Mancato bilanciamento tra rischio psicopatologico e patologia fisica di un minore al centro di una contesa inaudita.

Corte d’Appello di Roma, 3 gennaio 2020
LA CORTE D’APPELLO DI ROMA
SEZIONE PER I MINORENNI – CIVILE
All’esito dell’udienza del —–, riunita in camera di consiglio ha emesso il seguente
DECRETO
in merito al reclamo iscritto al n. — anno — RVG, al quale viene riunito il reclamo iscritto al n. — anno —-
RVG, entrambi promossi
da —- (C.F. —-) elettivamente domiciliata in Roma, presso lo studio dell’Avv. —- che la rappresenta e
difende giusta procura in calce della comparsa di costituzione di nuovo difensore depositata in —-;
RECLAMANTE
contro
— (C.F. —) Elettivamente domiciliato in Roma, presso lo studio dell’Avv. — che lo rappresenta e difende
per mandato in calce all’atto di costituzione;
RECLAMATO
Avv. — quale tutore del minore —-, nato il — (—-) nominata con decreto del Tribunale per i Minorenni del
—-, elettivamente domiciliata in Roma, presso il proprio studio in via —;
RECLAMATA
PMM presso il Tribunale per i Minorenni di Roma
RECLAMATO
con l’intervento del Pubblico Ministero sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma
che ha concluso per la conferma dei provvedimenti impugnati,
avente ad oggetto il reclamo avverso il decreto reso nel proc. rvg n. 1815/15 dal Tribunale per i Minorenni
di Roma [d’ora in avanti TM, n.d.r.] il 5.7.19, n. 4828/19, con il quale — e — venivano dichiarati sospesi
dalla responsabilità genitoriale nei confronti del figlio minore —- e veniva nominato allo stesso un tutore
nella persona dell’avv. —-, e avverso il decreto reso nel medesimo procedimento l’—-, n. —/2019,
rettificato con decreto in pari data n. —/2019, con cui è stato disposto l’allontanamento del minore — dalla
madre — ed il suo collocamento presso il padre, —-, con ulteriori prescrizioni.
1. Deve preliminarmente essere accolta la richiesta di riunione dei due reclami, avanzata concordemente
dalle parti; tra di essi vi è evidente, anche logica, connessione e parziale continenza, sia sotto il profilo
soggettivo, trattandosi di ricorsi avverso provvedimenti provvisori adottati nella medesima procedura nei
confronti delle medesime parti, che sotto quello oggettivo, in quanto il decreto n. —/19 dell’— 2019
esprime una progressione rispetto a quello precedente e contiene statuizioni che si saldano, in parte
superandole ed in parte integrandole, a quelle del — precedente (cfr. Sez. U, Sentenza n. 1521 del
23/01/2013: “La riunione delle impugnazioni, che è obbligatoria, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., ove
investano lo stesso provvedimento, può altresì essere facoltativamente disposta, anche in sede di
legittimità, ove esse siano proposte contro provvedimenti diversi ma fra loro connessi, quando la loro
trattazione separata prospetti l’eventualità di soluzioni contrastanti, siano ravvisabili ragioni di economia
processuale ovvero siano configurabili profili di unitarietà sostanziale e processuale delle controversie.”)
In particolare il decreto n. —/19 conferma le prescrizioni date a — in merito all’attivazione di un percorso
psicoterapeutico per —-, con l’aggiunta dell’indicazione della struttura presso la quale tale percorso dovrà
essere seguito (il Policlinico —) e delle attività preliminari e accessorie da svolgere; la sospensione della
responsabilità genitoriale e la nomina del tutore sono implicitamente confermate, quali presupposti non
smentiti delle prescrizioni; il regime degli incontri tra — e il padre dettato nel primo provvedimento viene
invece superato e sostituito con il collocamento presso l’abitazione di quest’ultimo con l’aggiunta di una
assistenza domiciliare per l’intera giornata, eventualmente preceduta dalla temporanea collocazione presso
una struttura residenziale, e vengono di converso regolamentati gli incontri con la madre. Tali
Provvedimenti e prescrizioni vengono corredati dalla indicazione delle attività di supporto e monitoraggio
che il Servizio Sociale è delegato a svolgere nell’interesse del minore.
Sussistono quindi in questo caso tutte le ragioni di economia processuale e di unitarietà sostanziale e
processuale ritenute rilevanti dalla giurisprudenza ai fini della riunione.
2. Quanto alle eccezioni relative alla ammissibilità e alla tempestività del reclamo avverso il decreto n.
—/19 sollevate rispettivamente dal tutore avv. —(la prima) e da entrambi i reclamati costituiti (la seconda),
esse sono tutte infondate per le seguenti ragioni:
a. Il reclamo è ammissibile poiché riguarda un provvedimento contenente disposizioni immediatamente
limitative della responsabilità genitoriale, che incide direttamente su diritti personalissimi di primario rango
costituzionale; la circostanza che si tratti di decisioni assunte rebus sic stantibus, modificabili, in caso di
circostanze sopravvenute, dalla stessa autorità che le ha emesse, non preclude la possibilità di adire il
giudice superiore per vedere riponderata la decisione di primo grado secondo i generali principi in tema di
reclamo (Cass. sent. 21-11-2016 n. 23633; Cass., sez. I, 13.12.2018 n. 32359), dovendosi riconoscere piena
tutela alle parti ed al diritto soggettivo del minore a coltivare nella sua pienezza i rapporti con entrambi i
genitori.
Ciò indipendentemente dalla natura interinale e cautelare, ribadita dallo stesso TM anche nell’ordinanza
depositata l’—- con la quale, nel dichiararsi incompetente a decidere sul ricorso proposto da — per
ottenere la revoca del provvedimento del —-, il collegio ha rilevato che l’art. 38 u.c. disp. att. c.c. prevede
che i provvedimenti di natura cautelare emessi dal TM siano reclamabili innanzi alla Corte d’Appello.
b. Il ricorso è tempestivo; la pronuncia di incompetenza, infatti, è stata depositata e comunicata alle parti il
—-; il termine per riassumere il procedimento ai sensi dell’art. 50 1° c. c.p.c. è di tre mesi dalla
comunicazione, sicché il ricorso depositato telematicamente il successivo — è stato proposto nei termini
(non sospesi durante il periodo feriale trattandosi appunto di provvedimento avente natura cautelare).
c. Non può parlarsi di acquiescenza né di sopravvenuta carenza di interesse al reclamo da parte della
ricorrente, e ciò in quanto il provvedimento reclamato è immediatamente esecutivo; il suo carattere
imperativo non consente di ritenere che la sua osservanza costituisca manifestazione di quella spontanea
adesione al suo contenuto che integrerebbe una condotta incompatibile con la volontà di impugnarlo. Si è
poi visto sopra come il provvedimento dell’ —- solo in parte si sostituisca a quello del — che, per diverse
parti, rimane in vigore o ne costituisce almeno parziale presupposto, così che anche per tale ragione
permane l’interesse all’impugnazione. Non può parlarsi di abuso del diritto nella scelta dei tempi della
riassunzione considerato che il decreto era stato già tempestivamente impugnato innanzi al TM.
Quanto alle questioni relative alla produzione documentale delle parti, si rileva quanto segue.
I. E’ tardivo il deposito effettuato dalla ricorrente in limine litis la sera del —-, giorno precedente l’udienza,
in assenza della previsione di un termine ulteriore concesso a tal fine ed in violazione del contraddittorio,
sicché tale documentazione non può entrare a fare parte del fascicolo.
II. Sulla richiesta avanzata fuori udienza dalla difesa —di ricostruzione del fascicolo di primo grado nella
parte in cui non è presente un file, il cui deposito nella data indicata dalla parte non risulta documentato –
file comunque pacificamente presente in atti in quanto (nuovamente) prodotto in data successiva – si è già
provveduto in udienza con ordinanza al cui contenuto si rinvia integralmente.
III. Quanto alla dichiarata mancata accettazione da parte del tutore del contradditorio su fatti avvenuti e
documenti prodotti in epoca successiva alla propria nomina, si rileva che, trattandosi di fatti e documenti
posti a base del reclamo avverso il provvedimento dell’ —- la richiesta di trattazione unitaria dei due
procedimenti, espressamente avanzata anche in udienza dall’avv. —, è incompatibile con la richiesta di
valutazione parcellizzata degli elementi unitariamente sottoposti al vaglio della Corte; dunque la decisione,
unitaria, si fonda legittimamente su tutto il materiale ritualmente depositato anche nel procedimento n.
—/19, al quale è stato riunito quello recante n. —/19.
3. Prima di esaminare il merito delle domande occorre riassumere l’articolata vicenda familiare e
processuale.
I provvedimenti impugnati sono stati emessi nel corso dell’istruttoria svolta nel procedimento n. —/15,
instaurato innanzi al TM da —- per ottenere la sospensione della responsabilità genitoriale di —– e il
collocamento del figlio presso di sé. —– e —- hanno avuto una relazione sentimentale dalla quale il –.–.10
è nato il figlio —- La relazione è iniziata nel 2007 e dopo un lungo periodo di crisi si è conclusa nella seconda
metà del 2012 su iniziativa della signora —-, quando la signora ha compreso che la proposta di matrimonio
dell’ —- non costituiva una soluzione ai gravi problemi della coppia.
La signora —- riferisce che l’allora compagno aveva già presentato a sua insaputa due ricorsi al TM, nel
gennaio ed alla fine del —, per regolamentare l’affido di –; tuttavia irapporti tra il minore ed i genitori sono
stati per la prima volta regolati dal Tribunale Civile di Roma, [d’ora in avanti TO, n.d.r.] adito nel 2013 dalla
stessa —, con il decreto del –.–.14 che, esperita ampia istruttoria e CTU, ha disposto l’affidamento del
minore al Servizio Sociale ed il suo collocamento presso la madre, con la quale già conviveva presso
l’abitazione dei genitori di questa, con limitazione della responsabilità genitoriale di entrambi i genitori alle
questioni di ordinaria amministrazione, rimettendo le decisioni più importanti inerenti il minore al Servizio
affidatario.
Il TO aveva inoltre regolamentato la frequentazione con il padre e il contributo economico a suo carico, ed
aveva infine prescritto l’offerta di una terapia psicologica a —- e di un percorso di sostegno alla genitorialità
ai suoi genitori, con monitoraggio dell’andamento delle relazioni familiari e dei loro sviluppi.
Tali statuizioni si fondavano principalmente sulle relazioni del Servizio Sociale e sugli esiti della CTU svolta in
corso di causa dalla —- che, quanto alla dinamica degli incontri padrefiglio, aveva osservato che il bambino
aveva nel tempo accentuato le difficoltà a relazionarsi con il padre, seppure, nei primi tempi degli incontri,
dopo una prima fase di difficoltà nel distacco dalla madre fosse in grado di accedere alla figura paterna e di
relazionarvisi con fiducia durante il gioco; aveva anche evidenziato come nessuno dei genitori apparisse
inidoneo a svolgere il compito genitoriale ma piuttosto fossero emerse anche in presenza del minore
significative difficoltà nella relazione tra i due adulti, specie da parte della signora —- che evitava o limitava
al massimo l’interazione con l’—–, e come tali difficoltà fossero tali da potenzialmente costituire un grave
pregiudizio per il futuro sereno e positivo sviluppo di —-. In proposito rilevava che “l’analisi complessiva del
profilo di personalità e del funzionamento psicologico della sig.ra —- pone in evidenza due livelli di
genitorialità decisamente diversi e divaricati: da una parte ella risponde ai basilari bisogni di protezione e
sicurezza del figlio: dall’altra, tende a costituire, in termini fattuali e psicologici anche se non
intenzionalmente, un ostacolo allo strutturale, evolutivo bisogno di —-di accedere serenamente e con
continuità alla figura paterna (v. relaz. CTU pag. —)”. Quanto al profilo psicologico del padre, rilevava come
lo stesso manifestasse la tendenza a riversare sull’altro e sull’esterno le proprie problematiche, in maniera
anche rivendicativa e strumentale.
Nel tempo del giudizio si era assistito ad un franco deteriorarsi dei rapporti tra i genitori; il signor — aveva
denunciato per aggressione il padre della signora —-, e dopo di ciò erano stati interrotti per alcuni mesi gli
incontri tra padre e (con il) figlio; —- era stato presente a scontri anche di una certa violenza tra i due
genitori, in uno dei quali, a settembre 2013, la madre aveva riportato una distorsione del polso (l’episodio,
come molti altri, viene ricostruito dalle parti in modo opposto: —- riferiva che il padre di —- le aveva
strappato dalle braccia il bambino che non voleva andare con lui e —- riferiva che la madre di — si era fatta
male mentre voleva strappargli dalle mani il registratore che lui portava sempre con sé quando doveva
prendere il bambino da quando la famiglia della ex compagna aveva tentato di farlo “passare per
aggressivo”.) Anche il percorso processuale si era fatto via via più accidentato nel corso del giudizio. — —
aveva avanzato istanza di ricusazione della CTU, ritenendo il procedimento seguìto dall’ausiliaria del
Tribunale poco garantista nei propri confronti e la sua relazione viziata; proprio poco prima della decisione,
tra il marzo e l’aprile 2014, — aveva subìto due ricoveri a distanza di pochi giorni per quasi un mese in una
struttura pubblica per il manifestarsi di una patologia autoimmune denominata —— , per prevenire
recidive della quale egli è tuttora in terapia presso il —- e assume quotidianamente farmaci antipertensivi.
Anche in occasione dei ricoveri vi erano stati episodi problematici: in una occasione la madre aveva
chiamato la gendarmeria per allontanare —-. Quasi contestualmente, a partire dall’aprile 2014, il padre
aveva iniziato a denunciare regolarmente la madre dopo gli incontri con il bambino, contestando
l’inosservanza delle prescrizioni relative alla frequentazione con il figlio (che la madre, temendo una
ricaduta delle condizioni di salute del figlio, che faceva resistenza a trascorrere l’intero tempo della visita
con il padre, aveva imposto avvenissero alla sua presenza e non da soli come previsto dal TO riducendone
la durata e talvolta la frequenza rispetto a quanto indicato dal Tribunale). In particolare la —-, non smentita
dalla controparte, riferisce che tra il —- —– 2014 l’—–, continuando nel frattempo a recarsi agli incontri
con il bambino e senza mai dirle nulla in proposito, aveva sporto ben 17 tra denunce ed integrazioni di
denuncia nei confronti suoi e dei suoi familiari.
— — aveva nel frattempo denunciato — — per abusi sessuali ai danni del figlio —-, in relazione ad alcune
rivelazioni ricevute dal bambino, all’epoca di tre anni e mezzo, nell’agosto 2013, dopo un periodo di diversi
giorni consecutivi di frequenza libera con il padre presso l’abitazione di questi, durante lo svolgimento della
CTU. La denuncia è stata successivamente archiviata e l’opposizione della signora —- all’archiviazione è
stata rigettata.
Il TO rilevava anche che entrambe le parti hanno manifestavano reciproche rigidità e mancanza di reale
collaborazione con gli sforzi degli operatori per superare le difficoltà a dare esecuzione alle disposizioni del
Tribunale.
Il decreto del TO è stato immediatamente reclamato da — — sul presupposto della sua non rispondenza al
benessere del figlio. — — ha a sua volta proposto ricorso incidentale per ottenere l’affidamento esclusivo o
in subordine l’affidamento congiunto di —- con prevalente collocamento presso di sé. La Corte ha dunque
interinalmente disposto che si avviassero incontri protetti e in spazio neutro finalizzati alla libera
frequentazione; in seguito, il –.–.15 ha respinto entrambi i ricorsi e, acquisite ulteriori successive relazioni
del Servizio Sociale, ha dettato nuovamente precise indicazioni in merito alla frequentazione del bambino
con il padre, alla necessità da parte della madre di un intervento agevolatore di tale frequentazione e
all’indicazione di un percorso di sostegno alla genitorialità per entrambi i genitori, oltre che eventualmente
all’avvio di un percorso terapeutico anche per il minore per superare le crescenti preoccupanti difficoltà e
paure ad incontrare e frequentare il genitore non convivente. Il Servizio Sociale è stato nuovamente
delegato a predisporre incontri protetti padre – figlio finalizzati a giungere alla libera frequentazione tra
questi ultimi e la signora —- è stata ammonita ad agevolare i rapporti tra il bambino ed il padre, sul
presupposto che allo stato le condizioni psicologiche e fisiche del minore sconsigliassero, per la intrinseca
traumaticità dell’intervento, un suo allontanamento dall’attuale collocazione presso la madre.
Il —.–.15 — —, adducendo che a causa della condotta oppositiva della madre gli incontri con il figlio, che
avvenivano sempre alla presenza della —- e talvolta dei nonni materni, si erano ridotti a poco tempo senza
la possibilità di interagire realmente con il minore, ha proposto nuovo ricorso innanzi al TM ai sensi degli
artt. 330, 333 e 336 c.c. per ottenere la dichiarazione di decadenza di — —- dall’esercizio della potestà
genitoriale e per ottenere l’allontanamento del bambino dalla madre e dalla sua famiglia con collocamento
presso di sé, previo eventuale inserimento in una struttura residenziale educativa (procedimento R.G. n.
—/2015 VG).
— —- si è costituita ed ha chiesto il rigetto delle istanze di controparte.
Nel corso del giudizio è proseguita la conflittualità tra le parti che si sono ulteriormente reciprocamente
denunciate per aggressioni, stalking, inosservanza dei provvedimenti del giudice, maltrattamenti, per la
gran parte delle quali è intervenuta in seguito rimessione di querela in un’ottica conciliativa nel corso del
procedimento. Negli oltre quattro anni di pendenza del giudizio il conflitto si è esteso ai rapporti con gli altri
soggetti del procedimento: ciascuno dei genitori ha denunciato diversi assistenti sociali ed educatori delle
cooperative incaricate della presa in carico del nucleo familiare, ritenendoli inadempienti e parziali; — — ha
denunciato la CTU dr.ssa —-, la giudice relatrice e da ultimo il tutore.
Il TM ha disposto un’ampia istruttoria acquisendo documenti e relazioni degli operatori dei servizi
territoriali; nel frattempo, tenuto conto delle emergenze segnalate dalle parti e dal Servizio Sociale, ha
adottato diversi provvedimenti contenenti indicazioni in merito alle modalità dell’affidamento del minore
ed agli incontri con il padre.
Le relazioni sull’andamento degli incontri padre-figlio hanno evidenziato come nel periodo dicembre 2015-
aprile 2016 inizialmente —- fosse in grado di relazionarsi con il padre dopo essersi, con fatica, distaccato
dalla madre, e come progressivamente a tale atteggiamento si fosse sostituito un atteggiamento di rifiuto
verso la figura paterna. Più avanti, durante gli incontri — non si staccava mai dalla madre. Quest’ultima a
sua volta ribadiva di nutrire preoccupazione per il figlio in relazione ai fatti oggetto della pregressa
denuncia per abusi sporta contro il padre e manifestava critiche anche nei confronti del compito affidato ai
Servizi Sociali, ritenendo maggiormente confacente all’interesse del bambino evitare una relazione con il
padre che per lui era evidentemente dannosa e fonte di sofferenza.
Gli incontri tra padre e figlio, che seppure con difficoltà da parte di — dapprima si erano comunque tenuti,
si sono quindi di fatto ridotti alla presentazione del bambino accompagnato dalla madre presso lo spazio
neutro, soltanto per il tempo necessario a firmare la attestazione della presenza, per poi far ritorno a casa
poiché —- si rifiutava di entrare per incontrare il padre; infine, vi è stato il rifiuto di uscire per incontrare il
padre tout court.
Dal marzo 2017 per molti mesi gli educatori della cooperativa sociale incaricata di attuare i decreti del TM
che disponevano gli incontri si sono recati due volte a settimana presso l’abitazione del bambino per
aiutarlo a superare il suo rifiuto di incontrare il genitore, senza ottenere alcun risultato.
Di fatto il signor —- per tutto questo periodo ha incontrato il figlio soltanto con queste modalità, oppure
nel corso di visite mediche insieme alla madre, o in occasione delle recite scolastiche o presso il centro
sportivo dove —- frequentava il corso di tennis o, ancora, come dichiarava lo stesso — all’udienza del
–.–.19, all’uscita di scuola ogni martedì e giovedì pomeriggio dove lo salutava nel passaggio in cortile. La
signora — ha precisato che tali ultimi incontri, non autorizzati, così come quelli in occasione dell’attività
sportiva, in quanto il TM aveva previsto soltanto incontri protetti, si sono protratti dal gennaio al giugno
2019.
Nel corso dell’audizione protetta del — — 2017 —, anche di fronte alle sollecitazioni del Giudice onorario
incaricato, ha per parte sua più volte ribadito di non volere vedere il padre perché ne ha paura e di essere
felice con la madre e con i nonni, giungendo a scoppiare più volte in pianto al reiterarsi delle richieste di
riconsiderare il suo rifiuto, ribadendo di avere paura del padre e di non volere essere allontanato dalla
propria casa. Tale paura veniva riportata dal minore anche agli operatori del Servizio Sociale, che hanno
riferito che — chiedeva di far sì che il padre non si recasse più per incontrarlo al centro sportivo, perché lo
spaventava.
II –.–.18 il TM ha disposto CTU dando incarico alla dr.ssa — di valutare la situazione psicologica di — e la
qualità dei suoi rapporti con i genitori e con i nonni materni conviventi.
All’esito delle operazioni peritali la CTU, rilevato che sulla base di quanto osservato non vi erano elementi
dai quali desumere una effettiva pericolosità del padre nei confronti di —, rilevava, al contrario, che era
“possibile rilevare un’alleanza tra madre e figlio, quasi una coalizione ha portato il figlio a ritenere il padre
una figura dannosa, pericolosa e violenta”; e che “Negli anni — ha subito pressioni psicologiche per
rifiutare e rinnegare il padre, ma – nonostante questo lungo lasso di tempo vissuto in questa condizione
psicologica coartante e restrittiva – la figura paterna è ancora in parte introiettata in —-, in questo si
ravvede un valore prognostico positivo. Il rifiuto categorico lo ha mostrato solo in presenza della madre, al
fine di compiacerla —- ha assistito a una campagna denigratoria, accesa dall’astio che la sig.ra —- ha verso
il sig. —-, introiettando i comportamenti e accettandoli come veri. —- riferisce di aver paura del padre, ma
non sa spiegare tale emozione che la figura paterna gli scaturisce. Riporta esempi di episodi, che racconta in
modo frammentario e con motivazioni scarsamente circostanziate e che appaiono “copia” del pensiero
materno.”
Affermava dunque che “La sig.ra —- ha condizionato psicologicamente, direttamente/indirettamente e
volontariamente/involontariamente, —- per cancellare la figura paterna, non garantendo una tutela alle
cure e il diritto alla bi-genitorialità del minore. Il suo comportamento ha evidenti ricadute sul figlio,
vengono esclusi dalla vita anche la nonna e i familiari della linea paterna”, evidenziando anche che “i sig.ri
— (nonni materni) colludono con quanto avviene nel rapporto madre – figlio, pregiudicando ulteriormente
la salute psicofisica di — e così facendo aggravano una già delicata situazione”.
Nell’elaborato del –.–.18 l’ausiliario della CTU dr. — — osservava anche che rispetto alla famiglia —
mostrava “sentimenti di insicurezza, dipendenza e bassa stima di sé con richieste egocentriche e
atteggiamenti introversi”, che manifestava un “attaccamento ancora immaturo e infantile alla figura
materna e un bisogno di evadere da situazioni familiari insoddisfacenti e conflittuali” e che riguardo alle
figure genitoriali presentava una “predilezione esclusiva per quella materna, rivestita di una funzione
salvifica”.
Al fine di “ripristinare al più presto il suo diritto relazionale con il padre” la cui assenza esponeva il minore
ad un serio rischio per la sua salute psichica, in particolare ad una scissione patologica con gravi
ripercussioni affettive, allo sviluppo di un falso sé e di bassa autostima ed alla sostituzione della figura
paterna, la CTU ha proposto dunque di allontanarlo in via immediata e urgente dalla madre e dal suo
contesto familiare; di trasferirlo in una struttura protetta per minori per un periodo non inferiore a tre
mesi, con rientro presso l’abitazione del padre; di sospendere tutti i contatti tra madre e figlio per un
periodo di tre mesi; di prevedere un trattamento psicologico comprensivo di psicoterapia sul minore e il
recupero del rapporto affettivo padre-figlio.
Alla luce di tali emergenze il –.–.19 il TM ha emesso il decreto n. 4828/19, depositato il –.–.–. Il decreto ha
sospeso entrambi i genitori dalla responsabilità genitoriale, ha nominato a — un tutore nella persona
dell’avv. — —, ha dato mandato al Servizio Sociale del Municipio competente di avviare immediatamente il
minore presso una struttura altamente specialistica per presa in carico e predisposizione di un percorso di
psicoterapia diretto “anche” al ripristino del rapporto con il padre, di attivare con urgenza incontri in spazio
neutro, senza la madre, con cadenza trisettimanale “gradatamente implementata”, anche nel periodo
estivo, ai quali —- avrebbe dovuto essere accompagnato da educatore domiciliare o altra persona
individuata dal tutore. Ha nuovamente prescritto alla madre di attenersi alle disposizioni del TM, del tutore
e degli operatori e di collaborare “fattivamente” per la ripresa dei rapporti padre-figlio.
Alla successiva udienza del —.–.19 sono state ascoltate le parti; si è preso atto che gli incontri tra — e il
padre non si erano svolti, che — non aveva iniziato il percorso psicoterapico perché la madre aveva
contestato che l’appuntamento per una visita neuropsichiatrica da effettuarsi presso il — —-
corrispondesse alla “presa in carico per un percorso psicoterapeutico” disposta dal TM, che la stessa aveva
contestato orari e tempi previsti per gli incontri padre-figlio e stigmatizzato la scarsa organizzazione dei
Servizi e della cooperativa incaricata e che, quanto al prelievo di —- a casa per recarsi dal padre, una volta
attivati gli incontri da parte della cooperativa che non aveva potuto darvi corso per parte del mese di
agosto, a volte il minore non era presente in casa e altre volte si rifiutava di seguire gli operatori. La
reclamante affermava inoltre di essere contraria ad incontri liberi tra —- ed il padre perché temeva per il
bambino, richiamando la propria denuncia penale per abusi a suo dire erroneamente archiviata; affermava
di non avere potuto nel frattempo fare svolgere una psicoterapia al figlio perché sarebbe servito l’assenso
del padre, che non era giunto.
L’–.–.19 il TM ha emesso il decreto n. 6955/19, con il quale ha innanzitutto preso atto che dopo il decreto
di luglio non era stata attuazione agli incontri tra il padre ed il minore e che vi era una perdurante mancata
collaborazione della signora —-, sottolineata anche dal Tutore che aveva contestato la mancata
presentazione all’appuntamento presso il servizio di neuropsichiatria infantile dell’ospedale — — e la
mancata presentazione a molti degli incontri protetti. Ha quindi rilevato che, secondo quanto osservato da
entrambe le CTU esperite nel corso degli anni, —- è ormai invischiato in uno stritolante conflitto di lealtà
con la figura materna – che ne ha progressivamente e gravemente ostacolato, anche con l’ausilio dei propri
genitori, il rapporto con il padre – e che il bambino ormai mostra un rifiuto tanto assoluto quanto
immotivato di incontrare il padre, nell’esercizio della cui responsabilità genitoriale non è emerso alcun
concreto elemento di pregiudizio. La CTU ha infatti mostrato come la paura che —- manifesta nei confronti
del padre non nasce dalla oggettiva pericolosità di quest’ultimo, ma da una azione costantemente
denigratoria della figura paterna da parte dalla madre, motivata dall’astio – dalla ricerca di vendetta – che la
signora —- nutre nei confronti dell’—–.
Prova che la paura che —- esprime verso la figura paterna è frutto del vissuto materno, introiettato dal
minore nel corso degli anni, e non di esperienze reali, è che essa è scollata da dati reali, generica e
“astratta”, e non è mai accompagnata da elementi concreti e circostanziati.
In quanto prigioniero di una relazione assolutizzante con la madre, che gli nega ogni rapporto con il padre e
gli fornisce una comunicazione strutturalmente incongrua e disorganizzante, clinicamente associata ad un
funzionamento psicotico, —- è esposto al serio rischio psicopatologico di sviluppare negativamente la
propria personalità e l’identità del proprio sé, con possibile sostituzione della figura paterna, rischio che il
Tribunale deve scongiurare con un immediato intervento a tutela del bambino anche al fine di garantire il
suo diritto alla bigenitorialità.
Per tali ragioni, su conforme parere del PMM, il TM ha disposto l’immediato allontanamento del minore —-
dalla madre ed il suo collocamento presso il padre, l’immediato avvio del minore al percorso
psicoterapeutico già previsto nel decreto del –.7.19, con incontri protetti tra la madre ed il figlio con
cadenza ogni quindici giorni alla presenza di personale specializzato e previsione di interventi di sostegno e
monitoraggio del Servizio Sociale, rinviando la causa per il prosieguo all’udienza dell’–.–.2020. Ha anche
disposto che nel caso in cui il collocamento presso il padre risultasse difficoltoso —- dovrà essere inserito
temporaneamente in una casa famiglia per il tempo necessario al recupero del rapporto padre-figlio. Il
decreto ad oggi non risulta ancora eseguito in quanto gli operatori non hanno rinvenuto il minore a casa
nella data in cui si sono recati per prelevarlo. —- non frequenta la scuola dal 12 ottobre, giorno della
comunicazione del decreto, quando il nonno materno lo ha prelevato da scuola prima della fine delle
lezioni.
4. Entrambi i decreti sono stati impugnati da — —-.
Il decreto 4828/19 è stato impugnato inizialmente innanzi allo stesso TM, che il 1 agosto 2019 si è
dichiarato incompetente in favore della Corte d’Appello; il — — 2019 il processo è stato quindi riassunto
dalla ricorrente innanzi a questa Corte. Il decreto 6955/19 è stato impugnato il — —- 2019 innanzi alla Corte
d’Appello.
Negli atti introduttivi la ricorrente ha chiesto innanzitutto la sospensione inaudita altera parte del decreto
n. 6955/19, e comunque la sospensione in via cautelare della sua efficacia.
Tuttavia la complessità delle valutazioni comparative da operare, necessariamente nell’ambito di un
contraddittorio esteso anche al Tutore che ad oggi rappresenta gli interessi del minore, ostava alla
possibilità di pronunciare immediatamente sulla sospensiva prescindendo dall’ascolto di tutte le parti nella
naturale sede dell’udienza.
Quanto al decreto n. 4828/19 che, a luglio 2019, ha sospeso i signori — e — dalla responsabilità genitoriale,
ha nominato un tutore a —- e ha previsto ulteriori interventi di sostegno e supporto, sulla base del
mancato svolgimento degli incontri già previsti a causa delle resistenze frapposte dalla signora —- e della
sua solo apparente collaborazione, la reclamante ha sostenuto che gli incontri si erano svolti e si stavano
svolgendo, che il padre vedeva —- anche alle visite mediche e alle recite scolastiche e che il Tribunale non
ha valorizzato il fatto che anche — aveva violato le prescrizioni dei giudici presentandosi agli allenamenti
sportivi e all’uscita di scuola di —, finché l’assistente sociale Barile – in seguito denunciata dall’— – non lo
aveva redarguito per fargli interrompere tale condotta; ha contestato l’accusa di non essere stata
collaborativa, avendo al contrario sempre portato — agli incontri anche contro l’espressa volontà del
bambino; ha affermato che, contrariamente a quanto contestatole, aveva attivato il percorso psicologico
prescritto in precedenza dal Tribunale a sostegno di —-, percorso che era stato interrotto non da lei, ma
dalla psicologa; infatti la dr.ssa —–, responsabile della cooperativa ove avvenivano gli incontri nel 2016,
aveva prescritto un secondo percorso di sostegno alla genitorialità (rispetto a quello svolto già nel 2015) e
una psicoterapia per il bambino, ma la psicologa incaricata dalla dr.ssa —-, dr.ssa —-, dopo sole due sedute
aveva dichiarato di non volere proseguire la psicoterapia sul bambino ritenendo che non fosse necessaria.
Contestava inoltre l’esistenza dei gravi problemi psicologici che la condizione di lontananza dal padre
avrebbe a dire della CTU cagionato a —, adducendo in proposito le considerazioni delle maestre sull’ottimo
inserimento di — nel gruppo scolastico, in quanto ricercato dai compagni e perfettamente a suo agio con i
pari e con gli adulti, e con risultati scolastici brillanti.
Quanto al decreto n. 6955/19 che ad ottobre ha disposto l’allontanamento di — dalla abitazione della
madre e dei nonni e la collocazione presso il padre, la signora —- ha radicalmente contestato gli elementi di
fatto sui quali esso si fonda. Ha rivendicato l’adeguatezza delle proprie capacità genitoriali adducendo
l’appropriato accudimento di — sotto il profilo medico (anche durante e dopo l’insorgere della rara
patologia che lo ha colpito), affettivo, educativo e sociale, come riferito dalle insegnanti di —-; ha di
converso sottolineato l’inadeguatezza del padre, ripercorrendo le modalità impositive ed autoritarie con le
quali questi si relazionava con il bambino durante la convivenza, cessata quando —- aveva due anni e
mezzo, la mancanza di empatia, l’aggressività manifestata nei confronti della madre anche alla presenza del
figlio, il mancato rispetto delle prescrizioni sugli incontri protetti, i fatti appresi da — a tre anni che riferiva
che il papà lo aveva toccato tirandogli giù le mutande e che lo leccava, l’atteggiamento abitualmente ed
immotivatamente controllante e oppositivo che l’aveva costretta a ricorrere al Giudice Tutelare per
ottenere l’autorizzazione a portare — con sé all’estero in un breve viaggio in Austria, in mancanza
dell’assenso del padre, e non da ultimo le difficoltà ad ottenere il pagamento delle spese straordinarie
poste a carico del padre per il 50%, per le quali aveva dovuto procedere nei confronti dell’—- con decreto
ingiuntivo; ha contestato la parzialità dell’avv. —, tutore di —–, producendo scambi di mail e messaggi con
i quali, oltre allo scambio di mail relativo alla visita dentistica del bambino, aveva chiesto l’iscrizione di — al
basket e ai giochi matematici organizzati dalla scuola e l’autorizzazione ad andare fuori Roma durante i
week end estivi con amici con bambini dell’età di —-, tutte autorizzazioni negate dalla odierna reclamata
con grave danno per il figlio; ha contestato di non avere adempiuto alla prescrizione di fare intraprendere a
— un percorso piscoterapeutico come disposto dal Tribunale, in quanto il tutore aveva fissato presso il —
— una visita neuropsichiatrica mai prescritta dal Tribunale.
Ha sostenuto che le disposizioni contenute nel decreto di allontanamento violano la convenzione
Internazionale di New York e la convenzione di Strasburgo sui diritti del fanciullo e la convenzione di
Istanbul con riferimento ai diritti della madre che, avendo denunciato di essere stata vittima di
maltrattamenti durante il rapporto con il padre di —, subisce un trattamento di vittimizzazione secondaria
nel processo a causa della parzialità e dei vizi sottesi allo svolgimento della CTU che la ha dichiarata priva di
capacità genitoriali adeguate ed incolpata di avere alienato —- al padre per “vendetta”, accusa calunniosa e
totalmente infondata oltre che smentita dalla sua condotta concreta ma ritenuta vera dal Tribunale; ha
evidenziato infine come l’allontanamento forzato di —- dal nucleo familiare dove vive metterebbe a
repentaglio la sua salute e violerebbe l’art. 32 della Costituzione italiana, producendo documentazione
medica a sostegno della gravità della patologia autoimmune che lo ha colpito all’età di quattro anni e
certificazioni dei sanitari che mettono in guardia dalle possibili gravi ed anche gravissime conseguenze che
potrebbero derivare al bambino da un allontanamento “cruento”.
5. Il resistente — — ed il tutore hanno chiesto la conferma dei provvedimenti impugnati; in particolare, nel
ribadire la piena adesione alla ricostruzione dei fatti contenuta nei provvedimenti impugnati ed alle
disposizioni conseguentemente adottate, e nel rimarcare che la collaborazione della signora — è sempre
stata solo apparente, come già evidenziato nella CTU svolta dalla — —, il signor — ha evidenziato come la
grave inadeguatezza genitoriale della madre di — e la sua dannosità per il figlio emergessero anche dal
fatto che dopo la comunicazione del decreto n. 6955/19 —- è stato arbitrariamente prelevato da scuola dal
nonno materno prima dell’orario di uscita e non vi ha ad oggi ancora fatto ritorno, e che né il tutore né il
Servizio Sociale né il padre hanno più avuto notizie di —- per quasi cinquanta giorni, ovvero sino al 5
dicembre u.s., data in cui il Servizio Sociale è riuscito a fare un primo accesso presso l’abitazione della sig.ra
— e ha incontrato —-. Altrettanto grave è che la signora — abbia esposto pubblicamente il minore e la sua
vita sui social, sulla stampa, in manifestazioni pubbliche, mostrandosi non tutelante e ponendolo al centro
di una contesa mediatica senza alcun riguardo per il benessere del bambino, ed abbia accusato gli operatori
ed il sistema giudiziario di agire con pregiudizi e violenza nei confronti suoi e del figlio.
Ha chiesto che, oltre al rigetto del reclamo, sia tenuta in considerazione la condotta processuale della
controparte ed ha aderito anche alla disposizione subordinata del TM, che nel caso di impossibilità di
attuazione pratica del collocamento presso il padre ha previsto il temporaneo inserimento del bambino in
casa-famiglia, disposizione che pur costituendo un passaggio doloroso risulterebbe strumento conseguente,
adeguato e proporzionato alla tutela di —-, conforme ai principi enucleati dalla Corte E.D.U. costantemente
orientata a ribadire la necessità che lo Stato assicuri l’effettività dei rapporti genitore-figlio (secondo un
principio di proporzionalità ed adeguatezza rispetto al caso concreto), soprattutto laddove un genitore
ostacoli il rapporto dell’altro con il figlio (sentenze del 23.06.2016 “Strumia c. Italia”; 02.11.2010 “Piazzi c.
Italia”; 30.06.2005 “Bove c. Italia”).
Il tutore, da parte sua, oltre alle questioni procedurali delle quali si è già trattato sopra, ha richiamato i
risultati della CTU che ha riconosciuto come la madre di — abbia sempre frapposto ostacoli pretestuosi a
tutte le prescrizioni, abbia denigrato costantemente la figura paterna, abbia arrecato con ciò un grave
pregiudizio al minore che recita un copione e non è libero di sviluppare una relazione di attaccamento con il
padre. Grave la condotta di sottrazione alla scuola ed alla psicoterapia e l’atteggiamento che porta la
reclamante a denunciare chiunque cerchi di intervenire a tutela del figlio.
Il PG ha reiterato in udienza la richiesta di conferma dei provvedimenti impugnati già avanzata dal proprio
Ufficio ed ha chiesto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per quanto
emerso in ordine all’elusione dell’obbligo scolastico di — da parte della madre.
6. Tanto premesso, ritiene la Corte che i reclami siano in parte fondati, nei termini che seguono.
a. Dalla lettura del corposo fascicolo di primo grado e dei verbali di causa emerge sopra ogni altra cosa la
incapacità di entrambi i genitori, con modalità diverse tra loro ma entrambe complessivamente esiziali per
l’armonioso sviluppo del bambino, di mantenere i contrasti relativi alla loro relazione interpersonale
separati dalla necessaria cogestione del comune ruolo parentale.
Ciò li spinge, quanto alla —, a negare il diritto dell’altro genitore di fare parte della vita del figlio, come lei
stessa ha in più occasioni detto di ritenere giusto rivendicando nel corso delle CTU la propria contrarietà al
mantenimento di un rapporto con una figura paterna che lei sinceramente ritiene pericolosa, e ad agire con
quello che sembra una sorta di freddo intento risarcitorio nei confronti della signora —-, quanto all’—,
anche se questo significa spaventare, come è accaduto, — inviando le forze dell’ordine presso la sua
abitazione e attentare alla tranquillità della sua vita familiare con un inusitato stillicidio di denunce, nei
confronti della — e dei suoi familiari, che certamente ha contribuito a fare percepire dalla reclamante l’—
come oggettivamente minaccioso.
Un ulteriore esempio di tale incapacità sono le denunce nei confronti degli operatori delle cooperative del
Servizio Sociale incaricati di gestire gli incontri, che entrambi i genitori hanno presentato, e quelle
presentate dalla signora —- nei confronti della dr.ssa — (dopo che la prima CTU era stata ricusata), del
giudice relatore del TM e dell’avvocato —, fatti che manifestano una difficoltà di lungo corso a
comprendere che gli interventi posti in essere sono diretti a tutelare —-e non a danneggiare l’uno o l’altro
dei genitori.
Non è in discussione il diritto della signora —- di recuperare la propria serenità attraverso la rielaborazione
e la presa di distanza da una relazione che per lei è stata fonte di sofferenza e umiliazione; come, sotto un
diverso profilo, non lo è il diritto del signor —- di vedere rispettati i giorni e gli orari degli incontri con il
figlio. Tuttavia, nel procedimento relativo alla disciplina dell’affidamento di —-, il benessere del bambino
riveste un rilievo assolutamente preminente e la capacità di separare l’interesse del figlio dal proprio
sembra essere venuto meno alle parti, seppure in modo diverso, nel corso della defatigante controversia
giudiziaria.
Il TM ha dato conto di come la precedente condizione di affidamento di —- al Servizio Sociale, con
mantenimento in capo ai genitori della sola ordinaria amministrazione, non si è rivelata sufficiente.
Ha anche valorizzato nella motivazione gli esiti della CTU della dr.ssa —-, richiamandone la corrispondenza
con quanto già nel 2013-14 rilevato dalla prima CTU svolta dalla — —-. La palpabile resistenza verso il
padre manifestata dalla madre di — nel corso degli incontri, fino al rifiuto di incontrarne lo sguardo, forse
anche al di là delle intenzioni della signora —- è stata rilevata da tutti gli osservatori, che vi hanno correlato
l’ingravescente rifiuto di —, strettamente legato alla madre da un “patto di lealtà”, ad aprirsi alla relazione
con il padre. Non sono infatti emersi nel corso delle CTU vissuti del minore che confermino la
interpretazione in chiave di abuso delle dichiarazioni fatte dal bambino alla madre nell’agosto 2013, che per
tali ragioni ha denunciato il padre di —-.
Il rifiuto della figura paterna così motivato esponeva già secondo la — —- al serio rischio di sviluppare in
futuro un “danno allo sviluppo psicosessuale ed i suoi bisogni evolutivi, tale da rendere necessarie misure di
psicoterapia del bambino e del gruppo familiare”; e la dr.ssa —–ha confermato tale vistosa disfunzionalità
del rapporto triadico e concluso nel senso che per proteggere — dalla scissione che manifesta, nel rifiutare
una figura che, tuttavia, negli incontri svolti durante la CTU cerca con lo sguardo, è necessario intervenire
per ripristinare il legame con il padre e la bigenitorialità.
D’altro canto il padre non riveste al momento un ruolo genitoriale significativo nella vita di — e la nomina
del tutore si rende necessaria, come evidenziato dal TM, anche al fine di disporre di una figura terza che
possa adottare le decisioni necessarie alla migliore tutela del minore. Si dirà in seguito di come sia
indispensabile che tale ruolo sia svolto in modo da facilitare effettivamente la vita di —- e non da costituire
un ostacolo al suo sviluppo.
Tali aspetti sono stati correttamente esaminati e vagliati dal TM e la decisione di sospendere la
responsabilità genitoriale di entrambi i genitori di — e di nominargli un tutore è dunque immune da
censure e deve pertanto essere confermata da questa Corte.
Anche il sostegno a —- con una terapia psicologica di supporto deve essere confermato, alla luce delle
molteplici manifestazioni di disagio e sofferenza che il bambino, nonostante il suo buon adattamento
sociale e personale in altri campi, mostra nel sottrarsi alla relazione con il padre.
La previsione della CTU svolta nel primo giudizio davanti al TO, purtroppo, si è realizzata; il minore sembra
vivere una personale scissione, confermata dal conflitto tra la descrizione di —- fatta dalle insegnanti (che,
al Tutore che le ha incontrate, lo hanno dipinto come una sorta di “bambino modello”, bravo e disciplinato
e con caratteristiche da leader) e le modalità regressive del rifiuto del padre (manifestato con pianti
irrefrenabili, singhiozzi, ricerca del contatto fisico con la madre alla comparsa del padre durante gli
incontri). Tale condizione regressiva sembra ormai essere stata forse inconsapevolmente percepita anche
dalla madre, che la ha restituita da ultimo nel corso dell’udienza del –.–.2019 quando, nel descrivere la
attuale condizione del figlio, ha dichiarato che “—- sta bene, è solo terrorizzato dall’idea di essere separato
da me” ed in altre occasioni ha ricordato come il figlio la punisse anche picchiandola (quando era più
piccolo), quando lei insisteva per portarlo ad incontrare il padre.
Non vi sono infine ragioni per modificare l’indicazione del Policlinico — — quale struttura specialistica dove
dovrà essere realizzata la presa in carico di —-. La struttura ha infatti le competenze adeguate per lo
svolgimento dell’incarico ed è stata individuata anche sentite le parti. Le modalità della presa in carico
saranno necessariamente quelle previste per l’avvio al percorso psicoterapeutico dai protocolli interni della
struttura, indipendentemente dalla denominazione della prima prestazione.
b. Diversamente quanto alle disposizioni relative all’allontanamento dalla casa materna per essere
collocato presso il padre o, in subordine, presso una casa famiglia in via temporanea.
La decisione del TM ripercorre quella posta alla base del provvedimento del luglio precedente; da lì muove,
richiamando le relazioni del Servizio Sociale che hanno dato atto del fallimento del nuovo programma di
incontri intensivi padre-figlio, in parte per la scarsità di risorse (solo due giorni settimanali di disponibilità
dello spazio neutro della cooperativa incaricata dal Servizio Sociale, invece dei tre “incrementabili” previsti)
in parte per gli ostacoli in termini di disponibilità orarie e modalità degli incontri frapposte dalla signora —,
in parte per la netta preclusione del minore ad incontrare il padre, fino a rifiutarsi di uscire di casa per
recarsi nei locali della cooperativa. Anche la mancata presentazione alla visita presso il — — riportata dal
Tutore viene ricordata come una condotta della madre elusiva delle prescrizioni e pregiudizievole per —.
Quindi, ricordato che tutti i provvedimenti via via adottati dal TO, dal TM e dalla Corte d’Appello non
avevano trovato reale esecuzione vuoi per l’incapacità dei genitori di agire nel prioritario interesse del
figlio, vuoi per la scarsa incisività dell’intervento dei Servizi territoriali, il TM passa a valutare l’ingravescente
disagio del minore e, considerando il rischio di involuzione psicopatologica delle sue condizioni in
conseguenza dell’atteggiamento induttivo della madre, giunge alla conclusione che, in mancanza di
collaborazione da parte di questa, l’unico strumento di tutela del minore sia il suo immediato
allontanamento dalla sua figura e dalla sua influenza, causa della difficoltà relazionale con il padre, ed il
contestuale collocamento di —- presso quest’ultimo così che possa recuperare il suo ruolo genitoriale nei
confronti del figlio. Viene prevista anche una assistenza domiciliare per 24 ore al giorno, e nel caso di
difficoltà nel collocamento presso il padre, il temporaneo collocamento di — in una casa famiglia.
Tale percorso motivazionale non è condiviso dalla Corte sostanzialmente sulla base di tre ragioni.
Difetta innanzitutto nel decreto reclamato – né se ne trova adeguata traccia nella CTU – una valutazione
comparativa degli effetti su — del trauma dell’allontanamento dalla casa familiare rispetto al beneficio
atteso. Il dolore vivo della forzata separazione, con drastica limitazione anche dei contatti telefonici, rimane
sullo sfondo, recessivo rispetto alla ritenuta prevalenza dell’interesse alla attuazione coattiva del sempre
richiamato diritto alla bigenitorialità di —.
Il superiore interesse del minore che ispira il provvedimento impugnato non appare sorretto da un
adeguato bilanciamento, in mancanza del quale esso rischia di risolversi in una formula precostituita, che
non tiene conto delle situazioni concrete che giungono all’attenzione del giudice nel caso specifico,
accogliendo soluzioni apparentemente definitive ma di fatto inapplicabili e fonti di eccessiva sofferenza per
il minore. Ciò in quanto la bigenitorialità non è un principio astratto e normativo, ma è un valore posto
nell’interesse del minore, che deve essere adeguato ai tempi e al benessere del minore stesso.
Per realizzare veramente l’interesse di questo specifico minore, non appare realistico presumere che la
paura di —, e la paura della madre che — mostra di avere recepito, possano essere superate imponendo il
suo allontanamento dalla sua casa e dai suoi affetti ed un collocamento coattivo in casa del padre. — si
troverebbe così, incolpevolmente, per l’incapacità dei genitori di trovare un terreno comune nel suo
interesse, incastrato nella duplice sofferenza di un drastico quanto per lui incomprensibile sradicamento dal
proprio ambiente e dai propri affetti, e di una esposizione forzosa ad una situazione per lui fonte di ansia e
paura e comunque estranea. Provocando in —- questa sofferenza non può essere ricostruita la relazione di
fiducia e affetto con il padre (dall’esclusione dalla quale pure certamente — riceve un danno), e il
bilanciamento tra i diversi profili di rischio per il benessere di — non appare essere stato correttamente
operato dal Tribunale.
In particolare, è stata sottovalutata l’incidenza delle condizioni di salute del minore considerato che — ha
comunque superato la fase acuta della sua patologia autoimmune attraverso una terapia farmacologica
tuttora in atto che controlla e previene ricadute. La scarsa attenzione mostrata dal padre verso la malattia,
anche nella fase critica dell’insorgenza della porpora di — —-, è una delle cause di preoccupazione della
madre di —, e su tale aspetto la stessa ha non strumentalmente battuto nel procedimento. Nel
provvedimento reclamato è carente la valutazione delle possibili gravi ricadute sanitarie dell’innegabile
stress dell’allontanamento di —- sulla sua salute.
La difesa — ha prodotto copiosa documentazione medica (all. —-) dalla quale emerge che il bambino è
tutt’ora sottoposto a controlli periodici presso strutture pubbliche (il prossimo controllo è previsto a —–) e
assume terapie antipertensive (confermato anche dalle certificazioni redatte il –.–.– e l’–.–.– dal dr. — —,
il pediatra privato che segue —, che attestano anche come le condizioni psicofisiche del bambino non
consentano il suo trasferimento in luogo diverso dall’attuale domicilio); ha prodotto un parere medico
rilasciato il –.–.– dalla dr.ssa —– —-, pediatra e medico legale dell’Ospedale —- e perito del Tribunale di —
(– ), che recita: “… il piccolo —- all’età di 4 anni fu colpito da una vasculite sistemica, la Porpora di —-.
Trattata con anti-infiammatori e cortisonici, essa recidivò 3 mesi più tardi. Da questi episodi è residuata una
ipertensione arteriosa attualmente in trattamento con Blopress.
Di conseguenza si può affermare che il bambino ha sviluppato a soli 4 anni una grave forma di patologia
auto-immune con danno renale. E quindi a maggior rischio, anche se difficilmente quantizzabile, rispetto
alla popolazione generale di sviluppare altre patologie auto-immuni e pseudo-auto-immuni, ed e a rischio
elevato di sviluppare i danni della ipertensione arteriosa cronica certamente inusuale a 8 anni di vita e,
certamente espressione di un danno renale ormai cronico, che, a sua volta, lo mette a rischio di ulteriore
danno renale. … Alla luce di quanto riportato degli studi sullo stress cronico appare evidente che tale
situazione di — lo espone maggiormente alle alterazioni metaboliche ed endocrinologiche dello stress
stesso e da cui possono con buona probabilità derivare danni vistosi e drammatici di salute del piccolo
bambino …
Si ribadisce quindi e con decisione che una tale cruenta decisione di separazione forzata dalla madre
sarebbe seguita, oltre che da un trauma acuto, da una situazione di stress tossico, in carenza della azione
tamponante materna da cui potrebbero derivare, oltre ai danni organici e sullo sviluppo psico-affettivo ben
conosciuti a qualunque puericultore, pediatra, psicologo dell’età evolutiva, ulteriori gravissimi danni legati
alla sfera delle malattie autoimmuni, cardiovascolari e renali.”
Nessuna valutazione dei rischi qui rappresentati è stata effettuata dal Tribunale, né le parti reclamate
hanno addotto argomenti a confutazione dei dati sopra riportati. Peraltro già nel 2015 questa Corte ebbe a
ritenere non confacente alle condizioni di salute del minore il suo allontanamento dalla casa materna, per
la condizione di stress che esso avrebbe comportato e tenuto conto delle sue condizioni di salute. Ferma
dunque la gravità della condizione di rischio anche psicopatologico futuro per —- nel permanere del rifiuto
del padre e del suo ruolo, alla luce di quanto sopra in questo caso il costo in termini di stress generico e
specifico del cambio di collocamento del bambino appare eccessivo.
Ne consegue che il provvedimento è viziato anche dal mancato bilanciamento tra il rischio psicopatologico
e quello derivante dalla patologia fisica.
La seconda ragione sulla base della quale questa Corte reputa di non confermare il provvedimento di
allontanamento e di collocamento del minore presso il padre è strettamente conseguenziale alla prima, e
attiene al rilevato difetto di gradualità della misura disposta. Come già rilevato, per ricostruire una
relazione padre-figlio basata sulla fiducia e sull’affetto non esistono scorciatoie normative e
l’avvicinamento deve essere necessariamente graduale.
In questo specifico caso, tanto più alla luce del tormentato percorso processuale e della sostanziale
inefficacia dei precedenti provvedimenti, appare velleitario ritenere che sia possibile ricostruire un legame
parentale recidendo l’altro. E questo rimane vero anche ove si condividesse la convinzione della CTU della
sostanziale artificiosità della paura di — nei confronti del padre.
Non vi sono scorciatoie né automatismi, dunque, e l’approccio “rigido” fin qui adottato ha già dato plurime
prove negative; sicché, piuttosto che reiterare in una escalation provvedimentale il contenuto del precetto
ineseguito, occorre allora pazientemente continuare a tentare altre strade.
Le criticità poste dalla gestione degli incontri tra — ed il padre erano del resto ben note già al TO che nel
2014 dettò le condizioni della frequentazione; dal provvedimento emerge come i giudici si fossero
preoccupati di come superare la resistenza di — al distacco dall’ambiente familiare materno, anticipando il
pernotto del weekend con il padre alle giornate dal venerdì pomeriggio fino al sabato sera, anziché
vincolarlo all’usuale sabato-domenica che avrebbe richiesto che — venisse prelevato a casa, e come
avessero colto le difficoltà della madre nell’aiutarlo ed accompagnarlo in tale avvicinamento al padre.
Se, inoltre, è vero che la denuncia sporta dalla signora — nei confronti di — — per condotte abusanti verso
il figlio non è stata ritenuta fondata, la reclamante manifesta ancora oggi la soggettiva convinzione della
fondatezza del contenuto della sua denuncia.
Ribadito che un intervento di sostegno anche individuale sarebbe certamente utile se accolto con la
consapevolezza che si tratta di un aiuto e non di una censura o tantomeno di una sanzione, non è difficile
comunque comprendere come la ragione delle evidenti resistenze della madre a facilitare l’accesso
effettivo del padre alla vita del figlio sia il fatto che ella, sulla base delle esperienze fortemente negative
vissute nel rapporto di coppia con —, nella gestione successiva del minore e di quanto ritiene sia accaduto
durante l’affidamento con figlio al padre, considera quest’ultimo realmente dannoso o quantomeno
pericoloso per il minore.
Tale pericolosità non ha come detto trovato riscontri nell’analisi dei CTU che hanno esaminato la
personalità dei genitori e la relazione genitoriale. Ciò non toglie che le resistenze della signora — siano assai
forti da superare, poiché ella agisce nella soggettiva convinzione di stare operando per il bene del figlio, e
per questo si espone al rischio di conseguenze personali anche gravi, come evidente da ultimo dalla
sottrazione del bambino dalla frequenza scolastica, per la quale è inevitabile la segnalazione alla Procura
della Repubblica per quanto di competenza.
Per superare un blocco tanto radicato, che certamente esercita una importante influenza, anche in ipotesi
inconsapevole, sulla psiche di —, occorre dunque comprenderne la natura e la forza e procedere
necessariamente con ogni gradualità, in modo da riuscire a fare comprendere a — e, auspicabilmente, alla
madre, che l’apertura all’incontro con il padre non ha come ineluttabile conseguenza la sua separazione e il
suo allontanamento dal proprio ambiente di riferimento, aiutandolo così a superare la paura, sia quella
dell’accesso al padre che quella di essere allontanato dalla sua attuale vita familiare. Piuttosto che
allontanare — dal suo mondo e inserirlo, artificialmente, in quello del padre, occorre allora che sia il padre
ad essere messo in condizione, e in grado di, partecipare alla vita di — così come si è strutturata, una vita
che correttamente la signora —- rivendica essere per — colma di relazioni e di stimoli, così come attestato
dalle maestre e constatato anche dagli operatori ed educatori che hanno sempre trovato — a suo agio con i
coetanei e con gli adulti; ma che ha diritto e necessità di giovarsi anche dell’apporto della presenza e del
sostegno paterno, anche in vista di una auspicabile crescita ed autonomizzazione dalla assorbente figura
materna.
Il principio di gradualità richiede la previsione di prescrizioni puntuali e concrete che tengano conto degli
impegni attuali e concreti di —, impegni che devono immediatamente essere ripresi nella loro pienezza
scolastica, sportiva e sociale.
Da ciò consegue la terza e ultima, ma non meno rilevante, ragione di non condivisione da parte di questa
Corte.
Essa risiede nella mancanza di una preventiva verifica di fattibilità/sostenibilità dell’ordine impartito che ne
condiziona l’efficacia, per quanto il provvedimento impugnato rinvii all’udienza dell’–.—.2020 anche con
finalità di monitoraggio.
Tale aspetto si salda fortemente con la necessaria gradualità delle prescrizioni ed entrambi rimandano al
fondamentale bilanciamento delle misure con il benessere concreto del minore.
A tale proposito, si osserva che dalla CTU —-, che fonda entrambi i decreti del TM, emergono alcuni dati
meritevoli di valutazione che non sono stati adeguatamente considerati dal Tribunale per i Minorenni.
Nell’ottica di un collocamento del minore presse il padre, ad esempio, non appare irrilevante la circostanza
che, nonostante già nel corso della CTU del 2013 avesse riferito trattarsi di una sistemazione provvisoria in
vista di una autonoma sistemazione abitativa in una casa di proprietà, il signor — viva da sempre, ad
eccezione del periodo di convivenza con la signora —, con la madre anziana e parzialmente autosufficiente
in un appartamento mansardato nel quale sono presenti soltanto due camere da letto; il signor —- ha
spiegato che con l’arrivo di — lui condividerebbe la camera con la madre, — dormirebbe nella stanza fino a
questo momento usata dal padre e l’educatore che dovrebbe essere presente 24 ore al giorno dovrebbe
dormire nel divano letto.
Le evidenti criticità di tale condizione non sono state tenute in conto neanche nel provvedimento dell’–
ottobre, sia pure per ritenerle eventualmente superabili. Inoltre, poiché il padre, architetto, è spesso fuori
casa e in cantiere per lavoro, — dovrebbe trascorrere molto tempo con la nonna e con la badante che la
assiste. Ma la nonna paterna non è stata mai ascoltata e non risulta che abbia mai avuto un rapporto
affettivo con il nipote, fatto che la signora — stigmatizza con l’affermazione che la nonna non ha mai
neppure partecipato ad alcuna recita scolastica del bambino.
Corollario di quanto sopra è che alla mancata esecuzione dei provvedimenti precedentemente adottati
nelle sedi giudiziarie, in parte anche per incolpevoli limiti e difficoltà organizzative dei servizi territoriali,
non può rimediarsi con provvedimenti altrettanto ineseguiti, ma con la sperimentazione di percorsi
differenti.
E dunque le fasi di intervento devono essere precisate anche in termini di fattibilità, tenuto conto delle
risorse concrete di cui dispongono i servizi. E’ già emerso infatti che l’intervento che prevede la presenza di
un educatore esperto presso il domicilio del padre per 24 ore al giorno è ineseguibile, in quanto come
riferito dall’Assistente Sociale — nella relazione redatta il –.–.19 tale intervento non può essere fornito per
più di tre ore giornaliere. Il ricorso, per il tempo restante, ad operatori privati, con esborso economico a
carico del padre, proposto dall’—, non è una soluzione adeguata sia per la mancanza di garanzie sulla
professionalità di tali soggetti che per la mancanza di terzietà che il rapporto economico inevitabilmente
ingenererebbe.
Per tutte tali ragioni la previsione dell’allontanamento di — dalla casa materna ed il suo collocamento in
luogo diverso dalla abitazione della madre, sia essa la casa paterna che la casa famiglia (soluzioni peraltro
che rispondono ad esigenze diverse e che non possono essere presentate come alternative sostanzialmente
equivalenti senza una adeguata e specifica valutazione e motivazione, che qui è assente) non appare
rispondere al migliore interesse del minore e deve essere revocata.
L’annullamento della disposizione che prevede l’allontanamento del minore dall’abitazione della madre
non comporta l’accoglimento della istanza della reclamante di reintroduzione del regime di incontri “con
frequenza inizialmente trisettimanale da incrementare progressivamente in spazio neutro”, contenuta nel
decreto del 5 luglio 2019, previsione già non rispettata e che appare maggiormente rispondente alla
condizione di un minore di età inferiore piuttosto che a quella di un bambino di ormai dieci anni, che ha già
interessi e relazioni esterni all’ambito esclusivamente familiare che verrebbero in questo modo
sostanzialmente azzerati. Non è difficile prevedere che la sottrazione o meglio la sostituzione del tempo per
lo sport, la frequentazione dei coetanei e il tempo libero con gli incontri obbligati con il padre in un luogo
per di più tanto neutro quanto innaturale non potrebbe costituire un grande incentivo per —- a ricostruire
la relazione interrotta.
Il già pesante vissuto familiare del bambino richiede al contrario che la presenza del padre nella sua vita si
pieghi ai suoi orari e ai suoi impegni, in modo da cominciare a ricostruire una reale funzione di accudimento
quotidiano, proprio quella dalla quale il padre è stato estromesso negli anni per gli ostacoli frapposti dalla
signora —- e per il suo approccio non rassicurante. E dunque il padre andrà a riprendere —- da scuola e lo
riporterà a casa, dapprima con un educatore e in seguito, quando —- avrà acquisito fiducia, da solo, mentre
la madre ve lo accompagnerà la mattina; altrettanto accadrà in occasione delle attività sportive e ludiche di
—: il padre non dovrà ‘rubare’ immagini della vita del figlio venendo percepito come una presenza
occhiuta, non voluta e minacciosa, ma essere invece legittimato ad accompagnare, e non solamente
osservare le sue attività.
La scuola, tramite il Tutore, comunicherà impegni e incontri con i genitori, ai quali entrambi sono legittimati
a partecipare così come per le visite mediche, la psicoterapia, le attività ulteriori.
Preliminare sarà in questo progetto il lavoro di psicoterapia con —-, che, si ribadisce, pur nella libertà di
ciascuno, è auspicabile venga accompagnato con analogo percorso dei genitori, sia singolarmente che, ove
fosse possibile, come coppia genitoriale.
Centrale il ruolo del Tutore al quale dovrà essere demandato il compito di predisporre un progetto
rispettoso dei tempi indicati dallo psicoterapeuta e coordinato con le risorse effettive dei servizi, da offrire
al Tribunale per i Minorenni nel giudizio che prosegue.
Sarà lo psicoterapeuta di — ad indicare i tempi di questo progetto; il Tutore predisporrà il progetto
esecutivo sulla base delle risorse effettivamente messe a diposizione anche dal Servizio Sociale, che dovrà
attivarsi per mettere a disposizione educatori e figure di mediazione. Esso potrà essere modificato nel
tempo per aumentare il coinvolgimento del padre; si supererà così la rigidità della previsione del numero di
incontri esterni, pur dovendo rendersi effettiva e non episodica la frequentazione di —- con il padre.
Vi è infine un altro importante aspetto di criticità che è emerso e che è necessario superare al più presto,
nell’interesse del minore. Una serie di incomprensioni, di innegabili ritardi e di non condivisibili rigidità
hanno impedito che egli negli ultimi mesi vivesse appieno la sua socialità; ci si riferisce in particolare alla
mancata autorizzazione da parte del Tutore a che — durante l’estate trascorresse dei fine settimana in
compagnia di famiglie di amici fuori Roma, alla mancata autorizzazione a partecipare ai competizione dei
Giochi matematici proposti dalla scuola, alla mancata iscrizione al corso di basket per la sovrapposizione di
uno dei due allenamenti settimanali con una delle giornate di incontri con il padre, nonostante la madre
avesse prospettato la possibilità e la disponibilità a modificare (non le date degli incontri con il padre, poi
comunque non svolti, ma) una delle giornate del corso.
Appare allora non solo opportuno ma addirittura urgente che — venga iscritto al corso sportivo da lui in
precedenza frequentato e prediletto, e che gli sia consentito, e venga anzi agevolata la sua partecipazione
ad attività scolastiche ed extrascolastiche.
Allo stesso modo proprio le fragilità di — emerse dalla CTU, che ha rilevato un attaccamento alla figura
materna tipico di una età più infantile, esigono che vengano sostenute e implementate le sue attitudini a
confrontarsi con i pari, sia con interventi di sostegno (quali ad esempio i gruppi di parola) sia con la
partecipazione ad attività socializzanti anche extracurriculari (ad esempio campi scuola, gruppi scoutistici),
anche nella prospettiva della partecipazione a vacanze studio, sportive o esperienze semiresidenziali, da
vivere con i suoi coetanei e al di fuori dal suo contesto familiare, allo scopo di favorire il percorso di crescita
autonoma di —.
Anche in tali attività, che il Tutore introdurrà nel suo progetto, dovrà essere coinvolto il padre alla pari con
la madre, con le modalità sopra indicate e con l’inserimento anche di tali proposte nel progetto predisposto
dal Tutore e dallo psicoterapeuta.
c. Come si vede gli sforzi da mettere in campo per aiutare — a svincolarsi dal conflitto genitoriale nel quale
è rimasto intrappolato sono molteplici. Perché abbiano successo è indispensabile che tutti coloro che
hanno a cuore il benessere di — diano fiducia agli operatori che, nel proprio specifico settore, si stanno
adoperando per rendere migliore la vita del bambino, un bambino che non può ritenersi in buona fede che
sia perfettamente sereno nella sua attuale condizione se è arrivato, pur essendo ormai nella seconda
infanzia, ad agire costantemente violente crisi di pianto solo per evitare di incontrare il padre anche in
condizioni di assoluta tutela, in uno spazio neutro ed alla presenza di figure di sostegno. La reazione di — è,
come si è già osservato, obiettivamente incompatibile con la serenità che la madre, le maestre, gli operatori
che incontrano — gli attribuiscono in altri contesti.
Tutti gli sforzi descritti saranno vani se non vi sarà fiducia e collaborazione attiva da parte della madre
attuale collocataria e figura di riferimento di —-, e fiducia, rispetto e pazienza da parte del padre. Ne
risentirà —- e ne dovranno rispondere i genitori, ciascuno per la propria eventuale parte, nel corso del
giudizio davanti al Tribunale per i Minorenni, i cui approfondimenti istruttori renderanno possibile
verificare i progressi nella attuazione alle misure disposte.
In accoglimento delle richieste del Procuratore generale e del Tutore il presente provvedimento deve
essere trasmesso alla Procura della Repubblica in relazione alla ventilata ipotesi di elusione scolastica.
La parziale soccombenza giustifica l’integrale compensazione delle spese tra le parti.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, in parziale accoglimento dei reclami proposti da — —- avverso i
decreti n. 4828/19 e n. 6955/19 emessi dal Tribunale per i Minorenni di Roma nel procedimento n. —/15
VG, nell’interesse del minore — —-, nato a Roma il — — –, rigettati nel resto, ferma la sospensione della
responsabilità genitoriale di — —- e — —- e la nomina dell’avv. — — Tutore di — —-, così provvede:
a) dispone la riunione dei reclami proposti da — — avverso i decreti n. 4828/19 e n. 6955/19 emessi dal
Tribunale per i Minorenni di Roma nel procedimento n. —-15 VG;
b) revoca il disposto allontanamento del minore —- — dall’abitazione della madre con le misure ad esso
conseguenti contenute nel decreto n. 6955/19;
c) dispone che per il minore venga immediatamente attivato un percorso di sostegno psicoterapeutico, nel
rispetto dei protocolli interni, presso il Policlinico — —–;
d) incarica il Tutore, sulla base delle indicazioni anche temporali offerte dallo psicoterapeuta di —- tenuto
conto delle condizioni personali e di vita del minore, di predisporre celermente un progetto operativo
finalizzato alla ripresa dei rapporti diretti tra il minore ed il padre, in modo che le fasi e le condizioni
indicate dallo psicoterapeuta si raccordino con risorse effettive dei servizi sociali presenti sul territorio;
e) il progetto dovrà prevedere e favorire la assunzione di un ruolo attivo di accudimento del padre del
minore nei confronti del figlio, da svolgersi inizialmente in compresenza di un educatore, prevedendo con la
periodicità suggerita dai diversi soggetti corresponsabili della sua attuazione il prelevamento del figlio da
scuola al termine delle lezioni ed il suo accompagnamento e/o prelievo in occasione delle attività sportive,
ludiche o di socialità del figlio, alle quali il padre sarà legittimato a partecipare in autonomia dalla presenza
della madre; la frequentazione con il padre dovrà in prospettiva essere effettiva e non episodica, e tale da
non ostacolare la auspicata frequenza da parte del minore di corsi sportivi e di studio curricolari ed
extracurricolari a lui graditi e la sua partecipazione ad occasioni libere e strutturate di incontro e
condivisione con il gruppo dei pari;
f) il servizio sociale dovrà mettere a disposizione i mezzi per l’attuazione del progetto, monitorare
costantemente l’andamento delle relazioni intrafamiliari e supportare con l’offerta di adeguato sostegno
psicologico individuale e/o parentale i genitori del minore;
g) il servizio sociale verificherà altresì l’andamento del progetto, il rispetto dei tempi previsti per la
frequentazione padre/figlio ed il suo coinvolgimento nella gestione della sua quotidianità, segnalando
all’autorità giudiziaria quanto di rilievo ai fini della modifica o integrazione del progetto;
h) il Tutore comunicherà ai genitori, che saranno entrambi legittimati a parteciparvi, gli impegni e gli
incontri previsti dalla scuola, così come avverrà per le visite mediche, la psicoterapia, le attività ulteriori.
i) Le spese della fase sono compensate tra le parti.
Si comunichi alle parti ed al Servizio sociale del Municipio X.
Manda la cancelleria per la immediata restituzione del fascicolo d’ufficio di primo grado al Tribunale per i
Minorenni e per la trasmissione del presente provvedimento alla Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Roma, in relazione alla ipotesi di elusione scolastica.
Roma, camera di consiglio del 3.01.2019
Elisabetta Pierazzi – cons. est. Franca Mangano – Presidente

Lo stato di abbandono del minore non è escluso automaticamente dalla manifestata disponibilità dei parenti entro il quarto grado a prendersene cura. Tra di loro devono preesistere rapporti significativi oppure individuarsi potenzialità non traumatiche di recupero dei rapporti.

Cass. civ. Sez. I, 4 dicembre 2019, n. 31672
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16639/2017 proposto da:
S.M., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Milano Gerardo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Procura Generale Corte d’Appello di Brescia, e R.G.;
– intimati –
contro
L.C., in qualità di curatore della minore S.J., elettivamente domiciliata in Roma, Via San Martino della Battaglia n. 17, presso il proprio studio, rappresentata e difesa da se medesima, e P.L., in qualità di tutore della minore S.J., elettivamente domiciliata in Roma, Via San Martino della Battaglia n. 17, presso lo studio dell’avvocato L.C., che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 787/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, del 26/05/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/09/2019 dal cons. Dott. PARISE CLOTILDE.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 787/2017 pubblicata il 26/5/2017 e comunicata a mezzo pec nella stessa data la Corte d’appello di Brescia, sezione minorenni, pronunciando sugli appelli proposti da S.M. e R.G. avverso la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Brescia n. 103/22016 con la quale era stato dichiarato lo stato di adottabilità della minore S.J., rigettava gli appelli, confermando la sentenza impugnata e compensando tra le parti le spese di giudizio. Per quanto ancora di interesse, la Corte territoriale riteneva, in base agli elementi acquisiti, che non vi fosse coesione familiare e solidità di rapporti tra la minore e i suoi genitori, da un lato, e tra la zia paterna e suo marito, dall’altro, i quali ultimi si erano dichiarati disponibili a richiedere in adozione o in affidamento la minore.
2. Avverso questa sentenza S.M. propone ricorso, affidato ad un solo motivo, resistito con controricorso da S.J., rappresentata dal suo curatore speciale. E’ rimasta intimata R.G., madre della minore.
3. Con ordinanza interlocutoria di questa Corte depositata il 5/4/2019, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo, rilevata la mancanza agli atti della prova dell’intervenuta comunicazione anche al difensore della parte controricorrente dell’avviso di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio del 29 gennaio 2019.
4. Il ricorso è stato, quindi, nuovamente fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensidell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c.. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1.Con unico articolato motivo il ricorrente lamenta “Nullità exart. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione dellaL. n. 184 del 1983,artt.1,4,8,12e15dell’art. 3 della Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo, della Convenzione di Strasburgo del 25.01.96, della Carta dei Diritti fondamentali della UE del 07.12.2000, in relazione alla insussistenza delle condizioni di abbandono morale e materiale della minore e per aver omesso di valutare l’interesse superiore della minore a vivere nella famiglia di origine della zia paterna, della quale condivide il legame parentale, la nazionalità e la cultura”. Deduce il ricorrente che “l’errata interpretazione di alcune circostanze in fatto ha indotto la Corte in un errore interpretativo e applicativo dellaL. n. 184 del 1983, artt.1,4,8,12e15in particolare nel combinato disposto che disciplina la condizione di abbandono nella fattispecie dell’esistenza di parenti entro il quarto grado che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore”.
Segnatamente lamenta che la Corte territoriale abbia desunto lo stato di abbandono della minore omettendo di valorizzare adeguatamente la presenza nella vita della piccola J. della famiglia della zia paterna, ossia dei coniugi S.K. e A.M., resisi tempestivamente disponibili ad assumere l’affido vicariante. Deduce che dalla data nascita della bambina ((OMISSIS)) e sino a quando la coppia genitoriale ha avuto “libertà di movimento” (ossia fino al 24.09.2014) gli incontri con la famiglia paterna sono avvenuti in maniera adeguata alla distanza logistica (tra Italia, Tunisia e Francia). Si duole il ricorrente del fatto che la Corte territoriale non abbia adeguatamente considerato che la famiglia d’origine paterna allargata risiede all’estero ed inoltre era stato sicuramente accertato che all’età di circa un anno della minore i genitori l’abbiano portata presso i parenti in Tunisia e in Francia e che questi ultimi abbiano incontrato J. in altre sporadiche occasioni. Ad avviso del ricorrente la manifestazione di disponibilità della zia paterna e di suo marito non può essere considerata tardiva, atteso che “la situazione di abbandono della piccola J. si è conclamata solamente nel corso del mese di (OMISSIS), ossia, quando la madre, a fronte della previsione della sua dimissione, ha inopinatamente deciso di abbandonare definitivamente la Comunità”. Inoltre il ricorrente si trovava in stato di detenzione carceraria e la Corte territoriale non aveva tenuto conto dei tempi tecnici indispensabili per comunicare al padre l’evolversi dei fatti, data la sua condizione di detenuto. Ad avviso del ricorrente la discrasia rilevata dalla Corte territoriale circa l’incontro tra la minore e la zia in Francia riferito come avvenuto nel 2015 era da attribuire a una confusione sul dato temporale, poichè il fatto era invece avvenuto nel 2014, e non rivestiva decisiva valenza. La Corte territoriale aveva invece omesso di valorizzare che i coniugi S.- A., per due udienze, erano intervenuti personalmente nel procedimento, affrontando significative spese di viaggio dalla Francia all’Italia e sostenendo spese per l’interprete. Richiama il ricorrente la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 8526/2006 e n. 11426/2003) secondo cui la significatività del legame parentale non può escludersi solo perchè sia mancata un’intensa frequentazione, mentre è rilevante il rapporto parentale, da valutarsi all’attualità e in base a dati oggettivi, mediante il quale sia manifestato interesse e assistenza concreta, come nella specie.
2. Il motivo è infondato.
2.1. Questa Corte ha affermato, esprimendo un orientamento al quale il Collegio intende dare continuità, che lo stato di abbandono dei minori non può essere escluso in conseguenza della disponibilità a prendersi cura di loro, manifestata da parenti entro il quarto grado, quando non sussistano rapporti significativi pregressi tra loro ed i bambini, e neppure possano individuarsi potenzialità di recupero dei rapporti, non traumatiche per i minori, in tempi compatibili con lo sviluppo equilibrato della loro personalità. Il requisito, espressamente previsto dallaL. n. 184 del 1983,art.12della significatività dei rapporti con i parenti fino al quarto grado al fine di verificarne l’idoneità soggettiva e la sussistenza delle condizioni oggettive ai fini dell’affidamento dei minori è valutabile anche sotto il profilo potenziale, quando sia stata constatata l’impossibilità incolpevole di stabilire rapporti con i minori da parte dei parenti indicati dal citato art. 12 (Cass. n. 9021/2018 e Cass. n. 2102/2011).
2.2. Nel caso di specie la Corte territoriale, attenendosi ai suesposti principi di diritto, ha accertato l’insussistenza di rapporti significativi pregressi tra la minore e la zia paterna e suo marito, rimarcando anche che la richiesta dei parenti non era stata ragionevolmente tempestiva. Secondo l’insindacabile accertamento di fatto svolto dalla Corte d’Appello, la zia paterna e suo marito, residenti in Francia, prima della dichiarazione di disponibilità espressa con nota depositata il 18 ottobre 2016, non avevano intrattenuto relazioni significative con la minore. In particolare la Corte territoriale, dando conto in dettaglio delle emergenze istruttorie, ha ritenuto non veritiero il fatto relativo ad un incontro avvenuto tra la zia paterna e la minore nel 2015 ed ha evidenziato la non tempestività della disponibilità manifestata dagli zii, rilevante perché emblematica di insussistenza di coesione familiare e di solidità dei rapporti anche con i genitori della minore. Considerato, inoltre, che sin dal luglio 2014 quest’ultima e la madre erano state prese in carico dai Servizi sociali, la Corte d’appello ha affermato la mancanza di qualsiasi riscontro circa i tentativi della zia paterna di incontrare la minore nel periodo in cui quest’ultima era stata inserita in un progetto comunitario assieme alla madre.
Nella fattispecie oggetto di giudizio, pertanto, non può riscontrarsi la condizione dell’impossibilità incolpevole in ordine alla creazione e conservazione di rapporti significativi con la minore. Ricorre altresì la mancanza di potenzialità di recupero non traumatiche in tempi compatibili con lo sviluppo equilibrato della personalità della minore, anche in considerazione dell’oggettivo radicale cambiamento contestuale e linguistico che si determinerebbe, stante la residenza degli zii in Francia, e che, alla luce dell’indagine di fatto insindacabile svolta dalla Corte d’Appello, non è affrontabile senza il riferimento relazionale affettivo preesistente e significativo richiesto dalla legge.
Il quadro fattuale posto a base della decisione impugnata risulta sufficientemente completo e l’accertamento dei fatti, in quanto apprezzamento di merito, è sottratto al controllo di legittimità al di fuori dei limiti di cui al novellatoart. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come costantemente interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. unite, n. 8053/2014).
3. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato.
4. Le spese del giudizio di legittimità possono essere compensate, ricorrendo gravi ed eccezionali ragioni in virtù della delicatezza e della difficoltà di accertamento dei fatti in contestazione.
5. Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 30giugno 2003 n. 196, art. 52.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 30giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 23 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2019

La perdita del congiunto può determinare danno parentale e danno biologico.

Corte di Cassazione, 11 novembre 2019 n. 28989
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 24793-2017 proposto da:
AZIENDA POLICLINICO UMBERTO I DI ROMA
avverso la sentenza n. 1819/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 20/03/2017;
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza resa in data 20/3/2017, la Corte d’appello di Roma, in
accoglimento dell’appello proposto da D.B.M., in proprio e in qualità di genitore
esercente la responsabilità genitoriale sulla minore D.B.C., e in parziale riforma
della decisione di primo grado, ha condannato l’Azienda Policlinico Umberto I di
Roma al risarcimento, in favore degli appellanti (originari attori), dei danni
dagli stessi subiti a seguito del decesso di M.G. (coniuge e madre degli attori),
contestualmente confermando il rigetto della medesima domanda nei confronti
dei medici dell’azienda sanitaria convenuta, A.M.G. e M.U..
2. A fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha evidenziato
l’avvenuta dimostrazione, a seguito delle indagini tecniche svolte nel corso del
giudizio, della riconducibilità del decesso della M. all’incidenza di un’infezione
da stafilococco aureo contratta dalla paziente nel corso del ricovero presso la
struttura ospedaliera dell’azienda sanitaria convenuta, senza che a tale
processo causale avesse contribuito l’eventuale condotta degli altri medici
chiamati in giudizio.
3. Ciò posto, la corte d’appello ha provveduto alla liquidazione del danno
rivendicato dagli originari attori, nella misura specificamente indicata in
sentenza.
4. Avverso la decisione d’appello, l’Azienda Policlinico Umberto I di Roma ha
proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi d’impugnazione.
5. D.B.M. e D.B.C. resistono con controricorso.
6. Nessun altro intimato ha svolto difese in questa sede.
7. L’Azienda Policlinico Umberto I di Roma ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, l’azienda ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la
corte territoriale erroneamente ascritto la responsabilità della struttura
sanitaria in relazione a condotte verificatesi nel periodo compreso tra il 9 e il
16 novembre 2007, là dove la domanda originariamente proposta dagli attori
era stata limitata alle condotte della struttura sanitaria convenuta poste in
essere in occasione dell’accesso della paziente al pronto soccorso in data
1
9/11/2007, con la conseguente decisione della causa in violazione del principio
di obbligatoria corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
2. Il motivo è inammissibile.
3. Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte,
l’interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e
all’ampiezza della domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di
legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della
motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta
l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla
medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale
volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri
del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali
provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio
esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto
giudiziale (Sez. L, Sentenza n. 17947 del 08/08/2006, Rv. 591719 – 01; Sez. L,
Sentenza n. 2467 del 06/02/2006, Rv. 586752 – 01).
4. Peraltro, il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del
contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è
tenuto a uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute,
ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa
fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e
rappresentate dalla parte istante (Sez. 3, Sentenza n. 21087 del 19/10/2015,
Rv. 637476 – 01).
5. Nella specie, l’odierna ricorrente, lungi dallo specificare i modi o le forme
dell’eventuale scostamento del giudice a quo dai canoni ermeneutici legali che
ne orientano il percorso interpretativo (anche) della domanda giudiziale, risulta
essersi limitata ad argomentare unicamente il proprio dissenso
dall’interpretazione fornita dal giudice d’appello, così risolvendo le censure
proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità; e
tanto, al di là dall’assorbente rilievo concernente il carente assolvimento degli
oneri di puntuale e completa allegazione del ricorso, di cui all’art. 366 c.p.c., n.
6 e art. 369 c.p.c., n. 4, con particolare riferimento all’omessa integrale
allegazione degli atti processuali indispensabili ai fini dell’esatta ricostruzione
del contenuto della domanda originariamente proposta dagli attori.
6. Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione dell’art. 40 c.p., comma 2 e degli artt. 1218, 1228, 1175 e 1375 c.c.
(in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale
erroneamente affermato la sussistenza di un nesso di derivazione causale tra il
fatto della struttura sanitaria convenuta e il decesso della M., sulla base di
un’inadeguata valutazione degli elementi di prova complessivamente acquisiti
nel corso del giudizio e delle contraddittorie risultanze della consulenza tecnica
d’ufficio, giungendo ad affermare erroneamente la responsabilità della struttura
sanitaria, ai sensi dell’art. 1228 c.c., nonostante l’avvenuta attestazione
dell’insussistenza di alcun illecito colposo dei medici della medesima struttura.
7. Il motivo è infondato.
8. Dev’essere preliminarmente disattesa la censura avanzata dalla ricorrente
con riguardo alla contestazione del ragionamento probatorio contenuto nella
2
sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione del nesso di causalità tra il
fatto della struttura sanitaria e il decesso della M., trattandosi della pretesa
ridiscussione nel merito del significato rappresentativo degli elementi di prova
complessivamente richiamati dal giudice d’appello, secondo i termini di
un’operazione critica radicalmente inammissibile in sede di legittimità.
9. Ciò posto, varrà osservare come la corte territoriale abbia deciso sulla
domanda degli originari attori allineandosi con puntualità al consolidato
insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale
l’accettazione di un degente presso una struttura ospedaliera comporta
l’assunzione di una prestazione strumentale e accessoria – rispetto a quella
principale di somministrazione delle cure mediche, necessarie a fronteggiare la
patologia del ricoverato – avente ad oggetto la salvaguardia della sua
incolumità fisica e patrimoniale, quantomeno dalle forme più gravi di
aggressione (Sez. 3, Sentenza n. 19658 del 18/09/2014, Rv. 632999 – 01).
10. Nella specie, una volta comprovata la riconducibilità causale del danno alla
salute al fatto della struttura sanitaria che aveva accettato il ricovero della M.,
incombeva su detta struttura l’onere di fornire la prova della riconducibilità
dell’inadempimento a una causa autonoma ad essa struttura non imputabile, in
coerenza al principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza
del quale, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria,
incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di
provare il nesso di causalità tra l’insorgenza di una nuova malattia e l’azione o
l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere,
spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da
causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato
determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria
diligenza (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018, Rv. 651166 – 01;
Sez. 3, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017 (Rv. 645164 – 01).
11. Avendo dunque gli attori comprovato la sussistenza di un preciso nesso di
derivazione causale tra il fatto della struttura sanitaria convenuta e l’insorgenza
della patologia che condusse la M. al decesso, e non avendo detta struttura
dimostrato la riconducibilità dell’inadempimento, o dell’impossibilità
dell’adempimento, a una causa ad essa non imputabile, del tutto
correttamente il giudice a quo ha sancito la responsabilità risarcitoria della
struttura sanitaria convenuta per l’inadempimento contrattuale ad essa
concretamente ascritto.
12. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
omesso esame di fatti decisivi controversi (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5),
per avere la corte territoriale omesso di considerare il complesso delle
circostanze di fatto analiticamente richiamate in ricorso che avrebbero, ove
esaminate, contribuito a escludere il riconoscimento del nesso di causalità tra
la condotta ascritta alla struttura sanitaria convenuta e il decesso della M..
13. Il motivo è inammissibile.
14. Osserva il Collegio come al caso di specie (relativo all’impugnazione di una
sentenza pubblicata dopo la data del 11/9/12) trovi applicazione il nuovo testo
dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (quale risultante dalla formulazione del D.L. n. 83 del
2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv., con modif., con la L. n. 134 del 2012),
3
ai sensi del quale la sentenza è impugnabile con ricorso per cassazione “per
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti”.
15. Secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità,
tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di
legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione
apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla
motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la
Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice
a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal
testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali
(rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di
discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe
determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che
l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie
prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque
preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di
tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. Un.,
22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
16. Ciò posto, occorre rilevare l’inammissibilità della censura in esame, avendo
la ricorrente propriamente trascurato di circostanziare gli aspetti dell’asserita
decisività della mancata considerazione, da parte della corte territoriale, delle
occorrenze di fatto analiticamente richiamate in ricorso e asseritamente dalla
stessa trascurate, e che avrebbero al contrario (in ipotesi) condotto a una
sicura diversa risoluzione dell’odierna controversia.
17. Converrà pertanto rilevare come, attraverso l’odierna censura, la ricorrente
altro non prospetti se non una rilettura nel merito dei fatti di causa secondo il
proprio soggettivo punto di vista, ancora una volta in coerenza ai tratti di
un’operazione critica come tale inammissibilmente prospettata in questa sede
di legittimità.
18. Con il quarto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione degli artt. 1226,2056 e 2059 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c.
e degli artt. 1218 e 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la
corte territoriale erroneamente liquidato, in favore degli attori, una somma a
titolo di risarcimento del danno morale soggettivo dopo aver già riconosciuto,
in favore degli stessi soggetti, il risarcimento del danno da perdita del rapporto
parentale, con la conseguente indebita duplicazione degli importi risarcitori
riferiti a un medesimo pregiudizio, e per avere altresì riconosciuto, in favore
degli attori, l’importo massimo previsto dalle tabelle utilizzate per la
liquidazione del danno derivante dalla perdita del rapporto parentale,
nonostante la sopravvivenza di altri congiunti e il mancato venir meno
dell’intero nucleo familiare dei danneggiati.
19. Il motivo è fondato.
20. Osserva il Collegio come, seguendo l’iter motivazionale dipanato nella
sentenza impugnata, la corte territoriale abbia liquidato, in favore degli attori,
un risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale unitamente
4
a un risarcimento a titolo di danno morale soggettivo per lo stesso fatto,
procedendo, dunque, dopo la liquidazione del primo danno, a un’ulteriore
maggiorazione a titolo di danno morale, in tal modo pervenendo a una vera e
propria duplicazione, ossia a una doppia considerazione della stessa lesione di
interessi, consistente nel peculiare patimento che affligge una persona per la
perdita del rapporto parentale.
21. Varrà al riguardo richiamare la testuale previsione di Cass. Sez. Un., 11
novembre 2008, n. 26972 (punto 4.8) secondo cui: “determina duplicazione di
risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata
configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la
sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che
accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che
componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente
ristorato”.
22. La conclusione è stata riaffermata, con nettezza, tra le altre, da Sez. 3,
Sentenza n. 25351 del 17/12/2015, Rv. 638116 – 01 (v. altresì Cass. 8 luglio
2014, n. 15491; Cass. 23 settembre 2013, n. 21716) in cui si ribadisce come,
ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara,
la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del
danno da perdita del rapporto parentale costituisce indebita duplicazione di
risarcimento, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è
percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l’esistenza
del soggetto che l’ha subita (sul piano dinamico-relazionale), rappresentano
elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad
essere risarcito, sì integralmente, ma anche unitariamente.
Allo stesso modo, in virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del
risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo
congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo
possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il
danno esistenziale, poichè il primo già comprende lo sconvolgimento
dell’esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca (Sez. 3, Ordinanza
n. 30997 del 30/11/2018, Rv. 651667 – 01).
23. Le richiamate esigenze di integralità e di unitarietà del risarcimento, in
particolare, trovano radice nella più recente elaborazione della giurisprudenza
di questa stessa Terza Sezione, là dove è intervenuta a delimitare i contorni del
compito liquidatorio del giudice in caso di danno non patrimoniale, precisando
come la considerazione separata delle componenti del pur sempre unitario
concetto di danno non patrimoniale, in tanto è ammessa, in quanto sia
evidente la diversità del bene o interesse oggetto di lesione (Cass. 9 giugno
2015, n. 11851; Cass. 8 maggio 2015, n. 9320).
24. Tali principi hanno trovato ulteriore conferma nelle conclusioni cui, da
ultimo, è pervenuta questa Corte, là dove ha stabilito, in tema di danno non
patrimoniale da lesione della salute, come costituisca duplicazione risarcitoria
la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale,
atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il
grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività
quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita
5
anatomica o funzionale). Non costituisce invece duplicazione la congiunta
attribuzione del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di
risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perchè
non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del
grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza
interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di
sè, la paura, la disperazione). Ne deriva che, ove sia dedotta e provata
l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi
dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (Sez. 3,
Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 – 01, successivamente
confermata da Sez. 3, Ordinanza n. 23469 del 28/09/2018, Rv. 650858 – 02).
25. Ciò posto, in caso di risarcimento del danno da perdita, o da lesione, del
rapporto parentale, ferma la possibilità per la parte interessata di fornire la
prova di tale danno con ricorso alla prova presuntiva, e in riferimento a quanto
ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza e alla gravità
delle ricadute della condotta (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 11212 del 24/04/2019,
Rv. 653591 – 01), spetterà al giudice il compito di procedere alla verifica, sulla
base delle evidenze probatorie complessivamente acquisite, dell’eventuale
sussistenza di uno solo, o di entrambi, i profili di danno non patrimoniale in
precedenza descritti (ossia, della sofferenza eventualmente patita, sul piano
morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel
proprio vissuto interiore, e quella, viceversa, che eventualmente si sia riflessa,
in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del
soggetto che l’ha subita). E’ in tale quadro che emergerà, con intuitiva
evidenza, il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al
fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato
della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge,
convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino)
secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul
piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure
parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta alla libera
dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benchè di più
lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si
pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che
abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si
qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e
apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale.
Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della
gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al
contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero,
ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il
danneggiato (cfr., in tema di rapporto tra nono e nipote, Sez. 3, Sentenza n.
21230 del 20/10/2016, Rv. 642944 – 01. V. ancora Sez. 3, Sentenza n. 12146
del 14/06/2016, Rv. 640287 – 01), o, infine, di ogni altra evenienza o
circostanza della vita (come, ad es., l’età delle parti del rapporto parentale) che
il prudente apprezzamento del giudice di merito sarà in grado di cogliere.
26. Rimangono, in ogni caso, fermi i principi che presiedono all’identificazione
6
delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa
dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della
serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano
morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale, sì che, ad esempio,
nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso
e ulteriore rispetto alla sofferenza morale (rigorosamente comprovata) non può
ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle
abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali
cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; tale
onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non
potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez.
3, Sentenza n. 21060 del 19/10/2016, Rv. 642934 – 02; Sez. 3, Sentenza n.
16992 del 20/08/2015, Rv. 636308 – 01).
Rimane, infine, altresì ferma la netta distinzione tra il descritto danno da
perdita, o lesione, del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che
detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso
che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre
al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata
sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di
una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo
invoca, l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come
elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del
principio della onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione unitaria
(Sez. 3, Sentenza n. 21084 del 19/10/2015, Rv. 637744 – 01).
27. Ciò posto, dovendo procedersi – in forza dell’accoglimento del motivo in
esame e della conseguente cassazione, sul punto, della sentenza impugnata –
all’integrale rielaborazione dei calcoli per la liquidazione del danno relativo alla
perdita del rapporto parentale, la successiva censura, riferita al riconoscimento
del massimo importo tabellare, deve ritenersi assorbita.
28. Con il quinto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la
corte territoriale erroneamente riconosciuto, in favore degli attori, il
risarcimento del danno tanatologico iure haereditatis, nella specie dagli stessi
non concretamente rivendicato, con la conseguente violazione del principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
29. Con il sesto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione degli artt. 1126,2056 e 2059 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n.
3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato la sussistenza del
diritto degli attori al risarcimento del danno tanatologico iure haereditatis, in
contrasto con i più recenti arresti della giurisprudenza delle Sezioni Unite della
Corte di cassazione.
30. Il sesto motivo è fondato e idoneo ad assorbire la rilevanza del quinto.
31. Osserva il Collegio come, sulla base dell’articolazione argo-mentativa
seguita nella sentenza impugnata, il giudice a quo abbia obiettivamente
riconosciuto la liquidazione, in favore degli attori, di un danno, iure
haereditario, per la perdita, da parte della de cuius, del bene della vita in sè
considerato, ossia di un danno in sè diverso, tanto dal danno alla salute,
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quanto dal c.d. danno biologico terminale e dal c.d. danno morale terminale
(c.d. catastrofale) e, dunque, indipendente dalla consapevolezza che il
danneggiato possa averne avuto.
32. Ciò posto, la decisione così compendiata deve ritenersi errata, dovendo
nella specie trovare applicazione i principi sul punto statuiti da questa Corte,
secondo cui, in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata
da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita,
bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare
e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si
verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve
escludersi la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel
primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del
bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio,
ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo
(Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015, Rv. 635985 – 01).
Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un
apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore
del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico
stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell’unitarietà del genus
del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare
improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da
percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia
nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza
dell’exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona
si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire
la sua situazione e in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi
irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale
e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida”
(Sez. 3 -, Sentenza n. 26727 del 23/10/2018, Rv. 650909 – 01).
In ogni caso, rimane esclusa l’indennizzabilità ex se del danno non patrimoniale
da perdita della vita; e tale esclusione non vale a contraddire il riconoscimento
del “diritto alla vita” di cui all’art. 2 CEDU, atteso che tale norma (pur di
carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene-vita)
non detta specifiche prescrizioni sull’ambito e i modi in cui tale tutela debba
esplicarsi, nè, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni
derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l’attribuzione della tutela risarcitoria,
il cui riconoscimento in numerosi interventi normativi ha comunque
carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema
della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non
sull’evento lesivo in sè considerato (Sez. L, Sentenza n. 14940 del 20/07/2016,
Rv. 640733 – 01).
33. Sulla base delle argomentazioni che precedono, rilevata la fondatezza del
quarto e del sesto motivo, la complessiva infondatezza dei primi tre e
l’assorbimento del quinto, dev’essere pronunciata la cassazione della sentenza
impugnata in relazione ai motivi accolti, con il conseguente rinvio alla Corte
d’appello di Roma, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle
spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quarto e il sesto motivo; rigetta i primi tre; dichiara assorbito il
quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla
Corte d’appello di Roma, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione
delle spese del presente giudizio di legittimità.

Finalità perequative-compensative dell’assegno di divorzio in relazione al caso concreto.

Corte di Cassazione, 16 gennaio 2020 n. 765
Presidente Scaldaferri – Relatore Tricomi
Ritenuto che:
La Corte di appello di Venezia, con la sentenza in epigrafe indicata, ha confermato la decisione di primo
grado, in giudizio di scioglimento del matrimonio tra I.R. e H.S.I.M. , relativa alle statuizioni economiche
poste a carico di I. , consistenti nell’assegno divorzile riconosciuto in favore di H. nella misura di Euro
350,00= mensili, nell’assegno di mantenimento per il figlio minore R. (n. nel 2000) di Euro 850,00=
mensili e nella partecipazione alle spese straordinarie nella misura del 70%.
I. propone ricorso per cassazione con due mezzi, corroborati da memoria; H. replica con controricorso e
memoria.
È stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380 – bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi
presupposti.
Considerato che:
1. Con il primo motivo I. denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5,
comma 6, per avere confermato la Corte territoriale il diritto all’assegno divorzile sul presupposto che
questo rimane una forma di protezione del coniuge economicamente più debole a fronte del
deterioramento delle proprie condizioni personali di vita dipendente dallo scioglimento del matrimonio. Il
ricorrente, in particolare, sostiene che il giudice del gravame, omettendo ogni verifica circa l’an debeatur,
si sarebbe discostato dei principi enunciati in sede di legittimità con la sentenza n. 11504/2017.
Il motivo è infondato.
Premesso che) come questa Corte ha già affermato, “All’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve
attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende
direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di
un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza
economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale
adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle
aspettative professionali sacrificate.” (Cass. Sez. U. n. 18287 del 11/07/2018), così puntualizzando i
principi espressi dalla sent. n. 11504/2017, di cui il ricorrente erroneamente invoca l’applicazione al caso
concreto, va osservato che la Corte di appello nel riconoscere il diritto all’assegno divorzile e nel
determinarne l’importo, ha tenuto conto delle risorse economiche e reddituali di entrambe le parti, non
già mirando ad una mera perequazione reddituale, ma valutando le circostanze del caso concreto al fine
di perseguire la finalità assistenziale – perequativa/compensativa attribuita a detto assegno, in linea con i
principi espressi dalle Sezioni Unite.
Segnatamente la Corte territoriale ha riconosciuto il diritto all’assegno divorzile nella misura di Euro
350,00= mensili, non già allo scopo di assicurare il pregresso tenore di vita, ma per mantenere le
condizioni di vita adeguate e consone al progetto familiare e sociale che la cessazione del matrimonio
aveva interrotto (fol. 11 della sent. imp.) e ciò ha fatto dando conto dell’attività lavorativa svolta dalla H.
(reddito lordo annuo di Euro 20.893,81) e dallo I. (reddito lordo annuo d Euro 61.586,00), del fatto che
la stessa aveva lasciato la sua patria (il Perù) nel 1999 per trasferirsi in Italia con il marito, che si era
dedicata alla famiglia nei primi anni di matrimonio in ragione della nascita del figlio e fino al 2008,
quando in occasione della separazione aveva intrapreso un’attività lavorativa ed aveva reperito un
alloggio ove vivere con il figlio minore, non potendo più fruire dell’alloggio di servizio assegnato al
coniuge (militare dell’Arma dei carabinieri), provvedendo a versare prima un canone locatizio di Euro
630,00 mensili e poi, avendo acquistato l’abitazione, una rata di mutuo del medesimo importo, che
provvedeva anche al mantenimento del figlio non economicamente autosufficiente, di guisa che la
decisione risulta immune dal vizio di violazione di legge denunciato.
2. Con il secondo motivo I. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 337 ter c.c., comma 4, e
dell’art. 116 c.p.c., per avere la Corte di appello confermato la ripartizione delle spese straordinarie per il
figlio in relazione alle diverse capacità reddituali senza averle raffrontate.
Il motivo è infondato perché la Corte territoriale contrariamente a quanto assume il ricorrente – ha
operato il raffronto tra i redditi delle parti (fol. 4 della sent. imp), oltre che inammissibile, laddove
1
sollecita un riesame del merito in maniera generica (facendo riferimento a documenti prodotti, di cui non
illustra nemmeno per sommi capi la diretta rilevanza e decisività) e chiede di considerare le dazioni
economiche (nemmeno quantificate) direttamente elargite al figlio, frutto di evidenti ed apprezzabili
liberalità spontanee, che tuttavia non rientrano nel novero della partecipazione alle spese.
3. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo, atteso che la recente sentenza
Cass. Sez. U. n. 18287/2018 ha puntualizzando i principi espressi dalla sentenza Cass. Sez. U. n.
11504/2017, senza mutare radicalmente il precedente indirizzo giurisprudenziale, contrariamente a
quanto assume il ricorrente (memoria fol. 6), ma precisandone i termini di applicazione, in considerazione
della indiscussa natura assistenziale, oltre che perequativo/compensativa, dell’assegno divorzile.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei
soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai
sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24
dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in
misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. S.U. n.
23535 del 20/9/2019).
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.800,00=,
oltre Euro 100,00= per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed
accessori di legge;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei
soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52;
– Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi
del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre
2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a
quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

È incostituzionale la previsione normativa per la quale ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno si applica l’art. 4-bis, commi 1 e 1-bis della L. 26 luglio 1975 n. 354, il quale consente la concessione dei benefici penitenziari ai condannati minorenni per taluni delitti, espressamente indicati, solo nei casi in cui gli stessi collaborino con la giustizia.

Corte cost., 6 dicembre 2019, n. 263
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.2, comma 3, delD.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art.1, commi 82, 83 e 85, lettera p), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”, promosso dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, in funzione di tribunale di sorveglianza, nel procedimento nei confronti di F. P., conordinanza del 28 dicembre 2018, iscritta al n. 56 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2019 il Giudice relatore Giuliano Amato.
1.- Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, in funzione di tribunale di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agliartt. 2, 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.2, comma 3, delD.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art.1, commi 82, 83 e 85, lettera p), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”.
Tale disposizione prevede che, ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno, si applica l’art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, dellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), il quale consente la concessione dei benefici penitenziari ai condannati per taluni delitti, espressamente indicati, solo nei casi in cui gli stessi collaborino con la giustizia.
Nell’estendere ai minorenni e giovani adulti preclusioni analoghe a quelle previste per gli adulti, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo,l’art. 76 Cost.L’esclusione dei benefici penitenziari da essa indicati ove ricorrano i reati ostativi di cui all’art. 4-bis ordin. penit. si porrebbe in contrasto con i principi di cui all’art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), dellaL. delega 23 giugno 2017, n. 103(Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che prevedono l’ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l’eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari.
Sarebbero, inoltre, violati gliartt. 2, 3, 27 e 31 Cost., perché siffatto automatismo, che si fonda su una presunzione di pericolosità basata solo sul titolo di reato commesso, impedirebbe una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all’esecuzione penale minorile.
Infine, la disposizione censurata violerebbel’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 7, 10 e 11 della direttiva 2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Tali disposizioni prevedono il diritto del minore ad una valutazione individuale e la necessità di ricorrere, ogni qualvolta sia possibile, a misure alternative alla detenzione. La norma censurata non sarebbe coerente neppure con l’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il quale stabilisce il principio di proporzionalità delle pene inflitte rispetto al reato.
2.- Il giudice a quo è chiamato a decidere in ordine all’istanza avanzata da un detenuto, condannato in via definitiva alla pena di cinque anni di reclusione per i reati di cuiall’art. 416-bis del codice penalee agli artt.2e7dellaL. 2 ottobre 1967, n. 895(Disposizioni per il controllo delle armi), aggravati, in base alla normativa all’epoca vigente, ai sensi dell’art.7delD.L. 13 maggio 1991, n. 152(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nellaL. 12 luglio 1991, n. 203. Con riferimento alla residua pena da espiare di un anno, cinque mesi e quattordici giorni di reclusione, è stata richiesta l’applicazione della misura della detenzione domiciliare presso un’abitazione o in una struttura comunitaria.
2.1.- Il rimettente evidenzia che la disposizione censurata esclude la possibilità di concedere le misure penali di comunità in presenza dei reati cosiddetti ostativi, previsti dall’art. 4-bis ordin. penit. Ciò impedirebbe di valutare nel merito l’istanza del detenuto e di adeguare la residua sanzione da espiare ai progressi da lui compiuti. Nel caso in esame, la condanna per uno dei delitti indicati nell’art. 4-bis non consentirebbe di accogliere l’istanza. A questo riguardo, non rileverebbe né l’accertata recisione dei collegamenti con la criminalità organizzata, essendo richiesta anche l’effettiva collaborazione con la giustizia, né l’inesigibilità di tale collaborazione poiché, ad avviso del rimettente, il rinvio è al catalogo dei reati ivi indicati e non al suo contenuto, né infine la mancata prova della pericolosità sociale, essendo richiesta viceversa la prova dell’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata.
L’ostacolo non sarebbe superabile in via interpretativa. Un’esegesi costituzionalmente orientata della disposizione censurata porterebbe, infatti, alla sua sostanziale abrogazione.
2.2.- Nel merito, il giudice a quo ritiene, in primo luogo, che la disposizione censurata violil’art. 76 Cost., per il contrasto con i principi e i criteri direttivi posti dall’art. 85, lettera p), numeri 5) e 6), dellaL. n. 103 del 2017, che prevedono l’ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l’eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari.
Il giudice rimettente fa riferimento alla giurisprudenza costituzionale che ha affermato che il cuore della giustizia minorile debba consistere in valutazioni fondate su prognosi individualizzate, in grado di assolvere al compito di recupero del minore deviante. Ciò comporta l’abbandono di qualsiasi automatismo che escluda l’applicazione di benefici o misure alternative (sono richiamate le sentenze n. 90 del 2017, n. 436 del 1999, n. 16 del 1998 e n. 109 del 1997).
Sono inoltre richiamati i principi espressi in numerosi atti internazionali, tra i quali le Regole minime delle Nazioni unite sull’amministrazione della giustizia minorile (“Regole di Pechino”), adottate dall’Assemblea generale con la risoluzione 40/33 del 29 novembre 1985, le Regole delle Nazioni Unite per la protezione dei minori privati della libertà (cosiddette regole dell’Havana), approvate dall’Assemblea generale con risoluzione n. 45/113 del 14 dicembre 1990, la raccomandazione CM/Rec. (2008)11 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, adottata il 5 novembre 2008, sui minori autori di reato e soggetti a sanzioni o misure alternative alla detenzione, le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa su una “giustizia a misura di minore”, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098a riunione dei delegati dei ministri, nonché, da ultimo, la direttiva 2016/800/UE, già citata.
Questi atti esprimerebbero tutti l’esigenza che le autorità nazionali ricorrano alla privazione della libertà personale del minore quale misura di ultima istanza. Sarebbe, inoltre, richiesto che venga sempre privilegiato il ricorso alle misure alternative alla detenzione e che venga garantito un trattamento penitenziario specificamente disegnato sulle peculiari necessità del minore.
Proprio a questi fini, laL. delega n. 103 del 2017aveva prescritto l’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative e l’eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o ritardano l’individualizzazione del trattamento rieducativo. Viceversa, la disposizione censurata ha ribadito la preclusione automatica per i reati previsti dall’art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, ordin. penit., rendendo in questi casi estremamente difficoltosa la concessione di misure alternative. Sulla base di una presunzione di pericolosità legale, verrebbe privilegiata l’istanza punitiva rispetto a quella del recupero del minorenne o del giovane adulto. Ciò si porrebbe in contrasto con i principi e i criteri direttivi fissati dall’art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), dellaL. n. 103 del 2017.
D’altra parte, la medesima disposizione tradirebbe la ratiodell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen., come risultante dalla sentenza n. 90 del 2017. La sospensione dell’esecuzione consentita al pubblico ministero risulterebbe inutiliter data se il tribunale di sorveglianza non potesse poi valutare nel merito le istanze di misure alternative alla detenzione, anche in presenza di reati ostativi. Osserva il giudice a quo che l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. si rivolge al pubblico ministero e, dopo la sentenza n. 90 del 2017, gli consente di sospendere l’ordine di esecuzione anche in presenza di reati ostativi. La disposizione censurata, invece, si rivolge al tribunale di sorveglianza e gli impedisce di concedere le misure penali di comunità in caso di reati ostativi.
La disciplina censurata sarebbe, inoltre, in contrasto con altri istituti del processo penale minorile. Si fa rilevare, ad esempio, come la sospensione del processo con messa alla prova sia applicabile senza il rigido sbarramento previsto dall’art. 4-bis ordin. penit., secondo un’ottica che privilegia le esigenze di recupero dell’imputato rispetto alla pretesa punitiva.
Il contrasto sarebbe inoltre ravvisabile con l’intero impianto del processo minorile e con i principi di tutela dell’infanzia cui lo stesso si ispira. Tra questi, in particolare, rientrano quelli enunciati dagli artt. 37, lettera b), e 40, paragrafi 1 e 4, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia conL. 27 maggio 1991, n. 176, secondo cui la detenzione del minore deve costituire un provvedimento “di ultima istanza” e avere la durata più breve possibile.
2.3.- L’automatismo posto dalla disposizione censurata, in quanto fondato su una presunzione di pericolosità radicata solo sul titolo di reato commesso sarebbe, inoltre, in contrasto con il principio sancitodall’art. 27, terzo comma, Cost., connesso a quelli di cui agliartt. 2, 3 e 31, secondo comma, Cost., in quanto espressivi della necessità di un trattamento differenziato per i minorenni e i giovani adulti e “di valutazioni, da parte dello stesso giudice, fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante” (sono richiamate le sentenze n. 143 del 1996, n. 182 del 1991, n. 78 del 1989, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983 e n. 46 del 1978).
2.4.- Sarebbe violato, infine,l’art. 117, primo comma, Cost., per il contrasto con i principi posti dalla direttiva 2016/800/UE, nonché dall’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
In particolare, sarebbe mancata l’attuazione degli artt. 7, 10 e 11 della citata direttiva, relativa alle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Essa chiede ai legislatori nazionali di provvedere affinché: 1) sia garantito “il diritto del minore a una valutazione individuale” (art. 7); 2) “in qualsiasi fase del procedimento la privazione della libertà personale del minore sia limitata al più breve periodo possibile” (art. 10); 3) “ogniqualvolta sia possibile, le autorità competenti ricorrano a misure alternative alla detenzione” (art. 11).
Il contrasto tra la disposizione censurata e la direttiva in esame non sarebbe sanabile in via interpretativa, né potrebbe trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, essendo la norma dell’Unione europea priva di efficacia diretta.
La disposizione censurata si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE e con il principio di proporzionalità e di flessibilità del trattamento sanzionatorio, secondo un’accezione riferibile anche alle misure alternative alla detenzione e alla necessità di un loro adattamento alle condizioni del minorenne autore del reato. La proposizione della questione di legittimità costituzionale sarebbe, dunque, l’unica via per garantire l’adeguamento del diritto interno agli obblighi comunitari.
3.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
3.1.- In via preliminare, l’interveniente ha eccepito che l’applicazione dell’art. 4-bis ordin. penit. anche ai minori non deriverebbe dalla disposizione censurata, bensì dall’art.4, comma 4, delD.L. n. 152 del 1991, che già aveva previsto che le limitazioni all’accesso ai benefici penitenziari si applicassero anche nei confronti dei soggetti minorenni al tempo del fatto.
La disposizione censurata avrebbe, quindi, natura meramente ricognitiva di una disciplina già esistente e non introdurrebbe alcuna novità. Un eventuale accoglimento della questione non inciderebbe sulla persistente applicazione dell’art. 4-bis, né sulla limitazione all’accesso ai benefici penitenziari per i minorenni. La questione sarebbe pertanto inammissibile, per essere stata sottoposta a scrutinio una disposizione diversa dall’oggetto effettivo delle censure.
3.2.- In ogni caso, la questione non sarebbe fondata.
La disciplina censurata costituirebbe l’espressione di una scelta rimessa alla discrezionalità legislativa, che non sarebbe affatto irragionevole. La giurisprudenza costituzionale ne avrebbe riconosciuto più volte la legittimità e la compatibilità con la finalità rieducativa della pena.
D’altra parte, in riferimento alla denunciata violazionedell’art. 2 Cost., sarebbe incerto il principio che il rimettente assume violato, non essendo chiarito quale sia il nesso tra la scelta legislativa censurata e i diritti inviolabili dell’individuo.
Quanto alla violazionedell’art. 3 Cost., non sarebbe rilevabile alcuna incoerenza sistematica o disparità di trattamento in relazioneall’art. 656, comma 9, cod. proc. pen., letto alla luce della sentenza n. 90 del 2017. Anche questa disposizione rimette al giudice l’accertamento delle condizioni per l’accesso ai benefici. Il potere riconosciuto al pubblico ministero di sospendere l’esecuzione sarebbe infatti funzionale alla valutazione da parte del magistrato di sorveglianza in ordine ai presupposti per l’applicazione di misure alternative e quindi, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, all’intervenuta collaborazione con la giustizia.
Anche la questione relativa alla violazionedell’art. 76 Cost.non sarebbe fondata. La disposizione censurata, senza introdurre automatismi o preclusioni, si limiterebbe a prendere atto della disciplina previgente, perseguendo, accanto alla finalità di prevenzione, anche una specifica ratio di rieducazione del detenuto minorenne, il quale sarebbe incentivato a recidere definitivamente i legami con la criminalità organizzata. Ciò costituirebbe, dunque, fedele attuazione dei principi dellaL. delega n. 103 del 2017.
Quanto alla violazionedell’art. 117 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che la riforma dell’esecuzione penale minorile non sia in contrasto con la direttiva 2016/800/UE. Anche la disposizione censurata sarebbe ispirata al principio di favore per le misure penali di comunità, concedibili, alle condizioni date, anche per i reati più gravi. Nel privilegiare le misure alternative alla detenzione, ilD.Lgs. n. 121 del 2018avrebbe l’obiettivo di realizzare un modello esecutivo penale che ricorre alla detenzione solo laddove questo sia l’unico trattamento che consenta di contemperare le esigenze sanzionatorie e di sicurezza con le istanze pedagogiche di una personalità in evoluzione.

Motivi della decisione

1.- Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, in funzione di tribunale di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agliartt. 2, 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.2, comma 3, delD.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art.1, commi 82, 83 e 85, lettera p), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”.
Tale disposizione prevede che, ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno, si applica l’art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, dellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), il quale consente la concessione dei benefici penitenziari ai condannati per taluni delitti, espressamente indicati, solo nei casi in cui gli stessi collaborino con la giustizia.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata – nell’estendere ai minorenni e giovani adulti preclusioni analoghe a quelle previste per gli adulti – violerebbe, in primo luogo,l’art. 76 Cost.L’impossibilità di accedere ai benefici penitenziari ivi indicati, in caso di condanna per i reati indicati dall’art. 4-bis ordin. penit., si porrebbe in contrasto con i principi di cui all’art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), dellaL. delega 23 giugno 2017, n. 103(Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che prevedono l’ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l’eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari.
Sarebbero, inoltre, violati gliartt. 2, 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., perché siffatto automatismo, che si fonda su una presunzione di pericolosità basata solo sul titolo di reato commesso, impedirebbe una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all’esecuzione penale minorile.
Infine, la disposizione censurata violerebbel’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 7, 10 e 11 della direttiva 2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Tali disposizioni della direttiva prevedono il diritto del minore a una valutazione individuale e la necessità di ricorrere, ogni qualvolta sia possibile, a misure alternative alla detenzione. L’art.2, comma 3, delD.Lgs. n. 121 del 2018sarebbe in contrasto anche con l’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il quale stabilisce il principio di proporzionalità delle pene inflitte rispetto al reato.
2.- Va preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.- La difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che il giudice a quo abbia sottoposto a scrutinio una disposizione diversa dall’oggetto effettivo delle censure, poiché l’art.2, comma 3, delD.Lgs. n. 121 del 2018avrebbe natura meramente ricognitiva della disciplina già prevista dall’art.4, comma 4, delD.L. 13 maggio 1991, n. 152(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nellaL. 12 luglio 1991, n. 203. In riferimento all’accesso alle misure penitenziarie alternative, la disposizione censurata non introdurrebbe, dunque, alcuna novità.
2.2.- L’applicazione dell’art. 4-bis ordin. penit. anche nei confronti dei minori risultava in effetti già prevista dall’art.4, comma 4, delD.L. n. 152 del 1991, il quale, dopo avere introdotto l’art. 4-bis nellaL. n. 354 del 1975, aveva stabilito che i commi 1 e 2 di quest’ultima disposizione si applicassero anche nei confronti dei minorenni.
Invero, il giudice a quo non ignora che, in passato, le preclusioni derivanti dall’art. 4-bis ordin. penit. fossero applicabili anche nei confronti dei minori. Tuttavia le sue censure si incentrano proprio sul loro inserimento nell’ambito del nuovo ordinamento penitenziario minorile ed è proprio sulla legittimità di tale scelta legislativa che si chiede a questa Corte di pronunciarsi.
È tale scelta a rendere il richiamo al meccanismo dell’art. 4-bis ordin. penit., contenuto nella disposizione censurata, non meramente ricognitivo di una norma preesistente. Esso svolge anche una funzione di primaria rilevanza, nel senso di stabilire, nell’ambito della riforma organica dell’ordinamento penitenziario minorile – a lungo attesa e finalmente introdotta dalD.Lgs. n. 121 del 2018- il perimetro delle preclusioni alle misure extramurarie applicabili ai condannati per fatti commessi da minorenni. Questo intervento dà vita, infatti, all’unica normativa applicabile a questa categoria di soggetti. Essa si è integralmente sostituita alla precedente disciplina dettata sul punto, per i condannati adulti, dallaL. n. 354 del 1975e, in particolare, dal suo art. 4-bis, e, per i condannati per reati commessi durante la minore età, dall’art.4, comma 4, delD.L. n. 152 del 1991.
2.3.- Il carattere innovativo (e non meramente ricognitivo) della disposizione censurata risulta, altresì, dalla considerazione del suo diverso ambito applicativo. A differenza dell’art.4, comma 4, delD.L. n. 152 del 1991, che rendeva applicabili ai minori i commi 1 e 2 dell’art. 4-bis ordin. penit., l’art.2, comma 3, delD.Lgs. n. 121 del 2018richiama i commi 1 e 1-bis della medesima disposizione, ma non il comma 2.
3.- Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art.2, comma 3, delD.Lgs. n. 121 del 2018, sollevata in riferimentoall’art. 76 Cost., è fondata.
3.1.- IlD.Lgs. n. 121 del 2018costituisce l’approdo di un processo evolutivo che si snoda nel corso di alcuni decenni, a partire dalla previsione dell’art. 79, comma 1, ordin. penit., in base al quale la mancanza di una disciplina penitenziaria specificamente destinata ai minori avrebbe dovuto avere natura transitoria, ossia “fino a quando non sarà provveduto con apposita legge”.
L’esigenza di un’esecuzione “a misura di minore” era stata ripetutamente affermata nell’ambito di plurimi atti internazionali, attraverso il richiamo ai principi di individualizzazione del trattamento e di promozione della persona del minore. La stessa giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto, con riferimento all’ordinamento penale minorile, l’accentuazione della funzione rieducativa della pena e del criterio di individualizzazione del trattamento, quali corollari di una considerazione unitaria dei principi posti negliartt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.(sentenze n. 143 del 1996, n. 182 del 1991, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983 e n. 46 del 1978).
Ciò ha portato a riconoscere che la parificazione della disciplina della fase esecutiva nei confronti di adulti e minori può “confliggere con le esigenze di specifica individualizzazione e di flessibilità del trattamento del detenuto minorenne” e che questa situazione “”contrasta con le esigenze … del recupero e della risocializzazione dei minori devianti, esigenze che comportano appunto la necessità di differenziare il trattamento dei minorenni rispetto ai detenuti adulti e di eliminare automatismi applicativi nell’esecuzione della pena” (sentenza n. 90 del 2017, con richiamo alle sentenze n. 125 del 1992 e n. 109 del 1997).
3.2.- È proprio sulla base dei principi di speciale protezione per l’infanzia e la gioventù, di individualizzazione del trattamento punitivo del minore e di preminenza della finalità rieducativa che questa Corte ha dichiarato l’illegittimità della previsione dell’ergastolo per gli infradiciottenni (sentenza n. 168 del 1994). Nello stesso senso si pongono anche le pronunce con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di alcuni istituti dell’ordinamento penale e penitenziario, laddove riferiti ai condannati minorenni.
Il contrasto con i richiamati principi costituzionali è stato, infatti, ravvisato in relazione alla preclusione della sospensione del processo per messa alla prova, nell’ambito del processo minorile, quando l’imputato abbia chiesto il giudizio abbreviato o il giudizio immediato (sentenza n. 125 del 1995); al divieto di disporre misure alternative alla detenzione per l’esecuzione di pene detentive derivanti da conversione di pena sostitutiva (sentenza n. 109 del 1997); all’esclusione della possibilità di concedere permessi premio nel biennio successivo alla commissione di un delitto doloso (sentenza n. 403 del 1997); alle condizioni soggettive per l’applicazione delle sanzioni sostitutive della pena detentiva (sentenza n. 16 del 1998); alla previsione della necessaria espiazione di una determinata quota di pena ai fini della concessione dei permessi premio (sentenza n. 450 del 1998); alla preclusione triennale dei benefici per il condannato nei cui confronti sia stata revocata l’applicazione di una misura alternativa (sentenza n. 436 del 1999), nonché, più recentemente, al divieto di sospensione delle pene detentive brevi, di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale (sentenza n. 90 del 2017).
Questa evoluzione, che ha via via diversificato il trattamento dei minorenni da quello stabilito in via generale dall’ordinamento penitenziario, è culminata nellaL. n. 103 del 2017, di cui ilD.Lgs. n. 121 del 2018costituisce attuazione.
3.3.- Ciò premesso, si tratta ora di stabilire se l’art.2, comma 3, delD.Lgs. n. 121 del 2018- laddove impedisce l’accesso alle misure penali di comunità nei confronti dei minori condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis ordin. penit. – si ponga in contrasto con i principi e criteri direttivi fissati dallaL. delega n. 103 del 2017, in particolare con l’art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6).
In queste disposizioni, il legislatore delegante – nel recepire i principi, sopra richiamati, provenienti dalle fonti internazionali e dalla giurisprudenza di questa Corte – da un lato, ha previsto l'”ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori all’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà” (art. 1, comma 85, lettera p, numero 5) e, dall’altro lato, ha imposto l'”eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento” (art. 1, comma 85, lettera p, numero 6).
Le diverse scelte possibili avrebbero dovuto essere parametrate sulla duplice concorrente esigenza di ampliare l’accesso alle misure alternative e di eliminare ogni automatismo e preclusione nell’applicazione dei benefici penitenziari.
3.4.- Viceversa, l’art.2, comma 3, delD.Lgs. n. 121 del 2018ha ristretto la possibilità di accedere alle misure extramurarie ivi indicate, agganciandola alle condizioni previste dall’art. 4-bis ordin. penit. La disposizione censurata appare in aperta distonia non solo rispetto al senso complessivo dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di esecuzione minorile, ma anche con le direttive impartite dal legislatore delegante.
Da un lato, il richiamo alla disciplina dell’art. 4-bis ordin. penit. restringe l’ambito di applicabilità delle misure alternative alla detenzione. In presenza di condanna per uno dei reati ostativi di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., l’accesso a tali misure – salvo quanto si dirà sui permessi premio – è condizionato all’accertamento di una condotta collaborativa con la giustizia (ovvero una condotta ad essa equiparata). Dall’altro, questi stessi criteri, in quanto fondati su una presunzione di pericolosità che si basa esclusivamente sul titolo del reato, irrigidiscono la regola di giudizio in un meccanismo che non consente di tenere conto della storia e del percorso individuale del singolo soggetto e della sua complessiva evoluzione sulla strada della risocializzazione.
Al contrario, un modello decisorio basato su una prognosi individualizzata, ragionevolmente calibrato sulla personalità in fieri del minore, sarebbe stato coerente con la volontà del delegante e con l’obiettivo di ampliare l’accesso alle misure alternative, abbandonando automatismi e preclusioni che ne limitino l’applicazione.
3.5.- D’altra parte, va escluso che in questo caso si sia inteso rinunciare ad esercitare la delega per la parte qui rilevante. Come già osservato, la scelta per il regime delle preclusioni dell’art. 4-bis ordin. penit. non discende dalla disciplina precedente, ma è espressamente affermata dalla disposizione censurata.
Dalla relazione illustrativa alD.Lgs. n. 121 del 2018emerge, infatti, la volontà del legislatore delegato di dare positiva attuazione alla legge delega in questo ambito normativo. In tale relazione si legge, infatti, che l’esigenza di conservare i limiti di cui all’art. 4-bis ordin. penit. ai fini della concessione dei benefici, deriverebbe “… dalla necessità di mantenere indenne dalla riforma la disciplina di cui all’articolo41-bisdellaL. n. 354 del 1975, individuato dalla legge di delega quale criterio generale che deve orientare tutti gli interventi in materia di ordinamento penitenziario, ivi compreso quello minorile …”.
Tuttavia, la dichiarata finalità dell’intervento non trova riscontro nei criteri impartiti dallaL. delega n. 103 del 2017. Invero, non si ravvisa alcun necessario collegamento, né alcuna interdipendenza, tra il divieto di accesso ai benefici penitenziari e la sospensione delle regole trattamentali di cui all’art. 41-bis ordin. penit. Come correttamente osservato dal Tribunale rimettente, i due regimi risultano accomunati quanto alla previsione di alcune gravi fattispecie di reato che li legittimano, ma la relativa applicazione rimane autonoma quanto ai rispettivi presupposti e ai destinatari.
4.- La questione di legittimità costituzionale dell’art.2, comma 3, delD.Lgs. n. 121 del 2018è fondata anche in riferimento agliartt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.
4.1.- La disposizione in esame, collocata nell’ambito dei principi generali che sovraintendono al sistema dell’esecuzione minorile, condiziona la concessione dei benefici penitenziari ivi indicati ai criteri posti dai commi 1 e 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit.
Mentre, dunque, per la generalità dei condannati minorenni l’accesso ai singoli benefici è soggetto ai principi generali di cui agli artt. 1 e 2 dello stessoD.Lgs. n. 121 del 2018, per le speciali categorie di condannati cui si riferisce l’art. 4-bis tale accesso è drasticamente limitato in considerazione della necessità di condotte collaborative con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., secondo uno schema applicativo che non differisce in modo significativo da quello previsto per gli adulti.
Il richiamo ai criteri posti dall’art. 4-bis ordin. penit. determina dunque un irrigidimento della disciplina dell’accesso ai benefici penitenziari. In ragione del titolo di reato per cui è intervenuta condanna è impedita al giudice una valutazione individuale sul concreto percorso rieducativo compiuto dal minore.
In questo modo, le finalità di prevenzione generale e di difesa sociale finiscono per prevalere su quelle di educazione e risocializzazione, restaurando un assetto in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, sottesi all’intera disciplina del nuovo ordinamento penitenziario minorile.
Tanto più che questa Corte, con sentenza n. 253 del 2019, relativa sia pure ai soli permessi premio, ha ritenuto che il meccanismo introdotto dall’art. 4-bis, anche laddove applicato nei confronti di detenuti adulti, contrasta con gliartt. 3 e 27 Cost.sia “perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante”, sia “perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensidell’art. 27, terzo comma, Cost.”.
Nell’esecuzione della pena nei confronti dei condannati per fatti commessi da minorenni, il contrasto di questo modello decisorio con il ruolo riconosciuto alla finalità rieducativa del condannato si pone in termini ancora più gravi. Con riferimento ai soggetti minori di età, infatti, questa finalità “è da considerarsi, se non esclusiva, certamente preminente” (sentenza n. 168 del 1994).
4.2.- Questa preminenza della funzione rieducativa dell’esecuzione minorile ha già portato a ritenere illegittima, per contrasto con gliartt. 27 e 31 Cost., la preclusione posta dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui esso vietava la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minori condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis ordin. penit. (sentenza n. 90 del 2017).
Le medesime finalità di garanzia della funzione educativa della pena e di individualizzazione del trattamento penitenziario, già riconosciute con riferimento alla sospensione della pena disposta dal pubblico ministero, si pongono allo stesso modo anche dinanzi al tribunale di sorveglianza chiamato a decidere in ordine all’applicabilità delle misure alternative alla detenzione ai condannati minorenni e comportano l’illegittimità della stessa preclusione, determinata dal richiamo all’art. 4-bis ordin. penit.
Una volta riconosciuta come costituzionalmente imposta la necessità di prognosi individualizzate e di flessibilità del trattamento, si tratta, dunque, di restituire al tribunale di sorveglianza quel medesimo potere di apprezzamento delle specificità di ciascun caso che è già stato riconosciuto al pubblico ministero, in sede di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive nei confronti dei condannati minorenni.
4.3.- Dal superamento del meccanismo preclusivo che osta alla concessione delle misure extramurarie non deriva in ogni caso una generale fruibilità dei benefici, anche per i soggetti condannati per i reati elencati all’art. 4-bis ordin. penit. Al tribunale di sorveglianza compete, infatti, la valutazione caso per caso dell’idoneità e della meritevolezza delle misure extramurarie, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo.
Solo attraverso il necessario vaglio giudiziale è possibile tenere conto, ai fini dell’applicazione dei benefici penitenziari, delle ragioni della mancata collaborazione, delle condotte concretamente riparative e dei progressi compiuti nell’ambito del percorso riabilitativo, secondo quanto richiesto dagli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.
5.- Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.2, comma 3, del D.Lgs. n. 121 del 2018per violazione degli artt. 76, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., con assorbimento delle ulteriori censure.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.2, comma 3, del D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art.1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della L. 23 giugno 2017, n. 103”.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2019.
Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2019.

Deve rinviarsi al giudice di merito, in diversa composizione, se l’accertamento relativo all’attribuzione dell’assegno di divorzio sia stato fondato esclusivamente sul superato criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio, senza verificare l’incidenza in concreto degli indicatori, provenienti dall’art. 5, comma 6, comma 1, così come declinati nella pronuncia delle S.U. n. 18287 del 2018.

Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2019, n. 32398
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 29219/2016 proposto da: c. C.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Francesco Orestano n. 21, presso lo studio dell’avvocato Pontesilli Fabio, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Pajani Silvia, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
M.A., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Campeis Giovanni Battista, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 371/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 13/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2019 dal cons. Dott. ACIERNO MARIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO IMMACOLATA, che ha concluso peril rigetto con diversa motivazione della sentenza, in subordine accoglimento ed esame nel merito, con rigetto dell’istanza di C.M.;
udito, per il ricorrente, l’avvocato Andrea Scandurra, con delega, che si è riportato agli atti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La corte d’Appello di Trieste ha confermato l’attribuzione e la determinazione dell’assegno divorzile, posto a carico di C.M. ed in favore di M.A., nella misura di Euro 2.000 mensili, così come stabilito dal giudice di primo grado. A sostegno della decisione ha affermato che la beneficiaria ha sessanta anni ed è invalida al 60%. E’ proprietaria di una casa di abitazione dove vive che, conseguentemente, non è produttiva di reddito. L’obbligato ha, invece, ottime capacità patrimoniali costituite da cespiti immobiliari e titoli non paragonabili ai modesti risparmi e al patrimonio immobiliare dell’ex moglie. Il reddito dell’obbligato è di circa 90.000 Euro l’anno. L’assegno viene disposto in relazione al tenore di vita goduto durante il matrimonio grazie alle disponibilità del C. rispetto al quale le deduzioni relative all’inerzia della M. nel reperire attività lavorativa dopo la conclusione del matrimonio non assumono rilievo mentre le altre allegazioni incidono sulla determinazione ma non sull’attribuzione.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione C.M.. Ha resistito con controricorso M.A.. La parte ricorrente ha depositato memoria per l’udienza camerale, ove era fissata originariamente la trattazione del ricorso. Il Collegio, tuttavia, in relazione ai mutamenti giurisprudenziali in tema di assegno di divorzio, ha rimesso la causa alla pubblica udienza.
Nel primo motivo, integrato dalle osservazioni contenute nella memoria, è stata dedotta la violazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, per l’illegittima applicazione del criterio di attribuzione dell’assegno di vita individuato nel tenore di vita goduto nel matrimonio e per la determinazione di esso in relazione alla durata del vincolo, senza tenere nel debito conto la deliberata mancata attivazione della controricorrente nella ricerca di una nuova attività lavorativa dopo essersi volontariamente dimessa dall’ottima posizione ricoperta in precedenza culminata nel non aver accettato la proposta di lavoro formulata dalla s.p.a. C. con la previsione di uno stipendio di oltre 20.000 Euro netti annui. Ad integrazione del ricorso, nella memoria viene contestata in radice l’applicabilità del predetto criterio essendo intervenuta medio tempore la sentenza n. 17504 del 2017 che ha ancorato l’attribuzione dell’assegno divorzile all’accertamento della non autosufficienza economica della richiedente.
Il criterio attributivo dell’assegno di divorzio censurato dal ricorrente, è fondato, previa valutazione comparativa della situazione economico-patrimoniale e reddituale degli ex coniugi, sull’accertamento del tenore di vita godibile da essi in corso di matrimonio, ovvero sulle potenzialità economiche complessive, individuandosi l’avente diritto nell’ex coniuge che ha una condizione deteriore e che, conseguentemente ha diritto a rimuovere tendenzialmente lo squilibrio verificatosi per effetto del divorzio. Tale parametro opera in funzione dell’attribuzione dell’assegno mentre i criteri indicati dall’art. 5, comma 6 operano in chiave correttiva/riduttiva del suo ammontare.
Tale assetto nomofilattico della norma è, stato, tuttavia, superato dall’arresto delle sezioni unite n. 18287 del 2018, così massimato: Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
L’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge richiedente e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive non può fondarsi sul parametro, estraneo agli indicatori contenuti nella norma, del tenore di vita potenziale, ancorché assunto come limite massimo, ma deve essere tratto dagli espliciti criteri contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6, ed in particolare dal concreto atteggiarsi dei ruoli endofamiliari nel corso del matrimonio e dall’incidenza del contributo fornito per la conduzione della vita familiare, per la formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge, riconoscendosi all’assegno una funzione in misura pariordinata e concorrente assistenziale, perequativa e compensativa. La comparazione tra le situazioni economico-patrimoniali e reddituali delle parti non costituisce, di conseguenza, come nel pregresso orientamento fondato sul parametro del tenore di vita, il fattore primario dell’attribuzione dell’assegno di divorzio, ben potendo non operare più come elemento determinante in funzione dell’accertamento del diritto, ove gli altri indicatori (la durata, l’età, le ragioni della decisione) ed in particolare la concreta conduzione della vita familiare conducano a ritenere che lo squilibrio fotografato dal quadro comparativo economico-patrimoniale e reddituale non sia stato determinato o favorito dalle scelte comuni cui è stata improntata la vita familiare, da accertarsi anche presuntivamente sulla base del suo effettivo svolgersi, in relazione ai tempi ed ai modi con i quali il contributo degli ex coniugi si è manifestato. Deve, tuttavia, precisarsi, che, secondo il nuovo parametro integrato, anche ove si accerti che lo squilibrio determinatosi con lo scioglimento del vincolo non sia determinato o non sia stato accentuato o favorito dai fattori sopraindicati, perché fondato su un condizione di preminenza economico-patrimoniale di partenza rimasta immutata, è necessario verificare, se vi sia stato da parte dell’ex coniuge richiedente che abbia svolto un ruolo preminente nella conduzione della vita familiare, un sacrificio delle proprie aspettative professionali e lavorative potendo in tale ipotesi, la contribuzione dell’altro coniuge operare in funzione compensativa, sia in relazione alle potenzialità reddituali ed economiche perdute che all’impossibilità di recuperare il tempo impiegato all’interno del nucleo familiare, in chiave di ripristino della personale capacità professionale e reddituale. Possono, infine, verificarsi situazioni concrete rispetto alle quali risulti indifferente lo squilibrio economico-patrimoniale e reddituale tra gli ex coniugi conseguente allo scioglimento del vincolo ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio. Ciò può accadere quando, in sede separativa, vi sia stata una definizione dei rapporti economico patrimoniali che abbia anche tenuto conto degli effetti pregiudizievoli della cessazione del rapporto sulla sfera economico patrimoniale di quello degli ex coniugi che abbia svolto un ruolo preminente nella conduzione della vita familiare, ovvero quando la funzione perequativa e compensativa dell’assegno sia stata preventivamente soddisfatta dalle attribuzioni eseguite da uno dei coniugi nei confronti dell’altro prima dello scioglimento del vincolo (Cass. 21926 del 2019). Si possono, inoltre, rilevare situazioni concrete nelle quali non possono trovare ingresso gli indicatori normativi che concorrono all’attribuzione dell’assegno, in ragione della limitata durata del vincolo o dell’età del richiedente, ancora adeguata all’ingresso nel mercato del lavoro e/o (questa ipotesi statisticamente risulta ancora la meno frequente) del mancato svolgimento di un ruolo determinante o concorrente nella conduzione della vita familiare.
I nuovi criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, in conclusione, non risultano condizionati dall’accertamento del tenore di vita godibile durante il matrimonio, operando lo squilibrio economico patrimoniale (elemento fattuale che non può confondersi con il tenore di vita che costituisce il frutto di un giudizio) esclusivamente come una precondizione fattuale, il cui accertamento risulta imposto dallaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, per potere procedere all’applicazione dei parametri integrati indicati dalle Sezioni Unite in funzione della finalità composita dell’assegno di divorzio. Come già osservato in Cass. 21926 del 2019, infatti, una condizione economico-patrimoniale e reddituale paritaria che non risulti influenzata, positivamente o negativamente dalle scelte di conduzione della vita familiare cristallizzate nel concreto atteggiarsi dei ruoli dei coniugi al suo interno, porta ad escludere il riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio, così come condizioni di agiatezza particolarmente elevate.
In conclusione, il motivo merita di essere accolto dal momento che la Corte d’Appello ha fondato il proprio accertamento relativo all’attribuzione dell’assegno di divorzio esclusivamente sul superato criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio, senza verificare l’incidenza in concreto degli indicatori, provenienti dall’art. 5, comma 6, comma 1, così come declinati nella pronuncia delle S.U. n. 18287 del 2018.
Al riguardo, deve rilevarsi che questa Corte ha stabilito proprio in relazione al novum espresso dalle S.U. con la pronuncia sopraindicata che “La cassazione della pronuncia impugnata con rinvio per un vizio di violazione o falsa applicazione di legge che reimposti in virtù di un nuovo orientamento interpretativo i termini giuridici della controversia così da richiedere l’accertamento di fatti, intesi in senso storico e normativo, non trattati dalle parti e non esaminati dal giudice del merito, impone, perché si possa dispiegare effettivamente il diritto di difesa, che le parti siano rimesse nei poteri di allegazione e prova conseguenti alle esigenze istruttorie conseguenti al nuovo principio di diritto da applicare in sede di giudizio di rinvio”. (Cass. 11178 del 2019).
La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione perchè si adegui a principi illustrati e provveda sulle spese processuali del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione perché provveda anche sulle spese processuali del presente giudizio.
In caso di diffusione omettere le generalità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2019