Violazione dell’obbligo di fedeltà e onere della prova

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 30 ottobre 2019, n. 27777 – Pres. Genovese, Cons. Rel. Mercolino

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9612/2017 R.G. proposto da:
D.I.R., rappresentata e difesa dall’Avv. Marco Gamba, con domicilio in Roma, piazza Cavour,
presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
– ricorrente –
contro
I.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Elena Corielli, con domicilio eletto in Roma, via M. d’Azeglio,
n. 33, presso lo studio dell’Avv. Federica Menici;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 3744/16 depositata il 10 ottobre 2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 settembre 2019 dal Consigliere Guido
Mercolino.
Svolgimento del processo
che D.I.R. ha proposto ricorso per cassazione, per quattro motivi, avverso la sentenza del 10 ottobre
2016, con cui la Corte d’appello di Milano ha rigettato il gravame da lei interposto avverso la
sentenza non definitiva emessa dal Tribunale di Milano il 9 febbraio 2015, che aveva pronunciato la
separazione personale della ricorrente dal coniuge I.P., con addebito a carico della D., rigettando la
domanda di addebito della separazione all’ I. e quella di riconoscimento di un assegno di
mantenimento in favore della ricorrente;
che l’ I. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
che con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa
applicazione dell’art. 2697 c.c., e degli artt. 116 e 183 c.p.c., censurando la sentenza impugnata nella
parte in cui, ai fini della pronuncia in ordine alle reciproche domande di addebito della separazione,
ha rigettato l’istanza di ammissione delle prove testimoniali da lei dedotte a sostegno dell’allegata
riconducibilità della crisi coniugale al comportamento opprimente, assente e moralmente discutibile
del coniuge e della assenza di nesso causale con la relazione extraconiugale da lei intrapresa, e ha
omesso di valorizzare la relazione del c.t.u., da cui emergevano profili rilevanti della personalità
dell’ I.;
che il motivo è inammissibile, in quanto il rigetto dell’istanza di ammissione delle prove
testimoniali è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione,
configurabile a condizione che lo stesso si sia tradotto nell’omessa motivazione su un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, e quindi che la prova non ammessa sia idonea a dimostrare
circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle
altre risultanze istruttorie in base alle quali si è formato il convincimento del giudice di merito, di
modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (cfr. Cass., Sez. II, 29/10/2018, n.
27415; Cass., Sez. III, 7/03/2017, n. 5654);
che la deduzione del predetto vizio postula d’altronde che la parte non si limiti ad indicare le prove
non ammesse, trascrivendo nel ricorso i capitoli che ne costituiscono oggetto o fornendo le
indicazioni necessarie per rintracciarli negli atti di causa, ma evidenzi l’esistenza di un nesso
eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, dimostrando che la
pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, in modo da consentire al giudice di legittimità
un controllo sulla decisività delle prove (cfr. Cass., Sez. I, 4/10/2017, n. 23194; 22/02/2007, n.
4178);
che nella specie, invece, la ricorrente si limita a richiamare i capitoli di prova dedotti nelle memorie
depositate ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, e nell’atto di appello, insistendo genericamente
sull’idoneità degli stessi a dimostrare la riconducibilità della crisi coniugale al comportamento
tenuto dal coniuge, senza censurare specificamente le ragioni addotte dalla sentenza impugnata a
fondamento del giudizio d’irrilevanza e contraddittorietà delle circostanze capitolate, e senza tener
conto dell’affermazione della Corte territoriale, avente carattere dirimente, secondo cui nessuna
istanza istruttoria era stata avanzata in riferimento ai più gravi comportamenti addebitati all’ I.;
che pertanto, anche a voler prescindere dall’esclusivo riferimento della ricorrente al vizio di
violazione di legge, le predette censure non possono trovare ingresso in questa sede, risolvendosi
nella sollecitazione di un nuovo apprezzamento in ordine all’ammissibilità ed alla rilevanza dei
mezzi di prova, non consentito a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il
merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni
svolte nelle sentenza impugnata, nonchè la coerenza logica delle stesse, nei limiti in cui le relative
anomalie risultano ancora censurabili ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo
modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni
dalla L. 7 agosto 2012, n. 134;
che per analoghi motivi risultano inammissibili le censure riflettenti l’omessa valorizzazione delle
argomentazioni svolte nella relazione del c.t.u., delle quali la ricorrente si limita ad evidenziare
genericamente l’idoneità a fornire “spunti di estrema rilevanza” in ordine alla personalità del
coniuge, in quanto fondate su dichiarazioni rese da quest’ultimo, affermandone l’utilizzabilità come
elementi indiziari, senza neppure considerare che le stesse non riguardavano fatti storici, ma profili
caratteriali dell’ I., inidonei a giustificare una pronuncia di addebito della separazione, in mancanza
della prova di comportamenti da lui tenuti in violazione dei doveri coniugali;
che con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 151
e 156 c.c., ribadendo che, nell’attribuire rilevanza assorbente alla relazione extraconiugale da lei
intrapresa, la sentenza impugnata ha omesso di procedere ad una valutazione globale e comparativa
delle condotte tenute dai coniugi e di tener conto della situazione di crisi familiare già
irrimediabilmente in atto a quell’epoca, ritenendo provato il nesso causale tra quest’ultima e la
condotta infedele di essa ricorrente sulla base delle dichiarazioni rese dal c.t.u., senza che l’ I. avesse
fornito elementi di prova decisivi al riguardo;
che il motivo è infondato, in quanto, nell’addebitare la separazione alla ricorrente, la Corte
distrettuale si è correttamente attenuta al principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di
legittimità, secondo cui la parte che faccia valere la violazione dell’obbligo di fedeltà da parte
dell’altro coniuge è tenuta a provare la relativa condotta ed il nesso causale con l’intollerabilità della
prosecuzione della convivenza, mentre incombe a chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a
fondamento della domanda, e quindi l’inidoneità dell’infedeltà a rendere intollerabile la convivenza,
l’onere di provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi
matrimoniale all’accertata infedeltà (cfr. Cass., Sez. VI, 19/02/2018, n. 3923; Cass., Sez. I,
14/02/2012, n. 2059);
che infatti, dato atto della mancata contestazione dell’intervenuta violazione dell’obbligo di fedeltà
da parte della ricorrente, la sentenza impugnata ha posto in risalto da un lato la mancata
dimostrazione dei fatti allegati a sostegno dell’asserita anteriorità della crisi familiare rispetto alla
relazione extraconiugale da lei intrapresa, dall’altro l’infondatezza dell’assunto secondo cui il
coniuge avrebbe a lungo tollerato il tradimento, richiamando la relazione del c.t.u. soltanto ad
ulteriore conforto degli elementi risultanti dagli atti di parte e dalla documentazione prodotta;
che nel contestare la rilevanza degli elementi posti a fondamento della decisione, la ricorrente
sollecita ancora una volta una rivisitazione dell’accertamento dei fatti risultante dalla sentenza
impugnata, non censurabile in sede di legittimità per violazione di legge, ma esclusivamente per
vizio di motivazione, configurabile nel caso di omessa valutazione di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza impugnata o dagli atti processuali, abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo, ovvero nel caso in cui la
motivazione risulti totalmente assente o meramente apparente, oppure perplessa, incomprensibile o
contraddittoria, al punto tale da rendere impossibile l’individuazione del percorso logico seguito per
giungere alla decisione (cfr. Cass., Sez. VI, 25/09/ 2018, n. 22598; Cass., Sez. II, 13/08/2018, n.
20721; Cass., Sez. III, 12/10/ 2017, n. 23940);
che il rigetto dei primi due motivi comporta l’assorbimento del terzo, con cui la ricorrente ha
lamentato la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 115, 151 e 156 c.p.c., chiedendo, in caso
di accoglimento delle censure riguardanti l’addebito della separazione, il riesame della domanda di
riconoscimento dell’assegno di mantenimento;
che con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 433
c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini del rigetto della domanda di
riconoscimento dell’assegno alimentare, ha conferito rilievo all’apporto economico fornitole dal suo
attuale compagno, non allegato dalla difesa dell’ I. e non avente comunque carattere di stabilità, in
assenza di un rapporto di convivenza;
che, nell’escludere la sussistenza dello stato di bisogno, necessario per il riconoscimento del diritto
agli alimenti, la Corte territoriale ha svolto due distinti ordini di considerazioni, autonomamente
idonee a sorreggere la decisione adottata, e costituite rispettivamente dal contributo economico
fornito alla ricorrente dal nuovo compagno e dalla mancata prova dell’impossibilità oggettiva di
provvedere autonomamente al proprio sostentamento;
che, nell’impugnare la predetta statuizione, la ricorrente si limita a negare il predetto apporto ed a
contestarne comunque la stabilità, senza censurare l’affermazione della sentenza impugnata,
secondo cui ella è ancora in grado di procurarsi da sola i mezzi economici necessari per il suo
mantenimento, avendo quarantacinque anni e non risultando affetta da patologie;
che nel caso in cui, come nella specie, la decisione sia fondata su una pluralità di ragioni
logicamente e giuridicamente distinte, la mancata impugnazione di alcune delle stesse rende
inammissibili, per difetto d’interesse, le censure relative alle altre, non potendo queste ultime
condurre all’annullamento della sentenza, destinata a reggersi autonomamente sulla base delle
ragioni non contestate (cfr. Cass., Sez. I, 29/12/2017, n. 31182; Cass., Sez. VI, 18/04/2017, n. 9752;
Cass., Sez. III, 14/02/2012, n. 2108);
che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle
spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del contro-ricorrente, delle spese
del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie
nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre
2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di
informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti
riportati nell’ordinanza.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi,
a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2019

Tramonta la logica del gratuito patrocinio in favore del principio del patrocinio a carico dell’erario.

Corte Costituzionale, 1^ottobre 2019
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica
30 maggio 2002, n. 115, recante: «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
spese di giustizia. (Testo A)», promossi dal Tribunale ordinario di Roma, con ordinanze del 21 giugno e del
17 settembre 2018, iscritte rispettivamente al n. 154 del registro ordinanze 2018 e al n. 8 del registro
ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno
2018 e n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2019 il Giudice relatore Aldo Carosi.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 21 giugno 2018 (r. o. n. 154 del 2018), il Tribunale ordinario di Roma ha sollevato, in
riferimento agli artt. 1, 3, 4, 24, 35, primo comma, e 36 della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115,
recante: «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo
A)».
Riferisce il rimettente che, nel corso di un procedimento regolato dall’art. 696-bis del codice di procedura
civile, per l’espletamento di una consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione di una lite e in
presenza di una fattispecie di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, è stato conferito un apposito
incarico ai consulenti tecnici.
Nel corso del procedimento sarebbe emerso che gli onorari dovuti ai predetti consulenti non potevano
essere corrisposti perché anche la parte (il coniuge dell’ammesso al patrocinio) a carico della quale erano
stati posti gli oneri della consulenza non era in grado di ottemperarvi e che si doveva pertanto applicare
l’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002.
Tale disposizione stabilisce, al riguardo, che gli onorari dovuti al consulente tecnico di parte e all’ausiliario
del magistrato sono prenotati a debito, a domanda, anche nel caso di transazione della lite, se non è
possibile la ripetizione dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali, o dalla stessa parte
ammessa, per vittoria della causa o per revoca dell’ammissione.
Secondo il rimettente, la previsione sarebbe irragionevole perché si fonderebbe sul principio, confermato
dal diritto vivente, per cui i consulenti tecnici del giudice debbono lavorare gratuitamente nel caso in cui
una parte sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato e non vi siano altri soggetti sui quali possa
farsi gravare il diritto al compenso per il lavoro svolto.
1.1.‒ In ordine alla rilevanza, premesso che si tratta del procedimento disciplinato dall’art. 696-bis cod.
proc. civ., procedimento che non sarebbe destinato a concludersi con una pronuncia sulle spese in base
all’art. 91 cod. proc. civ., trattandosi di fattispecie riconducibile al quinto comma del predetto art. 696-bis, il
giudice a quo deduce che soltanto attraverso la pronuncia di illegittimità costituzionale potrebbe essere
garantito un compenso ai consulenti nominati nel procedimento al suo esame.
Infatti, disposta la prenotazione a debito ed emesso il decreto di liquidazione, non sarebbe comunque dato
corso al pagamento da parte del Ministero della giustizia (come chiarito, in proposito, dalla circolare 8
giugno 2016, recante «Quesiti relativi all’interpretazione dell’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 30
maggio 2002 e successive modificazioni») in virtù delle disposizioni che regolano il procedimento di
prenotazione a debito, alle quali si atterrebbe il medesimo Ministero, nel rigoroso rispetto della lettera
della legge.
1.2.‒ Il rimettente si dichiara consapevole del fatto che la norma censurata è stata più volte sottoposta
all’esame di questa Corte con esito negativo; tuttavia, ritiene che gli specifici profili di incostituzionalità
inerenti alla fattispecie concreta siano diversi e ulteriori rispetto a quelli vagliati dalla pregressa
giurisprudenza della Consulta.
Il Ministero della giustizia avrebbe emanato la già menzionata circolare 8 giugno 2016, che il rimettente
afferma di condividere, in cui sarebbe stata data contezza del fatto che l’amministrazione non dà seguito ai
decreti di liquidazione dei giudici in favore dei consulenti tecnici nei procedimenti in cui vi sia stata
ammissione al patrocinio a spese dello Stato e prenotazione a debito e non sia possibile ottenerne il
pagamento a carico delle parti. Tale pagamento non seguirebbe necessariamente la richiesta di
prenotazione a debito da parte del consulente, poiché non vi sarebbe alcun automatismo tra la
prenotazione a debito e il pagamento degli onorari, che risulterebbe meramente eventuale, essendo
normativamente condizionato all’effettivo recupero della somma prenotata a debito da parte dell’ufficio
giudiziario (la norma dell’art. 3, lettera s, definisce «prenotazione a debito» l’annotazione «a futura
memoria di una voce di spesa, per la quale non vi è pagamento, ai fini dell’eventuale successivo recupero»).
In conclusione, rammentata la differenza tra la prenotazione a debito, che consiste, appunto,
nell’annotazione a futura memoria di una voce di spesa per la quale non è possibile realizzare la correlata
entrata, secondo il giudice rimettente la norma in esame assimilerebbe alle “spese” non sostenute dallo
Stato, per le quali la prenotazione a debito sarebbe appropriata, “spese” che, per definizione, non
dovrebbero essere condizionate dal previo recupero, vigendo il nuovo orientamento legislativo del
patrocinio a carico dell’erario.
Non osterebbe a una pronuncia nel merito l’esercizio della discrezionalità legislativa perché questa incontra
il limite della ragionevolezza e della coerenza interna del sistema normativo.
Il rimettente, anche se ritiene le precedenti argomentazioni già idonee a decidere la questione sollevata,
aggiunge la considerazione che, in via generale, appare difficilmente sostenibile la ragionevolezza del
diverso trattamento che riceve il consulente tecnico nel giudizio penale, al quale vengono anticipati
compensi, rispetto al trattamento riservatogli nel giudizio civile. Inoltre, con specifico riferimento al
procedimento di cui all’art. 696-bis cod. proc. civ., evidenzia che non è configurabile la soccombenza in
detto giudizio, dal momento che esso si conclude o con la conciliazione o con il deposito della relazione; né,
come già detto in precedenza, sarebbe configurabile una posteriore regolamentazione delle spese, anche in
considerazione del fatto che la successiva fase del giudizio è meramente eventuale.
2.− è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha concluso per l’inammissibilità o la manifesta
infondatezza della questione sollevata.
Essa sarebbe astratta e meramente ipotetica, e dunque irrilevante, dal momento che non risulterebbe che i
consulenti tecnici abbiano chiesto l’immediato pagamento dei rispettivi compensi, tanto più che non
sarebbe loro consentito – come si evince dall’art. 63 cod. proc. civ. e dall’art. 366 del codice penale –
rifiutare di prestare la relativa attività, avendo manifestato, con l’iscrizione all’albo, un consenso preventivo
alla nomina (al riguardo è citata la sentenza di questa Corte n. 136 del 2016). La rilevanza della questione
non potrebbe derivare dal fatto che il rimettente ha attribuito ai consulenti un fondo spese: infatti, l’art. 83
del d.P.R. n. 115 del 2002 prevede che la liquidazione delle spese e dei compensi debba avvenire al termine
di ciascuna fase processuale.
Inoltre il giudice rimettente avrebbe omesso il doveroso tentativo di interpretazione adeguatrice della
disposizione in esame.
Nel merito, la questione, affrontata più volte da questa Corte, sarebbe manifestamente infondata.
Il senso della disposizione sarebbe infatti quello di onerare l’ausiliario del giudice della riscossione del
compenso dalle parti e, solo qualora ciò non fosse possibile, ammettere la riscossione mediante
prenotazione a debito. Per tale motivo, la Corte avrebbe escluso il paventato vulnus anche nel caso in cui
risulti preclusa la possibilità di recuperare l’onorario dal soccombente o nel caso in cui la consulenza venga
disposta in un procedimento di volontaria giurisdizione.
Dovrebbe, inoltre, escludersi la lesione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento tra l’ausiliario del
giudice e il difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, stante l’eterogeneità delle
figure processuali messe a confronto, così come tra l’ausiliario del giudice nel processo penale e nel
processo civile, per l’ontologica diversità dei due tipi di processo.
3.− Il medesimo Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza del 17 settembre 2018 (r. o. n. 8 del 2019), nel
corso di un altro procedimento instaurato ai sensi dell’art. 696-bis cod. proc. civ., ha sollevato identica
questione di legittimità costituzionale.
In punto di rilevanza, in particolare, dal momento che era emerso che i ricorrenti godevano del patrocinio a
spese dello Stato, il giudice rimettente espone che «prospettandosi la certezza che lo svolgimento
dell’impegnativo lavoro che andava a richiedere ai due professionisti C.T.U. sarebbe stato […]
surrettiziamente a titolo gratuito, si riservava di provvedere».
4.− Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri che ha concluso per
l’inammissibilità o l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale con motivazioni
sostanzialmente analoghe al precedente intervento. In particolare, ne ha sostenuto l’infondatezza sul
rilievo che la disposizione censurata dovesse essere interpretata in modo tale da garantire il compenso al
consulente tecnico.
Considerato in diritto
1.– Con due ordinanze di analogo tenore (r. o. n. 154 del 2018 e n. 8 del 2019) il Tribunale ordinario di
Roma, nel corso di due procedimenti promossi ai sensi dell’art. 696-bis del codice di procedura civile, ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131, comma 3, del decreto del Presidente della
Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante: «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di spese di giustizia. (Testo A)», deducendo la violazione degli artt. 1, 3, 4, 24, 35, primo comma, e
36 della Costituzione.
La disposizione censurata stabilisce che gli onorari dovuti al consulente tecnico di parte e all’ausiliario del
magistrato sono prenotati a debito, a domanda, anche nel caso di transazione della lite, se non è possibile
la ripetizione dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali, o dalla stessa parte ammessa
al patrocinio a spese dello Stato, per vittoria della causa o per revoca dell’ammissione. Analoga disciplina è
disposta per gli onorari del notaio per lo svolgimento di funzioni demandategli (nei casi previsti dalla legge)
dal magistrato, nonché per l’indennità di custodia del bene sequestrato.
Essa consente, dunque, la prenotazione a debito del compenso del consulente (e dei soggetti assimilati)
successivamente alla richiesta del relativo pagamento alle parti del giudizio.
Secondo il Tribunale rimettente, l’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002 violerebbe, tra gli altri
parametri, l’art. 3 Cost., in quanto irragionevolmente, nel caso in cui una parte sia stata ammessa al
patrocinio a spese dello Stato e non vi siano altri soggetti sui quali possa farsi gravare il pagamento degli
onorari dovuti, non garantirebbe all’ausiliario del giudice un compenso per la prestazione svolta.
2.− In ragione della comunanza di oggetto, le ordinanze possono riunirsi, per essere decise con unica
sentenza.
3.− Preliminarmente, va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione sollevata dal Tribunale
ordinario di Roma con ordinanza del 17 settembre 2018 (r. o. n. 8 del 2019).
Il rimettente ha sollevato la questione «prospettandosi la certezza che lo svolgimento dell’impegnativo
lavoro che andava a richiedere ai due professionisti C.T.U. sarebbe stato […] surrettiziamente a titolo
gratuito», sospendendo il giudizio. Sotto questo profilo la questione è dunque astratta e ipotetica, perché
prematura, e risulta priva di rilevanza, dal momento che il rimettente non è chiamato a decidere sul
compenso, nemmeno determinato in via provvisoria (art. 8 del d.P.R. n. 115 del 2002) del consulente
tecnico.
4.− Le ulteriori eccezioni sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato devono essere respinte.
Non è condivisibile l’affermazione circa l’asserita carenza del requisito dell’incidentalità. Il giudizio
introdotto dall’ordinanza r. o. n. 154 del 2018 risulta, difatti, connotato da un petitum distinto e autonomo
rispetto alle questioni di legittimità costituzionale sollevate, in quanto volto all’accertamento
dell’inadempimento di obbligazioni sanitarie da parte dell’ente ospedaliero mediante espletamento di una
consulenza tecnica preventiva.
È, inoltre, infondata l’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato,
secondo la quale il giudice a quo non avrebbe adeguatamente vagliato la possibilità alternativa di
interpretare la disposizione censurata in modo conforme a Costituzione. Il rimettente, difatti, esclude tale
possibilità in considerazione del tenore letterale della disposizione.
Egli precisa che, per effetto della definizione legislativa della «prenotazione a debito», non è possibile che,
nella specie, lo Stato si accolli gli onorari delle consulenze, in assenza di un debitore da esso proficuamente
escusso. È costante l’orientamento di questa Corte, secondo cui «[a] fronte di adeguata motivazione circa
l’impedimento ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile, dovuto specificamente al “tenore
letterale della disposizione”, […] “la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a
quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del
processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore
interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità” (sentenza
n. 221 del 2015)» (da ultimo, sentenza n. 12 del 2019).
Infine, il petitum risulta individuato, in via gradata, come si esprime il rimettente, nella «strada maestra
della dichiarazione di incostituzionalità» o «quantomeno» nella sentenza interpretativa di accoglimento
della questione che dichiari l’illegittimità della disposizione nel solo significato difforme dalla Costituzione.
5.− Ai fini della decisione da assumere è utile premettere un quadro riassuntivo dell’evoluzione normativa e
della giurisprudenza costituzionale in materia.
5.1.− L’art. 131 del d.P.R. n. 115 del 2002, nel prevedere gli effetti dell’ammissione al patrocinio a spese
dello Stato, enumera, al comma 2, le spese prenotate a debito e, al comma 4, quelle anticipate dall’erario.
Al comma 3, primo periodo, invece, prevede per gli onorari dovuti al consulente tecnico di parte e
all’ausiliario del magistrato, la prenotazione a debito, a domanda, anche nel caso di transazione della lite,
se non è possibile la ripetizione dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali, o dalla
stessa parte ammessa, per vittoria della causa o per revoca dell’ammissione. Il successivo periodo dispone,
inoltre, che lo stesso trattamento si applichi agli onorari di notaio per lo svolgimento di funzioni ad essi
demandate dal magistrato nei casi previsti dalla legge e all’indennità di custodia del bene sottoposto a
sequestro.
La disposizione censurata consente, dunque, la prenotazione a debito solo successivamente alla previa
infruttuosa intimazione alle parti del giudizio che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità (ex
multis, Corte di cassazione, sezione sesta, ordinanza 9 febbraio 2018, n. 3239; sezione seconda, sentenza
12 novembre 2015, n. 23133) sono solidalmente tenute al pagamento delle spese della consulenza.
L’art. 3, comma 1, del medesimo d.P.R. definisce, alla lettera s), «“prenotazione a debito” […] l’annotazione
a futura memoria di una voce di spesa, per la quale non vi è pagamento, ai fini dell’eventuale successivo
recupero»; alla lettera t), «“anticipazione” […] il pagamento di una voce di spesa che, ricorrendo i
presupposti previsti dalla legge, è recuperabile».
Infine, in base all’art. 133 del d.P.R. n. 115 del 2002, il provvedimento che pone a carico della parte
soccombente non ammessa al patrocinio la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa
dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato. Qualora lo Stato non recuperi, il successivo art.
134 dispone che se la vittoria della causa o la composizione della lite ha posto la parte ammessa al
patrocinio in condizione di poter restituire le spese erogate in suo favore, su questa lo Stato ha diritto di
rivalsa.
Le disposizioni da ultimo richiamate trovano evidentemente applicazione nelle ipotesi in cui il processo dia
un esito positivo per la parte ammessa al patrocinio a carico dello Stato, mentre qualora quest’ultima sia
soccombente non vi sarà pagamento della parte abbiente in favore dello Stato delle spese processuali, né
successivo recupero di dette spese. In questo caso, difatti, nulla potrebbe chiedersi alla parte abbiente,
perché è risultata vittoriosa, e nulla alla parte non abbiente, che è rimasta soccombente nella lite.
La relazione illustrativa che accompagna lo schema del menzionato d.P.R. n. 115 del 2002, in maniera
significativa, segnala, relativamente al comma 3 dell’art. 131, quanto segue: «- in generale, l’ipotesi della
prenotazione a debito successivamente all’infruttuosa escussione da parte del professionista, appare
un’ipotesi di scuola piuttosto che una concreta possibilità, ma in tal senso è la norma originaria; – in
particolare, per quanto attiene ai consulenti tecnici: i soli onorari (le spese sostenute per l’incarico e le
spese e indennità di trasferta sono anticipate, v. comma successivo) sono a domanda prenotati a debito e
riscossi con le spese solo dopo la vana escussione del condannato alle spese non ammesso e dell’ammesso
in caso di revoca dell’ammissione, cui è equiparata la vittoria della causa. Rispetto al r. d. del 1923, la
disciplina incorporata nel testo unico è uguale per le spese, mentre è diversa per gli onorari, perché prima
erano automaticamente prenotati a debito e recuperati nei confronti del condannato non ammesso e
dell’ammesso in caso di revoca o di vittoria a certe condizioni. Oggi, il consulente tecnico agisce
direttamente e, solo se non recupera, chiede l’annotazione a debito e prova il recupero nelle forme
ordinarie delle altre spese».
5.2.− Questa Corte ha già scrutinato la disposizione oggi censurata e, sin dalla sentenza n. 287 del 2008, ha
ritenuto che «[i]l rimettente muove dal presupposto interpretativo secondo cui, nei casi di ammissione di
una parte al patrocinio a spese dello Stato, la disposizione censurata può comportare, in materia civile, che
l’ausiliario del magistrato svolga la sua opera gratuitamente. Al contrario, tale disposizione disciplina il
procedimento di liquidazione degli onorari dell’ausiliario medesimo, predisponendo il rimedio residuale
della prenotazione a debito, a domanda, proprio al fine di evitare che il diritto alla loro percezione venga
pregiudicato dalla impossibile ripetizione dalle parti del giudizio».
Quindi, la successiva ordinanza n. 408 del 2008 ha ribadito «che questa Corte, con la sentenza n. 287 del
2008, ha affermato che l’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel disciplinare il procedimento di
liquidazione degli onorari dell’ausiliario, prevede il rimedio residuale della prenotazione a debito (con
conseguente pagamento da parte dell’Erario), proprio al fine di evitare che il diritto alla loro percezione
venga pregiudicato dall’impossibile ripetizione dalle parti processuali», fornendo una interpretazione degli
artt. 3 e 131 del d.P.R. n. 115 del 2002 nei termini già riportati e poi confermati nelle successive ordinanze
n. 195 del 2009, n. 203 e n. 88 del 2010.
Tale indirizzo è stato ribadito in relazione agli onorari del consulente tecnico, precisandosi che «sono
manifestamente infondati i connessi dubbi in ordine alla concreta possibilità […] di vedersi corrisposti i
propri compensi [dal momento che] questi o graveranno sui soggetti di cui al citato articolo 131 del d.lgs. n.
115 del 2002 ovvero, laddove sia impossibile ripeterli da costoro, se ne potrà chiedere la prenotazione a
debito, con successiva liquidazione a carico dell’Erario» (ordinanza n. 12 del 2013 e, nello stesso senso,
ordinanza n. 88 del 2013).
Secondo le menzionate decisioni, dunque, il professionista, esperito infruttuosamente il tentativo di
recupero nei confronti delle parti, ha diritto a vedersi corrispondere il suo onorario, con “liquidazione” a
carico dell’erario, non subordinata al previo recupero da parte dell’erario stesso. Tale interpretazione,
tuttavia, si pone in contrasto con la disciplina della prenotazione a debito, che non consente il pagamento
degli onorari se non attraverso la previa realizzazione del credito erariale.
Per tale motivo, la suddetta opzione ermeneutica adottata da questa Corte non ha potuto trovare seguito
nella prassi, rendendo impossibile – con riguardo a fattispecie come quella in esame – la liquidazione degli
onorari e delle altre competenze contemplate nell’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002.
Anche il rimettente ha inevitabilmente aderito all’interpretazione contenuta nella precitata circolare del
Ministero della giustizia 8 giugno 2016, recante «Quesiti relativi all’interpretazione dell’art. 131, comma 3,
del d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002 e successive modificazioni». Quest’ultima, dopo aver ricostruito l’iter
normativo e giurisprudenziale della norma impugnata sottolineando che la liquidazione segue
necessariamente la richiesta di prenotazione a debito da parte del consulente, ha concluso per l’inesistenza
di un automatismo tra la prenotazione a debito e il pagamento a carico dell’erario, poiché detto pagamento
presuppone il previo effettivo recupero della somma prenotata a debito.
6.– Alla luce di tali premesse, la questione è fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo del difetto
di ragionevolezza.
Va chiarito che siffatta pronuncia di accoglimento si muove – fatta salva la diversa interpretazione della
disciplina della prenotazione a debito precedentemente precisata – nel solco della pregressa giurisprudenza
di questa Corte, la quale ha affermato il tramonto della logica del gratuito patrocinio, ormai integralmente
sostituito dal principio del patrocinio a carico dell’erario.
Secondo il costante orientamento emergente dalle pronunce precedentemente richiamate, la finalità del
nuovo istituto del patrocinio a spese dello Stato è quella di assicurare la tutela dell’indigente con carico
all’erario in tutti i casi in cui particolari categorie professionali espletano attività di assistenza nei confronti
dell’indigente medesimo. Ciò esclude che per alcune fattispecie vi possano essere deroghe ispirate alla
superata logica del gratuito patrocinio.
Non può essere invece condiviso il sopra richiamato assunto di tale giurisprudenza secondo cui la locuzione
«prenotazione a debito» possa essere letta come anticipazione degli onorari a carico dello Stato, a ciò
ostando l’insormontabile ostacolo della testuale definizione legislativa della prenotazione a debito, secondo
cui detta prenotazione si risolve in una annotazione a futura memoria ai fini dell’eventuale successivo
recupero.
La disposizione censurata, come correttamente interpretata dal ricorrente, risulta però viziata sotto il
profilo della ragionevolezza proprio perché, in luogo dell’anticipazione da parte dell’erario, prevede, a
carico dei soggetti che hanno prestato l’attività di assistenza, l’onere della previa intimazione di pagamento
e l’eventuale successiva prenotazione a debito del relativo importo («se non è possibile la ripetizione»).
Infatti, tale meccanismo procedimentale, unitamente all’applicazione dell’istituto della prenotazione a
debito, impedisce il rispetto della coerenza interna del nuovo sistema normativo incentrato sulla regola
dell’assunzione, a carico dello Stato, degli oneri afferenti al patrocinio del non abbiente.
L’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002, dunque, deve essere dichiarato costituzionalmente
illegittimo nella parte in cui prevede che gli onorari e le indennità dovuti ai soggetti ivi indicati siano
previamente oggetto di intimazione di pagamento e successivamente eventualmente prenotati a debito (in
caso di impossibilità di «ripetizione»), anziché direttamente anticipati dall’erario.
7.– Rimangono assorbite le ulteriori questioni sollevate dal rimettente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 131, comma 3, del decreto del Presidente della
Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante: «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di spese di giustizia. (Testo A)», nella parte in cui prevede che gli onorari e le indennità dovuti ai
soggetti ivi indicati siano «prenotati a debito, a domanda», «se non è possibile la ripetizione», anziché
direttamente anticipati dall’erario;
2) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale del medesimo art.
131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002, sollevata dal Tribunale ordinario di Roma (r. o. n. 8 del 2019), in
riferimento agli artt. 1, 3, 4, 24, 35, primo comma, e 36 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l’1 ottobre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA

Spetta a chi afferma la validità del testamento la prova della sua compilazione in un momento di lucido intervallo.

Cass. civ. Sez. II, Ord., 22 ottobre 2019, n. 26873; Pres. San Giorgio, Con. Rel. Tedesco
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5959-2017 proposto da:
G.C., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE REGINA MARGHERITA 22, presso lo studio
dell’avvocato SERGIO LEONARDI, rappresentato e difeso dall’avvocato SILVA FRONZA;
– ricorrente –
contro
G.L., M.R., elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE DI VILLA PAMPHILI, 59, presso lo
studio dell’avvocato MARIA SALAFIA, rappresentate e difese dall’avvocato MAURIZIO
PICCOLI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 335/2016 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 22/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/06/2019 dal Consigliere Dott.
TEDESCO Giuseppe.
Svolgimento del processo
che:
G.C. chiamava in giudizio davanti al Tribunale di Trento M.R. e G.L..
Precisava che era nipote di Go.Li., deceduto l'(OMISSIS), lasciando il coniuge M.R. e la figlia
G.L..
Precisava che il de cuius l’aveva nominato erede universale con un primo testamento olografo del
31 gennaio 2003, poi confermato da un secondo testamento olografo del 27 febbraio 2003 avente il
medesimo contenuto.
Chiedeva quindi accertarsi la validità dei due testamenti.
Nello stesso tempo chiedeva dichiararsi la nullità e inefficacia, per incapacità naturale, del
disponente, dei seguenti atti: a) riscatto della Polizza Vita (OMISSIS) n. (OMISSIS) attuato da
Go.Li. il 26 maggio 2004: polizza stipulata il (OMISSIS) per l’importo di Euro 40.000,00 con
nomina di G.C. quale beneficiario; b) modifica della nomina del beneficiario della polizza Itas Vita
S.p.A. n. (OMISSIS) attuata da Go.Li. il (OMISSIS) in favore di G.L.: polizza stipulata il
(OMISSIS) per l’importo di Euro 60.000,00 con nomina quali beneficiario di G.C. e di B.N., poi
eliminata dal beneficio l’1 dicembre 2003.
Chiedeva inoltre che fosse ricostruito il patrimonio del de cuius per accertare la quota di legittima
del coniuge e della figlia.
A sostegno della domanda precisava che il de cuius aveva subito un primo ricovero ospedaliero il 2
aprile 2003, con diagnosi di dimissione di “demenza senile”, per poi subire un nuovo ricovero il 18
aprile 2004, con diagnosi “episodio confusionale in paziente affetto da encefalopatia vascolare
cronica”.
Precisava ancora di avere fatto sottoporre a perizia grafica sia i due testamenti olografi sia le firme
apposte sulla revoca della polizza (OMISSIS) e sulla modifica del beneficiario della polizza Itas,
con il seguente risultato: testamenti scritti in stato di capacità e atti di disposizione sulle polizze
firmate in stato di incapacità.
Le convenute si costituivano nel giudizio e chiedevano il rigetto delle domande avversarie.
G.L. faceva valere un testamento pubblico del 12 maggio 2004, che la nominava unica erede
universale.
Le convenute chiedevano, in riconvenzionale, che fosse accertato il credito di G.L. nei confronti
dell’attore per le somme da lui percepite senza titolo dal defunto e la condanna del medesimo,
previo rendiconto, alla restituzione degli importi prelevati dal conto corrente del de cuius, del quale
aveva a disposizione in via fiduciaria una tessera bancomat, nonché al risarcimento dei danni ex
artt. 88 e 96 c.p.c.
G.C. chiedeva a verbale, nella prima udienza, accertarsi la nullità o disporsi l’annullamento del
testamento pubblico per incapacità di intendere e di volere del testatore.
Il giudice ammetteva i capitoli di prova per testimoni dedotti dall’attore e disponeva consulenza
medico legale sulla capacità del testatore con riferimento a tutte le date rilevanti in relazione alle
contrapposte domande delle parti: la data dei due testamenti olografi, la data degli atti di
disposizione sulle polizze e la data del testamento pubblico.
Eseguita l’istruzione, il Tribunale di Trento, con sentenza non definitiva, disponeva l’annullamento
del testamento pubblico per incapacità naturale del testatore e rimetteva la causa in istruttoria per il
prosieguo.
Con sentenza definitiva il medesimo tribunale rigettava la domanda di nullità o annullabilità per
incapacità naturale dell’atto di riscatto della polizza (OMISSIS); accoglieva la analoga domanda con
riferimento alla modifica del beneficiario della Polizza Itas, riconoscendo che l’attore, quale erede di
Go.Li., era legittimato a chiedere l’annullamento dell’atto e che egli era altresì legittimato, quale
originario beneficiario della polizza, ad agire nei confronti della convenuta per la restituzione
dell’importo da questa incassato.
Condannava quindi G.L. a corrispondere a Go.Li. la relativa somma, con gli interessi legali dall’1
novembre 2004.
Il tribunale disponeva ancora la riduzione delle disposizioni testamentarie, riconoscendo la quota di
legittima al coniuge e alla figlia del testatore.
A tal fine ricostruiva il patrimonio relitto del de cuius, inserendovi la piena proprietà dell’immobile
p.m. 17 p.ed. 367 in PT 4905, ancorché acquistato in costanza di matrimonio e in regime di
comunione legale, tenuto conto della rinuncia del coniuge in sede di separazione a qualsiasi pretesa
sulla comproprietà del bene.
Disponeva la divisione dei beni, rigettava la domanda di rendiconto proposta dalle convenute e
regolava le spese di lite.
G.L. e M.R. proponevano appello contro la sentenza non definitiva, che aveva annullato il
testamento pubblico per incapacità naturale del testatore, e contro la sentenza definitiva nella parte
in cui aveva accolto le domande dell’attore relativamente alle polizze vita e in relazione
all’inclusione dell’immobile per intero nell’asse ereditario.
G.C. si costituiva, eccependo l’inammissibilità dell’appello e contestando nel merito la fondatezza
dell’impugnazione.
Il G. proponeva appello incidentale inteso a fare accertare, per quanto interessa in questa sede, la
nullità e annullabilità del riscatto della polizza vita (OMISSIS) e della modifica del beneficiario
della polizza Itas e, conseguentemente, a fare accertare che i relativi importi non dovevano essere
conteggiati nell’asse ereditario ai fini della formazione delle quote di legittima spettanti al coniuge e
alla figlia del testatore.
La Corte d’appello di Trento disponeva accertamento medico legale.
In base a tale consulenza la corte stabiliva che il G. era realmente affetto da “demenza vascolare” e
che tale patologia aveva avuto il suo esordio il 18 aprile 2004. Aggiungeva che l’esordio della
malattia, di per sè, non poteva farsi coincidere con una condizione di stabile e permanente
incapacità.
La corte ricostruiva poi, in linea teorica e scientifica, il decorso di tale patologia (“a dente di sega”),
per concludere che la malattia era certamente sfociata in una condizione di stabile demenza alla data
del 29 giugno 2004, ovvero a far data dalla certificazione redatta dalla commissione preposta alla
valutazione dell’invalidità civile.
Nello stesso tempo la corte di merito riteneva, in considerazione del decorso della malattia, che non
ci fossero elementi tali da far presumere che essa avesse raggiunto, già al momento del testamento
pubblico, un livello tale da compromettere totalmente la capacità del testatore.
La corte rigettava pertanto la domanda di annullamento del testamento pubblico, facendo da ciò
conseguire l’assorbimento delle questioni introdotte dalle appellanti in via subordinata.
Aggiungeva che l’accertamento che l’originario attore non era erede del defunto precludeva la
possibilità di lui di agire per l’annullamento degli atti di disposizione sulle polizze, essendo passata
in giudicato, in assenza di censura, la sentenza definitiva del tribunale nella parte in cui aveva
riconosciuto che, rispetto all’impugnativa di quegli atti, la legittimazione di G.C. discendesse
“dall’essere il predetto erede di Go.Li.”.
Per la cassazione della sentenza G.C. ha proposto ricorso affidato a due motivi, illustrati anche da
memoria.
G.L. e M.R. hanno resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Che:
1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 591, comma 2, degli artt. 2697
e 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Il ricorrente lamenta che gli esiti delle indagini cliniche avrebbero dovuto indurre la corte a fare
applicazione del principio dell’inversione dell’onere della prova. Non era l’attore a dover provare
l’incapacità del testatore al momento di redazione del testamento, spettando alla parte che sosteneva
la validità del testamento l’onere di provare un eventuale lucido intervallo nel momento della
testamenti factio.
Il motivo è fondato.
Ai sensi dell’art. 591 c.c., comma 2, n. 3, la prova dell’incapacità del testatore deve esistere al
momento dell’atto e non genericamente al tempo dell’atto, come stabiliva l’art. 763 c.c.
dell’abrogato codice civile. Tuttavia la regola non implica che la prova debba limitarsi a tale
momento. Il giudice di merito può trarre la prova dell’incapacità del testatore dalle sue condizioni
mentali in epoca anteriore o posteriore al testamento, sulla base di una presunzione, potendo
l’incapacità essere dimostrata con qualsiasi mezzo di prova: ricorrendo tale ipotesi spetta alla parte
che sostiene la validità del testamento l’onere di provare un eventuale lucido intervallo nel momento
della formazione del testamento (Cass. n. 2666/1975; n. 3411/1978; n. 6236/1980).
E’ un fatto che il 29 giugno 2004, data della certificazione redatta dalla commissione preposta alla
valutazione della invalidità civile, il testatore versasse in una condizione di stabile demenza.
E’ altrettanto certo che l’incapacità riscontata alla fine di giugno non era dovuta a un fatto acuto, ma
rappresentava l’esito di una patologia il cui esordio è pacificamente collocato nel mese di aprile
dello stesso anno 2004.
Tuttavia, secondo la corte d’appello, “solo quando si tratti di malattia che influisca sulla psiche
permanentemente e abitualmente, in modo che non siano ipotizzabili periodi di lucido intervallo,
ben può il giudice, dall’accertamento di una tale malattia in data posteriore alla redazione del
testamento ricavare la presunzione di incapacità anche nel momento del compimento dell’atto (…),
mentre nel caso in esame ciò che è proprio escluso è che la patologia dalla quale il defunto era
affatto fosse pervenuta, al momento della redazione del testamento, ad uno stadio tale da
determinare una situazione di stabile incapacità”.
In altra parte della motivazione della sentenza impugnata si legge: “contrariamente a quanto
sostiene la difesa dell’appellato il c.t.u. non ha affatto ritenuto che dal 18 aprile 2014 il de cuius si
trovasse in condizione di stabile e permanente incapacità e che la malattia fosse compatibile con
momenti di lucido intervallo, ma al contrario ha sostenuto che, proprio per l’andamento (c.d. a
gradini) della patologia, non vi sono elementi concreti che consentano di affermare che, al momento
in cui il de cuius ha sottoscritto il testamento pubblico, la patologia avesse già determinato una
condizione permanente e totale di incapacità di intendere e di volere”.
Si desume da tali rilievi che la corte di merito non ha disconosciuto, in linea di principio, che
l’accertamento di una malattia in data posteriore alla redazione del testamento potrebbe giustificare
una presunzione di incapacità. Essa ha negato l’applicazione del principio nel caso concreto, in
mancanza di una evenienza scientifica che consentisse di affermare che il decorso della malattia
avesse già raggiunto la fase dell’incapacità al momento della redazione del testamento. Ma a tale
argomento è facile obiettare che le condizioni mentali del testatore, posteriori o anteriori, sono
rilevanti non quale prova diretta della incapacità al tempo di redazione del testamento, ma perché
autorizzano il giudice a fondare una presunzione.
Al contrario la corte d’appello, nonostante il consulente tecnico avesse accertato che il 29 giugno
2004, meno di due mesi dopo la formazione del testamento, la malattia aveva completato il suo
naturale sviluppo, con il raggiungimento di una “condizione di stabile demenza” (v. passo della
relazione riportato a pag. 39 della sentenza impugnata), ha definito la lite in applicazione della
regola della presunzione di capacità. Diversamente, in base ai principi sopra indicati, tenuto conto
del minimo distacco temporale, spettava a chi affermava la validità del testamento provare che il
decorso della malattia non avesse ancora raggiunto lo stadio dell’incapacità al momento della
testamenti factio.
Si impone pertanto la cassazione della sentenza e il giudice di rinvio dovrà attenersi a tale principio:
“in tema di incapacità di testare a causa di incapacità di intendere e di volere al momento della
redazione del testamento, il giudice del merito può trarre la prova dell’incapacità del testatore dalle
sue condizioni mentali, anteriori o posteriori, sulla base di una presunzione, potendo l’incapacità
stessa essere dimostrata con qualsiasi mezzo di prova; conseguentemente, quando l’attore in
impugnazione abbia fornito la prova di una condizione di permanente e stabile demenza nel periodo
immediatamente susseguente alla redazione del testamento, poiché in tal caso la normalità presunta
è l’incapacità, spetta a chi afferma la validità del testamento la prova della sua compilazione in un
momento di lucido intervallo”.
3. Il secondo motivo denuncia error in procedendo per violazione degli artt. 112 e 343 c.p.c. e error
in iudicando per violazione dell’art. 1920 c.c.
Ai fini della comprensione della censura occorre premettere che, secondo la ricostruzione operata
con la sentenza di primo grado, gli atti di disposizione sulle polizze costituivano atti unilaterali, il
cui annullamento per incapacità naturale poteva essere richiesto dall’incapace, dall’erede o dal suo
avente causa, qualora ne fosse derivato un pregiudizio per il suo autore.
Ha quindi riconosciuto che G.C., nella sua qualità di erede, era legittimato a impugnare sia il
riscatto della polizza (OMISSIS), sia la modifica del beneficiario della polizza Itas.
Con riferimento alla prima polizza ha tuttavia negato il pregiudizio, in base al rilievo che l’importo,
riscosso dal de cuius, era andato a vantaggio di lui e, di riflesso, dell’erede G.C..
Con riferimento alla modificazione del beneficiario della polizza Itas, ha riconosciuto che la
modifica di intestazione era stata fatta dal de cuius in condizioni di incapacità: da ciò la
legittimazione dell’attore ad agire per l’annullamento della modificazione quale erede e per la
restituzione dell’importo quale beneficiario.
G.C., di fatto già beneficiario delle somme in base alla sentenza, ha ugualmente impugnato la
decisione, deducendo che le somme derivanti dalle polizze non dovevano essere computate ai fini
della formazione dell’asse ereditario a beneficio delle legittimarie pretermesse. La corte d’appello ha
riconosciuto di non dovere entrare nel merito della censura, in assenza di impugnazione della
preliminare affermazione del giudice di primo grado secondo cui la legittimazione del G. sussisteva
solo in funzione della sua qualità di erede. Sulla base di tale affermazione la stessa corte ha
riconosciuto che il rigetto della domanda con la quale il G. aveva rivendicato tale qualità esauriva la
lite.
Con il motivo ora in esame il ricorrente sostiene che, con la propria impugnazione, egli aveva
chiaramente rivendicato che le somme derivanti dal riscatto delle polizze gli spettavano in virtù
della designazione e non quale erede.
Il motivo è fondato.
“Ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di
giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità
suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal
fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto
sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che,
sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello,
nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione
sull’intera statuizione” (Cass. n. 2217/2016; n. 16583/2012).
Or bene, nel momento in cui il G. ha attaccato la sentenza di primo grado sostenendo che le somme
derivanti dalle polizze non dovevano essere comprese nell’asse ereditario ai fini del conteggio della
legittima, aveva per ciò solo assunto una posizione incompatibile con la premessa che egli era
legittimato all’impugnativa di quegli atti solo in qualità di erede. In altri termini, nel formulare quel
tipo di censura, egli, per forza di cose, non aveva speso la propria qualità di erede, ma di
beneficiario della designazione operata dallo stipulante. Tanto basta, in base al principio di cui
sopra, a escludere la formazione del giudicato sul riconoscimento della legittimazione in funzione
esclusiva della qualità di erede. Del resto, dal punto di vista teorico, nulla esclude che il beneficiario
della polizza sia nello stesso tempo erede dello stipulante, ma ciò non toglie che le somme gli
competano comunque, ex art. 1920 c.c., comma 3, iure proprio, non iure successionis (Cass. n.
6531/2006), non entrando a far parte del patrimonio ereditario del soggetto stipulante (Cass. n.
26606/2016). Si ricorda che in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo le norme sulla
collazione e la riduzione delle donazioni sono fatte salve in riferimento ai premi pagati dallo
stipulante, non alle somme percepite dal beneficiario (cfr. art. 1923 c.c., comma 2).
La sentenza va pertanto cassata anche in relazione a tale motivo e il giudice di rinvio dovrà decidere
sulla relativa ragione di censura proposta dal G. contro la sentenza di primo grado.
In conclusione il ricorso va accolto con rinvio della causa alla Corte d’appello di Trento in diversa
composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il ricorso; cassa la sentenza; rinvia la causa alla Corte d’appello di Trento in diversa
composizione anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 11 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2019

Riconoscimento del figlio nato da genitori non uniti in matrimonio

Cassazione civile, sez. I, 17 Aprile 2019, n. 10775. Pres. Valitutti. Est. Clotilde Parise.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14918/2018 proposto da:
G.R., elettivamente domiciliato in Roma, Via *, presso lo studio dell’avvocato B. B., che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati R. A., R. C., R. F., giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.L., nella qualità di curatore speciale di C.M.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via *, presso lo studio dell’avvocato D. E., rappresentata e difesa da se medesimo;
– controricorrente –
contro
E.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via *, presso lo studio dell’avvocato D. E., rappresentato e difeso dall’avvocato B. A., giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 555/2018 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 3/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/02/2019 dal cons. PARISE CLOTILDE;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha chiesto che la Corte di Cassazione rigetti il ricorso con le conseguenze previste dalla legge.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 2/8 ottobre 2012 n. 3240, il Tribunale di Genova rigettava la domanda proposta, ai sensi dell’art. 263 c.c. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013), da E.G. nei confronti di G.R. e del minore C.G.A.M., rappresentato dal curatore speciale avv. B.L., e per l’effetto riteneva non dimostrata dall’attore l’assoluta impossibilità che il convenuto G.R. fosse il padre biologico del minore.
2. L’appello proposto da E.G. è stato accolto dalla Corte di appello di Genova con la sentenza del 15 marzo 2018 n. 555, notificata in data 11-4-2018. La Corte territoriale, in totale riforma della sentenza appellata, ha dichiarato invalido ed inefficace per difetto di veridicità il riconoscimento del minore C.G.A.M., nato a (OMISSIS), posto in essere dal sig. G.R. all’Ufficiale dello Stato Civile di Genova in data 21 dicembre 2006, ordinando la relativa annotazione nei registri anagrafici. Preliminarmente la Corte d’appello ha disatteso le eccezioni sollevate da G.R. circa l’inutilizzabilità e la nullità della consulenza tecnica esperita nel procedimento penale R.G. n. 4987/12/21 avanti al Tribunale di Genova, ancora in corso all’epoca della conclusione del giudizio di secondo grado. I Giudici d’appello, rilevato che i vizi denunciati concernevano la violazione del contraddittorio e l’irritualità di espletamento del suddetto accertamento istruttorio, hanno ritenuto utilizzabile la suddetta consulenza tecnica immunogenetica, di cui hanno autorizzato la produzione da parte di E.G., richiamando l’orientamento di legittimità secondo il quale le prove acquisite in altro giudizio, svoltosi anche tra soggetti diversi, possono porsi a fondamento della decisione, in applicazione del principio del libero convincimento desumibile dall’art. 116 c.p.c.. La Corte d’appello ha quindi esaminato le risultanze della consulenza tecnica prodotta da E.G. ed espletata dalla Dott.ssa V.S., dando atto dell’esaustività dell’indagine e delle particolari cautele adottate per evitare rischi di contaminazione, e ne ha condiviso le conclusioni, in base alle quali era risultata la non compatibilità tra le caratteristiche genetiche di G.R. e quelle del minore C.G.A.M. ed era altresì risultata la compatibilità, con probabilità di paternità approssimata al 99,99%, tra le caratteristiche genetiche del minore e quelle di E.G..
3. Avverso questa sentenza G.R. propone ricorso, affidato a tre motivi, resistiti con controricorso da E.G. e da C.G.A.M., rappresentato dal curatore.
4. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Le parti non hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso G.R., denunciando la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento agli artt. 102 e 354 c.p.c., lamenta l’omessa integrazione del contraddittorio nei confronti della madre del minore C.L., da ritenersi litisconsorte necessario nel procedimento avente ad oggetto il difetto di veridicità del riconoscimento ex art. 263 c.c.. Ad avviso del ricorrente la C. ha diritto a partecipare al giudizio sia in considerazione degli effetti della decisione riguardante l’effettiva paternità del minore sulla stessa ricadenti, ad esempio ai fini del concorso nel mantenimento del minore ed in generale con riferimento ad obblighi e diritti correlati alla responsabilità genitoriale, sia per evitare l’allungamento dei tempi processuali.
2. Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento agli artt. 116 e 191 c.p.p., censura la sentenza impugnata per illegittimo utilizzo della prova immunogenetica disposta nel procedimento penale a carico dello stesso ricorrente G.R. e dichiarata nulla dal G.U.P. del Tribunale di Genova, come da documentazione che produce nel presente giudizio (doc. 1 ordinanza del 3-11-2018). Rileva il ricorrente che solo le prove indirette raccolte legittimamente, nel contraddittorio tra le parti ed in un processo concluso con sentenza, possono essere utilizzate in altro giudizio. Osserva che nel caso di specie la prova era stata dichiarata nulla e la Corte territoriale non aveva affrontato la specifica problematica, mentre la giurisprudenza richiamata nella sentenza impugnata si riferisce, genericamente, all’utilizzabilità della prova raccolta in un processo tra le stesse parti. La Corte genovese aveva deciso di portare a rapido compimento il processo, senza che potesse essere acquisita e depositata l’ordinanza del G.U.P., atto giudiziario che, ad avviso del ricorrente, può essere depositato nel processo di legittimità.
3. Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, lamenta omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione, fatto consistito nell’inutilizzabilità della prova del DNA, eccepita anche all’udienza di precisazione delle conclusioni. Deduce che la Corte d’appello avrebbe dovuto acquisire d’ufficio informazioni sui provvedimenti adottati da parte del G.U.P. a riguardo della denunciata nullità della prova immunogenetica. Ad avviso del ricorrente il deposito nel processo di legittimità dell’ordinanza adottata dal G.U.P. “costituisce prova sicura che la decisione della Corte d’appello di Genova si è fondata su una prova raccolta illegittimamente, nulla e adeguatamente contestata dall’appellato”. Aggiunge che il procedimento penale si era concluso con la dichiarazione di prescrizione del reato ascrittogli e che nessuna valutazione della prova raccolta era stata effettuata in sede dibattimentale.
4. Preliminarmente deve osservarsi che il difetto di integrità del contraddittorio per omessa citazione di alcuni dei litisconsorti necessari, non costituendo un’eccezione in senso proprio, può essere dedotto per la prima volta anche nel giudizio di legittimità (tra le tante Cass. n. 20260 del 2006 e n. 3024 del 2012). Tuttavia, tale eccezione può essere formulata solo alla duplice condizione che gli elementi posti a fondamento emergano, con ogni evidenza, dagli atti già ritualmente acquisiti nel giudizio di merito, senza quindi la necessità di nuove prove e dello svolgimento di ulteriori attività vietate in sede di legittimità – e che sulla questione non si sia formato il giudicato.
Nel caso di specie ricorre la duplice condizione suindicata, in quanto sulla questione non si è formato giudicato ed emerge dagli atti già ritualmente acquisiti nei giudizi di merito, oltre ad essere incontestato dai controricorrenti, che la madre del minore C.L. non sia stata citata.
5. Il primo motivo di ricorso è fondato.
La giurisprudenza di questa Corte, nell’affrontare la generale tematica del conflitto di interessi nelle azioni di stato e della tutela del minore legittimato passivo, ha di recente affermato, sia pure come obiter dictum, che la madre è litisconsorte necessario nel giudizio promosso ai sensi dell’art. 263 c.c., dall’altro genitore (Cass. n. 1957 del 2016).
Ritiene il Collegio che si tratti di un orientamento meritevole di essere approfondito e condiviso.
Mentre la disciplina codicistica individua espressamente la madre quale litisconsorte necessario dal lato passivo nell’azione di disconoscimento di paternità, manca una corrispondente e specifica norma per l’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, in relazione alla posizione soggettiva del genitore il cui riconoscimento non sia oggetto del contendere.
Dirimente diventa stabilire se detto genitore sia portatore di un proprio interesse, considerato dalla legge tipologicamente distinto da quello del figlio, e se si instauri un rapporto inscindibile, avente ad oggetto lo status del minore, ogni qual volta sia posta in discussione la genitorialità, o perchè al riconoscimento del primo genitore si chieda di aggiungerne il secondo, o perchè sia contestato, per difetto di veridicità, uno dei due riconoscimenti, già ritualmente effettuato.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che il riconoscimento del figlio naturale dà luogo ad un rapporto nel quale il genitore che per primo abbia operato il riconoscimento riveste un ruolo rilevante, in quanto al medesimo compete, ai sensi dell’art. 250 c.c., di esprimere il consenso al successivo riconoscimento da parte dell’altro genitore. Tale potere è corollario della maternità o della paternità e comporta che il genitore che per primo ha riconosciuto il minore sia litisconsorte necessario con quest’ultimo nell’eventuale azione ai sensi dell’art. 250 c.c., comma 4, promossa dall’altro genitore per ottenere la sentenza sostitutiva del consenso del primo (così Cass. n. 17277 del 2014).
Significativa, sotto il profilo esegetico, è la distinzione tra il “consenso”, la cui prestazione compete al genitore del figlio infraquattordicenne, e l'”assenso” richiesto al figlio ultraquattordicenne, come rimarcato nella pronuncia di questa Corte da ultimo richiamata. Infatti “l’etimologia del termine “assenso” suggerisce una manifestazione che “si aggiunge”, con il secondo termine “consenso” una espressione che converge a produrre lo stesso effetto dell’atto che gli è omogeneo, perchè proveniente da soggetto titolare dello stesso diritto”.
Se il “consenso” che il primo genitore esprime ai sensi dell’art. 250 c.c., è espressione di un diritto distinto ma omogeneo figlio infraquattordicenne e rende il primo genitore litisconsorte necessario in quel giudizio, in base all’indirizzo affermato con la pronuncia appena citata e a cui si intende dare continuità, deve conseguentemente e coerentemente ritenersi che il medesimo diritto sussista anche nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 263 c.c., che, peraltro, è assimilabile sotto molteplici aspetti a quello di disconoscimento di paternità (così Cass. n. 1957 del 2016).
La ratio dell’attribuzione di quel diritto risiede sempre nel fatto che il genitore il cui riconoscimento non sia oggetto del contendere ha un rapporto consolidato non solo sotto il profilo giuridico ma, almeno tendenzialmente e di regola, anche sotto quello affettivo con il minore, in ragione della consuetudine di vita fino a quel momento osservata. L’acquisizione di un nuovo status del minore è idonea a determinare una rilevante modifica della situazione familiare, della quale resta in ogni caso partecipe l’altro genitore, alla cui posizione soggettiva può ricondursi, a seconda dei casi, l’interesse o la mancanza di interesse alla bi-genitorialità con il soggetto che impugna il riconoscimento, con tutto ciò che ne consegue in termini di obblighi morali e materiali verso il figlio. A ciò si aggiunga che può assumere concreta incidenza sul favor veritatis la cooperazione dell’altro genitore, che ha prestato consenso o non si è opposto al riconoscimento impugnato ed al quale sarà, ragionevolmente, nota l’assenza o la presenza di un rapporto biologico tra il figlio e il soggetto che agisce contestando la veridicità del medesimo riconoscimento. Infine e all’evidenza, il diritto del genitore resta configurato come “misura ed elemento di definizione” dell’interesse del minore (così Cass. n. 17277 del 2014 citata), che è sempre e assolutamente preminente.
Al quesito iniziale circa la sussistenza del rapporto inscindibile deve, dunque, darsi risposta positiva, in base all’esegesi e alla ratio della disciplina dettata dall’art. 250 c.c., dato che se ne deve inferire un principio generale, valevole a disciplinare in modo necessariamente simmetrico ed omologo le posizioni soggettive genitoriali, in modo che possano valutarsi con i medesimi parametri tutte le ipotesi in cui si controverta della genitorialità, non essendovi motivo alcuno di differenziare la tutela, e di conseguenza la platea dei contraddittori necessari dal lato passivo, nei casi di impugnazione del riconoscimento ai sensi dell’art. 263 c.c..
6. I rimanenti due motivi devono ritenersi assorbiti dall’accoglimento del primo e dalla conseguente necessità di rimettere le parti, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 3, davanti al giudice di primo grado (Cass. 19790 del 2014) perchè si provveda all’integrale rinnovazione del giudizio con la costituzione completa del contraddittorio, da realizzarsi mediante la citazione della madre del minore, C.L..

P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 3, e rimette la composizione anche per le spese del giudizio di Cassazione.
Omissione dei dati in caso di diffusione dell’ordinanza.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2019

Procreazione medicalmente assistita ‘post mortem’ e status giuridico del nato

Cassazione civile, sez. I, 15 Maggio 2019, n. 13000. Pres. Maria Acierno. Est. Campese.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 14873/2018 r.g. proposto da:
R.C., (cod. fisc. (OMISSIS)), in proprio e quale esercente la responsabilità genitoriale sulla figlia minorenne L., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato A. N., con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via *, presso lo Studio F.;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore;
– intimato –
avverso il decreto della CORTE DI APPELLO DI ANCONA, depositato il 12/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/2019 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso chiedendo: in via preliminare, la rimessione del giudizio alle Sezioni Unite; in subordine, rigettarsi il ricorso, altresì dichiarandosi l’insussistenza dei presupposti per sollevare le questioni di costituzionalità prospettate dalla R.;
udita, per la ricorrente, l’Avv. A. N., che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso, altrimenti associandosi alla richiesta di rimessione alle Sezioni Unite.

Svolgimento del processo
1. Con decreto del 19 luglio 2017, il Tribunale di Ancona respinse il ricorso D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 95 promosso da R.C. – in proprio e nell’interesse della figlia minore L., nata il (OMISSIS) – e diretto ad ottenere, previa dichiarazione di illegittimità del rifiuto oppostole dall’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) alla registrazione del cognome paterno nella formazione dell’atto di nascita della bambina, l’ordine all’ufficiale predetto di provvedere alla rettifica di tale atto con la indicazione della paternità di G.A., deceduto il (OMISSIS), e del cognome paterno.
1.1. In particolare, premettendo che R.L. era nata in Italia, a seguito di tecniche di fecondazione assistista cui si era sottoposta la madre all’estero dopo il decesso del marito, il quale aveva a tanto precedentemente acconsentito, e che l’oggetto del giudizio non era stabilire se G.A. fosse il padre biologico della bambina, ma accertare se fosse legittimo, o meno, il diniego dell’ufficiale di stato civile di iscrivere la paternità della minore nell’atto di nascita come richiesto dalla ricorrente, ed altresì riepilogate sia la funzione dell’atto di nascita che le disposizioni del codice civile applicabili ai fini della sua corretta formazione, quel tribunale: i) affermò che l’ufficiale predetto era tenuto a formare l’atto sulla base delle dichiarazioni delle parti, essendogli precluse indagini ed accertamenti in ordine alle dichiarazioni ed alla paternità, affidate, invece, esclusivamente all’autorità giudiziaria. Ritenne, pertanto, affatto legittimo il rifiuto del primo di iscrivere nell’atto la paternità biologica della bambina sulla base della dichiarazione della sola madre, non essendo ammissibile e consentito allo stesso un’indagine sulla rilevanza probatoria della documentazione relativa alla procreazione medicalmente assistita allegata alla richiesta di formazione dell’atto di nascita, trattandosi di attività di valutazione delle prove della paternità e di accertamento dello status esulante dai suoi compiti istituzionali; ii) rilevò che la diversa impostazione seguita dalla R. non fosse coerente con l’art. 241 c.c., che ammette la prova della filiazione con ogni mezzo, ma solo nell’ambito di un giudizio, e che i diritti della minore fossero comunque preservati, perchè l’atto di nascita era stato formato e la madre avrebbe potuto utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità e ad ottenere l’attribuzione del cognome paterno, sicchè nemmeno era ravvisabile alcun contrasto con la giurisprudenza, anche comunitaria, da lei invocata, afferente l’attribuzione dello status come strumento di tutela della identità dell’individuo e del diritto al rispetto della vita familiare ex art. 8 della CEDU; iii) opinò che il rifiuto opposto dal comune non contrastasse con la L. n. 40 del 2004, art. 8, regolante lo status dei figli nati con le tecniche di procreazione medicalmente assistita, prediligendo l’opzione ermeneutica secondo cui la predetta disposizione non avesse innovato rispetto alla disciplina relativa allo status di figlio naturale riconosciuto, con la conseguenza che sarebbe stato sempre necessario il riconoscimento da parte di entrambi i genitori e, ove questo non fosse stato possibile, non si sarebbe potuto prescindere dall’esperimento di una azione di stato ex art. 269 c.c..
1.2. Il reclamo proposto dalla R., in proprio e nell’interesse della figlia L., avverso questo provvedimento è stato respinto dalla Corte di appello di Ancona, la quale, con decreto del 12 marzo 2018: a) ha disatteso l’assunto difensivo della reclamante secondo cui il descritto operato dell’ufficiale di stato civile sarebbe stato illegittimo perchè in contrasto con le disposizioni previste dalla L. n. 40 del 2004. Quest’ultima, invero, non era applicabile nella concreta fattispecie – anzi, espressamente la vietava atteso che, se, da un lato, era incontestato che l’accesso alle tecniche fosse avvenuto quando i coniugi erano viventi, dall’altro, era altrettanto pacifico, perchè riferito dalla stessa R., che l’intervento di fecondazione fosse stato successivo al decesso di suo marito. Correttamente, dunque, l’ufficiale di stato civile aveva applicato, ai fini della formazione dell’atto di nascita, le disposizioni generali dettate dal codice civile, richiamate dal tribunale. Al contrario, la tesi della R., secondo cui lo status che l’ufficiale di stato civile avrebbe illegittimamente omesso di indicare doveva desumersi dalla dichiarazione della madre integrata dal consenso del padre tanto alla procreazione medicalmente assistita che alla fecondazione post mortem e derivare direttamente dalla L. n. 40 del 2004, art. 8, avrebbe comportato sia la valutazione in merito al contenuto della documentazione esibita a sostegno della richiesta di formazione dell’atto di nascita, sia l’interpretazione delle disposizioni della legge predetta, onde estenderla anche a fattispecie ivi non espressamente previste (anzi, addirittura, – come si è detto – vietate): attività, entrambe, esulanti dall’esercizio dei poteri attribuiti al menzionato ufficiale nella formazione di quell’atto; b) ha affermato che, pure ammettendo che il riconoscimento del rapporto di filiazione tra la bambina nata ed il defunto padre sia solo l’effetto prodotto dalla applicazione della legge spagnola e non comporti la legittimazione alla pratica della fecondazione post mortem, un siffatto riconoscimento, in ogni caso, proprio perchè implicante una valutazione in ordine alla validità ed efficacia di alcuni documenti ed alla loro rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dello status, non poteva essere effettuato dall’ufficiale di stato civile, il quale, pertanto, legittimamente aveva applicato le regole generali del codice civile (artt. 231-232), che escludono l’operatività della presunzione di concepimento oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo matrimoniale (situazione verificatasi nel caso in esame, in cui G.A. era deceduto il (OMISSIS) e la bambina era nata il (OMISSIS)) e precludono l’iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre; c) ha considerato tutelati l’interesse ed i diritti della minore sia mediante l’atto di nascita, comunque formato, sia tramite gli altri strumenti processuali, forniti dall’ordinamento, che permettono di far constatare la paternità e di ottenere l’attribuzione del cognome paterno, con conseguente insussistenza di qualsivoglia contrasto con la giurisprudenza comunitaria; d) ha ritenuto, infine, non ravvisabili i presupposti per sollevare le questioni di costituzionalità dell’art. 232 c.c. e della L. n. 40 del 2004, artt. 5, 12 e 8, in ragione del fatto che la mancata previsione della fecondazione assistita post mortem, dalla quale traevano origine i diversi profili di illegittimità costituzionale dedotti, era ricollegabile ad una scelta del legislatore che appariva giustificata dalla esigenza di garantire al nascituro il diritto al benessere psicofisico del medesimo attraverso il suo inserimento e la sua permanenza in un nucleo familiare ove fossero presenti entrambe le figure genitoriali.
2. Contro questo decreto, ricorre per cassazione la R., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minorenne L., affidandosi a quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c., mentre il Comune di (OMISSIS) è rimasto solo intimato.

Motivi della decisione
1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:
I) “Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost. e art. 360 c.p.c., comma 4, con riferimento al n. 3, in relazione al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, artt. 29 e 30”, per avere la corte distrettuale erroneamente ritenuto che l’ufficiale di stato civile avesse un potere discrezionale e/o valutativo quanto alla veridicità della dichiarazione della R. afferente la paternità della suddetta minore;
II) “Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost. e art. 360 c.p.c., comma 4, con riferimento al n. 3, in relazione alla L. 19 febbraio 2004, n. 40, artt. 8, 5 e 12”, laddove la medesima corte aveva ritenuto inapplicabile la L. n. 40 del 2004, art. 8, che attribuisce lo status di figlio nato nel matrimonio a quello nato a seguito delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, anche perchè, sotto diverso profilo, nessun contrasto con l’ordine pubblico interno è ipotizzabile quanto alla fecondazione post mortem, tecnica praticata in Stati diversi dall’Italia. Non pertinente, inoltre, doveva considerarsi il richiamo effettuato dalla corte dorica al divieto legislativo di una siffatta fecondazione derivante dall’art. 5, che indica i requisiti soggettivi necessari per accedere alla procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti, anche, più semplicemente, P.M.A.), e art. 12, comma 2, che sancisce i divieti di applicazione delle tecniche di detta procreazione e le sanzioni per la loro inosservanza, della legge citata, posto che il trattamento cui la ricorrente si era sottoposta dopo la morte del marito era avvenuto in Spagna, la cui legislazione non prevede, entro l’anno dal decesso, alcun divieto di fecondazione. Dunque, una volta avvenuta la fecondazione post mortem nel rispetto delle forme e dei termini previsti dalla legge spagnola, la circostanza che il suddetto art. 12 vieti nello Stato italiano tale tipo di fecondazione non poteva essere sufficiente a configurare come contrari all’ordine pubblico gli atti successivi al ricorso a quella tecnica procreativa, quali l’attribuzione della paternità e del cognome nell’atto di nascita;
III) “Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost. e art. 360 c.p.c., comma 4, con riferimento al n. 3, in relazione all’art. 232 c.c.”, perchè il decreto impugnato aveva considerato applicabile, nella specie, l’art. 232 c.c., dettato dal codice civile in tema di procreazione naturale biologica, e non la disciplina contenuta nella L. n. 40 del 2004, art. 8 relativamente allo stato giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A.;
IV) “Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost. e art. 360 c.p.c., comma 4, con riferimento al n. 3, in relazione agli artt. 3, 30 e 31 Cost., artt. 10 e 117 Cost. ed artt. 8 e 14 CEDU, art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, 3 della L. 27 maggio 1991, n. 176, di ratifica della Convenzione di New York”, perchè la decisione impugnata si rivelava contraria ai principi costituzionali, eurounitari ed internazionali sulla tutela dei fanciulli e sul prevalente interesse del minore.
1.1. La R. ripropone, infine, in via subordinata, le eccezioni di incostituzionalità dell’art. 232 c.c. (nella parte in cui non prevede la presunzione di concepimento durante il matrimonio anche per i figli nati con il ricorso alle tecniche di P.M.A. post mortem), della L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 12 (laddove non prevedono, per un tempo ragionevole di almeno un anno dal decesso, la fecondazione assistita post mortem), nonchè dell’art. 8 della medesima legge (nella parte in cui non riconosce lo status di figlio nato nel matrimonio e riconosciuto dalla coppia che ha espresso il consenso per le tecniche di P.M.A. a seguito di fecondazione post mortem), con riferimento agli art. 3 Cost., art. 30 Cost., comma 1, e art. 31 Cost., comma 2, artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali, e 3 della Convenzione di New York, per interposizione, dell’art. 117 Cost., comma 1.
2. Nell’udienza di discussione, il Procuratore Generale ha chiesto, in via preliminare, la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte, in considerazione della particolare rilevanza della questione giuridica e della vicenda umana ad essa sottesa, che investe la tematica del procedimento di PAR (postmortem assisted reproduction) e lo stato giuridico del figlio nato “postumo”.
2.1. In proposito, va ribadito che, come già osservato dalla giurisprudenza di legittimità (con orientamento consolidato e qui condiviso. Cfr., ex aliis, Cass. n. 14878 del 2017; Cass. n. 19599 del 2016; Cass. n. 12962 del 2016; Cass. n. 8016 del 2012; Cass. n. 359 del 2003), l’istanza volta all’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, che non è soggetto ad obbligo di motivazione, altresì precisandosi che la funzione nomofilattica è attribuita anche alle sezioni semplici di questa Corte (come, del resto, agevolmente emerge anche dall’art. 375 c.p.c., u.c., nel testo, qui applicabile ratione temporis).
2.2. Fermo restando quanto appena detto, può in ogni caso osservarsi che la Corte di cassazione ha pronunciato a sezione semplice su numerose questioni variamente collegate a temi socialmente e/o eticamente sensibili, in tema sia di “direttive di fine vita” (cfr. Cass. n. 21748 del 2007), sia di limiti al riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive (cfr. Cass. n. 4184 del 2012 e Cass. n. 2004 del 2015), sia di adozione da parte della persona singola (cfr. Cass. n. 6078 del 2006 e Cass. n. 3572 del 2011), sia di surrogazione di maternità nella forma della gestazione affidata a terzi (cfr. Cass. n. 24001 del 2014), sia di adozione in casi particolari, L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d), (cfr. Cass. n. 12962 del 2016), sia di trascrizione, nei registri dello stato civile italiano, di un atto di nascita estero recante l’indicazione di una doppia maternità (cfr. Cass. n. 19599 del 2016), sia di rettificazione di atto di nascita indicante due genitori dello stesso sesso (cfr. Cass. n. 14878 del 2017). Deve, pertanto, ritenersi che non tutte le questioni riguardanti diritti individuali o relazionali di più recente emersione ed attualità sono, per ciò solo, qualificabili come “di massima di particolare importanza” nell’accezione di cui all’art. 374 c.p.c., comma 2.
3. Rileva, poi, pregiudizialmente, il Collegio che l’odierno ricorso ex art. 111 Cost. è sicuramente ammissibile, ancorchè proposto contro un decreto reso dalla corte di appello, su reclamo, in materia di volontaria giurisdizione.
3.1. Invero, per costante giurisprudenza, ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, il termine “sentenza” non va inteso nel significato proprio di provvedimento emesso nelle forme e sui presupposti di cui agli artt. 132 e 279 c.p.c., ma deve interpretarsi estensivamente, così da ricomprendervi tutti i provvedimenti giurisdizionali, anche se emessi sotto forma di ordinanza o decreto, ove essi siano decisori, incidenti su diritti soggettivi e con piena attitudine a produrre effetti definitivi di diritto sostanziale e processuale (cfr., ex multis, Cass. n. 212 del 2019, in motivazione; Cass. n. 14878 del 2017; Cass., SU n. 27073 del 2016, in motivazione; Cass. n. 11218 del 2013; Cass., SU, n. 9042 del 2008; Cass. n. 184 del 2003).
3.1.1. Nel caso di specie, è indubbia l’incidenza su diritti soggettivi (attinenti allo status delle persone ed alla loro identità personale), così come il carattere decisorio e definitivo del decreto della corte di appello, contro cui non è previsto alcun rimedio se non il presente ricorso.
4. Ancora in via pregiudiziale, si evince dagli atti che la R. ha notificato l’odierno ricorso al Comune di (OMISSIS), parte nella precedente fase di reclamo, benchè ivi non costituito, ed alla Procura Generale presso la Corte di cassazione. Non ha effettuato analogo adempimento, invece, nei confronti della Procura Generale presso la Corte di appello di Ancona, pur avendo quest’ultima partecipato a quella fase, ivi chiedendo il rigetto della impugnazione della reclamante (come emerge dalla pagina 8 del decreto oggi impugnato).
4.1. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 3556 del 2017, hanno affermato che, con riferimento al ricorso per cassazione proposto da una parte e non notificato al Pubblico Ministero presso il giudice a quo in un procedimento in cui è previsto l’intervento dello stesso, la mancanza di notifica – che non costituisce motivo di inammissibilità, improcedibilità o nullità del ricorso – neppure rende necessaria l’integrazione del contraddittorio tutte le volte che, non avendo questi il potere di promuovere il procedimento, le sue funzioni si identificano con quelle svolte dal procuratore generale presso il giudice ad quem e sono assicurate dalla partecipazione di quest’ultimo al giudizio di impugnazione; mentre, la suddetta integrazione è necessaria nelle sole controversie in cui il Pubblico Ministero è titolare del potere di impugnazione, trattandosi di cause che avrebbe potuto promuovere o per le quali il potere di impugnazione è previsto dall’art. 72 c.p.c. (cfr., in senso analogo, anche Cass., SU, n. 9743 del 2008).
4.2. Orbene, con specifico riferimento al procedimento D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 95, comma 1, e art. 96 (concretamente intrapreso dalla R. impugnando il già descritto rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile alla sua richiesta di registrazione del cognome paterno nell’atto di nascita della figlia minorenne L.), sebbene il comma 2 del citato art. 95 espressamente preveda che “il Procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1”, sicchè nessun dubbio sussiste circa il fatto che, nella specie, il Pubblico Ministero sarebbe stato titolare del relativo potere di azione, e, conseguentemente, alla stregua del combinato disposto dell’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 1, e art. 72 c.p.c., comma 1, di quello impugnarne la relativa decisione, l’omessa notifica dell’odierno ricorso della R. alla Procura Generale presso la Corte di appello di Ancona non determina, comunque, alcuna invalidità, nè la necessità di adozione di provvedimenti di natura interinale. Deve, infatti, trovare applicazione il consolidato principio secondo cui, nei casi di intervento obbligatorio del Pubblico Ministero, l’omessa notifica del ricorso per cassazione al Procuratore Generale presso la Corte d’appello non è causa di inammissibilità allorquando il provvedimento impugnato abbia accolto, come nella specie, le richieste di quel Procuratore. Infatti, la notifica del ricorso è finalizzata a consentire l’esercizio dell’impugnazione e, siccome l’interesse ad impugnare – in ragione del quale avrebbe dovuto farsi luogo ad integrazione del contraddittorio – è costituito dalla soccombenza, l’omissione non comporta alcuna conseguenza nei confronti di tale organo, le cui conclusioni siano state interamente accolte dalla corte territoriale (come accaduto nella vicenda processuale in esame), mentre il controllo sulla legittimità della decisione di quest’ultima è assicurato dall’intervento del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione (cfr., ex multis, Cass. n. 11211 del 2014; Cass. n. 5953 del 2008; Cass. n. 18513 del 2003).
5. Venendo, dunque, ai motivi di ricorso, è opportuno anteporre al loro scrutinio alcune brevi considerazioni circa la natura e l’ambito oggettivo del procedimento disciplinato dal D.P.R. n. 396 del 2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 2, comma 12), agli artt. 95 e 96, dovendosi qui solo ricordare che il menzionato D.P.R. ha integralmente sostituito il precedente R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, recante l’ordinamento dello stato civile, i cui artt. da 165 a 178 già disciplinavano, in modo analogo, il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile.
5.1. L’art. 95 predetto dispone che “Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1. L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”; il successivo art. 96, invece, sancisce che “il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 c.p.c. e segg. nonchè, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione, l’art. 455 c.c.”.
5.2. Questa Corte, sebbene con riferimento al precedente (ma affatto simile) procedimento di rettificazione di cui all’abrogato R.D. n. 1238 del 1939, ebbe ripetutamente a ritenere (cfr. Cass. n. 4922 del 1978; Cass. n. 7530 del 1986) che “…l’oggetto del procedimento di rettificazione suddetto non è limitato alla correzione degli errori materiali. Lo si deduce dall’art. 165, secondo cui il Pubblico Ministero può, in ogni tempo, promuovere d’ufficio le rettificazioni richieste dall’interesse pubblico e quelle che riguardano errori materiali di scrittura, distinguendosi così dalla correzione di meri errori materiali le altre rettificazioni che il Pubblico Ministero promuove, se involgono un interesse pubblico, e che, ai sensi dell’art. 167, sono promosse dalla parte interessata, quando tale interesse non sia in gioco. Se ne ha, inoltre, conferma dall’art. 454 c.c. (anch’esso abrogato dal D.P.R. n. 396 del 2000. Ndr), che applica il procedimento di rettificazione a casi che restano manifestamente fuori dell’ambito della mera correzione degli errori materiali, quali quelli consistenti nella formazione di atti che siano stati omessi o smarriti o distrutti…” (cfr. Cass. n. 7530 del 1986).
5.2.1. Nella ricerca dei limiti dell’azione di rettificazione, si precisò che essa “non investe, in sè, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e quale risulta dall’atto dello stato civile. Il non verificarsi di tale corrispondenza può dipendere da un errore materiale o da un qualsiasi vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto, sia esso dovuto al dolo dell’Ufficiale che lo redige o ad un suo errore, anche se scusabile in quanto imputabile ad uno dei soggetti chiamati dalla legge a fornire gli elementi per la compilazione dell’atto. Non interessa, cioè, ai fini dell’ammissibilità del procedimento di rettificazione, la causa che ha determinato la difformità tra la realtà del fatto e la riproduzione che ne è contenuta nell’atto, non essendo dubitabile che i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…” (cfr. Cass. n. 7530 del 1986, in motivazione).
5.2.2. Si chiarì, infine, che il descritto procedimento non potesse ammettersi allorquando a fondamento della domanda di rettificazione fosse stata, in realtà, dedotta una controversia di “stato” (cfr. Cass. n. 2776 del 1996).
5.3. I medesimi principi sono poi stati ribaditi da Cass. n. 21094 del 2009, con specifico riferimento al procedimento di cui al D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 95 e ss., e questo Collegio li condivide integralmente, sicchè lo scrutinio degli odierni motivi di ricorso dovrà svolgersi alla loro stregua, sebbene con questa ulteriore precisazione.
5.3.1. Una volta sancito che il procedimento in esame è volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e come, invece, risulta dall’atto dello stato civile, per un vizio comunque e da chiunque originato nel procedimento di formazione dell’atto stesso, in quanto la funzione degli atti dello stato civile è proprio quella di attestare la veridicità dei fatti menzionati nei relativi registri, ciò che effettivamente rileva non è – o, almeno, non lo è in via primaria – quale sia la tipologia di sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile, certamente non equiparabile a quello dell’autorità giudiziaria in un’azione di stato, ma quale sia l’ambito della cognizione del giudice che, in un panorama complesso quale quello attuale della genitorialità, sempre più percorso dalla scomposizione del processo generativo per effetto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, si trovi ad affrontare il ricorso contro il diniego di rettificazione opposto dall’ufficiale predetto.
5.3.2. Ad un siffatto interrogativo, questo Collegio ritiene di dover rispondere che il giudice investito della dedotta illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita – il cui procedimento si configura non come giudizio di costituzione diretta di uno status filiationis bensì di verifica della corrispondenza alla verità di una richiesta attestazione – dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a questo limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitegli dalla parte. Una simile conclusione, del resto, è pienamente coerente con la previsione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 96, che, come si è già visto, consente al tribunale, seppure senza particolari formalità, di “…assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile…”, altresì obbligandolo, prima di provvedere, a sentire il Procuratore della Repubblica e gli interessati…” ed a “richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare…”.
5.3.3. In altri termini, il giudice del merito, proprio perchè investito esclusivamente della corrispondenza alla verità del complesso di elementi fattuali documentati dalla parte richiedente, non ha limitazioni per decidere: ove valorizzerà questi ultimi e la coerenza del percorso ivi descritto, riconoscerà il diritto di completare l’atto di nascita e la fondatezza dell’azione di rettifica; diversamente, se riterrà che si debbano adattare parametri di accertamento della genitorialità fondati su presunzioni in relazione ad un processo generativo che non prevede la possibilità di sequenziarne il percorso, allora riterrà corretto il rifiuto dell’ufficiale dello stato civile che su questo paradigma probatorio ha fondato la sua decisione.
6. Venendo, dunque, ai motivi di ricorso, il primo di essi, che ascrive alla corte distrettuale di avere erroneamente ritenuto che l’ufficiale di stato civile avesse un potere discrezionale e/o valutativo quanto alla veridicità della dichiarazione della R. afferente la paternità della suddetta minore, non merita accoglimento.
6.1. Osserva, infatti, il Collegio, quanto alle dichiarazioni che si fanno dinanzi all’ufficiale dello stato civile, che alcune di queste hanno la funzione esclusiva di dare pubblica notizia di eventi, come la nascita e la morte, che hanno rilevanza per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati. Da tali eventi, come documentati nei registri dello stato civile, possono derivare, per effetto di normative particolari, estranee alla disciplina che regola le iscrizioni di dette dichiarazioni, diritti e doveri (diritto alla vita, ad essere educato e mantenuto, o, diversamente, diritto alla successione nel defunto, etc.).
6.1.1. In queste ipotesi, grava sul menzionato ufficiale l’obbligo di ricevere quanto riferito dal dichiarante e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che a lui competa di stabilire se gli eventi riportati possano essere compatibili con l’ordinamento italiano e se per questo abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Spetterà al giudice pronunciarsi su tali questioni ove su di esse sorga controversia.
6.2. Diversamente, altre dichiarazioni, pure rese dinanzi al medesimo ufficiale, sono, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono: si pensi, ad esempio, alle dichiarazioni di riconoscimento di filiazione nata fuori del matrimonio (già filiazione naturale) o a quelle che si esprimono in relazione alla cittadinanza italiana.
6.2.1. In questi casi, proprio per la immediatezza della produzione di effetti derivanti dalla dichiarazione compiuta, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverla ove la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 7).
6.3. Tanto premesso, deve, allora, considerarsi che, allorquando, il 22 febbraio 2017, dichiarò la nascita della figlia L. (avvenuta a Fermo il precedente 14 febbraio) presso l’ufficio di stato civile del Comune di (OMISSIS), contestualmente domandando che, nella redazione del corrispondente atto, ne fosse indicata la paternità del defunto G.A., attribuendone alla stessa il cognome, la R. rese, sostanzialmente, due diverse – benchè contemporanee – dichiarazioni: una riguardante l’evento nascita, D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 30; l’altra afferente l’indicazione (anche) della paternità della neonata, da lei attribuita – giusta la documentazione attestante la tecnica di P.M.A., cui si era sottoposta in Spagna, e per effetto della quale era derivata la predetta nascita – al suo coniuge, G.A., deceduto fin dal (OMISSIS) ma che, prima della sua morte, aveva acconsentito all’accesso alla P.M.A. da parte della moglie, altresì autorizzandola ad utilizzare, post mortem, il suo seme crioconservato.
6.3.1. E’ chiaro, quindi, che, alla stregua di quanto si è precedentemente opinato, solo relativamente alla prima di tali dichiarazioni l’ufficiale di stato civile, nel redigere il corrispondente atto ex art. 29 del D.P.R. predetto, nulla avrebbe potuto obbiettare alla dichiarante, non spettando a lui di stabilire se l’evento riferitogli potesse essere compatibile con l’ordinamento italiano e se per questo avesse rilevanza e fosse produttivo di diritti e doveri.
6.3.2. Circa la seconda, invece, ingenerando essa stessa effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale poteva/doveva rifiutare di riceverla ove – come poi effettivamente avvenuto – l’avesse ritenuta in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 7).
6.3.3. Non sussiste, pertanto, la denunciata violazione del D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 29 e 30, come qui prospettata dalla ricorrente, dovendosi, piuttosto valutare, attraverso l’esame degli ulteriori motivi di impugnazione da lei oggi formulati, se il rifiuto oppostole dall’ufficiale di anagrafe abbia determinato, o meno, una discrasia fra la realtà dalla prima complessivamente dichiarata e la sua riproduzione nell’atto di nascita come redatto da quell’ufficiale: vale a dire tra il fatto, quale era stato nella realtà (o quale avrebbe dovuto essere nell’esatta applicazione della legge) e come, invece, risultava dall’atto dello stato civile.
7. Muovendo, allora, da questa prospettiva di indagine, il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono suscettibili di esame congiunto, perchè chiaramente connessi, rivelandosi, peraltro, fondati per le ragioni di seguito esposte.
7.1. Giova premettere, in punto di fatto, che la R. ha così ricostruito l’iter del complessivo percorso che aveva portato alla nascita della figlia L.: i) i coniugi G. – R., a causa di alcune difficoltà riscontrate nel concepimento di un figlio, avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso il 31 marzo 2015; ii) il G., proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo procedere all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con dichiarazione sottoscritta in data 8 settembre 2015, e, consapevole della sua fine imminente, aveva anche autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; iii) per realizzare il comune desiderio di procreazione, l’odierna ricorrente, dopo la morte del marito avvenuta il (OMISSIS), si era sottoposta al trattamento di fecondazione assistita (FIV) in (OMISSIS), presso il (OMISSIS), dando, poi, alla luce, in Italia (presso l’azienda ospedaliera (OMISSIS)), il (OMISSIS), la piccola L..
7.1.1. Si è trattato, dunque, di una nascita derivata da una tecnica di P.M.A. (fecondazione omologa) eseguita post mortem, benchè acconsentita da entrambi i coniugi anteriormente al decesso del G., il quale, poco prima di morire, nel ribadire il proprio consenso, aveva altresì autorizzato, al suddetto fine, l’utilizzo del proprio seme crioconservato.
7.2. Dopo la nascita della figlia, la R., il 22 febbraio 2017, aveva reso la corrispondente dichiarazione all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) (quello di sua residenza), allegando documentazione a corredo dei fatti di cui si è appena detto: ciò nonostante, quell’ufficiale aveva rifiutato di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto G.A. e, conseguentemente, attribuire alla piccola L. il cognome paterno, come dichiarato e richiesto dalla madre, ritenendo tale dichiarazione contraria all’ordinamento giuridico vigente.
7.2.1. Oggi, quindi, non si controverte sulla trascrivibilità, in Italia, di un atto di nascita redatto in uno dei Paesi che consentono tecniche di fecondazione artificiale come quella di cui si è concretamente avvalsa la R., bensì, esclusivamente, della possibilità, o meno, di rettificare, nei sensi invocati dalla odierna ricorrente, un atto di nascita già formato sul territorio nazionale.
7.3. E’, altresì, opportuno sottolineare che, in questa sede, nemmeno viene specificamente in rilievo il tema della liceità, o meno, secondo la legislazione italiana (cfr. L. n. 40 del 2004), della tecnica di P.M.A. predetta (fecondazione omologa post mortem), ma, giusta quanto si è già chiarito circa l’ambito operativo del procedimento D.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, esclusivamente, quello della corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale suddetto e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto: cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e come risulta dall’atto dello stato civile, senza che rilevino le ragioni di una eventuale insussistenza di una tale corrispondenza, posto che “i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…” (cfr. Cass. n. 7530 del 1986, in motivazione).
7.3.1. In altri termini, le conclusioni che pure potrebbero desumersi dalla complessiva disciplina di cui alla L. n. 40 del 2004 (come attualmente risultante dopo gli interventi su di essa della Corte costituzionale. Cfr. Corte Cost., sent. n. 151 del 2009; Corte Cost., sent. n. 162 del 2014; Corte Cost., sent. n. 96 del 2015; Corte Cost., sent. n. 229 del 2015) in ordine alla illegittimità, o meno, della pratica, in Italia, di una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta, in Spagna (ove è consentita dalla corrispondente disciplina, entro l’anno dal decesso di chi abbia precedentemente autorizzato l’utilizzo del proprio seme crioconservato), la R., devono necessariamente arrestarsi di fronte al fatto che, una volta verificatasi la nascita per effetto di una tale pratica, occorre stabilire, ai già riportati fini che qui specificamente interessano, se debbano trovare esclusiva applicazione i meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231 e 233 c.c. in relazione alla prova della paternità o se sia necessario anche tener conto della disciplina della L. n. 40 del 2004 circa il rilievo determinante del consenso al processo generativo mediante P.M.A. 7.3.2. Un siffatto accertamento, peraltro, deve ponderare plurimi fattori, quali: a) il rilievo attribuito dalla società odierna a bisogni che un tempo erano ignoti, non prevedibili ed ancora non (o parzialmente) regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale; b) il costante dialogo tra le Corti supreme degli Stati Europei ed extraeuropei, con i quali si condividano i principi assiologici dei diritti fondamentali della persona, nonchè quello con la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha determinato la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica; c) il considerare le tecniche di P.M.A. come un metodo alternativo al concepimento naturale, oppure alla stregua di un trattamento sanitario volto a sopperire una problematica di natura medica che colpisce uno, o entrambi, i componenti della coppia.
7.3.2.1. Tutto questo comporta, invero, che la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare, che, addirittura, mediante l’applicazione delle tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell’unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall’importante ruolo della “responsabilità” genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una “funzione” genitoriale.
7.3.3. In un tale scenario, nel quale la genitorialità spesso può anche scindersi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, è necessario comprendere se i divieti di genitorialità pure evincibili dal nostro ordinamento possano fungere da “controlimite” alla tutela dei diritti di chi è nato, oppure se occorra superare i confini della tradizione ed accettare, regolandoli, i nuovi percorsi della genitorialità stessa.
7.4. Orbene, è noto che, ove la madre, che abbia fatto la dichiarazione di nascita, non sia più coniugata per essere stato annullato o sciolto il suo matrimonio (come accaduto nella specie, per effetto della morte del marito della odierna ricorrente avvenuta il (OMISSIS), data pacificamente anteriore addirittura all’avvenuta sua sottoposizione al trattamento di P.M.A.) o per esserne stati dichiarati cessati gli effetti civili, la corrispondenza del fatto reale (paternità dell’ex coniuge della madre ovvero di altra persona) con quello riprodotto nell’atto dello stato civile dipende dall’operare, o meno, della presunzione stabilita dall’art. 232 c.c.. Secondo tale norma, si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non siano trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio (comma 1), ma la presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronunzia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi siano stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione, di annullamento o di divorzio (comma 2).
7.4.1. Pertanto, alla luce di tale disciplina, affinchè vi sia corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di anagrafe e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, occorre che operi la presunzione di legge, perchè, se questa (indipendentemente dal verificarsi delle condizioni indicate nell’art. 232 c.c., comma 1) si rivela inapplicabile, in quanto ricorra una delle fattispecie di cui al comma 2 della citata norma, l’atto dello stato civile, che attribuisca al figlio il cognome dell’ex coniuge della madre, è difforme dalla situazione quale è secondo la previsione codicistica.
7.5. E’ altrettanto indiscutibile che, ai sensi del vigente art. 250 c.c., comma 1, il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto nei modi previsti dall’art. 254 c.c., dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento, potendo detto riconoscimento avvenire tanto congiuntamente che disgiuntamente. L’art. 254 c.c., comma 1, a sua volta, specifica che il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è fatto nell’atto di nascita, oppure con un’apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al concepimento, davanti ad un ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo.
7.5.1. La corrispondenza tra il fatto riprodotto nell’atto dello stato civile (nascita del figlio fuori dal matrimonio e suo riconoscimento da parte dei genitori o di uno solo di essi) e la situazione reale secondo le appena riportate disposizioni codicistiche, postula, allora che, innanzi all’ufficiale di stato civile, la corrispondente dichiarazione di riconoscimento sia fatta nei modi previsti dall’art. 254 c.c., altrimenti l’atto dello stato civile, che attribuisca al figlio il cognome di quello dei genitori che non abbia così proceduto, è difforme dalla situazione quale è secondo la previsione del codice civile, essendo, anche in questo caso, affetto da un vizio che ne ha alterato il procedimento di formazione.
7.6. Quanto, invece, alla disciplina, in materia di filiazione, di cui alla L. n. 40 del 2004, va, innanzitutto, rimarcato il suo art. 8, il quale (nel testo, qui applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche apportategli dal D.Lgs. n. 154 del 2013), sotto la rubrica “stato giuridico del nato”, sancisce che “I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6”.
7.6.1. Merita, però, di essere ricordato, ai fini che in questa sede specificamente interessano, anche l’art. 9 (Divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre), a tenore del quale, dopo gli interventi sullo stesso della Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014 (che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 3, limitatamente alle parole “in violazione del divieto di cui all’art. 4, comma 3”), “Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’art. 235 c.c., comma 1, nn. 1) e 2), nè l’impugnazione di cui all’art. 263 c.c.. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del regolamento di cui al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto nè essere titolare di obblighi”.
7.7. Investono, invece, più specificamente le fasi dell’accesso alle tecniche di PMA ed alla loro applicazione, entrambe, però, anteriori alla nascita, sicchè prive di effettivo rilievo nell’odierno giudizio (nel quale, è opportuno ribadirlo, non si controverte sulla illiceità, o meno, dell’accesso o della pratica, in Italia, in relazione ad una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta, in Spagna, – ove è consentita dalla corrispondente disciplina nei limiti temporali predetti – la R., bensì, unicamente, della disciplina in tema di filiazione da applicarsi al nato sul territorio nazionale per effetto di una tale – illecita o lecita che sia – pratica), le disposizioni che la medesima legge contiene agli artt. 4 (quanto all’accesso alle tecniche di PMA), 5 (circa i requisiti soggettivi per accedere a tali tecniche), 6 (in tema di consenso informato), 12 (recante i divieti per gli specifici comportamenti ivi descritti e le sanzioni per l’inosservanza di alcune previsioni della legge).
7.7.1. E’ chiaro, infatti, che qualsivoglia considerazione riguardante la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A. in precedenza specificamente richiamata, oltre che, eventualmente, delle condotte di coloro che ne consentono l’accesso o l’applicazione, non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. In altre parole, la circostanza che si sia fatto ricorso all’estero a P.M.A. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse dal nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso, come, peraltro, affermato, con chiarezza, della Corte EDU nelle due sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11), oltre che sancito anche dalla Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 347 del 1998, che (ancor prima del sopravvenire della L. n. 40 del 2004) sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso. Già in quella sede ci si preoccupò “…di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato (…), non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 Cost., ma ancor prima – in base all’art. 2 Cost. – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare…” (cfr. C. Cost. n. 347 del 1998). Sostanzialmente nel medesimo senso, del resto, si è già esplicitamente pronunciata anche questa Suprema Corte nella fondamentale sentenza n. 19599 del 30 settembre 2016 (benchè resa in vicenda affatto diversa da quella oggi in esame), secondo cui “le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla L. n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato”, di ciò essendosi mostrato consapevole lo stesso legislatore, il quale, all’art. 9, comma 1, ha previsto che, in caso di ricorso a tecniche (allora vietate) di procreazione medicalmente assistita addirittura di tipo eterologo (nel caso di specie, invece, si è in presenza, pacificamente, di una fecondazione omologa, sebbene post mortem), il coniuge o convivente consenziente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità, nè impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità (cfr., sostanzialmente nel medesimo senso, anche la successiva Cass. n. 14878 del 2017).
7.8. Tornando, dunque, al problema interpretativo dei rapporti, ai delimitati fini che in questa sede specificamente interessano, tra la normativa del codice civile e quella contenuta nella L. n. 40 del 2004 (in particolare ai suoi artt. 8 e 9), occorre praticamente verificare se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico, in ragione della peculiarità propria della tecnica de qua, o si inserisca in quest’ultimo che regola la filiazione da procreazione naturale attraverso la previsione di specifiche eccezioni. Dalla soluzione di tale questione, infatti, deriva l’applicabilità, o meno, alla filiazione da P.M.A. dei principi e criteri attributivi dello status del nato da procreazione naturale, e, poichè lo status risulta in ultima analisi dall’atto di nascita, dalla soluzione della medesima questione discendono anche le regole da seguire nella formazione di tale documento, al fine di verificare se, nel caso in esame, sussista, o meno, corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto.
7.8.1. Nella giurisprudenza di legittimità finora intervenuta, non si rinvengono precedenti riconducibili, specificamente, proprio alla fattispecie, oggi in esame, di fecondazione omologa effettuata (peraltro in un Paese dove ciò è consentito in un ambito temporale risultato rispettato) quando il marito (ma altrettanto dovrebbe dirsi ove si trattasse solo di convivente), che abbia già prestato, congiuntamente alla moglie (o alla convivente) e prima del proprio decesso, il consenso alle tecniche di P.M.A., lo abbia reiterato in modo sostanzialmente coerente con quanto richiesto dalla L. n. 40 del 2004, art. 6.
7.8.2. E’, altresì, di tutta evidenza che, di fronte alle pratiche di P.M.A., risulta assai problematico comporre, in modo equilibrato e coerente, le esigenze contrapposte della certezza e stabilità dello stato di filiazione e della sua corrispondenza con la verità, sicchè non stupisce la varietà delle possibili soluzioni ipotizzate, in proposito, dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito. Tanto è la logica conseguenza del fatto che, ormai, figlio è non solo chi nasce da un atto naturale di concepimento ma anche colui che venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa, quest’ultima nella misura in cui è oggi consentita dalla L. n. 40 del 2004 a seguito dei già descritti ripetuti interventi della Corte costituzionale), o colui che sia tale per effetto di adozione: ciò dimostra che i confini una volta ritenuti invalicabili del principio tradizionale della legittimità della filiazione sono ormai ampiamente in discussione. In base agli artt. 2 e 30 Cost., del resto, il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 6963 del 2018; Cass., SU, n. 1946 del 2017; Cass. n. 15024 del 2016).
7.8.2.1. Orbene, secondo una prima opinione, che muove dall’assunto che la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico, lo status di figlio del nato da P.M.A. non deriverebbe dalle regole applicabili alla generazione biologica naturale, diverse a seconda che il figlio sia nato nel matrimonio o fuori di esso, poichè, invece, detto status verrebbe attribuito direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A., indipendentemente dal fatto che i genitori siano, o meno, sposati, sicchè il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale (che non risulti revocato fino al momento della fecondazione dell’ovulo. Cfr. L. n. 40 del 2004, art. 6, comma 3) avrebbe un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla nozione di “consenso informato” al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.
7.8.2.2. Per chi ritiene, viceversa, che al nato da P.M.A. si applichino i medesimi principi in tema di filiazione naturale, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull’attribuzione dello status del figlio, ma avrebbe solo la funzione di consentire al figlio di identificare il proprio genitore grazie all’assenso da lui prestato alla P.M.A..
7.8.3. Un siffatto dilemma interpretativo produce i suoi effetti anche sullo status del figlio nel caso di fecondazione medicalmente assistita post mortem, dovendosi, peraltro, rimarcare che rientrano, in questo particolare contesto, ipotesi affatto diverse tra loro, quali: il prelievo del seme dal cadavere dell’uomo; l’inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato dal partner prima del decesso (concretamente avvenuta nella fattispecie in esame); infine, l’impianto, nel corpo della donna, dell’embrione formatosi quando entrambi i componenti la coppia erano in vita.
7.8.3.1. La L. n. 40 del 2004, art. 5, nel riservare l’accesso alla procreazione a coppie i cui membri siano “entrambi viventi”, sembra escludere che possa ricorrervi una donna vedova, sotto pena di sanzioni amministrative (art. 12, della medesima legge), e tanto, come pure si è autorevolmente sostenuto, allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna. La norma, tuttavia, non precisa in quale momento del complesso procedimento fecondativo sia richiesta la presenza in vita di entrambi i membri della coppia, sicchè spetta all’interprete, alla luce dei principi sottesi alla disciplina in materia, stabilire se debbano considerarsi illecite, o meno, tutte e tre le diverse ipotesi precedentemente prospettate, ed a tal fine non potrebbe prescindersi da quanto sancito dal successivo art. 6, comma 1, – a tenore del quale, per le finalità indicate dal comma 3 del medesimo articolo (afferente il consenso informato dei soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita), “prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata i soggetti di cui all’art. 5…” – che, almeno prima facie, sembra postulare l’esistenza in vita dei menzionati soggetti appunto in ogni fase di applicazione della tecnica prescelta.
7.8.3.2. Un siffatto problema, però, come si è già ripetutamente detto, non può assumere rilievo primario, atteso che nel presente giudizio, alla stregua di quanto si è chiarito circa l’ambito operativo del procedimento D.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, occorre accertare esclusivamente la corrispondenza fra la realtà di un fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, dovendo le conclusioni pure desumibili dalla complessiva disciplina di cui alla L. n. 40 del 2004 in ordine alla illegittimità, o meno, della pratica, in Italia, di una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta (affatto lecitamente secondo la lex loci), in Spagna, la ricorrente, necessariamente arrestarsi di fronte al fatto che, una volta verificatasi la nascita, non ci si può sottrarre all’individuazione della disciplina da applicarsi in materia di filiazione. Tanto per la evidente ragione che, in ogni caso, il nostro ordinamento non può disinteressarsi dei correlativi diritti del soggetto venuto al mondo a seguito di una procreazione medicalmente assistita post mortem eventualmente effettuata dal cittadino italiano in un Paese ove tale pratica è ammessa ed avvenuta nel pieno rispetto dei limiti temporali di sua esecuzione prevista dalla corrispondente disciplina.
7.8.4. Si pone, allora, la necessità di individuare, nel silenzio del legislatore, lo status del figlio in tal modo venuto al mondo. Infatti, a differenza di quanto previsto per la procreazione eterologa (inderogabilmente vietata nel disegno originario della L. n. 40 del 2004, ma alla quale oggi possono accedere, invece, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, le “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” per le quali è stata accertata e certificata una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità per uno o per entrambi i partner), nel caso di procreazione post mortem la nuova normativa non detta una disciplina dedicata alla fattispecie (in ipotesi) vietata, sicchè occorre chiedersi se possa applicarsi la L. n. 40 del 2004, art. 8, sullo status giuridico del nato, anche quando il figlio sia nato (come nella specie) oltre i trecento giorni dalla morte del padre. Le opinioni espresse sono varie.
7.8.4.1. Coloro i quali assumono che, anche in caso di procreazione medicalmente assistita, troverebbero applicazione i principi generali stabiliti nel codice civile in tema di filiazione naturale, si dividono tra chi sostiene che la nascita di un figlio da fecondazione artificiale omologa post mortem avvenuta in un periodo che non consente più l’operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio può solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, con la conseguenza che un riconoscimento preventivo del marito mentre era ancora in vita sarebbe privo di effetti, e chi, invece, ritiene che la suddetta situazione non costituirebbe un ostacolo alla operatività della presunzione di paternità tutte le volte in cui possa essere provato, ai sensi dell’art. 234 c.c., il concepimento in costanza di matrimonio. Tale requisito, attraverso una interpretazione estensiva della norma, dovrebbe considerarsi soddisfatto dimostrando che la fecondazione dell’ovulo (cioè, la creazione dell’embrione) sia avvenuta durante il matrimonio, purchè la moglie non sia passata a nuove nozze. Quest’ultima tesi, però, oltre a fondarsi su una interpretazione del “concepimento” sensibilmente distante rispetto alla sua accezione tradizionale, che lo identifica con il momento nel quale l’ovulo fecondato attecchisce nell’utero materno, finisce con il distinguere immotivatamente la situazione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione medicalmente assistita che sia stata eseguita, essendo possibile congelare e conservare a lungo non solo l’embrione ma anche il liquido seminale e potendosi, pertanto, ipotizzare che la stessa fecondazione dell’ovulo avvenga, come peraltro accaduto nel caso in esame, solo dopo la morte del marito.
7.8.4.2. La diversa impostazione secondo la quale, nella fattispecie in esame, si potrebbe applicare la L. n. 40 del 2004, art. 8, sullo status giuridico del nato, muove, invece, dal rilievo che il legislatore non ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita” ed ha, anzi, espressamente contemplato la sua applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, in relazione alla quale l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità presuppongono che, anche in simili casi, il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio.
7.8.4.3. Ne consegue che, ove si sia proceduto, nonostante il tenore letterale della L. n. 40 del 2004, art. 5 e art. 6, comma 1, dopo la morte del marito ed acquisito il suo univoco consenso in vita, alla formazione di embrioni con il seme crioconservato dello stesso e gli ovociti della moglie ed al loro impianto, dovrebbe prevalere la tutela legislativa del nato da fecondazione omologa, posto che il sicuro legame genetico consentirebbe comunque l’instaurazione del rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori genetici, anche ove volesse ritenersi violato il quadro normativo derivanti dalle disposizioni relative all’accesso alla P.M.A. nel nostro ordinamento interno.
7.8.5. Fermo quanto precede, rileva innanzitutto il Collegio che, per quanto concerne il nato da P.M.A. di tipo eterologo, la L. n. 40 del 2004, art. 9, comma 1, stabilisce che il marito o il convivente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità purchè il suo consenso sia ricavabile da “atti concludenti”. Proprio l’effettuato riferimento della norma ad “atti concludenti”, da cui deve desumersi il consenso alla tecnica della procreazione eterologa (lecita, oggi, nei predetti limiti di cui a Corte Cost. n. 162 del 2014), costituisce, allora, un argomento significativo per ritenere, fondatamente, che questi stessi “atti concludenti” siano idonei a maggior ragione a dimostrare il consenso alle pratiche lecite di procreazione assistita omologa, essendo innegabile che la genitorialità di cui al citato art. 8 spetti alla coppia, coniugata o convivente, che abbia voluto congiuntamente accedere alla tipologia di P.M.A. consentita anche nel nostro ordinamento.
7.8.5.1. La L. n. 40 del 2004, art. 8 esprime, poi, l’assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A.. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa.
7.8.6. Ribadito, allora, che non si controverte, in questa sede, della illiceità, o meno, di una siffatta tecnica di P.M.A., ma, alla stregua di quanto si è già chiarito circa l’ambito operativo del procedimento D.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, esclusivamente della corrispondenza fra la realtà di un fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di stato civile e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, opina questa Corte che sia possibile l’applicazione della disciplina della L. n. 40 del 2004, art. 8 (anche) alla specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui oggi si discute, apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il/la nato/a allorquando il marito (o il convivente) sia morto dopo avere prestato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (nella specie, peraltro, pacificamente ribadito solo pochi giorni prima del decesso) ai sensi dell’art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell’embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato (di cui, prima del decesso, abbia, altresì, autorizzato l’utilizzazione) sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale. In tal caso, benchè manchi il requisito della esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell’ovulo, deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita, il/la figlio/a possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità.
7.8.6.1. L’appena riferita scelta interpretativa si fonda sulla rilevanza che assume la discendenza biologica, della quale la parte odierna ricorrente ha specificamente dedotto di aver fornito ampia prova, tra l’uomo che ha comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, altresì autorizzando l’utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato, e prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento (se lecitamente, o meno, non interessa nella concreta fattispecie, non potendosi riflettere sul nato eventuali responsabilità dei genitori e/o dei medici che hanno assecondato i loro progetto) e la nascita. Proprio perchè le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, si rivelano inapplicabili, in materia, quei principi, dettati nel codice civile (artt. 232 e 234 c.c., ma si veda anche l’art. 462 c.c., comma 2), basati su un sistema di presunzioni tramite le quali si cerca di stabilire quella certezza.
7.8.6.2. Alla predetta soluzione, peraltro, nemmeno sembra di assoluto ostacolo l’assunto secondo cui l’ordinamento deve proteggere l’infanzia garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali, nel chiaro intento positivo di considerare prevalente la tutela del nascituro rispetto al diritto alla genitorialità. Al contrario, si può comunque osservare che la limitazione della donna, nella specifica situazione in cui era venuta a trovarsi l’odierna ricorrente, all’accesso alla tecnica cui ella si era poi sottoposta non è funzionale a far prevalere l’interesse del nascituro a venire al mondo in una famiglia che possa garantire l’esistenza e l’educazione, perchè l’alternativa è il non nascere affatto; parimenti, l’affermazione che nascere e crescere con un solo genitore integri una condizione esistenziale negativa non sembra potersi enfatizzare al punto tale da preferire la non vita. Al contrario, l’interesse del nato, nella specie, è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bi-genitoriale, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, le già richiamate Cass. n. 6963 del 2018; Cass., SU, n. 1946 del 2017; Cass. n. 15024 del 2016).
7.8.6.3. In uno scenario, nel quale, come si è detto in precedenza, la genitorialità spesso va staccandosi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, è, allora, necessario porsi in un’altra prospettiva, dove il rapporto familiare non si pone più in termini convenzionali, in cui nuove ipotesi di relazioni intersoggettive calzano la scena della famiglia, che non può più essere solo quella che il codice civile ha previsto nel 1942. Il fenomeno dell’emersione di diverse relazioni intersoggettive nelle relazioni affettive è, del resto, in progressiva evoluzione, così da richiedere una tutela sistematica (e non più occasionale) dei fenomeni prima sconosciuti o ritenuti minoritari, imponendo soluzioni capaci di emanciparsi da quei modelli tradizionali che rischiano, ormai, di rivelarsi inadeguati rispetto ai primi.
7.8.7. Ciò posto, la fattispecie qui esaminata presuppone, oltre alla morte del marito (o del convivente), che vi sia stato il consenso dello stesso (o del convivente) al momento di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e che tale consenso non solo sia certamente persistito fino al suo decesso, ma, prima di tale momento ultimo, sia stato anche da lui arricchito dall’espressa autorizzazione all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato: in presenza di una siffatta ipotesi, l’interpretazione preferibile è, dunque, quella secondo la quale la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configura un sistema alternativo, speciale, e non possono, di conseguenza, trovare applicazione i meccanismi di prova presuntiva del codice civile riferibili alla generazione biologica naturale.
7.8.8. Manca, del resto, qualsivoglia dato normativo che induca a ritenere che nella procreazione medicalmente assistita debbano applicarsi tali presunzioni in materia di procreazione biologica naturale se non espressamente derogati dalla L. n. 40 del 2004, artt. 8 e 9. Invero, gli argomenti, di tipo testuale, pure svolti a sostegno di quest’ultima tesi non persuadono.
7.8.8.1. Si è, in primo luogo, osservato che il contenuto del comma 2 dell’art. 9, che pone il divieto dell’anonimato materno nella fecondazione medicalmente assistita, sembra presuppore l’astratta applicabilità alla procreazione medicalmente assistita dei principi stabiliti in tema di filiazione biologica naturale. Inoltre, sempre secondo tale tesi, la disposizione contenuta nell’art. 9, comma 3, secondo cui, in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato, assume effettiva portata normativa soltanto se intesa quale deroga alla ordinaria disciplina della filiazione naturale, mentre avrebbe una mera portata esplicativa nel caso opposto.
7.8.8.2. Nondimeno, il divieto di anonimato materno, lungi dal presupporre l’operatività dei principi generali, ben può costituire espressione proprio delle differenze esistenti tra procreazione naturale e procreazione medicalmente assistita con riferimento alla determinazione dello status del nato, poichè in quest’ultimo caso il consenso dato alla pratica della procreazione medicalmente assistita determinerebbe una “responsabilità” riguardo alla filiazione, tale da escludere la stessa facoltà per la donna di non essere nominata. D’altronde, risulta affatto condivisibile e tutt’altro che illogico, il rilievo che, in un’ottica di tutela del nato, al consenso prestato dai genitori per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore abbia riconnesso anche il riconoscimento del nato e che tale ipotesi sia stata, dunque, differenziata da quella di procreazione naturale, anche sotto il profilo delle possibili conseguenze. Ciò emerge in maniera evidente nella fecondazione eterologa, ove l’interesse del minore costituisce un vero e proprio limite al principio della verità biologica, tanto che il legislatore, per perseguire tale interesse, ha attribuito precipuo rilievo al consenso prestato dai coniugi o conviventi al ricorso a tecniche di procreazione assistita, ma risulta confermato anche in caso di fecondazione omologa post mortem, con riferimento alla quale, non essendo in alcun caso ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, coincidendo quest’ultimo con il diritto del minore alla propria identità, il consenso prestato dai coniugi o conviventi appare elemento qualificante la disciplina in materia di accertamento della filiazione in funzione di una effettiva tutela della personalità del minore. Viceversa, proprio riguardo alla procreazione medicalmente assistita post mortem, le regole generali non appaiono congrue, in quanto si versa in presenza di un evento in cui si può avere la certezza che la fecondazione è avvenuta dopo la morte del soggetto che ha espresso il consenso e, ciononostante, si è altrettanto sicuri che ricorra con quello stesso soggetto quel rapporto di consanguineità che si pone a fondamento del sistema generale della filiazione.
7.8.9. Appare, pertanto, decisamente preferibile, di fronte ad un dato testuale sostanzialmente neutro, interpretare la norma in funzione della effettività della tutela del diritto della persona umana alla propria identità, la quale, come sottolineato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (nelle due, già menzionate, sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia, del 26 giugno 2014, ric. n. 65192/11, e Labassee c. Francia, del 26 giugno 2014, ric, n. 65941/11), comprende l’identificazione del proprio status di figlio di determinati genitori.
7.9. Alla stregua delle superiori considerazioni, nella concreta fattispecie oggi in esame occorre, allora, applicare la disciplina contenuta nella menzionata L. n. 40 del 2004, art. 8, senza poter fare riferimento alla presunzione stabilita dall’art. 232 c.c., che, di per sè, non può costituire ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione omologa eseguita post mortem dello status di figlio del marito deceduto, anche se la nascita sia avvenuta dopo il decorso del termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio conseguente alla sua morte. Naturalmente, per potere affermare che L. sia figlia del marito deceduto della ricorrente, deve esistere il presupposto fondamentale previsto dal suddetto L. n. 40 del 2004, art. 8, vale a dire il consenso espresso congiuntamente dai coniugi al ricorso alle tecniche di P.M.A., secondo quanto stabilito dall’art. 6 della medesima legge, e mantenuto fermo dal marito fino alla data della sua morte. D’altra parte, non tutti i requisiti del consenso indicati dalla norma appaiono necessari ai fini dell’attribuzione dello status filiationis, come si desume implicitamente dal disposto dell’art. 9, a norma del quale è sufficiente che il consenso sia ricavabile da atti concludenti. In definitiva, quindi, benchè la mancanza dei requisiti del consenso stabiliti dalla L. n. 40 del 2004, art. 6 non permetta di accedere alle pratiche di procreazione medicalmente assistita, laddove la procreazione comunque avvenga, lo status filiationis va determinato verificando solamente se effettivamente il coniuge o il convivente abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita anche solo mediante atti concludenti, e se tale consenso, integrato da quello riguardante anche la possibilità di utilizzo del proprio seme post mortem, sia effettivamente persistito fino al momento ultimo (nella specie, quello della morte del marito della odierna ricorrente) entro il quale lo stesso poteva essere revocato, non ravvisandosi valide ragioni per ritenere, al contrario, che il consenso peculiarmente espresso per un atto da compiersi dopo la morte perda efficacia al verificarsi di detto evento.
7.10. Nella fattispecie in esame, la R. ha dedotto che: i) con il coniuge G.A., avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso il 31 marzo 2015; ii) il G., proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo far ricorso all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con dichiarazione sottoscritta in data 8 settembre 2015, e, consapevole della sua fine imminente, aveva autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; iii) per realizzare il comune desiderio di procreazione, l’odierna ricorrente, dopo la morte del marito avvenuta il (OMISSIS), si era sottoposta, al trattamento di fecondazione assistita (FIV) in Spagna, dando, poi, alla luce, in Italia, il (OMISSIS), la piccola L..
7.10.1. Pertanto, alla stregua della L. n. 40 del 2004, art. 8, come in precedenza interpretato, il fatto storico della nascita, così avvenuta, di quella bambina, ne avrebbe dovuto comportare, ove adeguatamente documentate le circostanze suddette, la formazione del corrispondente atto dello stato civile con la indicazione della paternità di G.A. e del cognome paterno. Non si tratta, quindi, di attribuire alla figlia nata dalla R. uno stato diverso da quello che, secondo la previsione legale, le competerebbe (ciò, invero, dovrebbe formare oggetto di un’azione di stato), ma soltanto di rettificare un atto compilato non correttamente, così da renderlo corrispondente alla situazione reale prodotta dalla medesima previsione legale (L. n. 40 del 2004, art. 8), alla stregua della quale l’atto stesso doveva essere formato.
7.11. Ne consegue la erroneità tanto dell’affermazione della Corte di appello di Ancona secondo cui il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di iscrivere nell’atto di nascita di cui si discute la paternità della bambina sulla base delle dichiarazioni della sola madre era stato “legittimo sia perchè non è consentita al medesimo una indagine sulla rilevanza probatoria della documentazione relativa alla procreazione medicalmente assistita allegata alla richiesta di formazione dell’atto di nascita (come riprodotta nel presente procedimento dalla ricorrente-reclamante) sia perchè, nel silenzio del legislatore con riferimento allo specifico caso della fecondazione post mortem (di cui si discute), trovano applicazione le regole generali del codice civile (artt. 231 e 232 c.c..) che escludono l’operatività della presunzione oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo (situazione verificatasi nel caso in esame in cui G.A. è deceduto il 29.9.2015 e la bambina è nata il 14.2.2017) e precludono la iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre…”; quanto dell’aver omesso, la medesima corte, di verificare, alla stregua della documentazione sottoposta anche al suo esame, la possibilità di rettificare un atto dello stato civile non corretto, così da renderlo corrispondente alla situazione reale prodotta dalla medesima previsione legale alla stregua della quale l’atto stesso doveva essere formato.
7.11.1. Posto, infatti, che, come si è già chiarito nei p. 5.3.2. e 5.3.3., il giudice investito della dedotta illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita – il cui procedimento si configura non come giudizio di costituzione diretta di uno status filiationis bensì di verifica della corrispondenza alla verità di una richiesta attestazione – dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica, potendo, così, a questo limitato fine, attivare tutte le risorse istruttorie fornitegli dalla parte, la corte dorica, proprio perchè investita esclusivamente della corrispondenza alla verità del complesso di elementi fattuali documentati dalla parte reclamante, non aveva limitazioni per decidere, accogliendo, o meno, l’istanza di rettifica di quest’ultima a seconda della adeguatezza, o non, della documentazione dalla stessa allegata a dimostrare la coerenza del percorso ivi descritto.
8. Pertanto, respintone il primo motivo, il ricorso proposto dalla R., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minorenne L., va accolto in relazione agli ulteriori secondo, terzo e quarto motivo, con rinvio, anche per il regolamento delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, la quale riesaminerà la controversia alla stregua dei seguenti principi di diritto:
a) “Le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile, se dirette, esclusivamente, a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono al menzionato ufficiale di riceverle e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Diversamente, qualora, tali dichiarazioni siano, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverle ove le ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico”;
b) “Il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile, disciplinato dal D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 96, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall’atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel procedimento di formazione di esso. In tale procedimento, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte”;
c) “La L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 8, recante lo status giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo avere prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre”.
10. Le conclusioni fin qui esposte assorbono, evidentemente, ogni altra considerazione in ordine alle questioni di costituzionalità prospettate dalla ricorrente.
11. Va, disposta, infine, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accogliendone il secondo, il terzo ed il quarto. Cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione, per il relativo nuovo esame alla stregua dei principi tutti dettati in motivazione, e per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2019

Non ha diritto all’assegno di divorzio il coniuge in giovane età con piena capacità lavorativa. L’impossibilità di procurarsi i mezzi adeguati di cui all’art. 5 della legge sul divorzio, non può essere frutto di una libera scelta del coniuge richiedente.

Cass. civ. Sez. VI – 1, 18 ottobre 2019, n. 26594
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:D.V.F., elettivamente domiciliata in Roma, via Ovidio 20, presso l’avv. Ruggiero Andrea, rappresentata e difesa, per procura in calce al ricorso per cassazione, dall’avv. Maria Raciti che chiede l’invio delle comunicazioni relative al processo presso il fax n. (OMISSIS) e la p.e.c. avvmariaraciti.pec.ordineavvocatinovara.it;
– ricorrente –
nei confronti di:
M.S., elettivamente domiciliato in Roma, via della Balduina n. 7, presso l’avv. Maria Concetta Trovato (p.e.c. concettatrovato.ordineavvocatiroma.org), rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al controricorso dall’avv. Giancarlo Carlini (p.e.c. avvgiancarlocarlini.cnfpec.it, fax (OMISSIS));
– contro ricorrente –
avverso la sentenza n. 2753/2017 della Corte di appello di Torino emessa il 1 dicembre 2017 e depositata il 27 dicembre 2017 R.G. n. 2136/2016;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
CHE:
1. Nel giudizio per la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio il tribunale di Verbania ha affidato al sig. M.S. i due figli e imposto un contributo di 200 Euro mensili alla D.V. per il mantenimento dei figli, mentre ha posto a carico del sig. M. un assegno divorzile mensile di pari importo.
2. La Corte di appello di Torino ha accolto l’appello del sig. M. e ha revocato l’assegno divorzile mentre ha respinto l’appello incidentale della sig.ra D.V. inteso a ottenere un aumento dell’assegno divorzile da 200 a 350 Euro mensili e l’affidamento condiviso dei figli, dichiarando di essere disposta ad accogliere presso la propria residenza i figli A. e L. che all’epoca della decisione avevano 17 e 13 anni. Ha rilevato la Corte di appello che il sig. M., maresciallo dei c.c., percepisce uno stipendio netto annuo di 37.000 Euro mentre la D.V. percepiva dalla sua attività di commessa in un supermercato circa 10.000 Euro annui sino a quando ha deciso di trasferirsi da (OMISSIS), presso i suoi genitori, dove è rimasta priva di occupazione lavorativa. La Corte di appello ha quindi riscontrato un atteggiamento dismissivo nei confronti dei figli da parte della D.V. che non li ha visti dal 2014 e non ha mai contribuito al loro mantenimento. Ha rilevato inoltre che la stessa è ancora in giovane età e ha dimostrato di avere piena capacità lavorativa e ha ritenuto che pertanto uno stato di bisogno che giustifichi il contributo al mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussista perché, semmai esistente, esso è stato causato da una precisa volontà della sig.ra D.V. che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue esigenze personali.
3. Ricorre per cassazione la sig.ra D.V.F. che denuncia la violazione e falsa applicazione della L. div., art. 5, comma 6, e degliartt. 115 e 116 c.p.c., per erronea valutazione dei presupposti per la revoca dell’assegno divorzile.
4. Propone controricorso il sig. M.S..
Motivi della decisione
CHE:
5. Il ricorso è infondato. Sebbene la Corte di Appello faccia riferimento alla sentenza n. 11504 del 2017 di questa Corte, che ha ribadito la funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio e la sua giustificazione al fine di garantire esclusivamente l’autosufficienza economica al coniuge che non è in grado di procurarsela con la propria capacità lavorativa e/o patrimoniale, deve ritenersi che anche alla luce della giurisprudenza successiva delle Sezioni Unite del 2018 (Cass. civ. S.U. n. 18287 dell’11 luglio 2018) la decisione appare fondata perché le S.U. hanno ribadito anche esse che il riconoscimento dell’assegno di divorzio, in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale, ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Inoltre secondo la pronuncia delle SS.UU. la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi e in particolare al riconoscimento delle aspettative professionali sacrificate per dedicarsi alla cura della famiglia.
6. Nella specie la Corte di appello ha rilevato che l’impossibilità, semmai esistente, di procurarsi i mezzi adeguati di cui al cit. art. 5, non dipende da incapacità lavorativa o da fattori esterni alla volontà del coniuge richiedente l’assegno ma dalla libera scelta della sig.ra D.V. che ha deciso di abbandonare l’occupazione lavorativa che le assicurava un reddito fisso. Né la Corte di appello ha potuto riscontrare, in base alle deduzioni difensive e probatorie della odierna ricorrente, un particolare contributo alla formazione del patrimonio familiare e alla cura della famiglia ovvero un sacrificio delle sue aspettative lavorative in funzione delle esigenze familiari. Di qui la decisione di revocare l’assegno divorzile che deve ritenersi conforme allaL. n. 898 del 1970,art.5, come interpretato dalla recente giurisprudenza delle Sezioni Unite.
7. Il ricorso per cassazione va pertanto respinto con compensazione delle spese del giudizio di cassazione in considerazione dei recenti mutamenti della giurisprudenza in materia di assegno divorzile. Al rigetto del ricorso consegue l’attestazione dell’applicabilità delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, come specificato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di pubblicazione della presente sentenza siano omesse le generalità e le indicazioni identificative delle parti.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2019

L’art. 570 bis c.p. è applicabile anche in violazione di obblighi nei confronti di nati da soggetti non coniugati.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 19-06-2019) 04-11-2019, n. 44695; Pres. Paoloni, Cons. Rel.
Mogini
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI BRESCIA;
nel procedimento a carico di:
R.M.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 28/11/2018 del TRIBUNALE di BRESCIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MOGINI STEFANO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. ORSI LUIGI che ha concluso
chiedendo l’annullamento con rinvio.
udito l’avvocato BOECKLIN ALESSANDRA, sostituto processuale dell’avvocato BEATRICI
CHRISTIAN del foro di BRESCIA, in difesa di R.M.A., la quale insiste per il rigetto del ricorso e
la conferma della sentenza impugnata.
Svolgimento del processo
1. Il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Brescia ricorre avverso la sentenza in
epigrafe, con la quale il Tribunale di Brescia in composizione monocratica ha assolto R.M.A. per il
reato di cui alla L. n. 54 del 2006, art. 3, a lui contestato per aver versato alla madre dei suoi figli
minori la somma mensile di Euro 250,00 anziché quella di Euro 400,00 stabilita dal Tribunale per i
minorenni di Brescia con provvedimento in data 13/11/2012, perché il fatto non è previsto dalla
legge come reato. L’assoluzione è stata giustificata dal fatto che con D.Lgs. n. 21 del 2018 è stato
introdotto l’art. 570 bis c.p. che prevede reato proprio del coniuge, l’imputato non essendo mai stato
unito in matrimonio alla madre dei suoi figli.
2. Il Procuratore Generale ricorrente deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 570 bis
c.p. per contrasto col principio di diritto affermato da Sez. 6, n. 55744/2018.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato. Il delitto di omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento,
l’educazione e l’istruzione dei figli, previsto dall’art. 570-bis c.p., è infatti configurabile anche in
caso di violazione degli obblighi di natura patrimoniale stabiliti nei confronti di figli minori nati da
genitori non legati da vincolo formale di matrimonio (Sez. 6, n. 55744 del 24/10/2018, G., Rv.
274943, in motivazione è stato chiarito, quanto ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del
D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, che vi è continuità normativa tra la fattispecie prevista dalla L. 8
febbraio 2006, n. 54, art. 3 e quella prevista dall’art. 570-bis c.p.; Sez. 6, n. 56080 del 17/10/2018,
G., Rv. 274732; Sez. 6, n. 14731 del 22/02/2018, S., Rv. 272805; Sez. 6, n. 12393 del 31/01/2018,
P., Rv. 272518; Sez. 6, n. 25267 del 06/04/2017, S., Rv. 270030).
Si rende pertanto necessario l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio degli atti al
Tribunale di Brescia in composizione monocratica perché proceda a nuovo giudizio in coerente
applicazione dei principi di diritto dettati dalle richiamate decisioni di legittimità.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Brescia in composizione
monocratica.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati
identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 19 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

L’assegno di divorzio corrisposto una tantum e non in forma periodica non è deducibile dal reddito

Cass. civ. Sez. V, 12 novembre 2019, n. 29178
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 23955/2012 R.G. proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;
– ricorrente-
contro
B.V.G., rappresentato e difeso, come da procura speciale in atti, dall’Avv. Enrico Allegro, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. Massimo Coccia in Roma, Piazza Adriana, n. 5;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 77/34/11, depositata il 18 luglio 2011.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17 settembre 2019 dal Consigliere Dott. MICHELE CATALDI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Tommaso Basile, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’Avv. dello Stato Urbani Neri Alessia per la ricorrente;
Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 77/34/11, depositata il 18 luglio 2011, che ha rigettato il suo appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva accolto il ricorso di B.V.G. contro l’avviso con il quale l’Ufficio aveva accertato, ai fini Irpef, per l’anno d’imposta 2001, il maggior reddito imponibile derivante dal recupero a tassazione dell’onere relativo al versamento, una tantum, effettuato dal contribuente alla moglie, di Euro 67.000,00, in ottemperanza ad atto di transazione stipulato tra le parti nel corso della loro causa di separazione giudiziale tra coniugi.
L’Agenzia, infatti, assumeva l’indeducibilità, ai sensi delD.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 10, comma 1, lett. c), del predetto componente positivo dal reddito imponibile del contribuente erogante, per difetto del carattere della periodicità dell’attribuzione patrimoniale, oltre che per la mancata previsione del relativo titolo in un provvedimento dell’autorità giudiziaria.
2. Il contribuente si è costituito con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, l’Ufficio ricorrente denuncia, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa motivazione circa il fatto controverso e decisivo, individuato nell’affermata sussistenza di un giudicato interno relativo alla qualificazione dell’assegno in questione come assistenziale ed alimentare, che non sarebbe stata contestata dall’Agenzia nel giudizio di merito.
2. Con il secondo motivo, l’Ufficio ricorrente denuncia, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione siadell’art. 2909 c.c., per avere il giudice a quo erroneamente affermato la sussistenza di un giudicato interno relativo alla qualificazione dell’assegno in questione come assistenziale ed alimentare, che non sarebbe stata contestata dall’Agenzia nel giudizio di merito; sia delD.P.R. n. 917 del 1986,art.10, comma 1, lett. c), per avere la CTR erroneamente ritenuto che l’assegno in questione, non erogato periodicamente, ma pagato una tantum, fosse comunque deducibile ai sensi di tale disposizione, la quale prevede che: ” 1. Dal reddito complessivo si deducono, se non sono deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo, i seguenti oneri sostenuti dal contribuente: (…) c) gli assegni periodici corrisposti al coniuge, ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria;”.
3. I due motivi, per la loro parziale coincidenza di contenuti, e comunque per la loro stretta connessione, vanno trattati congiuntamente e, essendo fondati, vanno accolti.
3.1. Deve infatti escludersi che la qualificazione dell’assegno in questione “come assegno “assistenziale” o “alimentare” deducibile ex art. 10 ridetto” non sia stata contestata dall’Agenzia e sia quindi “divenuta definitiva”, così come invece affermato nella motivazione della sentenza impugnata (alla pag. 4), come unico motivo di rigetto dell’appello erariale.
Infatti, la contestazione sul punto dell’Ufficio, nei giudizi di merito, emerge dalla stessa sentenza impugnata (pag. 2, par. 2, primo e secondo capoverso), oltre che dalle relative porzioni delle controdeduzioni dell’Agenzia di fronte alla CTP e dell’appello erariale, trascritte dalla ricorrente nell’atto introduttivo di questo giudizio, senza contestazioni della controparte circa la corrispondenza delle citazioni al contenuto delle difese dalle quali sono tratte.
3.2. Deve poi darsi atto che è pacifico, per averlo più volte affermato espressamente il contribuente nel controricorso (ad. es. a pag. 4 dell’atto) che l’assegno de quo è stato corrisposto una tantum, “a titolo di liquidazione e capitalizzazione dell’assegno di mantenimento” dal medesimo controricorrente alla moglie, a seguito di un accordo raggiunto tra i coniugi nell’ambito della causa di separazione giudiziale.
Tanto premesso, questa Corte ha già chiarito che in tema di oneri deducibili dal reddito delle persone fisiche, ilD.P.R. n. 597 del 1973,art.10, comma 1, lett. g), (al pari delD.P.R. n. 917 del 1986,art.10, comma 1, lett. c)) limita la deducibilità, ai fini dell’applicazione dell’IRPEF, solo all’assegno periodico – e non anche a quello corrisposto in unica soluzione – al coniuge, in conseguenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella misura in cui risulta da provvedimento dell’autorità giudiziaria. Tale differente trattamento – come affermato dalla Corte costituzionale nella ordinanza n. 383 del 2001 – è riconducibile alla discrezionalità legislativa la quale, riguardando due forme di adempimento tra loro diverse, una soggetta alle variazioni temporali e alla successione delle leggi, l’altra capace di definire ogni rapporto senza ulteriori vincoli per il debitore, non risulta né irragionevole, né in contrasto con il principio di capacità contributiva (Cass., 22/11/2002, n. 16462. Nello stesso senso Cass., 06/11/2006, n. 23659; Corte Cost., 29/3/2007,n. 113). Ed è stato, successivamente, ulteriormente precisato che, in tema d’IRPEF ed ILOR, ilD.P.R. n. 597 del 1973,art.10, (oggi confluito nelD.P.R. n. 917 del 1986,art.10) non consente la deducibilità dal reddito dell’assegno corrisposto in un’unica soluzione, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970, art.5, comma 8, all’ex coniuge, come affermato dalla Corte Cost. nelle ordinanze n. 383 del 2001 e n. 113 del 2007, non solo perché si tratta di norma agevolativa, non suscettibile di estensione, ma anche perché l’assegno periodico e l’attribuzione “una tantum” (pure se rateizzata) costituiscono forme di adempimento dell’obbligo a carico del divorziato differenti per natura giuridica, struttura e finalità (Cass., 30/05/2016, n. 11183. Cfr. altresì, riguardo all’ontologica diversità funzionale dell’assegno divorzile corrisposto in unica soluzione, ai fini della del riconoscimento della pensione di reversibilità in favore del coniuge nei cui confronti è stato dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, Cass., S.U., 24/09/2018, n. 22434).
3.3. La decisione impugnata va quindi cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, si può provvedere anche nel merito, rigettando il ricorso introduttivo del contribuente.
4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente;
condanna il controricorrente al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 17 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2019

L’esclusione della procreazione medicalmente assistita (PMA) per le coppie composte da soggetti dello stesso sesso non determina alcuna discriminazione contraria ai principi costituzionali poiché l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive

Corte cost., 23 ottobre 2019, n. 221
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt.1, commi 1 e 2, 4, 5 e 12, commi 2, 9 e 10dellaL. 19 febbraio 2004, n. 40(Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promossi dal Tribunale ordinario di Pordenone e dal Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanze del 2 luglio 2018 e del 3 gennaio 2019, rispettivamente iscritte al n. 129 del registro ordinanze 2018 e al n. 60 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2018 e n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione di S. B. e altra, e di F. F. e altra, gli atti di intervento ad adiuvandum dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, e dell’Associazione R.C. e altra nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Franco Modugno;
uditi gli avvocati Susanna Lollini per l’Avvocatura per i diritti LGBTI, Filomena Gallo e Massimo Clara per l’Associazione R.C. e altra, Maria Antonia Pili per S. B. e altra, Alexander Schuster per F. F. e altra e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Con ordinanza del 2 luglio 2018 (r. o. n. 129 del 2018), il Tribunale ordinario di Pordenone ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agliartt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione- quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848- degli artt.5e12, commi 2, 9 e 10, dellaL. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole “coppie … di sesso diverso” e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche “a coppie … composte da soggetti dello stesso sesso”.
1.1.- Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento cautelare promosso, ai sensidell’art. 700 del codice di procedura civile, da due donne, parti di una unione civile, in seguito al rifiuto opposto dalla locale Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA.
Le ricorrenti hanno esposto di convivere more uxorio dal 2012 e di aver contratto unione civile nel 2017; di aver maturato nel corso del tempo il desiderio della genitorialità, tanto che una di loro aveva intrapreso un percorso di PMA in Spagna, all’esito del quale aveva dato alla luce in Italia due gemelli; che anche l’altra ricorrente intendeva realizzare il suo desiderio di maternità, senza tuttavia recarsi all’estero, con costi piuttosto elevati, poiché, a suo parere, laL. n. 40 del 2004- dopo le sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015 e alla luce di alcune importanti pronunce della giurisprudenza di legittimità – avrebbe consentito alle coppie omosessuali di accedere alle tecniche di PMA anche in Italia; che le ricorrenti si erano quindi rivolte all’Azienda per l’assistenza sanitaria n. 5 “Friuli occidentale”, presso la quale era stato istituito un servizio di PMA di elevato livello qualitativo; che il responsabile del servizio aveva, tuttavia, respinto la loro richiesta, sul rilievo che l’art.5dellaL. n. 40 del 2004riserva la fecondazione assistita alle sole coppie composte da persone di sesso diverso. Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al giudice adito di ordinare, con provvedimento d’urgenza, all’Azienda sanitaria di consentire loro l’accesso alla PMA, previa proposizione – ove il problema non fosse ritenuto superabile in via interpretativa – di questioni di legittimità costituzionale del citato art. 5 ed, eventualmente, dell’art. 4, comma 1, della medesimaL. n. 40 del 2004, nella parte in cui limita la PMA “ai casi di sterilità o di infertilità”, anche quando si tratti di coppie formate da persone dello stesso sesso.
Nel costituirsi in giudizio, l’Azienda sanitaria ha eccepito preliminarmente l’incompetenza per materia del giudice adito, assumendo che la competenza a decidere sulla domanda cautelare spetterebbe al “Giudice del Lavoro del Tribunale di Pordenone”: ciò in quanto le cause concernenti le prestazioni erogate nell’ambito del servizio sanitario nazionale rientrerebbero tra le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria (art. 442 cod. proc. civ.), devolute dall’art. 444 del medesimo codice alla competenza del giudice del lavoro.
L’eccezione – secondo il giudice rimettente – sarebbe “mal posta” e, comunque sia, infondata. Per consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, la ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate (quale la sezione lavoro) e le sezioni ordinarie del medesimo Tribunale non determina l’insorgenza di una questione di competenza, ma attiene alla distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio. In ogni caso, poi, l’eccezione risulterebbe infondata, in quanto oggetto del giudizio a quo non è l’erogazione di una prestazione sanitaria a tutela del diritto del cittadino a una specifica cura, ma l’esatta individuazione dei limiti al diritto alla genitorialità: “diritto che, solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico”.
Quanto, poi, ai presupposti del provvedimento cautelare richiesto, sarebbe ravvisabile quello del periculum in mora, tenuto conto dell’età della ricorrente che dovrebbe sottoporsi alla fecondazione assistita. È, infatti, notorio che le probabilità di successo delle relative tecniche diminuiscono sensibilmente con l’avanzare dell’età della donna, specie dopo i trentacinque anni, con correlato aumento dei rischi per la salute della gestante e del nascituro. Nella specie, l’attesa dei tempi di un giudizio ordinario di cognizione rischierebbe, quindi, di pregiudicare definitivamente il diritto azionato.
Per quanto attiene, invece, al fumus boni iuris, il giudice a quo rileva che, in base all’art.5dellaL. n. 40 del 2004, “fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”. Nella specie, le ricorrenti sono maggiorenni, coniugate o conviventi (avendo costituito un’unione civile), in età potenzialmente fertile ed entrambe viventi. Esse rimarrebbero, tuttavia, escluse dall’accesso alla procedura, trattandosi di una coppia di persone non di sesso diverso, ma dello stesso sesso.
Tale preclusione risulterebbe, d’altra parte, presidiata da incisive previsioni sanzionatorie. L’art.12dellaL. n. 40 del 2004punisce, infatti, al comma 2, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 Euro “chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie … che siano composte da soggetti dello stesso sesso”. Prevede, inoltre, al comma 9, “la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti” di cui al medesimo articolo. Stabilisce, infine, al comma 10, la sospensione per un anno dell’autorizzazione concessa “alla struttura al cui interno è eseguita una delle pratiche vietate”, con possibilità di revoca della stessa “nell’ipotesi di più violazioni dei divieti … o di recidiva”.
Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale delle disposizioni dianzi indicate.
Il divieto di accesso alla PMA, stabilito nei confronti delle coppie omosessuali, e la correlata previsione di sanzioni nei confronti del personale medico e delle strutture che non lo rispettino si porrebbero in contrasto, anzitutto, conl’art. 2 Cost., in quanto non garantirebbero il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010, la nozione di formazione sociale, di cui al citatoart. 2 Cost., abbraccia “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”. Essa comprende, pertanto, anche l’unione civile tra persone dello stesso sesso: conclusione che trova conferma nell’art.1, comma 1, dellaL. 20 maggio 2016, n. 76(Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), ove l’unione civile è espressamente qualificata come “specifica formazione sociale ai sensi degliarticoli 2 e 3 della Costituzione”.In tal modo, il legislatore italiano avrebbe superato l’impostazione tradizionale, in base alla quale la coppia familiare era necessariamente composta da soggetti di sesso diverso, rendendo omogenee le famiglie, sia omosessuali, sia eterosessuali.
Le norme censurate violerebbero, altresì,l’art. 3 Cost., dando origine a disparità di trattamento basate sull’orientamento sessuale e sulle condizioni economiche dei cittadini.
Risulterebbe, infatti, irragionevole e “logicamente contraddittoria” la mancata inclusione delle coppie formate da persone dello stesso sesso tra i soggetti legittimati ad accedere alle tecniche in questione, le quali mirano precipuamente a favorire la soluzione dei problemi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana: requisito, questo, che la Corte di cassazione ha ritenuto senz’altro sussistente nel caso della coppia omosessuale, la quale verrebbe a trovarsi “in una situazione assimilabile a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile” (è citata Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). Tale rilievo – ad avviso del giudice a quo – renderebbe manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.4, comma 1, dellaL. n. 40 del 2004, prospettata peraltro dalle ricorrenti solo in via subordinata.
Vietando alle coppie di cittadini dello stesso sesso di accedere in Italia alla PMA, le disposizioni denunciate finirebbero, d’altra parte, per riconoscere il diritto alla filiazione alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi a tali tecniche in uno dei numerosi Stati esteri che, viceversa, lo consentono. Come già rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014 – sia pure in riferimento al ricorso alla PMA di tipo eterologo da parte di una coppia eterosessuale – si realizzerebbe, in questo modo, “un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie …, in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale”: esito che rappresenterebbe “non un mero inconveniente di fatto, bensì il diretto effetto delle disposizioni in esame, conseguente ad un bilanciamento degli interessi manifestamente irragionevole”.
Risulterebbero violati, ancora,l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata a proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, el’art. 32, primo comma, Cost., in quanto – come rilevato dalla citata sentenza n. 162 del 2014 – il diritto alla salute, tutelato dal precetto costituzionale, deve ritenersi comprensivo della salute psichica, oltre che fisica: e, nella specie, sarebbe “certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA …, possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia”.
Le norme censurate violerebbero, infine,l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita familiare e il divieto di discriminazione. Il divieto in discussione si tradurrebbe, infatti, in una inammissibile interferenza in una scelta di vita che compete alla coppia familiare, attuando, al tempo stesso, una irragionevole discriminazione fondata sul mero orientamento sessuale dei suoi componenti.
Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio a quo, posto che, allo stato, la richiesta delle ricorrenti di accedere alla PMA trova ostacolo nelle disposizioni denunciate. L’univoco tenore letterale di queste ultime escluderebbe, d’altronde, la praticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata prospettata in via principale dalle ricorrenti.
1.2.- Si sono costituite S. B. e C. D., parti ricorrenti nel giudizio a quo, le quali hanno chiesto che le questioni siano accolte.
Le parti costituite osservano come la Corte costituzionale sia intervenuta più volte sullaL. n. 40 del 2004, al fine di estendere l’accesso alla PMA a soggetti inizialmente esclusi. In particolare, con la sentenza n. 162 del 2014 è caduto il divieto di ricorso a tecniche di tipo eterologo per le coppie eterosessuali affette da sterilità o infertilità assolute e irreversibili, mentre la successiva sentenza n. 96 del 2015 ha garantito l’accesso alla PMA anche alle coppie eterosessuali fertili, ma portatrici di gravi patologie genetiche trasmissibili.
Nel solco di tale processo di adeguamento ai principi costituzionali non potrebbe ora non inserirsi anche l'”apertura” delle tecniche di PMA alle coppie formate da persone dello stesso sesso.
Come rilevato dalla Corte di cassazione (in particolare, con la sentenza n. 19599 del 2016), se l’unione fra persone dello stesso sesso è una formazione sociale ove l’individuo “svolge la sua personalità”, e se la volontà dei componenti della coppia di divenire genitori e formare una famiglia con prole costituisce espressione della generale libertà di autodeterminazione della persona, ricondotta dalla Corte costituzionale agliartt. 2, 3 e 31 Cost.(e non pureall’art. 29 Cost.), deve escludersi che esista, a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli. Ciò tenuto conto del fatto che non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine a specifiche ripercussioni negative sul piano educativo e della crescita del minore, derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da una coppia omosessuale.
Su tale rilievo, la Cassazione ha ritenuto, quindi, possibile l’adozione del figlio del partner omosessuale ai sensi dell’art.44, comma 1, lettera d), dellaL. 4 maggio 1983, n. 184(Diritto del minore ad una famiglia) (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).
Una volta assodato che l’unione omosessuale può bene costituire un contesto familiare nel quale esercitare le funzioni genitoriali, la tendenziale unitarietà dello status di figlio – senza discriminazioni tra figli legittimi, naturali o adottivi – renderebbe irragionevole ogni disparità nel riconoscimento del diritto alla genitorialità che risulti collegata unicamente alle “modalità di ingresso” dei figli all’interno dell’unione civile: ossia alla circostanza che l’ingresso avvenga a seguito di adozione ovvero di tecniche di PMA.
La giurisprudenza più recente riconosce, d’altronde, piena efficacia nel nostro ordinamento agli atti di nascita stranieri relativi a minori concepiti all’estero con tecniche di PMA da partner dello stesso sesso, con conseguente attribuzione della qualità di genitori a entrambi i partner. Impedire il ricorso a tecniche di PMA a coppie dello stesso sesso in Italia e nel contempo riconoscerne pienamente gli effetti se operate all’estero (anche da cittadini italiani) rappresenterebbe una “intollerabile “ipocrisia” interpretativa”, anch’essa contrastante conl’art. 3 Cost.
Pienamente condivisibili sarebbero, per il resto, le censure formulate dal rimettente in riferimento agliartt. 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost.A quest’ultimo riguardo, le parti costituite ricordano come la Corte costituzionale austriaca, con una pronuncia del 19 dicembre 2013, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge austriaca che vietava a coppie di donne (nella specie, unite civilmente in Germania) di accedere alle tecniche di PMA, ravvisando in tale divieto una lesione del principio di eguaglianza di cuiall’art. 7 della Costituzioneaustriaca e una inammissibile interferenza con la vita familiare protetta dall’art. 8 CEDU.
1.3.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Il giudice a quo avrebbe, infatti, affermato il contrasto delle norme censurate con i parametri costituzionali in modo puramente assiomatico, senza un adeguato supporto argomentativo.
Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.
Come sottolineato nella sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale, laL. n. 40 del 2004costituisce la “prima legislazione organica relativa ad un delicato settore … che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali”. Le relative questioni di costituzionalità toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze appartiene primariamente alla valutazione del legislatore.
La progressiva eliminazione, da parte della Corte, con le sentenze n. 151 del 2009, n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, di taluni divieti posti dalla citata legge sarebbe frutto di una analisi specifica non riassumibile in un giudizio di valore unitario, in quanto la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e la libertà di divenire genitori non implica che essa possa esplicarsi senza limiti. Con la sentenza n. 162 del 2014, la Corte ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale della preclusione all’accesso alla PMA di tipo eterologo nei confronti delle coppie affette da grave patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili, senza porre, tuttavia, in discussione la legittimità in sé del divieto di tale pratica e precisando, altresì, che la declaratoria di illegittimità costituzionale non incide sulla disciplina dei requisiti soggettivi (compreso quello della diversità di sesso) stabilita dall’art.5, comma 1, dellaL. n. 40 del 2004, che resta, quindi, applicabile anche alla PMA di tipo eterologo.
Quanto al divieto di discriminazione delle coppie omosessuali, la stessa Corte costituzionale ha tenuto ferma l’interpretazionedell’art. 29 Cost.e il modello di matrimonio e di famiglia che ne deriva, fondati sulla differenza di sesso tra i coniugi (sentenza n. 138 del 2010). Né la disciplina delle unioni civili, di cui allaL. n. 76 del 2016, potrebbe rappresentare un utile termine di comparazione, posto che tale legge definisce l’unione civile quale “specifica formazione sociale ai sensi degliarticoli 2 e 3 della Costituzione”, attribuendo quindi alla stessa caratteristiche autonome e distinte rispetto al matrimonio.
L’art.1, comma 20, dellaL. n. 76 del 2016esclude, inoltre, l’applicabilità alle unioni civili tanto delle disposizioni del codice civile sulla filiazione, quanto – come chiarito dalla Corte di cassazione – della disposizione relativa all’adozione speciale del figlio del coniuge, di cui all’art.44, comma 1, lettera b), dellaL. n. 184 del 1983, consentendo la sola adozione in caso di impossibilità di affidamento preadottivo, prevista dalla successiva lettera d).
La ratio della disciplina della PMA sarebbe, d’altro canto, quella di tutelare il superiore interesse del nascituro. Il diritto alla genitorialità sussisterebbe, pertanto, solo ove esso corrisponda al migliore interesse per il minore (“best interest of the child”, secondo la formula rinvenibile nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva conL. 27 maggio 1991, n. 176). E, proprio nella prospettiva della valutazione di tale interesse, particolarmente sul piano della conservazione di rapporti affettivi già instaurati, il diritto alla genitorialità delle coppie omosessuali sarebbe stato, in effetti, evocato dalla giurisprudenza comune che si è occupata dall’argomento.
Il caso oggi in esame non riguarda, tuttavia, una ipotesi di “genitorialità sociale”, tramite la quale possa essere tutelato un minore, anche nell’ambito di coppie omosessuali, ma soltanto il diritto di un adulto di procreare: diritto che non sarebbe garantito in modo assoluto dall’ordinamento.
Quanto, infine, alla denunciata violazione degli artt. 8 e 14 CEDU, la difesa dello Stato ricorda come la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 1 aprile 2010 recte: 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria, abbia ritenuto che il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca non configurasse una ingerenza indebita della pubblica autorità nella vita privata e familiare, vietata dall’art. 8 CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalità di cui gli Stati fruiscono nella disciplina della materia.
Si sarebbe, in conclusione, al cospetto di una tematica che implica l’armonizzazione di un complesso di valori e scelte di opportunità rimesse in via esclusiva al legislatore.
1.4.- È intervenuta, altresì, l’associazione di promozione sociale Avvocatura per i diritti LGBTI, la quale ha chiesto, sulla scorta di ampie argomentazioni, l’accoglimento delle questioni (da intendere, a suo avviso, come limitate alle sole coppie omosessuali femminili).
1.5.- S. B. e C. D. hanno depositato memoria, con la quale hanno contestato le difese dell’Avvocatura generale dello Stato.
Non conferente sarebbe, in specie, il richiamo dell’Avvocatura ai tratti differenziali degli istituti del matrimonio e dell’unione civile. L’art.5dellaL. n. 40 del 2004consente, infatti, l’accesso alla PMA non soltanto alle coppie “coniugate”, ma anche alle coppie “conviventi”. La disparità di trattamento che le questioni mirano a rimuovere non è, dunque, quella tra soggetti coniugati e soggetti uniti civilmente, ma quella fra conviventi eterosessuali e conviventi omosessuali (uniti civilmente): distinzione che esprimerebbe una discriminazione fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale della coppia.
Parimente privo di significato sarebbe il fatto che, nelle precedenti pronunce sulla PMA, la Corte costituzionale abbia tenuto fermo il requisito di accesso rappresentato dalla diversità di sesso dei richiedenti. In quelle occasioni, il problema della legittimità di tale requisito non risultava, infatti, sottoposto alla Corte.
La pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sul caso S. H. e altri contro Austria risulterebbe, a sua volta, superata dalla successiva decisione della Corte costituzionale austriaca, che ha dichiarato illegittima la normativa che vietava l’accesso alla PMA a coppie di donne.
1.6.- Ha depositato memoria anche l’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha insistito per la dichiarazione di inammissibilità o infondatezza delle questioni, riprendendo e sviluppando gli argomenti già svolti nell’atto di intervento.
2.- Con ordinanza del 3 gennaio 2019 (r. o. n. 60 del 2019), il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole “di sesso diverso”, e 12, comma 2, limitatamente alle parole “dello stesso sesso o”, “anche in combinato disposto con i commi 9 e 10”, nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 dellaL. n. 40 del 2004, “nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile”, deducendone il contrasto con gliartt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché con gli artt. 11 (parametro evocato solo in dispositivo) e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo conL. 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva conL. 3 marzo 2009, n. 18.
2.1.- Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da due donne, ai sensidell’art. 700 cod. proc. civ., nei confronti dell’Azienda sanitaria della Provincia autonoma di Bolzano.
Nel ricorso si deduce che la coppia ricorrente si era sposata in Danimarca nel 2014, con atto successivamente trascritto in Italia nel registro delle unioni civili; che a causa delle complicazioni seguite a trattamenti di inseminazione artificiale operati in Danimarca, a una delle ricorrenti era stata asportata la salpinge uterina destra e riscontrata l’avvenuta chiusura di quella sinistra, con conseguente incapacità di produrre ovuli; che l’altra ricorrente soffriva, a sua volta, di un’aritmia cardiaca, in ragione della quale le era stato sconsigliato di avere gravidanze e suggerito, anzi, di ricorrere a una terapia anticoncezionale; che le tecniche di fecondazione assistita avrebbero consentito di superare gli ostacoli alla procreazione indotti da tali patologie, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue delle ricorrenti (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra); che, a tal fine, esse si erano rivolte all’Azienda S.B., la quale aveva, tuttavia, respinto la loro richiesta, rilevando che l’art.4, comma 3, dellaL. n. 40 del 2004vieta le tecniche di fecondazione eterologa e che il successivo art. 5 consente di accedere alle tecniche di PMA solo alle coppie composte da persone di sesso diverso.
Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al Tribunale rimettente di garantire con provvedimento d’urgenza il loro diritto di accesso alle menzionate terapie riproduttive.
Costituitasi in giudizio, l’Azienda sanitaria – sul presupposto ci si trovi a fronte di una controversia in materia di previdenza e assistenza obbligatorie – ha eccepito l’incompetenza per territorio del Tribunale ordinario di Bolzano, indicando come competente, ai sensidell’art. 444 cod. proc. civ., il giudice del lavoro presso il Tribunale ordinario di Monza.
Ad avviso del rimettente, l’eccezione sarebbe infondata. Il giudizio a quo non potrebbe essere, infatti, incluso tra le controversie di cuiall’art. 442 cod. proc. civ., attenendo piuttosto all’esatta individuazione dei limiti e delle facoltà connessi al diritto alla genitorialità: diritto che, “solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico”. La maggior parte delle pronunce di merito in materia di PMA risulta del resto emessa, anche quando risultasse evocata in giudizio una azienda sanitaria, da giudici addetti alle sezioni ordinarie, e non già alla sezione lavoro dei tribunali e delle corti d’appello. La competenza per territorio dovrebbe essere, pertanto, stabilita in base nonall’art. 444 cod. proc. civ.(che fa riferimento al foro di residenza dell’attore), ma agli ordinari criteri indicati dagliartt. 19 e 20 cod. proc. civ., che renderebbero competente il Tribunale adito.
Sarebbe, per altro verso, ravvisabile il periculum in mora, posto che, in ragione dell’età delle ricorrenti, l’attesa dei tempi di un ordinario giudizio di cognizione rischierebbe di pregiudicare definitivamente il buon esito delle tecniche di PMA e, con esso, il diritto azionato.
Quanto al fumus boni iuris, assumerebbero, per converso, rilievo dirimente le questioni di legittimità costituzionale sollevate. Alla luce delle motivazioni addotte dall’Azienda sanitaria a sostegno del diniego delle prestazioni richieste, l’unico ostacolo all’accoglimento dell’istanza cautelare delle ricorrenti sarebbe, infatti, rappresentato dalle norme sospettate di illegittimità costituzionale.
L’art.1dellaL. n. 40 del 2004prevede, in specie, che il ricorso alla PMA è consentito “al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”, “alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge stessa” (comma 1) e sempre che “non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità” (comma 2).
L’art. 4, dopo aver ribadito che il ricorso alle tecniche di PMA è limitato ai casi di sterilità o infertilità non altrimenti rimovibili (comma 1), vieta specificamente il ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (comma 3).
Il successivo art. 5 consente, a sua volta, di accedere alle tecniche in questione soltanto alle “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
Da ultimo, l’art. 12 punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 Euro chiunque applica tecniche di PMA, tra l’altro, a coppie “composte da soggetti dello stesso sesso” (comma 1), prevedendo altresì sanzioni di tipo interdittivo nei confronti del personale medico e delle strutture che vi procedano (commi 9 e 10).
Secondo il giudice a quo, le norme denunciate si porrebbero in contrasto anzitutto con gliartt. 2 e 3 Cost.
È ormai pacifico, infatti, che la formazione sociale scaturente dall’unione civile, o anche solo da una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso, abbia natura familiare. Di conseguenza, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 162 del 2014, l’unico interesse che potrebbe astrattamente contrapporsi all’utilizzazione delle tecniche di PMA nel suo ambito è quello del nascituro.
La giurisprudenza più recente ha riconosciuto, tuttavia, in modo unanime la piena idoneità genitoriale della coppia omosessuale, sottolineando come non vi siano evidenze scientifiche dotate di un adeguato margine di certezza in ordine alla configurabilità di eventuali pregiudizi per il minore derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da persone dello stesso sesso.
Non sarebbero ravvisabili, di conseguenza, spazi di valutazione politico-legislativa per negare il diritto alla genitorialità, mediante accesso alla PMA, a una coppia di donne unite civilmente, non risultando pregiudicate in alcun modo le aspettative del nuovo nato, né venendo in rilievo le questioni di ordine etico sollevate dalla cosiddetta maternità surrogata. Nella specie, non verrebbe, infatti, coinvolto nella gestazione alcun soggetto esterno alla coppia richiedente, occorrendo soltanto il ricorso, ormai consentito, alle pratiche di fecondazione eterologa.
Il divieto di accesso alla PMA da parte di persone dello stesso sesso costituirebbe, pertanto, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana. Esso implicherebbe una negazione del diritto alla genitorialità sproporzionata e irragionevole, come tale lesiva anchedell’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica “protegge la maternità”.
Nella fattispecie oggetto del giudizio a quo risulterebbe violato, peraltro, anche il diritto alla salute, garantitodall’art. 32 Cost.Le ricorrenti si vedrebbero, infatti, preclusa – solo perché componenti di una coppia formata da persone dello stesso sesso – la possibilità di superare gli ostacoli alla riproduzione indotti dalle patologie da cui sono affette mediante l’indicata strategia di utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue: ciò quantunque l’art. 1 assegni alla PMA proprio la finalità di risolvere i “problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”.
La natura espressa del divieto e della relativa sanzione impedirebbero, d’altronde, un’interpretazione della normativa in senso conforme alla Costituzione. Né potrebbe procedersi alla disapplicazione delle norme censurate per contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione. Alla luce delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, tale contrasto deve essere fatto valere tramite la proposizione di una questione di legittimità costituzionale in riferimentoall’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale le disposizioni convenzionali fungono da norme interposte.
Per le medesime ragioni si renderebbe necessario denunciare di fronte alla Corte costituzionale il sospetto di illegittimità delle norme censurate per incompatibilità “con ulteriore normativa pattizia”, indicata, “per mere ragioni di completezza”, negli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (i quali prevedono ancora una volta il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare), nonché negli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale “disabilità riproduttiva”).
2.2.- Si sono costituite F. F. e M. R., ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni.
Preliminarmente, le parti costituite pongono in evidenza come la vicenda oggetto del giudizio principale sia diversa da quella che ha dato origine alle pur analoghe questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Pordenone. In quel caso, infatti, la coppia è composta da persone dello stesso sesso, ma non consta che esse presentino individualmente alcuna patologia riproduttiva. Nella fattispecie in esame, di contro, a entrambe le ricorrenti sono state diagnosticate patologie riproduttive, sicché l’infecondità non è solo di coppia, ma anche individuale.
Ciò premesso, le parti costituite rilevano come costituisca un dato ormai acquisito – anche alla luce della giurisprudenza delle Corti europee – che la coppia omosessuale, tanto unita civilmente (come le ricorrenti), quanto “in libera unione”, costituisca una famiglia e goda, quindi, del diritto al rispetto della propria vita familiare.
La Corte costituzionale ha collocato, d’altro canto, tra i diritti inviolabili dell’uomo, tutelatidall’art. 2 Cost., non solo i diritti della persona nell’ambito familiare, ma anche i diritti relativi alla possibilità di avere una famiglia. In particolare, nella sentenza n. 162 del 2014 la Corte ha affermato che la scelta di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia dei figli “costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, … riconducibile agliartt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare”. In quest’ottica, “la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo”.
Se, dunque, la coppia omosessuale costituisce una formazione sociale tutelatadall’art. 2 Cost.e se la determinazione di avere un figlio rappresenta un diritto inviolabile della coppia, anche in assenza di legame genetico, il divieto di accesso alla procreazione assistita posto dallaL. n. 40 del 2004nei confronti delle coppie formate da due donne – in difetto di interessi contrari di pari rango – colliderebbe inevitabilmente con il citato parametro costituzionale.
Le disposizioni censurate violerebbero, altresì,l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo dell’eguaglianza, sia sotto quello della ragionevolezza.
Quanto al principio di eguaglianza, il divieto in discorso risulterebbe discriminatorio sotto molteplici aspetti, trattando diversamente situazioni omogenee.
Sotto un primo aspetto, mentre per la coppia eterosessuale sarebbe sufficiente affermare, ai fini dell’accesso alla PMA, di aver avuto regolari rapporti sessuali per un dato periodo, senza che abbiano condotto alla gravidanza, la coppia omosessuale che dichiari lo stesso insuccesso in riferimento a – pur consentiti – tentativi di inseminazione domestica, non può invece accedere alle tecniche in questione.
In secondo luogo, dall’art.12, comma 2, dellaL. n. 40 del 2004emergerebbe che chi applica tecniche di PMA – ora anche di tipo eterologo – a una coppia di sesso diverso in assenza delle condizioni patologiche di sterilità o infertilità, di cui all’art. 4 della medesima legge, non è soggetto ad alcuna sanzione, mentre la stessa condotta, posta in essere a vantaggio di una coppia dello stesso sesso, anche in presenza di patologie documentate, è punita.
Sotto un terzo profilo, la discriminazione si apprezzerebbe nel raffronto tra una coppia di donne con patologie riproduttive e una coppia eterosessuale con la donna affetta dalla medesima patologia. La donna in coppia con un uomo potrebbe, infatti, fruire della PMA, mentre la donna in coppia con un’altra donna non vi ha accesso.
Anche la violazione del principio di ragionevolezza si riscontrerebbe sotto molteplici aspetti. Nella sentenza n. 162 del 2014, la Corte costituzionale ha ritenuto che, alla luce del dichiarato scopo dellaL. n. 40 del 2004″di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” (art. 1, comma 1), la preclusione assoluta di accesso alla PMA di tipo eterologo introducesse “un evidente elemento di irrazionalità”, poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità veniva ad essere stabilita proprio “in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis”.
A conclusioni analoghe dovrebbe pervenirsi nell’ipotesi in esame. Le componenti di una coppia omosessuale femminile si vedrebbero, infatti, non semplicemente limitata, ma preclusa in radice la possibilità di fondare una famiglia con figli in Italia e di divenire madri, nonostante la Costituzione associ in maniera esplicita la genitorialità alla donna (art. 31, secondo comma).
Il divieto risulterebbe particolarmente irragionevole nel caso di specie, dato che le patologie di cui le ricorrenti sono portatrici rendono necessario l’intervento della scienza medica e richiedono un’utilizzazione complementare delle loro potenzialità riproduttive residue. Imporre a ciascuna di esse, per accedere alla PMA, di sposare un uomo o di convivere con lui, di là dalla intrinseca inaccettabilità della condizione, non risolverebbe il problema produttivo, ma condannerebbe, anzi, la donna a non divenire mai madre (genetica).
Si riscontrerebbe, inoltre, una ingiustificata disparità di trattamento delle coppie in base alla loro capacità economica, analoga a quella rilevata dalla sentenza n. 162 del 2014 in rapporto al divieto di fecondazione eterologa. L’esercizio del diritto di formare una famiglia con figli resterebbe, infatti, riservato solo alle coppie omosessuali più abbienti, che dispongano delle risorse economiche necessarie per recarsi in un altro Stato che consente ad esse il ricorso alle tecniche di PMA.
Si dovrebbe considerare, ancora, che con la sentenza n. 96 del 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le disposizioni dellaL. n. 40 del 2004che non consentivano il ricorso alle tecniche di PMA “alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili”. L’ordinamento tutelerebbe, dunque, attualmente – perché così impone la Costituzione – ogni coppia che incontri ostacoli alla gravidanza, anche se non correlati alla infertilità o sterilità individuale, ma a una specifica conformazione di coppia. Il pericolo di trasmissione di malattie al nascituro può dipendere, infatti, dalla circostanza che entrambi i componenti della coppia siano portatori di una tara genetica: dunque, se la donna avesse scelto un uomo non portatore del medesimo gene il problema non vi sarebbe. La scelta della donna di vivere una relazione con un’altra donna è espressione legittima della propria vita affettiva e familiare, in nulla diversa e meno meritevole di tutela rispetto alla scelta di vivere con “quell”‘uomo, e non con un altro. Anche in tal caso, dunque, la donna dovrebbe godere dell’assistenza medica necessaria per superare gli ostacoli riproduttivi che discendono dalla scelta operata.
Da ultimo, laL. n. 40 del 2004moverebbe dal presupposto che la situazione di infertilità o sterilità, alla quale è subordinata l’erogazione delle prestazioni di PMA, sia di tipo esclusivamente medico-patologico, quando invece essa può dipendere anche da una “condizione sociale”, insita nella non complementarità biologica di due donne. Alla luce del principio personalista che ispira l’ordinamento costituzionale repubblicano, tuttavia, le finalità terapeutiche potrebbero rilevare solo agli effettidell’art. 32 Cost.e degli obblighi di sanità pubblica dello Stato, ma non quale giustificazione per negare tout court il diritto all'”autoderminazione riproduttiva”, in assenza di libertà altrui o collettive lese.
Sarebbe violato anchel’art. 30, terzo comma, Cost., in forza del quale “la legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale”. Il divieto di accedere alle tecniche di PMA da parte delle coppie omosessuali femminili e lo sfavore espresso dal legislatore, sanzionando i soggetti che le realizzino, determinerebbero, infatti, una discriminazione legale e sociale nei confronti dei minori che da tali tecniche “illecite” nascano.
Risulterebbe leso purel’art. 31, primo comma, Cost., il quale, con l’espresso riferimento alle “famiglie numerose”, esprimerebbe un favor evidente per la formazione di famiglie con figli, imponendo al legislatore, non solo di non ostacolarla, ma anzi di agevolarla.
Il divieto censurato violerebbe anche l’imperativo di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, posto dal secondo comma dello stessoart. 31 Cost., non potendo la maternità di una donna omosessuale essere oggetto di protezione diversa da quella di una donna eterosessuale.
Sarebbe violato, ancora, il diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), tanto della persona singolarmente considerata, quanto nella sua dimensione di coppia.
Con riguardo alla ricorrente affetta da patologia cardiaca che le impedisce di divenire madre gestazionale, se non con gravissimo rischio per la propria salute, l’unica possibilità di mantenere un legame genetico con il figlio è la fecondazione dei propri ovuli in vitro, con successivo trasferimento degli embrioni così ottenuti nell’utero di altra donna. Dunque, solo la relazione affettiva con un’altra donna, in grado di realizzare una gravidanza, le consentirebbe di avere dei figli.
Quanto all’altra ricorrente – non in grado di produrre ovociti, ma capace di divenire madre partoriente ricevendo embrioni creati in ambiente extrauterino – ella, quando pure convivesse con un uomo, avrebbe notevoli difficoltà nel procurarsi gameti femminili in numero sufficiente per la produzione di embrioni sani, stante la notoria carenza di ovociti in Italia. Si troverebbe, quindi, costretta ad acquistarli sul mercato internazionale, con i rischi per la salute connessi al prelievo da donne straniere: ciò quando, nel caso concreto, vi sarebbe la compagna che è disposta a conferirli.
Il divieto rivolto al personale sanitario favorirebbe, per altro verso, il ricorso a modalità fecondative – quali l’inseminazione domestica con sperma di conoscenti o acquisito tramite internet – che, in assenza di test clinici sui donatori, mettono a rischio la salute tanto della madre, quanto del nascituro.
Per le medesime ragioni già indicate nella sentenza n. 162 del 2014, le norme censurate sarebbero produttive di un vulnus alla salute anche nella sua dimensione psichica e sociale, posto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner è suscettibile di incidere negativamente, anche in misura rilevante, sulla salute della coppia, intesa nella predetta accezione.
Alla previsionedell’art. 32 Cost.dovrebbe essere ricondotto, infine, anche il dovere dello Stato di tutelare chi, come le ricorrenti, sia portatore di patologie riproduttive che determinano una condizione di disabilità: nozione, quest’ultima, che – come rilevato dalla stessa sentenza n. 162 del 2014 – “per evidenti ragioni solidaristiche, va accolta in un’ampia accezione”.
Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto pure con obblighi derivanti da fonti sovranazionali, atte a costituire norme interposte rispetto agliartt. 11 e 117, primo comma, Cost.
In aggiunta alle disposizioni evocate dall’ordinanza di rimessione, verrebbero a questo proposito in rilievo anche ladirettiva 2004/113/CEdel Consiglio del 13 dicembre 2004, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura, nonché gli artt. 2, paragrafo 2, 3, 10, paragrafo 1, 12, paragrafo 1, e 15, paragrafo 1, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, ratificato e reso esecutivo conL. n. 881 del 1977(che stabiliscono, rispettivamente, i principi di non discriminazione, parità tra uomo e donna, protezione e assistenza alla famiglia, e il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale e dei benefici del progresso scientifico).
2.3.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate, sulla scorta – quanto ai profili di merito – delle medesime considerazioni svolte in rapporto all’ordinanza r. o. n. 129 del 2018 e sviluppate con successiva memoria.
2.4.- Sono intervenute, altresì, l’Associazione R.C. e l’Associazione L.C. per la libertà di ricerca scientifica, le quali hanno chiesto che le questioni stesse vengano accolte, per le ragioni indicate nella memoria successivamente depositata.
2.5.- Anche F. F. e M. R. hanno depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.
Le parti costituite pongono, in particolare, l’accento sull’esigenza di fugare un possibile equivoco: la fecondazione con donazione di gameti – consentita a seguito della sentenza n. 162 del 2014 – non è un rimedio terapeutico all’infertilità di uno o di entrambi i componenti della coppia. Essa non cura, infatti, la patologia riproduttiva, ma si limita ad “aggirare” una patologia non curabile.
L’ordinamento esprimerebbe, quindi, un “giudizio di simpatia” per la situazione della coppia, consentendo ad essa di realizzare altrimenti il desiderio di costituire una famiglia con figli. Tale favor discenderebbe dall’implicito presupposto per cui non si può esigere che il componente della coppia privo di patologie riproduttive cerchi un altro partner per divenire genitore biologico. Da ciò emergerebbe che l'”unità di coppia” è un valore oggetto di specifica tutela costituzionale e che è rispetto alla coppia che è favorita la costituzione della famiglia.
In tale ottica, non si comprenderebbe perché la relazione affettiva di una coppia di donne non debba essere parimente oggetto di protezione da parte dell’ordinamento. Se – come affermato dalla sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale – alla “unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso … spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, tale libertà non dovrebbe essere lesa, ponendo la donna di fronte alla “terribile scelta” tra coltivare la propria relazione affettiva con la persona che ama, rinunciando al desiderio naturale di divenire madre, ovvero “rinnegare il proprio orientamento affettivo e divenire madre unendosi, quantomeno carnalmente, con una persona di sesso maschile”.
2.6.- Con ordinanza pronunciata all’udienza pubblica del 18 giugno 2019 questa Corte ha dichiarato inammissibili gli interventi dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, dell’Associazione R.C. e dell’Associazione L.C. per la libertà di ricerca scientifica.
Motivi della decisione
1.- Il Tribunale ordinario di Pordenone (ordinanza r. o. n. 129 del 2018) dubita della legittimità costituzionale degli artt.5e12, commi 2, 9 e 10, dellaL. 19 febbraio 2004, n. 40(Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole “coppie … di sesso diverso” e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche “a coppie … composte da soggetti dello stesso sesso”.
Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni censurate violerebberol’art. 2 della Costituzione, non garantendo il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, tra le quali rientra anche l’unione civile o la convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso.
Le medesime disposizioni si porrebbero in contrasto anche conl’art. 3 Cost., in quanto determinerebbero una disparità di trattamento fra i cittadini in ragione del loro orientamento sessuale e delle loro disponibilità economiche, riconoscendo il diritto alla filiazione alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per accedere alla PMA presso uno degli Stati esteri che lo consentono.
Sarebbero violati, ancora,l’art. 31, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, el’art. 32, primo comma, Cost., giacché l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner sarebbe in grado di nuocere alla salute psicofisica della coppia.
Le norme denunciate violerebbero, infine,l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848. Esse attuerebbero, infatti, una interferenza nella vita familiare della coppia basata solo sull’orientamento sessuale dei suoi componenti e, dunque, discriminatoria.
2.- Il Tribunale ordinario di Bolzano (ordinanza r. o. n. 60 del 2019) solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole “di sesso diverso”, e 12, comma 2, limitatamente alle parole “dello stesso sesso o”, “anche in combinato disposto con i commi 9 e 10”, nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 dellaL. n. 40 del 2004, “nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile”.
Secondo il rimettente, le disposizioni denunciate violerebberol’art. 2 Cost., implicando una negazione del diritto alla genitorialità non giustificata da esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale, tenuto conto della natura di “famiglia” della formazione sociale fondata su un’unione civile o su una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso e della piena idoneità di una coppia omosessuale ad accogliere e crescere il nuovo nato.
Il divieto di accesso alla PMA da parte di coppie di persone dello stesso sesso costituirebbe, inoltre, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana, ponendosi perciò in contrasto anche conl’art. 3 Cost.
Risulterebbero altresì violatil’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata a proteggere la maternità, el’art. 32, primo comma, Cost., che garantisce il diritto alla salute. Le disposizioni censurate impedirebbero, infatti, alle componenti della coppia omosessuale femminile affette da patologie che impediscano loro di procreare in modo naturale – come nel caso oggetto del giudizio a quo – di superare il problema tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue di ciascuna di esse (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò sebbene l’art.1dellaL. n. 40 del 2004assegni alla PMA proprio la finalità di risolvere i “problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”.
Le disposizioni censurate violerebbero, infine, gliartt. 11 e 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto:
a) con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione;
b) con gli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo conL. 25 ottobre 1977, n. 881, che parimente prevedono il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare;
c) con gli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva conL. 3 marzo 2009, n. 18, i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale “disabilità riproduttiva”.
3.- Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, relative in parte alle medesime norme, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
4.- In via preliminare, va rilevato che non può tenersi conto delle deduzioni svolte dalle parti costituite nel giudizio relativo all’ordinanza del Tribunale di Bolzano, intese a dimostrare che le norme censurate contrastano anche con parametri diversi e ulteriori rispetto a quelli evocati dal giudice a quo (in particolare, con gliartt. 30, terzo comma, e 31, primo comma, Cost., nonché con altre fonti sovranazionali atte a integrare gliartt. 11 e 117, primo comma, Cost.).
Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è, infatti, limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione: con la conseguenza che non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018).
5.- Secondo quanto si riferisce nelle ordinanze di rimessione, entrambi i giudici rimettenti si trovano investiti del ricorso proposto, ai sensidell’art. 700 del codice di procedura civile, da una coppia di donne, parti di una unione civile, inteso a superare, con provvedimento d’urgenza, il diniego opposto da un’Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA.
Nessun dubbio di ammissibilità si pone in rapporto alla sedes processuale nell’ambito della quale le questioni sono state sollevate. Già in precedenti pronunce attinenti alla disciplina della PMA, questa Corte ha, infatti, ribadito la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata anche in sede cautelare, sia quando il giudice non abbia ancora provveduto sull’istanza dei ricorrenti (come è avvenuto negli odierni giudizi), sia quando abbia concesso la misura richiesta, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere del quale il giudice fruisce in quella sede (sentenze n. 162 del 2014 e n. 151 del 2009, ordinanza n. 150 del 2012; con specifico riferimento alle questioni sollevate nell’ambito di procedimenti d’urgenza ante causam, sentenze n. 84 del 2016 e n. 96 del 2015).
6.- L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Pordenone per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
L’eccezione non è fondata.
Il giudice a quo ha esposto in modo, primo visu, del tutto adeguato le ragioni del denunciato contrasto delle norme censurate con gliartt. 2, 3 e 32, primo comma, Cost.Quanto ai parametri residui (artt. 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.), le deduzioni del rimettente, se pure alquanto stringate, permettono comunque sia di cogliere il nucleo delle censure, anche perché collegate a quelle relative agli altri parametri.
7.- Entrambi i giudici rimettenti escludono la praticabilità di una interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate, ritenendo che una simile operazione ermeneutica trovi un insormontabile ostacolo nell’univoco tenore letterale dell’enunciato normativo.
L’affermazione appare corretta.
Stabilendo che alle tecniche di PMA possano accedere solo coppie formate da persone “di sesso diverso” (art. 5) e prevedendo sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie “composte da soggetti dello stesso sesso” (art. 12, comma 2), laL. n. 40 del 2004nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione delle tecniche considerate. Ciò, peraltro, in piena sintonia con l’ispirazione di fondo della legge stessa, sulla quale si porterà presto l’attenzione.
Opera, dunque, il principio – ripetutamente affermato da questa Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016; ordinanza n. 207 del 2018).
8.- Con i quesiti di costituzionalità proposti, entrambi i Tribunali rimettenti mirano a rimuovere il requisito soggettivo di accesso alla PMA rappresentato dalla diversità di sesso dei componenti la coppia richiedente (unitamente al correlato presidio sanzionatorio). L’effetto della pronuncia auspicata dai giudici a quibus sarebbe, dunque, quello di rendere fruibile la PMA alle coppie omosessuali in quanto tali: indipendentemente, cioè, dal fatto che i loro componenti risultino affetti, uti singuli, da patologie che li pongano in condizioni obiettive di infertilità o di sterilità (come pure avviene nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Bolzano).
Lo stesso Tribunale di Bolzano limita, peraltro, espressamente il petitum alle coppie omosessuali femminili. Di contro, il Tribunale di Pordenone, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, chiede in modo indifferenziato l’ablazione del requisito della diversità di sesso, coinvolgendo così, apparentemente, nello scrutinio anche le coppie omosessuali maschili (che pure non vengono in rilievo nel giudizio a quo).
Dal tenore complessivo dell’ordinanza emerge, tuttavia, come anche le censure del Tribunale friulano debbano intendersi, in realtà, limitate alle coppie formate da sole donne.
Per le coppie omosessuali femminili la PMA si attua, infatti, mediante fecondazione eterologa, in vivo o in vitro, con gameti maschili di un donatore. Tale pratica era originariamente vietata in modo assoluto dallaL. n. 40 del 2004 (art. 4, comma 3), ma è divenuta fruibile dalle coppie eterosessuali a seguito della sentenza n. 162 del 2014 di questa Corte, in presenza di patologie che determinino una sterilità o una infertilità assolute e irreversibili. Con l’eventuale accoglimento delle odierne questioni, la fecondazione eterologa verrebbe estesa anche all'”infertilità sociale”, o “relazionale”, fisiologicamente propria della coppia omosessuale femminile, conseguente alla non complementarità biologica delle loro componenti.
Per le coppie omosessuali maschili, invece, la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso una pratica distinta: vale a dire la maternità surrogata (o gestazione per altri). Il sintagma designa, come è noto, l’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a “reclamare diritti” sul bambino che nascerà. Tale pratica è vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dall’art.12, comma 6, dellaL. n. 40 del 2004, anche nei confronti delle coppie eterosessuali. La disposizione ora citata – considerata dalla giurisprudenza espressiva di un principio di ordine pubblico (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193) – non è inclusa tra quelle sottoposte a scrutinio dal Tribunale di Pordenone, né è presa affatto in considerazione dal giudice a quo nello svolgimento delle proprie censure.
Ciò porta a concludere che, anche nella prospettiva del Tribunale friulano, le coppie omosessuali maschili siano destinate a restare estranee al panorama decisorio dell’odierno giudizio.
9.- Tanto puntualizzato, nel merito le questioni non sono però fondate.
Questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza come laL. n. 40 del 2004costituisca la “prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali” (sentenza n. 45 del 2005).
La materia tocca, al tempo stesso, “temi eticamente sensibili” (sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene “primariamente alla valutazione del legislatore” (sentenza n. 347 del 1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell'”area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale” (sentenza n. 84 del 2016). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014).
Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia della PMA, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria).
10.- La possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato.
Le soluzioni adottate, in proposito, dallaL. n. 40 del 2004sono, come è noto, di segno restrittivo. Esse riflettono – quanto ai profili che qui vengono in rilievo – due idee di base.
La prima attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati.
L’art.1dellaL. n. 40 del 2004stabilisce, in particolare, che il ricorso alla PMA “è consentito” – alle condizioni e secondo le modalità previste dalla stessa legge, “che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito” – “al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” (comma 1) e sempre che “non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità” (comma 2).
Il concetto è ribadito ed esplicitato nel successivo art. 4, comma 1, in forza del quale l’accesso alle tecniche di PMA “è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico”.
La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre: limitazioni che vanno a sommarsi a quella, di ordine oggettivo, insita nel disposto dell’art. 4, comma 3, che – nell’ottica di assicurare il mantenimento di un legame biologico tra il nascituro e gli aspiranti genitori – pone il divieto (in origine, assoluto) di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (ossia con impiego di almeno un gamete di un donatore “esterno”).
L’art.5dellaL. n. 40 del 2004stabilisce, in specie, che possano accedere alla PMA esclusivamente le “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
La disciplina dell’art. 5 trova eco, sul versante sanzionatorio, nelle previsioni dell’art. 12. Per quanto al presente più rileva, il comma 2 di tale articolo punisce con una severa sanzione amministrativa pecuniaria (da 200.000 a 400.000 euro) chi applica tecniche di PMA “a coppie composte da soggetti dello stesso sesso”, oltre che da soggetti non entrambi viventi, o in età minore, o non coniugati o non conviventi.
La previsione sanzionatoria è rafforzata da quella del comma 9, in forza della quale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo stesso art. 12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2) è “disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale”. Il comma 10 prevede, inoltre, la sospensione dell’autorizzazione alla realizzazione delle pratiche di PMA concessa alla struttura nel cui interno è eseguita la pratica vietata, con possibilità di revoca dell’autorizzazione stessa nell’ipotesi di violazione di più divieti o di recidiva.
11.- Questa Corte è intervenuta in due occasioni sulla trama normativa ora ricordata, al fine di ampliare, tramite declaratorie di illegittimità costituzionale, il novero dei soggetti abilitati ad accedere alla PMA. Lo ha fatto, in particolare, con le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015: pronunce che gli odierni rimettenti e le parti private evocano a sostegno dell’ulteriore intervento ampliativo oggi richiesto, il quale viene prospettato come un ideale e coerente sviluppo delle decisioni già assunte.
Con le pronunce considerate questa Corte ha, peraltro, rimosso quelle che apparivano sostanzialmente come distonie, interne o esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere – o incidendo solo in modo marginale – sulle coordinate di fondo di quest’ultima.
La sentenza n. 162 del 2014 ha ammesso, in specie, alla riproduzione artificiale le coppie alle quali “sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili”, dichiarando illegittimo, limitatamente a tale ipotesi, il divieto di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo stabilito dall’art.4, comma 3, dellaL. n. 40 del 2004. In tal modo, si è posto rimedio all'”evidente elemento di irrazionalità” insito nel fatto che, dopo aver assegnato alla PMA lo scopo “di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”, il legislatore aveva negato in assoluto – con il censurato divieto di fecondazione eterologa – la possibilità di realizzare il desiderio della genitorialità proprio alle “coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis”. Circostanza, questa, che rivelava come il bilanciamento di interessi operato fosse irragionevole, posto che, sull’altro versante, le esigenze di tutela del nuovo nato apparivano adeguatamente soddisfatte dalla disciplina vigente, in rapporto tanto al “rischio psicologico” correlato al difetto di legame biologico con i genitori (conseguente alla fecondazione eterologa), quanto alla possibile “violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica”.
La successiva sentenza n. 96 del 2015 ha dischiuso, a sua volta, l’accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili al nascituro (“accertate da apposite strutture pubbliche”). Si è eliminata, con ciò, l’altra “palese antinomia” già censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia. LaL. n. 40 del 2004vietava, infatti, alle coppie dianzi indicate di ricorrere alla PMA, con diagnosi preimpianto, quando invece “il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali … consentita dall’art.6, comma 1, lettera b), dellaL. 22 maggio 1978, n. 194(Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza)”.
Entrambe le pronunce si sono mosse, dunque, nella logica del rispetto – e, anzi, della valorizzazione – della finalità (lato sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla PMA (proiettandola, nel caso della sentenza n. 96 del 2015, anche sul nascituro), senza contestare nella sua globalità – in punto di compatibilità con la Costituzione – l’altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna. È ben vero che la sentenza n. 162 del 2014 ha fatto venir meno – nella circoscritta ipotesi da essa considerata (quando, cioè, la fecondazione eterologa rappresenti l’unico modo per superare una infertilità assoluta e irreversibile di matrice patologica) – la necessità del legame biologico tra genitori e figli. Ma la pronuncia ha avuto cura di puntualizzare e sottolineare che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che posseggano i requisiti indicati dall’art.5, comma 1, dellaL. n. 40 del 2004, e dunque rispondenti al paradigma familiare riflesso in tale disposizione.
12.- Le questioni oggi in esame si collocano su un piano ben diverso.
L’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata).
Nella specie, non vi è, d’altronde, alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia, alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità “fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale.
In questo senso si è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
In tali rilievi è evidentemente già insita l’infondatezza delle questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo considerato, in riferimento agliartt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate.
13.- Ciò posto, e riprendendo l’ordine delle censure prospettato dai giudici a quibus, neppure è riscontrabile la denunciata violazionedell’art. 2 Cost.
13.1.- Questa Corte ha rilevato che la nozione di “formazione sociale” – nel cui ambitol’art. 2 Cost.riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e che deve intendersi come riferita a “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” – abbraccia anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso (sentenza n. 138 del 2010; similmente, sentenza n. 170 del 2014). Indicazione cui fa, peraltro, puntuale eco laL. 20 maggio 2016, n. 76(Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), la quale qualifica espressamente, all’art. 1, comma 1, l’unione civile tra persone dello stesso sesso “quale specifica formazione sociale ai sensi degliarticoli 2 e 3 della Costituzione”.
Questa Corte ha posto tuttavia in evidenza, in pari tempo, che la Costituzione, pur considerandone favorevolmente la formazione, “non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli” e che, d’altra parte, “la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori … di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti” (sentenza n. 162 del 2014). Essa dev’essere, infatti, bilanciata con altri interessi costituzionalmente protetti: e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degliartt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico.
In accordo con quanto si è posto in evidenza in principio, il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico – deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte di questa Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza.
Nella specie, peraltro, la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata.
Di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato.
In questa prospettiva, l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale. E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali.
Nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta “omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto.
13.2.- La validità delle conclusioni ora esposte non è inficiata dai più recenti orientamenti della giurisprudenza comune sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso: orientamenti ai quali fanno ampi richiami i giudici a quibus e le parti costituite.
La giurisprudenza predominante ritiene, in effetti, ammissibile l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art.44, comma 1, lettera d), dellaL. 4 maggio 1983, n. 184(Diritto del minore ad una famiglia).
In questa chiave, si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).
La stessa Corte di cassazione ha ritenuto, per altro verso, possibile la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita – comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) – che intenderebbero praticare le due ricorrenti nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Bolzano (donazione dell’ovulo da parte della prima e conduzione della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo). Nell’escludere che la trascrizione si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, il giudice di legittimità ha rilevato, da un lato, che non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli; dall’altro, che non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). In termini analoghi la Corte di cassazione si era, peraltro, già espressa con riguardo all’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale, dopo la manifestazione dell’omosessualità della madre e l’instaurazione, da parte sua, della convivenza con altra donna (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601).
Tutto ciò, come detto, non esclude la validità delle conclusioni dianzi raggiunte.
Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale).
La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”.
14.- Per quel che attiene, poi, alla denunciata violazionedell’art. 3 Cost., si è già posta precedentemente in evidenza l’insussistenza di quella legata a una pretesa discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (supra, punto 12 del Considerato in diritto).
Ma altrettanto deve dirsi anche quanto all’ulteriore censura, formulata dal solo Tribunale di Pordenone, secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che lo consentono.
In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.
15.- Inoltre, non è violatol’art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l’aspirazione a diventare genitore.
16.- Neppure è ravvisabile la violazionedell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull’assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia.
La tutela costituzionale della “salute” non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione. La contraria affermazione che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del 2014 – richiamata dal rimettente – deve intendersi calibrata sulla specifica fattispecie alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia stata diagnosticata una patologia produttiva di infertilità o sterilità assolute e irreversibili). Se così non fosse, sarebbero destinate a cadere automaticamente, in quanto frustranti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA poste dall’art.5, comma 1, dellaL. n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162 del 2014 ha, per converso, specificamente richiamato anche in rapporto alla fecondazione eterologa.
17.- Il Tribunale di Bolzano ha denunciato la violazionedell’art. 32, primo comma, Cost.sotto un diverso e più specifico profilo, che riflette le peculiarità della vicenda concreta sottoposta al suo esame, nella quale – come già più volte ricordato – entrambe le ricorrenti, parti di una unione civile, risultano affette da patologie che le rendono incapaci di procreare naturalmente: una perché non produce ovociti; l’altra perché non in grado di portare a termine una gravidanza senza grave rischio.
Secondo il Tribunale rimettente, il divieto censurato si porrebbe in contrasto con la tutela costituzionale del diritto alla salute, in quanto impedirebbe alle componenti di una coppia di persone dello stesso sesso di superare le loro patologie riproduttive, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive rispettive (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò in contrasto con lo stesso scopo lato sensu terapeutico che laL. n. 40 del 2004assegna alla PMA.
Al riguardo, occorre rilevare che la censura – ove fondata – non giustificherebbe la pronuncia richiesta dal giudice a quo: ossia l’eliminazione tout court del requisito della diversità di sesso dal novero delle condizioni di accesso alle tecniche di PMA. Tale requisito dovrebbe essere rimosso, per converso, esclusivamente nel caso in cui fosse riscontrabile l’esigenza “terapeutica” alla quale fa riferimento il rimettente: ossia quando le componenti della coppia omosessuale femminile versino in condizioni obiettive di infertilità per ragioni patologiche.
L’assetto che scaturirebbe da un simile intervento – pure teoricamente praticabile in questa sede, tramite una “resezione” del petitum – sarebbe, peraltro, palesemente insostenibile. Nell’ambito delle coppie omosessuali femminili, potrebbero accedere alla PMA – e dunque realizzare il desiderio della genitorialità – solo quelle le cui componenti non siano in grado di procreare in modo naturale.
Tale rilievo disvela il vizio di prospettiva che inficia l’argomento posto in campo dal rimettente. La presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante – ai fini che qui interessano – nell’ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso.
18.-L’art. 11 Cost.- richiamato dal Tribunale ordinario di Bolzano (peraltro solo in dispositivo) con riferimento tanto agli artt. 8 e 14 CEDU, quanto a varie disposizioni del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 – è parametro inconferente, posto che dalle indicate convenzioni internazionali non derivano limitazioni di sovranità nei confronti dello Stato italiano (ex plurimis, con particolare riguardo alla CEDU, sentenze n. 22 del 2018, n. 210 del 2013 e n. 349 del 2007).
19.- Va esclusa, infine, la dedotta violazionedell’art. 117, primo comma, Cost.in relazione a tutte le disposizioni sovranazionali evocate dai giudici a quibus.
19.1.- Quanto al contrasto – denunciato da entrambi i rimettenti – con gli artt. 8 e 14 CEDU (in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare e di divieto di discriminazione), è ben vero che, a partire dalla sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è costante nell’affermare che alla coppia omosessuale compete il diritto al rispetto della vita, non solo privata, ma anche familiare, al pari della coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione. Essa costituisce, pertanto, una “famiglia”, anche agli effetti del divieto di discriminazione (pur rimanendo affidate all’apprezzamento dei singoli Stati le modalità della sua tutela, che non deve necessariamente aver luogo tramite l’estensione dell’istituto del matrimonio) (ex plurimis, sentenze 14 dicembre 2017, Orlandi e altri contro Italia; 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia). Principio, questo, del quale è stata fatta specifica applicazione anche in tema di adozione dei minori (Grande Camera, sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria).
La Corte di Strasburgo ha pure affermato, per altro verso, che il concetto di “vita privata”, di cui all’art. 8 CEDU, comprende il diritto all’autodeterminazione e, dunque, anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e su come diventarlo (in modo naturale, tramite fecondazione assistita, mediante procedura di adozione, ecc.). La scelta di ricorrere alla PMA ricade, pertanto, nel relativo ambito di tutela, con la conseguenza che le ingerenze in essa da parte della pubblica autorità debbono rispondere alle finalità indicate dal paragrafo 2 dello stesso art. 8 e risultare proporzionate allo scopo (sentenze 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania; Grande Camera, 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia; 2 ottobre 2012, Knecht contro Romania; 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria).
E, però, si è già ricordato come la stessa Corte di Strasburgo abbia escluso che una legge nazionale che riservi la PMA a coppie eterosessuali sterili, assegnandole una finalità terapeutica, possa dar luogo a una disparità di trattamento, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU, nei confronti delle coppie omosessuali, stante la non equiparabilità delle rispettive situazioni (sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
Si è del pari ricordato come, secondo la Corte europea, nella disciplina della fecondazione medicalmente assistita – la quale suscita delicati problemi di ordine etico e morale – gli Stati fruiscano di un ampio margine di apprezzamento, particolarmente quanto ai profili sui quali non si riscontri un generale consenso a livello europeo (supra, punto 9 del Considerato in diritto): prospettiva nella quale essa ha ritenuto non incompatibile con la CEDU il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca (Grande camera, sentenza 3 novembre 2011, S. H. contro Austria, che ha ribaltato la conclusione cui era giunta la prima sezione della Corte con la sentenza 1 aprile 2010, S. H. contro Austria).
In tale ottica, possono dunque valere anche in rapporto ai parametri convenzionali evocati le considerazioni precedentemente svolte onde escludere l’ipotizzata violazione del diritto alla procreazione costituzionalmente garantito (supra, punto 13 del Considerato in diritto).
19.2.- Quanto osservato in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU può essere evidentemente esteso alle corrispondenti disposizioni – richiamate dal solo Tribunale di Bolzano – del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in tema di divieto di discriminazione e diritto al rispetto della vita privata e familiare (artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26).
19.3.- Per quel che attiene, da ultimo, alle previsioni – invocate anch’esse dal solo Tribunale di Bolzano – della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità (artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25, in tema, rispettivamente, di eguaglianza e non discriminazione, donne con disabilità, rispetto della vita privata, rispetto della famiglia e tutela della salute), può ripetersi quanto già osservato con riferimento alla censura di violazione del diritto alla salute, formulata dallo stesso Tribunale (supra, punto 17 del Considerato in diritto).
È evidente, infatti, che le coppie omosessuali femminili non possono essere ritenute, in quanto tali, “disabili”.
20.- Alla luce delle considerazioni svolte, le questioni vanno dichiarate non fondate.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt.5e12, commi 2, 9 e 10, dellaL. 19 febbraio 2004, n. 40(Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agliartt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole “di sesso diverso”, e 12, comma 2, limitatamente alle parole “dello stesso sesso o”, “anche in combinato disposto con i commi 9 e 10”, nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 dellaL. n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agliartt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agliartt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo conL. 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva conL. 3 marzo 2009, n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2019.
Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2019.

La sentenza di appello che, nel riconoscere l’assegno di divorzio fa riferimento al “tenore di vita”, non va cassata ove la motivazione del giudice di merito sia compatibile con il successivo orientamento delle Sezioni Unite 11 luglio 2018, n. 18287 (conforme Cass. civ. Sez. VI, 15 ottobre 2019, n. 26085)

Cass. civ. Sez. VI – 1, 15 ottobre 2019, n. 26085
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
T.G., rappresentato e difeso, giusta mandato in calce al ricorso dall’avv. Carlo Piazza (fax n. 0331/771822, p.e.c. carlo.piazza.busto.pecavvocati.it) con domicilio eletto in Roma, via Ludovisi 35, presso l’avv. Massimo Lauro (p.e.c. massimolauro.ordineavvocatiroma.org, fax 06/4744884), il quale dichiara di voler ricevere ogni comunicazione relativa al ricorso al fax e all’indirizzo p.e.c. suindicato;
– ricorrente –
nei confronti di:
S.P.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 929/2017 della Corte di appello di Torino emessa il 21.4.2017 e depositata il 27.4.2017 R.G. n. 1739/2015;
sentita la relazione in Camera di consiglio del relatore Cons. Dott. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
che:
1. Si controverte sul diritto della sig.ra S.P. a percepire l’assegno divorzile di 200 Euro mensili disposto dal Tribunale di Novara e confermato dalla Corte di Appello di Torino che ha altresì respinto l’appello incidentale della sig.ra S.P. diretto a ottenere l’elevazione dell’ammontare dell’assegno a 450 Euro.
2. La Corte di Appello ha fatto riferimento alla conservazione del tenore di vita come criterio che legittima la richiesta dell’assegno divorzile ma ha anche rilevato che la sig.ra S.P. svolge attività lavorativa occasionale dopo il suo licenziamento ed è costretta a pagare un canone di locazione mensile di 400 Euro in quanto la casa familiare è abitata dal sig. T.G. insieme al figlio. Inoltre entrambi gli ex-coniugi sono obbligati in pari misura al mantenimento del figlio non ancora autosufficiente.
3. Il ricorrente lamenta la violazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6e l’omesso esame di fatti decisivi non avendo la Corte di Appello rilevato la piena capacità lavorativa e l’autosufficienza economica della ex moglie.
Motivi della decisione
che:
4. Il ricorso deve essere respinto. Sebbene la Corte di appello, nel riconoscere il diritto all’assegno di divorzio, abbia fatto riferimento al criterio del mantenimento pieno o tendenziale del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, già superato dalla sentenza n. 11504 del 2017 di questa Corte, tuttavia ha esposto in motivazione una serie di circostanze che rendono compatibile con il successivo orientamento delle Sezioni Unite Civili di questa Corte (sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018) il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile e la sua determinazione nella misura di 200 Euro mensili. Anche a ritenere provato l’ammontare del reddito mensile che, secondo il ricorrente, la sua ex moglie ritrae dalla sua attività di collaboratrice domestica si tratta pur sempre di attività irregolare e discontinua che impone una destinazione di parte del reddito al risparmio e che subisce una ulteriore e sensibile decurtazione per effetto della necessità di versare un canone di locazione pari al 40% circa del reddito da lavoro imputatole dall’odierno ricorrente. A ciò si aggiunga l’obbligo di concorrere al mantenimento del figlio e alle spese straordinarie nella misura del 50%. Per altro verso lo stesso ricorrente riconosce di percepire una pensione mensile di 1.600 Euro e di disporre della casa familiare dove abita insieme al figlio. La determinazione di un assegno mensile di 200 Euro è quindi manifestamente inadeguata a ripristinare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ma assolve piuttosto alla funzione di garantire alla intimata una capacità economica sufficiente a consentirle una vita dignitosa che le sarebbe preclusa se dovesse fare affidamento sulla sua sola capacità lavorativa. Inoltre non può non tenersi conto dei vari criteri indicati dallaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, secondo la linea interpretativa adottata dalla citata sentenza delle Sezioni Unite secondo cui il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. Nella specie sia la valutazione comparativa delle situazioni economiche delle parti, sia quella della durata del matrimonio (14 anni) e dell’età della beneficiaria (che è nata l'(OMISSIS)), sia l’incontestato contributo alla vita familiare mediante l’attività lavorativa svolta dalla sig.ra S.P. e la cura destinata alla crescita del figlio e al menage comune, conducono a ritenere pienamente adeguato e compatibile con le condizioni economiche del sig. T. il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile, in favore della ex moglie, con una valutazione del quantum sostenuta da una motivazione adeguata e compatibile con la giurisprudenza di legittimità successiva all’abbandono del criterio della conservazione almeno tendenziale del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
5. Il ricorso va pertanto respinto senza statuizioni sulle spese del giudizio di cassazione e con applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, per ciò che concerne l’obbligo del ricorrente di corrispondere una somma pari a quella versata a titolo di contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2019