Separazione: l’obbligo di pagare l’IMU ricade sul coniuge assegnatario anche se l’immobile è di proprietà di terzi

Commissione tributaria regionale Bologna, 10 Gennaio 2020. Pres. Mainini. Est. Morlini.
Fatto
I fatti rilevanti ai fini della decisione sono i seguenti, pacifici tra le parti e comunque provati per tabulas:
F. E. ha concesso in comodato gratuito al figlio M. M. un immobile allo scopo di destinarlo ad abitazione coniugale in vista del matrimonio del figlio stesso con A. A.;
l’immobile è stato effettivamente destinato ad abitazione coniugale da M. M. ed A. A. sino alla loro separazione del 2006;
in sede di separazione l’immobile è stato dal Tribunale assegnato ad A. A.;
la Angioni ha così successivamente iniziato a corrispondere al Comune di Forlì le somme richieste a titolo di IMU;
a partire dall’anno di imposta 2012 e disattendendo la posizione inizialmente assunta dal MEF anche con apposite circolari, il Comune ha però richiesto il pagamento dell’IMU anche alla proprietaria E. (senza peraltro pretendere interessi e sanzioni, in ragione della precedente diversa posizione dell’Ufficio, e decurtando le somme corrisposte dalla Angioni), e detta richiesta di pagamento è stata formulata anche per il 2013 ed il 2014.
Ciò posto, F. E. ha impugnato avanti alla CTP di Forlì gli avvisi di accertamento IMU con riferimento agli anni 2012-2014, eccependo che la richiesta di pagamento era in contrasto con il dettato dell’articolo 4 comma 12 quinques D.L. n. 16/2012 conv. in L. n. 44/2012, così come peraltro almeno inizialmente interpretato dallo stesso Ufficio.
La CTP, aderendo alle difese del Comune, ha rigettato il ricorso, argomentando che la norma in questione, avendo natura eccezionale e di deroga ai principi generali, deve essere interpretata in modo letterale e non estensivo; e quindi, in base al suo dettato letterale, deve ritenersi che essa attribuisca la soggettività passiva IMU al (solo) coniuge assegnatario dell’immobile a seguito di separazione, laddove sia l’altro coniuge ad essere proprietario o comproprietario; ma laddove, come nel caso che qui occupa, il coniuge non assegnatario non sia titolare di un diritto reale sull’immobile, non può essere esclusa la soggettività passiva IMU anche del proprietario che sia comodante e soggetto terzo rispetto alla separazione.
Avverso la sentenza di primo grado ha interposto appello F. E., ribadendo la propria tesi in ordine al fatto che, in base all’articolo 4 comma 12 quinques D.L. n. 16/2012, unico soggetto passivo ai fini IMU deve ritenersi il coniuge assegnatario dell’immobile, indipendentemente da ogni considerazione in ordine al fatto che proprietario sia l’altro coniuge od un terzo.
Costituendosi in giudizio, ha resistito il Comune di Forlì, sul presupposto della correttezza della sentenza di primo grado.
La controversia è stata discussa in pubblica udienza, così come da richiesta dell’appellante.

Diritto
a) Come esposto in parte narrativa, oggetto di causa è la pretesa impositiva del Comune di Forlì concernente un immobile di proprietà della signora E., concesso in comodato gratuito al figlio perché ne facesse la casa coniugale, ma, a seguito della separazione del figlio stesso, assegnato dal Tribunale alla moglie.
Ciò posto, l’appellante ritiene che, sulla base del disposto normativo di cui all’articolo 4 comma 12 quinques D.L. n. 16/2012, e così come peraltro inizialmente ritenuto anche da circolari del MEF, debba ritenersi la esclusiva soggettività passiva ai fini IMU del coniuge separato assegnatario; mentre la sentenza di primo grado ritiene che la norma stessa si applichi solo al caso in cui sia l’altro coniuge non assegnatario ad essere proprietario o comproprietario, non anche al caso in cui proprietario sia un terzo, e ritiene che la norma non possa essere oggetto di applicazione analogica od estensiva.
Tanto premesso, la ricostruzione giuridica effettuata dalla sentenza di primo grado, pur se accuratamente motivata, non può essere condivisa.
Si osserva in proposito che la disposizione normativa in questione recita che “ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale… l’assegnazione della casa coniugale al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione”.
Pertanto, il legislatore ha specificamente disciplinato il presupposto impositivo nell’ipotesi di scioglimento del vincolo coniugale, prevedendo che, ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale sugli immobili, è soggetto passivo del tributo il coniuge a cui viene assegnata la casa coniugale con provvedimento giurisdizionale.
Né può essere accolto il rilievo della CTP secondo il quale, alla luce del tenore letterale della norma, la soggettività passiva del coniuge assegnatario si verificherebbe solo laddove proprietario o comproprietario fosse l’altro coniuge: è infatti facile replicare che detta limitazione non è in alcun modo evincibile sulla base della piana analisi esegetica del testo normativo.
Detto quindi che il tenore letterale della norma non giustifica l’interpretazione restrittiva fornita dalla sentenza qui impugnata, va in ogni caso e comunque evidenziato che non può essere condiviso neppure il successivo snodo argomentativo, e cioè che la norma non può essere oggetto di un’interpretazione estensiva in quanto avente natura eccezionale, essendo tale conclusione risultata espressamente disattesa dalla recente pronuncia di Cass. n. 11416/2019.
Infatti, la Corte di Cassazione, con insegnamento del tutto persuasivo e dal quale non vi è motivo di discostarsi, ha innanzitutto spiegato che “il presupposto per l’applicazione dell’IMU è il medesimo di quello previsto dall’ICI”, id est “il possesso di immobili di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504”; e che è “necessario che il rapporto che lega il soggetto all’immobile sia qualificato, riconducibile, quindi, alla proprietà, all’usufrutto o ad altro diritto reale di godimento, o ad un’altra situazione giuridica specificatamente stabilita dalla legge come nel caso di locazione finanziarie o concessione di beni demaniali”.
In particolare, con riferimento al caso che qui occupa, “il legislatore ha specificamente disciplinato il presupposto impositivo nell’ipotesi di scioglimento del vincolo matrimoniale, prevedendo che, ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale sugli immobili, è soggetto passivo del tributo il coniuge a cui viene assegnata la casa coniugale con provvedimento giurisdizionale”; ed in tal modo, “il legislatore ha sancito la traslazione della soggettività passiva dell’IMU dal proprietario all’assegnatario dell’alloggio, cosicché l’imposizione ricade in capo all’utilizzatore” (sottolineatura aggiunta).
Ciò posto, la Corte non solo non ha rinvenuto dei limiti operativi della norma nel caso di assegnazione a uno dei coniugi a seguito di separazione legale, e quindi non ha ritenuto che essa s’applica solo alla situazione in cui comproprietario o proprietario sia il coniuge non assegnatario; ma ha addirittura chiarito che detta norma deve essere “interpretata estensivamente”, includendo nel relativo ambito di applicazione anche le ipotesi riconducibili ad una eadem ratio, e per tali motivi ha concluso nel senso dell’applicabilità anche alle famiglie di fatto.
L’interpretazione estensiva è possibile perché, diversamente da quanto argomentato dalla pronuncia di primo grado, “non trattandosi di norma tributaria disciplinante un’ipotesi di agevolazione o di esenzione, ovvero di norma speciale, non vale per la stessa il divieto di interpretazione analogica nonché di interpretazione estensiva ai sensi dell’art.14 delle disposizioni preliminari del cod. civ.” (sottolineatura aggiunta).
Pertanto ed in conclusione, deve ritenersi che l’interpretazione restrittiva dell’articolo 4 comma 12 quinques D.L. n. 16/20121 seguita dalla sentenza di primo grado, per un verso non sia conforme al contenuto letterale della norma, e per altro verso non sia comunque conforme al canone interpretativo della possibilità di interpretazione estensiva della norma stessa.
b) In ragione di tutto quanto sopra, l’appello va accolto, con conseguente annullamento degli atti originariamente impugnati in primo grado.
Le spese di lite del grado di giudizio vanno integralmente compensate ex art. 15 D.Lgs. n. 546/1992, dovendosi rinvenire le “gravi ed eccezionali ragioni” sia nell’assoluta novità della vicenda trattata, sia nell’oggettiva opinabilità della complessa questione in diritto affrontata.
P.Q.M.
la Commissione Tributaria Regionale di Bologna sez. XI
in accoglimento dell’appello, annulla gli atti originariamente impugnati;
compensa le spese di lite del doppio grado di giudizio.

Le pertinenze della casa coniugale. A chi spetta provarlo?

Cass. civ., sez. VI, ordinanza 14 gennaio 2020, n. 510 – Pres. Genovese., Rel. Pazzi
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12407-2018 proposto da:
C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL VIMINALE 43, presso lo studio dell’avvocato
ETTORE MARIA CERASA, rappresentato e difeso dall’avvocato ADALBERTO PALESTINI;
(Ammesso P.S.S. delibera 30/4/2018 Ord. avv. Ancona);
– Ricorrente –
contro
T.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO CIVININI 12, presso lo studio
dell’avvocato LUCA SPINGARDI, rappresentata e difesa dall’avvocato IVANA CARDOLA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 154/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata l’08/02/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/10/2019 dal
Consigliere Relatore Dott. ALBERTO PAZZI.
Svolgimento del processo
che:
l. il Tribunale di Fermo, del dichiarare lo scioglimento del matrimonio contratto fra T.F. e C.G.,
disponeva, fra l’altro, l’assegnazione alla T. della casa coniugale unitamente alle sue pertinenze,
costituite dai locali posti al piano seminterrato dello stabile;
2. la Corte d’appello di Ancona rigettava l’impugnazione proposta dal C. relativamente al solo capo
della sentenza che disponeva l’assegnazione a favore dell’ex coniuge, oltre che dell’appartamento già
destinato ad abitazione coniugale, anche dell’intera porzione sita al piano interrato dello stabile
abitato dai coniugi;
a questo proposito la corte distrettuale ribadiva l’esistenza di un rapporto pertinenziale fra l’ex
domicilio coniugale e tutti i locali posti al piano interrato, tenuto conto del vincolo di
complementarietà funzionale esistente fra le distinte porzioni immobiliari, in presenza di una scala
interna di collegamento, e della finalizzazione dei vani sottostanti all’utilità del superiore
appartamento;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso C.G. prospettando due motivi di doglianza,
ai quali ha resistito con controricorso T.F.;
parte controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
Motivi della decisione
che:
4.1 il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la
violazione e falsa applicazione dell’art. 817 c.c. e art. 115 c.p.c., con riferimento a un errore di
percezione su una prova decisiva: la corte territoriale, nel ravvisare il requisito oggettivo della
contiguità fra l’appartamento coniugale e i locali interrati dall’esame della planimetria
dell’immobile, sarebbe incorsa in un errore di percezione nell’individuare il contenuto oggettivo
della prova, poichè da tale documento si evinceva chiaramente che solo alcuni dei locali (vale a dire
la cantina/disimpegno censita al subalterno 12 e il garage distinto al subalterno 10) posti al piano
interrato erano contigui alla casa coniugale, mentre gli altri erano separati dalla stessa, per la
presenza di muri divisori con gli altri ambienti e di un accesso esterno, distinto e autonomo;
4.2 il motivo è inammissibile;
la corte territoriale, nel valutare la sussistenza di un vincolo pertinenziale fra casa coniugale e tutti i
vani posti al piano sottostante, ha ravvisato la prova del requisito oggettivo della contiguità all’esito
dell’esame della planimetria presente in atti, che a suo dire attestava tanto la posizione subordinata
dei locali posti al piano interrato, quanto la loro diretta accessibilità mediante una scala di
collegamento interno, potendosi così ritenere che questi ultimi fossero posti al servizio
dell’appartamento sovrastante;
e la percezione di questa diretta e completa accessibilità sarebbe, in tesi di parte ricorrente, erronea
e censurabile in questa sede ex art. 115 c.p.c.;
in effetti la giurisprudenza di questa corte ha ritenuto che mentre l’errore di valutazione in cui sia
incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa,
o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di
percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una
circostanza che abbia formato oggetto di discussione tra le parti (e non un fatto incontroverso, in
quanto in tal caso la censura deve essere promossa ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4), è sindacabile ai
sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 115 del codice cit., norma che vieta
di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass.
9356/2017, Cass. 27033/2018);
la prospettazione dell’odierno ricorrente non è tuttavia sussumibile in questo principio, a giudizio di
questo collegio;
il contenuto della planimetria prodotta dal ricorrente mostra infatti che la scala che conduce
dall’appartamento al piano sottostante giunge a un disimpegno con accesso diretto a una cantina e a
uno dei tre garage, attraverso il quale però, in mancanza di ostacoli di sorta, è possibile accedere a
tutti i locali posti al piano interrato;
nessun errore di percezione può quindi essere predicato, dato che il documento non mostra ostacoli
che impediscano in senso assoluto di raggiungere, dal piede della scala di collegamento interno,
direttamente o indirettamente (vale a dire tramite il passaggio attraverso il primo garage) tutti i
locali posti al piano sottostante;
si tratta pertanto di un apprezzamento in termini di contiguità con l’appartamento sovrastante di uno
stato dei luoghi in cui sono presenti più locali oggettivamente collegati fra loro e con accesso anche
dall’esterno;
una simile valutazione non valorizza affatto elementi immaginari e rientra invece nell’attività di
valutazione delle prove, attraverso la ricostruzione del loro valore dimostrativo, che è insindacabile
in questa sede di legittimità;
5.1 il secondo mezzo lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa
applicazione dell’art. 2697 c.c., in merito all’assoluzione dell’onere della prova, con conseguente
violazione dell’art. 115 c.p.c.: la corte territoriale avrebbe assegnato tutti i locali del piano interrato
alla T. nonostante quest’ultima non avesse mai indicato quali fossero i beni da identificarsi come
pertinenza nè avesse dimostrato se gli stessi fossero a servizio od ornamento della casa coniugale,
venendo meno così all’obbligo di dare prova dei presupposti in fatto del diritto che intendeva far
valere; oltre a ciò la corte distrettuale avrebbe malamente applicato il principio di non contestazione
previsto dall’art. 115 c.p.c., che non poteva operare in presenza di una allegazione non specifica dei
fatti posti a fondamento della domanda;
5.2 la doglianza è inammissibile;
la corte territoriale, dopo aver ricordato che la “relazione pertinenziale tra due cose determina
automaticamente l’estensione alla pertinenza degli atti o rapporti giuridici aventi ad oggetto la cosa
principale, salvo che il rapporto strumentale sia cessato anteriormente all’atto concernente la cosa
principale” ha rilevato che “l’anzidetto automatismo presuntivo sussistente tra bene principale e
bene accessorio non poteva dirsi specificamente e compiutamente interrotto dalla contestazione,
peraltro generica, operata dal comproprietario, che non ha fornito la prova di esclusione del vincolo
pertinenziale o, quanto meno, di una concreta differente destinazione dei beni accessori”;
in questo modo la corte territoriale ha inteso sostenere, una volta ritenuta accertata la natura
pertinenziale dei beni al piano interrato nel senso indicato dalla T. in ragione della loro consistenza
in natura, che era onere dell’appellante dimostrare la cessazione del vincolo pertinenziale onde
evitare l’operare dell’automatismo previsto dall’art. 818 c.c., comma 1, secondo cui la pertinenza
rimane soggetta agli effetti degli atti e dei rapporti giuridici che riguardano la cosa principale;
la corte distrettuale perciò non ha inteso riferirsi alle regole preposte alla dimostrazione
dell’esistenza del vincolo pertinenziale, ma, accertato lo stesso come esistente, ha attribuito
all’appellante, in applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, l’onere probatorio correlato all’eccezione
di non operatività dell’automatismo previsto dall’art. 818 c.c.;
la doglianza in esame non coglie nè critica la ratio decidendi del punto della decisione impugnato,
soffermandosi sulla disciplina dell’onere probatorio relativo a una questione diversa da quella presa
in esame dalla corte di merito, e risulta così inammissibile, dato che il ricorso per cassazione deve
giocoforza contestare in maniera specifica le ragioni poste a fondamento della pronuncia impugnata
(Cass. 19989/2017);
6. in forza dei motivi sopra illustrati il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile;
le spese – da pagarsi a favore dello Stato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 133, in conseguenza
dell’ammissione al patrocinio a spese dell’erario della parte risultata vittoriosa – seguono la
soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento – da eseguirsi a
favore dello Stato D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 133 – delle spese del giudizio di
cassazione, che liquida in Euro 3.100, di cui Euro 100 per esborsi, oltre accessori come per legge e
contributo spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24
dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a
quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi
a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2020

La voltura catastale implica accettazione di eredità

Cass. civ., Sez. VI – 2, Ord., 22 gennaio 2020, n. 1438
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28792-2018 proposto da:
B.G.B., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ALBERTO ANTONUCCI;
– ricorrente –
contro
UNICREDIT SPA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,
VIALE AMERICA 93, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA CRIVELLARI, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO BETTIN;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1232/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 29/06/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/09/2019 dal
Consigliere Relatore Dott. TEDESCO GIUSEPPE.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza emessa dal giudice di primo grado, il quale,
su domanda di Unicredit creditrice di D.I., deceduta il (OMISSIS), aveva accertato che il convenuto
B.G.B., successibile ex lege in qualità di figlio della de cuius, aveva compiuto atti che importavano
accettazione dell’eredità materna.
La corte d’appello ha innanzitutto condiviso la valutazione del primo giudice circa la concludenza,
agli effetti dell’accettazione tacita, della voltura catastale riferita a immobili compresi nell’eredità.
Essa, al fine di avvalorare ulteriormente le conclusioni, ha aggiunto che il B., a far tempo
dall’apertura della successione, possedeva l’alloggio caduto in successione in Torino, via
(OMISSIS), avendovi trasferito in questo la propria dimora abituale e sostenuto gli oneri
condominiali.
Per la cassazione della sentenza B.G.B. ha proposto ricorso, affidato a un unico complesso motivo,
con il quale censura, per un verso, l’assunto, fatto proprio dalla corte d’appello, secondo cui la
voltura catastale di un immobile ereditario costituisce atto di accettazione tacita dell’eredità, per
altro verso, la ricostruzione dei fatti proposta con la sentenza in ordine all’immissione in possesso,
al pagamento degli oneri condominiali e al trasferimento della residenza anagrafica.
Unicredit S.p.A. ha resistito con controricorso.
Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere rigettato per manifesta
infondatezza del ricorso, con la conseguente possibilità di definizione nelle forme di cui all’art. 380-
bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della
camera di consiglio.
La controricorrente ha depositato memoria.
Il ricorso è infondato.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte “L’accettazione tacita di eredità, che si ha
quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone la sua volontà di accettare e che non
avrebbe diritto di compiere se non nella qualità di erede, può essere desunta anche dal
comportamento del chiamato, che abbia posto in essere una serie di atti incompatibili con la
volontà di rinunciare o che siano concludenti e significativi della volontà di accettare; ne consegue
che, mentre sono inidonei allo scopo gli atti di natura meramente fiscale, come la denuncia di
successione, l’accettazione tacita può essere desunta dal compimento di atti che siano al contempo
fiscali e civili, come la voltura catastale, che rileva non solo dal punto di vista tributario, ma anche
da quello civile” (Cass. n. 22317/2014; n. 10796/2009; n. 5226/2002; n. 7075/1999).
D’altronde “l’indagine relativa alla esistenza o meno di un comportamento qualificabile in termini
di accettazione tacita, risolvendosi in un accertamento di fatto, va condotta dal giudice di merito
caso per caso (in considerazione delle peculiarità di ogni singola fattispecie, e tenendo conto di
molteplici fattori, tra cui quelli della natura e dell’importanza, oltrechè della finalità, degli atti di
gestione), e non è censurabile in sede di legittimità, purchè la relativa motivazione risulti immune
da vizi logici o da errori di diritto” (Cass. n. 12753/1999).
A questo proposito si deve aggiungere che la corte di merito non ha fatto discendere l’esistenza di
una tacita accettazione di eredità dall’avvenuta voltura catastale, ma ha considerato l’adempimento
nel complesso delle circostanze di causa. In particolare essa ha posto l’accento sul fatto che il
chiamato viveva nell’immobile e aveva pagato gli oneri condominiali.
In verità il ricorrente nega l’avvenuto pagamento degli oneri condominiali, ma in questo senso la
censura si dirige contro la ricostruzione in fatto della corte d’appello, che in proposito, richiamando
i documenti prodotti da Unicredit, ha analiticamente indicato in pagamenti compiuti.
Al riguardo il ricorrente richiama un diverso documento contenente la diffida ad adempiere da parte
condominio.
In questi termini però, in disparte il fatto che non si descrive il contenuto del diverso documento, è
agevole il rilievo che, di per sè, l’esistenza della diffida non contraddice il pagamento degli oneri
assunto dalla corte di merito.
In quanto al fatto che egli non avrebbe trasferito la propria residenza nell’immobile dopo la morte
della madre, ma già vi risiedeva e vi abitava in precedenza, la circostanza non solo non contraddice
minimamente i rilievi della corte d’appello in ordine al possesso del bene, ma li conferma, non
essendo rilevante, nell’ambito della ricostruzione della corte, che il chiamato già abitasse
nell’immobile e non ne avesse acquisito il possesso in un secondo tempo. A un attento esame i
rilievi della corte in ordine al possesso introducono una circostanza idonea a configurare l’acquisto
dell’eredità da parte del B. non in dipendenza di una tacita accettazione, ma ex lege ai sensi dell’art.
485 c.c. (Cass. n. 11018/2008; n. 16507/2006; n. 4845/2003), essendo incontroverso che il possesso
si è protratto per oltre tre mesi dalla morte senza che il chiamato abbia fatto l’inventario ed essendo
altresì incontroverso che egli avesse consapevolezza sia della devoluzione dell’eredità, sia che il
bene posseduto apparteneva all’eredità medesima (cfr. Cass. n. 2911/1998).
Invero l’art. 485 c.c. si riferisce letteralmente proprio al caso che il chiamato sia già nel possesso dei
beni ereditari a qualsiasi titolo (Cass. n. 6167/2019), senza che ciò voglia dire che, a questi effetti,
sia insignificante il possesso acquisito successivamente. Nel concorso delle condizioni previste
dalla norma l’acquisto ex lege opererebbe ugualmente, ma il trimestre accordato per il compimento
dell’inventario decorrerebbe non dalla apertura della successione, ma dal momento di inizio del
possesso.
Insomma la valutazione della corte è immune da censure, da qualsiasi profilo si consideri la
vicenda.
Il ricorso, pertanto, va rigettato, con addebito di spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se
dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese
del giudizio di legittimità, che liquida in 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella
misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n.
115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di
cassazione, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2020

Individuazione del genitore più idoneo all’affidamento del figlio minore

Cassazione civile, sez. VI, 04 Novembre 2019, n. 28244. Pres. Genovese. Est. Loredana Nazzicone.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 360-2018 proposto da:
S.L., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato G. P.;
– ricorrente –
contro
F.A.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 144/2017 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 26/05/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LOREDANA NAZZICONE.
Svolgimento del processo
– che è stato proposto ricorso, sulla base di tre motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Trento n. 144 del 26 maggio 2017, la quale ha confermato la decisione di primo grado, che aveva disposto l’affido esclusivo alla madre delle due figlie minori e quantificato il contributo dovuto dall’odierno ricorrente per il mantenimento di ciascuna in Euro 350,00 mensili;
– che non svolge difese l’intimata;
– che è stata formulata la proposta per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., avverso cui non sono stati espressi rilievi.

Motivi della decisione
– che i motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 337-quater c.c., comma 1, poichè il giudice di secondo grado ha disposto l’affidamento esclusivo delle minori operando un giudizio prognostico sul comportamento dell’odierno ricorrente disancorato da basi solide;
2) nullità della sentenza per assenza di motivazione circa le ragioni che hanno condotto la corte di merito a ritenere che le minori non avrebbero tratto beneficio dal perdurare della relazione con il padre, disponendo, dunque, l’affido esclusivo alla madre;
3) omesso esame di un fatto decisivo, non avendo il giudice di secondo grado considerato le dichiarazioni delle figlie minori dalle quali era emersa l’importanza della figura paterna nelle scelte relative la loro vita;
– che i tre motivi sono inammissibili;
– che la decisione censurata risulta conforme ai principi enunciati da questa Corte, secondo cui “in materia di affidamento dei figli minori, il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio fondamentale (…) rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore. L’individuazione di tale genitore deve essere fatta sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione di genitore singolo, giudizio che, ancorandosi ad elementi concreti, potrà fondarsi sulle modalità con cui il medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riguardo alla sua capacità di relazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonchè sull’apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente che è in grado di offrire al minore. La questione dell’affidamento della prole è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito, il quale deve avere come parametro di riferimento l’interesse del minore e, ove dia sufficientemente conto delle ragioni della decisione adottata, esprime un apprezzamento di fatto non suscettibile di censura in sede di legittimità” (Cass. 14840/2006);
– che, nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dalla parte ricorrente, dalla motivazione della decisione gravata si evincono agevolmente le ragioni che hanno indotto il giudice di merito a statuire circa l’affido esclusivo delle minori alla madre (trasferimento in regione diversa e distante da quella di residenza delle minori; mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento; scarsa partecipazione alle scelte inerenti le vite delle figlie; trascuratezza dei propri doveri genitoriali) e dalla stessa, ancora, è agevole riscontrare l’effettiva ponderazione e valutazione, ad opera del giudice, delle dichiarazioni rilasciate dalle figlie il cui esame, pertanto, non può di certo definirsi omesso;
– che, in definitiva, i motivi di ricorso risultano essere intesi tutti a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo del ricorrente e, in particolare, a “proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, ma tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionale valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice” (Cass. 18039/2012), il quale, essendo nel caso di specie compiutamente motivato, non è in questa sede censurabile;
– che, dunque, il ricorso è inammissibile;
– che non occorre provvedere sulle spese.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
In caso di diffusione del presente provvedimento, sono omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma dell’art. 53 D.Lgs. n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

Assegno di divorzio fondato sul criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio

Cassazione civile, sez. I, 11 Dicembre 2019, n. 32398. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Maria Acierno.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 29219/2016 proposto da: c. C.M., elettivamente domiciliato in Roma, *, presso lo studio dell’avvocato P. F., che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato P. S., giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
M.A., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato C. G. B., giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 371/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 13/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2019 dal cons. Dott. ACIERNO MARIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO IMMACOLATA, che ha concluso per il rigetto con diversa motivazione della sentenza, in subordine accoglimento ed esame nel merito, con rigetto dell’istanza di C.M.;
udito, per il ricorrente, l’avvocato A. S., con delega, che si è riportato agli atti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La corte d’Appello di Trieste ha confermato l’attribuzione e la determinazione dell’assegno divorzile, posto a carico di C.M. ed in favore di M.A., nella misura di Euro 2.000 mensili, così come stabilito dal giudice di primo grado. A sostegno della decisione ha affermato che la beneficiaria ha sessanta anni ed è invalida al 60%. E’ proprietaria di una casa di abitazione dove vive che, conseguentemente, non è produttiva di reddito. L’obbligato ha, invece, ottime capacità patrimoniali costituite da cespiti immobiliari e titoli non paragonabili ai modesti risparmi e al patrimonio immobiliare dell’ex moglie. Il reddito dell’obbligato è di circa 90.000 Euro l’anno. L’assegno viene disposto in relazione al tenore di vita goduto durante il matrimonio grazie alle disponibilità del C. rispetto al quale le deduzioni relative all’inerzia della M. nel reperire attività lavorativa dopo la conclusione del matrimonio non assumono rilievo mentre le altre allegazioni incidono sulla determinazione ma non sull’attribuzione.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione C.M.. Ha resistito con controricorso M.A.. La parte ricorrente ha depositato memoria per l’udienza camerale, ove era fissata originariamente la trattazione del ricorso. Il Collegio, tuttavia, in relazione ai mutamenti giurisprudenziali in tema di assegno di divorzio, ha rimesso la causa alla pubblica udienza.
Nel primo motivo, integrato dalle osservazioni contenute nella memoria, è stata dedotta la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per l’illegittima applicazione del criterio di attribuzione dell’assegno di vita individuato nel tenore di vita goduto nel matrimonio e per la determinazione di esso in relazione alla durata del vincolo, senza tenere nel debito conto la deliberata mancata attivazione della controricorrente nella ricerca di una nuova attività lavorativa dopo essersi volontariamente dimessa dall’ottima posizione ricoperta in precedenza culminata nel non aver accettato la proposta di lavoro formulata dalla s.p.a. C. con la previsione di uno stipendio di oltre 20.000 Euro netti annui. Ad integrazione del ricorso, nella memoria viene contestata in radice l’applicabilità del predetto criterio essendo intervenuta medio tempore la sentenza n. 17504 del 2017 che ha ancorato l’attribuzione dell’assegno divorzile all’accertamento della non autosufficienza economica della richiedente.
Il criterio attributivo dell’assegno di divorzio censurato dal ricorrente, è fondato, previa valutazione comparativa della situazione economico-patrimoniale e reddituale degli ex coniugi, sull’accertamento del tenore di vita godibile da essi in corso di matrimonio, ovvero sulle potenzialità economiche complessive, individuandosi l’avente diritto nell’ex coniuge che ha una condizione deteriore e che, conseguentemente ha diritto a rimuovere tendenzialmente lo squilibrio verificatosi per effetto del divorzio. Tale parametro opera in funzione dell’attribuzione dell’assegno mentre i criteri indicati dall’art. 5, comma 6 operano in chiave correttiva/riduttiva del suo ammontare.
Tale assetto nomofilattico della norma è, stato, tuttavia, superato dall’arresto delle sezioni unite n. 18287 del 2018, così massimato: Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
L’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge richiedente e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive non può fondarsi sul parametro, estraneo agli indicatori contenuti nella norma, del tenore di vita potenziale, ancorchè assunto come limite massimo, ma deve essere tratto dagli espliciti criteri contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6, ed in particolare dal concreto atteggiarsi dei ruoli endofamiliari nel corso del matrimonio e dall’incidenza del contributo fornito per la conduzione della vita familiare, per la formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge, riconoscendosi all’assegno una funzione in misura pariordinata e concorrente assistenziale, perequativa e compensativa. La comparazione tra le situazioni economico-patrimoniali e reddituali delle parti non costituisce, di conseguenza, come nel pregresso orientamento fondato sul parametro del tenore di vita, il fattore primario dell’attribuzione dell’assegno di divorzio, ben potendo non operare più come elemento determinante in funzione dell’accertamento del diritto, ove gli altri indicatori (la durata, l’età, le ragioni della decisione) ed in particolare la concreta conduzione della vita familiare conducano a ritenere che lo squilibrio fotografato dal quadro comparativo economico-patrimoniale e reddituale non sia stato determinato o favorito dalle scelte comuni cui è stata improntata la vita familiare, da accertarsi anche presuntivamente sulla base del suo effettivo svolgersi, in relazione ai tempi ed ai modi con i quali il contributo degli ex coniugi si è manifestato. Deve, tuttavia, precisarsi, che, secondo il nuovo parametro integrato, anche ove si accerti che lo squilibrio determinatosi con lo scioglimento del vincolo non sia determinato o non sia stato accentuato o favorito dai fattori sopraindicati, perchè fondato su un condizione di preminenza economico-patrimoniale di partenza rimasta immutata, è necessario verificare, se vi sia stato da parte dell’ex coniuge richiedente che abbia svolto un ruolo preminente nella conduzione della vita familiare, un sacrificio delle proprie aspettative professionali e lavorative potendo in tale ipotesi, la contribuzione dell’altro coniuge operare in funzione compensativa, sia in relazione alle potenzialità reddituali ed economiche perdute che all’impossibilità di recuperare il tempo impiegato all’interno del nucleo familiare, in chiave di ripristino della personale capacità professionale e reddituale. Possono, infine, verificarsi situazioni concrete rispetto alle quali risulti indifferente lo squilibrio economico-patrimoniale e reddituale tra gli ex coniugi conseguente allo scioglimento del vincolo ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio. Ciò può accadere quando, in sede separativa, vi sia stata una definizione dei rapporti economico patrimoniali che abbia anche tenuto conto degli effetti pregiudizievoli della cessazione del rapporto sulla sfera economico patrimoniale di quello degli ex coniugi che abbia svolto un ruolo preminente nella conduzione della vita familiare, ovvero quando la funzione perequativa e compensativa dell’assegno sia stata preventivamente soddisfatta dalle attribuzioni eseguite da uno dei coniugi nei confronti dell’altro prima dello scioglimento del vincolo (Cass. 21926 del 2019). Si possono, inoltre, rilevare situazioni concrete nelle quali non possono trovare ingresso gli indicatori normativi che concorrono all’attribuzione dell’assegno, in ragione della limitata durata del vincolo o dell’età del richiedente, ancora adeguata all’ingresso nel mercato del lavoro e/o (questa ipotesi statisticamente risulta ancora la meno frequente) del mancato svolgimento di un ruolo determinante o concorrente nella conduzione della vita familiare.
I nuovi criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, in conclusione, non risultano condizionati dall’accertamento del tenore di vita godibile durante il matrimonio, operando lo squilibrio economico patrimoniale (elemento fattuale che non può confondersi con il tenore di vita che costituisce il frutto di un giudizio) esclusivamente come una precondizione fattuale, il cui accertamento risulta imposto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per potere procedere all’applicazione dei parametri integrati indicati dalle Sezioni Unite in funzione della finalità composita dell’assegno di divorzio. Come già osservato in Cass. 21926 del 2019, infatti, una condizione economico-patrimoniale e reddituale paritaria che non risulti influenzata, positivamente o negativamente dalle scelte di conduzione della vita familiare cristallizzate nel concreto atteggiarsi dei ruoli dei coniugi al suo interno, porta ad escludere il riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio, così come condizioni di agiatezza particolarmente elevate.
In conclusione, il motivo merita di essere accolto dal momento che la Corte d’Appello ha fondato il proprio accertamento relativo all’attribuzione dell’assegno di divorzio esclusivamente sul superato criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio, senza verificare l’incidenza in concreto degli indicatori, provenienti dall’art. 5, comma 6, comma 1, così come declinati nella pronuncia delle S.U. n. 18287 del 2018.
Al riguardo, deve rilevarsi che questa Corte ha stabilito proprio in relazione al novum espresso dalle S.U. con la pronuncia sopraindicata che “La cassazione della pronuncia impugnata con rinvio per un vizio di violazione o falsa applicazione di legge che reimposti in virtù di un nuovo orientamento interpretativo i termini giuridici della controversia così da richiedere l’accertamento di fatti, intesi in senso storico e normativo, non trattati dalle parti e non esaminati dal giudice del merito, impone, perchè si possa dispiegare effettivamente il diritto di difesa, che le parti siano rimesse nei poteri di allegazione e prova conseguenti alle esigenze istruttorie conseguenti al nuovo principio di diritto da applicare in sede di giudizio di rinvio”. (Cass. 11178 del 2019).
La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione perchè si adegui a principi illustrati e provveda sulle spese processuali del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione perchè provveda anche sulle spese processuali del presente giudizio.
In caso di diffusione omettere le generalità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2019

Adozione di minori: stato di adottabilità e situazione di abbandono

Cassazione civile, sez. I, 11 Dicembre 2019, n. 32412. Pres. Di Virgilio. Est. Iofrida.
Fatti
La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza n. 41/2018, depositata in data 4/10/2018, ha confermato la decisione di primo grado, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore A.B., nato a (omissis), dall’unione tra C.D. e cittadino di nazionalità inglese.
In particolare, i giudici d’appello, confermando le valutazioni espresse dal primo giudice, all’esito di consulenza tecnica neuropsichiatrica, hanno sostenuto che il minore, affetto da disturbo del linguaggio associato ad alterazioni del ritmo dovuto alla sua storia clinica (assunzione di farmaci da parte della madre durante il periodo di gravidanza, sofferenza perinatale, ritardo di acquisizione delle tappe di sviluppo psicomotorio), ma anche a fattori ambientali, in primis la situazione della madre, rischiava di essere privo di assistenza morale e materiale da parte di quest’ultima, vulnerabile ed affetta da una ormai “stratificata” incapacità di svolgere in maniera adeguata la funzione genitoriale, senza che fossero emersi progetti educativi genitoriali effettivi e concreti; peraltro, il minore, sin dalla collocazione nella casa-famiglia ed anche nel nuovo contesto famigliare in cui era stato inserito, aveva dimostrato un miglioramento generale; alla luce di tali considerazioni, non era neppure possibile accogliere la richiesta subordinata di ricovero di madre e figlio in un’apposita struttura.
Avverso la suddetta pronuncia, C.D. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti dell’Avv.to G.L., in qualità di tutore del minore A.B. (che resiste con controricorso) e di N.S. (nonno del minore, che non svolge attività difensiva). La ricorrente ha depositato memoria tardiva (in data 14/10/2019).
Ragioni della decisione
1. La ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983 sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo in relazione alla mancata valutazione del prioritario diritto del minore di vivere con i genitori e di essere cresciuto nell’ambito della famiglia d’origine, in una situazione in cui difettava lo stato di abbandono del minore, avendo la madre soltanto attraversato un difficile periodo, transitorio, di fragilità emotiva, “determinato dal violento allontanamento del piccolo R. in un periodo in cui Ella si trovava ad assistere la madre, gravemente malata, sino alla dipartita di essa”; 2) con il secondo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, della Convenzione di Strasburgo del 1996 e della Carta UE del 2000, per non avere la Corte di merito valutato l’interesse superiore del minore in rapporto al riscontro attuale e concreto della situazione in cui versava la N. con riguardo all’acquisizione della capacità genitoriale nel frattempo assunta dalla stessa; 3) con il terzo motivo, l’illogica e contraddittoria motivazione et3 motivazione apparente, ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di merito sempre ritenuto irreversibile lo stato di abbandono del minore, dando rilievo a fatti risalenti nel tempo ed omettendo di considerare le difficoltà fisiche della madre, che solo per motivi di salute (difficoltà di deambulazione) aveva disertato gli incontri con il figlio, attribuendo poi a tale condotta valenza di “aggravante”; 4) con il quarto motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo, rappresentato dallo strumento di intervento alternativo reiteratamente richiesto dalla madre (di collocamento presso un istituto insieme con il figlio).
2. La prima e a seconda censura sono inammissibili.
Questa Corte ha costantemente ribadito che il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve in primo luogo esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero, attraverso un percorso di crescita e sviluppo, delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento, in primo luogo, alla elaborazione, da parte dei genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta della responsabilità genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore, ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi, ed avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali (Cass. n. 14436/2017).
Il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, considerata l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dalla L. n. 184 del 1983, art. 1 ragione questa per cui il giudice di merito deve, prioritariamente, tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità (Cass. 22589/2017; Cass. 6137/2015).
Ne consegue che, per un verso, compito del servizio sociale incaricato non è solo quello di rilevare le insufficienze in atto del nucleo familiare, ma, soprattutto, di concorrere, con interventi di sostegno, a rimuoverle, ove possibile, e che, per altro verso, ricorre la “situazione di abbandono” sia in caso di rifiuto ostinato a collaborare con i servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la rescissione del legame familiare è l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva (Cass. 7115/2011).
Il giudizio sulla situazione di abbandono deve fondarsi su una valutazione quanto più possibile legata all’attualità, considerato il versante prognostico. Il parametro, che ci perviene anche dai principi elaborati dalla Corte di Strasburgo (cfr. in particolare la sentenza del 13/10/2015 – caso S.H. contro Italia), è divenuto un principio fermo anche nella giurisprudenza di legittimità, come può rilevarsi dalla pronuncia n. 24445 del 2015: “In tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori”.
Solo un’indagine sulla persistenza e non solo sulla preesistenza della situazione di abbandono, svolta sulla base di un giudizio attuale, in particolare quando vi siano indizi di modificazioni significative di comportamenti e di assunzione d’impegni e responsabilità da parte dei genitori biologici, può condurre ad una corretta valutazione del parametro contenuto nella L. n. 184 del 1983, art. 8 dovendosi tenere conto del diritto del minore a vivere nella propria famiglia di origine, così come indicato nell’art. 1 della L. n. 184 del 1983 (Cass. 22934/2017).
In particolare, la norma, anche alla luce della progressiva elaborazione compiuta dalla giurisprudenza di legittimità e dai principi introdotti dalla Corte Europea dei diritti umani, fissa rigorosamente il perimetro all’interno del quale deve essere verificata la sussistenza della condizione di abbandono. Si deve trattare di una situazione non derivante esclusivamente da condizioni di emarginazione socio economica (disponendo l’art. 1 che siano intraprese iniziative di sostegno nel tempo della famiglia di origine), fondata su un giudizio d’impossibilità morale o materiale caratterizzato da stabilità ed immodificabilità, quanto meno in un tempo compatibile con le esigenze di sviluppo psicofisico armonico ed adeguato del minore, non dovuta a forza maggiore o a un evento originario derivante da cause non imputabili ai genitori biologici (cfr. sentenza Cedu Akinnibuson contro Italia r~ del 16/7/2015), non determinata soltanto da comportamenti patologici ma dalla verifica del concreto pregiudizio per il minore (Cass. 7193 del 2016).
Da ultimo, questa Corte ha chiarito che “in tema di adozione di minori d’età, sussiste la situazione d’abbandono, non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriali, ma anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto, ossia in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità; ne consegue l’irrilevanza della mera espressione di volontà dei genitori di accudire il minore in assenza di concreti riscontri” (Cass. 4097/2018; conf. Cass. 26624/2018, in ordine alla irrilevanza della disponibilità, meramente dichiarata, a prendersi cura dei figli minori, che non si concretizzi in atti o comportamenti giudizialmente controllabili, tali da escludere la possibilità di un successivo abbandono).
In tema di accertamento dello stato di adottabilità, posto che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità costituisce solo una “soluzione estrema”, il giudice di merito deve dunque operare un giudizio prognostico teso, in primo luogo, a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, senza però che esse assumano valenza discriminatoria, sia a quelle psichiche, da valutarsi, se del caso, mediante specifica indagine peritale, estendendo detta verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali (Cass. 7559/2018).
Ora, la Corte d’Appello ha esaminato la capacità genitoriale della madre (non essendo in discussione l’assenza della figura paterna, che non ha riconosciuto il minore) ed ha formulato un giudizio negativo sulla capacità della stessa di recupero del rapporto genitoriale, sulla base di una serie di elementi comportamentali emersi da una complessa istruttoria (essenzialmente sulla base di una consulenza tecnica neuropsichiatrica e dall’audizione delle educatrici della casa-famiglia ove il minore è stato accolto).
Emerge che il minore al momento dell’ingresso nella casa-famiglia è stato trovato affetto da gravi difficoltà di linguaggio, segno inequivoco di un inidoneo sviluppo psico-fisico, dovute a molteplici fattori.
La madre, dal 2015, ha avuto solo sporadici incontri con il bambino, il quale ha difficoltà a riconoscerla nel ruolo di madre.
Non rileva la semplice volontà della madre di prendersi cura dei figli, in assenza di adeguati riscontri.
Questa Corte ha di recente affermato (Cass. 4097/2018) che “in tema di adozione di minori d’età, sussiste la situazione d’abbandono, non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriali, ma anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto, ossia in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità; ne consegue l’irrilevanza della mera espressione di volontà dei genitori di accudire il minore in assenza di concreti riscontri” (nella specie, questa Corte, confermando la sentenza di appello, ha ritenuto la persistenza di una situazione di abbandono, a fronte di un impegno, solo enunciato dai genitori, di rimuovere le problematiche esistenziali e di mutare lo stile di vita).
La sentenza di appello sviluppa adeguate e convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre, sull’impossibilità del recupero in tempi ragionevoli della situazione, spiegando dunque per quale ragione l’adozione, nella specie, costituirebbe l’unico strumento utile ad evitare ai minori un più grave pregiudizio ed ad assicurare loro assistenza e stabilità affettiva; risulta dunque effettuato un corretto giudizio prognostico volto a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, sia a quelle psichiche.
Quanto poi alle carenze in merito all’esclusione del rimedio alternativo costituito dal collocamento di madre e figlio presso una struttura di accoglienza, la Corte di merito ha motivatamente respinto la richiesta, ritenendola impraticabile alla luce dell’analisi compiuta sulla situazione di abbandono del minore.
3. I vizi di omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, articolati nel corpo del primo motivo, nel terzo e nel quarto motivo, sono inammissibili, avendo la Corte territoriale vagliato la situazione complessiva di madre e figlio e non essendo più censurabile il mero profilo di insufficienza motivazionale.
4. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Ricorrono giusti motivi, considerate tutte le peculiarità della controversia, per compensare integralmente tra le parti le spese processuali.
Essendo il procedimento esente, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Dichiara le spese del presente giudizio di legittimità integralmente compensate tra le parti.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.

Addebito al marito se abbandona la casa coniugale per assistere la madre malata

Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 23 gennaio 2020, n. 1448
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23278-2018 proposto da:
D.P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della
CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NUNZIATA TORRE,
ANTONINO LI CAUSI;
– ricorrente –
contro
C.A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della
CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CARMELA CURRO’;
– controricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO la CORTE di CASSAZIONE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 17/2018 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 16/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 26/11/2019 dal
Presidente Relatore Dott. MARIA GIOVANNA C. SAMBITO.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 16/1/2018, la Corte di Appello di Messina ha confermato la decisione con cui il
Tribunale di quella Città aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi D.P.A. ed C.A.G.,
con addebito al marito e rigetto la domanda di addebito a carico della moglie, ha confermato,
inoltre, la spettanza e l’ammontare dell’assegno in favore della stessa e l’ammontare dell’assegno di
mantenimento in favore delle figlie D.R. e D.E..
Avverso la succitata sentenza, che ha condannato il D. al pagamento delle spese processuali, lo
stesso propone ricorso per cassazione, con cinque motivi, successivamente illustrati da memoria, ai
quali C.A.G. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Coi primi due motivi, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 143 e 151
c.c., degli artt. 113 e 116 c.p.c., nonchè “motivazione per relationem” addebitando alla sentenza,
rispettivamente, di non aver riconosciuto l’addebito della separazione a carico della moglie e di
averlo riconosciuto a suo carico.
1.2. I motivi, che vanno congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono in parte infondati
ed in parte inammissibili.
1.3. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, al quale lo stesso ricorrente fa riferimento,
la sentenza di appello motivata per relationem a quella di primo grado va considerata nulla, quando
essa si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna
valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, e cioè quando la laconicità della motivazione
non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia
pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass. n.
20883 del 2019; n. 22022 del 2017; n. 20648 del 2015; n. 2268 del 2006). Il caso non ricorre nella
specie, in quanto la Corte messinese non si è limitata a condividere la valutazione del Tribunale, ma
ha specificamente argomentato che la prosecuzione della convivenza era ascrivibile alla condotta
del marito e non anche a quella della moglie, evidenziando che l’allontanamento dal domicilio
coniugale, da lui posto in essere, non era giustificato dall’esigenza di accudire la madre, nè da
precedenti motivi di incompatibilità, e ritenendo insussistenti violazioni dei doveri coniugali da
parte della moglie, e del pari insussistente la prova del nesso etiologico tra la frattura del rapporto
matrimoniale e la depressione della stessa.
1.4. Se la violazione dell’art. 113 c.p.c. che pone al giudice l’obbligo di decidere secondo diritto non
è ulteriormente sviluppata, le censure riferite alla violazione dell’art. 116 c.p.c. sono all’evidenza
volte al riesame del materiale probatorio (incidenza dell’asserita ipocondria, depressione e smisurata
gelosia della moglie nel menage familiare, e, per converso, necessità di trasferimento del marito
nella casa della madre malata, assenza di prova circa il nesso etiologico tra tale condotta e
l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza).
1.5. Le doglianze invocano cioè un’indagine di merito, com’è evidente laddove, pure in seno alla
memoria, si imputa ai giudici d’appello per un verso di non aver considerato alcuni elementi e si
contesta, per l’altro, l’esistenza della prova, indagini che, com’è noto, attengono al giudizio di fatto,
dovendo aggiungersi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 18892 del 2016 e
massime ivi richiamate), la deduzione in sede di ricorso per cassazione della violazione dell’art. 116
c.p.c. – a mente del quale cui il giudice deve valutare le prove secondo prudente apprezzamento, a
meno che la legge non disponga altrimenti – è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una
determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede
uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di
attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa
risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara
di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così
falsamente applicando e, quindi, violando, la norma in discorso.
2. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 156 c.c.; degli artt. 113 e 116
c.p.c., motivazione per relationem e l’omesso esame di un fatto decisivo (contratto di locazione
registrato e relative ricevute), in relazione al capo con cui è stato riconosciuto l’assegno in favore
della moglie. 2.1. Anche questo motivo va disatteso per i principi sopra espressi ai par. 1.3 e 1.4 e
tenuto, in ispecie, conto che nel confermare la spettanza dell’assegno, e nell’individuarne
correttamente i presupposti non già nella mancanza, in astratto, di redditi adeguati come sembra
ipotizzare il ricorrente, ma in funzione del tendenziale mantenimento del tenore di vita goduto in
costanza di convivenza, la Corte ha, comunque, affermato sussistere un’indubbia disparità
economica tra i coniugi ed ha modulato l’assegno (in Euro 100,00), in considerazione del godimento
della casa familiare da parte della donna, elemento a torto ritenuto non considerato.
2.2. La circostanza relativa al pagamento di un canone di locazione in favore della sorella che, come
sostiene il ricorrente, modificherebbe a suo svantaggio la situazione reddituale non appare infine
decisiva, tenuto conto che il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la
cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti può esser utilmente dedotto laddove abbia carattere decisivo, vale a dire che,
se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia; pertanto, l’omesso esame di
elementi istruttori (in tesi il contratto di locazione e le ricevute) non integra, di per sè, il vizio di
omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa (nella specie la
differenza di reddito tra le parti), sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè
la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. n. 27415 del 2018).
3. Col quarto motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 337-ter c.c.,
degli artt. 113 e 116 c.p.c., in riferimento al contributo in favore delle figlie pari ad Euro 650,00,
oltre a spese straordinarie In particolare, afferma il ricorrente, la figlia D.E. ha raggiunto
l’indipendenza economica ed è andata a vivere a (OMISSIS).
3.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile, dovendo darsi seguito al principio
affermato da questa Corte secondo cui “l’obbligo del genitore separato di concorrere al
mantenimento del figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da
parte di quest’ultimo, ma perdura finchè il genitore interessato non dia prova che il figlio ha
raggiunto l’indipendenza economica; il raggiungimento di detta indipendenza economica non è
dimostrato dal mero conseguimento di una borsa di studio (nella specie, di Euro 800 mensili)
correlata ad un dottorato di ricerca, sia per la sua temporaneità, sia per la modestia dell’introito in
rapporto alle incrementate, presumibili necessità, anche scientifiche, del beneficiario” (Cass. n.
2171 del 2012). Le questioni relative al trasferimento della figlia ed alla vendita di un immobile
attingono a fatti sopravvenuti, non deducibili in questa sede.
4. Il quinto motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione dell’art. 91 c.p.c. in riferimento alla
statuizione sulle spese è infondato: il ricorrente è risultato infatti soccombente in merito alle
domande di addebito e di assegno, conclusione che non resta modifica dall’asserito comportamento
reticente della moglie.
5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di
legittimità che si liquidano in Euro 3.100,00, di cui Euro 100,00 per spese. Ai sensi del D.P.R. n.
115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara
che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello ove dovuto per il ricorso, a norma dello stesso
art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento, dispone omettersi le generalità e gli altri dati
identificativi delle parti, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2020

Risarcimento del danno alla salute conseguente ad attività sanitaria

Cassazione civile, sez. III, 11 Novembre 2019, n. 28990. Pres. Travaglino. Est. Olivieri.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Genova, con sentenza in data 27.7.2016 n. 858, in parziale riforma della decisione di prime cure, ha rigettato l’appello principale proposto da X.X. ed Ta.Al., e n. q. di genitori della minore TA.EL., rilevando che, in relazione alla responsabilità professionale dei medici intervenuti nella fase di diagnosi e cura della malattia riscontrata sulla minore – affetta da sindrome di Bartter ma erroneamente interpretata dai medici come morbo di Hirschprung -, non era stata investita la statuizione che aveva accertato la particolare difficoltà tecnica dei problemi investigati, con conseguente esonero da responsabilità per colpa ritenuta non grave ex art. 2236 c.c.; ha dichiarato inammissibile il motivo di appello principale volto a richiedere una maggiore liquidazione del danno non patrimoniale per difetto di preventivo “consenso informato”, confermando la quantificazione operata dal Tribunale.
Relativamente agli appelli incidentali proposti dall’Istituto G., M.G. e T., il Giudice distrettuale: ha ritenuto irrilevante la norma sopravvenuta di cui al D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, comma 1, conv. con modificazioni nella L. 8 novembre 2012, n. 189 (cd. legge Balduzzi), in quanto intesa esclusivamente a limitare la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria e non anche a qualificare in modo differente la responsabilità civile del sanitario, che continuava a rispondere dei danni anche per colpa lieve, ed ha in conseguenza confermato l’accertamento di responsabilità dell’Istituto Gaslini e del Dott. M. in ordine agli esiti pregiudizievoli degli interventi chirurgici cui era stata sottoposta la minore, che aveva sofferto postumi invalidanti, mentre ha rigettato la domanda risarcitoria nei confronti del Dott. To.Mi. che aveva rivestito la posizione di “aiuto” ed in relazione al quale non venivano in rilievo elementi di responsabilità per l’attività svolta in equipe.
La Corte territoriale ha, inoltre, rigettato l’appello principale e gli appelli incidentali in punto di determinazione del periodo di invalidità temporanea e dei postumi invalidanti residuati alla minore, come accertati in esito alla c.t.u. collegiale, mentre ha riformato la decisione del Tribunale in relazione alla liquidazione del danno biologico, ritenendo che trovasse immediata applicazione al giudizio in corso il D.L. n. 158, art. 3, comma 3, conv. con mod. in L. n. 189 del 2012, che rinvia ai criteri di determinazione del “quantum” previsti dal D.Lgs. n. 209 del 2005 e succ. mod., artt. 138 e 139: ed ha quindi liquidato il danno biologico permanente e temporaneo subito dalla minore, rispettivamente, in Euro 8.093,90 (IP) ed in Euro 25.343,78 (ITA ed ITP), ed il “danno morale” in Euro 6.687,54 – così incrementato del 20% -, oltre al ristoro del danno compensativo del lucro cessante, calcolato in relazione alla diversa decorrenza della inabilità temporanea e di quella permanente, in base ai principi enunciati dalle SS.UU. n. 1712/1995.
Confermando il danno accertato dal primo Giudice nei confronti dei genitori per lesione del diritto ad essere informati correttamente sulle conseguenze (rischio di complicanze) dell’intervento praticato alla minore, la Corte d’appello ha altresì riconosciuto in favore dei predetti anche il “danno non patrimoniale” da pregiudizio alla vita familiare comprensivo della sofferenza patita, riliquidando in complessivi Euro 15.000,00 per ciascun genitore tutte le predette voci di danno.
La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata da X.X. ed Ta.Al. in proprio e n. q. di genitori della minore TA.EL. con ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Ha resistito con controricorso l’Istituto Giannina Gaslini.
Non ha svolto difese M.G. cui il ricorso è stato ritualmente notificato all’indirizzo PEC del difensore domiciliatario in data 24.2.2017.
Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte.
Le parti hanno depositato memorie illustrative ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
A. Questioni preliminari.
I genitori della minore hanno introdotto il giudizio di merito richiedendo anche il risarcimento del danno non patrimoniale “jure proprio” derivante dalla omessa preventiva informazione sui rischi di complicanze cui poteva dare luogo l’intervento chirurgico, nonchè dalla sofferenza dovuta ai plurimi interventi cui era stata sottoposta la minore ed alla incidenza sulla vita familiare delle menomazioni permanenti subite dalla figlia. Tale domanda è stata accolta dalla Corte distrettuale con statuizione che non è stata investita dai motivi del ricorso per cassazione nè da impugnazione incidentale ed è, dunque, passata in giudicato.
Consegue la declaratoria di inammissibilità, per difetto di legittimazione attiva, della impugnazione proposta da X.X. ed Ta.Al. anche “in proprio”, oltre che nella qualità di genitori della minore TA.EL..
B. Esame dei motivi di ricorso.
Primo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost., artt. 1218,1223,1226,2043 e 2059 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
p..1 Sostengono i ricorrenti che la Corte distrettuale ha travisato il motivo di gravame con il quale non si intendeva contestare l’accertamento compiuto dai CC.TT.UU., sibbene valorizzarlo – ai fini liquidatori – laddove i consulenti di ufficio avevano accertato che la minore era già affetta da una rara sindrome genetica (Bartter) che risultava sufficientemente stabilizzata e che comportava una preesistente invalidità biologica permanente valutata intorno al 10%, menomazione sulla quale avevano inciso peggiorativamente gli esiti negativi dell’intervento chirurgico eseguito in base alla errata ed incompleta diagnosi, che avevano determinato ulteriori postumi permanenti valutati nella misura del 6-7%.
1.2 Preliminarmente va disattesa la eccezione di giudicato interno formulata dalla parte controricorrente in reazione alla asserita mancata impugnazione in grado di appello della statuizione sulla liquidazione del danno biologico della minore.
Dal ricorso, infatti, emerge come con l’atto di appello i genitori della minore avessero tra l’altro contestato che l’ulteriore danno derivato dalla esecuzione dell’intervento chirurgico praticato dal Dott. M. fosse stato considerato in modo avulso dalla preesistente patologia genetica di Bartter, dovendosi piuttosto ritenere, anche sulla scorta della relazione dei CC.TT.UU., che si fosse in presenza di un “maggior danno o danno differenziale giunto ad aggravare un quadro clinico di per sè complesso ed invalidante” (cfr. trascrizione del motivo di appello riportata alla pag. 17-18 del ricorso).
1.3 Tanto premesso, in caso di preesistenze invalidanti della condizione di salute di una persona fisica, occorre fare chiarezza sulle nozioni di “concausa di lesioni” e di “concausa di menomazioni”.
La prima nozione (concausa di lesioni) attiene al ciclo della causalità materiale ed è regolata dall’art. 41 c.p. e dall’art. 1227 c.c., comma 1, venendo in questione il concorso della causa naturale (lo stato di salute pregresso) con la causa umana (la condotta professionale medica) nella determinazione dell’evento lesivo della salute in un soggetto già parzialmente compromesso. La questione va risolta in base al principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui, in materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno (cd. “thin skull rule”), l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. Ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo “con-causale” di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio “semplificato”, tale da condurre “ipso facto” ad un frazionamento delle causalità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del “quantum” risarcitorio (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del
21/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 8995 del 06/05/2015), dovendo quindi trovare applicazione sul piano della causalità materiale il principio “all or nothing”, sia pure temperato nell’ambito del diritto civile, dalla regola logica fondata sull’esame delle circostanze concrete del “più probabile che non”.
La seconda nozione (concausa di menomazioni) attiene al piano della cd. causalità giuridica disciplinato dall’art. 1223 c.c. ossia della relazione che lega l’evento lesivo (lesione della salute) alle conseguenze pregiudizievoli (postumi invalidanti) secondo un nesso di regolarità eziologica che riconduce al primo tanto gli effetti dannosi diretti quanto quelli indiretti ove oggettivamente prevedibili quali effetti che derivano o che deriveranno – secondo l'”id quod plerumque accidit” – dalla lesione personale.
1.4 Al riguardo occorre osservare che, in caso di lesione del diritto alla salute, le distinte menomazioni della capacità biologica del soggetto possono incidere in modo diverso sulla complessiva condizione di salute residua della persona fisica, secondo differenti ipotesi fenomenologiche indagate dalla medicina-legale, che hanno trovato esplicitazione nelle linee guida di valutazione del danno alla persona elaborate dalle associazioni professionali, tra cui la Società di Medicina Legale e delle Assicurazioni (SMILA), nonchè diretto riscontro nella disciplina normativa del settore delle assicurazioni sociali obbligatorie (D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 78, comma 4, art. 79, art. 80, comma 3 e artt. 81 e 82; D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, commi 5 e 6) e della liquidazione del danno biologico, originariamente con riferimento alla sola materia di sinistri stradali (D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139, in relazione al D.M. Salute 3 luglio 2003 adottato in attuazione della L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5, comma 5, che nell’All. 1, intitolato “criteri applicativi”, fa espresso riferimento al “danno composito” ed ai “danni plurimi monocroni”) e, successivamente, anche al danno biologico subito dalla vittima di atti di terrorismo (D.Lgs. 30 ottobre 2009, n. 181, art. 4, comma 1, lett. b) e quindi, più recentemente, ai danni conseguenti a responsabilità professionale medica (D.L. n. 158, art. 3, comma 3, conv. con mod. in L. n. 189 del 2012 – cd. Legge Balduzzi -; L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 7, commi 4 e 5, – cd. Legge Bianco Gelli -).
La condotta lesiva della integrità psicofisica può produrre, infatti, un’unica menomazione (una sola alterazione anatomica od una sola minorazione funzionale) o può invece determinare un insulto comprensivo di plurime alterazioni anatomiche e minorazioni funzionali in quanto interessanti più organi od apparati.
1.5 Le menomazioni plurime – prodotte dalla medesima lesione o da molteplici lesioni arrecate contestualmente od in tempi diversi – possono distinguersi:
a) in relazione al criterio cronologico del fatto generatore: in menomazioni “monocrone o policrone” (secondo che il medesimo attentato alla integrità psicofisica del soggetto porti ad emersione tutte le plurime conseguenze dannose, simultaneamente o comunque progressivamente secondo una sequenza di naturale aggravamento, od invece, gli attentati alla integrità psicofisica del soggetto siano stati realizzati con condotte lesive diacroniche sicchè la nuova menomazione si innesti su uno stato patologico pregresso del soggetto e cioè su postumi invalidanti preesistenti).
b) in relazione al tipo di disfunzionalità prodotto: in menomazioni “concorrenti o coesistenti” (secondo che le menomazioni colpiscano tutte il medesimo apparato od organo, ossia concernano più arti od organi sinergici od aventi comunque affinità funzionale, ovvero – invece – interessino differenti distretti anatomici o funzioni organiche, ossia più arti o più organi non affini o sinergici: le menomazioni “concorrenti” possono comportare, di regola, una variazione incrementativa dell’effetto invalidante e dunque del grado di inabilità della menomazione preesistente; le menomazioni “coesistenti” conservano l’effetto invalidante dalle stesse prodotto, che rimane, di regola e salvo specificità del caso concreto, immutato, in quanto del tutto indipendente rispetto alla valutazione della capacità pregressa del soggetto rispetto alla nuova menomazione. Appare, inoltre, opportuno chiarire come il fenomeno delle menomazioni “concorrenti” debba tenersi separato da quello dell'”aggravamento” della medesima menomazione: il primo configurando un rapporto tra distinti postumi – ossia tra eventi lesivi policroni che presuppongono il loro consolidamento, il che è a dire la definitiva stabilizzazione delle condizioni invalidanti, derivate da ciascuna lesione, che segue alla guarigione dal periodo di malattia, sicchè la ulteriore invalidità si “aggiunge” a quella preesistente -; il secondo consistendo, invece, nella naturale evoluzione degli effetti invalidanti prodotti dalla medesima lesione, generalmente identificandosi nello sviluppo delle cd. malattie lungolatenti o nella emersione di effetti patologici inizialmente sconosciuti. L’aggravamento della malattia ha assunto rilievo in giurisprudenza soprattutto nell’ambito della tutela infortunistica del lavoro, al fine della delimitazione degli ambiti applicativi delle disposizioni di cui agli artt. 83 e 137 – aumento o diminuzione della rendita, in caso la inabilità originaria subisca aggravamenti o miglioramenti nel corso del tempo – ed agli artt. 80, 131 e 132 – riformulazione integrale della rendita in caso di “nuovo” infortunio o “nuova” malattia, seppure originato dal medesimo rischio patogeno od avente la stessa natura della prima – del TU approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124: cfr. Corte Cost. sentenza del 12.2.2010, n. 46).
1.6 La esigenza teorica di provvedere ad una diversa valutazione del danno biologico in seguito a plurime menomazioni nasce dagli stessi criteri di redazione dei “baremes” medico-legali attraverso i quali ad ogni compromissione anatomo-funzionale, specificamente individuata viene assegnato un determinato grado di invalidità rispetto allo standard fatto pari a 100 della piena integrità dell’apparato od organo preso in considerazione, criteri che prescindono, quindi, dal riferimento alla globale ed effettiva situazione personale del soggetto il quale, ad esempio, potrebbe riportare plurime contestuali menomazioni, che tuttavia non potrebbero per ciò stesso essere valutate attraverso una semplice sommatoria dei gradi di invalidità tabellari determinati in relazione a ciascuna di esse, atteso che l’applicazione del mero criterio matematico potrebbe esitare finanche nell’assurdo riconoscimento di una invalidità complessiva addirittura superiore al 100%, che risulterebbe logicamente incompatibile rispetto ad una persona che, essendo tuttora in vita, esprime ancora – per quanto minimo possa essere – un determinato grado di capacità biologica.
Del pari nel caso di menomazioni “preesistenti”, il mero cumulo del nuovo grado di invalidità con quello corrispondente alla precedente minore capacità biologica del soggetto, oltre a dare luogo all’inconveniente sopra descritto, non appare idoneo ad esprimere – in maggiore evidenza nel caso di lesioni concorrenti – l’effettiva condizione di salute globale residua della persona (è ormai classico l’esempio per cui se il grado di invalidità per la perdita di un occhio “in soggetto sano” è valutata in un certo grado tabellare, la perdita dell’unico occhio residuo “in soggetto monocolo” non potrà essere valutata allo stesso modo, in quanto in quest’ultimo caso è stata definitivamente compromessa la funzione della vista, e dunque il pregiudizio alla capacità biologica complessiva del soggetto è certamente maggiore).
Evidente risulta, pertanto, la diversa incidenza che può assumere, ai fini dell’accertamento della complessiva validità biologica di un soggetto, la menomazione che si aggiunga ad altra già preesistente, a seconda che concorra alla medesima disfunzionalità o invece ne determini una nuova non interferente con il distretto anatomo-funzionale già pregiudicato.
Deve essere, dunque, accolta la indicazione elaborata in medicina legale e recepita dal Legislatore secondo cui, in caso di plurime menomazioni, è certamente legittimo assumere come riferimento i gradi tabellari concernenti le singole compromissioni, salva, in ogni caso, una valutazione globale complessiva della residua capacità biologica del soggetto leso, volta ad individuare la effettiva incidenza dei molteplici postumi, concorrenti o coesistenti, sulla integrità psico-fisica del soggetto danneggiato.
A tale compito deve accingersi confrontando la situazione antecedente e quella successiva, bene potendo emergere la totale irrilevanza della pregressa invalidità sul distinto pregiudizio alla salute arrecato dalla successiva lesione della integrità psicofisica, salva, va ripetuto, la specificità del caso concreto (la pregressa perdita di due dita di un arto superiore, di regola, non interferisce in alcun modo con l’indebolimento dell’organo visivo cagionato dalla lesione successiva: ma la stessa perdita inciderà diversamente nell’ipotesi di soggetto già totalmente non vedente, che utilizzava quella parte dell’arto superiore a fini non soltanto tattili). In tal caso, allora, il medico-legale, al fine di verificare il grado di invalidità derivato dalla successiva menomazione, dovrà avere come parametro di riferimento la piena capacità biologica anteriore del soggetto, senza tenere conto dei postumi preesistenti non interferenti.
A diversa conclusione si dovrà invece pervenire laddove il postumo preesistente, pur non potendo considerarsi “concorrente” (in quanto non afferente il medesimo distretto anatomo-funzionale), venga tuttavia in qualche modo ad incidere sulla complessiva validità biologica del soggetto, rendendogli più difficoltoso l'”agere” quotidiano o le relazioni sociali (la pregressa invalidità all’arto inferiore che imponga al soggetto, per deambulare, l’appoggio con bastone, pur attenendo a complesso anatonomo-funzionale distinto, assume indiscussa incidenza peggiorativa sulle condizioni biologiche del soggetto laddove questi, a causa di lesioni policrone, venga successivamente a perdere anche uno degli arti superiori utilizzato per l’ausilio alla deambulazione).
1.7 L’accertamento del grado di invalidità biologica è compiuto dall’ausiliario medico-legale, e dunque a questi spetta rispondere, alla stregua delle pertinenti “leges artis”, al quesito posto dal Giudice, verificando quale fosse la capacità del soggetto “ante ac post eventum”; in sostanza, egli deve accertare la capacità biologica per così dire “differenziale” ponendo a confronto lo stato di validità anteriore e quello successivo, venendo a pesare in modo diverso il grado percentuale indicato nel bareme secondo che lo stato patologico pregresso:
– risulti del tutto indifferente rispetto alla “nuova” disfunzionalità residuata dall’evento lesivo (ipotesi normalmente riscontrabile nel caso di menomazioni coesistenti);
– venga a peggiorare la situazione già compromessa incrementando la disfunzionalità preesistente (ipotesi che, al massimo grado, si riscontra nelle menomazioni concorrenti).
Nel primo caso il consulente tecnico di ufficio potrà valutare autonomamente gli effetti invalidanti permanenti della nuova lesione, come se venissero riferiti ad un soggetto sano.
Nel secondo caso la maggiore invalidità permanente derivata dal nuovo evento lesivo risulterà effetto dello stato preesistente, in quanto l’indebolimento di un organo già compromesso, rispetto al medesimo indebolimento di un organo sano, non si traduce in un eguale diminuzione di validità, ma nel soggetto affetto dalla preesistenza quell’indebolimento corrisponderà ad un grado (ulteriore) di invalidità biologica maggiore.
Accertato dall’ausiliario il grado di invalidità in relazione ad un giudizio espresso in prospettiva globale alla concreta ed effettiva condizione biologica del soggetto, spetterà esclusivamente al Giudice, sul piano della liquidazione del danno, individuare se ed in che modo il differenziale esprimente la compromissione biologica debba essere integralmente o solo parzialmente ricondotto alle conseguenze dirette ed immediate dell’evento lesivo, ex art. 1223 c.c., individuando il criterio da utilizzare per la liquidazione equitativa del danno biologico nel caso in cui, come nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio, la (nuova) conseguenza dannosa arrecata dalla condotta illecita (indipendentemente dalla natura contrattuale od extracontrattuale) colpisca una persona che presentava uno stato di validità biologica già parzialmente compromesso. Orbene, fermo il distinto accertamento del nesso di causalità materiale tra condotta e (nuovo) evento lesivo, da condurre alla stregua dei principi normativi rinvenibili negli artt. 40 e 41 c.p. e nell’art. 1227 c.c., comma 1, con la conseguenza che la lesione del bene salute, se riconducibile anche – alla condotta del debitore/autore dell’illecito, non può che essere imputata integralmente a quest’ultimo, non spiegando alcun rilievo sulla predetta verifica eziologica la preesistente – concorrente – causa naturale (costituita dallo stato patologico pregresso) quando anche abbia contribuito alla progressiva evoluzione peggiorativa delle condizioni di salute del soggetto (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 1135 del 19/01/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011), osserva il Collegio che non possono, tuttavia, essere attribuite al professionista ed alla struttura sanitaria anche quelle conseguenze dannose non ricollegabili direttamente all’evento lesivo, secondo il nesso di causalità giuridica ex art. 1223 c.c., in quanto risultino derivate – invece – dal pregresso stato invalidante del soggetto danneggiato, non potendo affermarsi la responsabilità dell’agente per quei danni che non dipendano dall’evento lesivo riconducibile alla sua condotta – che non ne costituisce un antecedente causale – e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, nè per quelli preesistenti, come la pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia eziologicamente riconducibile a negligenza, imprudenza ed imperizia del sanitario (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 13400 del 08/06/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 9528 del 12/06/2012; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 27524 del 20/11/2017; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 10812 del 18/04/2019), essendo opportuno, pertanto, estendere, da parte del Giudice di merito, la indagine demandata all’ausiliario anche alle eventuali modalità evolutive in senso peggiorativo della menomazione preesistente onde verificare quale sarebbe stata la ineluttabile condizione di invalidità del soggetto in assenza del successivo atto lesivo (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 24204 del 13/11/2014, in un particolare caso in cui, nella determinazione del quantum, si era tenuto conto dell’effetto anticipatore immediato della invalidità psichica che, altrimenti sarebbe comunque sopravvenuta – se pure in un tempo più lungo – a causa della pregressa malattia di Alzheimer di cui era affetto il danneggiato; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 27524 del 20/11/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 20836 del 21/08/2018, secondo cui, quando difetti la prova che la menomazione pregressa sarebbe evoluta determinando autonomamente conseguenze invalidanti, alcuna rilevanza può essere attribuita a tale preesistenza, ai fini della individuazione del danno risarcibile, diversamente venendo ad applicarsi l’intollerabile principio secondo cui persone che, per loro disgrazia – e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi -, siano più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto agli altri consociati caratterizzati da cosiddetta “normalità”).
1.8 La fase della “aestimatio”, di esclusiva pertinenza del giudice, segue pertanto alla esatta individuazione della modifica peggiorativa del grado di invalidità biologica, che rimane specularmente di esclusiva pertinenza della medicina legale, dovendo il Giudice di merito tradurre il differenziale di tale invalidità nell’equivalente monetario oggetto della obbligazione risarcitoria. Operazione che prescinde, quindi, da incrementi o diminuzioni del grado percentuale di invalidità permanente accertato dal consulente di ufficio, dovendo piuttosto essere eseguita confrontando i valori patrimoniali ricavati dalle Tabelle di liquidazione del danno biologico corrispondenti ai differenti stati di incapacità rilevati dal CTU prima e dopo l’evento lesivo – tenendo conto, come si è visto, della incidenza eventualmente svolta dalle menomazioni preesistenti – e dunque determinando in tal modo la entità patrimoniale del danno effettivamente gravante sul responsabile, operando, alla luce della specificità del caso concreto, aumenti o diminuzioni dell’importo risarcitorio su base equitativa (cfr. Corte cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 25327 del 12/12/2016 che, nel caso di plurime liquidazioni parziali del danno determinate con criteri diversi – indennizzo corrisposto dall’assicuratore sociale in base alla normativa speciale; risarcimento del danno secondo i criteri propri della responsabilità civile -, evidenzia come il residuo importo risarcitorio debba essere liquidato non già sottraendo dal grado percentuale di invalidità permanente, individuato sulla base dei criteri civilistici, quello determinato dall’INAIL coi criteri dell’assicurazione sociale, bensì, dapprima, monetizzando l’uno e l’altro grado di invalidità, e successivamente sottraendo il valore capitale dell’indennizzo INAIL dal credito risarcitorio aquiliano).
p..2 Tanto premesso, il motivo di ricorso è inammissibile, non rispondendo ai requisiti minimi prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4).
I ricorrenti infatti intendono contestare l’affermazione della Corte d’appello secondo cui le conseguenze tipiche della sindrome di Bartter non potevano essere considerate ai fini dell’accertamento dei postumi derivati dall’intervento chirurgico non correttamente eseguito, trattandosi di sindrome genetica preesistente. Sostengono a tal fini i ricorrenti che in tal modo il Giudice di merito si sarebbe discostato dalle conclusioni raggiunte dai CC.TT.UU., nelle note integrative ed a chiarimenti, secondo cui “il danno permanente preesistente può essere inquadrato per via analogica intorno al 10% e quindi la valutazione del danno biologico permanente (6/7%) proposta nella c.t.u. è inquadrabile come percentuale ulteriormente peggiorativa (differenziale) della condizione di salute di base della bambina” (cfr. ricorso pag. 19).
Ma, affermando i ricorrenti di condividere le risultanze peritali, non è dato allora individuare se la critica debba intendersi allora rivolta, non all’accertamento del grado di invalidità, ma al valore patrimoniale riconosciuto dai Giudice di merito, ovvero al criterio con il quale è stato esercitato il potere di liquidazione equitativa del danno.
2.1 Se tale ultima fosse da ritenere la critica, appare evidente come lo stralcio delle note integrative predette non consenta alla Corte di acquisire contezza degli elementi essenziali per compiere la verifica della censura di legittimità e per constatare la correttezza o meno della “aestimatio” del danno biologico.
E’ infatti reso noto, dalla lettura del ricorso, soltanto che la Corte d’appello ha assunto a base della liquidazione il grado di invalidità permanente del 6%, indicato nella c.t.u. medico-legale, confermando sul punto la statuizione del Tribunale (che, secondo quanto emerge da fugace notazione a pag. 21 ricorso, avrebbe applicato i valori delle Tabelle di Milano), rimanendo invece del tutto ignoto il “modus procedendi” del Giudice di merito e dunque difettando proprio lo stesso oggetto della critica, non essendo specificato se l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte distrettuale andrebbe rinvenuto nella individuazione del valore punto ricavato dalla Tabella in quanto determinato in base alla scala 0-6 anzichè in base alla scala 10-16 (ove 10 è l’invalidità della menomazione pregressa non imputabile alla condotta professionale del medico), od invece nella errata comparazione dei valori monetari equivalenti concernenti i predetti stati di invalidità biologica, od ancora, invece, la mancata considerazione di un “differente” grado di invalidità biologica rispetto a quelli indicati nella relazione peritale e nelle note a chiarimento depositate dai CC.TT.UU..
2.2 In quest’ultimo caso, che sembrerebbe adombrato nel ricorso mediante il richiamo ai precedenti di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6341 del 19/03/2014 ed id. Sez. 3, Sentenza n. 9528 del 12/06/2012, la critica parrebbe diretta a contestare la omessa considerazione da parte del Giudice di merito del “danno cd. differenziale”, la cui nozione tuttavia – nel caso concreto – non trova chiara esplicazione nel motivo di ricorso atteso che:
nel primo precedente giurisprudenziale si ha riguardo all’esito infausto dell’intervento chirurgico che, in quanto eseguito non in conformità alle “leges artis”, ha prodotto un esito peggiorativo del precedente stato di salute (già compromesso), determinando conseguenze pregiudizievoli “maggiori” (cd. danno iatrogeno) di quelle altrimenti riconducibili – quali conseguenze in ogni caso non evitabili – dell’intervento correttamente eseguito: in questa ipotesi lo stato patologico pregresso, rendendo necessario detto intervento, è causa naturale efficiente delle conseguenze negative “normali”, cioè riferibili al rischio oggettivamente ineliminabile dell’intervento infausto, sicchè il relativo danno (ossia il peggioramento della capacità biologica determinato dalla complicanza inevitabile connessa alla esecuzione – regolare e corretta – dell’intervento, quale rischio noto ed oggettivamente ineliminabile) non può essere in alcun modo imputabile al professionista che ha diligentemente eseguito la prestazione (anche se questa non ha raggiunto il risultato di miglioramento o guarigione sperato); laddove invece detto intervento non sia stato conforme alle “leges artis” ed abbia prodotto, oltre alla prevista complicanza comunque ineliminabile, anche ulteriori pregiudizi (determinati da altre complicanze che non si sarebbero verificate ove l’intervento fosse stato correttamente eseguito), allora in tal caso: a) lo stato patologico pregresso (quale causa naturale preesistente) interviene a concorrere con la inesatta prestazione del professionista (quale causa umana successiva) nella produzione del danno consistito nella complessiva diminuzione della precedente capacità biologica del soggetto, non essendo quindi idoneo “ex se” ad escludere la riconducibilità eziologica dell’evento lesivo (anche) alla condotta del professionista (risultando in tal guisa verificato il nesso di causalità materiale tra concorso di causa naturale ed umana ed “eventuffi damni”); b) la diminuzione della capacità biologica – rispetto a quella accertata anteriormente all’intervento – non può essere imputata, tuttavia, integralmente al medico, dovendo provvedersi a distinguere, sul piano del nesso di causalità giuridica ex art. 1223 c.c., la invalidità correlata alla inevitabile complicanza derivata dalla necessità dell’intervento (che trova genesi nella causa naturale pregressa, ossia nella precedente condizione di salute) da quella invece correlata all’altrimenti evitabile “maggiore” pregiudizio determinato dalla inesatta prestazione, e dunque dovendosi accertare il pregiudizio biologico differenziale tra lo stato di salute che sarebbe esitato da intervento infausto correttamente eseguito e quello invece esitato in concreto a causa dell’errore professionale (danno differenziale iatrogeno) nel secondo precedente giurisprudenziale, invece, oltre alla affermazione del principio di equivalenza causale (supra lett. a), viene in questione, ai fini della identificazione delle conseguenze pregiudizievoli determinate dalla inesatta prestazione medica la ridotta validità biologica residuata al soggetto dopo l’intervento rispetto alla già compromessa capacità preesistente, e dunque in questo caso il “differenziale negativo” del grado percentuale di invalidità (danno differenziale) è dato dal mero confronto tra lo stato di capacità biologica del soggetto “ante ac post eventum damni”, dovendo aggiungersi che la verifica può complicarsi nel caso in cui i postumi derivati dall’intervento inesatto si sarebbero in tutto od in parte – anche se eventualmente in tempi diversi – egualmente prodotti a causa della naturale evoluzione della patologia pregressa: in quest’ultimo caso infatti – come si è visto – dovrà provvedersi a circoscrivere il “maggior” danno biologico risarcibile dovuto dal professionista soltanto a quello non dipendente dal naturale sviluppo della malattia (tenuto conto anche del decorso temporale della stessa e dei tempi di insorgenza dell’indefettibile peggioramento).
2.3 Orbene la critica rivolta con il motivo in esame alla asserita omessa considerazione del danno differenziale, indipendentemente dalla esatta ricognizione dello stesso, non appare calzante, atteso che i CC.TT.UU. hanno esplicitamente indicato il grado del 6% quale percentuale riferibile al danno biologico differenziale, e tale misura percentuale è stata adottata da entrambi i Giudici di merito nella liquidazione equitativa dell’importo da risarcire, di tal chè non è dato comprendere in che modo gli stessi siano incorsi nell’errore denunciato.
2.4 Qualora poi i ricorrenti avessero inteso invece contestare la determinazione del grado percentuale di invalidità riferito al danno “differenziale”, il motivo si palesa del tutto privo di specificità in quanto:
a) non viene fornito alcun argomento critico rispetto alle modalità attraverso le quali il collegio degli ausiliari è pervenuto all’accertamento di tale “maggiore” grado invalidità, non venendo neppure allegato se gli ausiliari abbiano proceduto ad accertare con valutazione sintetica il “differenziale” tra lo stato di salute pregresso e lo stato successivo, confrontando quindi i rispettivi gradi di invalidità biologica “complessiva”, od abbiano invece – in ipotesi – individuato semplicemente il grado di invalidità riferito ai postumi (“lieve incontinenza sfinteriale ano-rettale…..lieve difficoltà nella assunzione di cibi solidi in via di risoluzione”) isolatamente considerati, in base ai baremes utilizzati;
b) non vengono neppure specificate quali siano le menomazioni stabilizzatesi antecedentemente all’intervento chirurgico- riferibili alla sindrome genetica di Bartter che caratterizzavano la invalidità pregressa (stimata dai CC.TT.UU. nella misura del 10%);
c) non viene sviluppato alcun argomento critico in ordine alla qualificazione ed alla relazione in cui vengono a porsi i postumi, derivati dall’intervento chirurgico, con le menomazioni preesistenti: in particolare non viene neppure riferito se debba intendersi sussistente una relazione di concorrenza o di mera coesistenza. Questione come sopra indicato che dà luogo a soluzioni di indagine medico-legale e, conseguentemente, di liquidazione del danno per equivalente del tutto distinte: argomentazione critica tanto più necessaria, tenuto conto che, come è dato evincere dalla lettura della sentenza di primo grado, parzialmente trascritta nel controricorso (pag. 9-10) e nella memoria illustrativa (pag. 11-15) del resistente Istituto Giannina Gaslini, il Tribunale aveva espressamente esaminato la questione rilevando, da un lato, che i CC.TT.UU. avevano determinato la ulteriore invalidità, nella misura del grado del 6%, tenendo conto della preesistente sindrome di Bartter, e dall’altro, che pur in presenza di “pregresse ed autonome menomazioni che tecnicamente vengono definite inabilità non concorrenti” (dunque in presenza di preesistenti menomazioni “coesistenti”) non si era fatto ricorso al “metodo scalare” inteso a raccordare il grado di invalidità “differenziale” soltanto ad una frazione (corrispondente alla pregressa ridotta capacità biologica) e non all’intera capacità biologica del soggetto (fatta pari a 100 in relazione ad un soggetto sano, di pari età e genere).
Secondo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 11 preleggi; D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3; D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139; artt. 1218,1223,1226,2043 e 2059 c.c..
p..3 I ricorrenti impugnano la statuizione della sentenza di appello che ha ritenuto immediatamente applicabile lo “jus superveniens” della disposizione del D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3, conv. con mod. in L. n. 189 del 2012, che in materia di responsabilità sanitaria della struttura e del medico ha rinviato per la liquidazione del danno biologico ai parametri già previsti dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139 in tema di assicurazione della responsabilità civile da sinistro stradale.
Sostengono i ricorrenti, richiamando diversi precedenti dei Giudici di merito, che la norma sopravvenuta:
– è inapplicabile ai fatti pregressi, essendosi già perfezionata la fattispecie dannosa, e dunque ai giudizi in corso, in difetto di espressa previsione di retroattività (artt. 11 preleggi).
– è inapplicabile ai giudizi in corso, trattandosi di norma di diritto avente “natura sostanziale” e non processuale, e se applicata verrebbe a ledere il “legittimo affidamento in ordine alla regola equitativa uniforme” posta a base del risarcimento del danno biologico.
– è inapplicabile ai giudizi in corso, in quanto andrebbe ad incidere su “diritti quesiti”, tale dovendo essere considerato il credito risarcitorio di valore anche in relazione al criterio di liquidazione del “quantum”, in quanto già insorto nel patrimonio del danneggiato al momento del fatto dannoso.
3.1 Il motivo è infondato, in relazione alle molteplici questioni prospettate e che si passano di seguito in esame.
Al fine di una migliore comprensione della problematica occorre prendere le mosse dalle disposizioni innovative dei plessi normativi che fanno capo al D.L. 13 settembre 2012, n. 158 conv. con modificazione nella L. 8 novembre 2012, n. 189 recante “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute” (cd. legge Balduzzi) ed alla L. 8 marzo 2017, n. 24 recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” (cd. legge Gelli-Bianco).
Venendo a provvedere ad un riassetto generale della materia della responsabilità professionale medica il Legislatore è intervenuto ad introdurre una disciplina volta ad individuare un punto di equilibrio idoneo a garantire l’attuazione dei diversi interessi meritevoli di tutela coinvolti in tale materia e precipuamente l’interesse dei danneggiati ad ottenere un integrale ristoro del danno alla salute subito in relazione ad errori terapeutici imputabili al medico (art. 32 Cost., comma 1), e l’interesse della generalità degli utenti a ricevere – sia dalle strutture pubbliche che da quelle private – un adeguato trattamento sanitario, consentendo agli operatori del settore di continuare a praticare la professione – della quale beneficia e non può fare a meno la intera collettività – in funzione del perseguimento di elevati livelli di efficienza e risultati di cura delle persone, senza che l’impegno che la stessa richiede possa essere limitato o influenzato da considerazioni e comportamenti di “difesa preventiva” rispetto alla proliferazione che, negli ultimi tempi, si è verificata delle iniziative giudiziarie di risarcimento danni che, indipendentemente dalla fondatezza o meno, possono innescare – in considerazione del volume delle richieste risarcitorie – fenomeni di ritrazione dalla esecuzione di interventi terapeutici a maggior rischio di insuccesso, incidendo in modo gravemente negativo sulle modalità di erogazione del servizio sanitario.
A tal fine – per quanto interessa la presenta controversia – il D.L. n. 158 del 2012, con disposizione rimasta immodificata nella legge di conversione, ha ritenuto di utilizzare anche nel settore sanitario il criterio di liquidazione del danno “biologico” secondo il sistema tabellare già adottato nel settore dei sinistri cagionati dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, e definito nel D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139 (Codice delle assicurazioni provate) che, come espressamente previsto dall’art. 138, comma 2, risponde “ai criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità” secondo i principi esplicitati nel medesimo comma 2, lett. da a) ad f).
La norma della legge “Balduzzi” è stata nuovamente riprodotta nella L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 7, comma 4, – Legge “Gelli Bianco” – con variazioni od integrazioni lessicali che non comportano significative modifiche sul piano prescrizionale (“4. Il danno (la legge Balduzzi specificava: “biologico”) conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria (la legge Balduzzi si riferiva alla: “attività dell’esercente della professione sanitaria”) è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto art. 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo”).
La trasposizione del criterio tabellare previsto dal C.A.P. al settore della responsabilità sanitaria trova fondamento nelle analoghe esigenze sottese alle controversie risarcitorie che interessano le due materie, esigenze evidenziate direttamente dal Legislatore nella stessa norma (“Al fine di garantire il diritto delle vittime dei sinistri a un pieno risarcimento del danno non patrimoniale effettivamente subito e di razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo e sui consumatori…”: art. 138, comma 1, CAP) e che debbono rinvenirsi nell’estensione del regime assicurativo obbligatorio alle strutture aziendali pubbliche e private ed ai professionisti sanitari, e nell’azione diretta attribuita al paziente danneggiato nei confronti della impresa assicurativa: esigenze la cui composizione in un equilibrato bilanciamento degli interessi in conflitto ha superato il vaglio della verifica di costituzionalità (Corte Cost. sentenza 16 ottobre 2014 n. 235 – con riferimento all’art. 139 CAP -).
Tanto premesso possono ora esaminarsi i diversi rilievi di illegittimità formulati dai ricorrenti in ordine alla immediata applicabilità anche ai rapporti in corso, ed ai giudizi pendenti in materia di responsabilità professionale medica, delle norme del D.L. n. 158 del 2012 conv. in L. n. 189 del 2012 che prevedono l’adozione del criterio tabellare nella liquidazione del danno non patrimoniale.
A- Difetto di retroattività espressa.
3.2 La mancanza di una disposizione della legge che ne preveda la retroattività non integra una critica pertinente alla inapplicabilità della norma ai giudizi pendenti, laddove si osservi come, nel caso di specie, non si verta in tema di successione di leggi che regolano difformemente il medesimo fenomeno, poichè la eventuale discrasia applicativa “quoad effecta” corre non tra diverse disposizioni di legge, bensì tra una (nuova) disposizione normativa ed una prassi giurisprudenziale finalizzata all’esercizio uniforme della discrezionalità nel giudizio di equità (come tale priva, ipso facto, di forza di legge).
Non appare pertanto dirimente il precedente di questa Corte Sez. 3, Sentenza n. 11048 del 13/05/2009, richiamato dai ricorrenti, secondo cui il D.M. Salute in data 3 luglio 2003 (“Tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica compresa tra 1 e 9 punti di invalidità”) emanato in attuazione alla L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5, comma 5, in difetto di previsione legislativa di retroattività, non poteva trovare applicazione ai sinistri verificatisi anteriormente alla sua pubblicazione in GU in quanto introduceva “un regime speciale deroga al regime ordinario codificato dall’art. 2056 c.c.”.
La norma sopravvenuta del D.L. n. 158 del 2012 non disciplina, infatti, la fattispecie costituiva del diritto sostanziale, ma definisce – nella materia della responsabilità sanitaria – l’ambito delle modalità di esercizio del potere di liquidazione equitativa del danno attribuito al Giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., ed è dunque direttamente applicabile nei limiti in cui tale potere sia ancora esercitabile nel corso del processo che non sia ancora definito. Al riguardo non appare corretta la lettura della sentenza in data 16 ottobre 2014 n. 235 della Corte costituzionale, effettuata dai ricorrenti, laddove pronunciando sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 Codice Assicurazioni Private – ha rilevato (in motivazione paragr. 3.1), sia pure ai soli fini di escludere la necessità di una restituzione degli atti al Giudice a quo, che le modifiche – costituenti jus superveniens – introdotte al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, predetto art., al comma 2 ed al comma 3 quater dall’art. 32 conv. con mod. in L. 24 marzo 2012, n. 27 (che vengono a condizionare il risarcimento del danno biologico permanente delle lesioni di lieve entità, all'”accertamento clinico-strumentale obiettivo” ed il risarcimento del danno biologico temporaneo al riscontro medico-legale visivo o strumentale della lesione), “in quanto non attinenti alla consistenza del diritto al risarcimento delle lesioni in questione, bensì solo al momento successivo del suo accertamento in concreto, si applicano, conseguentemente, ai giudizi in corso (ancorchè relativi a sinistri verificatasi in data antecedente alla loro entrata in vigore)”, dando in tal modo riscontro alla consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui il principio della irretroattività della legge (art. 11 preleggi) comporta che: a) la legge nuova non possa essere applicata, oltre ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso; b) la legge nuova è, invece applicabile ai fatti, agli “status” e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 1115 del 04/05/1966; id. Sez. U, Sentenza n. 2926 del 12/12/1967; id. Sez. L, Sentenza n. 2433 del 03/03/2000; id. Sez. 1, Sentenza n. 16620 del 03/07/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 16039 del 02/08/2016).
La pronuncia della Corte costituzionale n. 235/2014, per un verso, viene a riconoscere che la controversia in ordine al diritto al risarcimento del danno implica la esistenza di un rapporto pendente; per altro verso ritiene esterne all’area della “consistenza del diritto” (intangibile dalla legge successiva), le modalità tecniche di liquidazione del danno indicate nella norma sopravvenuta – modificativa dell’art. 139 CAP – pur interessando le stesse una “fase anteriore” alla quantificazione del danno, qual è quella dell’accertamento della stessa esistenza (“an”) della conseguenza dannosa risarcibile.
3.3 Tanto premesso, si osserva che la fattispecie dell’illecito civile – per quanto concerne la individuazione e la verifica giudiziale dell’evento lesivo produttivo del danno da cui insorge la responsabilità per l’obbligazione risarcitoria – non viene intaccata dalla norma sopravvenuta (legge cd. Balduzzi), che non pone limiti alla responsabilità civile e neppure viene a negare alla vittima – ovvero anche soltanto a limitare ingiustificatamente e sproporzionatamente – il diritto di credito al risarcimento del danno, ma interviene a definire, tra i molteplici criteri utilizzabili discrezionalmente dal Giudice per procedere alla “aestimatio” del danno – qualora non possa trovare attuazione il risarcimento in forma specifica -, quello ritenuto più idoneo a realizzare quel bilanciamento – perseguito dal Legislatore – tra plurimi interessi di rilevanza costituzionale (l’interesse del danneggiato ad ottenere il ristoro del danno patito; l’interesse generale e sociale al perseguimento di fini solidaristici in relazione al calmieramento dei premi della assicurazione obbligatoria estesa al settore sanitario), rispondendo la norma sopravvenuta – almeno in parte – alla medesima logica sottesa alla disciplina della liquidazione del danno biologico nel settore dell’assicurazione obbligatoria della RCA (venendo in questione, nella legge del 2012, anche la esigenza di non distogliere risorse indispensabili all’espletamento del servizio, contrastando i riflessi negativi sulla organizzazione ed erogazione del servizio sanitario pubblico, determinati dall’incremento esponenziale degli impegni finanziari delle Aziende sanitarie preoccupate ad immobilizzare sempre maggiori risorse per fare fronte alle possibili richieste risarcitorie a decremento dei necessari investimenti strutturali).
Il D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3, viene, dunque, ad indicare al Giudice un criterio di liquidazione del danno che specifica – e non deroga – le norme del codice civile attributive del potere equitativo integrativo ex artt. 1226 e 2056 c.c., non ponendo, pertanto, alcuna problematica di successione di leggi nel tempo.
Il nuovo precetto normativo, introducendo un sistema liquidatorio, quello tabellare, già invalso da tempo negli uffici giudiziari e ritenuto da questa Corte di legittimità coerente con i principi cui deve informarsi la valutazione equitativa del “danno biologico” compiuta dal Giudice (valutazione che, secondo la interpretazione dei predetti artt. 1226 e 2056 c.c. fornita da questa Corte, deve corrispondere alla duplice esigenza di garantire “non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perchè esaminati da differenti Uffici giudiziari”: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011), non viene ad incidere neppure su quegli elementi valutativi – grado di invalidità, aspettativa di vita, progressione geometrica del valore punto in relazione al grado di invalidità e riduzione proporzionale dell’incremento del valore danno in relazione all’aumento della età – ritenuti determinanti ai fini dell’accertamento della “entità” del danno biologico, lasciando intatto anche il criterio di rivedibilità del “valore-punto” secondo periodiche rilevazioni statistiche della casistica giudiziaria. Ed è appena il caso di osservare come tale criterio di valutazione del “quantum” non individua un (ulteriore) elemento costitutivo della fattispecie normativa della responsabilità civile, non integra cioè un fatto-storico od un elemento normativo presupposti dell’affermazione della imputazione del danno, ma rappresenta soltanto la espressione della misura monetaria della perdita di validità biologica ritenuta più adeguata a garantire il ristoro dell’effettivo danno patito, rispetto ad altri criteri affidati alla cd. discrezionalità pura cui il Giudice avrebbe potuto ricorrere al momento di procedere alla “aestimatio”: coerentemente, infatti, questa Corte ha statuito come, in tema di risarcimento danni, la circostanza che l’attore, nel domandare il ristoro del danno patito, dopo aver quantificato nell’atto di citazione la propria pretesa, all’udienza di precisazione delle conclusioni, domandi la condanna del convenuto al pagamento di una somma maggiore, al fine di tenere conto dei “nuovi criteri standard” di risarcimento (c.d. “tabelle”) adottati dal tribunale al momento della decisione (“nuovi” in quanto debbono essere mutati gli essenziali “parametri indicatori” assunti a base della determinazione del valore-punto, e non in quanto sia intervenuta una mera variazione quantitativa del valore-punto conseguente ai rilevamenti statistici periodici), non costituisce mutamento inammissibile della domanda, sempre che attraverso tale mutamento non si introducano nel giudizio fatti nuovi o nuovi temi di indagine (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 17977 del 24/08/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 1083 del 18/01/2011); ed ancora che, ferma l’eventuale formazione del giudicato interno sul “quantum”, quando, all’esito del giudizio di primo grado, l’ammontare del danno alla persona sia stato determinato secondo il sistema “tabellare”, la sopravvenuta variazione – nelle more del giudizio di appello – delle tabelle utilizzate, legittima il soggetto danneggiato a proporre impugnazione, per ottenere la liquidazione di un maggiore importo risarcitorio, allorquando le nuove tabelle prevedano l’applicazione di differenti criteri di liquidazione, atteso che, in questi casi, la liquidazione effettuata sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c. (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 25485 del 13/12/2016; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 22265 del 13/09/2018; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 24155 del 04/10/2018).
B- Perfezionamento della fattispecie di diritto sostanziale (diritto quesito).
3.4 Assumono i ricorrenti che il principio di irretroattività delle norme di legge ex art. 11 preleggi impedirebbe l’applicazione della sopravvenuta norma “tabellare” della legge cd. Balduzzi, in quanto in tal modo si andrebbe ad incidere sulla fattispecie dell’illecito civile già perfezionatasi al momento della condotta lesiva e della conseguente insorgenza della responsabilità civile e del correlativo dritto di credito.
3.5 L’argomento non appare condivisibile, in quanto il criterio di liquidazione equitativa del danno ex artt. 1226 e 2056 c.c. (che soccorre quando l’ammontare del danno non è predeterminato convenzionalmente o legalmente, ed appare ontologicamente diverso dal diritto alla liquidazione del danno) non è elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria scrutinata nella dimensione sostanziale dell’illecito civile.
Il diritto al risarcimento del danno ha per oggetto un credito di valore che richiede di essere determinato nel suo ammontare attraverso l’attività di liquidazione volta a trasporre in valuta – ossia in una espressione monetaria – quello che viene stimato essere il valore non patrimoniale del bene-salute leso. Ne segue che il valore del credito, che entra a far parte del patrimonio del danneggiato, non è predeterminato nel suo ammontare, occorrendo necessariamente fare ricorso al potere di equità integrativa del Giudice. E’ ben vero, come è stato già rilevato, che la esigenza di uniformità di trattamento di situazioni analoghe e di certezza del diritto viene assicurato tramite l’utilizzo di una medesima Tabella di liquidazione del danno biologico che deve avere applicazione diffusa sull’intero territorio nazionale. Ma a tale principio non segue anche la definitiva immutabilità di tale Tabella e la cristallizzazione dei valori tabellari al momento della introduzione della domanda, essendo, invece, tenuto il Giudice di merito a fare applicazione dei valori delle Tabelle di più recente edizione, in quanto maggiormente idonee ad esprimere l’adeguatezza della conversione patrimoniale del danno da invalidità psicofisica subito dalla persona.
3.6 Al proposito occorre considerare che altro è il perfezionamento della fattispecie sostanziale dell’illecito civile (situazione giuridica protetta – condotta lesiva della stessa – esito dannoso) che si esaurisce con la produzione dell’effetto giuridico che fa insorgere in capo all’autore dell’illecito la responsabilità per la obbligazione risarcitoria, altro è invece l’accertamento dell’equivalente monetario della conseguenza dannosa che ha esaurito il perfezionamento della fattispecie illecita.
Non pare dubbio che il principio di irretroattività della legge impedisce all’intervento del Legislatore di andare ad incidere su effetti giuridici già interamente prodottisi, in quanto dalla legge ricollegati a determinati fatti assunti ad elementi della fattispecie- che, una volta venuti ad esistenza nella realtà, non possono più essere negati o modificati: con la conseguenza che violerebbe il limite predetto una norma sopravvenuta che: 1-modifichi la struttura della fattispecie normativa ex artt. 1218 o 2043 c.c., 2-introduca limitazioni della responsabilità civile sul piano oggettivo o soggettivo, 3-escluda o comprima la estensione delle “conseguenze-dannose” risarcibili, ad esempio non riconoscendo alcune “voci” o componenti del danno non patrimoniale (è notissima la vicenda d’Oltrealpe che, in seguito alle decisioni della CEDU, in data 6.10.2005, n. 1513/2003 Draon c/ Francia e n. 1810/2003 Maurice c/ Francia, ha portato alla sentenza 11.6.2010 n. 2 del Conseil costitutionnel dichiarativa della incostituzionalità della L. 11 febbraio 2005, n. 102, art. 2, paragr. II, comma 2, che aveva disposto la applicazione retroattiva delle norme della L. 4 marzo 2002, n. 303 volte a limitare il risarcimento del danno da malpractice medica al solo “danno morale”, con esclusione del danno patrimoniale futuro relativo alle spese necessarie per l’assistenza del neonato invalido), od eliminando il mancato guadagno come voce di danno patrimoniale, in deroga all’art. 1223 c.c., od ancora precludendo la tutela reale della reintegrazione in forma specifica, limitandola soltanto a quella indennitaria – per equivalente (cfr. per quest’ultima ipotesi Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 301 del 09/01/2014: “In materia di licenziamenti individuali, sebbene la L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 67, preveda l’applicabilità delle disposizioni processuali da essa introdotte solo alle controversie instaurate dopo la sua entrata in vigore, in forza del principio generale di irretroattività della legge, di cui all’art. 11 preleggi, e in assenza, nella L. n. 92 del 2012, di una disposizione di deroga espressa a detta norma, le modifiche apportate alla disciplina di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 con previsione di una tutela indennitaria in luogo di quella reintegratoria, non possono essere applicate neppure ai rapporti giuridici sorti anteriormente alla nuova disciplina e ancora in corso, qualora – con l’applicazione della normativa sopravvenuta – vengano a privarsi di efficacia le conseguenze attuali o future del licenziamento già ritenuto illegittimo dal giudice di merito”).
Gli indicati limiti alla efficacia retroattiva della legge non ricorrono, invece, nella diversa ipotesi in cui la norma generale ed astratta successiva venga ad incidere su di un rapporto giuridico ancora in corso di esecuzione, o, come nella specie, ancora controverso, regolando o definendo le modalità di apprezzamento del valore monetario equivalente di un bene perduto che deve essere risarcito, ovvero conformando i limiti entro i quali le prestazioni non ancora eseguite possono considerarsi leciti.
Non sembra corretto, pertanto, il richiamo, a sostegno della tesi contraria, del precedente di questa Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 5013 del 28/02/2017, non essendo in alcun modo rinvenibile dalla lettura della motivazione l’affermazione per cui il criterio di liquidazione equitativa del danno biologico deve “cristallizzarsi” nei valori indicati nelle Tabelle vigenti al momento in cui si è perfezionata la fattispecie dell’illecito civile. La sentenza afferma, invece, il diverso principio per cui è al momento della “taxatio”, e cioè della liquidazione omnicomprensiva della somma capitale e degli accessori per interessi e rivalutazione, che occorre riferirsi per verificare se lo spontaneo pagamento effettuato dal debitore abbia prodotto l’effetto estintivo del debito risarcitorio (in quanto corrispondente ai criteri liquidatori vigenti in quel momento), o se l’accordo transattivo sul “quantum” risarcibile debba ritenersi incontestabile ove non inficiato da errore sui criteri di liquidazione, o ancora se possa ritenersi corretta la liquidazione giudiziale del danno biologico, in quanto effettuata alla stregua delle Tabelle più recenti (“…gli arresti di questa Corte…. in cui si afferma l’obbligo dell’applicazione nella quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale, dei parametri tabellari vigenti al momento della decisione…. non rappresentano altro che la risposta giurisprudenziale al problema nascente dall’ontologico iato tra i due momenti sopra illustrati (i.e. l’epoca di verificazione dell’evento lesivo e quella della liquidazione del danno), con l’affermazione del principio che la stima e la liquidazione del danno vanno compiute secondo i criteri praticati al momento della liquidazione”: Corte cass. n. 5013/2017 cit., in motivazione, pag. 14).
C- Natura di diritto sostanziale e non processuale della norma.
3.7 L’argomento critico che si rifà alla distinzione tra “norme di diritto processuale”, di immediata applicazione, e “norme di diritto sostanziale”, che possono applicarsi a fatti pregressi soltanto se dichiarate espressamente retroattive, non assume rilievo decisivo, bene potendo anche le norme di diritto sostanziale trovare immediata applicazione ai rapporti in corso o non ancora esauriti, trovando limite la retroattività nella impossibilità di modificare “ex post” i fatti genetici (e cioè gli elementi strutturali costitutivi) del rapporto che hanno ormai esaurito i loro effetti con il perfezionamento della fattispecie normativa; diversamente, gli aspetti funzionali connessi alla esecuzione del rapporto bene possono essere regolati diversamente ove sopravvenga una nuova disciplina normativa dei fatti ed atti che debbono ancora verificarsi od essere compiuti.
D- Legittimo affidamento nei criteri di liquidazione.
3.8 Sostengono i ricorrenti che l’applicazione dello “jus superveniens” alla controversia pendente, da un lato, violando il principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), si porrebbe in contrasto con il fondamento dello Stato di diritto volto ad assicurare la certezza del diritto; dall’altro, verrebbe a determinare un ingiustificato differente trattamento di situazioni analoghe in relazione esclusivamente alla diversa durata dei processi.
3.9 Sono noti i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale: “Al legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme retroattive, sia innovative che di interpretazione autentica, purchè tale scelta normativa sia giustificata sul piano della ragionevolezza, attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata. Tra tali valori – costituenti limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi – sono ricompresi il principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti, quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (Corte Cost., sentenza, in data 12 aprile 2017, n. 73). La legittimità costituzionale della norma con efficacia retroattiva, fermo il limite del giudicato (Corte Cost., sentenza, in data 1 luglio 2015, n. 127) e delle situazioni giuridiche consolidate (diritti quesiti), può incidere sui rapporti in corso, sacrificando anche aspettative legittime, laddove tale sacrificio sia il risultato del bilanciamento operato con altri interessi di rilevanza costituzionale ritenuti prevalenti (Corte Cost. ordinanza, in data 22 dicembre 2015, n. 274), e sempre che l’intervento legislativo non sia diretto specificamente a determinare l’esito di una particolare controversia giudiziaria in corso in quanto in tal caso si violerebbero i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, determinando lo sbilanciamento tra le due posizioni in gioco (Corte Cost. sentenza, 30 gennaio 2018, n. 12).
3.10 E’ nota altresì la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha affermato come al Legislatore non sia precluso emanare norme retroattive, purchè la retroattività trovi adeguata giustificazione in “imperative ragioni di interesse generale” (non riducibili, tuttavia, al mero interesse finanziario dello Stato), e sempre che, indipendentemente dal criterio di ragionevolezza della norma retroattiva in quanto funzionale alla risoluzione di contrasti interpretativi, l’intervento legislativo possa ritenersi compatibile con l’art. 6, paragr. 1, CEDU (diritto alla difesa ed al processo equo) e con l’art. 1, n. 1, del Protocollo addizionale CEDU (per cui l’interferenza del Legislatore sulla “res” controversa è assimilato ad illegittima ingerenza nella situazione proprietaria, intesa in senso lato, con riferimento al bene controverso), in relazione al duplice parametro della “prevedibilità” della iniziativa legislativa e dell'”abuso del processo” (cfr. Corte EDU, sez. II, ric. n. 58630/11, sentenza Ljaskaj c. Croazia 20 dicembre 2016): incorrendo, la legge retroattiva, nella violazione delle norme convenzionali laddove sia ravvisabile, nel comportamento delle autorità pubbliche, l’insorgenza di un affidamento sul bene disputato che valga a consolidare l’aspettativa di un determinato esito del giudizio in corso e che renda quindi “imprevedibile” (e per ciò “abusivo”) l’intervento legislativo modificativo, con carattere retroattivo, inteso a volgere a favore dello Stato parte del processo – l’esito della lite, realizzando in tal modo una indebita ingerenza nella gestione del contenzioso giudiziario (cfr. Corte EDU ric. 24846/94, 34165/96, 34173/96, causa Zielinski, Pradal, Gonzalez e altri v. France, sentenza, 28 ottobre 1999; Corte EDU, Grande camera, ric. 36813/97, causa Scordino c/ Italia, sentenza, 29 marzo 2006; Corte EDU ric. 43549/08, 6107/09, 5087/09, causa Agrati ed altri c/ Italia, sentenza, 7 giugno 2011).
3.11 Orbene la categoria della retroattività – così come indagata nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale – non viene legittimamente evocata nel caso di specie, in quanto la norma in esame, volta ad individuare il “valore-punto” tabellare, non modifica – come si è detto – la disciplina normativa della fattispecie dell’illecito civile, modificandone gli elementi costitutivi, ma opera invece all’interno della stessa, modellando il potere giudiziale di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale.
Il fenomeno descritto non è pertanto assimilabile a quello della successione delle leggi con effetti abrogativi, atteso che non vi era alcuna norma preesistente volta a definire il “valore-punto” in modo differente dalla norma successiva. Non possono ritenersi tali, infatti, le disposizioni degli artt. 1226 e 2056 c.c. in quanto dirette esclusivamente ad attribuire al Giudice il potere di integrazione equitativa ed anch’esse estranee alla fattispecie dell’illecito civile, da rinvenire esclusivamente nelle norme che dispongono – nel caso che, dall’inadempimento contrattuale o dalla condotta illecita extracontrattuale, derivino conseguenze pregiudizievoli – l’obbligo di risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale (artt. 1218,2043 e 2059 c.c.).
Nè la norma sopravvenuta della legge Balduzzi può essere assimilata al fenomeno cd. del “prospettive overruling”, che attiene esclusivamente al piano dell’attività interpretativa delle norme di diritto, in ordine alla quale non trova, pertanto, applicazione il principio di irretroattività della legge, al quale rimane estraneo, tanto il mutamento di giurisprudenza, quanto la risoluzione di contrasti giurisprudenziali, ancorchè conseguenti a decisioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione (e neppure in presenza di una interpretazione consolidata della Corte di legittimità, poichè è jus receptum – Corte cass., S.U., n. 15144/2011; id. n. 174/2015; id., n. 27775/2018; id., n. 4135/2019) che il valore e la forza del “diritto vivente”, quand’anche proveniente dal Giudice di vertice del plesso giurisdizionale, è meramente dichiarativo e non si colloca sullo stesso piano della cogenza che esprime la fonte legale, alla quale il Giudice è soggetto ex art. 101 Cost.), atteso che “un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole, non ha la stessa efficacia delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante il difetto di vincolatività della decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati ad occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza che impedisce di considerare i fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno ius novum. L’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite “aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma come lo stesso rimettente riconosce – si tratta di connotati solo “tendenziali”, in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “persuasivo. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto” (cfr. Corte costituzionale, sentenza, in data 12 ottobre 2012, n. 230). Ed è proprio l’assenza di vincolatività cogente della interpretazione che impedisce che il giudicato ex art. 2909 c.c., formatosi su una controversia risolta in base alla precedente interpretazione di una norma, possa spiegare efficacia vincolante in una successiva controversia in cui viene in questione la medesima norma: l’esercizio della funzione giurisdizionale, in un ordinamento processuale nel quale non opera lo “stare decisis”, non può mai costituire limite alla attività esegetica esercitata da un altro Giudice (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 23723 del 21/10/2013; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 174 del 09/01/2015), con la rilevante conseguenza che la pretesa immutabilità della interpretazione giurisprudenziale non può integrare il fondamento esclusivo di un interesse consolidato, e per ciò tutelabile, al legittimo affidamento sulla risoluzione della controversia giudiziale (cfr. Corte cass. n. 174/2015 cit., che richiama Corte EDU, ric. 20153/04, causa Unedic c. Francia, sentenza, 18 dicembre 2008, e Corte EDU causa Nejdet Sahin e Perihan Sahin, sentenza, 20 ottobre 2011), pur dovendosi precisare per completezza che, “in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, l’adozione di una soluzione difforme dai precedenti non può essere nè gratuita, nè immotivata, nè immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile come tale, ossia comprensibile, ciò che avviene più facilmente se sia esplicitata a mezzo della motivazione” (cfr. Corte cass. Sez. U -, Sentenza n. 11747 del 03/05/2019).
Non si ha, peraltro, nel caso dello jus superveniens della legge Balduzzi, neppure la sostituzione del precetto normativo con un consolidato indirizzo giurisprudenziale, atteso che non vengono in questione le categorie giuridiche individuatrici delle “voci” e dei “tipi” di danno risarcibile, nè tanto meno i principi di diritto concernenti la funzione reintegrativa del risarcimento del danno, od ancora il fondamento egualitario della modalità di ristoro del danno alla salute, che anzi vengono ad essere confermati proprio dalla disciplina legislativa sopravvenuta che, tramite il richiamo all’art. 138 CAD, viene a riconoscere la correttezza ed adeguatezza del criterio tabellare in quanto portato della precedente elaborazione giurisprudenziale in materia (in tal senso, infatti, deve essere correttamente inteso l’arresto di Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, in quanto rivolto a garantire la uniformità di trattamento sull’intero territorio nazionale, e non anche a stabilire o addirittura a cristallizzare il valore del “punto base” calcolato nelle Tabelle milanesi, sempre suscettibile di modifica nel tempo in relazione alla variazione – oltre che dei fenomeni di svalutazione della moneta – dei dati statistici rilevati dalla media delle liquidazioni operate dagli Uffici giudiziari o di più aggiornati criteri di rilevazione degli indici di determinazione di detto valore: il riferimento alle Tabelle milanesi trovava giustificazione, non in una verifica selettiva peraltro impossibile avuto riguardo ai limiti del sindacato di legittimità – dei valori più adeguati tra tutte le Tabelle di liquidazione del danno biologico in uso, ma nella maggiore diffusione pratica che le stesse avevano avuto tra gli Uffici giudiziari rispetto ad altre Tabelle pure in uso).
3.12 Nella specie si viene, invece, a riscontrare il diverso fenomeno in cui il diritto positivo viene a disciplinare un settore – quello della quantificazione del danno non patrimoniale nelle controversie per responsabilità sanitaria-precedentemente lasciato al potere giudiziale integrativo, venendo di fatto a ridurre l’ambito della discrezionalità del Giudice, definito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., predeterminando -in via generale ed astratta – il “valore del punto base” da assumere per la liquidazione del danno biologico relativo alle cd. “micropermanenti” (non essendo stata data ancora attuazione all’art. 138, comma 1, CAD che prevede la redazione di una apposita Tabella unica nazionale per le lesioni determinati invalidità superiori al 9%), sostituendosi la norma di legge alle prassi di calcolo in uso presso gli Uffici giudiziari, dovendosi al proposito precisare che – allo stato – la norma dell’art. 139 CAD trova piena applicazione, essendo state elaborati i coefficienti moltiplicatori corrispondenti ai singoli incrementi del grado di invalidità (da 1% a 9%), con variazione del valore-punto base (cfr., da ultimo, DM Sviluppo Economico, in data 9.1.2019), così come trova piena attuazione il criterio di liquidazione del danno biologico temporaneo, essendo stato determinato (da ultimo con il decreto ministeriale indicato) l’importo relativo ad ogni giorno di inabilità assoluta (modulabile in caso di inabilità parziale in relazione alla effettiva riduzione percentuale della capacità biologica: art. 138, comma 2, lett. f); art. 139, comma 1, lett. b) CAD). Trovano, altresì, immediata applicazione anche i criteri di liquidazione intesi a “personalizzare” il valore dell’ammontare del danno da invalidità permanente, secondo gli aumenti individuati per le micropermanenti (fino al
– 20%, comprensivo, per espresso dictum del giudice delle leggi, anche della
– voce di danno morale: art. 139, comma 3, CAD) e per le lesioni di maggiore gravità (personalizzazione del danno dinamico relazionale fino al 30%: art. 138, comma 3, CAD).
Orbene, tale intervento legislativo, proprio perchè non va ad incidere su alcuno degli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile, non intacca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite nel patrimonio del soggetto, e dunque è insuscettibile di ledere l’affidamento riposto dai soggetti di diritto nella stabilità dei rapporti già insorti ed esauriti e nella prevedibilità degli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega a determinati fatti o condotte. La norma sopravvenuta si rivolge esclusivamente al Giudice delimitandone l’ambito di discrezionalità nella liquidazione del danno con criterio equitativo e indicando quale più adeguato il criterio tabellare, onde porre al riparo l’esercizio del potere giurisdizionale – conformatosi al criterio legale – da eventuali critiche in diritto per violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., volte a contestare la arbitrarietà, illogicità od assenza di motivazione della quantificazione del danno non patrimoniale.
3.13 Deve, dunque, concludersi affermando che le norme legislative del 2012 (immodificate, per quanto concerne i criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, dalla successiva L. 8 marzo 2017, n. 24 cd. Gelli-Bianco), trovano diretta applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale con il solo limite della formazione del giudicato interno sul “quantum” -, non essendo ostativa la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa ed il danno si sia prodotto anteriormente alla entrata in vigore della legge, o che l’azione risarcitoria sia stata promossa prima dell’intervento legislativo, nè potendo configurarsi una ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, tenuto conto che proprio e soltanto la definizione del giudizio – e la formazione del giudicato – preclude una modifica retroattiva della regola giudiziale che disciplina il rapporto, a garanzia della autonomia della funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere giudiziario.
3.14 In relazione alle questioni esaminate deve, pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto:
“Non intervenendo a modificare con efficacia retroattiva gli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile (negando od impedendo il risarcimento di conseguenze – dannose già realizzatisi), il D.L. 13 settembre 2012, n. 138, art. 3, comma 3, convertito, con modificazioni, nella L. 8 novembre 2012, n. 189 (cd. legge Balduzzi che dispone l’applicazione, nelle controversie concernenti la responsabilità – contrattuale od extracontrattuale – per esercizio della professione sanitaria, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale secondo le Tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del CAD – criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, confermati anche dalla successiva L. 8 marzo 2017, n. 24 cd. Gelli-Bianco -), trova diretta applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione, in pendenza del giudizio, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, con il solo limite della formazione del giudicato interno sul “quantum”.
Non è ostativa, infatti, la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa, ed il danno si sia prodotto, anteriormente alla entrata in vigore della legge, o che l’azione risarcitoria sia stata promossa prima dell’entrata in vigore del predetto decreto legge; nè può configurarsi una ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, atteso che proprio e soltanto la definizione del giudizio – e la formazione del giudicato – preclude una modifica retroattiva della regola giudiziale a tutela della autonomia della funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere giudiziario. Neppure può ravvisarsi una lesione del legittimo affidamento in ordine alla determinazione del valore monetario del danno non patrimoniale, in quanto il potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno, riservato al Giudice di merito, si colloca su un piano distinto e comunque al di fuori della fattispecie legale della responsabilità civile: la norma sopravvenuta non ha, infatti, modificato gli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega alla condotta illecita, nè ha inciso sulla esistenza e sulla conformazione del diritto al risarcimento del danno insorto a seguito del perfezionamento della fattispecie”.
p..4 In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Il perdurante contrasto nelle soluzioni adottate dalla giurisprudenza di merito in ordine alla questione esaminata, e la assoluta novità delle questioni trattate, che hanno necessitato dell’intervento nomofilattico di questa Corte, costituiscono ragioni idonee a dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di X.X., Ta.Al. ed TA.EL. riportati nella sentenza.

Nel caso in cui l’abitazione acquistata con i benefici prima casa sia soggetta alla disciplina dei beni culturali, il termine di diciotto mesi per il trasferimento della residenza nel Comune ove è ubicato l’immobile non decorre dalla data dell’atto di acquisto ma dal momento del mancato esercizio della prelazione da parte del Ministero competente.

Cass. civ. Sez. V, 6 novembre 2019, n. 28561
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12160-2013 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOCHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.D., elettivamente domiciliato in ROMA VIA VENTIQUATTRO MAGGIO 43 (CHIOMENTI STUDIO LEGALE), presso lo studio dell’avvocato CORRADO GRANDE, che lo rappresenta e difende giusta procura a margine;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 59/2012 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 20/03/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/09/2019 dal Consigliere Dott. MAURA CAPRIOLI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TOMMASO BASILE che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza nr 59/2012 la CTR di Roma respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della CTP di Roma nr 555/2009, con cui era stato accolto il ricorso proposto da C.D. relativo all’impugnativa dell’avviso di liquidazione n. (OMISSIS), emesso dall’Ufficio finanziario per il recupero delle imposte di registro per decadenza dal beneficio delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa, in conseguenza del mancato trasferimento della propria residenza nel Comune in cui era ubicato l’immobile acquistato entro 18 mesi dall’acquisto.
Il Giudice di appello osservava, per gli aspetti che qui rilevano, che l’acquisto dell’immobile in questione, risalente al (OMISSIS), era condizionato all’esercizio della prelazione da parte del Ministero dei Beni Culturali, il quale aveva dichiarato in data 4.2.2004 di non voler esercitare tale prelazione; sicchè il termine per l’obbligatorio trasferimento della residenza previsto dalla legge a carico del contribuente per la fruizione dei benefici fiscali poteva decorrere nascere solamente dal momento in cui fosse certa la disponibilità dell’immobile.
La CTR evidenziava la diversità esistente fra gli effetti civilistici che discendono nei rapporti privatistici una volta superata la condizione sospensiva dalla data della stipulazione, da quelli che attengono al rapporto con il Fisco, soggetto terzo.
Rilevava poi, per ciò che attiene al merito, che l’efficacia probatoria riconosciuta dal giudice di primo grado alla perizia di parte, non contestata dall’Amministrazione finanziaria, non poteva essere scalfita dai motivi addotti dall’Amministrazione con il richiamo agli accertamenti effettuati dall’Agenzia del territorio che aveva qualificato stimato l’immobile come di lusso.
Avverso tale sentenza propone ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a 4 motivi cui resiste con controricorso il contribuente.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione delD.P.R. n. 131 del 1986,art.1della Tariffa, parte prima, nota II bis, degliartt. 1353 e 1360 c.c.e delD.Lgs. n. 490 del 1999,art. 55, 58 e 135.
Critica infatti il ragionamento seguito dal Giudice di appello, il quale non avrebbe fatto buon governo dei principi codificati negliart. 1353 e 1360 c.c.facendo decorrere il termine di 18 mesi, previsti dalla legge per il trasferimento della residenza nel comune di ubicazione dell’immobile acquistato, dalla data di avveramento della condizione.
Osserva che tale interpretazione, oltre che contraria ai principi civilistici, contrasterebbe con la ratio della norma di cui all’art. 1, che è da individuare nell’effettiva destinazione dell’immobile acquistato ad abitazione propria entro il termine di decadenza del potere di accertamento dell’ufficio.
Con un secondo motivo la ricorrente deduce la contraddittoria ed insufficiente motivazione circa i fatti controversi, in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Censura, in particolare, la decisione nella parte in cui ha fatto decorrere il dies a quo dei 18 mesi dalla data della comunicazione dell’opzione di acquisto da parte del Ministero, ossia dalla nota del 4.2.2004, ritenuta irrilevante ai fini in esame per essersi l’esercizio del diritto di prelazione consumato decorsi i sessanta giorni dalla stipula del rogito.
Con un terzo motivo l’Ufficio denuncia la violazione e falsa applicazione delD.P.R. n. 131 del 1986,art.1, delD.M. 2 agosto 1969,art. 6 e dell’art. 2697 c.c. in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamenta che il Giudice di appello non avrebbe considerato che l’accertamento dell’Amministrazione era fondato non soltanto sui criteri indicati nelD.M. 2 agosto 1969,art. 6, ma anche sulla relazione dell’Agenzia del Territorio, organo predisposto alla stima degli immobili ai fini della valutazione delle condizioni per fruire delle agevolazioni della prima causa; la quale aveva considerato di lusso l’abitazione in questione, avente una superficie utile superiore a mq 240. Con l’ultimo motivo la ricorrente si duole dell’omessa motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La difesa erariale critica la decisione nella parte in cui ha ritenuto che l’Amministrazione non avesse contestato la perizia di parte, omettendo così di pronunciarsi in merito alla valenza probatoria della perizia stessa, che era stata invece ampiamente contestata dall’Ufficio.
Il primo motivo è infondato.
Occorre innanzitutto considerare che il bene oggetto di acquisto era vincolato e, come tale, soggetto alla disciplina della L. n. 490 del 1999, vigente ratione temporis, che all’art. 58 impone di denunciare, entro il termine di trenta giorni, gli atti di trasferimento, a qualsiasi titolo, della proprietà di detti beni, al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, disponendo, al comma 3, che: “La denuncia è presentata al competente soprintendente del luogo ove si trova il bene”. Il successivo art. 59 dispone, quindi, che: Il Ministero ha facoltà di acquistare i beni culturali alienati a titolo oneroso al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione” in via di prelazione, da esercitarsi, in base all’art. 60, comma 1, “nel termine di due mesi giorni dalla data di ricezione della denuncia prevista dall’art. 58”.
In pendenza di tale termine, “l’atto di alienazione è inefficace e all’alienante è vietato effettuare la consegna della cosa” (art. 60, comma 3 cit.).
In base alle disposizioni in esame l’acquirente non può ritenersi obbligato al trasferimento della residenza previsto dalla legge stante l’incertezza sul perfezionamento della procedura di prelazione.
E’ pertanto di tutta evidenza che l’inutile decorso del termine di 60 giorni previsto dalla legge per il suddetto esercizio della prelazione rende efficace l’acquisto fra i soggetti contraenti sin dalla data della stipula conformemente alla regola codificatanell’art. 1360 c.c..
Ma la retroattività che deriva dal mancato perfezionamento della procedura di prelazione non può operare nei confronti di soggetti estranei all’ambito negoziale, quale deve ritenersi il Fisco; per di più in correlazione con una condotta del contribuente (trasferimento della residenza) che presupponeva già prodotti quegli effetti con la consegna della cosa che è invece esclusa in pendenza del termine per l’esercizio del diritto in questione.
Condivisibile, in questo quadro, il ragionamento seguito dalla CTR che correttamente ha ritenuto non operante, in pendenza della condizione, alcun obbligo di trasferimento della residenza in applicazione dei principi civilistici che regolano la materia.
Con riguardo poi al secondo motivo, se ne deve rilevare l’infondatezza nei termini in cui è stato dedotto (difetto di motivazione).
La mancanza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, non consentono di ricondurre la critica al vizio di violazione di legge, ove più correttamente avrebbe dovuto essere inquadrato, per mancanza di specificità.
Con riguardo alle censure veicolate con i motivi terzo e quarto, se ne deve rilevare la fondatezza.
L’amministrazione finanziaria, contrariamente a quanto rilevato dalla CTR, aveva contestato la valenza probatoria della perizia di parte ritenendola una mera allegazione difensiva a contenuto tecnico senza valore vincolante per il Collegio; inidonea come tale a scalfire le diverse valutazione espresse dall’Agenzia del territorio sulla effettiva superficie dell’immobile.
L’atto di appello, come emerge dagli ampi stralci riportati in ricorso per gli aspetti più significativi, in ossequio al principio di autosufficienza, evidenziano le contestazioni sollevate in proposito a quel documento di parte ed al suo contenuto, per nulla vagliate dal giudice del gravame.
L’affermazione (erronea) della CTR di mancata contestazione ha fatto sì che la stessa evitasse di prendere dovuta posizione sulla effettiva superficie dell’immobile.
I motivi 3 e 4 vanno accolti e rigettati i primi due.
La decisione va cassata e rinviata alla CTR in diversa composizione che deciderà anche per le spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte:
– accoglie il terzo e quarto motivo di ricorso, rigettati i primi due;
– cassa la decisione impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla CTR del Lazio in diversa composizione, anche per le spese relative alla fase di legittimità.

Negata l’autorizzazione al trasferimento dei figli se nuoce alla relazione col padre.

Tribunale di Verona, 30 dicembre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di VERONA
SEZIONE FAMIGLIA E INTERDIZIONI-INABILITAZIONI CIVILE
Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati: dott. Ernesto D’Amico
Presidente
dott. Virginia Manfroni Giudice rel.
dott. Marco Nappi Quintiliano Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 8198 /2016 promossa da:
CAIA (C.F. // // ), con il patrocinio dell’avv. XX , elettivamente domiciliato in presso il difensore avv.
RICORRENTE
contro
TIZIO (C.F. // // ), con il patrocinio dell’avv. YY , elettivamente domiciliato in P.tta A. De Gasperi 4
37122 Verona presso il difensore
RESISTENTE
CONCLUSIONI
PARTE RICORRENTE: come da foglio di precisazione delle conclusioni depositato in data 19.6.19;
PARTE RESISTENTE: come da foglio di precisazione delle conclusioni depositato in data 19.6.19;
PUBBLICO MINISTERO: nulla.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
La domanda di scioglimento del matrimonio è fondata e deve essere accolta.
Le parti, che hanno celebrato matrimonio civile in data 6.10.2007 a Sant’Ambrogio di Valpolicella,
matrimonio trascritto presso il Comune di Sant’Ambrogio di Valpolicella, Atti di matrimonio, parte II,
serie C, n. 18, anno 2007, risultano separati in forza di omologa della separazione consensuale del
Tribunale di Verona di data 27.7.15.
Visto il tempo decorso si è protratto lo stato di separazione legale tra gli stessi per il periodo previsto dalla
legge, essendo stato depositato il presente ricorso in data 11.8.2016 né è stata eccepita un’intervenuta
riconciliazione.
Ricorrono pertanto gli estremi previsti dall’art.3 n.2 lett. b) L.898/70 e successive modifiche per la
pronuncia dello scioglimento del matrimonio, dovendo ritenersi accertato che la comunione materiale e
spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita.
Dal matrimonio sono nate le figlie Sempronietta e Tulliola nate il 27.3.2009 di cui entrambe le parti
chiedono l’affido condiviso con collocamento prevalente presso la madre.
La questione oggetto di causa ha investito invece il luogo della residenza delle minori insieme alla madre,
in considerazione del fatto che la ricorrente fin dall’inizio del procedimento ha chiesto l’autorizzazione al
trasferimento con le figlie a Varazze (SV).
Secondo le allegazioni della ricorrente tale trasferimento non sarebbe di pregiudizio per le minori ma le
riavvicinerebbe al nucleo familiare di origine della madre, cui le figlie sono molto legate (cfr. relazione
Servizi Sociali della Liguria 31.3.2017); consentirebbe inoltre alla ricorrente di giovarsi dell’aiuto dei
propri genitori nella gestione delle figlie senza ricorrere ad aiuti esterni di babysitter; le consentirebbe di
non pagare costi abitativi fissi grazie alla casa messa a disposizione a titolo di comodato gratuito dai
genitori e non sarebbe lesivo del diritto di visita del padre che dovrebbe solo configurarsi in modo da
svolgersi maggiormente nei fine settimana e durante le vacanze scolastiche.
Tali argomentazioni della ricorrente non possono trovare accoglimento, come già evidenziato
nell’ordinanza depositata in data 18.7.2017 che va in questa sede integralmente confermata.
Occorre infatti in primo luogo considerare l’età delle minori (quasi 11 anni) con il conseguente stabile
consolidamento di una rete di relazioni sociali di cui danno atto anche le insegnanti interpellate dai Servizi (cfr. relazione 14.6.17).
Inoltre ad un iniziale squilibrio nei rapporti di cura e accudimento delle figlie instauratosi subito dopo la
nascita delle stesse (con una sostanziale esclusione del padre per volontà anche della madre che di fatto
alla nascita delle figlie ha passato molto tempo presso la sua famiglia di origine in Liguria, per poi far
venire la madre a Verona per aiutarla) nel corso del procedimento si è creato un nuovo equilibrio tra i due
genitori nella ripartizione della cura concreta delle figlie.
Tale inversione di rotta è stata suggerita dagli stessi Servizi in quanto tra madre e figlie si era instaurato
un rapporto di esclusività bilaterale che poteva risultare nocivo per la crescita serena delle minori (cfr.
relazione Servizi 14.6.17).
In altri termini dall’osservazione delle relazioni familiari operata dai Servizi dal dicembre 2017 al marzo
2019, si è potuto registrare come inizialmente i rapporti genitoriali fossero improntati ad una rigida
distinzione: il padre pensa al mantenimento della famiglia, la madre (pur inserita part time nel mondo
lavorativo) alla cura in senso ampio delle figlie, compreso l’aspetto dei rapporti con gli istituti scolastici.
Tale paradigma si è rivelato ben presto disfunzionale in quanto ha da un lato isolato sempre di più la
madre che si è sentita nei fatti sola nel compito di crescere le figlie; dall’altro ha anche allontanato il padre
da aspetti piacevoli della propria funzione genitoriale.
Tale assetto è stato realizzato da entrambi, anche se i Servizi sottolineano l’apporto in tal senso arrecato
dalla ricorrente che preferiva l’aiuto della propria famiglia di origine rispetto al contributo pratico del
marito nella gestione delle figlie.
In tale contesto va letta la richiesta reiterata di trasferimento vicino alla casa dei genitori: ancora una volta
la madre preferisce che a coadiuvarla nella crescita delle figlie siano i genitori, piuttosto che il padre delle
stesse, da cui evidentemente si è sentita delusa.
Così facendo la ricorrente è come se cancellasse tutto quello che è stato per tornare alle origini, quando
lei viveva ancora in Liguria con la sua cerchia famigliare.
Ciò non è possibile, però, perché nel frattempo si è creata una sua famiglia altrove, sono arrivate due
bambine che sono cresciute fino ai 10 anni a Verona godendo della presenza del padre e della madre, con
cui hanno un rapporto spontaneo e improntato a grande affetto
Inoltre a Verona la ricorrente può contare di un lavoro sicuro e di una casa (dove sono nate e cresciute le
sue figlie) concessa a titolo gratuito dai genitori, nonché, ed è questa la cosa più importante, dell’aiuto del
padre delle sue figlie nella loro crescita e nell’affrontare le sfide che la stessa comporterà con la funzione
normativa propria del paterno, così importante soprattutto in vista del prossimo periodo adolescenziale.
Per l’insieme di tali motivi, pertanto, la domanda di trasferimento dovrà essere rigettata.
Dal collocamento prevalente delle figlie a Verona con la madre, discende l’assegnazione della casa
familiare alla ricorrente, casa che in ogni caso è di titolarità dei genitori della stessa la quale l’hanno messa
a disposizione a titolo di comodato gratuito alla figlia.
Con riferimento al diritto di visita del padre anche alla luce delle indicazioni contenute nelle relazioni in
atti va disposto un ampliamento dello stesso nel senso indicato dal resistente in modo da consolidare
l’ambiente paterno come ulteriore valido punto di riferimento affettivo e sociale per le minori.
Va pertanto disposto che le minori possano stare con il padre a fine settimana alternati dal venerdì
pomeriggio al lunedì mattina; un pomeriggio infrasettimanale con pernotto e nelle settimane in cui i fine
settimana sono di pertinenza della madre, un ulteriore pomeriggio infrasettimanale da concordare tra le
parti; in via alternata dal 24.12 al 30.12 o dal 31.12 al 6.1; per 3 giorni durante le vacanze di Pasqua; altre
festività alternate; per 15 giorni, anche non consecutivi durante le vacanze estive da concordare entro il
30.4 di ciascun anno.
Per quanto attiene alla determinazione del contributo al mantenimento per le minori, anche in
considerazione dell’aumento dei tempi di permanenza presso il padre e del complessivo maggior apporto
del padre nella vita delle figlie, appare equo determinarlo in complessivi euro 500,00 mensili oltre al 50%
delle spese straordinarie da Protocollo Famiglia del Tribunale di Verona.
Ciò anche in relazione ai redditi delle parti come documentati in atti (cfr. euro 1.089,00 mensili netti per
la ricorrente dalla CU 2019; euro 2.582,00 netti mensili per il resistente CU 2019); dell’assenza di spese
abitative fisse per la ricorrente e del peso dei costi mensili per mutui e finanziamenti per il resistente.
Con riferimento, infine, all’assegno divorzile, va confermata la misura dello stesso in euro 50,00 mensili
anche in ragione del fatto che le scelte di vita della coppia hanno nei fatti allontanato la ricorrente dal proprio mondo di origine da cui avrebbe in ogni caso ricevuto cura e
supporto nel quotidiano.
La scelta condivisa dei coniugi di spostare altrove la residenza familiare ha sicuramente danneggiato la
ricorrente, privandola di punti di riferimento sicuri e, anche in considerazione delle minori entrate della
stessa, appare equo prevedere un assegno divorzile, la cui misura come concordata dalle parti in sede di
omologa della separazione in data 8.7.15, appare ancora oggi adeguata in relazione alle condizioni
economiche attuali delle stesse.
Dalla soccombenza reciproca discende la compensazione delle spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così
dispone:
1. Dichiara lo scioglimento del matrimonio contratto tra le parti in data 6.10.2007 a Sant’Ambrogio
di Valpolicella, matrimonio trascritto presso il Comune di Sant’Ambrogio di Valpolicella, Atti di
matrimonio, parte II, serie C, n. 18, anno 2007.
2. Dispone l’affido condiviso delle minori con collocamento prevalente delle stesse presso la madre.
3. Rigetta la domanda di trasferimento della ricorrente.
4. Assegna la casa familiare alla ricorrente.
5. Dispone il diritto di visita del padre nelle modalità indicate nella parte motiva.
6. Pone a carico del resistente l’obbligo di contribuire al mantenimento delle figlie con il versamento
del contributo mensile di euro 500,00 sul conto corrente indicato dalla ricorrente entro il 28 di
ogni mese, oltre al 50% delle spese straordinarie da Protocollo Famiglia del Tribunale di Verona.
7. Pone a carico del resistente l’obbligo di versare alla ricorrente un assegno divorzile di euro 50,00
mensili, rivalutabili Istat.
8. Manda il Cancelliere a trasmettere copia autentica del dispositivo della presente sentenza,
limitatamente al capo 1, ove passato in giudicato, all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di
Sant’Ambrogio di Valpolicella, perché provveda alle annotazioni ed ulteriori incombenze di
legge.
9. Compensa le spese di lite tra le parti.
Così deciso a Verona, nella camera di consiglio del 19.12.19
Il Giudice est. Il Presidente
dott. Virginia Manfroni dott. Ernesto D’Amico