettori, in quanto non avrebbe
tenuto conto della circostanza per cui l’abbigliamento solo parzialmente indossato non le precludeva
alcun tipo di movimento, cosicchè ben avrebbe potuto fuggire insieme ai protettori intervenuti.
6. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze del ricorrente appaiono del tutto
prive di pregio, in quanto tradiscono in realtà il “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla
valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di
legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e per
vizi motivazionali con cui, in realtà, si propongono doglianze non suscettibili di sindacato da parte
di questa Corte. Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimità operato dalla Corte di
cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile
ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale
giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 – dep. 31/01/2000, Moro, Rv.
215745).
E, sul punto, attraverso l’asserito travisamento probatorio (contestato nel secondo e nel terzo
motivo, senza peraltro nemmeno curarsi di allegare integralmente il verbale stenotipico delle
dichiarazioni rese dalla p.o. il 1.10.2012, né quelle del teste F. all’ud. 17.04.2012, ciò che preclude
l’esercizio del sindacato da parte di questa Corte, attesa la genericità di ciascun motivo, in
considerazione del ricorso alla censurabile tecnica del c.d. stralcio dichiarativo utilizzata per
costruire il vizio di travisamento della prova, laddove è invece pacifico nella giurisprudenza di
questa Corte che in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione del principio
di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di
contraddittorietà della motivazione, riportano meri stralci di singoli brani di prove dichiarative,
estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre rafforzamento
dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedono ad allegare in blocco ed
indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della
Suprema Corte: Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014 – dep. 29/05/2015, Savasta e altri, Rv. 263601),
oltre che ad essere smentito dalla ricostruzione puntuale offerta dalla sentenza d’appello, più che
prospettare un reale vizio motivazionale della sentenza, costruisce la censura alla sentenza d’appello
chiedendo a questa Corte di scegliere quale delle due versioni, quella difensiva o quella seguita
dalla sentenza, fosse quella più convincente, operazione inibita davanti al giudice di legittimità.
7. A ciò, peraltro, va aggiunto come non meriti nemmeno favorevole valutazione, la prospettazione
difensiva tendente a sminuire la credibilità della p.o., attraverso il richiamo a presunte
contraddizioni logiche della sentenza nella parte in cui i giudici avrebbero ritenuto compatibile che
la donna non sarebbe stata impedita dal suo abbigliamento ove avesse voluto darsi alla fuga in
compagnia dei suoi protettori o ancora, laddove, non avrebbero tenuto conto delle lesioni refertate
sul corpo dell’uomo, compatibili con la riferita aggressione subita a riscontro della versione
difensiva. Deve, infatti, essere ancora una volta ribadito che il giudizio di Cassazione non è
configurato come terzo grado di giurisdizione di merito, ma ha precisi limiti, legati alla ordinaria
funzione di giudice della legittimità della Corte di Cassazione, che esclude il potere di riesaminare e
valutare autonomamente il merito della causa e consente solo di controllare, sotto il profilo logicoformale
e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice cui è riservato
l’apprezzamento dei fatti. Gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti
(giudizio valutativo) cui il giudice di merito sia pervenuto attraverso l’esame delle risultanze
processuali, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono dunque
sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di mancanza o
contraddittorietà di motivazione soltanto perchè contrari all’assunto del ricorrente il quale prospetti
una diversa ricostruzione e valutazione dei fatti. Le doglianze su tali accertamenti non rientrano,
perciò, tra quelle ammissibili in sede di ricorso per Cassazione, cui non sono soggette se non per un
controllo estrinseco sulla congruità e logicità della motivazione, giacché al di fuori dei casi
espressamente previsti il giudizio di Cassazione non è configurato come un terzo grado di
giurisdizione di merito (tra le tante: Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 – dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv.
182961). Controllo, in questa sede, agevolmente superato dalla sentenza impugnata.
8. Infine, non coglie nel segno la tesi difensiva secondo cui i fatti o non costituirebbero reato o al
più sarebbero stati riconducibili nel tentativo. Ed invero, come emerso dalle decisioni di merito, non
si trattò di un approccio fallito dell’uomo, ma di un bacio non gradito dalla donna, accompagnato
dal comportamento del medesimo che le strappò i vestiti per porre in essere l-esecuzione coattiva”
della prestazione sessuale già pagata, anche se a prezzo inferiore a quello concordato.
Del resto, a ribadire la rilevanza penale del fatto, è sufficiente richiamate quanto questa Corte ha già
affermato, laddove si è precisato che va qualificato come “atto sessuale” anche il bacio sulla bocca
che sia limitato al semplice contatto delle labbra, potendosi detta connotazione escludere solo in
presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l’atto risulti privo di valenza
erotica, come, ad esempio, nel caso del bacio sulla bocca scambiato, nella tradizione russa, come
segno di saluto (Sez. 3, n. 25112 del 13/02/2007 – dep. 02/07/2007, Greco, Rv. 236964).
Inoltre, quanto alla pretesa configurabilità del tentativo, a destituire di fondamento giuridico la tesi
difensiva soccorre la più recente giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di reati
sessuali, anche il bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente
definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata,
allorquando, nell’ambito di una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto
ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti
coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, incida sulla libertà sessuale della vittima (Sez. 3,
n. 43423 del 18/09/2019 – dep. 23/10/2019, P., in corso di massimazione). E, nella specie, il bacio
venne dato alla p.o. dal reo nel contesto del rapporto sessuale, e, dunque, indubbiamente aveva una
connotazione sessuale, costituendo tuttavia una modalità di esecuzione non gradita perché, come
spiega con motivazione scevra da illogicità manifeste la Corte d’appello, al di fuori del perimetro
dell’attività che la donna era solita consentire ai propri clienti.
9. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di
Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
10. Segue l’oscuramento dei dati personali, attesa la natura del reato contestato.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi,
a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio e/o imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 19 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020

Litisconsorzio necessario del giudice italiano in caso di connessione fra più soggetti legati al de cuius italiano.

Cass. civ. Sez. Unite, Ord., 24 gennaio 2020, n. 1605
REPUBBLICA ITALIANA
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 30550-2018 proposto da:
H.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 82, presso lo studio
dell’avvocato PAOLA SCROFANA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ELENA
BARONI e ANTONIO DE CAPOA;
– ricorrente –
contro
C.P., elettivamente domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato SETTIMIO HONORATI;
– controricorrente –
e contro
F. , F.M., + ALTRI OMESSI;
– intimati –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 2786/2015 del TRIBUNALE
di ANCONA;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/10/2019 dal Consigliere Dott.
ANTONIO ORICCHIO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, il quale
conclude chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione.
Svolgimento del processo
C.P., quale erede per rappresentazione della sorella premorta C.F. (deceduta in (OMISSIS)),
accettava con beneficio di inventario l’eredità relitta da F.R. coniuge della succitata germana e
deceduto in (OMISSIS).
Eseguito l’inventario nei termini, la C.P., sul presupposto che il cospicuo patrimonio del de cuius F.
era costituito da beni all’estero, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Ancona numerosi
soggetti intestatari, quali pretesi prestanomi o responsabili di società fiduciarie, svolgendo azione di
petizione ereditaria, nonché proponendo altre varie domande (di rendiconto, riduzione di
disposizioni, accertamento di falsità di testamento e donazione).
Uno dei convenuti, H.T. – cittadino inglese, nato in (OMISSIS) – propone con atto fondato su due
ordini di motivi ricorso per regolamento di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. testualmente – “in
relazione alla causa R.G. 2786/2015 pendente avanti il Tribunale di Ancona”.
Il ricorso è resistito con controricorso da C.P. che eccepisce preliminarmente: a) la mancata
instaurazione del litisconsorzio processuale, avendo il ricorrente omesso di citare il Pubblico
Ministero presso il Tribunale civile di Ancona; b) l’invalidità della procura (per autenticazione
illegittima della sottoscrizione del ricorrente, cittadino straniero residente e domiciliato all’estero,
per carenza di autentica delle firme, che dovevano ritenersi, nel concreto contesto, apposte all’estero
per omessa deduzione e prova della presenza del ricorrente); c) mancata impugnazione
dell’ordinanza del Tribunale di Ancona di cui all’udienza del 18/12/”17, in cui fu ritenuta la “causa
matura per decisione…in ordine questione preliminare giurisdizione”; d) carenza del ricorso in
ordine ai prescritti requisiti di autosufficienza.
Il P.G. ha concluso come in atti e le parti hanno depositato memorie.
Nella stessa data (22 ottobre 2019) in cui era fissata la camera di consiglio per la decisione del
ricorso in esame la parte ricorrente, con apposita nota di deposito in cancelleria, formulava “atto di
proposizione di querela di falso in corso di giudizio” a norma dell’art. 221 c.p.c.
Con tale atto, corredato da parere tecnico-grafologico e preceduto da depositata “istanza di
interlocuzione” nella camera di consiglio al fine della proposizione della querela, si contestava
l’autenticità della firma a nome apparente C.P. apposta per la procura speciale alle liti di cui al
controricorso.
La Corte riservava ogni decisione al riguardo ed i difensori della parte ricorrente venivano ricevuti
al solo fine della comunicazione della notizia della riserva adottata dai Collegio.
Motivi della decisione
1.- In via del tutto preliminare il Collegio deve esaminare la questione degli effetti della suddetta
querela di falso in relazione alla sua, invero non usuale, concreta modalità di proposizione in
considerazione dello stato del giudizio.
La succitata querela deve, ai fini del presente regolamento, ritenersi non tempestiva in quanto
proposta dopo la convocazione della camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., in una
condizione processuale in cui non è possibile l’espletamento delle attività previste dall’art. 221
c.p.c., nel caso la querela venga proposta in corso di causa.
E’ bensì esatto che questa Corte (Cass., Sez. VI-3, ordinanza 23 luglio 2010, n. 17465), in
fattispecie relativa al procedimento in camera di consiglio ex art. 380-bis c.p.c., ha ritenuto che sia
prospettabile un “adattamento” del rito per rispettare la regola secondo cui la querela in corso di
causa va proposta con dichiarazione da unirsi al verbale di udienza (art. 221 c.p.c., comma 2):
adattamento subordinato alla condizione che “la parte – tramite il suo difensore, cui compete il
ministero – abbia chiesto o chieda prima della apertura dell’adunanza di essere sentita, se del caso
anche soltanto in funzione della proposizione della querela da parte del suo cliente personalmente
ovvero tramite il suo procuratore speciale”. Senonché va osservato che l'”adattamento” prefigurato
dalla citata ordinanza della Corte, con la previsione di un momento, all’interno della camera di
consiglio, che “garantisc(a) la diretta interlocuzione fra le parti ed il giudice e che immediatamente
impon(ga) la presenza del Pubblico Ministero per la redazione del relativo processo verbale”, in
tanto può aversi, ad avviso di queste Sezioni Unite, in quanto la parte abbia chiesto di essere sentita
in vista della proposizione della querela prima della convocazione della camera di consiglio ai sensi
dell’art. 375 c.p.c., non essendo ammissibili dilazioni o ritardi nella definizione del regolamento
preventivo di giurisdizione. Il che nella specie non è avvenuto, posto che il controricorso è stato
notificato il 29 novembre 2018 e il decreto di fissazione dell’adunanza camerale è stato notificato il
12 luglio 2019, laddove il ricorrente ha atteso il 22 ottobre 2019, giorno dell’adunanza in camera di
consiglio, per chiedere di essere sentito al fine di proporre querela in corso di causa,
contestualmente depositata.
Tale interpretazione del sistema normativo di riferimento non determina alcuna lesione del diritto di
difesa, posto che – va ribadito – rimane impregiudicata la possibilità per il ricorrente di proporre
querela di falso in via principale, ai sensi del già citato art. 221 c.p.c.
2.- Deve, invece, affrontarsi la questione, potenzialmente dirimente, relativa alla validità della
procura rilasciata dall’odierno ricorrente per il proposto regolamento preventivo di giurisdizione,
per il quale è richiesta procura speciale (in tema: Cass. S.U. n. 8371/2006 e Cass. n. 20045/2018).
Al riguardo il Collegio non condivide le conclusioni rassegnate dalla Procura Generale.
La richiesta declaratoria di inammissibilità si fonda sulla allegata circostanza della mancanza di
prova, da parte dell’odierno ricorrente, degli elementi in base ai quali poteva, in assenza
dell’indicazione del luogo di rilascio della firma autenticata del ricorrente, ritenersi che quest’ultima
fosse stata apposta ed autenticata in Italia pur stante la dichiarata mancanza di residenza nel nostro
paese dello stesso ricorrente.
Senonché era ben diverso e contrario il fine di quelle pronunce di questa Corte, con le quali si è
avuto modo di affermare (Cass., ex plurimis: n.ri 13482/2016 e 25385/2018) la superabilità della
presunzione dell’avvenuto rilascio in Italia della firma apposta da cittadino straniero su atto
giudiziario senza indicazione del luogo di sottoscrizione ed autenticata da legale italiano a ciò
abilitato solo per procura alle liti rilasciata nel nostro paese.
In effetti la possibilità del superamento della presunzione dell’avvenuto rilascio in Italia è quella
della parte avversa rispetto a quella della cui sottoscrizione di firma, in ipotesi, si tratta.
Nella concreta fattispecie e fermo restando il dovuto richiamo, in materia, ai generale principio
dell’onere della prova (in ipotesi incombente a chi pretende il superamento della accennata
presunzione) deve rilevarsi decisivamente quanto segue.
Non risulta la “carenza di qualsivoglia riferimento ad un apposito ingresso in Italia per il
conferimento di procura”, pure accennata in atti.
Risulta, viceversa, addotto e, per di più in atti il riferimento (attestato da carte di imbarco,
prenotazione alberghiera in Bologna, trasferimento dall’aeroporto e ricevuta di pagamento)
l’ingresso in Italia proprio nello stesso mese settembre 2018 – di predisposizione del ricorso oggi in
esame.
La sollevata eccezione, svolta in proposito dalla parte controricorrente, deve – dunque – essere
disattesa.
3.- Devono, inoltre, essere respinte le anzidette ulteriori eccezioni processuali sollevate dalla parte
controricorrente. Va al riguardo osservato, in particolare, che il contraddittorio è stato regolarmente
costituito atteso che parte ricorrente ha notificato il ricorso – nei rispettivi paesi di residenza – a tutti
i convenuti (ventitré) nel giudizio a quo inclusi i contumaci.
Più specificamente, ancora, il ricorso in esame risulta rinotificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c. anche –
come evidenziato dallo stesso P.G. – nei confronti di F.P..
Quanto, poi, alla pretesa non integrità del contraddittorio nei confronti del P.M. del Tribunale di
Ancona, deve evidenziarsi che quest’ultimo assume la veste di parte necessaria e litisconsorte
necessario solo in relazione ai giudizi di falso dopo che il relativo procedimento abbia avuto
effettivo inizio (Cass. n.ri 2992/1984 e 3149/1985).
In ordine alla eccezione sollevata dalla parte controricorrente e relativa alla mancata impugnazione
della già citata ordinanza del Tribunale di Ancona in data 18/12/17 va osservato quanto segue.
La preclusione alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione opera solo nell’ipotesi
in cui il Giudice abbia emesso un provvedimento non modificabile o revocabile in tema di
giurisdizione e che, quindi, costituisca elemento ostativo alla proponibilità del un mezzo (Cass. S.U.
11 giugno 2005, n. 307).
Nella fattispecie in giudizio, attesa l’adozione con la citata ordinanza della significativa locuzione
“allo stato degli atti” accompagnatoria del rinvio per precisazione delle conclusioni, non si era in
presenza di una delibazione sulla giurisdizione insuscettibile di ripensamento.
Quanto, infine, alla pretesa carenza di autosufficienza deve rilevarsi che il proposto ricorso per
regolamento preventivo di giurisdizione non si presenta affatto come atto privo dei dovuti requisiti
di specificità ed adeguatezza.
La relativa sollevata eccezione di inammissibilità è, pertanto, del tutto pretestuosa.
4.- Con il primo motivo del ricorso si censura il vizio di difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Parte ricorrente deduce la sua non accettazione della giurisdizione italiana ai sensi della L. n. 218
del 1995, art. 50.
Aggiunge, poi, oltre a considerazioni sulla insussistenza di una presunta universalità della
giurisdizione italiana, l’indicazione secondo cui, nell’ipotesi in giudizio, la sola legge applicabile
sarebbe quella canadese perché il de cuius F. era cittadino (OMISSIS).
Parte ricorrente sostiene, infine, che la pluralità di domande svolte dalla parte attrice odierna
controricorrente generano difficoltà per difesa del T..
5.- Con il secondo motivo del ricorso si deduce il vizio di difetto di giurisdizione del Giudice
italiano perché non vi sarebbe connessione, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Bruxelles del
1968, fra la domanda svolta contro il T. e quella proposte nei confronti delle altre parti convenute in
giudizio.
6.- Entrambi i motivi del ricorso possono essere trattati congiuntamente attesa la loro connessione.
Essi sono infondati.
La giurisdizione del nostro paese, nell’ipotesi, ricorre in virtù di motivi del tutto differenti ed
opposti rispetto a quelli, innanzi brevemente accennati, addotti dalla parte ricorrente. Al riguardo
deve, innanzitutto premettersi in punto di fatto, una necessaria puntualizzazione.
L’attrice odierna controricorrente ha adito il Tribunale di Ancona svolgendo una serie di azioni tutte
inerenti i beni, in Italia ed all’estero in molteplici paesi, relitti dal de cuius F.R..
Quest’ultimo, ancorché divenuto nel 1979 cittadino (OMISSIS), non aveva mai rinunciato alla
cittadinanza italiana, né si è visto revocare – in vita – la cittadinanza del paese (Italia) ove ha avuto e
mantenuto (in (OMISSIS)) residenza effettiva.
In ogni caso lo stesso F. avrebbe comunque riacquistato automaticamente, per effetto di matrimonio
intervenuto nel (OMISSIS), la cittadinanza (anche se persa) ai sensi sia della L. n. 555 del 1912,
art. 9 che della L. n. 91 del 1992, art. 13 (in punto: Cass. n. ri 2425/1991 e 12411/2000).
Tanto precisato deve quindi evidenziarsi che la cittadinanza italiana del de cuius in ogni caso
giustifica la sussistenza della giurisdizione italiana adita dall’attrice erede C. al fine di svolgere le
citate molteplici svolte azioni ereditarie.
In tale contesto la mera e indefinita circostanza allegata dal ricorrente relativa alla difficoltà a
difendersi non può assumere carattere derogatorio rispetto alla giurisdizione.
Quella difficoltà, nell’ambito di una causa relativa ad ingenti beni in Italia ed all’estero e
coinvolgendo gli interessi di cittadini italiani e stranieri, è intrinsecamente insita all’entità ed alla
molteplicità del lascito ereditario ed, ancora, alla (oggettiva) complessa attività, in vita, del cuius
indirizzata allo spostamento di parte dei beni all’estero in vari paesi (Svizzera, Belgio, Inghilterra,
Canada, Liechtestein e Gibilterra) anche attraverso l’attivazione e costituzione di intestazioni
fiduciarie.
Orbene tale attività e le difficoltà relative all’accertamento delle connesse questioni non possono, si
ribadisce, assumere oggi preteso motivo di oggettiva deroga alla sussistenza, nella fattispecie in
esame, della giurisdizione italiana.
In proposito va, inoltre, evidenziata la rilevanza decisiva rivestita dalla circostanza relativa al luogo
(italiano, nell’ipotesi di causa) di apertura della successione al fine dell’affermazione della
giurisdizione del Giudice italiano (Cass., Sez. Un. 25875/2008).
Al riguardo deve richiamarsi il noto e già enunciato principio, allorché si verte in materia “di
cumulo soggettivo di (plurime) domande, proposte dallo stesso attore nei confronti di più convenuti,
legate (come nell’ipotesi oggi in giudizio) da un vincolo di connessione tale da imporne la
trattazione unitaria (art. 33 c.p.c.), la giurisdizione è del giudice italiano” (Cass., S. U, Ordinanza 27
febbraio 2008 n. 5090).
Va, ancora, rammentato come, “con riferimento all’azione di rendiconto nei confronti di più
professionisti, di cui il “de cuius” si sia avvalso per la gestione del proprio patrimonio, proposta
contestualmente a quella di petizione di eredità nei confronti del coerede, la giurisdizione è del
giudice italiano anche nei confronti dell’unico professionista straniero: a)in applicazione dell’art. 6
della Convenzione di Lugano (L. n. 198 del 1992), interpretata alla luce degli orientamenti della
Corte di Giustizia (Sentenza del 13 luglio 2006, C 539/2003), in presenza dei presupposti che
rendono necessario un unico giudizio (vincolo di connessione delle domande, interesse a istruttoria
e pronuncia unica), trattandosi di più soggetti gestori chiamati al rendiconto, stante la funzione
unitariamente ricostruttiva di un unitario asse ereditario, senza che rilevi la natura disgiuntiva
dell’incarico; b) in considerazione del carattere pregiudiziale della causa di rendiconto rispetto a
quella principale di petizione di eredità (spettante allo stesso giudice “ex” art. 1 della Convenzione
di Lugano e L. n. 218 del 1995, ex art. 50), con conseguente attrazione della prima nell’orbita della
seconda” (Cass. n. 25875/2008, cit.).
D’altra parte “la giurisdizione nei confronti dello straniero deve essere riscontrata in base alla
prospettazione della domanda” (ex plurimis: Cass. S.U. n. ri 7991/2009, 5765/2012 e 26937/2013)
salva “una prospettazione artificiosamente finalizzata a sottrarre la controversia al giudice
precostituito per legge”, ipotesi invero assolutamente non ricorrente e neppure ipotizzabile nella
concreta fattispecie in esame in conseguenza dei complessi oggettivi aspetti innanzi accennati.
In conclusione i motivi vanno respinti ed il ricorso disatteso.
7.- Conseguentemente va dichiarata la giurisdizione del Giudice italiano.
8.- Le spese vanno riservate al giudice del merito.
P.Q.M.
LA CORTE dichiara la giurisdizione del Giudice italiano.
Spese al merito.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di
Cassazione, il 22 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2020

La posta elettronica certificata costituisce oggetto di un’informazione di carattere aggiuntivo destinata a surrogarsi e non a prevalere su una domiciliazione fatta dal difensore.

Cass. civ. Sez. III, Ord., 3 febbraio 2020, n. 2396
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5056/2018 proposto da:
M.A., B.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE DELLE MEDAGLIE D’ORO 157, presso
lo studio dell’avvocato FRANCESCO SAULLE, rappresentati e difesi dall’avvocato
ALESSANDRO BENUSSI;
– ricorrenti –
contro
BANCA INTERPROVINCIALE SPA, successore a titolo universale della BANCA
EMILVENETA SPA, in persona del Dott. G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
ROBERTO SCOTT 62, presso lo studio dell’avvocato SANDRO CAMPAGNA, che la rappresenta
e difende unitamente all’avvocato EUGENIO FORNI;
CASSA RISPARMIO DI BOLOGNA SPA, in persona del suo procuratore speciale, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA ACCIAIOLI N. 7, presso lo studio dell’avvocato PAOLO TAMIETTI,
che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ARMANDO SABATTINI;
– controricorrenti –
e contro
L.A., T.U., MPS GESTIONE CREDITI BANCA SPA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2526/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il
24/10/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/11/2019 dal Consigliere Dott.
STEFANO OLIVIERI.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Modena, con sentenza n. 1327/2016 accoglieva la domanda di revocatoria ordinaria,
proposta da Banca Emilveneta s.p.a. nei confronti di B.S. e M.A., dichiarando inefficace l’atto in
data 31.3.2011 di costituzione del fondo patrimoniale anche nei confronti degli intervenuti creditori
avvocati L.A. ed T.U., nonchè Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., mentre dichiarava
inammissibile l’intervento spiegato da CARISBO s.p.a., successivamente alla maturazione delle
preclusioni della fase istruttoria, essendo stato contestato il relativo credito.
La Corte d’appello di Bologna, adita dal B. e dalla M., con sentenza 24.10.2017 n. 2526 dichiarava
inammissibile la impugnazione in quanto proposta oltre il termine breve di decadenza.
Osservava al riguardo il Giudice di merito che il difensore degli appellanti in primo grado, avv.
Elisa Ribola, nell’ambito dei poteri conferiti dalla procura ad litem, con la memoria depositata ai
sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, aveva eletto domicilio, ai fini delle comunicazioni e
notificazioni, presso lo studio dell’avv. Vittorio Cazzella, nominato quale domiciliatario, e presso il
quale risultava eseguita in data 31.8.2016 la notifica della sentenza di primo grado: con la
conseguenza che era da ritenere tradiva la proposizione dell’appello effettuata con notifica in data
30.1.2017.
Avverso la sentenza di appello, notificata in data 7.12.2017, B.S. e M.A. hanno proposto ricorso per
cassazione affidato a cinque motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..
Resistono con distinti controricorsi, anch’essi illustrati da memoria, INTESA San Paolo s.p.a.
(incorporante di Cassa di Risparmio in Bologna s.p.a. – CARISBO); ILLIMITY Bank s.p.a.
(derivata da fusione per incorporazione e mutamento di denominazione di Banca Interprovinciale
s.p.a. – BIP – a sua volta incorporante Banca Emilveneta).
Non hanno svolto difese gli intimati avvocati L.A. ed T.U., nonchè MPS Gestione crediti Banca
s.p.a. “in nome e per conto” di Banca MPS s.p.a., ai quali il ricorso è stato notificato,
rispettivamente in data 15.2.2018 e 13.2.2018, presso i difensori domiciliatari.
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 170 c.p.c., in quanto la notifica
della sentenza di prime cure sarebbe stata effettuata nei confronti delle parti soccombenti in primo
grado presso lo studio del domiciliatario ma senza indicazione del procuratore costituito, ciò che
determinerebbe la insanabile nullità della notifica.
Il motivo è infondato.
Quando la parte non si costituisce personalmente, la elezione di domicilio è una mera facoltà
rimessa alla scelta della parte o del suo difensore – il quale fa propria la scelta della parte, nel caso
di elezione di domicilio effettuata contestualmente all’atto di conferimento della procura ad litem,
mediante la “autentica minor” della sottoscrizione della parte -, come si evince agevolmente tanto
dall’art. 163, comma 3, n. 2) – l’attore deve indicare la propria “residenza” – e n. 6 c.p.c.) -il
procuratore deve indicare soltanto il proprio “nome e cognome”, quanto dall’art. 125 c.p.c. (che
richiede soltanto la “indicazione delle parti” e del “codice fiscale” – del D.L. n. 193 del 2009, art. 4,
comma 8, lett. a, conv. in L. n. 24 del 2010 – e del “numero di fax” del difensore – D.L. n. 90 del
2014, art. 45bis, comma 1, conv. in L. n. 114 del 2014).
Occorre tenere conto, peraltro, che, anche con la introduzione del processo telematico -nei gradi di
merito- e con la modifica dell’art. 366 c.p.c., commi 2 e 4 e della L. n. 53 del 1994, non si è
immutato al regime precedente, concernente la facoltà della parte di eleggere domicilio, in difetto di
esercizio della quale vale la regola generale secondo cui, dopo la costituzione, e salvo diversa
previsione espressa della legge, tutte le comunicazione e le notifiche debbono essere fatte al
procuratore della parte (art. 170 c.p.c., comma 1), e dunque presso il suo studio, ed ora presso il suo
indirizzo PEC desunto dai pubblici elenchi individuati dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16 ter,
conv. con mod. in L. 17 dicembre 2012, n. 221.
E’ opportuno rammentare che questa Corte ha avuto modo di esaminare anteriormente alla
introduzione della previsione normativa di obbligatorietà della notifica telematica: D.L. n. 179 del
2012, art. 16 sexies, conv. in L. n. 221 del 2012, introdotto dal D.L. n. 114 del 2014, art. 52, conv.
in L. n. 114 del 2014, non applicabile alla fattispecie in esame – la ipotesi di concorrente indicazione
nell’atto difensivo, da parte del difensore, dell’indirizzo PEC e del domicilio eletto, presso i quali
ricevere le comunicazioni e le notificazioni degli atti processuali (cfr. Corte Cass. Sez. 6-3,
Sentenza n. 25215 del 27/11/2014; id. Sez. 6-3, Ordinanza n. 14969 del 16/07/2015; id. Sez. 6-2,
Sentenza n. 22892 del 10/11/2015; id. Sez. 6-3, Ordinanza n. 2133 del 03/02/2016 – in motivazione
-; id. Sez. 2, Sentenza n. 23412 del 17/11/2016), rilevando:
a) che l’indicazione della PEC, prevista per rendere più agevoli le comunicazioni di Cancelleria, non
rende inapplicabile l’intero insieme delle norme e dei principi sulla domiciliazione nel giudizio, non
potendo obliterarsi la volontà espressamente manifestata dalla stessa parte o dal suo difensore
diretta a designare l’elemento topografico dell’elezione di domicilio in maniera compatibile con le
regole del processo;
b) che la PEC costituisce, dunque, oggetto di un’informazione di carattere aggiuntivo finalizzata alle
comunicazioni di cancelleria, e che è destinata surrogarsi, anche agli effetti della notifica degli atti,
ad una domiciliazione mancante, ma non già a prevalere su di una domiciliazione che il difensore
abbia volontariamente effettuato c) che tale scelta volontaria prevaleva anche nel caso di elezione di
domicilio ex lege presso la cancelleria del giudice adito, in conformità del R.D. n. 37 del 1934, art.
82;
d) che se la indicazione dell’indirizzo PEC, senza ulteriori specificazioni, individuava il luogo
virtuale cui dovevano essere effettuate tanto le “comunicazioni”, quanto le “notificazioni” degli atti
processuali, diversamente la espressa destinazione del luogo virtuale soltanto alla ricezione delle
“comunicazioni” di Cancelleria, se accompagnata da una elezione di domicilio – tanto più se in
luogo diverso da quella dello studio del procuratore ad litem, concentrava esclusivamente sul
domicilio eletto il luogo di destinazione delle “notificazioni”: con la conseguenza che, qualora il
luogo indicato non fosse ricaduto nella circoscrizione dell’Ufficio giudiziario, doveva ritenersi
valida la notifica eseguita mediante deposito dell’atto presso la Cancelleria R.D. n. 34 del 1937, ex
art. 82.
In seguito alla introduzione del processo telematico ai gradi di merito – e solo parzialmente al
giudizio di legittimità, tutte le disposizioni che prevedono che le notificazioni siano eseguite
mediante deposito presso la Cancelleria dell’Ufficio giudiziario, trovano applicazione
esclusivamente nel caso in cui “per causa imputabile al destinatario” la notificazione non possa
essere eseguita presso l’indirizzo di posta elettronica, ossia presso il domicilio digitale (D.L. n. 179
del 2012, art. 16 sexies., conv. in L. n. 134 del 2012).
Nella specie non è controverso:
a) che vi sia stata – e sia stata ritualmente portata a conoscenza delle altre parti tramite deposito di
memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3), la elezione di domicilio presso lo studio (in (OMISSIS)
– PEC vittoriocazzella.ordineavvmodena.it – fax 0589346433) dell’avv. Vittorio Cazzella, indicato
quale domiciliatario dal difensore avv. Elisa Ribola, in nome e per conto dei convenuti, in base ai
poteri conferiti dalla procura ad litem (cfr. trascrizione parziale della memoria difensiva, riportata a
pag. 11 controricorso INTESA San Paolo s.p.a.) b) che la sentenza di prime cure sia stata notificata
e consegnata presso lo studio del domiciliatario.
Pacifico in giurisprudenza che la notifica in questione sia idonea a fare decorrere il termine breve di
impugnazione (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 2220 del 04/02/2016; id. Sez. 5, Sentenza n.
7257 del 22/03/2017; id. Sez. 6-1, Ordinanza n. 30835 del 28/11/2018, che affermano tutte la
prevalenza del criterio topografico – domicilio eletto – su quello personale – dello studio del
procuratore ad litem – quando il domiciliatario non corrisponda al procuratore costituito per la parte
in giudizio, precisando peraltro che “La notifica della sentenza presso il procuratore domiciliatario,
effettuata in luogo diverso da quello indicato in sede di elezione di domicilio a seguito del
trasferimento dello studio professionale, è idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione
previsto dall’art. 326 c.p.c., atteso che la variazione di indirizzo non incide sulla relazione dello
studio con la parte interessata e con il procuratore costituito, sicché resta soddisfatta l’esigenza di
assicurare che la sentenza sia portata a conoscenza della parte per il tramite del suo rappresentante
processuale, professionalmente qualificato a valutare, nei termini prescritti, l’opportunità
dell’impugnazione”), la allegata nullità della notifica della sentenza per omessa indicazione del
nominativo del procuratore ad litem, non trova nella specie riscontro, in quanto la omissione di tale
indicazione non è elemento formale espressamente richiesto dalla legge la cui mancanza è
sanzionata a pena di nullità. Ne segue che la verifica della invalidità dell’atto di notificazione va
compiuta alla stregua del risultato pratico conseguito dall’atto, dovendo lo stesso ritenersi affetto da
nullità le volte in cui sia dimostrata “la mancanza dei requisiti indispensabili per il raggiungimento
dello scopo” (art. 156 c.p.c., comma 2). Orbene la indicazione del procuratore ad litem appare
necessaria le volte in cui non sia dato “aliunde” evincere, dalla stessa sentenza notificata, il
nominativo del difensore della parte – che è il destinatario dell’atto, in quanto soggetto
professionalmente competente a valutare la strategia difensiva da seguire ed a rappresentare alla
parte assistita le ragioni che rendano o meno opportuna la proposizione della impugnazione: solo in
tal caso, infatti, può manifestarsi una situazione di incertezza in ordine all’effettiva conoscenza da
parte del predetto difensore dell’atto notificato al domiciliatario. Nella specie, tale situazione
incertezza non risulta neppure allegata dalle parti ricorrenti (se non tautologicamente in relazione
alla tardiva proposizione dell’appello) le quali si sono limitate soltanto a lamentare di non avere
avuto personalmente contezza della avvenuta notifica della sentenza (circostanza irrilevante
dovendo la sentenza pervenire a conoscenza del procuratore ad litem), senza peraltro neppure
specificare in che modo e quando ed in base a quali circostanze fossero poi pervenute –
personalmente o tramite il loro difensore – a conoscere, solo in tempo successivo, la esistenza della
sentenza; nulla avendo, invece, dedotto in ordine ad eventuali dubbi od altre difficoltà che avrebbe
incontrato il legale domiciliatario nella identificazione del procuratore ad litem che assisteva le
parti.
Non appare, peraltro, dirimente il richiamo operato dai ricorrenti al precedente – non massimato – di
questa Corte Cass. Sez. 2 Sentenza 02/09/2015 n. 17452, atteso che la fattispecie colà esaminata era
diversa, essendo stata notificata la sentenza presso lo studio del legale domiciliatario che era stato
nominato a seguito di esclusiva iniziativa della parte, senza che fosse ravvisabile alcun
collegamento del domiciliatario con il procuratore ad litem della parte, presso il quale era stato
originariamente eletto domicilio all’atto del conferimento della procura, e che non era stato
revocato, né aveva mutato domicilio.
Diversamente nel caso sottoposto all’esame del Collegio è stato lo stesso procuratore ad litem (avv.
Elisa Ribola) a compiere e portare a conoscenza delle altre parti la nuova elezione di domicilio
(presso l’avv. Cazzella), attraverso il deposito di una memoria difensiva dallo stesso sottoscritta.
Tanto è sufficiente allora, unitamente alla inequivoca indicazione contenuta nella intestazione della
sentenza del Tribunale del nominativo dell’avv. Ribola quale procuratore ad litem di M.A. e B.S., a
ritenere che l’attività di partecipazione, nel che si risolve il procedimento notificatorio, abbia
raggiunto comunque il suo scopo, portando a legale conoscenza del procuratore ad litem la sentenza
di prime cure attraverso la notifica dell’atto presso il legale domiciliatario, dovendo ritenersi,
pertanto, tale notifica pienamente idonea a fare decorrere il termine breve ex artt. 325 e 326 c.p.c. In
conclusione il ricorso deve essere rigettato, quanto al primo motivo, assorbiti tutti gli altri motivi,
con conseguente condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità,
liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale, quanto al primo motivo e dichiara assorbiti gli altri motivi.
Condanna i ricorrenti al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida, per ciascuno, in Euro 6.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie
nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del
2012, art.1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei
ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

L’attribuzione patrimoniale a favore del convivente “more uxorio” configura l’adempimento di un’obbligazione naturale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 3 febbraio 2020, n. 2392
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 14114/2017 proposto da:
B.M.C., elettivamente domiciliato in Roma al viale delle Milizie, n. 38, presso lo studio
dell’AVVOCATO PIERFILIPPO COLETTI, che la rappresenta e difende unitamente
all’AVVOCATO ROBERTO CATALDI;
– ricorrente –
contro
S.E.G., elettivamente domiciliato in Roma alla piazza di Pietra, n. 26, presso lo studio
dell’AVVOCATO DANIELA JOUVENAL, che lo rappresenta e difende unitamente agli
AVVOCATI ROBERTA DI MAGGIO, PAOLO PAUTRIE’;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 02839/2016 del TRIBUNALE di TORINO, depositata il 29/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/09/2019 da Dott. Cristiano Valle;
udito l’Avvocato Pierfilippo Coletti, anche in sostituzione dell’Avvocato Roberto Cataldi per la
ricorrente e l’Avvocato Daniela Jouvenal per il controricorrente e ricorrente incidentale;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto.
Svolgimento del processo
B.M.C. impugna per cassazione, a seguito di ordinanza di inammissibilità dell’appello della Corte
territoriale di Torino, la sentenza del Tribunale della stessa sede di accoglimento parziale delle
domande proposte nei suoi confronti da S.E.G. e di condanna alla corresponsione, in favore dello
stesso, della complessiva somma di oltre Euro quattrocentosessantamila, oltre rivalutazione
monetaria ed interessi legali sulla somma rivalutate ed interessi dalla sentenza.
S.E.G. resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato.
Entrambe le parti hanno depositato memorie nel termine di legge. Il P.G. ha concluso per il rigetto
del ricorso principale e assorbimento del ricorso incidentale condizionato.
Motivi della decisione
In via preliminare si rileva che nel ricorso per cassazione risultano riportati i motivi di appello ed il
tenore della decisione d’inammissibilità adottata dalla Corte territoriale di Torino, conformemente ai
precedenti specifici di questa Corte (segnatamente: Cass. n. 10722 del 15/05/2014 Rv. 630702-01 e
n. 8942 del 17/04/2014 Rv. 630332-01), cosicché deve escludersi che si sia formato giudicato
interno sulle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità e già prospettate al giudice
dell’impugnazione di merito.
La domanda di S.E.G. era stata originariamente proposta come derivante dall’associazione in
partecipazione che era intercorsa tra lo stesso e l’odierna ricorrente B.M.C..
Il Tribunale di Torino ha rigettato la domanda ai sensi dell’art. 2549 c.c. e, escludendo che fossero
applicabili le norme in tema di mandato e di obbligazioni naturali, qualificandola come azione di
arricchimento senza causa ai sensi dell’art. 2041 c.c., l’ha accolta nei limiti sopra riportati e con
riferimento a due delle operazioni di acquisto e ristrutturazione e rivendita di immobili poste in
essere dalla B. e dallo S. nel corso di oltre venti anni di convivenza.
I tre motivi del ricorso principale sono formulati il primo ai sensi dell’art. 360 c.p.c. comma 1, n. 3,
in relazione agli artt. 2549 e 2042 c.c., e per la non ritenuta sussidiarietà dell’azione di indebito
arricchimento; il secondo è proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c. comma 1, n. 3, in relazione agli artt.
2034 e 2041 c.c., ed il terzo art. 360 c.p.c. comma 1, n. 4, in relazione ad art. 111 Cost. e art. 132
c.p.c., per nullità della sentenza per omessa motivazione.
In ordine al primo motivo del ricorso principale, che contesta violazione o falsa applicazione di
norme di legge, e segnatamente degli agli artt. 2549 c.c. e segg. art. 2042 c.c., per non avere il
Tribunale escluso l’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento, in considerazione della
sussistenza di un titolo contrattuale, affermato dallo stesso attore in primo grado, si rileva quanto
segue.
La sentenza impugnata ha affermato, coerentemente con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n.
2350 del 31/01/2017 Rv. 642718-01: “La proponibilità dell’azione generale di indebito
arricchimento, in relazione al requisito di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., postula
semplicemente che non sia prevista nell’ordinamento giuridico altra azione tipica a tutela di colui
che lamenti il depauperamento, ovvero che la domanda sia stata respinta sotto il profilo della
carenza ab origine dell’azione proposta, per difetto del titolo posto a suo fondamento” e Cass. n.
17317 del 11/10/2012 Rv. 623829-01: “L’azione generale di arricchimento ingiustificato costituisce
un’azione autonoma, per diversità della causa petendi, rispetto alle azioni fondate su titolo negoziale
ed ha natura sussidiaria, potendo essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale
possa essere fondato un diritto di credito”) alla quale si intende in questa sede dare seguito, che
sussiste il requisito della sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., non risultando configurabile, nel
complesso rapporto economico intercorso tra la B. e lo S., un’associazione in partecipazione ai sensi
degli artt. 2549 c.c. e segg..
Il primo motivo di ricorso non incide adeguatamente detta motivazione, che, come tratteggiato, ha
escluso, sulla base di adeguata ricostruzione in fatto delle articolate vicende patrimoniali intercorse
nell’arco di un ventennio tra la B. e lo S., che fosse sussistente tra i due predetti conviventi un
accordo qualificabile in termini di associazione in partecipazione e non si è, pertanto, limitata a
ritenere che l’associazione in partecipazione non fosse provata.
Il secondo mezzo è proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 2034 e
2041 c.c., per non avere la sentenza impugnata ritenuto di ricondurre le dazioni e comunque i
versamenti di denaro effettuati dallo S. al paradigma normativo dell’obbligazione naturale, di cui
all’art. 2041, ritenendo, viceversa che esse fosse assoggettabili all’azione di indebito arricchimento
in danno della B..
Il motivo non coglie nel segno. La sentenza in scrutinio ha affermato, con accertamento di fatto,
non adeguatamente censurato, che l’importo delle operazioni effettuate, del valore superiore alle
centinaia di milioni delle vecchie lire (nel vigore del precedente corso legale) e comunque superiore
a centinaia di migliaia di Euro (anche per importi di Euro cinquecentomila) non potevano essere
ricondotte all’adempimento di un dovere morale e sociale, così da rientrare nella previsione di
irripetibilità di cui all’art. 2034 c.c., in quanto esorbitanti “dalle esigenze familiari e che non
rispettano i minimi di proporzionalità ed adeguatezza” di cui all’art. 2034 c.c.. La conclusione della
sentenza impugnata è, peraltro, coerente con l’affermazione della giurisprudenza di questa Corte,
secondo la quale (Cass. n. 3713 del 13/03/2003 Rv. 561116-01): “Un’attribuzione patrimoniale a
favore del convivente “more uxorio” configura l’adempimento di un’obbligazione naturale a
condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del
patrimonio e alle condizioni sociali del solvens”. Sul punto, ed in via conclusiva, sul secondo
mezzo, si ribadisce che (Cass. n. 11330 del 15/05/2009 Rv. 608287-01): “L’azione generale di
arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia
avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa
qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto
di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale. E’, pertanto, possibile configurare
l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in
presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni
nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e
patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di
adeguatezza”).
Il terzo motivo di ricorso deduce nullità della sentenza per mancata statuizione su alcuni capi della
domanda (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione ad art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., per nullità
della sentenza per omessa motivazione), non avendo la sentenza del Tribunale esaminato le vicende
patrimoniali riguardanti tutti gli immobili acquistati ed alienati nell’arco di un ventennio.
Il mezzo è inammissibile: i beni immobili e le operazioni immobiliari dedotte in causa con la
domanda originaria da parte dello S. erano soltanto alcuni (precisamente: quello di (OMISSIS) e di
(OMISSIS)) di quelli costituenti oggetto dei complessi rapporti affettivi e patrimoniali intercorsi,
come si è detto, nell’arco di oltre un ventennio, tra la B. e lo S..
La B. non ha mai, e comunque qualora lo abbia fatto non ha specificato in ricorso come dove e
quando processualmente ciò sia avvenuto, ossia in quali atti difensivi in primo o secondo grado,
abbia dedotto in causa altre operazioni di acquisto e vendita di altri beni immobili, con la
conseguenza che la sentenza in esame si è correttamente limitata alla disamina di alcune soltanto
delle operazioni concluse e segnatamente di quelle originariamente comprese nella domanda dello
S..
Il ricorso principale è, pertanto, dichiarato inammissibile.
Il ricorso incidentale condizionato dello S. è basato su tre motivi relativi all’art. 2549 c.c., al
rendiconto ed alla domanda di restituzione.
Il ricorso incidentale è stato espressamente qualificato come condizionato, all’accoglimento del
ricorso principale. Ne consegue che il rigetto del ricorso principale comporta l’assorbimento
dell’incidentale.
Alla soccombenza della ricorrente principale consegue la condanna al pagamento delle spese di lite,
liquidate come in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso principale, assorbito l’incidentale;
condanna la parte ricorrente principale al pagamento delle spese di lite, liquidate in complessivi
Euro 5.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15%, oltre CA ed IVA
per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, il
10 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2020