DELIBAZIONE DELLE SENTENZE ECCLESIASTICHE

Di Gianfranco Dosi

I Il quadro normativo vigente
a) le norme concordatarie
Il Concordato tra la Santa Sede e l’Italia dell11 febbraio 1929, nel testo originario, prevedeva all’art. 34 che “Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili” (primo comma) e che “Le cause con¬cernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono riser¬vate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici. Le sentenze relative, quando siano divenute definitive, saranno portate al Supremo Tribunale della della Segnatura, il quale controlle¬rà se siano state rispettate le norme del diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti. Le dette sentenze definitive coi relativi decreti del Supremo Tribunale della Segnatura saranno trasmessi alla Corte di Appello dello Stato competente per territorio, la quale, con ordinanze emesse in Camera di Consiglio, li renderà esecutivi agli effetti civili ed ordinerà che siano annotati nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio. Quanto alle cause di separazione personale, la Santa Sede consente che siano giudicate dall’autorità giudiziaria civile” (commi 4-6).
La legge 27 maggio 1929, n. 810 dava esecuzione al Concordato mentre la legge 27 maggio 1929, n. 847 ne dettava le disposizioni per l’applicazione, indicando capo II (Disposizioni relative ai ma¬trimoni celebrati davanti i ministri del culto cattolico) nell’art. 17 che “La sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, dopo che sia intervenuto il decreto del Su¬premo Tribunale della Segnatura, preveduto dall’art. 34 del Concordato dell’11 febbraio 1929, fra l’Italia e la Santa Sede, sono presentati in forma autentica alla Corte di appello della circoscrizione a cui appartiene il comune, presso il quale fu trascritto l’atto di celebrazione del matrimonio. La Corte di appello, con ordinanza pronunciata in camera di consiglio, rende esecutiva la sentenza e ne ordina la annotazione a margine dell’atto di matrimonio”.
In questo contesto Corte cost. 2 febbraio 1982, n. 18 premettendo che il principio della sovrani¬tà dello Stato e quello della sua sovranità e indipendenza nei confronti della chiesa cattolica, al pari del diritto alla tutela giurisdizionale, vanno ascritti nel novero dei princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810, limitatamente all’esecuzione data al 6° comma dell’art. 34 del concordato, nonché dell’art. 17, 2° comma, della legge 27 maggio 1929, n. 847, nella parte in cui tali norme non prevedono, secondo l’interpretazione prevalente nell’arco di più decenni, prospettata nelle ordinanze di rimessione, che la corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, debba accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.
Successivamente la legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo con proto¬collo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato late¬ranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede) apportava modificazioni del Concordato lateranense affermando testualmente che “La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collabo¬razione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”.
L’art. 8 dell’Accordo, dopo aver premesso al primo comma che “Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia tra¬scritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale” al secondo comma prescrive quanto segue:
“Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che sia¬no munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della Corte d’appello competente, quando questa accerti:
a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in conformità del presente articolo;
b) che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici é stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fonda¬mentali dell’ordinamento italiano;
c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichia¬razione di efficacia delle sentenze straniere. La Corte d’appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia.
Al momento della firma dell’Accordo, le parti dichiaravano in un Protocollo addizionale in relazione al predetto secondo comma dell’art. 8 che:
“ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine. In particolare:
1) si dovrà tener conto che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del luogo in cui si é svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico;
2) si considera sentenza passata in giudicato la sentenza che sia divenuta esecutiva secondo il diritto canonico;
3) si intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito.
Le richiamate norme processuali di cui agli articoli 796 e 797 c.p.c. per la cui applicazione “si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico” indicavano i criteri che il giudice italiano deve utilizzare nella valutazione finalizzata alla delibazione nell’ordinamento interno della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. Tra questi criteri il previgente art. 797 c.p.c. al numero 7 prevedeva che la delibazione è ammessa solo se la sentenza non contiene “disposi¬zioni contrarie all’ordine pubblico italiano”1.
Benché gli articoli 796 e 797 c.p.c. siano stati successivamente abrogati dall’art. 73 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) e sostituiti da nuove disposizioni di carattere generale, la giurisprudenza ritiene che il giudice italiano debba con¬tinuare a fare riferimento sempre ai previgenti articoli 796 e 797 c.p.c. (da ultimo Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 e 16380 dove si precisa che “Quanto, in particolare, all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, l’inequivoca formulazione letterale di tale norma del codice di rito civile, cui materialmente rinvia il punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale, nonché i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1982 non consentono alcun dubbio né circa il para¬metro da applicare – l’”ordine pubblico italiano” appunto, non già l’ordine pubblico internazionale, come invece viene adombrato con riferimento all’inapplicabile legge n. 218 del 1995, art. 64, lett. g), né circa il contenuto di esso, costituito, si ribadisce, dalle “regole fondamentali poste dalla Co¬stituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società”). Gli stessi principi erano stati affermati da Cass. civ. Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 21968 e Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19585 (In sede di delibazione della sentenza di nullità del tribunale ecclesiastico non è applicabile la leg¬ge 218/1995 ma gli artt. 796 e 797 c.p.c. e ciò per effetto del richiamo ai detti articoli contenuto nell›Accordo di modificazione del Concordato lateranense, reso esecutivo con L. 25 marzo 1985, n. 121, e gerarchicamente sovraordinato alla legge ordinaria in virtù del principio concordatario accolto dall›art. 7 Cost. ) e da molte altre sentenze precedenti.
b) Le norme del codice civile
Vanno infine segnalate le norme del codice civile che sono fortemente implicate – come si vedrà – nelle problematiche della delibazione di sentenze dichiarative della nullità di matrimoni in cui, prescindendo dalla specifica causa di nullità, la convivenza coniugale dopo la celebrazione del matrimonio viene eccepita come causa ostativa alla delibazione. Si tratta di norme che vengono considerate di ordine pubblico italiano e, appunto, come detto, considerate ostative alla delibazio¬ne di matrimoni di lunga durata.
Tra queste l’art. 123 del codice civile che, con riguardo alla simulazione del matrimonio civile, dopo aver premesso al primo comma che “il matrimonio può essere impugnato da ciascuno dei coniugi quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti” al secondo comma prevede un limite di decadenza all’impugnabilità del matrimonio simulato prevedendo che “l’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”.
L’orientamento attuale che nega la delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità in caso di matrimoni di lunga durata, si basa proprio sulla distinzione, nell’ambito dell’art. 123 c.c., delle due diverse regole di improponibilità della domanda: la prima derivante dal decorso del tempo (“L’a¬zione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio”) e la seconda conseguente alla instaurazione di una convivenza a prescindere dalla sua durata (“L’azione non può essere proposta nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”) ritenendo contrastante con l’ordine pubblico la sentenza ecclesiasti¬ca di nullità in questa seconda situazione.
Lo stesso termine di decadenza di un anno è previsto per l’azione di nullità nelle altre ipotesi di invalidità di cui agli artt. 119-122, sia pure decorrente dal venir meno della causa che ha determi¬nato gli sposi a contrarre matrimonio.
Proprio questi limiti hanno consentito alla giurisprudenza di differenziare il “matrimonio atto” dal “matrimonio rapporto”, fondando su tale differenza l’orientamento che nega, per contrasto con i principi di ordine pubblico del nostro ordinamento civile, la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità in caso di matrimoni di lunga durata.
La circostanza, infatti, che il diritto canonico ammetta l’annullamento del matrimonio in ogni tem¬po prescindendo dalla durata del matrimonio stesso è stata al centro del lungo dibattito che negli ultimi decenni ha accompagnato l’evoluzione della giurisprudenza fino al riconoscimento recente della possibilità di delibazione delle sole sentenze dichiarative della nullità di matrimoni la cui du¬rata è inferiore ai tre anni e sempre che una eccezione in tal senso venga formulata dalla parte che ritiene di averne interesse.
c) La giurisdizione del giudice italiano
Quanto alla giurisdizione del Giudice italiano nelle materie della nullità civile del matrimonio con¬cordatario e della delibazione delle sentenze canoniche di nullità di tale matrimonio, è sufficiente ribadire – in continuità con i condivisi costanti orientamenti delle Sezioni Unite di questa Corte, costituenti ormai “diritto vivente” (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 1824 del 1993 e l’ordinanza n. 14839 del 2011) – che:
a) l’Accordo (ed il Protocollo addizionale) del 1984, pur confermando, anche se implicitamente, la giurisdizione ecclesiastica sulle controversie in materia di nullità del matrimonio celebrato secondo le norme del diritto canonico (art. 8, paragrafo 2, dell’Accordo e punto 4 del Protocollo), non “ri¬serva” più tale giurisdizione ai “tribunali e (…) dicasteri ecclesiastici” (art. 34, comma 4, del Con¬cordato lateranense del 1929), né più “riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, effetti civili” (art. 34, primo paragrafo), tali “riserva” e “riconoscimento” dovendo ritenersi certamente abrogati in forza dell’art. 13, paragrafo 1, secondo periodo, dell’Accordo me¬desimo, secondo cui le disposizioni del Concordato lateranense “non riprodotte come, appunto, l’art. 34 nel presente testo sono abrogate”;
b) conseguentemente, sulle controversie aventi ad oggetto la nullità del matrimonio concordatario, regolarmente trascritto nei registri dello stato civile italiani, promosse dinanzi sia al giudice eccle¬siastico sia al giudice civile, “concorrono” autonomamente la giurisdizione italiana e la giurisdizio¬ne ecclesiastica, determinandosi il rapporto tra l’una e l’altra in base al criterio della giurisdizione preventivamente adita;
c) a seguito: prima, nella vigenza dell’art. 34 del Concordato lateranense, della fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1982 – che, tra l’altro, dichiarò l’illegittimità costitu¬zionale, per violazione dell’art. 1 Cost., comma 2, art. 7 Cost., comma 1, e art. 24 Cost., comma 1, (anche) “della L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1 (…), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma 6, del Concordato, e della L. 27 maggio 1929, n. 847, art. 17, comma 2, (…), nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”; nonché della stessa L. n. 810 del 1929, art. 1, “limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, commi 4, 5 e 6, del Concordato”, e la L. n. 847 del 1929, art. 17, “nella parte in cui le suddette norme prevedono che la Corte d’appello possa rende¬re esecutivo agli effetti civili il provvedimento ecclesiastico, col quale è accordata la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, e ordinare l’annotazione nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio”, e, poi, dell’entrata in vigore dell’Accordo e del Protocollo addizionale del 1984, non può più dubitarsi dell’attribuzione allo Stato italiano della piena ed effettiva giurisdizio¬ne, intesa quale indefettibile manifestazione della sua sovranità, in ordine al giudizio di delibazione delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio, ogni questione vertendo, semmai soltanto sui cosiddetti “limiti interni” all’esercizio di tale giurisdizione, secondo la legge italiana interpretata anche alla luce dell’Accordo di Villa Madama.
II Contrarietà della riserva mentale all’ordine pubblico “italiano”: il principio dell’affidamento
Premesso, come si è già detto, che in sede di delibazione della sentenza di nullità del tribunale ecclesiastico non è applicabile la legge 218/1995 ma gli artt. 796 e 797 c.p.c. (Cass. civ. Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 21968 e Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19585; Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 e 16380) è stato sempre affermato dalla giurisprudenza il principio che la sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità di un matrimonio concordatario contrasta con l›ordine pubblico “italiano” (non quindi con l’ordine pubblico internazionale cui fa riferimento la legge 218/1995), e quindi non può essere dichiarata esecutiva, ove l›esclusione di uno dei cosiddetti bona matrimonii (cioè uno dei presupposti essenziali del matrimonio) sia rimasta nella sfera psichica del suo autore.
Molto significativa in proposito è stata storicamente Cass. civ. Sez. Unite, 1 ottobre 1982, n. 5026 che, affermando il principio generale, teorizzò esaustivamente sul fatto che la delibazione è possibile solo se l’esclusione sia stata manifestata all’altro coniuge, “tanto se costui si sia limi¬tato a prenderne atto, quanto se abbia positivamente consentito a tale difformità fra volontà e dichiarazione”.
Il criterio direttivo, enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, è quello secondo cui deve essere sempre rispettato, nella formazione della volontà negoziale, il principio dell’affidamento, a tutela del contraente di buona fede con la conseguenza che del tutto legittimamente lo Stato italiano può far valere, tramite il giudice della delibazione, i principi posti dal nostro ordinamento nella formazione dei negozi giuridici, e quindi può rifiutare la dichiarazione di esecutività delle sentenze ecclesiastiche, le quali, in stretta osservanza dei canoni sul dogma della volontà (come in caso di riserva mentale), non ne abbiano tenuto alcun conto.
Su questi aspetti si legge in Cass. civ. Sez. Unite, 18 luglio 2008, n. 19809 che “Vi è in Italia una regolamentazione restrittiva dei vizi del consenso, rilevando solo la violenza e l’errore nei limiti dell’art. 122 c.c.; tali vizi rilevano se risultano da cause esterne e oggettive, non potendo quelle interne o soggettive avere rilievo per un atto solenne come il matrimonio. Non ha rilievo, inoltre, nel sistema interno, il dolo, previsto come causa di annullamento del matrimonio nell’ordinamento canonico e come vizio del consenso negli altri atti di volontà (art. 1427 c.c. e segg.); in ordine alla simulazione, la cui disciplina sopravvenuta nel nuovo diritto di famiglia (art. 123 c.c.), è diversa, nella nozione e negli effetti, da quella generale del medesimo istituto negli altri atti volontari, di cui all’art. 1414 c.c. e segg., vi è la conferma, nel sistema, dell’assoluta importanza del matrimonio rapporto, potendosi rilevare l’invalidità dell’atto non voluto nei suoi effetti.
La sentenza ecclesiastica che annulla un matrimonio religioso per dolo o riserva mentale, fattispe¬cie irrilevanti e non incidenti sulla validità del matrimonio in Italia, è stata ritenuta relativamente incompatibile con l’ordine pubblico e delibabile, se gli artifizi o raggiri d’una parte abbiano deter¬minato errori con i caratteri oggettivi, che l’assimilano a quelli rilevanti nel nostro sistema, sempre che tale natura emerga da fatti accertati dalla pronuncia ecclesiastica, eventualmente rivalutata nel giudizio di delibazione.
La mera volontà di uno dei nubendi di negare gli effetti del matrimonio, rilevante in sede canonica e nel sistema interno qualificata come riserva mentale, s’è ritenuta riconoscibile come causa di invalidità del matrimonio perchè non in contrasto assoluto con l’ordine pubblico interno, qualora possa accertarsi la intervenuta manifestazione di tale volontà di non volere i frutti del matrimonio all’altro nubendo ovvero la conoscenza (o almeno la conoscibilità), da questo, di tale volontà unila¬terale, per assimilare il caso a quello della simulazione, considerato pure il rilievo dell’affidamento del destinatario della dichiarazione, contrastante con gli effetti dell’atto.
Si è così dato rilievo di ordine pubblico alla buona fede, stato soggettivo cui prima la giurispruden¬za e poi le stesse norme del nuovo diritto di famiglia hanno dato ingresso specifico nella materia matrimoniale (artt. 129 e 129 bis c.c.).
Sono state riconosciute efficaci in Italia sentenze ecclesiastiche che hanno annullato il matrimonio per l’esclusione unilaterale dei bona matrimonii, se manifestata all’altro nubendo, in rapporto alla natura bilaterale o unilaterale recettizia degli atti cui è applicabile la simulazione, integrandosi il fatto da solo rilevante per l’annullamento nel diritto canonico, con la circostanza della conoscenza della volontà dell’altro nubendo contrastante con il consenso espresso, da parte del destinatario di questo, così individuando una incompatibilità solo relativa con l’ordine pubblico interno della pro¬nuncia canonica (tra altre Cass. 19 ottobre 2007 n. 22011, 7 dicembre 2005 n. 27078, 28 marzo 2001 n. 4487).
L’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese “favor” per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali, con la conseguenza che i motivi per i quali esso si contrae, che, in quanto attinenti alla coscienza, sono rilevanti per l’ordinamento canonico, non hanno di regola significato per l’annullamento in sede civile.
Così si è giustamente ritenuto assoluto il contrasto con l’ordine pubblico interno di una sentenza ecclesiastica di nullità, fondata sull’apposizione di una condizione al vincolo matrimoniale, relativa alla residenza familiare, se non manifestata o almeno conosciuta o conoscibile dall’altro nubendo (in tal senso, Cass. 6 marzo 2003 n. 3339), essendo l’elemento accidentale lo strumento tipico per dare rilievo ai motivi interni di entrambe le parti”.
Si afferma, appunto, in Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2003, n. 3339 che l’accertamento della co¬noscenza o conoscibilità del fatto (nella specie: apposizione, da parte di un coniuge, di una condi¬zione al matrimonio attinente alla determinazione della residenza familiare) che ha determinato la mancanza o il vizio del consenso matrimoniale da parte di un coniuge, il giudice della delibazione è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità di tale esclusione da parte dell’al¬tro coniuge con piena autonomia, rispetto al giudice ecclesiastico, anche se la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alle sentenze ecclesiastiche e agli atti del processo canonico eventualmente prodotti, non potendosi fare luogo, in fase di delibazione, ad alcuna inte¬grazione di attività istruttoria.
Pertanto la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per un vizio del consenso negoziale di uno dei coniugi, trova ostacolo nel principio di ordine pubblico, costituito dall’ineludibile tutela dell’affidamento incolpevole dell’altro coniuge, allorché l’esclusione di un bonum matrimonii sia rimasta nella sfera psichica di uno dei nubendi, senza manifestarsi (né comunque essere conosciuta o conoscibile) all’altro coniuge.
L’accertamento della conoscenza o conoscibilità, da parte di quest’ultimo, di detta condizione deve essere compiuto dal giudice della delibazione con piena autonomia rispetto al giudice ecclesiastico e con particolare rigore, giacché detto accertamento attiene al rispetto di un principio di ordine pubblico di speciale valenza e alla tutela di interessi della persona riguardanti la costituzione di un rapporto, quello matrimoniale, oggetto di rilievo e tutela costituzionali.
Tutti quetsi principi sono stati ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1620; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2019, n. 4517; Cass. civ. Sez. VI – 1, 25 giugno 2019, n. 17036.
III I matrimoni di lunga durata: l’orientamento delle Sezioni Unite del 1988 favorevole alla delibazione
Accertata la non contrarietà all’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica relativamente allo spe¬cifico vizio che fonda la dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario, la giurisprudenza si è posta il problema di verificare se osti o meno alla delibazione la convivenza matrimoniale suc¬cessiva alla celebrazione.
Ciò, proprio in relazione al contenuto dell’art. 123 del codice civile che, con riguardo alla simula¬zione del matrimonio civile, al secondo comma prevede un limite di decadenza all’impugnabilità del matrimonio simulato prescrivendo che “l’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”.
Si tratta in sostanza di verificare se la norma imperativa di cui all’art. 123 del codice civile costitu¬isce o meno una norma che stabilisce un principio invalicabile di ordine pubblico oppure evidenzia una semplice diversità di disciplina tra l’ordinamento civile e quello canonico (in cui è ammessa la perpetuità dell’azione di nullità) che non richiama problemi di ordine pubblico.
Nei decenni passati, nonostante alcuni isolati tentativi da parte della giurisprudenza di negare la delibazione alle sentenze dichiarative della nullità nei matrimoni di lunga durata Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5354; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987 n. 5358; Cass. civ. Sez. I, 3 luglio 1987 n. 5823; Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 1988 n. 192 di cui si parlerà nel prossimo capitolo) era del tutto consolidato l’orientamento che ammetteva sempre la delibazione anche se la relativa azione era proposta dopo anni di convivenza matrimoniale.
Il principio che ammette la delibazione anche dopo anni di convivenza matrimoniale risulta affer¬mato con forza soprattutto da Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4700 (all’interno della quale sono richiamate le numerose sentenze schierate a difesa dell’orientamento tradizionale) e da Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4701; Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4702; Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4703 chiamate tutte ad occuparsi della questio¬ne proprio in seguito all’orientamento delle isolate sentenze sopra richiamate.
Precisarono le Sezioni Unite che il tema deve essere affrontato e risolto alla stregua della disciplina di cui agli art. 1 della legge 27 maggio 1929 n. 810 e 17 della legge 27 maggio 1929 n. 847, nel testo risultante a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1982 a seguito della quale la dichiarazione di esecutivi¬tà può essere negata solo in presenza di una contrarietà ai canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono la struttura dell’istituto matrimoniale.
In applicazione di tali principi – continuavano i giudici delle Sezioni Unite – si sono quindi ritenute delibabili le sentenze ecclesiastiche che hanno pronunciato la nullità di matrimoni concordatari in ipotesi in cui l’azione di nullità era stata proposta dopo che erano decorsi i termini fissati dalla legge civile per fare valere analoghe nullità, riportando cioè la naturale perpetuità dell’azione di nullità del matrimonio canonico nell’ambito della mera diversità di disciplina e senza distinguere fra le diverse ipotesi contenute nell’ambito dell’art. 123, comma 2, c.c.2
A tale indirizzo – precisavano le Sezioni Unite – si sono motivatamente opposte quattro decisioni, le quali, chiamate a decidere sulla compatibilità, sotto il profilo dell’ordine pubblico, tra norme ca¬noniche che prevedono la possibilità di dedurre le cause di invalidità del matrimonio senza limiti di tempo (can. 1092 n. 2 cod. iur. can.) e norme statuali che invece fissano limiti ben precisi, hanno distinto, nell’ambito dell’art. 123 c.c., che disciplina l’impugnazione del matrimonio da parte dei coniugi, quando gli stessi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti, due diverse regole di improponibilità della domanda: la prima derivante dal decorso del tempo (“L’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio”); la seconda conseguente alla instaurazione di una convivenza a prescindere dalla sua durata (L’azione non può essere proposta) “nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”).
Ricorrendo la prima ipotesi, è stato ritenuto non ragionevole negare la dichiarazione di esecutività delle sentenze ecclesiastiche, perché la differenza tra l’ordinamento canonico e quello civile non implica contrarietà all’ordine pubblico della decisione ecclesiastica, in conformità, quindi, alla sopra richiamata giurisprudenza; ricorrendo la seconda si è invece esclusa la possibilità della delibazio¬ne, sulla base del rilievo che l’instaurazione del matrimonio-rapporto, con la pienezza della convi¬venza morale e materiale dei coniugi, quale ragione preclusiva ad ogni possibilità di far valere vizi simulatori del matrimonio-atto, andrebbe annoverata nell’ambito delle regole e principi essenziali dell’ordinamento statuale.
Ritengono queste Sezioni Unite – affermano perentoriamente i giudici – che il contrasto vada composto affermando la non contrarietà all’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica che ab¬bia dichiarato la nullità di un matrimonio religioso, anche se vi sia stata convivenza fra i coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio o l’azione di nullità sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione del matrimonio stesso e ciò sulla base delle considerazioni che seguono.
Le sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità del matrimonio religioso sono delibabili quando non sono contrarie all’ordine pubblico e cioè – come si è detto in precedenza – quando non siano contrarie ai canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono la struttura dell’istituto matrimoniale così accentuato da superare il margine di maggiore disponibilità che l’ordinamento statuale si è imposto rispetto all’ordinamento canonico. Il concetto così accettato di ordine pubblico non è dato da un ordine pubblico di tipo costituzionale o comunque speciale e più ristretto, ma dallo stesso ordine pub¬blico che si configura baluardo generale ad ogni rapporto con gli altri ordinamenti. Attraverso lo strumento concordatario, prima, e con la legge di ratifica ed esecuzione, poi, lo Stato italiano ha dapprima riconosciuto e poi recepito nell’ordinamento il sistema matrimoniale canonico, com¬prensivo non solo delle norme che disciplinano la costituzione del vincolo, ma anche di quelle che ne regolano il venir meno. L’inserzione di tale normativa nell’ordinamento interno comporta, da
2 Le Sezioni Unite citano Cass. 3 maggio 1984 n. 2677; Cass. 13 giugno 1984 n. 3535; Cass. 21 gennaio 1985 n. 192; Cass. 18 febbraio 1985 n. 1376; Cass. 10 aprile 1985 n. 2370; Cass. 16 ottobre 1985 n. 5077; Cass. 15 novembre 1985 n. 5601; Cass. 4 dicembre 1985 n. 6064; Cass. 6 dicembre 1985 n. 6134; Cass. 7 maggio 1986 n. 3057; Cass. 7 maggio 1986 n. 3064; Cass. 31 luglio 1986 n. 4897; Cass. 1° agosto 1986 n. 4916; Cass. 15 gennaio 1987 n. 241.
una parte, l’impossibilità di far valere come causa ostativa alla delibabilità la circostanza che una sentenza ecclesiastica abbia dichiarato la nullità di un matrimonio canonico in violazione di norme sono state derogate e superate proprio dallo strumento concordatario, e, dall’altra la legittimità del rifiuto di delibazione quando la sentenza ecclesiastica, oltre a essere contraria ad una norma imperativa, relativa alla disciplina del matrimonio civile, sia contraria all’ordine pubblico nel senso innanzi precisato. Di quanto precede deriva, quindi, che non è contraria all’ordine pubblico italiano e può essere delibata la sentenza ecclesiastica ove la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione.
Passando all’esame della seconda questione, si tratta di accertare se il principio contenuto nell’art. 123, comma 2, c.c. (e secondo cui il matrimonio civile di cui al primo comma dello stesso articolo non può essere impugnato nell’ipotesi che i contraenti abbiano convissuto come coniugi successi¬vamente alla celebrazione) costituisca un principio fondamentale dell’ordinamento che impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica, che, malgrado la convivenza, ha dichiarato la nullità del matrimonio o se invece si tratta di norma non avente valenza di principio fondamentale. Ritengo¬no i giudici delle Sezioni Unite che la convivenza fra i coniugi, intervenuta successivamente alla celebrazione del matrimonio, ostativa all’impugnazione del matrimonio civile ai sensi dell’art. 123, comma 2, c.c. seppure si pone come una norma imperativa interna, non costituisce espressione di principi o di regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, sicché la sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matri¬monio religioso malgrado l’intervenuta convivenza fra gli stessi, non è contraria all’ordine pubblico italiano e può quindi essere dichiarata esecutiva in Italia.
IV I matrimoni di lunga durata: le inquietudini degli anni anni Duemila e la sentenza delle Sezioni Unite 19809/2008 confermativa dell’orientamento allora prevalente
La questione di cui si è detto – relativa alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche anche in caso di matrimoni in cui la convivenza coniugale si è protratta nel tempo dopo la celebrazione – è stato successivamente sfiorato anche da Cass. civ. Sez. Unite, 18 luglio 2008, n. 19809 dove si ammette che il matrimonio-rapporto ha nell’ordine pubblico italiano una incidenza rilevante, per i principi emergenti dalla costituzione e dalla riforma del diritto di famiglia e potrebbe impedire di annullare secondo le disposizioni del codice civile il matrimonio dopo che è iniziata la convivenza e spesso se questa è durata per un certo periodo di tempo (art. 120 cpv. c.c., art. 121 c.c., comma 3 e art. 123 cpv. c.c.).
La sentenza aderisce ad una interpretazione evolutiva e suggerisce un nuovo orientamento che si basa sulla considerazione che non tutte le incompatibilità tra il diritto canonico e quello civile sono uguali. Ve ne sono alcune assolute (cioè indicative di situazioni in alcun modo assimilabili a quelle che in astratto potrebbero avere rilievo o effetti analoghi in Italia) e altre relative (che indicano cioè fattispecie sostanzialmente assimilabili ai vizi previsti nell’ordinamento civile). E tra le prime, assolutamente non assimilabili, la decisione del 2008 indica proprio la lunga durata del matrimonio che, pertanto, sarebbe ostativa alla delibazione.
Affermano i giudici che occorre distinguere le incompatibilità delle sentenze di cui si chiede l’e¬secutività in Italia con l’ordine pubblico interno in “assolute” e “relative”. Tali incompatibilità, di regola, ostano all’esecuzione in Italia delle sentenze di altri ordinamenti in materia matrimoniale, ma hanno diversa rilevanza per il riconoscimento degli effetti di quelle canoniche, in base al pro¬tocollo addizionale del 1984.
La incompatibilità con l’ordine pubblico interno delle sentenze di altri ordinamenti è “assoluta”, allorché i fatti a base della disciplina applicata nella pronuncia di cui è chiesta la esecutività e nelle statuizioni di questa, anche in rapporto alla causa petendi della domanda accolta, non sono in alcun modo assimilabili a quelli che in astratto potrebbero avere rilievo o effetti analoghi in Italia.
L’incompatibilità con l’ordine pubblico interno va qualificata invece “relativa”, quando le statuizioni della sentenza ecclesiastica, eventualmente con la integrazione o il concorso di fatti emergenti dal riesame di essa ad opera del giudice della delibazione, pure se si tratti di circostanze ritenute irrilevanti per la decisione canonica, possano fare individuare una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne con effetti simili.
Impediscono l’esecutività in Italia della sentenza “ecclesiastica” solo le incompatibilità assolute, potendosi superare quelle relative, per il peculiare rilievo che lo Stato italiano si è impegnato con la Santa Sede a dare a tali pronunce.
Si afferma poi che in ogni giudizio di riconoscimento degli effetti di una sentenza di altri ordina¬menti di annullamento del matrimonio, non può non tenersi conto che, nel nostro ordine anche costituzionale, il matrimonio è finalizzato alla stabilità del vincolo che si esprime nel rapporto coniugale e nella famiglia, oltre che alla certezza dello status, per cui le cause di invalidità costitu¬iscono, per l’ordinamento interno, “eccezioni” o deroghe alla naturale validità di esso, confermata anche dal matrimonio rapporto, che si manifesta nella perdurante coabitazione dei coniugi o nella convivenza dopo l’atto matrimoniale. L’ordine pubblico italiano impedisce, quindi, la esecutività di sentenze di altri ordinamenti che annullino il matrimonio, se incompatibili con esso, qualsiasi sia il grado di tale incompatibilità; per le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, il regime concordatario comporta una graduazione di tali contrasti, impedendo la delibazione in ogni caso le incompatibilità c.d. assolute e potendo invece avere accesso nel sistema interno gli effetti di sentenze in contrasto “relativo” con l’ordine pubblico italiano.
Nonostante ciò la sentenza 19809/2008 va indubbiamente collocata nell’ambito dell’orientamento innovativo, come anche hanno ammesso recentemente le Sezioni Unite (Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 e 16380) affermando che, all’orientamento tradizionale “si erano già contrap¬poste queste stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 19809 del 2008 sia pure, incidentalmente. In essa si afferma infatti, come si è già sottolineato, che “non appare condivisibile, alla luce della distinzione enunciata fra cause di incompatibilità assoluta e relativa delle sentenze di altri ordi¬namenti con l’ordine pubblico interno, qualificare come relative quelle delle pronunce di annulla¬mento canonico intervenute dopo molti anni di convivenza o coabitazione dei coniugi, ritenendo l’impedimento a chiedere l’annullamento di cui sopra mera condizione di azionabilità, da conside¬rare esterna e irrilevante come ostacolo d’ordine pubblico alla delibazione”, anche se la sentenza ricorda che “dopo molte incertezze sul carattere ostativo alla delibazione dei comportamenti di coabitazione e della convivenza dei coniugi, la giurisprudenza attualmente prevalente esclude che tali condotte, se rilevate, comportino contrasto assoluto con l’ordine pubblico interno e impedisca¬no il riconoscimento della sentenza di nullità matrimoniale canonica”.
V I matrimoni di lunga durata: l’orientamento attuale che nega la delibazione in caso di convivenza matrimoniale superiore ai tre anni
1. Le prime sentenze degli anni Ottanta anticipatorie dell’attuale orientamento
Alla fine degli anni Ottanta, come si è sopra detto, quattro sentenze – differenziando il concetto di “matrimonio atto” da quello di “matrimonio rapporto” – portarono con molta efficacia in primo piano nel dibattito tra i giuristi il problema della delibazione di sentenze dichiarative della nullità riferibili a matrimoni la cui convivenza coniugale si è protratta nel tempo dopo la celebrazione.
Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5354; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987 n. 5358; Cass. civ. Sez. I, 3 luglio 1987 n. 5823; Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 1988 n. 192, tutte travolte dalle decisioni delle Sezioni Unite del 1988.
Come si è sopra accennato le quattro sentenze “trasgressive” in questione, basandosi sul dettato del secondo comma dell’art. 123 c.c. relativo alla proponibilità entro n anno dell’azione di nullità per simulazione (“l’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matri¬monio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”) hanno ritenuto che la predetta norma imperativa stabilisce un principio di ordine pubblico che impedisce la delibazione.
Affermano i giudici in proposito che la Corte di cassazione si è occupata più volte del problema della compatibilità, sempre sotto il profilo dello ordine pubblico, tra le norme canoniche che pre¬vedono la deducibilità in ogni tempo delle cause di invalidità del matrimonio e quelle del nostro codice civile che invece fissano (variamente) dei precisi termini per le cause di annullamento del vincolo, risolvendolo nel senso che le particolari limitazioni temporali del diritto d’impugnazio¬ne del matrimonio non toccano i connotati essenziali dello istituto o del rapporto cui si riferisce l’impugnazione medesima ma si traducono in mere disparità di disciplina, correlate al diverso valore che nei due ordinamenti rispettivamente viene assegnato al matrimonio-sacramento e il matrimonio-contratto. Le due disposizioni del secondo comma dell’art. 123 c.c. sono state fino ad oggi accomunate nell’affermazione della loro non qualificabilità come norme di ordine pubblico, sia pure con osservazioni prevalentemente attinenti alla prima, nel termine annuale per l’azione di simulazione, e senza particolari approfondimenti circa la seconda, nell’improponibilità dell’azione stessa in caso di convivenza.
La riforma del diritto di famiglia introdusse precisi limiti all’operatività delle cause di annullamen¬to. Si venivano così a porre problemi nuovi di coordinamento con l’omologa normativa canonica, attestata sull’imprescrittibilità delle impugnative per vizi del consenso perché destinate ad operare sul matrimonio-sacramento e che consentiva l’invalidazione (con effetti “ex tunc”) di vincoli che per l’ordinamento interno erano divenuti inoppugnabili. Ne è risultato, per quanto riguarda l’ordi¬namento interno, un quadro profondamente mutato del matrimonio-rapporto.
Questa nuova disciplina, ispirata ad una visione più attuale della società coniugale e quindi a regole che il legislatore ha tratto dalla moderna coscienza etica adeguandovisi, non può non assumere rilevanza e dignità di ordine pubblico e costituire così un limite all’esecutività delle sentenze eccle¬siastiche ammesse senza avere riguardo al fatto – ormai rilevante ed anzi essenziale per l’ordina¬mento italiano – della conseguita stabilità del rapporto matrimoniale nel suo momento funzionale.
Accertato che costituisce principio di ordine pubblico quello concernente la conseguita stabilità del matrimonio originariamente invalido dovuta alla convivenza dei coniugi dopo la celebrazione del matrimonio nonostante il vizio che lo inficia, resta acquisito che non può darsi ingresso in Italia a sentenze che risultano in contrasto con quel principio.
2. La riproposizione recente della tesi ostativa alla delibazione: le sentenze 1343/2011, 1780/2012 e 9844/2012
Fu solo nel 2011 che un collegio della prima sezione della Corte di Cassazione ripropose l’orien¬tamento ostativo alla delibazione che negli anni Ottanta era stato seguito dalle quattro sentenze trasgressive di cui si è sopra parlato, prontamente arginato dalle Sezioni Unite del 1988.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2011, n. 1343 affermò che “Non può essere delibata la sen¬tenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario quando la convivenza tra i coniugi si è protratta per lunghi anni o, comunque, per un periodo di tempo considerevole in quanto una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo è contrario ai principi di “ordine pubblico” rimetterlo in discussione adducendo riserve mentali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze”3.
Identica interpretazione evolutiva è contenuta in Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1780 (In materia di situazioni invalidanti l’atto-matrimonio, la successiva convivenza prolungata è da consi¬derare espressiva della volontà di accettazione del matrimonio-rapporto che ne è seguito, sempre che, dopo il matrimonio nullo, tra i coniugi si sia instaurato un vero consorzio familiare e affettivo, con superamento implicito della causa originaria di invalidità. In tale ricostruzione interpretativa, il limite di ordine pubblico postula, pertanto, che non di mera coabitazione materiale sotto lo stesso tetto si sia trattato, – che nulla aggiungerebbe ad una situazione di mera apparenza del vincolo – bensì di vera e propria convivenza significativa di un’instaurata “affectio familiae”, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci – per l’appunto, come tra veri coniugi – tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto) e in Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2012, n. 9844 (È ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario la convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio e non la semplice durata del matrimonio medesimo, in quanto l›ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese «favor” per la validità del matrimonio, inteso come matrimonio-rapporto, fondato sulla convivenza dei coniugi; è, pertanto, irrilevante in sé la mera durata ventennale dello stesso, laddove non sia dedotta e provata, nella fase di delibazione della sentenza ecclesiastica, nella specie, di nullità del matrimo¬nio concordatario per grave difetto di discrezione di giudizio del marito, l’effettiva convivenza dei coniugi nello stesso periodo).
3. Le resistenze nella prima sezione della Cassazione: la sentenza 8926/2012
Alla decisione sopra riferita si contrappose l’anno successivo Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 2012, n. 8926 che – dando vita ad un contrasto all’interno della prima sezione – affermò perentoriamente sulla linea dell’orientamento tradizionale che “la convivenza tra i coniugi successiva alla celebra¬zione del matrimonio, per quanto prolungata, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio” in quanto la con¬vivenza dei coniugi (nella specie protrattasi per oltre trent’anni) successiva alla celebrazione del matrimonio non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l’istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico.
Richiamando gli accordi tra Stato e Chiesta i giudici avvertono che l’esigenza di ottemperare al principio pacta sunt servanda e, nello stesso tempo, quella di salvaguardare il rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento impongono di trovare un punto di equilibrio nelle non poche ipotesi in cui il diritto canonico e quello civile siano difformi.
Richiamandosi, perciò, a Cass. civ. Sez. Unite 11 luglio 1988, n. 4700 e a Cass. civ. Sez. Uni¬te, 18 luglio 2008, n. 19809 (di cui sorprendentemente non viene correttamente valutata la li¬nea interpretativa oggettivamente innovativa e niente affatto allineata alla sentenza 19809/2008) viene ribadito l’indirizzo consolidatosi nel tempo favorevole alla delibazione, rilevando che, pur essendo la disposizione canonica che consente l’impugnativa del matrimonio in ogni tempo con¬traria al principio imperativo, contenuto nell’ordinamento statuale, secondo cui non è consentita l’impugnazione del matrimonio civile simulato dopo il decorso di un certo periodo, ciò nondimeno tale regola non costituirebbe un principio fondamentale dell’ordinamento, nel quale si danno casi di imprescrittibilità dell’impugnazione, anche in materia matrimoniale.
3 La vicenda merita di essere segnalata anche per la singolare e inedita sequenza delle decisioni che l’hanno segnata. La Corte d’appello di Venezia – adita dal marito in sede di rinvio a seguito di primo giudizio in cassa¬zione – aveva negato la delibazione di una sentenza del tribunale ecclesiastico ligure che aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, a causa dell’esclusione da parte di uno dei coniugi di uno dei bona matri¬monii. Una prima decisione della Cassazione nel 2005 accolse il ricorso del marito sotto il profilo della mancata prova della non conoscibilità del vizio lamentato, rinviando alla stessa Corte d’appello in diversa composizione. Anche la seconda sentenza della Corte d’appello rifiutò la delibazione adeguandosi all’orientamento consolidato e ritenendo provato che l’esclusione del bonum matrimonii era rimasto nella sfera psichica del suo autore e non era stata manifestata, ovvero conosciuta o conoscibile dall’altro coniuge, ritenendo questo aspetto in contrasto con l’inderogabile principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. La Corte tuttavia dopo aver constatato che il caso oggetto della domanda era appunto quello descritto nel principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione – soffermandosi sulle difese svolte dalla moglie osservava che costei aveva insistito su altra questione, ostativa al riconoscimento della sentenza ecclesiastica, già dedotta nel precedente grado di merito, concernente la problematica relativa all’applicabilità del limite posto dall’art. 123 c.c. sostenendo la convivenza ventennale tra i coniugi dopo la celebrazione del matrimonio. Al riguardo – giudicando la questione non fondata – la corte d’appello di Venezia rilevava che la giurisprudenza di legittimità era molto chiara nel senso di ritenere che il principio di cui all’art. 123 c.c., e di conseguenza il suo presupposto in fatto, cioè la conviven¬za, non costituiscono espressione di principi e regole fondamentali all’istituto del matrimonio. Avverso questa sentenza proponeva di nuovo ricorso per cassazione il marito consentendo così ai giudici di entrare nel merito della questione e di affermare che i giudici italiani non possono procedere alla delibazione in Italia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario in tali casi perché una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo è contrario ai principi di “ordine pubblico” rimetterlo in discussione adducendo riserve men¬tali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze.
4. La rimessione alla Sezioni Unite: le ordinanze 712/2013 e 4647/2013
Come era prevedibile, il contrasto all’interno della prima sezione della Corte di cassazione portò alla rimessione della questione alle Sezioni Unite.
L’iniziativa fu presa con due ordinanze dello stesso collegio della prima sezione.
Con la prima (Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2013, n. 712) si rimetteva testualmente alle sezioni unite la composizione del contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di delibare la sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal tribunale ecclesiastico in caso di convivenza protratta nel tempo.
Affermano i giudici nel provvedimento che “sussiste contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di delibare la sentenza di annullamento del matrimonio, emessa dal tribunale ecclesia¬stico, dove l’unione abbia avuto lunga durata e si sia dunque protratta nel tempo: la questione va quindi rimessa alle Sezioni Unite (contrasto di giurisprudenza: per Cass. Civ. 1343/2011, il fatto che il matrimonio si sia protratto per lunga durata osta alla delibazione dell’eventuale sentenza di annullamento; per Cass civ. 8926/2012, può essere affermato, invece, un generale principio di irrilevanza, ai fini della delibazione, della durata della convivenza).
In relazione alla delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, si possono registrare due orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Ed infatti, se, da un lato, si ritiene che la prolungata convivenza tra i coniugi rappresenti condizione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, in quanto ciò esprimerebbe la volontà di accettazione del rapporto proseguito, confliggente con l’esercizio della facoltà di rimet¬terlo in discussione adducendo riserva mentale risalente al tempo delle nozze, dall’altro lato, si afferma che la prolungata convivenza dei coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, non è condizione ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico che deve, pertanto essere consentita in difformità dall’art. 123, comma 2, c.c. in tema di impugnazione del matrimonio per simulazione. Ciò perché, tale norma, pur avendo carattere imperativo, non configura espressione di principi e regole fonda¬mentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, con la conseguenza che l’indicata difformità non pone la pronuncia ecclesiastica in contrasto con l’ordine pubblico italiano. Ciò premesso, atteso che, nel caso in esame, si è riproposto tale contrasto giuri¬sprudenziale relativo alla possibilità di ravvisare o meno nella prolungata convivenza tra i coniugi una causa ostativa alla delibazione della sentenza di nullità del matrimonio, si è ritenuto opportuno rimettere alle Sezioni Unite la composizione del predetto contrasto, con tutte le questioni origina¬tesi dalle sopra menzionate opzioni interpretative e allo stato irrisolte.
Anche la seconda ordinanza (Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2013, n. 4647) rilevava che “Questo Collegio, con ordinanza interlocutoria 14 gennaio 2003, n. 712 (deliberata nella medesima camera di consiglio del 6 dicembre 2012 sul ricorso n. 12658/2011 R.G.), ha ritenuto – per ragioni indicate nella motivazione della predetta ordinanza, a cui si rinvia – che sussiste un contrasto nella giuri¬sprudenza della Corte con riferimento alla rilevanza della convivenza ultrannuale dei coniugi, suc¬cessiva alla celebrazione del matrimonio, nel giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio stesso; e pertanto ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, evidenziando le seguenti questioni che necessitano di soluzione:
In primo luogo se il protrarsi ultrannuale della convivenza rappresenti condizione integrante vio¬lazione dell’ordine pubblico interno e per l’effetto sia ostativa alla dichiarazione d’efficacia della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal giudice ecclesiastico, ed in presenza di quali vizi del matrimonio-atto operi, in tesi, tale preclusione. In questa cornice, in particolare, se il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fan¬no riferimento gli artt. 120 e 122 c.c. in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’in¬staurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 cod. civ.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio- rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto” (Cass. n. 1780/2012), do¬vendo in tal senso intendersi la locuzione “abbiano convissuto come coniugi” di cui all’art. 123 c.c., comma 2 in caso di simulazione. E, in logica consecuzione:
In secondo luogo se, in caso affermativo, il contrasto tra l’indicata condizione e l’ordine pubblico interno sia verificabile d’ufficio dalla corte d’appello, versandosi in un caso d’impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica (in tal senso Cass. citata n. 1780 del 2012), dal momento che l’ordine pubblico esprime valori di natura indeclinabile ed è per l’effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione;
Inoltre se, ammessa la rilevabilità d’ufficio, rientri nei poteri delle corte d’appello, la cui indagine è astretta entro il limite del compendio istruttorio formatosi nel giudizio ecclesiastico, disporre l’acquisizione di ulteriori elementi di verifica;
Infine se l’incompatibilità in discorso, laddove si ritenga rilevabile d’ufficio, sia riscontrabile anche dalla Corte di cassazione se emerge dagli atti (secondo quanto è avvenuto in sede di pronuncia n. 1343/2011) e sia dunque scrutinabile senza necessità d’ulteriore istruttoria”.
5. La soluzione del contrasto: le sentenze gemelle delle Sezioni Unite 16379/2014 e 16380/2014
Il contrasto nella giurisprudenza della prima sezione viene risolto dalle due sentenze gemelle Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 (riferita alla vicenda di cui alla prima delle due ordinanze sopra richiamate) e Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16380 (nella vicenda cui si riferisce la seconda ordinanza) entrambe deliberate nell’udienza del 3 dicembre 2013.
a) I due principi affermati dalle Sezioni unite
Il primo principio è che la convivenza protrattasi oltre tre anni dopo la celebrazione del matrimonio è ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità.
La convivenza “come coniugi” deve intendersi quale elemento essenziale del “matrimonio-rappor¬to”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, riconoscibile esteriormente attraverso specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili e di responsabilità, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. In tal modo intesa, la convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente tra¬scritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di “ordine pubblico italiano” e pertanto è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vi¬zio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’«ordine canonico» nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.
Il secondo principio è che la convivenza matrimoniale ostativa alla delibazione deve essere ec¬cepita necessariamente dal coniuge che si oppone alla delibazione.
La convivenza “come coniugi”, come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiara¬zione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronun¬ciate dai tribunali ecclesiastici, ed in quanto connotata da una “complessità fattuale” strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempimento di doveri ed all’assunzione di responsabilità per¬sonalissimi di ciascuno dei coniugi, deve qualificarsi siccome eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di delibazione né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità – dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta – potendo invece essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la deduzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva. Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un’apposita istruzione proba¬toria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo, fermo restando comunque il controllo del giudice di legittimità secondo le speciali disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale, i normali parametri previsti dal codice di procedura civile ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.
b) le questioni trattate dalle Sezioni unite
Le Sezioni Unite – affermano i giudici – sono chiamate a pronunciarsi sul contrasto determinatosi, nell’ambito della Prima Sezione, tra – da un lato – le sentenze nn. 1343 del 2011, 1780 e 9844 del 2012 e – dall’altro – la sentenza n. 8926 del 2012 (che, peraltro, ribadisce il consolidato orien¬tamento di queste Sezioni Unite, inaugurato con le note sentenze nn. 4700, 4701, 4702 e 4703 del 1988), contrasto i cui termini essenziali sono esattamente ed esaurientemente esposti nelle ordinanze di rimessione.
• Se le convivenza protrattasi nel tempo dopo la celebrazione è ostativa alla delibazione
La principale questione di diritto, decisa in modo difforme dalle menzionate sentenze della Prima Sezione, consiste nello stabilire: – se la sentenza canonica di nullità del matrimonio, pronunciata dal tribunale ecclesiastico, possa essere dichiarata efficace nella Repubblica italiana – oppure no, per violazione dell’ordine pubblico interno – nel caso di convivenza tra i coniugi protrattasi per un certo periodo di tempo (che nell’ordinanza di rimessione viene individuato in un periodo superiore all’anno), e quali siano i vizi del “matrimonio – atto”, posti a base della pronunciata nullità canoni¬ca, eventualmente ostativi a detta dichiarazione d’efficacia; – se, in particolare, “il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fanno riferi¬mento gli artt. 120 e 122 c.c., in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio – rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio – atto”.
Tra le molteplici ragioni che stanno al fondo del denunciato contrasto, v’è certamente quella fondata sulla tesi per cui, pur non potendosi negare la possibilità di distinguere e la stessa distinzione, sul piano giuridico, tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” – al secondo dei quali, peraltro, nessuno dubita debba essere ricondotta la situazione giuridica “convivenza tra i coniugi” o “come coniugi”, successiva alla celebrazione del “matrimonio – atto” – se ne contestano tuttavia il fonda¬mento costituzionale e legislativo e la correlativa tutela, con la conseguenza che detta situazione giuridica di “convivenza”, anche se protrattasi per un certo tempo dopo la celebrazione del matrimo¬nio, non sarebbe idonea, di per sè, ad integrare una “norma” di ordine pubblico interno ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana della sentenza canonica di nullità del matrimonio.
Tale questione è decisiva per la composizione del contrasto.
• La distinzione tra matrimonio atto e matrimonio rapporto
La distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” e la situazione giuridica “conviven¬za tra i coniugi” o “come coniugi”, da ricondurre senza dubbio alcuno al “matrimonio – rapporto”, hanno, ad avviso del Collegio – contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza di queste Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e dalle successive conformi pronunce -, un nitido e solido fondamento nella Costituzione, nelle Carte Europee dei diritti e nella legislazione italiana. Fondamento che, peraltro, ha radici in dati di immediata esperienza umana e giuridica universale.
La nostra Costituzione distingue nitidamente il “matrimonio – atto” – cui senza dubbio si riferisce l’art. 29, comma 1, laddove stabilisce che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia “fondata sul matrimonio” – dal “matrimonio – rapporto”, cui certamente si riferiscono sia lo stesso l’art. 29, com¬ma 1, laddove definisce la famiglia con l’espressione fortemente evocativa “società naturale”, sia il secondo comma dello stesso art. 29, laddove “Il matrimonio (…) ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” evoca chiaramente lo svolgimento del rapporto e della vita matrimoniali, sia infine l’art. 30, comma 1, nella parte in cui fissa le principali responsabilità genitoriali nei confronti dei figli, e 31, comma 1, laddove stabilisce che “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi (…)”.
La stessa distinzione emerge in modo chiarissimo anche da molteplici disposizioni del Codice civile e di leggi ordinarie.
Questo quadro normativo di base mostra in modo molto chiaro non soltanto che la distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” – diversamente da quanto ritenuto dall’orientamen¬to espresso con la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e dalle successive sentenze che l’hanno ribadito – ha nitido e solido fondamento costituzionale e legislativo, ma anche che la relazione tra il matrimonio come “atto” ed il matrimonio come “rapporto” deve porsi in termini non già di “prevalenza” (cfr. la sentenza n. 8926 del 2012 cit.), cioè di pretesa superiorità assio¬logica, dell’uno rispetto all’altro (che sembra alludere in qualche modo alla natura “sacramentale” del matrimonio cattolico), bensì di distinzione appunto: nel senso, cioè, che questi due aspetti, o dimensioni, dell’istituto giuridico “matrimonio” hanno ragioni, disciplina e tutela distinte – come del resto emerge dalla stessa sistematica del Codice civile (rispettivamente, Capi III e IV del medesi¬mo Titolo VI del Libro I) – e devono, quindi, essere distintamente considerati, anche – ed è ciò che specificamente rileva in questa sede – per l’individuazione dei principi e delle regole fondamentali che, connotando nell’essenziale ciascuno di essi, sono astrattamente idonei ad integrare norme di ordine pubblico interno che, come tali, possono essere ostative anche alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
In definitiva, il “matrimonio – rapporto”, il quale ha certamente origine nel “matrimonio – atto”, può ritenersi un’espressione sintetica comprensiva di molteplici aspetti e dimensioni dello svolgi¬mento della vita matrimoniale e familiare – che si traducono, sul piano rilevante per il diritto, in diritti, doveri, responsabilità, caratterizzandosi così, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost., come il “contenitore”, per così dire, di una pluralità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili”, di “re¬sponsabilità”, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti dei componenti della famiglia, sia come individui sia nelle relazioni reciprochi.
E un elemento essenziale del “matrimonio – rapporto” è certamente costituito dalla “convivenza” dei coniugi o “come coniugi” che, nell’attuale specifico significato giuridico di tale espressione, connota il rapporto matrimoniale in modo determinante.
Più oltre la sentenza afferma che la nozione di “convivenza coniugale” richiede tuttavia un’ulterio¬re, duplice specificazione per la sua corretta individuazione sul piano giuridico. Tali specificazioni riguardano: l’”esteriorità” – o, più precisamente, la sua “riconoscibilità esteriore” – e la determi¬nazione, secondo ragionevolezza, del periodo di tempo necessario perché essa possa qualificarsi “stabile”.
• Come deve essere esteriormente riconoscibile la convivenza tra coniugi
Quanto alla prima specificazione, concernente l’”esteriorità” della convivenza coniugale, le Sezioni unite osservano che la convivenza coniugale deve essere esteriormente riconoscibile attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondano in modo non equivoco e, perciò, essere anche dimo¬strabile in giudizio, da parte dell’interessato, mediante idonei mezzi di prova, ivi comprese le pre¬sunzioni semplici assistite dai noti requisiti di cui all’art. 2729 c.c., comma 1.
• Quale durata della convivenza è ostativa alla delibazione.
Si tratta della questione certamente più delicata, concernente la “stabilità” della convivenza. So¬stengono i giudici che appare indispensabile individuare, “secondo diritto e ragionevolezza, il pe¬riodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio, trascorso il quale dalla convivenza coniugale con dette caratteristiche può legittimamente inferirsi anche una piena ed effettiva accettazione del rapporto matrimoniale, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l’atto di matrimonio, che si considerano perciò sanati dall’accet¬tazione del rapporto. E’ proprio questa – il favor matrimonii, conseguente alla consapevole, piena ed effettiva assunzione e prosecuzione del rapporto matrimoniale – in sostanza, la ratio sottesa a quelle norme del codice civile che sanciscono la decadenza dalle azioni di annullamento del matri¬monio (art. 119, comma 2, art. 120, comma 2, art. 122, comma 4), allorquando, venute meno le cause del vizio dell’atto (revoca dell’interdizione, recupero della capacità naturale, cessazione della violenza morale, scoperta dell’errore), vi è stata coabitazione per un anno. Norme queste, relativa¬mente alle quali è significativo notare – nel senso della valorizzazione del fatto della coabitazione successiva – il progressivo ampliamento del termine di decadenza da parte del legislatore: da quello di un mese del codice civile del 1865 a quello di tre mesi del codice del 1942, fino all’attuale termine di un anno stabilito dalla riforma del diritto di famiglia del 1975. E la medesima ratio sta anche alla base dell’art. 123 – concernente gli accordi simulatori degli sposi relativi al contraendo matrimonio -, il quale, al secondo comma, stabilisce che l’azione di annullamento non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima. La differenza di tale fattispecie rispetto alle precedenti sta in ciò, che – trattandosi di accordi simulatori convenuti da entrambi gli sposi prima del matrimonio, ed esclusivamente tra gli stessi, senza coinvolgimento di terzi – la decadenza dall’azione di annullamento per ciascuno dei coniugi è individuata o nel decorso del termine di un anno dalla celebrazione del matrimonio, oppure – sine die – nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima: ciò, in quanto il legislatore ha ritenuto che il tempo di un anno dalla celebrazione del matrimonio o la convivenza come coniugi dopo tale data siano fatti idonei a far legittimamente presumere il sopravvenuto consenso degli stessi sull’inefficacia di detti accordi. L’elemento comune sta, invece, nella valorizzazione – espressa più nitidamente nell’art. 123, comma 2, alla luce delle considera¬zioni che precedono – della capacità sanante dei vizi genetici (accordi simulatori) dell’atto matri¬moniale, attribuita proprio alla “convivenza come coniugi”.
Ciò posto, resta da individuare – proprio alla luce delle più volte ricordate norme costituzionali e convenzionali – la ragionevole durata della convivenza coniugale, decorrente dalla data di celebra¬zione del matrimonio, idonea a far legittimamente presumere la raggiunta stabilità del rapporto matrimoniale.
Al riguardo, le Sezioni unite ritengono di poter prendere a riferimento – in ragione delle strette connessioni analogiche tra le fattispecie, secondo il canone ermeneutico di cui all’art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale (“Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o ma¬terie analoghe”) – la legge 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo 8 del libro primo del codice civile), secondo i quali: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto(….). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto” (cfr. anche la stessa L. n. 184 del 1983, art. 29 – bis, comma 1, che richiede per gli adottanti, ai fini dell’adozione internazionale, le medesime condizioni sogget¬tive di cui all’art. 6).
Il testo originario della L. n. 184 del 1983, art. 6, comma 1, prevedeva: “L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni tra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che in¬tendono adottare”.
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, in riferimento all’art. 2 Cost., di tale disposizione originaria – nella parte (rimasta sostanzialmente immutata) in cui dispone(va) che, ai fini dell’idoneità ad adottare, i coniugi aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, in un caso in cui tali coniugi vantavano una convivenza prematrimoniale di dieci anni, con la sentenza n. 281 del 1994, nel dichiarare non fondata tale questione, ha affermato, tra l’altro, che la norma censurata “è coerente col principio, riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 89/1993; n. 310/1989; n. 404/1988; nn. 198 e 237 del 1986; n. 11/1981; n. 45/1980), secondo cui l’i¬stituto dell’adozione è finalizzato alla tutela prevalente dell’interesse del minore. Tale principio comporta, fra l’altro, che, ai fini della complessa opera di selezione dei soggetti idonei a svolgere il delicatissimo compito di educare ed accogliere un bambino abbandonato, costituisce criterio fondamentale quello che la doppia figura genitoriale sia unita dal “vincolo giuridico che garantisce stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto”(sentenza n. 310 del 1989)”; ha inoltre sostanzialmente avallato “la scelta adottata dal legislatore italiano, che, al pari di numerosi legislatori Europei, intende il matrimonio, a tal fine, non solo come “atto costitutivo” ma anche come “rapporto giuridico “, vale a dire come vincolo raf-forzato da un periodo di esperienza matrimoniale, in cui sia perdurante la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri”; ed ha precisato infine che “il criterio dei tre anni successivi alle nozze si configura come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale(…)” (n. 2. del Considerato in diritto; da notare che l’introduzione del comma 4 dell’art. 6 ad opera della L. n. 149 del 2001, art. 6, comma 1, deriva proprio dalle osser¬vazioni svolte dalla Corte, nel n. 4. del Considerato in diritto, favorevoli alla prolungata convivenza prematrimoniale, stabile e continuativa, come requisito legittimante all’adozione).
Dalla piana lettura del su riprodotto vigente testo della legge n. 184 del 1983, art. 6, commi 1 e 4, e delle affermazioni della Corte costituzionale ora riportate risulta del tutto evidente, naturalmente mutatis mutandis, la loro ragionevole riferibilità anche alla fattispecie in esame: a ben vedere, con¬vergono infatti in tal senso tutti gli argomenti fondati sia sulla distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto”, sia sugli elementi essenziali del rapporto matrimoniale come sintesi di diritti, di doveri e di responsabilità, sia sulla valorizzazione della convivenza coniugale con le indi¬viduate caratteristiche, segnatamente di “stabilità” e di “continuità”, sia e soprattutto – per quanto ora specificamente rileva – sul “criterio dei tre anni successivi alle nozze” quale “requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale”.
Tutte le considerazioni che precedono consentono, perciò, di affermare in modo compiuto che la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disci¬plinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
• Se il limite di tempo dei tre anni vale per qualsiasi vizio che abbia determinato la di¬chiarazione di nullità del matrimonio
Infine – concludono le Sezioni unite – come correttamente richiesto con l’ordinanza di rimessione si tratta di stabilire se tale limite alla delibazione dipenda, oppure no, dalla natura del vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dalla sentenza canonica: in altri termini, se il giudice della delibazione, ai fini dell’applicazione del limite medesimo, debba distinguere, oppure no, tra detti vizi genetici comportanti la nullità del matrimonio, accertati e dichiarati secondo il diritto canonico.
La risposta negativa al quesito si impone per la decisiva ragione che all’affermazione della convi¬venza coniugale, successiva al matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto e con i caratteri dianzi individuati, quale “limite generale” d’ordine pubblico italiano alla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici, consegue necessariamente, ai fini dell’applicazione di tale limite generale, l’irrilevanza nell’”ordine civile” di qualsiasi vizio genetico del matrimonio canonico, tutte le volte che esso sia stato accertato e dichiarato dal giudice eccle¬siastico nell’”ordine canonico” nonostante la sussistenza dell’elemento essenziale della convivenza coniugale: in tutti questi casi, infatti, si manifesta chiaramente la radicale collisione di detti vizi genetici del matrimonio canonico con l’individuato limite d’ordine pubblico.
• Se la durata della convivenza matrimoniale dopo la celebrazione come causa ostativa possa essere rilevata d’ufficio o debba essere necessariamente eccepita dal coniuge che si oppone alla delibazione
Le Sezioni unite rispondono anche al dubbio posto dall’ordinanza di rimessione relativamente alla questione se il contrasto tra la convivenza coniugale e l’ordine pubblico interno sia verificabile d’ufficio dalla Corte d’appello, versandosi in un caso d’impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica dal momento che l’ordine pubblico esprime valori di natura indecli¬nabile ed è per l’effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione.
Su questa questione le Sezioni unite dopo aver ribadito che la convivenza coniugale successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario deve essere caratterizzata da “fatti e comportamenti” dei coniugi corrispondenti ad una “consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo”, dalla sua “riconoscibilità esteriore”, nonché dalla sua durata per almeno tre anni dalla data della celebrazione del matrimonio, precisano che “E’ dunque evidente che, in una fattispecie siffatta, il limite d’ordine pubblico ostativo alla delibazione non scaturisce immediatamente da una precisa disposizione, ma deve trarsi da una situazione giuridica complessa – la convivenza coniu¬gale, appunto – caratterizzata essenzialmente da circostanze oggettive esteriormente riconoscibili e, quindi, allegabili e dimostrabili in giudizio.
In secondo luogo, dal momento che l’Accordo, con norma speciale (alinea dell’art. 8, n. 2), stabi¬lisce che le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici sono dichiarate efficaci nella Repubblica italiana dalla competente corte d’appello “su domanda delle parti o di una di esse”, ne consegue con certezza sia che il procedimento di delibazione non ha conservato natura officiosa (come, invece, nel previgente sistema delineato dall’art. 34, comma 6, del Concordato lateranense e citata L. n. 847 del 1929) sia che tale procedimento giurisdizionale è un ordinario giudizio di cognizione, sia pure svolto in unico grado di merito, nel quale valgono ovviamente, tra gli altri, i fondamentali principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.; cfr. anche, del resto, l’art. 796 c.p.c., comma 1).
È noto, poi, che in linea di principio, per costante orientamento, la contrarietà di un atto all›ordine pubblico, sostanziale o processuale, attenendo a materie «indisponibili» dalle parti perché involgenti aspetti che trascendono interessi esclusivamente individuali, è questione rilevabile anche d›ufficio in ogni stato e grado del processo, salvo il dovere del giudice di promuovere su di essa il previo contraddittorio tra le parti (art. 101 c.p.c., comma 2, e art. 384 c.p.c., comma 3).
Tuttavia, le già rilevate, indubbie peculiarità della fattispecie d’ordine pubblico “convivenza coniuga¬le” – fondata su fatti specifici e rilevanti (come, ad esempio, la durata della convivenza post-matri¬moniale, l’esistenza di figli, la continuità del rapporto matrimoniale, età), nonché su comportamenti dei coniugi altrettanto specifici e rilevanti -, unitamente all’applicazione dei ricordati principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, richiedono che tali fatti e comporta¬menti: o emergano già dagli atti del giudizio di delibazione, oppure siano allegati, e in ogni caso di¬mostrati dalla parte interessata – se contestati dall’altra -, mediante la deduzione di idonei mezzi di prova, anche presuntiva (cfr., supra, n. 3.7.1.)” ed anche mediante il richiamo degli atti del proces¬so canonico e della stessa sentenza delibanda, se ivi già risultano parzialmente o compiutamente.
A tal ultimo proposito e salve le ulteriori specificazioni, deve immediatamente affermarsi che sia tali oneri di allegazione, di deduzione e di prova gravanti sulla parte interessata a far valere detto limite d’ordine pubblico, sia l’eventuale svolgimento della relativa istruzione probatoria non costituiscono violazioni del divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, imposto al giudice della deliba¬zione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale. Infatti – nell’ambito del giudizio di deliba¬zione in cui sia stata dedotto il predetto limite d’ordine pubblico -, l’oggetto specifico ed esclusivo dei relativi accertamenti è costituito dalla verifica della sussistenza, o no, della “convivenza coniugale”.
Oggetto questo, rispetto al quale l’insindacabile accertamento contenuto nel “giudicato canonico” (punto 4, lett. b, n. 2, del Protocollo addizionale), costituito dalle ragioni di fatto e di diritto della nullità del matrimonio, accertata e dichiarata appunto secondo il diritto canonico, è e deve restare del tutto estraneo ed irrilevante. Al riguardo, è appena il caso di sottolineare che è dovere del giudice della delibazione valutare l’ammissibilità e la rilevanza delle circostanze allegate e delle prove eventualmente dedotte dalle parti, nel rispetto della netta distinzione tra gli oggetti dei due processi ora rimarcata e, comunque, del suddetto divieto stabilito dall’Accordo, fermo restando in ogni caso il sindacato di legittimità sul punto esercitabile da questa Corte (cfr., ex plurimis e da ultima, la sentenza n. 24967 del 2013).
Del resto, principi analoghi sono già stati affermati più volte da questa Corte in riferimento sia a casi di diniego della delibazione, in cui rileva tout court la convivenza coniugale successiva alla ce¬lebrazione del matrimonio (sentenza n. 9844 del 2012), sia a casi di diniego della delibazione per esclusione, da parte di un coniuge, di uno dei bona matrimonii (sentenza n. 3378 del 2012), ovve¬ro per apposizione di una condizione al vincolo matrimoniale viziante il consenso di uno dei coniugi (sentenza n. 12738 del 2011): casi nei quali, appunto, il giudice italiano può e deve accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione o della condizione anzidette da parte dell’al¬tro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profili estranei, in quanto irrilevanti, al processo canonico. E sono proprio queste, in definitiva, le medesime ragioni che giustificano – fermi i predet¬ti oneri di allegazione, di deduzione e di prova gravanti sulla parte interessata ed i corrispondenti poteri di controllo del giudice della delibazione e di questa Corte – anche l’acquisizione di elementi probatori dagli atti del processo canonico e dalla stessa sentenza delibanda.
In conclusione la “convivenza coniugale” successiva alla celebrazione del matrimonio concorda¬tario, opposta da un coniuge all’altro nel giudizio di delibazione, ha i caratteri delle “eccezioni in senso stretto” (exceptiones juris) rilevabili, com’è noto, soltanto ad istanza di parte: tali ecce¬zioni vengono identificate ormai, secondo diritto vivente, o in quelle per le quali la legge riserva espressamente il potere di rilevazione alla parte, ovvero in quelle nelle quali il fatto che integra l’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del tito¬lare, comportando quindi, per avere efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico, il tramite di una manifestazione di volontà della parte.
• Se la Corte d’appello possa effettuare una istruttoria sul punto della convivenza matri¬moniale dopo la celebrazione del matrimonio
È certamente vero che, nei casi da ultimo menzionati, questa Corte, nell›ammettere detti accertamenti da parte del giudice della delibazione con piena autonomia rispetto al giudice ecclesiastico, ha nel contempo affermato che la relativa indagine ha da svolgersi con esclusivo riferimento alla pronuncia delibanda ed agli atti del processo canonico eventualmente acquisiti e non deve essere integrata da alcuna attività istruttoria (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 3339 del 2003 e 12738 del 2011 cit.), ma è altrettanto vero che nelle più volte sottolineate peculiarità della fattispecie “convivenza coniugale”, fatta valere come limite generale d’ordine pubblico alla delibazione, è certamente compresa, anche sotto il profilo in esame, un’indubbia “complessità fat¬tuale” – molto maggiore di quella rilevabile negli altri casi, anche se parimenti non coinvolta negli accertamenti della sentenza canonica -, che giustifica ampiamente lo svolgimento di un’apposita istruzione probatoria, da compiersi tuttavia, come pure già rimarcato, con particolare attenzione, tenuto conto che i relativi accertamenti, da un lato, attengono al’attuazione di un principio d’ordi¬ne pubblico italiano oggetto di rilievo e tutela anche costituzionali e, dall’altro, esigono comunque l’osservanza dei patti stipulati dalla Repubblica italiana e dalla Santa Sede con l’Accordo del 1984.
L’eventuale istruzione probatoria deve svolgersi, secondo le regole di un ordinario giudizio di cognizione, con particolare rigore, in considerazione sia della complessità degli accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità fondamentali e personalissimi, sia del dovere di rispettare il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale.
• Quali sono le differenze, in punto di convivenza matrimoniale, tra il giudizio a doman¬da congiunta e giudizio su domanda di parte
Premesso che, secondo la speciale disciplina dell’Accordo, occorre distinguere tra due ipotesi, a seconda che la domanda di delibazione sia proposta “dalle parti”, oppure “da una di esse” (alinea dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo), tutte le considerazioni che precedono rendono evidente che nella prima ipotesi – domanda di delibazione, per così dire, “congiunta” – non possono sussistere dubbi circa la tendenziale delibabilità, sotto tale profilo, della sentenza canonica di nullità, anche nel caso in cui già emergesse ex actis una situazione di “convivenza coniugale”, con i più volte sottolineati caratteri, potenzialmente idonea a costituire ostacolo alla delibazione: ciò, in ragione sia della af¬fermata rilevabilità della “convivenza coniugale” soltanto a seguito di tempestiva eccezione di par¬te, sia della prevalenza da dare alla consapevole, concorde manifestazione di volontà delle parti.
Nel caso in cui, invece, la domanda di delibazione sia proposta da uno soltanto dei coniugi, l’altro – che intenda opporsi alla domanda, eccependo il limite d’ordine pubblico costituito dalla “conviven¬za coniugale” con le evidenziate caratteristiche (cfr., supra, n. 4.1.) – ha l’onere, a pena di deca¬denza, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., commi 1 e 2, (si veda l’art. 343 c.p.c., comma 1): i) di sollevare tale eccezione nella comparsa di risposta; 2) di allegare i fatti specifici e gli specifici comportamenti dei coniugi, successivi alla celebrazione del matrimonio, sui quali l’eccezione medesima si fonda, anche mediante la puntuale indicazione di atti del processo canonico e di pertinenti elementi che già emergano dalla sentenza delibanda; 3) di dedurre i mezzi di prova, anche presuntiva, idonei a dimostrare la sussistenza di detta “convivenza coniugale”, restando ovviamente salvi i diritti di prova della controparte ed i poteri di controllo del giudice della delibazione quanto alla rilevanza ed alla ammissibilità dei mezzi di prova richiesti.
• L’intervento obbligatorio del pubblico ministero e i suoi limiti nei giudizi di delibazione
È noto che, secondo l›art. 796 c.p.c., comma 3, – richiamato dal punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale e da questo non derogato sul punto – nel giudizio di delibazione “L’intervento del pub¬blico ministero è sempre necessario”; ciò, coerentemente con quanto dispone l’art. 70, comma 1, n. 2, dello stesso codice di rito, che prevede l’intervento obbligatorio del pubblico ministero a pena di nullità, tra le altre, “nelle cause matrimoniali” (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 9085 e 19277 del 2003).
È altresì noto che il pubblico ministero, ai sensi dell›art. 72 c.p.c., comma 1, “nelle cause che avrebbe potuto proporre ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime”, mentre, ai sensi dello stesso art. 72, comma 2, “Negli altri casi di intervento previsti dall’art. 70…. può produrre documenti, dedurre prove, prendere conclu¬sioni nei limiti delle domande proposte dalle parti”, essendo peraltro attribuito allo stesso organo requirente il potere di proporre impugnazione, tra le altre, contro le sentenze “che dichiarino l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali” (art. 72, comma 4: cfr. le sentenze, delle Sezioni Unite n. 27145 del 2008, nonché nn. 6739 del 1983, 332 del 1984, 773 del 1985), salvo in ogni caso il potere, attribuito all’organo medesimo, di impugnazione per revocazione nei casi di cui all’art. 397 c.p.c..
Esclusa quindi nettamente, ai sensi dell’Accordo, la promovibilità di tali giudizi di delibazione da parte del pubblico ministero, in questi giudizi spetta tuttavia allo stesso organo requirente l’even¬tuale esercizio dei poteri processuali previsti dal menzionato art. 72 c.p.c., comma 2, (“produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni”), soltanto però “nei limiti delle domande propo¬ste dalle parti”.
Al riguardo, deve ribadirsi che il parametro di legittimità dell’esercizio di tali poteri da parte del pubblico ministero, malgrado la dimensione pubblicistica sottesa al suo intervento, è costituito, in definitiva, dalle causae petendi e dai petita fatti valere dalle parti nonché dalle eccezioni dalle stes¬se sollevate, che delimitano l’oggetto del giudizio (cfr., tra le poche che hanno affrontato il tema, le sentenze nn. 8862 del 1993, e 2621 del 1970, pronunciata a sezioni unite).
• I riflessi nel giudizio davanti alla Corte di cassazione del principio di deducibilità a cura solo di parte dell’eccezione di convivenza matrimoniale successiva alla celebrazione
L’esclusione del rilievo d’ufficio del limite d’ordine pubblico de quo vale anche nell’eventuale giu¬dizio di legittimità promosso avverso la sentenza che decide sulla domanda di delibazione e la “convivenza coniugale” successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario, opposta da un coniuge all’altro avendo natura di “eccezione in senso stretto” (exceptio juris), non può essere effettuata per la prima volta nel giudizio di legittimità.
6. Le sentenze successive che hanno ribadito l’impostazione delle Sezioni Unite.
I principi indicati dalle Sezioni unite sono stati successivamente ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2015, n. 1494; Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1621; Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1622; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1788; Cass. civ. Sez. I, 13 febbraio 2015, n. 2942; Cass. civ. Sez. I, 1 aprile 2015, n. 6611; Cass. civ. Sez. I, 1 luglio 2015, n. 13515; Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2015, n. 18695; Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676; Cass. civ. Sez. I, 4 ottobre 2016, n. 19811; Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188; Cass. civ. Sez. VI – 1, 1 marzo 2017, n. 5250; Cass. civ. Sez. I, 5 aprile 2017, n. 8800; Cass. civ. Sez. VI – 1, 19 aprile 2017, n. 9925; Cass. civ. Sez. VI – 3, 24 maggio 2017, n. 13120; Cass. civ. Sez. VI – 1, 15 maggio 2018, n. 11808.
Perciò il coniuge convenuto nel giudizio di delibazione può sempre eccepire la durata ultratriennale della convivenza matrimoniale, impedendo con ciò la delibazione in Italia della sentenza ecclesia¬stica dichiarativa della nullità del matrimonio.
VI Come incide il procedimento in sede ecclesiastica dichiarativo della nullità del matrimonio sulla separazione e sul divorzio?
Il problema dei rapporti tra il giudicato sulla nullità ecclesiastica e il processo di separazione o quello di divorzio si pone in termini differenziati a seconda che ci si ponga dal punto di vista dei rapporti tra coniugi o da quello dei rapporti con i figli.
Occorre premettere che, pacificamente, anche al matrimonio concordatario si applicano le norme sul matrimonio putativo (art. 128 c.c.) come più volte precisato in giurisprudenza (per tutte Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2728 dove si afferma, appunto, che l’art. 18 della legge – cosid¬detta legge matrimoniale – 27 maggio 1929 n. 847 – tuttora in vigore, anche a seguito dell’accordo del 18 febbraio 1984 di modifica del Concordato lateranense – dichiara applicabili le norme sul matrimonio putativo del codice civile anche nei casi in cui venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico).
Ebbene – rinviando per gli approfondimenti ad altre sedi4 – l’art. 128 c.c. (matrimonio cosiddetto putativo, cioè ritenuto valido dai coniugi o da almeno uno di essi) differenzia gli effetti della dichia¬razione di nullità nei rapporti tra i coniugi a seconda della loro buona o mala fede al momento della celebrazione, mentre la nullità non ha alcun rilievo nei confronti dei figli. La norma afferma, infatti, che “Se il matrimonio è dichiarato nullo, gli effetti del matrimonio valido si producono, in favore dei coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità [e quindi ex nunc in deroga al principio della decorrenza ex tunc della nullità] quando i coniugi stessi lo hanno contratto in buona fede oppure quando il loro consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi. Il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli. Se le condizioni indicate nel primo comma si verificano per uno solo dei coniugi, gli effetti valgono soltanto in favore di lui e dei figli. Il matrimonio dichiarato nullo, con¬tratto in malafede da entrambi i coniugi, ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli nati o concepiti durante lo stesso, salvo che la nullità dipenda da incesto”.
Nel caso di buona fede la nullità ha, quindi, effetto ex nunc (dal momento del giudicato della deli¬bazione) quanto meno per il coniuge a cui nessuna colpa può essere attribuita.
Rispetto ai figli la dichiarazione di nullità e la conseguente delibazione non comportano alcuna conseguenza. Quindi anche nel caso di mala fede di uno dei coniugi il figlio non è nato “fuori dal matrimonio”.
Il matrimonio cosiddetto putativo è quindi un matrimonio invalido ma idoneo a spiegare ope legis, nei rapporti fra coniugi e rispetto ai figli, gli stessi effetti del matrimonio valido fino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la nullità, la quale i n questo caso ha efficacia ex nunc e, quindi, non travolge gli effetti già prodottisi.
Per ciò che possa servire ai fini di quanto previsto nell’art. 129 bis c.c. (responsabilità del coniuge in mala fede) il coniuge interessato ha l’onere di provare la mancanza della buona fede nell’altro coniuge e può produrre in giudizio la sentenza canonica dalla quale risulti il difetto di buona fede. Va precisato che in caso di simulazione, poiché la delibazione – come si è visto – è ammessa solo se non vi è riserva mentale e cioè se anche l’altro coniuge era di fatto consapevole della simula¬zione, è evidente che la nullità ha sempre efficacia ex tunc e non vi potrà essere un problema di responsabilità di un coniuge in mala fede.
a) I rapporti tra separazione/divorzio e giudizio di nullità prima della delibazione
Prima del giudicato sulla delibazione i rapporti tra la causa di nullità e quella di separazione o divorzio non subiscono alcun reciproco condizionamento. Nel senso che la causa di separazione o divorzio non può essere sospesa per il fatto in sé della contemporanea pendenza della causa di nullità davanti al tribunale ecclesiastico.
Il principio è pacificamente riconosciuto in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 marzo 2018, n. 5670 e Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24990 secondo le quali tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, così che il secondo debba essere neces¬sariamente sospeso, ex art. 295 c.p.c., a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, trattandosi di procedimenti autonomi, sfocianti in decisioni di natura diversa ed aventi finalità e presupposti diversi, di specifico rilievo in ordinamenti distinti.
b) I rapporti tra separazione/divorzio e nullità dopo la delibazione
1) In relazione ai coniugi
• Cessazione della materia del contendere nel processo pendente di separazione o di¬vorzio
Poiché la dichiarazione di nullità ha effetti dal giudicato sulla delibazione, eliminando da questa data il vincolo matrimoniale, è evidente che, per quanto attiene ai rapporti tra coniugi, il giudi¬cato rende improcedibile qualsiasi altro procedimento in corso che trova ragione giustificatrice in quel vincolo.
Perciò l’intervenuto giudicato sulla delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico, ove so¬pravvenga in corso di separazione personale dei coniugi o di divorzio, determina la cessazione della materia del contendere in sede civilistica per tutto ciò che concerne i rapporti tra coniugi
Il principio è, insomma, che il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell’efficacia, della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, determinando il venir meno del vincolo coniugale, travolge ogni ulteriore controversia che trova nell’esistenza e nella validità del matrimonio il proprio presupposto, e quindi comporta la cessazione della materia del contendere nel processo di separazione o di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2017, n. 30496; Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 2003, n. 10055; Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2010, n. 399; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2010, n. 2600; Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2013, n. 17094).
D’altro lato la stessa legge 27 maggio 1929, n. 847 tuttora in vigore anche a seguito dell’Accordo del 1984 di modifica del Concordato lateranense del 1929, richiama, per il caso in cui venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico, la disciplina del matrimonio putativo. Ne consegue che, resa esecutiva la sentenza della giurisdizione ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, in pendenza della causa di se¬parazione dei coniugi, e venuto perciò meno il vincolo matrimoniale, viene di conseguenza meno il potere-dovere del giudice di statuire in ordine all’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato e restano nella specie anche travolte le decisioni adottate sul punto nei precedenti gradi di giudizio.
• Venir meno dell’eventuale assegno di mantenimento (ma non di quello divorzile dopo il giudicato sullo status)
Anche l’assegno di mantenimento, fondandosi sull’esistenza di un vincolo matrimoniale, viene meno con il giudicato sulla delibazione della nullità, fatto salvo, naturalmente, quanto dispone per i coniugi in buona fede l’art. 129 c.c. per fronteggiare la mancanza di mezzi adeguati nell’ex coniuge debole non passato a nuove nozze5. A tale proposito un provvedimento provvisorio può essere adottato dalla stessa Corte d’appello chiamata a delibare la nullità ecclesiastica (art. 8, n. 2, ultima parte, legge 25 marzo 1985, n. 121) mentre il provvedimento definitivo è di competenza del tribunale ordinario.
Il principio che l’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione viene travolto dal giudi¬cato sulla delibazione è affermato chiaramente da Cass. civ. Sez. I, 11 maggio 2018, n. 11553 dove si afferma che in tema di rapporti patrimoniali tra ex coniugi, nell’eventualità in cui il vincolo matrimoniale venga meno per il riconoscimento di una sua nullità originaria a seguito di sentenza della sacra Rota (dichiarata efficace nell’ordinamento italiano per effetto della sua conseguente delibazione), tale sopravvenienza comporta la caducazione del presupposto giustificativo dell’as¬segno di mantenimento disposto in sede di separazione tra i due coniugi con sentenza da parte del giudice civile, anche quando quest’ultima sia passata in cosa giudicata.
Un problema specifico si pone, tuttavia, per l’assegno attribuito in sede di divorzio, considerato soprattutto che la statuizione sull’assegno divorzile, fondandosi su una condizione di necessità del coniuge beneficiario, potrebbe privarlo per sempre, dopo la delibazione, del supporto economico necessario a vivere e delle altre provvidenze post-divorzili previste nella legge 898/1970.
Oggi la questione si presenta in termini meno problematici dal momento che come si è visto, il coniuge divorziato titolare del diritto all’assegno divorzile potrebbe eccepire la eventuale durata ultratriennale della convivenza matrimoniale, impedendo con ciò la delibazione della sentenza ec¬clesiastica e i suoi effetti di caducazione dell’assegno.
Nel tentativo della giurisprudenza di ridimensionare gli effetti della delibazione, una decisione della Corte di cassazione nel 1997 aveva affrontato il problema dei rapporti tra la delibazione della sentenza di nullità e la statuizione civile relativa all’assegno divorzile, affermando che “in seguito al venir meno della riserva della giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità del matrimonio concordatario, il giudicato di divorzio implica un accertamento incidenter tantum della validità del vincolo e pertanto non resta travolto dalla successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità” (Cass. civ. Sez. I, 18 aprile 1997, n. 3345).
La giurisprudenza cominciava così a cambiare prospettiva centrando le argomentazioni sui rapporti tra la delibazione e il giudicato in sede divorzile.
In alcuni casi si è dato rilievo nella motivazione al giudicato sull’assegno trattandosi di vicende nelle quali le statuizioni economiche erano state adottate con la sentenza definitiva di divorzio. In verità tuttavia – come si deduce dalla lettura delle principali decisioni sull’argomento – il rilievo è al giudicato sullo status. E’ perciò il giudicato sul divorzio (anche quindi quello formatosi a seguito della sentenza non definitiva) che determina la immodificabilità della statuizione sull’assegno (an¬che successivamente adottata con la sentenza definitiva).
Nella prima importante decisione in proposito (Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2001, n. 4202) viene ricostruito il rapporto fra sentenza di divorzio e sentenza di delibazione della sentenza ec¬
5 Art. 129, co. 1, c.c. (Diritti dei coniugi in buona fede). Quando le condizioni del matrimonio putativo si verifi¬cano rispetto ad ambedue i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno di essi e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alla sue sostanze, a favore dell’altro ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze”.
clesiastica di annullamento del matrimonio e si afferma che, una volta accertata la spettanza, ad una delle parti, dell’assegno di divorzio, ed una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’art. 2909 c.c. anche nel caso in cui successiva¬mente ad essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio”6.
La sentenza provocò un vivacissimo dibattuto sulle riviste giuridiche.
Il principio fu subito ripreso da Cass. civ. Sez. I, 4 marzo 2005, n. 4795 in cui si afferma che la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario passata in giudicato non im¬pedisce la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, sempre che le parti nel giudizio di divorzio non abbiano introdotto esplicitamente questioni concernenti l’esi¬stenza e la validità del vincolo. La dichiarazione di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica non travolge, tuttavia, il capo della sentenza relativo all’assegno di mantenimento. La statuizione che accerti la spettanza dell’assegno divorzile, una volta passata in giudicato è intangi¬bile anche in caso di successiva delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio”.
Dubbi vennero sollevati da Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2005, n. 11793 in cui si esprimeva la considerazione che la delibazione potesse valere a mettere in discussione il giudicato sull’assegno mediante il procedimento di revisione ex art. 9 della legge sul divorzio.
Il principio della prevalenza del giudicato relativo all’assegno divorzile sulla delibazione della nullità è stato però riaffermato – in contrapposizione alla sentenza 11793/2005 – da Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2008, n. 3186 e da Cass. civ. Sez. I, 18 settembre 2013, n. 21331 dove i giudici ribadiscono che la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio non produce alcun effetto di caducazione delle statuizioni contenute nella precedente sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio relative all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile, ove su tali statuizioni si sia formato il giudicato, non costituendo in sé un “giu¬stificato motivo” sopraggiunto, legittimante, ai sensi dell’art. 9, comma primo della legge 1° dicem¬bre 1970, n. 898, la revisione del provvedimento economico contenuto nella sentenza di divorzio.
Recentemente la riaffermato lo stesso principio in un caso in cui vi era stata la decisione non de¬finitiva sullo status Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2019, n. 18827 affermando che la questione
6 In motivazione si legge che con la sentenza n. 4202 del 23 marzo 2001 è stato ricostruito, con maggiore coe¬renza, il rapporto fra sentenza di divorzio e sentenza di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio sicchè appare opportuno riportare i passaggi salienti della motivazione che si dimostrano rilevanti ai fini della decisione del presente giudizio. Di regola – secondo la citata pronuncia n. 4202/2001 – la esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della sentenza di divorzio, ma non formano nel relativo giudizio oggetto di specifico accertamento suscettibile di dare luogo al formarsi di un giudicato. Per questa ra¬gione la sentenza di divorzio – che ha causa petendi e petitum diversi da quelli della sentenza di nullità del ma¬trimonio -, ove nel relativo giudizio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio, non impedisce la delibabilità della sentenza dei Tribunali ecclesiastici che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impegni concordatari assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi. Quanto, invece, ai capi della sentenza di divorzio che contengano statuizioni di ordine economico, si applica la regola ge¬nerale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione – al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c., non dedotti nella specie – fra le stesse parti, in altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall’art. 2909 c.c.. Conseguentemente, una volta accertato nel giudizio, con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordata¬rio, la spettanza a una parte di un assegno di divorzio, ove su tale statuizione si sia formato il giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c., questo resta intangibile, in forza dell’art. 2909 c.c..
7 Si legge in motivazione quanto segue:
1. Col primo motivo, si deduce, in riferimento alla statuizione sub a) di parte narrativa, la violazione e falsa ap¬plicazione dell’art. 324 c.p.c., art. 2909 c.c.; art. 8, comma 2, dell’Accordo del 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con L. n. 121 del 1985, circa la relazione tra gli effetti della sentenza passata in giudicato, che abbia delibato quella ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, con quelli della sentenza non definitiva passata in giudi¬cato che abbia pronunciato solo sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio, senza nulla statuire in ordine alle relative conseguenze economiche.
2. Il motivo è infondato. La conclusione cui sono pervenuti i giudici a quibus circa il rapporto tra la sentenza di nullità del matrimonio e quella di divorzio, è, infatti, coerente con la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 21331 del 2013, ed in precedenza n. 4202 del 2001; n. 4795 del 2005; n. 3186 del 2008; n. 12989 del 2012, vedi pure n. 11553 del 2018), che non si è limitata ad affermare il principio – invocato dal G. per esclu¬derne la ricorrenza nel caso in esame – secondo cui il giudicato sulla spettanza di un assegno di divorzio resta intangibile, in ipotesi di successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, ma ha, a monte, rilevato che non sussiste un rapporto di primazia della pronuncia di nullità, secondo il diritto canonico, del matrimonio concordatario sulla pronuncia di cessazione degli effetti civili dello stesso matrimonio, trattandosi di procedimenti autonomi, aventi finalità e presupposti diversi, e, soprattutto, ha aggiunto che, nel diritto italiano, il titolo giuridico dell’obbligo del mantenimento dell’ex coniuge si fonda sull’accertamento dell’impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale fra i coniugi stessi che è conseguente allo scioglimento del vincolo matrimoniale civile o alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, e non è costituito dalla validità del matrimonio, oggetto della sentenza ecclesiastica, tenuto conto che la decla¬ratoria di nullità ex tunc del vincolo matrimoniale non fa cessare alcuno status di divorziato, che è uno status inesistente, determinando, piuttosto, la pronuncia di divorzio la riacquisizione dello stato libero.
3. Così convenendo, la questione della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile non è preclusa quan¬do l’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi – che, come si è detto, costituisce il titolo giuridico dell’obbligo qui in discussione – sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell’ipotesi in cui nell’ambito di un unico giudizio la statuizione relativa allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici. E, nella specie, tanto è accaduto: per effetto della sentenza di questa Corte n. della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile non è preclusa quando l’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi – che costituisce il titolo giuridico dell’obbligo – sia passato in giudicato prima della delibazione del¬la sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell’ipotesi in cui nell’ambito di un unico giudizio la statuizione relativa allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici.
In conclusione la pronuncia che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario tra le parti, successiva al passaggio in giudicato della sentenza di separa¬zione, fa venir meno le statuizioni economiche relative al rapporto tra i coniugi in essa previste poi¬ché – a differenza di quanto avviene nel caso di precedente passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le cui statuizioni in ordine all’assegno divorzile restano efficaci in forza del principio di solidarietà post coniugale – la sentenza di separazione che stabilisce il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato trova il suo fondamento nella permanenza del vicolo coniugale e nel dovere di assistenza materiale tra coniugi sicché, venuto meno il vincolo matrimoniale, non possono sopravvivere le statuizioni accessorie dal quale esse dipendono.
• La caducazione dei diritti successori ed eventualmente postdivorzili
Ulteriore effetto del giudicato sulla delibazione è il venir meno dei diritti successori ed ogni conse¬guenza che la legge ricollega all’eventuale avvenuto riconoscimento dell’assegno divorzile.
La perdita dei diritti successori è la conseguenza del venir meno del vincolo.
Nel caso in cui il matrimonio venga dichiarato nullo dopo la morte di uno dei coniugi, il superstite, se in buona fede, conserva i diritti successori, ai sensi dell’art. 584 c.c. (successione del coniuge putativo: Quando il matrimonio è stato dichiarato nullo dopo la morte di uno dei coniugi, al coniuge superstite di buona fede spetta la quota attribuita al coniuge dalle disposizioni che precedono. Si applica altresì la disposizione del secondo comma dell’articolo 540) ma non è legittimario.
Pacifica è la perdita dei diritti che, in caso di attribuzione dell’assegno divorzile conseguono ad esso. Pertanto non sarà ipotizzabile alcuna revisione dell’assetto economico divorzile (art. 9, com¬ma 1, legge divorzio), né la pensione di reversibilità (art. 9, commi 2-4), né l’assegno periodico a carico dell’eredità in caso di decesso dell’ex coniuge obbligato (art. 9-bis), né della quota del trattamento di fine rapporto (art. 12-bis).
• Il cosiddetto “assegno di nullità”
Resta aperta per il coniuge debole ai sensi dell’art. 129 c.c. (Diritti dei coniugi in buona fede) la possibilità per la Corte d’appello di prevedere un contributo economico temporaneo di natura so¬stanzialmente alimentare. Infatti nel caso in cui le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi, la norma richiamata prevede che “il giudice può disporre a carico di uno di essi e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodi¬che di denaro, in proporzione alle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze”.
2) In relazione ai figli
Come si è visto l’art. 128 c.c. scolpisce il principio che “Il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli” indipendentemente dalla mala fede dei coniugi.
Pertanto con la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio cessa la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione personale, “ma non viene meno il provvedimento presidenziale adottato in precedenza dal giudice della separazione ex art. 708 cod.proc.civ. relativo al contributo al mantenimento dei figli, che conserva la sua efficacia finché non viene sostituito” (Cass. civ. Sez. III, 6 agosto 2004, n. 15165).
Quindi la dichiarazione di esecutività della sentenza canonica di nullità del matrimonio concorda¬tario non determina la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divorzio, per quanto concerne i provvedimenti che il giudice è chiamato ad adottare in ordine all’affidamento, alle mo¬dalità e misura del contributo al mantenimento dei figli minori e rimane ferma la possibilità per i coniugi di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti la misura e le modalità del contributo (Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2011, n. 15558).
La soluzione è la stessa anche per quanto concerne l’assegnazione della casa familiare come ha precisato Cass. civ. Sez. I, 13 settembre 2002, n. 13428 chiarendo che per effetto della deli¬bazione, da parte della Corte d’appello, di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, la regolamentazione dell’affidamento dei figli minori e del loro mantenimento trova fondamento nelle norme dettate in tema di matrimonio putativo, con la conseguenza che deve
24990 del 10.12.2010 l’accertamento inerente all’impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale fra i coniugi è passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del 14.2.2011, sicchè la valutazione di spettanza e quantificazione dell’assegno divorzile è ben ammissibile, non po¬tendo in contrario dedursi che in caso di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio concordatario le conseguenze economiche siano disciplinate dagli artt. 129 e 129 bis c.c., in tema di matrimonio putativo, dettando tali articoli una normativa che, nel caso di passaggio in giudicato della sentenza di divorzio prima della delibazione della sentenza ecclesiastica, va, appunto, coordinata con i principi che regolano il giudi¬cato, in applicazione dei principi già enunciati dalla giurisprudenza sopra citata al p. 2. figli minori. ritenersi legittimo il provvedimento di assegnazione della casa coniugale al genitore affidatario dei
Si tratta di principi affermati da moltissimo tempo. Per esempio già Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2728 aveva chiarito che le condizioni per l’affidamento ed il mantenimento della prole, a seguito di nullità del matrimonio concordatario sono disciplinate del codice civile anche nei casi in cui venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico. Detto richiamo – aggiungeva la sentenza – comporta l’applicabilità non solo della disciplina sostanziale, ma anche di quella processuale ad essa sottesa e quindi anche la possibilità di ricorrere alle disposizioni sulla revisione delle condizioni della separazione contenute nel codice di rito negli articoli 710 ss., a nulla rilevando, poi, che in occasione dell’eventuale giudi¬zio di separazione, non sia stato adottato alcun provvedimento circa il mantenimento della prole.
Ugualmente per Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1989, n. 649 la sopravvenienza, nel corso della causa di separazione dei coniugi, della delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, non priva il giudice adito del potere-dovere di adottare disposizioni in tema di affidamento, mantenimento ed educazione della prole, a norma dell’art. 155 c. c., richiamato dall’art. 129, 2° comma, c. c., e, quindi, anche a vagliare il comportamento dei coniugi, al fine di emettere detti provvedimenti in corrispondenza dell’interesse morale e materiale dei figli.
Principi analoghi sono stati affermati in Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 1985, n. 2077; Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 1984, n. 3050; Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1983, n. 5887; Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1983, n. 1553.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 25 giugno 2019, n. 17036 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei “bona matrimonii”, postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questi in effetti cono¬sciuta, o che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, atteso che, qualora le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. In quest’ambito, se, da un lato, il giudice italiano è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione anzidetta da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità, dall’altro, la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del pro¬cesso medesimo eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria; inoltre, il convincimento espresso dal giudice di merito sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell’altro costituisce, se mo¬tivato secondo un logico e corretto “iter” argomentativo, statuizione insindacabile in sede di legittimità, sebbene la prova della mancanza di negligenza debba essere particolarmente rigorosa e basarsi su circostanze oggettive e univocamente interpretabili che attestino la inconsapevole accettazione dello stato soggettivo dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2019, n. 4517 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio religioso per esclusione da parte di un coniuge di uno dei “bona” matrimoniali, postula che la divergenza unilaterale tra volon¬tà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero sia stata da questo effettivamente conosciuta o ignorata esclusivamente per sua negligenza. Ne consegue che ove tale condizione non ricorra la delibazione troverà ostacolo nella contrarietà al principio di ordine pubblico italiano di tutela della buona fede e dell’affida¬mento incolpevole.
Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2019, n. 1882 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La questione della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile non è preclusa quando l’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi – che costituisce il titolo giuridico dell’obbligo – sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell’ipotesi in cui nell’ambito di un unico giudizio la statuizione rela¬tiva allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 15 maggio 2018, n. 11808 (Famiglia e Diritto, 2019, 3, 275 nota di SANTARELLI)
Costituisce ragione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordata¬rio, la convivenza prolungata dai coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio stesso, in quanto espressiva di una volontà di accettazione del rapporto, con cui è incompatibile, quindi, l’esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge.
Cass. civ. Sez. I, 11 maggio 2018, n. 11553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti patrimoniali tra ex coniugi, nell’eventualità in cui il vincolo matrimoniale venga meno per il riconoscimento di una sua nullità originaria a seguito di sentenza della sacra Rota (dichiarata efficace nell’ordi¬namento italiano per effetto della sua conseguente delibazione), tale sopravvenienza comporta la caducazione del presupposto giustificativo dell’assegno di mantenimento disposto in sede di separazione tra i due coniugi con sentenza da parte del giudice civile, anche quando quest’ultima sia passata in cosa giudicata a pronuncia che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario tra le parti, successiva al passaggio in giudicato della sentenza di separazione, fa venir meno le statuizioni eco¬nomiche relative al rapporto tra i coniugi in essa previste poiché – a differenza di quanto avviene nel caso di precedente passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le cui statuizioni in ordine all’assegno divorzile restano efficaci in forza del principio di solidarietà post coniugale – la sentenza di separazione che stabilisce il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato trova il suo fondamento nella permanenza del vicolo coniugale e nel dovere di assistenza materiale tra coniugi sicchè, venuto meno il vincolo matrimoniale, non possono sopravvivere le statuizioni accessorie dal quale esse dipendono.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 marzo 2018, n. 5670 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, così che il secondo debba essere necessariamente sospeso, ex art. 295 c.p.c., a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, trattandosi di procedimenti autonomi, sfocianti in decisioni di natura diversa ed aventi finalità e presupposti diversi, di specifico rilievo in ordinamenti distinti.
Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2017, n. 30496 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve dichiararsi cessata la materia del contendere nel pendente giudizio di separazione personale dei coniugi, allorquando venga resa, nelle more, una pronuncia sulla delibazione della sentenza canonica che dichiari l’invali¬dità del matrimonio concordatario contratto tra le parti, riconoscendo in via definitiva effetti civili alla pronuncia del tribunale ecclesiastico.
Il passaggio in giudicato, in pendenza del giudizio di separazione personale, della sentenza che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, fa venire meno il vincolo coniugale e, quindi, fa cessare la materia del contendere in ordine alla domanda relativa alla separazio¬ne ed alle correlate statuizioni circa l’addebito e l’assegno di mantenimento richiesto in favore di uno dei coniugi.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 10 ottobre 2017, n. 23682 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La trattazione della controversia, da parte del giudice adito, con un rito diverso da quello previsto dalla legge non determina alcuna nullità del procedimento e della sentenza successivamente emessa, se la parte non deduca e dimostri che dall’erronea adozione del rito le sia derivata una lesione del diritto di difesa. (Nella specie, in appli¬cazione dell’enunciato principio, la S.C. ha dichiarato infondato il ricorso che denunciava la nullità della pronuncia di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per l’irrituale introduzione del giudizio a mezzo di ricorso, anziché con citazione, e per la mancanza nell’atto dell’avvertimento di cui all’art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c.).
Cass. civ. Sez. VI – 3, 24 maggio 2017, n. 13120 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per vari anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica ostativa alla dichiarazio¬ne di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del “matrimonio-atto”.
Nel caso in cui l’ex coniuge faccia istanza per il riconoscimento della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, la durata del matrimonio non è rilevante, né rileva la qualità del rapporto coniugale.
In tema di matrimonio, ai fini della delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, la “convivenza” tra coniugi non è necessariamente collegata ad un “buon matrimonio”, fondato su solidarietà ed affetti, ma ad un matrimonio comunque celebrato, salvo che i coniugi si siano trovati in una condizione di totale estraneità, pur coabitando, senza alcun rapporto personale o sessuale.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 19 aprile 2017, n. 9925 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di matrimonio, la convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di “ordine pubblico italiano”, la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale eccle¬siastico per qualsiasi vizio genetico del “matrimonio-atto” e detta convivenza triennale “come coniugi”, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 5 aprile 2017, n. 8800 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Esiste un limite di ordine pubblico alla declaratoria di efficacia delle sentenze emesse dai tribunali ecclesiastici sulla nullità del matrimonio celebrato con il rito concordatario, costituito dalla necessità di tutelare il c.d. “ma¬trimonio-rapporto”, cioè la convivenza matrimoniale, successiva alla celebrazione del matrimonio, intesa come vita coniugale, stabile e continua nel tempo, protratta per almeno tre anni, ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, qualun¬que ne sia il vizio.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 1 marzo 2017, n. 5250 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va cassata con rinvio alla corte d’appello in diversa composizione la decisione di merito che contraddica l’asso¬dato principio giuridico secondo cui la convivenza triennale come coniugi, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2017, n. 2486 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il P.G. presso la Corte di cassazione è legittimato, ai sensi dell’art. 72, comma 5, c.p.c., ad impugnare il provvedi¬mento di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, dovendo tale facoltà essere esercitata nel termine di cui all’art. 327 c.p.c. decorrente dal deposito della sentenza, atteso che l’art. 133 c.p.c. non prevede la comunicazione al P.M. presso il giudice “ad quem” (salva l’applicazione del termine breve nel caso in cui detta comunicazione venga comunque effettuata).
In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, l’inte¬resse del P.G. presso la Corte di cassazione all’impugnazione, ai sensi dell’art. 72, comma 2, c.p.c., sussiste nei limiti delle “causae petendi” e dei “petita” fatti valere dalle parti, nonché delle eccezioni dalle medesime solleva¬te, trattandosi di giudizio per cui è esclusa la promuovibilità da parte del pubblico ministero.
Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza stabile e duratura “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla deliba¬zione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, e deve essere opposta, a pena di decadenza, solo con la comparsa di costituzione e risposta e non anche con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. o nel giudizio di legittimità, così rispettandosi l’autonomia del coniuge convenuto, libero di proporre o meno l’eccezione, e ponendosi altresì un limite alla valutazione, al¬trimenti troppo incisiva, del giudice, rendendola opportunamente scevra da ogni forma di paternalismo. Né tale interpretazione configura un’ipotesi di cd. “overruling” tale da giustificare la rimessione in termini della parte che aveva fatto affidamento su di un diverso orientamento giurisprudenziale tutt’altro che consolidato.
La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione del¬la sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 4 ottobre 2016, n. 19811 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di matrimonio, la convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa della delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempimento di doveri ed all’assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di una eccezione in senso stretto non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Secondo il condiviso orientamento inaugurato da Cass., Sez. Un., 17 luglio 2014, n. 16379, la convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità. Ciò posto e tenuto conto dell’applicabilità nel procedimento de quo delle norme sul rito ordinario di cognizione, appare evidente che l’eccezione, proposta con comparsa di risposta depositata alla prima udienza e non nei termini previsti dell’art. 166 cod. proc. civ., deve ritenersi tardiva.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 marzo 2016, n. 5364 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che, come a più riprese segnalato tanto dal Giudice di merito quanto dalla Suprema Corte, nel caso che ne occupa è stata esclusa la non conoscibilità da parte ricorrente della condizione del coniuge, la censura veniva ritenuta infondata in ragione dell’inesistenza, nel nostro ordinamento, di un principio di ordine pubblico secondo cui il vizio che inficia il matrimonio può essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia stato viziato (nella specie, la Corte territoriale non poteva concedere delibazione alla sentenza ecclesiastica, atteso che la causa della nullità era riconducibile al coniuge che aveva chiesto la dichiarazione di nullità del matrimonio, in assenza della certezza circa la conoscenza di tale causa in capo all’altro coniuge).
Cass. civ. Sez. I, 29 gennaio 2016, n. 1749 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario contratto da uno dei coniugi per “metus reverentialis”, postula che la corte d’appello verifichi la compatibilità della qualifica¬zione canonistica della suddetta causa di nullità matrimoniale con l’ordine pubblico italiano, valutando in concre¬to che non si sia trattato di una mera “reverentia” dovuta a persona cui uno degli sposi era legato da particolare rapporto, ma unicamente di situazioni tali da integrare gli estremi della gravità, estrinsecità e decisività ai fini della formazione del consenso.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, con¬venuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardiva¬mente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, inno¬vando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stretto), che riteneva il relativo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2015, n. 18695 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione del¬la sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2015, n. 13883 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario per difet¬to di consenso, le situazioni di vizio psichico assunte dal giudice ecclesiastico come comportanti inettitudine del sog¬getto, al momento della manifestazione del consenso, a contrarre il matrimonio non si discostano sostanzialmente dall’ipotesi d’invalidità contemplata dall’art. 120 c.c., cosicché è da escludere che il riconoscimento dell’efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo in principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Pertanto, deve escludersi che il riconoscimento dell’efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo in principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Tale contrasto, in particolare, non sussiste sotto il profilo del difetto di tutela dell’affidamento della controparte, atteso che, mentre in tema di contratti la disciplina generale dell’incapacità naturale dà rilievo alla buona o ma¬lafede dell’altra parte, tale aspetto è ignorato nella disciplina dell’incapacità naturale, quale causa di invalidità del matrimonio, essendo in tal caso preminente l’esigenza di rimuovere il vincolo coniugale inficiato da vizio psichico.
Cass. civ. Sez. I, 1 luglio 2015, n. 13515 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza coniugale protrattasi per un congruo periodo di tempo (almeno 3 anni) costituisce un limite di or¬dine pubblico al riconoscimento della sentenza del Tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per vizi del consenso.
Cass. civ. Sez. I, 13 febbraio 2015, n. 2942 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 562 nota di CARBONE)
La convivenza “come coniugi” non può essere rilevata d’ufficio né eccepita dal P.M. e va pertanto riconosciuta in Italia la sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario ottenuta su concorde richiesta di entrambi i coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1790 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice italiano, investito della domanda di riconoscimento dell’efficacia della sentenza di nullità del matrimo¬nio concordatario dovuta a riserva mentale su uno dei bona matrimoni nella specie, il bonum prolis da un lato è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione anzidetta da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità, dall’altro, la relativa indagine deve essere con¬dotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del processo medesimo eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integra¬zione dell’attività istruttoria.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1788 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza coniugale, che si sia protratta per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio con¬cordatario, crea una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di ordine pubblico italiano, che sono fonti di diritti inviolabili, doveri inderogabili, responsabilità, anche genitoriali, ed aspettative legittime tra i componenti della famiglia. Non può pertanto essere dichiarata efficace nella Repubblica Italiana la sentenza definitiva di nullità di matrimonio pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico per contrarietà all’ordine pubblico interno italiano. La relativa eccezione deve però essere sollevata dalla parte a pena di decadenza nel giudizio di delibazione ed entro i termini previsti per proporre le eccezioni non rilevabili d’ufficio.
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1622 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza coniugale, che si sia protratta per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio con¬cordatario, crea una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di ordine pubblico italiano, che sono fonti di diritti inviolabili, doveri inderogabili, responsabilità, anche genitoriali, ed aspettative legittime tra i componenti della famiglia. Non può pertanto essere dichiarata efficace nella Repubblica Italiana la sentenza definitiva di nullità di matrimonio pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico per contrarietà all’ordine pubblico interno italiano. La relativa eccezione deve però essere sollevata dalla parte a pena di decadenza nel giudizio di delibazione ed entro i termini previsti per proporre le eccezioni non rilevabili d’ufficio.
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1620 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La declaratoria di esecutività della sentenza del Tribunale ecclesiastico che abbia pronunciato la nullità del ma¬trimonio concordatario per esclusione, da parte di un coniuge, di uno dei bona matrimonii postula che tale di¬vergenza sia stata manifestata all’altro coniuge ovvero che questi l’abbia effettivamente conosciuta o che poteva conoscerla, atteso che, ove non ricorra alcuna di tali situazioni, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà con l’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole.
Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2015, n. 1494 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 563 nota di CARBONE)
Il riconoscimento della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario chiesta dal marito va respinta se la moglie eccepisce la convivenza coniugale durata oltre 12 anni.
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1621 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 563 nota di CARBONE)
Il riconoscimento della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario chiesta dal marito va respinta se la moglie eccepisce la convivenza coniugale durata oltre i 3 anni.
Cass. civ. Sez. I, 13 febbraio 2015, n. 2942 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 563 nota di CARBONE)
La convivenza “come coniugi” non può essere rilevata d’ufficio né eccepita dal P.M. e va pertanto riconosciuta in Italia la sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario
Cass. civ. Sez. I, 1 aprile 2015, n. 6611 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 563 nota di CARBONE)
La convivenza “come coniugi” non può essere rilevata d’ufficio né eccepita dal P.M. e va pertanto riconosciuta in Italia la sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario chiesta dal marito, mentre la moglie non si è costituita e non quindi ha tempestivamente eccepito la convivenza coniugale.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16380 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “come coniugi” deve intendersi quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, che si ma¬nifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, riconoscibile esteriormente attraverso specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili e di responsabilità, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. In tal modo intesa, la con¬vivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitu¬tiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di “ordine pubblico italiano” e , pertanto, anche in applicazione dell’art. 7, primo comma, Cost. e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa – ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 (in particolare, dell’art. 8, numero 2, lett. c, dell’Accordo e del punto 4, lett. b, del Protocollo addizionale), e dell’art. 797, primo comma, n. 7, c.p.c. – alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesia¬stico nell’«ordine canonico» nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.
La convivenza “come coniugi”, come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, ed in quanto connotata da una “complessità fattuale” strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempi¬mento di doveri ed all’assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, deve qualificarsi sic¬come eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di deli¬bazione né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità – dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta -, potendo invece essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la de¬duzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva. Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un’apposita istruzione probatoria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della deliba¬zione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo, fermo restando comunque il controllo del giudice di legittimità secondo le speciali disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale, i normali parametri previsti dal codice di procedura civile ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.
La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione del¬la sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Trattandosi, peraltro, di situazione giuridica complessa, fondata su fatti e comportamenti specifici e rilevanti, essa può essere fatta valere solo dal coniuge convenuto, non essendo rilevabile d’ufficio.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “come coniugi” deve intendersi quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, che si ma¬nifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, riconoscibile esteriormente attraverso specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili e di responsabilità, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. In tal modo intesa, la con¬vivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitu¬tiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di “ordine pubblico italiano” e , pertanto, anche in applicazione dell’art. 7, primo comma, Cost. e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa – ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 (in particolare, dell’art. 8, numero 2, lett. c, dell’Accordo e del punto 4, lett. b, del Protocollo addizionale), e dell’art. 797, primo comma, n. 7, c.p.c. – alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesia¬stico nell’«ordine canonico» nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.
La convivenza “come coniugi”, come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, ed in quanto connotata da una “complessità fattuale” strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempi¬mento di doveri ed all’assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, deve qualificarsi sic¬come eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di deli¬bazione né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità – dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta -, potendo invece essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la de¬duzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva. Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un’apposita istruzione probatoria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della deliba¬zione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo, fermo restando comunque il controllo del giudice di legittimità secondo le speciali disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale, i normali parametri previsti dal codice di procedura civile ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.
La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione del¬la sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Trattandosi, peraltro, di situazione giuridica complessa, fondata su fatti e comportamenti specifici e rilevanti, essa può essere fatta valere solo dal coniuge convenuto, non essendo rilevabile d’ufficio.
Cass. civ. Sez. I, 18 settembre 2013, n. 21331 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio non produce alcun effetto di caducazione delle statuizioni contenute nella precedente sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio relative all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile, ove su tali statuizioni si sia formato il giudicato, ai sensi dell’art. 324 cod. proc. civ. non costituendo in se stessa un “giustificato motivo” sopraggiunto, legittimante, ai sensi dell’art. 9, comma primo, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, la revisione del provvedi¬mento economico contenuto nella sentenza di divorzio.
L’assegno divorzile ha come presupposti: a) l’accertamento dell’impossibilità della continuazione della comu¬nione spirituale e morale fra i coniugi che comporta lo scioglimento del vincolo matrimoniale civile (o la dichia¬razione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario), b) l’accertamento del diritto di uno dei due coniugi al mantenimento di un livello di vita, assimilabile a quello goduto nel corso del matrimonio, che può essergli garantito solo con il contributo economico dell’altro coniuge. E’ quindi da escludere che il titolo giuridico fondante l’obbligo del mantenimento del coniuge sia costituito nel diritto italiano dalla validità del matrimonio mentre invece deve ritenersi che esso trova il suo fondamento nella pregressa esistenza di un rapporto coniugale di cui è stato dichiarato lo scioglimento. Per altro verso la declaratoria di nullità ex tunc del vincolo matrimoniale non fa cessare lo status di divorziato trattandosi di uno status inesistente in quanto la pronuncia di divorzio de¬termina la riacquisizione dello stato libero.
Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2013, n. 17094 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il passaggio in giudicato, in pendenza del giudizio di separazione dei coniugi, della sentenza che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, fa venire meno il vincolo coniugale e, quindi, fa cessare la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione perso¬nale e alle correlate statuizioni circa l’addebito e l’assegno di mantenimento, adottate nel processo e non ancora divenute intangibili, le quali presuppongono l’esistenza e la validità del matrimonio e del conseguente vincolo.
A seguito, infatti, del passaggio in giudicato della sentenza che ha reso esecutiva nello Stato la pronuncia ec¬clesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, è venuto meno il vincolo coniugale e, quindi, è cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione personale e segnatamente alle correlate statuizioni in ordine all’addebito ed all’assegno di mantenimento, adottate nel corso del processo e non ancora divenute intangibili, le quali presuppongono l’esistenza e la validità del matrimonio e del conseguente vincolo (in tema, cfr cass. n. 2600 del 2010; n. 399 del 2010; n. 10033 del 2004) e che restano travolte e ca¬ducate dalla sopravvenienza (cfr cass. SU n. 1048 del 2000), la quale, data anche la natura della controversia, giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2013, n. 4647 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Si ritiene che sussista un contrasto tra la giurisprudenza della Corte di Cassazione e il giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio in considerazione della rilevanza ultrannuale della coabitazione dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio sicché si ritiene necessario l’assegnazione di tutte le questioni connesse alla violazione dell’ordine pubblico interno, al modo di intendere la coabitazione materiale di cui agli artt. 120 e 122 del codice civile, ai vizi del consenso e agli obblighi reciproci tra i coniugi di cui all’art. 148 del ridetto codice alle Sezioni Unite della Cassazione affinché vi facciano chiarezza.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2013, n. 712 (Nuova Giur. Civ., 2013, 4, 368 nota di QUADRI)
Deve essere rimessa alle sezioni unite la composizione del contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di delibare la sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal tribunale ecclesiastico in caso di convivenza protratta nel tempo.
Sussiste contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di delibare la sentenza di annullamento del matri¬monio, emessa dal tribunale ecclesiastico, dove l’unione abbia avuto lunga durata e si sia dunque protratta nel tempo: la questione va quindi rimessa alle Sezioni Unite (contrasto di giurisprudenza: per Cass. Civ. 1343/2011, il fatto che il matrimonio si sia protratto per lunga durata osta alla delibazione dell’eventuale sentenza di annul¬lamento; per Cass civ. 8926/2012, può essere affermato, invece, un generale principio di irrilevanza, ai fini della delibazione, della durata della convivenza).
In relazione alla delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, si possono re¬gistrare due orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Ed infatti, se, da un lato, si ritiene che la prolungata convivenza tra i coniugi rappresenti condizione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, in quanto ciò esprimerebbe la volontà di accettazione del rapporto proseguito, con¬fliggente con l’esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione adducendo riserva mentale risalente al tempo delle nozze, dall’altro lato, si afferma che la prolungata convivenza dei coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, non è condizione ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico che deve, pertanto essere consentita in difformità dall’art. 123, comma 2, c.c. in tema di impugnazione del matrimonio per simulazione. Ciò perché, tale norma, pur avendo carattere imperativo, non configura espressione di principi e regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, con la conseguenza che l’indicata difformità non pone la pronuncia ecclesiastica in contrasto con l’ordine pubblico italiano. Ciò premesso, atteso che, nel caso in esame, si è riproposto tale contrasto giurisprudenziale relativo alla possibilità di ravvisare o meno nella prolungata con¬vivenza tra i coniugi una causa ostativa alla delibazione della sentenza di nullità del matrimonio, si è ritenuto opportuno rimettere alle Sezioni Unite la composizione del predetto contrasto, con tutte le questioni originatesi dalle sopra menzionate opzioni interpretative e allo stato irrisolte.
Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio ha “causa petendi” e “petitum” diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio concordatario, investendo il matrimonio-rapporto e non l’atto con il quale è stato costituito il vincolo tra i coniu¬gi, per cui se, nel relativo giudizio, non sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio – con il conseguente insorgere delle questioni poste dalla statuizione contenuta nell’art. 8, comma secondo, lett. c), dell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra Stato italiano e Santa Sede – non è impedita la delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impe¬gni assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi.
Il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio non osta alla successiva delibazione della sentenza ecclesia¬stica di nullità del matrimonio contratto dalle stesse parti.
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2012, n. 9844 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario la convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio e non la semplice durata del matrimonio medesi¬mo, in quanto l’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese “favor” per la validità del matrimonio, inteso come matrimonio-rapporto, fondato sulla convivenza dei coniugi; è, pertanto, irrilevante in sé la mera durata ventennale dello stesso, laddove non sia dedotta e provata, nella fase di delibazione della sentenza ec¬clesiastica (nella specie, di nullità del matrimonio concordatario per grave difetto di discrezione di giudizio del marito), l’effettiva convivenza dei coniugi nello stesso periodo.
Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 2012, n. 8926 (Famiglia e Diritto, 2013, 1, 21 nota di IANNACCONE)
La convivenza tra i coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, per quanto prolungata, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
In tema di delibazione delle sentenze del tribunale ecclesiastico, la convivenza dei coniugi (nella specie protrat¬tasi per oltre trent’anni) successiva alla celebrazione del matrimonio non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l’istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1780 (Famiglia e Diritto, 2012, 11, 1000 nota di IPPOLITI MARTINI)
In materia di situazioni invalidanti l’atto-matrimonio, la successiva convivenza prolungata è da considerare espressiva della volontà di accettazione del matrimonio-rapporto che ne è seguito, sempre che, dopo il matrimo¬nio nullo, tra i coniugi si sia instaurato un vero consorzio familiare e affettivo, con superamento implicito della causa originaria di invalidità. In tale ricostruzione interpretativa, il limite di ordine pubblico postula, pertanto, che non di mera coabitazione materiale sotto lo stesso tetto si sia trattato, – che nulla aggiungerebbe ad una situazione di mera apparenza del vincolo – bensì di vera e propria convivenza significativa di un’instaurata “af¬fectio familiae”, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci – per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.) – tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto.
Cass. civ. Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 21968 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In sede di delibazione della sentenza di nullità del tribunale ecclesiastico non è applicabile la legge 218/1995 ma gli artt. 796 e 797 c.p.c. e ciò per effetto del richiamo ai detti articoli contenuto nell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense, reso esecutivo con L. 25 marzo 1985, n. 121, e gerarchicamente sovraordinato alla legge ordinaria in virtù del principio concordatario accolto dall’art. 7 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19585 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’abrogazione degli artt. 796 e 797 c.p.c., sancita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 73, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, non è idonea, in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta, a spiegare efficacia sulle disposizioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985, n. 121).
Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2011, n. 15558 (Foro It., 2011, 11, 1, 3005)
La dichiarazione di esecutività della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario non determina la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divorzio, per quanto concerne i provvedimenti che il giudice è chiamato ad adottare in ordine all’affidamento, alle modalità e misura del contributo al mantenimento dei figli minori.
Resa esecutiva la sentenza della giurisdizione ecclesiastica dichiarativa degli effetti civili del matrimonio, non viene meno il potere-dovere del giudice di adottare i provvedimenti riguardo ai figli e rimane ferma la possibilità per i coniugi di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti la misura e le modalità del contributo.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2011, n. 1343 (Famiglia e Diritto, 2011, 3, 235 nota di CARBONE)
Non può essere delibata la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario quando la convivenza tra i coniugi si è protratta per lunghi anni o, comunque, per un periodo di tempo considerevole in quanto una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo è contrario ai principi di “ordine pubblico” rimetterlo in discussione adducendo riserve mentali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze.
I giudici italiani non possono procedere alla delibazione in Italia della sentenza ecclesiastica di nullità del matri¬monio concordatario quando la convivenza tra i coniugi si è protratta per lunghi anni o, comunque, per un periodo di tempo considerevole. Questo perché una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo è contrario ai principi di “ordine pubblico” rimetterlo in discussione adducendo riserve mentali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza 1343/2011, accogliendo il ricorso di una moglie che si era opposta alla domanda dell’ex marito volta a far delibare in Italia la nullità, dichiarata dalla Sacra Rota, del loro matrimonio durato venti anni. Secondo i giudici di legittimità, dopo la celebrazione delle nozze, la succes¬siva prolungata convivenza è considerata espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito.
La sentenza resa da un Tribunale ecclesiastico ed avente ad oggetto la nullità del matrimonio, fondata sul rifiuto di procreazione non manifestato da uno dei coniugi prima del matrimonio, è contraria alla nozione di ordine pubblico e non può quindi essere delibata nell’ordinamento italiano alla luce dell’esistenza di una convivenza particolarmente prolungata fra i coniugi dopo il matrimonio, che è espressione di una volontà di accettazione del rapporto matrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, così che il secondo debba essere necessariamente sospeso, ex art. 295 cod. proc. civ., a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, trat¬tandosi di procedimenti autonomi, sfocianti in decisioni di natura diversa ed aventi finalità e presupposti diversi, di specifico rilievo in ordinamenti distinti. Nè rileva che le norme sul giudizio di delibazione, di cui agli artt. 796 e 797 cod. proc. civ., siano state abrogate dall’art. 73 della legge n. 218 del 1995, poichè tale abrogazione, in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta, non è idonea a spiegare efficacia sulle disposi¬zioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 ottobre 1984 e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121), disposizioni le quali – con riferimento alla dichiarazione di efficacia, nella Repubblica italiana, delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribu¬nali ecclesiastici – contengono un espresso richiamo agli artt. 796 e 797 cod. proc. civ., e risultano connotate, in forza del principio concordatario accolto dall’art. 7 Cost. (che implica la resistenza all’abrogazione di norme pattizie, perciò suscettibili di modifica, in difetto di accordo delle parti contraenti, solo con leggi costituzionali), da una vera e propria ultrattività.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2010, n. 2600 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In applicazione dell’art. 2909 c.c. fa stato tra le parti con l’efficacia della cosa giudicata, la delibazione della sentenza di annullamento del vincolo matrimoniale che intervenga in data anteriore alla pronuncia di divorzio (anche se il giudizio ecclesiastico di nullità matrimoniale sia stato intrapreso successivamente al procedimento di divorzio). Quest’ultima infatti, presupponendo tanto la validità del matrimonio quanto la sussistenza del vincolo ad esso conseguente si porrebbe in contrasto con la delibazione di annullamento che, al contrario, sancisce (in via definitiva se non impugnata) tanto l’invalidità del matrimonio quanto, conseguentemente, l’insussistenza del vincolo. Per quanto osservato, quindi, la delibazione travolge tanto la sentenza di divorzio, eventualmente pro¬nunciata in epoca successiva al suo passaggio in giudicato, quanto le statuizioni economiche in essa contenute e ad essa conseguenti.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2010, n. 399 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il passaggio in giudicato, in pendenza del giudizio di separazione dei coniugi, della sentenza che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità canonica del matrimonio concordatario contratto dalle parti, fa venir meno il vincolo coniugale, e quindi anche il potere-dovere del giudice di statuire in ordine all’assegno di mantenimento, trovando applicazione la disciplina del matrimonio putativo di cui agli artt. 128, 129 e 129 – bis cod. civ. (richiamati dall’art. 18 della legge 27 maggio 1929, n. 847) con la conseguenza che, qualora il giudicato sia intervenuto dopo la pubblicazione della sentenza d’appello, è inammissibile il ricorso per cassazione, restando travolte le decisioni adottate in argomento nei precedenti gradi di giudizio.
Cass. civ. Sez. Unite, 18 luglio 2008, n. 19809 (Foro It., 2008, 11, 1, 3130)
Non possono delibarsi le sole sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale contraddistinte da incompatibilità assoluta con l’ordine pubblico italiano, vale a dire fondate su fatti che attribuiscono giuridico significato a valori in alcun modo rilevanti nell’ordinamento statuale, mentre è possibile la delibazione in caso di incompatibilità relativa, che sussiste allorché la divergenza con le norme ed i principi inderogabili interni delle statuizioni conte¬nute nella pronuncia ecclesiastica possa superarsi con l’individuazione in quest’ultima, da parte del giudice della delibazione, tenendo conto della specificità dell’ordinamento canonico, e fermo che non può procedersi ad un riesame di merito di quella pronuncia, di una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne con effetti simili, e conforme ai valori e principi essenziali della coscienza sociale, desunti dalle fonti normative costituzionali e dalle norme matrimoniali inderogabili (è pertanto assolutamente incompatibile con il diritto interno la sentenza eccle¬siastica che attribuisce rilevanza – quale vizio del consenso matrimoniale – a motivi appartenenti al foro interno dei coniugi e a valori metagiuridici, e non fondati su circostanze obiettive ed esteriorizzate).
Venuta meno la riserva di giurisdizione in materia di nullità di matrimoni concordatari per i giudici ecclesiastici, per le Corti d’appello la delibazione non è più automatica o obbligatoria, dovendo esse valutare se i fatti accertati con effetto di giudicato in sede canonica varchino o meno la soglia-limite che impone l’ordine pubblico.
Occorre distinguere le incompatibilità delle sentenze di cui si chiede l’esecutività in Italia con l’ordine pubblico interno in “assolute” e “relative”. Tali incompatibilità, di regola, ostano all’esecuzione in Italia delle sentenze di altri ordinamenti in materia matrimoniale, ma hanno diversa rilevanza per il riconoscimento degli effetti di quelle canoniche, in base al protocollo addizionale del 1984. La incompatibilità con l’ordine pubblico interno delle sentenze di altri ordinamenti è “assoluta”, allorché i fatti a base della disciplina applicata nella pronuncia di cui è chiesta la esecutività e nelle statuizioni di questa, anche in rapporto alla causa petendi della domanda accolta, non sono in alcun modo assimilabili a quelli che in astratto potrebbero avere rilievo o effetti analoghi in Italia. L’incompatibilità con l’ordine pubblico interno va qualificata invece “relativa”, quando le statuizioni della sentenza ecclesiastica, eventualmente con la integrazione o il concorso di fatti emergenti dal riesame di essa ad opera del giudice della delibazione, pure se si tratti di circostanze ritenute irrilevanti per la decisione canonica, possano fare individuare una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne con effetti simili. Impediscono l’esecutività in Italia della sentenza “ecclesiastica” solo le incompatibilità assolute, potendosi superare quelle relative, per il peculiare rilievo che lo Stato italiano si è impegnato con la Santa Sede a dare a tali pronunce.
Non appare condivisibile, alla luce della distinzione enunciata tra cause di incompatibilità assoluta e relativa delle sentenze di altri ordinamenti con l’ordine pubblico interno, qualificare come relative quelle delle pronunce di annullamento canonico intervenute dopo molti anni di convivenza o coabitazione dei coniugi, ritenendo l’impedi¬mento a chiedere l’annullamento di cui sopra mera condizione di azionabilità, da considerare esterna e irrilevante come ostacolo d’ordine pubblico alla delibazione.
Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2008, n. 3186 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario passata in giudicato non impedisce la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, sempre che le parti nel giudizio di divorzio non abbiano introdotto esplicitamente questioni concernenti l’esistenza e la validità del vincolo. La di¬chiarazione di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica non travolge, tuttavia, il capo della sentenza relativo all’assegno di mantenimento.
La statuizione che accerti la spettanza dell’assegno divorzile, una volta passata in giudicato è intangibile anche in caso di successiva delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili del matrimonio concor¬datario venga accertata la spettanza, a una delle parti, dell’assegno di divorzio, e una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’articolo 2909 del c.c. anche nel caso in cui successivamente a essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
La norma dell’art. 8, comma 2, lettera b), della legge 25 marzo 1985, n. 121, che indica le condizioni alle quali possono essere dichiarate efficaci in Italia le sentenze di nullità dei matrimoni concordatari emesse dai tribunali ecclesiastici, va interpretata nel senso che sussiste una violazione del diritto delle parti di agire e resistere in giudizio solo in presenza di una compressione della difesa negli aspetti e requisiti essenziali garantiti dall’ordi¬namento dello Stato; ne consegue che, non essendo quello della immodificabilità della domanda un principio dell’ordinamento processuale dello Stato coessenziale al diritto di difesa, non vi sono ostacoli alla dichiarazione di efficacia di una sentenza ecclesiastica nella quale sia stata dichiarata la nullità del matrimonio per una ragione diversa da quella originariamente prospettata, ove la Corte d’appello abbia accertato che sulla domanda modifi¬cata vi sia stata la garanzia del contraddittorio.
Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2005, n. 11793 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”; tuttavia, la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 e successive modificazioni, dal giudice da tale norma previsto, e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni. Da tanto consegue che l’”ex” coniuge tenuto, in forza della sentenza di divorzio, alla somministrazione periodica dell’assegno divorzile, il quale abbia ricevuto la notifica di atto di precetto con l’intimazione di adempiere l’obbligo risultante dalla predetta sentenza, non può – in assenza di revisione, ai sensi del citato art. 9 della legge n. 898 del 1970, delle disposizioni concernenti la misura dell’assegno di divorzio da corrispondere all’”ex” coniuge – dedurre la sopravvenienza del fatto nuovo, in ipotesi suscettibile di determinare la modifica dell’originaria statuizione contenuta nella sentenza di divorzio, nel giudizio di opposizione a precetto, essendo del pari da escludere che il giudice di questa opposizione debba rimettere la causa al giudice competente “ex” art. 9 della legge n. 898 del 1970. (Nella specie l’obbligato, proponendo oppo¬sizione a precetto, aveva contestato il diritto dell’”ex” coniuge a procedere ad esecuzione forzata sostenendo che il diritto alla corresponsione periodica dell’assegno, al cui pagamento egli era stato condannato con la sentenza di divorzio, era venuto meno a seguito del passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello che aveva di¬chiarato efficace in Italia la pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario celebrato tra i coniugi).
Cass. civ. Sez. I, 4 marzo 2005, n. 4795 (Famiglia e Diritto, 2006, 1, 30 nota di VANZ)
La sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario passata in giudicato non impedisce la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, sempre che le parti nel giudizio di divorzio non abbiano introdotto esplicitamente questioni concernenti l’esistenza e la validità del vincolo. La di¬chiarazione di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica non travolge, tuttavia, il capo della sentenza relativo all’assegno di mantenimento.
La statuizione che accerti la spettanza dell’assegno divorzile, una volta passata in giudicato è intangibile anche in caso di successiva delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili del matrimonio concor¬datario venga accertata la spettanza, a una delle parti, dell’assegno di divorzio, e una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’articolo 2909 del c.c. anche nel caso in cui successivamente a essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Cass. civ. Sez. III, 6 agosto 2004, n. 15165 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora, nel corso del giudizio di separazione personale dei coniugi, venga resa esecutiva la sentenza eccle¬siastica dichiarativa della nullità del matrimonio, cessa la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione personale, ma non viene meno il provvedimento presidenziale adottato in precedenza dal giudice della separazione ex art. 708 c.p.c. relativo al contributo al mantenimento dei figli, che conserva la sua efficacia finché non viene sostituito.
Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 2003, n. 10055 (Famiglia e Diritto, 2004, 82)
Il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell’efficacia, nell’ordinamento dello Stato, della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, determinando il venir meno del vincolo coniugale, travolge ogni ulteriore controversia trovante nell’esistenza e nella validità del matrimonio il proprio presupposto, e quindi comporta la cessazione della materia del contendere nel processo di divorzio che sia stato instaurato successiva¬mente alla introduzione del procedimento diretto al riconoscimento della sentenza ecclesiastica.
Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2003, n. 3339 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, l’accertamento della conoscenza o conoscibilità del fatto (nella specie: apposizione, da parte di un coniuge, di una condizione al matrimonio at¬tinente alla determinazione della residenza familiare) che ha determinato la mancanza o il vizio del consenso matrimoniale da parte di un coniuge, il giudice della delibazione è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità di tale esclusione da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, rispetto al giudice ecclesiastico, anche se la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alle sentenze ecclesiastiche e agli atti del processo canonico eventualmente prodotti, non potendosi fare luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria.
Cass. civ. Sez. I, 13 settembre 2002, n. 13428 (Famiglia e Diritto, 2003, 1, 76)
Per effetto della delibazione, da parte della Corte d’appello, di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, la regolamentazione dell’affidamento dei figli minori e del loro mantenimento trova fondamento nelle norme dettate in tema di matrimonio putativo, con la conseguenza che, richiamando l’art. 129 (che disci¬plina, appunto, i rapporti tra coniugi in caso di matrimonio putativo) il successivo art. 155 c.c. deve ritenersi legittimo il provvedimento di assegnazione della casa coniugale al genitore affidatario dei figli minori, a prescin¬dere dalla circostanza che proprietario della stessa risulti il coniuge non affidatario.
Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2001, n. 4202 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concor¬datario venga accertata la spettanza, ad una delle parti, dell’assegno di divorzio, ed una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’art. 2909 c.c. anche nel caso in cui successivamente ad essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 18 aprile 1997, n. 3345 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In seguito al venir meno della riserva della giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità del matrimonio con¬cordatario, il giudicato di divorzio implica un accertamento incidenter tantum della validità del vincolo e pertanto non resta travolto dalla successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità.
Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2728 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le condizioni per l’affidamento ed il mantenimento della prole, a seguito di nullità del matrimonio concordatario pronunciata dal tribunale ecclesiastico e delibata in Italia, sono disciplinate dall’art. 155 c.c., atteso che l’art. 18 della l. 27 maggio 1929 n. 847 – tuttora in vigore, anche a seguito dell’accordo del 18 febbraio 1984 di modifica del Concordato lateranense – dichiara applicabili le norme sul matrimonio putativo del codice civile anche nei casi in cui venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico. Detto richiamo, peraltro, comporta l’applicabilità non solo della disciplina sostanziale, ma anche di quella processuale ad essa sottesa e quindi anche la possibilità di ricorrere alle disposizioni sulla revisione delle condizioni della separazione contenute nel codice di rito negli articoli 710 ss., a nulla rilevando, poi, che in occasione dell’eventuale giudizio di separazione, non sia stato adottato alcun provvedimento circa il manteni¬mento della prole.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1989, n. 649 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sopravvenienza, nel corso della causa di separazione dei coniugi, della delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, non priva il giudice adito del potere-dovere di adottare disposizioni in tema di affidamento, mantenimento ed educazione della prole, a norma dell’art. 155 c. c. richiamato dall’art. 129, 2° comma, c. c., e, quindi, anche a vagliare il comportamento dei coniugi, al fine di emettere detti provve¬dimenti in corrispondenza dell’interesse morale e materiale dei figli.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4700 (Dir. Famiglia, 1988, 1655 nota di DALL’ONGARO)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1, legge 27 maggio 1929, n. 810 e 17, l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultati a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi es¬sere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che quella nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4701 (Giust. Civ., 1988, I, 1935)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1, legge 27 maggio 1929, n. 810 e 17, l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultati a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi es¬sere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che quella nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4702 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1, legge 27 maggio 1929, n. 810 e 17, l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultati a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi es¬sere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che quella nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4703 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1, legge 27 maggio 1929, n. 810 e 17, l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultati a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi es¬sere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che quella nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 1988, n. 192 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 123 2° comma c. c., il quale esclude la deducibilità della simulazione del matrimonio quando i coniugi, dopo la celebrazione, abbiano convissuto in comunione materiale e spirituale, risponde ad un valore essenziale e fondamentale dell’ordinamento interno, rivolto a tutelare la stabilità conseguita con il matrimonio-rapporto, indi¬pendente dal vizio del matrimonio-atto; pertanto, con riguardo a sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione di un bonum matrimonii, il giudice della delibazione, cui risulti detta convivenza, deve negare l’esecutività in Italia, sotto il profilo del contrasto con l’ordine pubblico (nella specie, nella disciplina anteriore alle modificazioni del concordato con la Santa Sede introdotte dagli ac¬cordi di Roma del 18 febbraio 1984, resi esecutivi con l. 25 marzo 1985, n. 121).
Cass. civ. Sez. I, 3 luglio 1987, n. 5823 (Foro It., 1988, I, 474 nota di QUADRI)
Non può essere delibata, in quanto contraria all’ordine pubblico italiano, la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio fondata sull’esclusione del bonum prolis da parte di uno dei coniugi, se vi sia stata convivenza suc¬cessivamente alla celebrazione.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5358 (Foro It., 1988, I, 474 nota di QUADRI)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concor¬datario per esclusione del bonum matrimonii, nella disciplina di cui agli art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 810 e 17 l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultanti a seguito della pronuncia della corte costituzionale n. 18 del 1982) un contrasto con l’ordine pubblico ostativo alla delibazione stessa, deve essere negato nel caso in cui la sentenza medesima non tenga conto delle disposizioni dell’art. 123, 2° comma, c. c., circa la non deducibilità della simu¬lazione del matrimonio dopo il decorso di un anno dalla celebrazione, trattandosi di diversità dell’ordinamento interno, rispetto a quello canonico, che non investe i principi e le regole fondamentali con le quali la costituzione e le leggi dello stato delineano l’istituto del matrimonio, mentre deve essere affermato nel caso in cui quella sentenza non tenga conto della citata disposizione dell’art. 123 per il verificarsi della convivenza dei coniugi suc¬cessivamente alla celebrazione, atteso che l’instaurazione del matrimonio-rapporto, con la pienezza della convi¬venza morale e materiale dei coniugi, quale ragione preclusiva ad ogni possibilità di far valere vizi simulatori del matrimonio-atto, va annoverata nell’ambito delle suddette regole e principi essenziali dell’ordinamento statuale.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5354 (Foro It., 1988, I, 474 nota di QUADRI)
È contraria al principio dell’ordine pubblico e non può essere delibata dal giudice italiano la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per esclusione di un bonum matrimonii qualora ci sia stata convivenza tra i coniugi dopo la celebrazione, convivenza che, intesa come comunione spirituale e materiale, esclude ogni rilevanza del vizio simulatorio.
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concor¬datario per esclusione del bonum matrimonii, nella disciplina di cui agli art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 810 e 17 l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultanti a seguito della pronuncia della corte costituzionale n. 18 del 1982) un contrasto con l’ordine pubblico ostativo alla delibazione stessa, deve essere negato nel caso in cui la sentenza medesima non tenga conto delle disposizioni dell’art. 123, 2° comma, c. c., circa la non deducibilità della simu¬lazione del matrimonio dopo il decorso di un anno dalla celebrazione, trattandosi di diversità dell’ordinamento interno, rispetto a quello canonico, che non investe i principi e le regole fondamentali con le quali la costituzione e le leggi dello stato delineano l’istituto del matrimonio, mentre deve essere affermato nel caso in cui quella sentenza medesima non tenga conto della citata disposizione dell’art. 123 per il verificarsi della convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione, atteso che l’instaurazione del matrimonio-rapporto, con la pienezza della convivenza morale e materiale dei coniugi, quale ragione preclusiva ad ogni possibilità di far valere vizi simulatori del matrimonio-atto, va annoverata nell’ambito delle suddette regole e principi essenziali dell’ordina¬mento statuale.
Cass. civ.Sez. I, 23 marzo 1985, n. 2077 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il matrimonio nullo, il quale debba considerarsi contratto in buona fede da almeno uno dei coniugi, in applicazio¬ne del principio generale secondo il quale la buona fede si presume fino a prova contraria (principio fissato per il possesso dall’art. 1147 c. c., ma applicabile a tutti i negozi giuridici), spiega gli effetti del matrimonio valido nei confronti, oltre che di detto coniuge, dei figli (art. 128, 3° comma c. c. sul cosiddetto matrimonio putativo); pertanto, con riguardo a figli naturali riconosciuti e legittimati per susseguente matrimonio, il cui status venga posto in discussione al fine di sostenerne la esclusione da delazione ereditaria, resta irrilevante la deduzione di ragioni di nullità del matrimonio medesimo, quando non si affermi e dimostri la mala fede di entrambi i coniugi, poiché, in difetto di tale allegazione e dimostrazione, l’eventuale nullità del rapporto matrimoniale non è comun¬que idonea ad escludere gli effetti a norma del cit. art. 128 del matrimonio valido in favore dei predetti figli.
Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 1984, n. 3050 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza a provvedere sull’affidamento e sul mantenimento dei figli minori, a seguito di pronunzia di nullità del matrimonio concordatario resa dal tribunale ecclesiastico con sentenza dichiarata esecutiva in Italia ai sensi dell’art. 17 l. 27 maggio 1929, n. 847, spetta al tribunale ordinario, non al tribunale per i minorenni, qualora i richiesti provvedimenti non incidano, in senso negativo o limitativo, sulla potestà dei genitori.
Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1983, n. 5887(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nullità del matrimonio concordatario fra i coniugi, dichiarata con sentenza definitiva del tribunale ecclesiastico e resa esecutiva agli effetti civili con ordinanza della corte d’appello, non determina la cessazione della materia del contendere nel procedimento di appello pendente per ottenere la modificazione del contributo dovuto da uno degli ex coniugi per il mantenimento dei figli fissato in sede di omologazione della separazione consensuale e la revoca del sequestro ex art. 156, ultimo comma, c. c.; ed invero la pronuncia di nullità del matrimonio non modifica sostanzialmente il regime giuridico quanto ai provvedimenti nei confronti dei figli, atteso che l’art. 129 c. c. stabilisce che, in caso di pronuncia di nullità del matrimonio, si applica, per tali provvedimenti, l’art. 155 c. c.; è invece nullità irrilevante la circostanza che l’adeguamento rifletta, nel giudizio di merito, un assegno di mantenimento che gli ex coniugi avevano stabilito in sede di separazione consensuale, poiché la legge di riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151) ha attribuito al giudice il potere di rivedere in ogni tempo la misura e le modalità del contributo degli ex coniugi per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli, anche dopo la sentenza che dichiara la nullità del matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1983, n. 1553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza a conoscere la domanda di revisione delle disposizioni relative all’affidamento dei figli adottate dal giudice civile in sede di separazione, di scioglimento o di nullità del matrimonio spetta al tribunale ordinario, e non al tribunale per i minorenni.
Cass. civ. Sez. Unite, 1 ottobre 1982, n. 5026 (Foro It., 1982, I, 2799 nota di LARICCIA)
La sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità di un matrimonio concordatario per l’esclusione del bonum sacramenti da parte di uno degli sposi contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano, e quindi non può essere dichiarata esecutiva ai sensi dell’art. 1 l. n. 810/1929 e dell’art. 17 l. n. 847/1929, quali risultano dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza corte cost. n. 18 del 1982, se l’esclusione sia rimasta nella sfera psichica del suo autore; non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano, e quindi può essere dichiarata esecutiva, ai sensi delle norme citate, se l’esclusione sia stata manifestata all’altro coniuge, tanto se costui si sia limitato a prenderne atto, quanto se abbia positivamente consentito a tale diffor¬mità fra volontà e dichiarazione.
Corte cost. 2 febbraio 1982, n. 18 (Giur. It., 1982, I,1, 965 nota di FINOCCHIARO)
Il principio della sovranità dello stato, affermato nell’art. 1, 2° comma cost., e quello della sua sovranità e in¬dipendenza nei confronti della chiesa cattolica, di cui all’art. 7, 1° comma della stessa costituzione, implicanti la tutela dell’ordine pubblico, al pari del diritto alla tutela giurisdizionale, sancito dall’art. 24 della corte, vanno ascritti nel novero dei princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale e, perciò, deve essere dichiarata l’illegitti¬mità costituzionale dell’art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 810, limitatamente all’esecuzione data al 6° comma dell’art. 34 del concordato, nonché dell’art. 17, 2° comma, l. 27 maggio 1929, n. 847, nella parte in cui tali norme non prevedono, secondo l’interpretazione prevalente nell’arco di più decenni, prospettata nelle ordinanze di rimes¬sione, che la corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, debba accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.