I MALTRATTAMENTI

Di Gianfranco Dosi
I “maltrattamenti” sono un reato contro la famiglia o contro la persona?
La collocazione nel codice penale dell’art. 572 (originariamente rubricato “Maltrattamenti in fami¬glia o verso fanciulli” ed oggi “Maltrattamenti contro familiari o conviventi”) all’interno del titolo XI (“dei delitti contro la famiglia”) del secondo libro e specificamente nel capo IV (“dei delitti contro l’assistenza familiare”) sembra lasciare poco spazio interpretativo al dubbio se il reato in questio¬ne, nelle intenzioni dei compilatori del codice, avesse come bene tutelato la famiglia o la persona. La collocazione nell’ambito dei delitti contro la famiglia sembra, tuttavia, dissonante rispetto a quello che appare il bene tutelato dal momento che il reato si consuma indubbiamente attraverso il compimenti di atti che ledono l’integrità fisica e morale della persona.
Come mai allora il delitto di maltrattamenti non è collocato nell’ambito dei delitti contro la persona e cioè nel XII titolo del secondo libro?
Se i codici italiani preunitari conoscevano solo il reato di maltrattamenti tra coniugi (e quindi con l’evidente obiettivo della tutela esclusiva delle relazioni coniugali), il codice penale Zanardelli del 1889 collocava più ragionevolmente il delitto di maltrattamenti tra i reati contro la persona (art. 391) in quanto riteneva prevalente evidentemente la lesione dell’integrità psicofisica della vittima. Tra autore e vittima, però, nella formulazione della norma, era sempre presupposto un legame e una relazione familiare (ed infatti la disposizione puniva i maltrattamenti “verso persone della famiglia”). In altri termini nemmeno il codice Zanardelli prevedeva un reato generale di maltrat¬tamenti, al pari per esempio delle lesioni, e il maltrattare era questione che riguardava le sole relazioni familiari.
Il Codice Rocco riproponeva la collocazione del reato (art. 572) nell’ambito dei reati contro la famiglia – in significativa simmetria con quello di “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” (art. 571) – allargando tuttavia la cerchia dei soggetti passivi, ma al tempo stesso confermando che il reato si consuma attraverso il maltrattare e cioè, nell’interpretazione corrente, attraverso il compimento di atti lesivi dell’integrità fisica o morale della persona. È giusto allora chiedersi quale sia il bene tutelato.
Fino all’ottobre 2012 il testo dell’art. 572 (allora rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) era il seguente: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua auto¬rità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’eser¬cizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.”
La legge 1 ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale) modificava il primo comma dell’art. 572 che veniva così riscritto: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottopo¬sta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni” e inseriva un secondo comma del tenore seguente: “La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici”.
La novità stava nella più ampia tutela offerta ai minori degli anni quattordici, nell’inasprimento della sanzione e – cosa certamente non di poco conto – nell’introduzione delle persone comunque “conviventi” tra i soggetti passivi del reato. Ed infatti anche la rubrica originaria della disposizione (”Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) veniva modificata in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
Il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (contenente norme per il contrasto della violenza di genere) convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, inseriva all’art. 61 del codice penale (“circostanze aggravanti”) un numero 11-quinquies il cui testo prevede come aggravante comune “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza” e abrogava conseguentemente il secondo com¬ma dell’art. 572 (dove si aggravava la pena nel caso di persona offesa minore di anni quattordici) reso inutile dall’aggravamento generale previsto in caso di reati contro minori di diciotto anni.
L’art. 9 della legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza dome¬stica e di genere (in GU del 25 luglio 2019 ed entrata in vigore il 9 agosto 2019) ha rivisto ancora il testo dell’art. 572 c.p. che, dopo quest’ultima modifica è il seguente:
art. 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari e conviventi)
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’eser¬cizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.
Di particolare interesse l’ultimo comma aggiunto dalla riforma del 2019 che qualifica persona of¬fesa dal reato il minore che assiste ai maltrattamenti (cosiddetta violenza assistita). Maltrattare una persona in presenza di un minore è perciò una forma aggravata del delitto (secondo comma) mentre il minore è considerato anche lui persona offesa (terzo comma).
Riprendiamo ora il discorso sul bene tutelato dalla norma.
Nonostante la collocazione sistematica che è rimasta quella originaria (nell’ambito, cioè, dei de¬litti contro la famiglia, specificamente contro l’assistenza familiare) e nonostante la modifica del¬la rubrica (“maltrattamenti contro familiari e conviventi”), che coglie soltanto uno degli svariati contenuti dell’intera fattispecie, non vi è dubbio che lo spettro dei comportamenti eterogenei penalmente sanzionati ricadenti nell’ambito dell’art. 572, colloca decisamente il baricentro della disposizione in un’area di tutela molto più estesa (ed addirittura diversa) di quella delle relazioni familiari (estendendo la tutela ai contesti comunitari di tipo educativo, lavorativo, scolastico, sa¬nitario) potendosi fondatamente ritenere che il reato di “maltrattamenti” abbia (e abbia sempre avuto, a dispetto della rubrica) come bene tutelato primariamente l’incolumità e l’integrità psico-fisica della persona.
Con la precisazione importante, però, che il delitto di maltrattamenti non è un delitto a contenuto generale, ma ha come sfondo necessariamente una relazione, un contesto relazionale, un legame tra l’autore e la sua vittima. L’autore del reato – nonostante l’espressione “chiunque…” utilizzata in apertura della disposizione – è necessariamente legato alla vittima da una particolare specifica relazione. Sta qui la caratteristica peculiare dei “maltrattamenti”. Ed è sull’affidamento reciproco che nasce da questa relazione che la legge fonda la sanzione di quei comportamenti vessatori che questa relazione strumentalizzano con la violenza e la sopraffazione. E’ proprio l’esistenza di que¬sta relazione che ha portato Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 a precisare che il reato di maltrattamenti in famiglia sarebbe un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 del codice penale (contesti cosiddetti parafamiliari).
Piuttosto esplicita nell’additare come bene tutelato la persona all’interno della la relazione che la unisce ad un’altra è Cass. pen. Sez. VI, 31 gennaio 2003, n. 7781 secondo cui l’interesse protetto dal reato di cui all’art. 572 c.p. è la personalità del singolo in relazione al rapporto che lo unisce al soggetto attivo. E ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12065 secondo cui la condotta penalmente rilevante di maltrattamenti in famiglia è riscontrabile soltanto laddove l’abitualità delle vessazioni riveli la strumentalizzazione di una relazione ai fini di una pre¬varicazione sistematica che induce, nella vittima, una perdurante afflizione.
Si può concludere quindi sul punto ritenendo che il delitto di “maltrattamenti” in famiglia non ha assolutamente come bene tutelato la famiglia, ma l’integrità fisica e morale della persona in tutte le sue relazioni vitali più significative (familiare, educativa, scolastica, lavorativa, sanitaria). L’og¬getto della tutela è la persona nell’ambito delle sue relazioni in quelle che l’art. 2 della Costituzione chiama “le formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. In questa prospettiva le relazioni familiari sono certamente le più importanti, ma non sono le uniche.
L’aumento della pena base (da tre a sette anni, rispetto a quella originaria da uno a cinque anni) operato con la legge 19 luglio 2019, n. 69 ha rafforzato la potenzialità dissuasiva della disposizione penale, ma deve anche accompagnarsi ad una forte riqualificazione del reato sul versante del bene tutelato che non può che essere quello della incolumità e della dignità della persona. Non è tanto la relazione in sé ad essere tutelata ma la persona che in quella relazione ripone fiducia.
Di questo auspicio si era fatta in qualche modo interprete Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 affermando che “l’oggetto della tutela penale nel reato di maltrattamenti in fami¬glia di cui all’art. 572 c.p. non è rappresentato soltanto dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma”.
Concetti che, in precedenza, aveva bene espresso anche Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 per la quale nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessa¬tori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari1.
II La condotta nel delitto di maltrattamenti
a) L’abitualità della condotta e la sua idoneità ad imporre una condizione di sofferenza
Vedremo ora quali sono, secondo la giurisprudenza, i presupposti oggettivi del reato, cioè quale dovrebbe essere la caratteristica della condotta ai fini della punibilità del reato.
E qui incontriamo, in molte sentenze, una particolare criticità costituita dal fatto che un diffuso orientamento sul punto ritiene che la sofferenza della vittima determinata dal comportamento maltrattante non sia sufficiente per l’integrazione del reato di maltrattamenti essendo invece ne¬cessario che il giudice accerti, quale presupposto della condotta punibile, una condizione di pro¬strazione della vittima (come si dirà nel prossimo capitolo).
Recenti sentenze, proprio in vicende tristi di violenza nelle relazioni familiari, sembrano essersi scrollate di dosso questa impostazione concentrandosi sulla sola idoneità della condotta ad imporre un regime di vita vessatorio. Queste recenti decisioni (Cass. pen. sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12605; Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126 ribadiscono che il reato di “maltratta¬menti in famiglia” è costituto da una condotta connotata dalla abitualità cioè da comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo ribadendo anche che “tali comportamenti possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, ma precisano che si deve trattare di “comportamenti idonei ad imporre alla persona offesa un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile” senza fare espresso riferimento alla condizione di prostrazione in cui dovrebbe venirsi a trovare la vittima. In questa nozione di maltrattamenti “rientrano anche fatti lesivi dell’integrità solo morale del soggetto passivo, che possono consistere in parole che offendono la dignità della persona, purché tali condot¬te abbiano i caratteri della sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa, con conseguente intollerabile degenerazione del rapporto familiare”.
La condotta ha quindi uno spettro molto ampio come anche ha ribadito Cass. pen. Sez. Unite, 29 gennaio 2016, n. 10959 nella parte in cui – premessa la disposizione dell’art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., che stabilisce l’obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con “violenza alla persona” – ha ribadito che l’espressione “delitti com¬messi con violenza alla persona” comprende anche i reati di atti persecutori e di maltrattamenti in famiglia. Il sintagma ‘violenza alla persona’ deve essere inteso alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle relative disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto co¬munitario. La nozione di violenza sviluppata in ambito internazionale e comunitario è più ampia di quella prevista nel codice penale italiano ed è comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche morali o psicologiche.
Si è osservato in giurisprudenza che anche comportamenti fisicamente non violenti, che si arre¬stano alla soglia della minaccia, raggiungono la soglia della rilevanza penale ai fini del reato di cui all’art. 572 c.p. quando si collochino in una più ampia e unitaria condotta abituale idonea ad imporre alla vittima un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile. Ugualmente si è affermato con riferimento ai comportamento degenere di un genitore (Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2019, n. 16855) e al comportamento di sistematico svilimento della figura materna agli occhi dei figli minori (Cass. pen. Sez. V, 25 marzo 2019, n. 21133; Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2018, n. 32368). Perfino l’invio di messaggi ingiuriosi e minacciosi e l’utilizzo ai me¬desimi fini dei social network sono state ritenute condotte idonee ad integrare la fattispecie punita dall’art. 572 c.p. (Cass. pen. Sez. VI, 22 maggio 2018, n. 57870). Secondo Cass. pen. Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 18937 la condotta di maltrattamenti contro familiari o conviventi può consistere anche nella privazione pressoché totale del sostegno economico ai danni della persona offesa, a maggior ragione se unita ad ulteriori condotte vessatorie di altro genere.
Nella prospettiva di approfondimento dell’elemento della abitualità Cass. pen. Sez. VI, 9 ottobre 2018, n. 6126 e Cass. pen. Sez. VI, 19 ottobre 2017, n. 56961 hanno negli ultimi anni riaf¬fermato – in accordo con la consolidata giurisprudenza sul punto – che ai fini della configurabilità del reato abituale di maltrattamenti in famiglia, è richiesto il compimento di atti che non siano spo¬radici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività, occorrendo una persisten¬
1 In questa voce, considerata la mole enorme di decisioni giudiziarie, viene indicata soltanto la giurisprudenza di legittimità. Le decisioni di merito sono comunque tutte riportate nell’appendice contenente la rassegna di giurisprudenza.
te azione vessatoria idonea a ledere la personalità della vittima. A tale proposito Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 20494 ha annullata per vizio di motivazione la sentenza di condanna per maltrattamenti coniugali senza che fosse stato “provato l’elemento dell’abitualità intesa come instaurazione di un regime di vita improntato alla sopraffazione e alla vessazione in una vicenda in cui la sussistenza del reato di maltrattamenti era stata desunta da singole condotte violente del marito a danno della moglie, inserite in un contesto familiare di forte tensione.
È stato messo in luce che la non è necessario che il comportamento maltrattante venga posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la sua ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell›agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (Cass. pen. Sez. III, 22 novembre 2017, n. 6724)
È essenziale, ai fini della ricostruzione del reato di maltrattamenti di cui all›art. 572 c.p., l›accertamento dell›abitualità e ripetitività della condotta lungo un ambito temporale rilevante senza che la valutazione di offensività possa arrestarsi a fronte di condotte che non culminino in veri e propri atti di aggressione fisica.
L’accento, insomma, viene giustamente messo soprattutto sulla gravità dei comportamenti di so-praffazione reiterati nel tempo più che sulla necessaria condizione di prostrazione in cui dovrebbe trovarsi la vittima.
Si ricorda che in sede di teoria generale si definisce abituale il reato nel quale il comportamento criminoso viene prodotto dalla reiterazione nel tempo di più condotte o ciascuna penalmente irri¬levante (reato abituale proprio) ovvero ciascuna costituente un reato (reato abituale improprio).
La connotazione necessaria dell’abitualità del reato di maltrattamenti ritorna fino ai nostri giorni in molte sentenze.
È stata ribadita in Cass. pen. Sez. VI, 23 gennaio 2019, n. 4935 in cui si afferma che integra gli estremi del reato la condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un’altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante. In Cass. pen. Sez. I, 19 aprile 2017, n. 206 in una vicenda in cui imputata di mal¬trattamenti era na badante. In Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12065 dove si afferma che il delitto ex art. 572 c.p. è necessariamente abituale, dal momento che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Ugualmente in Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2014, n. 34197 secondo cui l’art. 572 c.p. richiede condotte lesive, fisicamente o psicologicamente, che devono essere tali da portare a sofferenze morali (tra le varie: percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni im-poste alla vittima, ma anche atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali). Ancora in Cass. pen. Sez. VI, 2 aprile 2014, n. 15143 dove si ricorda che occorre che la condotta vessatoria sia reiterata per un lasso di tempo che giustifichi il convincimento del giudice di merito circa una volontà da parte dell’agente di una sopraffazione sistemica diretta a rendere dolorosa la convivenza delle persone della famiglia. In Cass. pen. Sez. III, 10 dicembre 2013, n. 4343 si afferma che il delitto di maltrattamenti in famiglia è da considerarsi reato abituale, in cui il termine di prescrizione inizia a decorrere dal giorno dell’ultima condotta tenuta, la quale “chiude il periodo di consumazione del reato”. Quest’ultimo inizia fin dalla “condotta primigenia” che, valutata insieme con le susseguenti, forma la serie minima di fatti penalmente rilevanti. Ed ancora in Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 44700 secondo cui nello schema del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali. Cass. Sez. VI, 14 febbraio 2013, n. 12828 ritiene che integra il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. la condotta del figlio che muove “pressanti e continue richieste di somme di denaro” formulate alla madre, accompagnate da atti produttivi di diverse sofferenze morali per il tramite di contegni vessatori e ingiuriosi e attraverso l’esposizione a stati d’ira.
Nella vicenda trattata da Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126 l’abitualità consisteva in un “continuo ed invasivo controllo da parte del marito, divorato da una patologica ed inconteni¬bile gelosia nei confronti della moglie”.
Le considerazioni svolte nelle sentenze più recenti sopra richiamate non nascono dal nulla ma appaiono conclusive di un lungo percorso di elaborazione giurisprudenziale sul reato di maltratta¬menti in famiglia, non privo, come si dirà, di alcune forzature interpretative cui sono conseguite non del tutto convincenti decisioni assolutorie determinate dal fatto che la vittima non è apparsa ai giudici eccessivamente prostrata dalla condotta del reo.
Gli ampi confini del delitto di maltrattamenti in famiglia (condotta prevaricatrice e stato di grave sofferenza della vittima) sono stati delineati comunque in lontane decisioni. Già negli anni Ottanta si affermava che nello schema del delitto in questione rientrano non soltanto le percosse, le mi¬nacce, le ingiurie e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento che cagionano durevole sofferenza morale; sempre che essi si rivelino come manifestazioni consapevoli di recare o produrre nella vittima offesa, disprezzo, umiliazione, vilipendio o asservimento e che la vittima stessa finisca per subirli al di fuori e al di là di uno specifico fatto di violenza, ma nell’ambito delle complessive sofferenze inferte (Cass. pen. Sez. V, 9 giugno 1983 e più tardi in senso analogo Cass. pen. Sez. VI, 4 dicembre 2003, n. 7192).
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 2 maggio 2000, n. 9414 il reato di maltrattamenti in famiglia sus¬siste quando l’agente sottoponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo) quanto dalla coscienza e volontà (elemento soggettivo) di porre in essere tali atti; è da escludere quindi che sporadici episodi di violenza, del tutto occasionali, possano integrare una abituale con¬dotta vessatoria, tale da integrare il reato di maltrattamenti.
Per Cass. pen. Sez. V, 5 luglio 1996, n. 7651 richiedere abitualmente il compimento di atti sessuali contro natura alla convivente in rapporto di coppia, di cui si conosca l’indisponibilità, ben¬ché la donna resista ed esiga rispetto e benché al rifiuto della stessa talora segua offerta di scuse, integra gli estremi del reato di maltrattamento perché la ripetizione insistente delle richieste, dato il disvalore che la persona convivente vi attribuisce, cagiona a costei sofferenze per il disprezzo che l’uomo mostra delle sue condizioni.
Moltissime lontane decisioni (tra tutte Cass. pen. Sez. III, 15 marzo 1985; Cass. pen. Sez. VI, 29 maggio 1990; Cass. pen. Sez. VI, 16 ottobre 1990) già, comunque, avevano afferma¬to in passato che rientrano nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non soltanto le percosse, le minacce, le ingiurie e le privazioni imposte ai familiari, ma anche gli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento – in sostanza tali da cagionare durevole sofferenza morale. E proprio a proposito di umiliazioni anche per Cass. pen., 21 gennaio 1987 lo stato di avvilimento e di sofferenza provocato nel soggetto passivo, costretto a sopportare le continue infedeltà dell’agente, di cui questi si faceva vanto per mortificare ancor più la vittima, integra gli estremi dell’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 572 del codice penale. Nella stessa prospettiva emblematiche sono Cass. pen., 12 ottobre 1989 e poi ancora Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 1996, n. 8396 secondo le quali, premesso che nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo, di umiliazione, affermano che fra tali atti, che si risolvono in vere e proprie sofferenze morali, deve annoverarsi anche la condotta del marito che costringa la moglie a sopportare la presenza della concubina nel domicilio coniugale. E sempre con riferimento ai rapporti tra coniugi Cass. pen. Sez. VI, 14 luglio 2009, n. 38125 ha ritenuto che “risponde del reato di maltrattamenti in famiglia il marito che continuamente percuote ed ingiuria la moglie, ostenta infedeltà, e impedisce alla medesima di rientrare nella casa familiare all’esito di un ricovero in ospedale, in quanto tale quadro probatorio, rappresenta quella situazione di abitualità di sofferenze fisiche e morali, che determinano nel soggetto passivo una condizione di vita costantemente dolorosa e avvilente”.
La maggiormente penosa condizione di sofferenza in cui si trova la vittima di maltrattamenti rispetto alla vittima dei reati singoli che compongono la condotta abituale è stata in passato ben messa in evidenza da Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 1989, n. 16185 che ha ritenuto manifestamente infon¬data la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 c. p. in relazione agli art. 581, 582 e 594 stesso codice, con riferimento all’art. 3 cost., dedotta sotto il profilo della diseguaglianza del tratta¬mento sanzionatorio previsto per il reato di maltrattamenti rispetto alla pena stabilita per i reati di percosse, lesioni e ingiuria; infatti, le norme comparate con le relative sanzioni non sono omologhe sia sotto i profili materiale e soggettivo, perché i maltrattamenti, pur manifestandosi in fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, richiedono ex art. 572 c. p. un sistema di vita particolarmente tormentato per la vittima e la volontà di infierire sulle persone della famiglia in modo da rendere alle stesse la vita impossibile, sia per la diversità degli interessi tutelati.
b) L’ambiguità delle decisioni che richiedono nella vittima uno stato di prostrazione
Questo percorso della giurisprudenza non è privo – come si diceva – di decisioni ambivalenti e am¬bigue. In alcune sentenze, infatti, l’elemento materiale dei maltrattamenti in famiglia si ritiene che debba essere caratterizzato dalla sovrapposizione di due aspetti: da un lato la condotta abituale prevaricatrice di un soggetto; dall’altro lo stato non di semplice sofferenza ma di vera e propria prostrazione della vittima.
Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 24 settembre 1996, n. 8650 afferma che non è sufficiente ai fini della configurabilità dei maltrattamenti una convivenza difficile, conflittuale, in cui vengono a mancare i doveri di solidarietà tra coniugi, ma deve trattarsi di fatti in grado di realizzare una pregnante offesa della integrità psicofisica della vittima, “tali da farla precipitare in una condizio¬ne duratura di sofferenza e prostrazione”. A tale proposito la sentenza chiarisce che “qualora la condotta irrispettosa dell’un coniuge verso l’altro abbia carattere meramente estemporaneo ed occasionale, nel senso che sia solo l’espressione reattiva di uno stato di tensione, che comunque può sempre verificarsi nella vita di coppia, si dovrà eventualmente fare richiamo a figure criminose diverse dai maltrattamenti”.
Ha fatto molto discutere una decisione in cui la Cassazione in passato ha escluso che fosse col¬pevole del delitto di maltrattamenti in famiglia “ il coniuge che reiteratamente picchia, ingiuria ed umilia l’altro coniuge in quanto ai fini della configurabilità della fattispecie criminosa in argomento si richiede che vi sia un soggetto che abitualmente infligge sofferenze fisiche o morali a un altro, il quale, specularmente, ne resta succube (Cass. pen. Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 9531 dove ci si è spinti a precisare che affinché sia integrato il reato di cui all’art. 572 c.p., secondo il signi¬ficato riconducibile al termine maltrattare, “è necessario che l’agente eserciti, abitualmente, una forza oppressiva nei confronti di una persona della famiglia mediante l’uso delle più varie forme di violenza fisica o morale e che la vittima ne risulti prostrata”.
Anche perplessi può lasciare Cass. pen. Sez. VI, 12 marzo 2010, n. 25138 in una vicenda di una donna vessata da ingiurie, minacce e percosse nell’arco di tre anni nella quale i giudici han¬no escluso il delitto di maltrattamenti dal momento che “la condizione psicologica della persona offesa, lungi dall’apparire sopraffatta, appariva più propriamente scossa o esasperata ma non propriamente intimorita o soggiogata”.
Quindi nell’elemento oggettivo del reato secondo questo orientamento presente in giurisprudenza dovrebbe sempre emergere lo stato di prostrazione e di soggezione della vittima. Un significato della parola maltrattare che esaspera le conseguenze della condotta – appunto lo stato di sogge¬zione della vittima – piuttosto che la condotta in sé. Come se la “sofferenza” non accompagnata dalla “soggezione” avesse meno diritto di essere considerato “interesse tutelato” dalla norma.
Anche più di recente l’ambiguità sembra riemergere in Cass. pen. Sez. III, 20 marzo 2018, n. 46043 in cui si afferma che in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di completo abbattimento, ma può consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite.
In queste decisioni è ancora visibile un approccio che in fondo considera tollerabile nelle relazioni familiari una quota di inevitabile coazione. E la collocazione della norma (art. 572 c.p.) accanto all’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.) non scoraggia certo questa impo¬stazione.
c) Lo stato di sofferenza della vittima come evento sufficiente per la configurabilità del delitto di maltrattamenti
Molto più convincente appare quindi l’orientamento giurisprudenziale che – pur richiamando la necessità di molteplici atti – incentra la tutela soprattutto sulla condotta reiteratamente violenta e sulla “sofferenza fisica e morale” in sé.
Molto esplicita sul punto è Cass. pen. Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 3419 l’offensività del bene protetto dalla norma di cui all’art. 572 c.p. si attua nel momento in cui si crea per la persona offesa la situazione di sofferenza in cui è costretta a vivere. Il verificarsi di tale situazione integra l’evento del delitto e non si richiede che dalla stessa derivi un ulteriore danno alla integrità fisica o psichica del soggetto passivo.
Ancora Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2010, n. 1417 ritiene che il reato di maltrattamenti in famiglia sussiste se l’agente sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e mo¬rali, in modo che i singoli atti siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo), quanto da un’intenzione criminosa che si ponga come elemento unificatore dei singoli atti vessatori (elemento soggettivo, inteso come dolo unitario).
Per Cass. pen. Sez. VI, 16 dicembre 1986 il reato di maltrattamenti è reato abituale poiché “caratterizzato dalla sussistenza di una serie di fatti i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, ma che rinvengono la ratio dell’antigiuridicità penale soprattutto nella loro reiterazione, che si protrae nel tempo.
Bene ha precisato Cass. pen. Sez. VI, 28 febbraio 1995, n. 4636 affermando che si tratta di un reato “necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo”.
E il giudice deve dimostrare che tutti i fatti sono tra loro connessi e cementati in maniera inscindi¬bile dalla volontà unitaria, persistente e ispiratrice di una condotta insistita nella finalità criminosa (Cass. pen., 10 aprile 1987).
Molto opportunamente Cass. pen. Sez. VI, 4 marzo 1996, n. 4015 ha precisato che il giudice di merito può desumere dalla ripetitività dei fatti di percosse e di ingiurie l’esistenza di un vero e proprio sistema di vita di relazione abitualmente doloroso ed avvilente, consapevolmente instau¬rato dall’agente, a seguito di iniziali stati di degenerazione del rapporto familiare; tuttavia per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all’autore del reato, in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decorso della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza.
Molto chiara anche Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 1988 secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o morale, della libertà o del decoro delle persone di famiglia, in modo tale da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e le vittime; l’elemento psicologico è costituito dal dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche o mo¬rali in modo continuato.
Il delitto esige per la sua configurabilità una abituale sottoposizione della persona offesa a soffe¬renze fisiche e psichiche, espressione di un atteggiamento di prevaricazione da parte del sogget¬to attivo del reato (Cass. pen. Sez. VI, 22 dicembre 1992; Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1996).
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 2004, n. 34522 parla di “modello di padre famiglia prevaricatore” mentre Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1996, n. 8510 e Cass. pen. Sez. III, 9 marzo 1998, n. 4752 si richiamano ad una “condotta di sopraffazione sistematica e programmata, tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza”. Nel caso trattato da Cass. pen. Sez. VI, 18 mar¬zo 2008, n. 27048 l’imputato aveva sottoposto la convivente ad un clima oppressivo, umiliante, vessatorio e di sistematica sopraffazione, insultandola continuamente e senza motivo, cacciandola di casa ed infliggendole percosse e lesioni. In Cass. pen. Sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45467 si considerano “maltrattamenti” alcuni “comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratteriz¬zati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose abitualmente poste in essere dall’imputato nei confronti del coniuge”.
In conclusione il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato da una condotta abituale che si estrinseca in una pluralità di atti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo (Cass. pen., 19 dicembre 1990).
La materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze (Cass. pen. Sez. I, 12 febbraio 1996, n. 8618).
d) La non episodicità delle condotte che integrano i maltrattamenti
Non sono però sufficienti singoli episodi. Secondo Cass. pen. Sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 45037 – che rimarca forse eccessivamente la necessità di una condizione di necessaria soggezione della vittima – non integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la consumazione di atti episodici non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio. Qui il confine può apparire eccessivamente labile: quanti devono es¬sere gli episodi per integrare il delitto di maltrattamenti? E’ evidente che il numero delle condotte in¬criminate non può che essere contestualizzato. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 1400 ha ritenuto che “integra il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi la condotta del marito che sottopone la moglie, nell’arco di un anno, a tre gravi e violente aggressioni fisiche, le quali si aggiungono a una situazione familiare contrassegnata dallo stato di frequente ubriachezza dello stesso, durante il quale egli sottopone la donna a insulti e vessazioni morali”.
In realtà il verbo maltrattare impone di considerare soprattutto una continuità dello stato di soffe¬renza. Spetta al giudice verificare questa continuità, questa abitualità. E d’altro lato l’assenza della continuità non esclude certo la punibilità ad altro titolo.
I maltrattamenti possono anche evidenziarsi in un limitato periodo tempo, nel senso che se è vero che il delitto in questione è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, de¬littuosi o meno, che determinano sofferenze fisiche o morali, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa, è anche vero che “ad integrare l’abi¬tualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, anche se per un limitato periodo di tempo” (Cass. pen. Sez. V, 9 gennaio 1992). Quindi è sufficiente un lasso di tempo, ancorché limitato, e tuttavia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa (Cass. pen. Sez. VI, 9 dicembre 1992).
Molte decisioni hanno poi anche chiarito che il delitto di maltrattamenti in famiglia, quale reato abituale, non resta escluso se nel tempo considerato vi siano parentesi di normalità nella condotta dell’agente e che, quindi, non assume rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con perio¬di di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito (Cass. pen. Sez. VI, 2 aprile 2014, n. 15147; Cass. pen. Sez. VI, 17 aprile 1998, n. 7803; Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 1996, n. 8396; Cass. pen., 13 ottobre 1989; Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 1989).
La non episodicità delle condotte può accompagnarsi alla tensione di coppia; non per questo viene meno la configurabilità dei maltrattamenti in famiglia. Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35862 e Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35963 ricordano che il reato di cui all’art. 572 c.p. può sussistere anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivibili a entrambi i coniugi, tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità, considerato che tale situazione non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente pro¬iettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione.
Né il delitto viene meno se la tensione si riduce successivamente. Con ampia motivazione Corte cost. 20 luglio 1990, n. 357 ha dichiarato manifestamente inammissibile – in riferimento agli art. 2, 3, 29, 30 e 31 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede come causa di estinzione del reato di maltrattamenti in famiglia la seria riconciliazione dei coniugi ed il normale svolgimento della vita coniugale, giudizialmente accertati; e ciò in quanto spetta esclusivamente al legislatore stabilire se esistano fatti successivi al reato in grado di estinguere il carattere criminale delle violazioni commesse e le relative conse¬guenze sanzionatorie. Una volta riconosciuta e confermata l’attuale validità della rilevanza penale di fatti che violano i principi su cui si fonda l’unità della famiglia e l’etica della coesistenza pacifica dei suoi membri (anche nell’interesse dei figli minori), non può spettare che allo stesso legislatore stabilire se esistano fatti successivi in grado di estinguere il carattere criminale di quelle violazioni e le relative conseguenze sanzionatorie.
e) Le condotte omissive
Il delitto può essere integrato anche da condotte omissive, individuabili nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore o al disabile o all’anziano dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta (Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332 in un caso di maltrattamenti in danno dei figli minori realizzato con condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell’altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori obbligati di tali comportamenti – cosiddetta violenza assistita – in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole”; Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 9724 secondo cui integrano il reato di maltrat¬tamenti in danno di una persona disabile non solo fatti commissivi sistematicamente lesivi della sua personalità, ma anche condotte omissive connotate da una deliberata indifferenza e trascu¬ratezza verso i suoi elementari bisogni affettivi ed esistenziali; Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142 secondo cui, in un caso di violenza assistita, il delitto di maltrattamenti può esse¬re integrato anche mediante condotte omissive, individuabili nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta verso altri soggetti; Cass. pen. Sez. VI, 30 maggio 1990, n. 394 e Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 2018, n. 10763 secondo cui il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c. p. può essere realizzato anche mediante condotte omissive, individuabili pure nel deliberato astenersi da parte dei responsabili di una pubblica struttura di assistenza e cura – in presenza del contrario dovere incombente su di loro – dall’impedire condotte illegittime realizzanti la materialità del reato, omettendo di intervenire pur avendo conoscenza dei maltratta¬menti consumati nella struttura.
III Maltrattamenti e relazioni familiari
Il contesto primario – per definizione – in cui il delitto di “maltrattamenti verso familiari e convi¬venti” trova applicazione è quello delle relazioni familiari. La famiglia è il luogo degli affetti ma anche il luogo in cui le relazioni umane, all’interno delle mura domestiche, possono scivolare nella violenza e nella sopraffazione.
a) La famiglia allargata
Sul versante della famiglia allargata e della famiglia di fatto è ormai il legislatore che con la legge 1 ottobre 2012, n. 172 – richiamata all’inizio – ha esteso l’area della punibilità modificando la stessa rubrica dell’art. 572 c.p. in “maltrattamenti contro familiari e conviventi” includendo quindi nella disposizione penale in primo luogo certamente i parenti conviventi (la famiglia non solo nucleare ma anche quella allargata), ma anche il convivente more uxorio e comunque le persone che convi¬vono all’interno di uno stesso nucleo familiare ancorché non costituito con il matrimonio.
D’altro lato il testo dell’art. 572 c.p. non lascia dubbi (Chiunque…maltratta una persona della fa¬miglia o comunque convivente).
Quanto alla famiglia allargata, perciò, non possono esservi dubbi che il delitto di maltrattamenti sia configurabile anche nell’ipotesi di condotte vessatorie agite per esempio anche nei confronti di un parente o di un affine convivente (ed anche s’intende, per quanto si dirà tra breve, non convivente).
b) La famiglia di fatto
L’estensione alla famiglia di fatto era già stata proposta da tempo in giurisprudenza dove il delitto di maltrattamenti è stato sempre pacificamente applicato anche alle relazioni familiari non matri¬moniali.
Per quanto concerne la famiglia di fatto per esempio già Cass. pen. Sez. III, 13 novembre 1985 aveva avuto modo di precisare che “il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c. p. non presuppone necessariamente l’esistenza di vincoli di parentela civili o naturali, ma sussiste anche nei riguardi di una persona convivente more uxorio, perché anche in tal caso viene tra le parti a crearsi quel rapporto stabile di comunità familiare che il legislatore ha ritenuto di dover tutelare.
In seguito moltissime sentenze, in un susseguirsi regolare, hanno ribadito questo orientamento.
Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 9 dicembre 1992 (“agli effetti di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi per famiglia ogni consorzio tra persone tra le quali, per relazioni sentimentali o con¬suetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di convivenza”); Cass. pen., 30 gennaio 1991 (“agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c. p. deve considerarsi ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà); Cass. pen., 3 marzo 1993, Cass. pen. Sez. III, 3 lu¬glio 1997, n. 8953 (“ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione. È sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali”); Cass. pen. Sez. VI, 18 ottobre 2000, n. 12545 (“in tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza”);Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2001, n. 36576 (“deve ritenersi responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia colui che risulti aver percosso e vessato moralmente la convivente essendo da considerarsi membri della famiglia, tutelati dall’art. 572 c.p. anche i componenti della famiglia di fatto, fondata cioè sulla volontà di vivere insieme, di avere figli, di avere beni comuni, di dar vita, cioè, ad un nucleo stabile e duraturo. Questa interpretazione dell’art. 572 c.p. è la più coerente con i principi ispiratori del nostro ordinamento, nonché con la realtà sociale moderna. Del resto l’introduzione del divorzio e il suo largo utilizzo hanno dimostrato che il matrimonio non è più un legame indissolubile ed hanno eliminato, dunque, il presupposto più plausibile per una tutela diversificata dei due rapporti”); Cass. pen. Sez. VI, 30 gennaio 2003, n. 8848 (“in tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rap¬porto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza); Cass. pen. Sez. III, 8 novembre 2005, n. 44262 (“il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di sta¬bile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione”); Cass. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2007, n. 21329 (“il delitto di maltrattamenti in famiglia è certamente configurabile anche in danno di persona convivente more uxorio quando si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione”); Cass. pen. Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 20647 (“ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve inten¬dersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”).
Il principio dell’estensione del reato anche ai comportamenti vessatori nella famiglia di fatto è ri¬badito in moltissime altre decisioni successive dello stesso tenore (Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2008, n. 27048, Cass. pen. Sez. III, 19 settembre 2008, n. 39338, Cass. pen. Sez. II, 2 ottobre 2009, n. 40727, Cass. pen. Sez. III, 19 gennaio 2010, n. 9242; Cass. pen. Sez. III, 18 ottobre 2018, n. 56673; Cass. pen. Sez. III, 27 novembre 2018, n. 345; Cass. pen. Sez, II, 23 gennaio 2019, n. 10222).
Quindi in giurisprudenza è sempre stato molto chiaro – anche prima delle modifiche introdotte nel testo e nella rubrica dell’art. 572 c.p. dalla legge 1 ottobre 2012, n. 172 – che agli effetti del delitto di maltrattamenti deve intendersi come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo e che, pertanto, il delitto di maltrattamenti in famiglia si consuma anche tra per¬sone legate soltanto da un puro rapporto di fatto, che, per le intime relazioni e consuetudini di vita correnti tra le stesse, presenti somiglianza ed analogia con quello proprio delle relazioni coniugali.
Gli stessi concetti – a seguito della richiamata novella normativa di cui alla legge n. 172 del 2012 – sono stati ripresi da una molto articolata decisione del 2013 (Cass. pen. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915) che ha perentoriamente affermato che sono certamente da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo. Con la legge del 2012 si è inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza. Ciò in quanto si è ricono¬sciuto il valore sociale della convivenza come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l’ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire.
L’accento viene messo sulla intensità della relazione. Afferma Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31121 che, “posto che la fattispecie di maltrattamenti non esige il carattere monogamico del vincolo sentimentale posto a fondamento della relazione, e neppure continuità di convivenza, intesa quale coabitazione, è necessario che detta relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà (nella specie, la corte territoriale aveva accertato un rapporto di convivenza durato due anni, nel quale assumeva speciale rilievo l’iden¬tificazione della casa stabilmente abitata dalla vittima ed istituita come luogo di svolgimento del rapporto di coppia, il quale poi si concretava in coabitazione, ogni volta che fosse stato possibile).
c) La famiglia separata
Perfino l’elemento del “convivere insieme”, nelle relazioni familiari, è stato superato ammettendosi i maltrattamenti tra coniugi separati o tra genitori non più conviventi.
Il principio è ben riassunto in Cass. pen. Sez. VI, 22 febbraio 2018, n. 19868; Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 2017, n. 10932, Cass. pen. Sez. II, 5 luglio 2016, n. 39331 dove si afferma che il reato di maltrattamenti è configurabile nell’ipotesi in cui i maltrattamenti siano posti in es¬sere dal marito nei confronti della moglie separata o dell’ex moglie, non rilevando in sé e per sé, ai fini della configurabilità del reato, la durata della convivenza tra i due dopo il divorzio, quanto piuttosto l’esistenza di una stabile relazione affettiva tra l’imputato e la persona offesa, relazione che ha creato reciproco affidamento e aspettative di assistenza, protezione e solidarietà.
Nella stessa prospettiva Cass. pen. Sez. VI, 20 aprile 2017, n. 25498; Cass. pen. Sez. VI, 13 febbraio 2017, n. 3356 e Cass. pen. Sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 3087 hanno ritenuto che il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione.
Molto esplicita sul punto era stata già in passato Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 1999, n. 3570 secondo cui integra gli estremi del reato di cui all’art. 572 c.p. la sottoposizione dei familiari, ancorché non conviventi, ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni, che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Ed invero, comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di atti di molestia, di ingiuria, di minaccia e di danneggiamento, manifestano l’esi¬stenza di un programma criminoso di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l’espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coin¬cidente con il fine di rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa l’esistenza dei familiari.
Il reato di cui all’art. 572 c.p. si può configurare anche in assenza di un rapporto di convivenza, e cioè quando questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri anche in tal caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.
Secondo Cass. pen. Sez. IV, 17 marzo 2010, n. 24688 “per famiglia non si intende soltanto un consorzio di persone avvinte da vincoli di parentela naturale o civile, ma anche un’unione di persone tra le quali, per relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza, protezione e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione”. Con la conse¬guenza che “Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di una persona legata all’autore della condotta da una relazione sentimentale, che abbia comportato un’assidua frequentazione della di lei abitazione, trattandosi di un rapporto abituale tale da far sorgere senti¬menti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale”.
Si entra così nel tema della famiglia separata, e cioè della configurabilità del reato di maltratta¬menti anche alle relazioni post-familiari. Quello che viene richiesto è che la “relazione familiare” sia attuale, nel senso non di “convivenza” attuale ma di “attualità intesa come permanere di un vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza”
Proprio su questo tema si è per esempio soffermata Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31123 che ha ribadito che “non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente, quand’anche provochi un penoso regime di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 c.p. in quanto l’integrazione del delitto contestato deve essere verificata in base al principio che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza.
Anche tra persone che non convivono più può, quindi, permanere il vincolo di solidarietà e di assistenza (quella che viene chiamata “relazione qualificata”) che è presupposto del delitto di maltrattamenti (Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658 secondo cui soggetto passivo del delitto di cui all’art. 572 c.p. è colui il quale risulta legato al soggetto attivo da una «relazione qualificata», nell’ambito di rapporti fondati sull’autorità, su precise ragioni di affidamento o, anco¬ra, su vincoli familiari).
La giurisprudenza ritiene quindi configurabile il reato di maltrattamenti anche se la relazione for¬male di tipo familiare è terminata, come nel caso di rapporti tra coniugi separati e questo principio trova affermazioni anche nella giurisprudenza risalente. Per esempio già Cass. pen. Sez. VI, 29 aprile 1980 aveva affermato che la cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione; il reato pertanto sussiste anche nei confronti della moglie la cui convivenza sia cessata legittimamente in seguito alla proposizione della domanda di separa¬zione; Cass. pen., 12 ottobre 1989 aveva precisato che la cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (nella specie, l’imputato aveva commes¬so ripetuti atti di violenza fisica e morale in danno della moglie anche dopo la separazione di fatto).
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 1996, n. 10023 lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e di fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto il suddetto stato non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o co¬munque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata. (Fattispecie nella quale il marito separato pure dinanzi a terzi percuoteva abitualmente e minacciava la moglie di ritorsioni gravi sul figlio minore).
Anche per Cass. pen. Sez. VI, 26 gennaio 1998, n. 282 lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di re¬ciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione, il suddetto stato di separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudizia¬rio, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata.
Il concetto è stato ribadito da Cass. pen. Sez. VI, 27 giugno 2008, n. 26571 secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia a carico del coniuge è configurabile anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, purché la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della fattispecie. (Principio affermato relativamente al caso di reiterate ed offensive mani¬festazioni di aggressività, attuate dal coniuge separato per convincere la moglie a riprendere la convivenza) e da Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658 secondo cui “la fattispecie cri¬minosa dei maltrattamenti infraconiugali può e deve ravvisarsi anche in situazioni di separazione e di sopravvenuta interruzione della convivenza, allorché la condotta del soggetto agente realizzi gli elementi strutturali tipici dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 572 c.p. attraverso ripetute e insistite manifestazioni di offensività e di aggressività attuate in danno del coniuge separato”. .
Il principio non vale in assoluto, però, tra persone che hanno convissuto more uxorio e che deci¬dono di separare le loro vite. In tal caso il delitto di maltrattamenti potrebbe configurarsi soltanto in relazione a quegli elementi del rapporto che permangono anche dopo la cessazione della con¬vivenza.
A tale proposito Cass. pen. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915 ha voluto precisare che il prin¬cipio secondo il quale il requisito della convivenza o coabitazione non sarebbe necessario per integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, se vale nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi in considerazione della circostanza per cui nonostante la cessazione della convivenza persistono altri obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza morale o materiale nascenti dal matrimonio, non può valere nell’ipotesi di famiglia di fatto, in quanto la cessazione della convivenza rende manifesta l’avvenuta estinzione dell’affectio che reggeva quella unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza che costituisce il fondamento volontario della famiglia di fatto.
In effetti questi altri elementi possono consistere per esempio nell’esistenza di figli della coppia. Ed infatti Cass. pen. Sez. VI, 8 luglio 2014, n. 33882 ha affermato che è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filia¬zione. (chiarendosi in motivazione, che proprio la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore naturale derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale, implica necessaria¬mente il rispetto reciproco tra i genitori anche se non conviventi).
L’indirizzo che ammette la possibile incriminazione per maltrattamenti anche in caso di separa¬zione o di cessazione della convivenza non è stato condiviso da Cass. pen. Sez. VI, 19 maggio 2016, n. 30704; Cass,. pen. Sez. V, 4 maggio 2016, n. 41665 e Cass. pen. Sez. II, 21 aprile 2016, n. 17719 che hanno marcato la differenza tra i maltrattamenti e gli atti persecutori proprio in ragione della convivenza o meno dell’autore con la vittima.
IV Il maltrattamento dei minori
1. L’evoluzione del quadro normativo
La tutela oggi offerta alle vittime minorenni è molto ampia anche nell’ambito delle condotte di maltrattamenti.
In primo luogo, infatti, l’art. 61 c.p. (aggravanti comuni) prevede al n. 11-quinquies l’aggravante di “avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto” (testo che si deve al decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 contenente norme per il contrasto della violenza di genere, convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119). Inoltre le modifiche al testo dell’art. 572 c.p. introdotte dall’art. 9 della legge 19 luglio 2019, n. 69 conte¬nente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere hanno rafforzato la tutela penale aumentando la pena per tale delitto (reclusione da tre a sette), prevedendo un ulteriore aggravamento “fino alla metà” se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore e rafforzando il contrasto alla violenza assistita prevedendo nell’ultimo comma dell’art. 572 c.p. che “Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
Come si è all’inizio ricordato, fin all’ottobre 2012 il testo del primo comma dell’art. 572 c.p. (allora rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) prevedeva la punibilità per maltrattamenti contro “ una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici”. All’interno di questa impo¬stazione penalistica – che individuava espressamente i soli minori di quattordici anni come soggetti passivi dei maltrattamenti in famiglia – aveva preso l’avvio in Italia negli anni Settanta il dibattito sulla insufficienza degli strumenti di tutela in tema di violenza all’infanzia. Il dibattito coinvolse, però, all’inizio non tanto i penalisti ma soprattutto i giudici e gli operatori della giustizia minorile che, a fronte della scarsa significatività della deterrenza delle misure penali – vedevano soprat¬tutto nelle misure previste nel codice civile (articolo 330 sulla decadenza della potestà genitoriale e art. 333 sulle misure limitative della potestà genitoriale) oltre che nella legislazione minorile (R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404 sull’istituzione e il funzionamento del tribunale per i minorenni) gli strumenti per nuovi interventi a tutela dei minorenni. L’abuso all’infanzia (child abuse) era soprat¬tutto individuato, sotto la spinta del nascere di una nuova cultura verso l’infanzia in quel periodo, come abuso nell’ambito della famiglia e dentro le mura domestiche ed era evidente che all’interno di questo contesto di tutela giudiziaria si indirizzasse l’impegno della giustizia soprattutto minorile.
Il sistema penale era d’altro lato, allora, del tutto carente. Mentre si rafforzava il convincimento che fossero necessari forti interventi legislativi di riforma in ogni settore della giustizia per ade¬guarla alle nuove esigenze di tutela dei minori dalla violenza dentro e fuori la famiglia, ancora non esisteva negli anni Settanta e Ottanta un riferimento penale sistematico per contrastare le diverse forme di violenza che nel frattempo venivano ad essere rilevate ed approfondite in tutti i loro risvolti (maltrattamento fisico e psicologico, trascuratezza, contesa dei figli, violenza sessuale, sfruttamento dei minori e molte altre aree).
Si consideri, a titolo di esempio che solo con la legge 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale) tutto il sistema penale di contrasto alla violenza sessuale fu riformato con nor¬me di garanzia e di tutela dei minori più efficaci. Solo con la legge 3 agosto 1998, n. 269 (Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù) fu sistematizzato e reso più moderno il sistema penale di tutela contro lo sfruttamento in genere dei minori. Solo con la legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) fu introdotto un sistema efficace basato su ordini di protezione a tutela delle vittime della violenza domestica.
Lo stesso codice penale si rivelava inefficace nel contrasto alle nuove emergenti forme della vio¬lenza psicologica sui minori e sia il reato di lesioni (art. 582 c.p.) che quello di maltrattamenti (art. 572 c.p.) non trovavano quasi mai applicazione nell’ambito specifico della violenza psicologica.
La legge 1 ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale) interveniva sul delitto di maltrattamenti e modificava il primo comma dell’art. 572 che veniva così riscritto: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni” e inseriva un secondo comma del tenore seguente: “La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici”.
La tutela fu poi estesa a tutti i minorenni vittime di violenza e di maltrattamenti con l’inserimento nell’art. 61 c.p. (aggravanti comuni) di un n. 11-quinquies il cui testo prevede come aggravante “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto”. Questo inserimento si deve al decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (contenente norme per il contrasto della violenza di genere) convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119.
In seguito a queste modifiche e a quelle, sopra ricordate, introdotte dalla legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere si è rafforzata decisamente la tutela offerta oggi in sede penale a tutte le vittime di violenza e di maltrattamenti nell’arco dell’intera minore età.
Sul versante della tutela processuale va ricordato che anche in caso di maltrattamenti sono at¬tivabili le garanzie che la legge espressamente riserva ai minori vittime di violenza sessuale. Sul punto Corte cost. 9 maggio 2001, n. 114 ha affermato “Premesso che la scelta del legislatore di prevedere una speciale disciplina per l’incidente probatorio rispetto ai reati sessuali è collegata a specifiche esigenze sia di assicurazione della genuinità della prova, sia, soprattutto di protezione del minore infrasedicenne rispetto alle possibili lesioni della sua personalità derivanti dalle modalità del suo intervento nel procedimento, non è fondata la questione di legittimità sollevata riguardo all’art. 398 comma 5 bis c.p.p.(Provvedimenti sulla richiesta di incidente probatorio) nella parte in cui non prevede, fra le ipotesi di reato in presenza delle quali essa si applica, il reato di maltratta¬menti in famiglia o verso fanciulli, di cui all’art. 572 c.p. in riferimento all’art. 3 della Costituzione. Diversamente è per il reato di maltrattamenti in famiglia che non presenta caratteristiche di tale assimilabilità, rispetto ai reati sessuali, da imporre in modo automatico l’estensione della medesima ratio. Tuttavia le modalità particolari di assunzione della testimonianza del minore infrasedicenne, previste dall’art. 398 comma 5 bis, con l’introduzione ad opera della legge 269/98 del comma 4 bis all’art. 498 c.p.p., il quale si applica nel dibattimento indipendentemente dal titolo di reato per il quale si procede, possono trovare applicazione, poiché esso è applicabile, in forza dell’art. 401 comma 5, anche nell’incidente probatorio, nell’ambito di un procedimento per reato diverso da quelli sessuali”.
Alla condanna per il delitto di maltrattamenti commessa dai genitori consegue, ai sensi dell’art. 34 cod. pen., la sospensione e la decadenza della responsabilità genitoriale.
2. L’abuso psicologico
Come si è visto nei paragrafi precedenti lo spettro dei comportamenti sanzionati dal reato di mal-trattamenti è, invece, oggi praticamente illimitato (percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, fatti le¬sivi dell’integrità anche solo morale del soggetto passivo: Cass. pen. sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12605; Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126).
Secondo la definizione fornita dal Consiglio d’Europa nel 1978, il maltrattamento “si concretizza negli atti e nelle carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di un terzo”.
Nel 1999 la Consulta sulla prevenzione dell’abuso sui bambini dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato la seguente definizione: “l’abuso o il maltrattamento sull’infanzia è rappresen¬tato da tutte le forme di cattivo trattamento fisico e/o affettivo, abuso sessuale, incuria o tratta¬mento negligente nonché sfruttamento sessuale o di altro genere che provocano un danno reale o potenziale alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità del bambino, nell’ambito di una relazione di responsabilità, fiducia o potere”.
Come sottolineato nel rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “per maltrattamento psicologico si intende una relazione emotiva caratterizzata da ripetute e continue pressioni psico¬logiche, ricatti affettivi, indifferenza, rifiuto, denigrazione e svalutazioni che danneggiano o inibi¬scono lo sviluppo di competenze cognitivo-emotive fondamentali quali l’intelligenza, l’attenzione, la percezione, la memoria.”
Nell’ordinamento giuridico italiano né la trascuratezza (di cui si dirà nel prossimo paragrafo) né l’a¬buso psicologico sono previsti espressamente quali fattispecie specifiche di reato. I reati nei quali questi comportamenti possono rientrare sono oggi sparsi all’interno del codice penale in modo disordinato come per esempio, ove ve ne siano i presupposti, quello di abbandono (art. 591 c.p.), di ingiuria (art.594 c.p.), di violenza privata (art. 610 c.p.), di minaccia (art. 612 c.p.), di lesioni (nei quali ultimi rientrano i comportamenti che provocano “una malattia nel corpo o nella mente” secondo la definizione che ne dà l’art. 582 c.p.).
Qui va osservato che l’abuso psicologico contro bambini e adolescenti consiste in atti omessi o commessi che vengono ritenuti psicologicamente dannosi. Tali comportamenti vengono messi in atto individualmente o collettivamente da persone che, per particolari caratteristiche come l’età o la condizione sociale, sono in posizione di potere rispetto al bambino. Si tratta di comportamenti che possono danneggiare anche in modo irreversibile lo sviluppo affettivo, cognitivo, relazionale e fisico del minore. L’abuso o maltrattamento psicologico include gli atti di rifiuto, terrorismo psicologico, minaccia, sfruttamento, isolamento e allontanamento del bambino dal contesto sociale. Mentre la vio¬lenza psicologica può verificarsi da sola, essa accompagna spesso la violenza fisica e quella sessuale.
Si legge nella letteratura specialistica sull’argomento che l’abuso psicologico a danno di minore può assumere diverse forme e consistere nel farlo sentire costantemente giudicato; fargli continue critiche o esprimere giudizi negativi sulla sua personalità, sul suo aspetto fisico e sulle sue capacità; impedirgli di esprimere determinate emozioni e comportamenti, come la rabbia e il pianto; farlo vivere in un clima familiare costantemente caratterizzato da angoscia o terrore; nei casi di conflittualità fra coniugi metterlo contro l›altro genitore; limitarlo e proteggerlo eccessivamente. L’abuso psicologico, se perpetuato nel tempo e qualora assuma connotazioni particolarmente gravi può produrre diverse conseguenze nella crescita del bambino: scarsa autostima e assertività, incapacità di avere fiducia negli altri, instabilità o disadattamento emozionale, disturbi del sonno e inibizione del gioco.
La giurisprudenza ha saputo cogliere alcuni aspetti legati specificamente all’abuso psicologico sui minori e se ne parlerà allorché si tratterà dell’abuso dei mezzi di correzione (Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491; Cass. pen. Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289; Cass. pen. Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 11251; Cass., Sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34492).
Come prescrive il secondo comma dell’art. 40 c.p. (“Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”), il delitto di maltrattamenti può consumarsi anche mediante omissioni giacché “trattare” un figlio da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c. che impone l’obbligo di “mantenere, istruire ed educare la prole te¬nendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” e, per converso, “maltrattare” vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evi¬dente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale, né morale di risolvere da solo (Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904). Di converso si è anche soste¬nuto, però, che “non integrano il delitto di maltrattamenti in famiglia fatti episodici di aggressione, violenza e rimprovero nei confronti dei figli, collegati alla contingente e particolare situazione di frustrazione vissuta dalla madre che, oltre al fallimento del proprio matrimonio, si vede rifiutata dai figli che hanno un rapporto di frequentazione privilegiato col padre, invece che con la madre stessa, affidataria (Cass. pen. Sez. VI, 21 maggio 2009, n. 40385). Sempre in questa direzio¬ne Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 ha ritenuto che il delitto di maltrattamenti può essere integrato anche da atteggiamenti iperprotettivi o di grave trascuratezza nei confronti del minore che si concretizzano nel non fargli frequentare con regolarità la scuola, nell’impedirne la socializzazione, nell’impartire regole di vita tali da incidere sul suo sviluppo psichico e nel pro¬spettargli la figura paterna come negativa e violenta.
Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962 precisa che il reato di maltrattamenti in famiglia, essendo a forma libera, può sicuramente essere integrato anche da condotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore. (Nella specie l’impu¬tato aveva tenuto ripetutamente nei confronti della figlia minore atteggiamenti diretti e idonei a stimolare in lei un’impropria e precoce inclinazione erotico-sessuale, con palese turbamento, ac¬clarato con perizia, della sua equilibrata evoluzione psichica)
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2014, n. 12004 la nozione di malattia nella fattispecie di lesioni personali – cui evidentemente fa rinvio anche l’art. 572, comma 2, c.p. – risulta certa¬mente riferibile anche alle situazioni di mancata o ritardata crescita dei bambini dipendente da problemi di malnutrizione, trattandosi di disturbo patologico che richiede adeguati esami diagno¬stici e opportuni trattamenti terapeutici per fronteggiare quello che è una vera e propria forma di alterazione del normale ritmo di sviluppo del minore.
La stessa sentenza precisa anche che la circostanza aggravante della lesione grave, di cui al se¬condo comma dell’art. 572 c.p., può essere integrata dalla ritardata crescita del minore che, per via dei maltrattamenti, si sia trovato in condizioni di denutrizione o malnutrizione tali da cagionare la predetta malattia. Ciò in quanto la nozione di malattia nella fattispecie di lesioni personali – cui evidentemente fa rinvio anche ‘art. 572, comma 2, c.p. – non comprende solamente le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì tutte quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle fun¬zioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa.
In base a quanto precisato da Cass. pen. Sez. VI, 6 maggio 2014, n. 23013 il delitto di cui all’art. 572 c.p. si configura qualora sia dimostrato il requisito dell’abitualità della condotta, il quale può essere desunto sia dai segni fisici rilevati sulle vittime che dagli anomali comportamenti reat¬tivi osservati sulle stesse, soprattutto se ci si riferisce a bambini di tenerissima età non in grado di esprimersi verbalmente e di far emergere tempestivamente il loro disagio.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 3419 configura il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. la condotta di chi, avuto in consegna un minore allo scopo di accu¬dirlo, educarlo ed avviarlo ad una istruzione, consente che viva in stato di abbandono in strada, per vendere piccoli oggetti e chiedere l’elemosina, appropriandosi poi del ricavato e disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo fisico e morale cui egli si trovi esposto: si tratta infatti di una condotta lesiva dell’integrità fisica e morale del minore, idonea a determinare una situazione di sofferenza, di cui va ritenuto responsabile chiunque ne abbia l’affidamento.
3. La trascuratezza
La trascuratezza (negligenza) nelle forme della incuria (cure insufficienti rispetto ai bisogni fisici e psicologici propri dell’età e del momento evolutivo), la discuria (cure distorte e inadeguate rispetto all’età, richiesta di prestazioni superiori all’età e alle possibilità, accudimento iperprotettivo) o della ipercura (cure eccessive, caratterizzate da una inadeguata e dannosa medicalizzazione) difficil¬mente rientra nelle norme del codice penale..
In giurisprudenza sono stati configurati come maltrattamenti il persistente disinteresse verso i figli ((Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904 ) o la malnutrizione (Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2014, n. 12004).
Di ipercura si è occupata Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 dove si legge che nel concetto di maltrattamenti, richiesto ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p., rientrano non solo condotte che si qualificano per una chiara connotazione negativa, talora violenta, talora subdolamente mortificante o ingiustificatamente punitiva, ma sempre e comunque negativa, ma anche atteggiamenti iperprotettivi, qualificabili come eccesso di accudienza, di prote¬zione e di cura. L’oggetto giuridico del delitto in oggetto, invero, non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, connotati da una chiara connotazione negativa, ma anche dalla tutela della incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto.
Integra, perciò, il delitto di maltrattamenti in famiglia il genitore che tenga nei confronti del figlio minore comportamenti iperprotettivi tali da incidere sullo sviluppo psicofisico dello stesso, a pre¬scindere dal fatto che il minore abbia o meno percepito tali comportamenti come un maltrattamen¬to o vi abbia acconsentito.
Integrano l’elemento oggettivo del delitto ex art. 572 c.p. gli atteggiamenti iperprotettivi tenuti nei confronti del minore, che siano concretamente idonei a ritardare gravemente nel minore stesso sia lo sviluppo psicologico relazionale, sia l’acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari.
Il ricorso dell’elemento psicologico del delitto di maltrattamenti in famiglia, ritenuto sussistente anche in presenza di atteggiamenti denotanti un eccesso di accudienza, di protezione e di cura nei confronti del minore, se può escludersi in una fase iniziale, allorquando sia legittimo ritenere che la famiglia agisca in buona fede nella scelta delle metodiche educative e nell’accurata attenzione nell’impedire al minore contatti di ogni tipo, isolandolo nelle sicure mura domestiche, deve cer¬tamente ritenersi sussistente qualora perduranti le condotte familiari anche in seguito a ripetuti e sinergici interventi correttivi provenienti da una pluralità di esperti e tecnici dell’età evolutiva e del disagio psichico, oltre che delle competenti Autorità giudiziarie. La persistenza, ciò nonostante, delle metodiche di iperaccudienza e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle pre¬scrizioni, talora imposte e talora concordate, segnala, invero, al di là di ogni ragionevole dubbio, la pacifica ricorrenza in capo agli agenti della intenzionalità della condotta che connota il delitto previsto e punito dal disposto codicistico di cui all’art. 572 c.p.
4. La violenza assistita
Per violenza assistita, soprattutto in ambito domestico, si intende ogni situazione nella quale un bambino assista alla violenza tra soggetti appartenenti al proprio nucleo familiare. Anche laddove una donna sia oggetto di violenza da parte del compagno, esistono due vittime: la donna, diretta¬mente colpita, e il bambino che assiste.
Secondo dati non recenti (2007) dell’ISTAT tra le donne che hanno subito violenze ripetute da parte del partner, sono 690 mila quelle avevano figli al momento della violenza; il 62,4% di queste ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più di questi episodi: nel 19,6% dei casi i figli vi hanno assistito raramente, nel 20,2% a volte, nel 22,6% spesso.
In giurisprudenza si è ritenuto sussistente il delitto di maltrattamenti verso i figli in casi di violenza assistita a casi in cui la violenza era stata, appunto, esercitata nei confronti della madre dei minori che vi avevano assistito e che a causa di questo “avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria madre e, quindi, assistevano agli atti vessatori del padre, ivi comprese le minacce di morte indirizzate alla madre” (Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142).
Si tratta di una vicenda in cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità dell’imputato, in ordine al delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli minori, pur riconoscendo che gli atti di violenza fisica erano stati indirizzati solo alla convivente, avendo evidenziato le ricadute del comportamento del genitore sui minori, i quali avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria madre.
Il delitto di maltrattamenti può essere, quindi, integrato anche mediante condotte omissive, in¬dividuabili nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta verso altri soggetti.
Integrano, perciò, il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore anche le condotte persecu¬torie poste in essere da un genitore nei confronti dell’altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di condotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli ele¬mentari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest’ultimo (Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2018, n. 32368)
Perciò il principio è che integra il delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi.
Analogamente Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332 in un caso di maltrattamenti in danno dei figli minori realizzato con condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell’altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori obbligati di tali comporta¬menti, in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consa¬pevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole”.
In caso di violenza (assistita) esercitata in famiglia per esempio da un genitore nei confronti dell’altro e in presenza di un figlio minore si è già osservato che troverà anche applicazione l’art. 61 del codice penale al numero 11-quinquies che prevede come aggravante comune “l’avere… nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza…di un minore di anni diciotto. Quindi la violenza assistita può integrare il delitto di maltrattamenti aggravati.
Ed inoltre, come anche si è già detto, la legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere ha ulteriormente rafforzato il contrasto alla violenza assistita prevedendo nell’ultimo comma dell’art. 572 c.p. che “Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
Si afferma in Cass. pen. Sez. VI, 25 ottobre 2018, n. 2003 che in tema di maltrattamenti in fa¬miglia, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell’essere stato il delitto commesso alla presenza del minore, prevista dall’art. 61, n. 11-quinquies, cod. pen., non è necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell’abitualità, essen¬do sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato.
L’espressione “violenza assistita” compare per la prima volta in Cass. pen. Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 18833 dove si afferma che il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all’interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l’abi¬tualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi.
5. Il bullismo
L’ampiezza dei comportamenti che possono configurare il delitto maltrattamenti è tale da ricom¬prendere certamente anche i comportamenti che vanno sotto il nome di bullismo. Ci si riferisce con questo termine – secondo l’analisi che ne han fatto per esempio finora Telefono Azzurro nell’ambito dei comportamenti devianti nella minore età – a tutte quelle azioni di sistematica prevaricazione e sopruso messe in atto da parte di un bambino/adolescente, definito “bullo” (o da parte di un grup¬po), nei confronti di un altro bambino/adolescente percepito come più debole, la vittima.
Naturalmente fenomeni di bullismo sono conosciuti anche in contesti comunitari di adulti, per esempio nell’ambiente militare.
Secondo le definizioni date dagli studiosi del fenomeno una persona è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto deliberatamente da altre persone.
Non si fa quindi riferimento ad un singolo atto, ma a una serie di comportamenti portati avanti ripetutamente, all’interno di un gruppo, da parte di qualcuno che fa o dice cose per avere potere su un’altra persona.
È possibile distinguere tra bullismo diretto (che comprende attacchi espliciti nei confronti della vittima e può essere di tipo fisico o verbale) e bullismo indiretto (che danneggia la vittima nelle sue relazioni con le altre persone, attraverso atti come l’esclusione dal gruppo dei pari, l’isolamento, la diffusione di pettegolezzi e calunnie sul suo conto, il danneggiamento dei suoi rapporti di amicizia). Quando le azioni di bullismo si verificano attraverso Internet (posta elettronica, social network, chat, blog, forum), o attraverso il telefono cellulare, si parla di cyberbullismo.
In giurisprudenza finora il bullismo non ha ricevuto molta attenzione e non ne risulta una configu¬razione all’interno del delitto di maltrattamenti.
V I maltrattamenti nei contesti educativi e l’abuso dei mezzi di correzione
L’art. 572 c.p. – aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 11-quinquies c.p. quando commesso in danno di un minore di età – è naturalmente configurabile non solo in famiglia ma, in virtù di quanto espressamente previsto nella stessa disposizione anche a scuola e comunque in tutti i contesti di socializzazione scolastici, extrascolastici, sportivi, educativi (persone affidate per ragioni di edu¬cazione e istruzione), tutti ambiti nei quali la correttezza nel rapporto tra educatori e minori deve essere garantita al massimo.
A questo proposito sono molte e continue anche in giurisprudenza le interferenze tra il delitto di “maltrattamenti” (art 572 c.p.) e quello di “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” (art. 571)2 la cui matrice storica unitaria è evidente anche dalla stessa collocazione simmetrica delle due norme. Sono anzi frequenti le interpretazioni del reato di maltrattamenti subordinate all’interpre¬tazione del reato di abuso dei mezzi di correzione. Presupposto comune è, almeno storicamente, l’attribuzione di uno ius corrigendi, al genitore o all’educatore, da esercitarsi però non in modo abusivo (abuso dei mezzi di correzione) né in modo violento (maltrattamenti).
Il reato di cui all’art. 571 c.p. sanziona con simmetrica aderenza al reato di maltrattamenti “chiun¬que abusa dei mezzi di correzione o di disciplina di una persona affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte” se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente.
Si tratta di una norma accusata da sempre di anacronismo morale e sociale. La norma lascia inten¬dere, infatti, che siano leciti di per sé mezzi di correzione e di disciplina, ed in ogni caso, sanziona l’uso di un potere correttivo che scivola in atti di violenza – come prevede il secondo l’art. 571 c.p. – con sanzioni attenuate rispetto a quelle previste per le lesioni e la morte della persona offesa. L’abuso dei mezzi di correzione è punito con la reclusione fino a sei mesi ma il secondo comma dell’art. 571 prevede che “se dal fatto deriva una lesione personale si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte di un terzo; se ne derivala morte, si applica la reclusione da tre a otto anni”. Riduzione di pena intollerabile perché lascia intendere che la finalità educativa costitu¬isce una attenuante della violenza.
Ed è proprio nell’affermazione della inconciliabilità tra qualsiasi finalità educativa e la violenza che si è sviluppato nel tempo ormai un consolidato orientamento giurisprudenziale che in questo ambito appare ineccepibile e che ha portato la giurisprudenza ad affermare perentoriamente che alla luce della concezione personalistica e pluralistica della Costituzione (art. 2, 3, 29, 30, 31), del riformato diritto di famiglia ( art. 147 c.c.) e della convenzione delle nazioni unite sui diritti del bambino (New York, 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la l. 27 maggio 1991 n. 176), non può non ritenersi lecito l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi. (Cass. pen. Sez. VI, 16 maggio 1996, n. 4904)
Già Cass. pen. Sez. I, 29 giugno 1977 aveva chiarito che il carattere distintivo tra le incrimi¬nazioni previste dall’art. 572 e dall’ art. 571 c.p. consiste nel fatto che la prima implica l’uso di mezzi o modi di trattamento sempre e di per se stessi illeciti, mentre la seconda postula l’eccesso nell’uso di mezzi giuridicamente leciti, che, tramutando l’uso in abuso, lo fa diventare illecito; inol¬tre, il reato di cui all’art. 571 c.p. è qualificato da un dolo specifico che si concreta nell’avere agito nell’esercizio dello “ius corrigendi”, cioè al particolare fine correttivo.
In un caso di abusi da parte di un insegnante Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2018, n. 45736 ha ritenuto che l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina in ambito scolastico, si può configurare a condizione che sia esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravitàdel comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità. Analogamente ha ritenuto Cass. pen. Sez. V, 16 luglio 2015, n. 47543 e Cass. pen. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 9954 (Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che faccia ricorso a qualunque forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi). Si tratta di sentenze non prive tuttavia di elementi di ambiguità.
Meo ambigue sono altre sentenze. Per esempio in una vicenda di maltrattamenti commessi da un insegnante nei confronti dei propri alunni Cass. pen. Sez. VI, 25 giugno 1996, n. 8314 ricor¬da che l’utilizzazione di sanzioni corporali è vietato espressamente dall’ordinamento scolastico, così come qualunque condotta di coartazione fisica o morale che renda dolorose e mortificanti le relazioni tra l’insegnante e la classe attuata consapevolmente, fosse anche per finalità educative. Pertanto, come afferma Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2002 integra il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p., e non quello di abuso dei mezzi di correzione e disciplina di cui all’art. 571 c.p., l’imposizione di un regime di vita scolastica assolutamente ed inutilmente umi¬liante e vessatorio per i piccoli alunni, soggetti a ripetute ingiurie, ad imposizioni mortificanti ed in alcuni casi anche a violenza fisica.
Effettivamente il reato di cui all’art. 571 c.p. presuppone un uso consentito e legittimo dei mez¬zi correttivi, e non è configurabile, per mancanza dell’elemento oggettivo, nel caso in cui lo ius corrigendi venga esercitato fuori dai casi consentiti o con mezzi di per sé illeciti e contrari al fine educativo.
La condanna della violenza da parte della giurisprudenza nelle vicende in cui l’imputato pretende di dare legittimità ad un asserito ius corrigendi che sussisterebbe tra coniugi è molto netta. Cass. pen. Sez. VI, 26 aprile 2011, n. 26153 chiarisce che non rileva, ai fini dell’esclusione del dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia, la circostanza che il marito abbia agito sulla base della convinzione della superiorità della figura maschile all’interno della famiglia e della conseguente legittimità di atteggiamenti “padronali” nei confronti della moglie. Cass. pen. Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 45585 precisa che l’eventuale inadeguatezza del ruolo genitoriale della moglie mai e in nessun caso può giustificare il maltrattamento ad opera del marito, cui non può competere alcun intervento in funzione di un inammissibile “ius corrigendi”, il quale, comunque, non dà alcuna le¬gittimità ad azioni e condotte caratterizzate da violenza.
Nella medesima prospettiva Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832, Cass. pen. Sez. III, 6 novembre 2018, n. 17810; Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52900, Cass. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2017, n. 17574 hanno ribadito che in tema di reati contro la famiglia, non può ritenersi lecito l’uso sistematico da parte del genitore di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del figlio minore, anche se sorretto da “animus corrigendi”, integrando in tal caso il più grave reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione.
Ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2018, n. 45736 e Cass. pen. Sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 11956 e Cass. pen. Sez. VI, 23 marzo 2016, n. 19852 hanno ritenuto che integra il reato di maltrattamenti e non di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno, causandogli peri¬coli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravitàdel comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Il tema del rapporto tra “maltrattamenti in famiglia” e “abuso dei mezzi di correzione” è anche utile per la corretta individuazione del dolo richiesto per la configurabilità dei due reati. A questo proposito Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2005, n. 39927 ha fornito di recente un criterio sul quale concorda pressoché tutta la giurisprudenza successiva. La sentenza afferma che per la configurabilità del reato di maltrattamenti l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità; ne consegue che deve escludersi che l’intenzione dell’agente di agire esclusivamente per finalità educative sia elemento dirimente per fare rientrare gli abituali atti di violenza posti in essere in danno dei figli minori nella previsione di cui all’art. 571 cod. pen., in quanto gli atti di violenza devono ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie dell’abuso dei mezzi di correzione, do¬vendo ritenersi tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tradiscano l’importante e delicata funzione educativa. Analogamente, in una penosa vicenda in cui un uomo era stato condannato per maltrattamenti per aver impedito alla figlia fin dalla tenera età di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa Cass. pen. Sez. VI, 20 febbraio 2007, n. 34460 ribadiva gli stessi principi affermando che la condotta relativa al delitto di maltrattamenti in famiglia si distingue rispetto a quella propria del delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina, in quanto, mentre quest’ultima presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a cagione dell’ec¬cesso, arbitrarietà o intempestività della misura, la prima implica un regime di prevaricazione e violenza ed una abitualità di comportamenti illegittimi, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita della vittima.
Si può affermare quindi che in giurisprudenza il principio consolidato è che gli atti di violenza devo¬no ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie dell’abuso dei mezzi di correzione (Cass. pen. Sez. VI, 31 maggio 2007, n. 40340; Cass. pen. Sez. VI, 7 novembre 2007, n. 45283; Cass. pen. Sez. V, 15 dicembre 2009, n. 2100; Cass. pen. Sez. V, 15 dicembre 2009, n. 2100; Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2009, n. 48272; Cass. pen. Sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45467; Cass. pen. Sez. VI, 10 settembre, 2012, n. 34492; Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53425; Cass. pen. Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 30436; Cass. pen. Sez. VI, 13 novembre 2015, n. 5258; Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52900; Cass. pen. Sez. VI, 11 ottobre 2016, n. 48703; Cass. pen. Sez. VI, 28 giugno 2017, n. 40959; Cass. pen. Sez. III, 6 novembre 2018, n. 17810; Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832).
Permane comunque in giurisprudenza ancora l’utilizzazione del reato di abuso dei mezzi di cor¬rezione per stigmatizzare l’uso di mezzi eccedenti la normale funzione educativa, anche se nelle vicende di cui i giudici si sono occupati sono visibili molto chiaramente i segni anche del delitto di maltrattamenti.
È opportuno ricordare che l’art. 571 c.p. prevede che la condotta sia punibile “se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corso o nella mente” e che proprio in ordine al pericolo per la salute, la Corte di cassazione ha più volte precisato che la nozione di malattia nella mente (il cui rischio di causazione implica la rilevanza penale della condotta di cui all›art. 571 c.p.) è più ampia di quelle concernenti l›imputabilità o i fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d’ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento (Cass. pen. Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289; Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491; Cass. pen. Sez. III, 22 ottobre 2009, n. 49433).
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491 è configurabile il reato di abuso dei mezzi di correzione (sempre che, ricorrendo il requisito dell’abitualità ed il necessario elemento soggettivo, non si renda configurabile il più grave reato di maltrattamenti), anche il comportamen¬to doloso, attivo od omissivo, mantenuto per un tempo apprezzabile, che finisca per umiliare, sva¬lutare, denigrare e sottoporre a sevizie psicologiche un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche psichica, senza che in contrario possa rilevare il fatto che esso sia stato posto in essere con intenzione correttiva e disciplinare.
In un caso in cui alcuni bambini affidati ad un’insegnante di scuola materna erano stati in più oc¬casioni oggetto di minacce e percosse e sottoposti a umilianti dileggi per il loro basso rendimento scolastico Cass. pen. Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289 ricorda che il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, a differenza di quello di maltrattamenti, non ha natura di reato abituale e può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso, ovvero da una serie di comportamenti lesivi dell’incolumità fisica e della serenità psichica del minore, che, mantenuti per un periodo di tempo apprezzabile e complessivamente considerati, realizzano l’evento, quale che sia l’intenzione correttiva o disciplinare del soggetto attivo.
Considerazioni analoghe sono svolte da Cass., Sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34492, rela¬tivamente al comportamento di una insegnante che aveva umiliato, svalutato denigrato e com¬messo atti di abuso psicologico su un alunno “atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità”. Il tribunale di Palermo aveva assolto un’insegnante che aveva fatto scrivere ad un alunno “per punizione” cento volte la frase “sono deficiente” per aver vessato con episodi di bullismo un compagno più debole, non è punibile per abuso dei mezzi di correzione o disciplina, essendo tale strumento correttivo proporzionato, efficace, l’unico imme¬diatamente disponibile, ed illustrato a tutta la classe nel suo intento educativo.
In accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero la Corte d’appello di Palermo dichiarava l’imputata colpevole del reato di abuso dei mezzi di disciplina rilevando che l’imputata “ha manife¬stato nei rapporti con il minore un comportamento particolarmente afflittivo e umiliante, trasmo¬dante l’esercizio della sua funzione educativa.
La Cassazione rilevava che dal processo educativo va bandito ogni elemento contraddittorio ri¬spetto allo scopo e al risultato che il nostro ordinamento persegue, in coerenza con i valori di fondo assunti e consacrati nella Costituzione della Repubblica. Non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, distortamente finalizzata a scopi ritenuti educativi: e ciò sia per il pri¬mato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono. Ne consegue che non ogni intervento correttivo o disciplinare può ritenersi lecito sol perché soggettivamente finalizzato a scopi educativi o discipli¬nari; e, d’altro lato, può essere abusiva la condotta, di per sé non illecita, quando il mezzo è usato per un interesse diverso da quello per cui è stato conferito, per esempio a scopo vessatorio, di pu¬nizione esemplare, per umiliare la dignità della persona sottoposta, per mero esercizio d’autorità o di prestigio dell’agente. Sotto altro profilo, la nozione giuridica di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non può ignorare l’evoluzione del concetto di “abuso sul minore”, che si è andato evolvendo e specificando nel tempo. Da una sorpassata e limitativa nozione di abuso, inteso come comportamento attivo dannoso sul piano fisico per il bambino, l’attuale cultura giuridica e quella medica e psicologica qualificano come abuso anche quello psicologico, correlato allo sviluppo di numerosi e diversi disturbi psichiatrici. Costituisce abuso punibile a norma dell’art. 571 c.p. (e che, nella ricorrenza dell’abitualità e del necessario elemento soggettivo, può integrare anche il delitto di maltrattamenti) anche il comportamento doloso che umilia, svaluta, denigra o violenta psico¬logicamente un bambino,, causandogli pericoli per la salute, anche se è compiuto con soggettiva intenzione educativa o di disciplina. Viene richiamata Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491 che molto opportunamente ricorda come nell’ordinamento italiano, incentrato sulla Costi¬tuzione della Repubblica e qualificato dalle norme in materia di diritto di famiglia (introdotte dalla legge n. 151 del 1975) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con la legge n. 176 del 1991), il termine “correzione”, utilizzato dall’articolo 571 del c.p., va assunto come sinonimo di educazione, con ri¬ferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. Ne deriva che non può più ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato a scopi ritenuti educativi: ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti; sia perché non può più perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, utilizzando mezzi violenti e costrittivi.
Stesse considerazioni sono svolte da Cass. pen. Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 11251 in una vicenda in cui una donna con violenza aveva imposto il taglio di capelli alla propria figlia minoren¬ne essendo risultato che all’opposizione della bambina aveva fatto riscontro una isterica reazione della madre che aveva inteso proseguire nelle sue operazioni particolarmente pericolose, per affer¬mare la propria autorità sulla piccola abusando dei mezzi di correzione e disciplina.
In molte delle vicende esaminate nel leggere le pesanti imputazioni rivolte agli imputati potrebbe dubitarsi della configurabilità del reato di abuso dei mezzi di correzione essendo, invece, più ade¬rente ai fatti semmai l’imputazione per maltrattamenti. i
I tempi sembrano maturi per espungere del tutto il reato di “abuso dei mezzi di correzione” dal codice penale lasciando che il giudice adegui la sanzione del delitto di “maltrattamenti” alla gravità delle condotte e al dolo dell’agente.
VI Anziani, disabili e maltrattamenti
Si è visto che il nuovo testo dell’art. 572 c.p. – come modificato dall’art. 9 della legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere – prevede un aumento della pena “fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona mi¬nore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi”. Il disabile è quindi a pieno titolo inserito, con i minori e le donne in stato di gravidanza, tra le vittime più vulnerabili del delitto di maltrattamenti.
In una vicenda di cui si è occupata Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 9724 si è affermato che il reato di maltrattamenti è integrato non soltanto da specifici fatti commissivi direttamente opprimenti la persona offesa, sì da imporle un inaccettabile e penoso sistema di vita, ma altresì da fatti omissivi di deliberata indifferenza verso elementari bisogni esistenziali e affettivi di una persona disabile (Fattispecie relativa ad una serie di comportamenti posti in essere nei confronti di una persona totalmente inabile e portatrice di “sindrome di down”, affidata alla cura e vigilanza di una “badante” con essa convivente).
Anche i disabili e gli anziani, a causa delle ridotte capacità di difesa, sono potenziali vittime di maltrattamenti, spesso in famiglia, oppure nelle strutture sanitarie o nelle case di riposo dove sono ricoverati.
Come ha osservato Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 12866 la reiterata e grave carenza di cure ed assistenza di persone anziane non autosufficienti, può certamente configurare il reato di maltrattamenti.
Il rapporto tra una struttura sanitaria e i pazienti ospitati per ragioni di cura è particolarmente esposto al rischio dell’abuso e del maltrattamento, come le cronache giornalistiche mettono spesso in evidenza. E molte decisioni si sono occupate dei maltrattamenti in questo settore. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 30 maggio 1990, n. 394 (in un caso in cui si contestava ai responsabili di una struttura pubblica di assistenza e cura di non aver impedito ad estranei di maltrattare gli anziani ricoverati); Cass. pen. Sez. VI, 17 ottobre 1994, n. 3965 (in tema di contegno omissivo da parte di responsabile di un dipartimento di salute mentale di una U.S.L. nei confronti di persone affidate ad una struttura assistenziale); Cass. pen. Sez. VI, 21 dicembre 2009, n. 8592 (in relazione alla continua espressione di frasi ingiuriose e a maltrattamenti fisici da parte delle operatrici di un istituto pubblico di assistenza nei confronti di persone anziane ricoverate nel reparto di lunga degenza).
Secondo Cass. pen. 16 gennaio 1991 il delitto di maltrattamenti riferito a fatti commessi in una struttura assistenziale – specie se pubblica – per persone anziane (o minori o minorate o comunque bisognose di aiuto), può essere realizzato anche a mezzo di soggetto estraneo; ciò si verifica quan¬do i responsabili dell’assistenza consapevolmente e deliberatamente si astengano dall’impedire che persone non autorizzate realizzino condotte integranti l’elemento oggettivo del reato, posto che in tale situazione, stante il dovere funzionale, di natura pubblicistica, di attivarsi, non impedire la verificazione dell’evento, sotto il profilo eziologico, equivale a cagionarlo.
In tema di maltrattamenti di persone affidate ad una pubblica struttura di assistenza e cura, la valutazione dei comportamenti tenuti dai soggetti obbligati a garantire cura e livelli di vita decorosi e conformi ai regolamenti dell’ente, va operata con massimo rigore, dato che i comportamenti di aggressione fisica, o di lesione del patrimonio morale, o di sopraffazione sistematica, costituenti l’essenzialità dell’elemento materiale del delitto de quo, sono, in negativo, esaltati dalla violazione dei doveri funzionali, connessi alla posizione di garanzia di cui quei soggetti sono onerati.
La problematica giuridica non è diversa da quella di cui fin qui si è parlato.
Come si è visto, per i minori il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito nella legge 15 otto¬bre 2013, n. 119 ha introdotto l’aggravante generale di cui all’art. 61, n.11-quinquies c.p. “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza). Prima di allora però non erano previste specifiche aggravanti nel codice penale salvo l’aggravante specifica per fatti commessi contro mi¬nori di quattordici anni inserita dalla legge 1 ottobre 2012, n. 172 e poi sostituita nel 2013 dall’art. 61 n. 11-quinquies.
Per gli anziani ugualmente non era prevista nel codice un’apposta aggravante. L’unica aggravante ipotizzabile era quella generica di cui all’art. 61 n. 5 c.p. (“l’avere profittato di circostanze di tem¬po, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”) segno eloquente di quanto l’età anziana, nonostante l’ampiezza demografica, avesse sempre poco attirato le attenzioni del legislatore. Solo nel 2009 l’aggravante in questione venne meglio specificata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) e il nuovo testo dell’art. 61 n. 5 c.p. è da allora il seguente: “l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. Il riferimento specifico all’età è il segnale di una inversione di rotta dell’ordinamento giuridico diventato più attento alle esigenze di protezione degli anziani.
Nei casi di maltrattamenti in famiglia non è escluso il concorso con l’aggravante generale di cui all’art. 61 n. 11 sotto il profilo dell’avere commesso il fatto con abuso di relazioni domestiche o di coabitazione.
Alcune decisioni edite si riferiscono al reato di abbandono di persone incapaci anche per vecchiaia di cui si debba avere cura o si abbia la custodia (art. 591 c.p.). Per esempio Cass. pen. Sez. I, 15 gennaio 2009, n. 5945 e Cass. pen. Sez. V, 9 aprile 1999, n. 6885 dove si afferma che, ai fini della sussistenza del reato di abbandono di persone incapaci, che è necessario accertare sempre in concreto, salvo che si tratti di minori di anni quattordici [espressamente previsti come persone offese], l’incapacità del soggetto passivo di provvedere a se stesso con la conseguenza che non vi è presunzione assoluta di incapacità per vecchiaia, la quale non è una condizione pato¬logica ma fisiologica che deve essere accertata concretamente quale possibile causa di inettitudine fisica o mentale all’adeguato controllo di ordinarie situazioni di pericolo per l’incolumità propria; Cass. pen. Sez. V, 21 ottobre 1992 dove, sempre in tema di abbandono di persone anziane si ritiene sufficiente qualsiasi azione o omissione che contrasti con l’obbligo della custodia o della cura; nella fattispecie l’imputato, amministratore unico di una società, cui era affidata la gestio¬ne di un gerontocomio, abbandonava le persone ospitate, incapaci di provvedere a se stesse per vecchiaia, consentendo in particolare che le stesse fossero tenute in pessime condizioni, sotto il profilo igienico e sanitario.
Altre sentenze fanno applicazione dell’aggravante di cui si è parlato della “minorata difesa” per ragioni di età (art. 61 n. 5 c.p.). Così per esempio Cass. pen. Sez. II, 18 novembre 2014, n. 8998 dove si legge – con riferimento ad una rapina in cui la vittima era una donna di settanta¬quattro anni che aveva accennato una reazione alle minacce dei malfattori e che per questo veniva afferrata per le spalle e scaraventata a terra – che la circostanza aggravante di aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, a seguito della modifica normativa introdotta dalla sopra richiamata legge n. 94 del 2009, deve essere spe¬cificamente valutata anche in riferimento all’età senile e alla debolezza fisica della persona offesa, avendo voluto il legislatore assegnare rilevanza ad una serie di situazioni che denotano nel sog¬getto passivo una particolare vulnerabilità della quale l’agente trae consapevolmente vantaggio.
Ugualmente Cass. pen. Sez. V, 13 luglio 2011, n. 38347 e Cass. pen. Sez. II, 23 settembre 2010, n. 35997 secondo cui, sempre ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, l’età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative in¬trodotte dalla legge n. 94 del 2009, impone al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta criminosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di reazione della vittima.
Poco convincente, sempre in tema di minorata difesa, è l’orientamento seguito da Cass. pen. Sez. II, 17 settembre 2008, n. 39023 e Cass. pen. Sez. II, 30 marzo 1994, n. 10531 secondo cui l’età non può di per sé costituire condizione autosufficiente ai fini della configurabilità dell’ag¬gravante di cui all’art. 61 n. 5 c.p. dovendo essere accompagnata da fenomeni di decadimento o di indebolimento delle facoltà mentali o da ulteriori condizioni personali, quali il basso livello culturale del soggetto passivo, che determinano un diminuito apprezzamento critico della realtà.
Più condivisibile è, invece, quanto si legge nella risalente Cass. pen., 21 giugno 1983 che, ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c. p. osservò che non è richiesto che la difesa sia quasi o del tutto impossibile, ma è sufficiente che essa sia semplicemente osta¬colata; la debolezza fisica dovuta all’età senile costituisce una minorazione delle capacità difensive del soggetto che impedisce il tentativo di reazione possibile a una persona giovane e di ordinaria prestanza fisica, particolarmente quando la violenza non venga esercitata con uso di arma o altro mezzo intimidatorio, ma solo con mezzo fisico manuale, e quando risulti che la vittima del reato è stato scelta dall’agente in considerazione dell’avanzata età..
Alla condanna per il delitto di maltrattamenti di una persona anziana di età, commessa con abuso di potere o con abuso della professione, consegue, ai sensi dell’art. 31 cod. pen., l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione sanitaria.
VII I maltrattamenti in istituto
Strettamente legato al tema dei maltrattamenti verso disabili e anziani è quello dei “maltratta¬menti in istituto”. Con questa espressione si fa tradizionalmente riferimento alle condizioni di sof¬ferenza in cui spesso sono rinvenuti gli ospiti (minorenni o maggiorenni) all’interno delle strutture assistenziali (per adulti o per l’infanzia) e di custodia.
A tutto ciò si è recentemente riferita Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2019, n. 16583 chiarendo che ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., commesso all’interno di una comunità per l’assistenza e la cura dei disabili, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime può derivare anche dal clima vessatorio generalmente instaurato, per effetto di atti di sopraffazio¬ne indistintamente e variamente commessi dal personale a carico dei soggetti ricoverati, i quali, a causa delle proprie condizioni di vulnerabilità, sono vittime del detto reato tanto se patiscano in prima persona le violenze fisiche o verbali, quanto se ne siano meri spettatori.
Sono sempre più frequenti le notizie su fatti di abbandono e di maltrattamenti perpetrati in strut¬ture socio-sanitarie per anziani non autosufficienti. Talvolta si è arrivati a parlare di istituti “lager” dove i ricoverati vivono in condizioni precarie e subiscono maltrattamenti. Sono state scoperte alcune strutture di ricovero abusive e altri fatti illeciti che comportano situazioni di pericolo per la salute dei ricoverati.
In genere gli anziani degenti presso istituti socio-sanitari sono affetti da patologie croniche invali¬danti con necessità di cure medico-infermieristiche e di assistenza continua per il compimento dei normali atti della vita quotidiana. In questo contesto si verificano casi di abbandono e di maltratta¬menti per responsabilità di amministratori e operatori di strutture assistenziali che si comportano in violazione dei loro doveri contro gli assistiti. Le vittime, normalmente, sono persone incapaci di difendersi e di presentare denuncia penale contro i responsabili.
Il codice penale non prevede autonome figure di reato riferite specificamente alla responsabilità penale di amministratori e operatori di strutture e istituti che in violazione dei loro doveri, mettono in pericolo la salute degli utenti o causano danni agli stessi.
L’articolo 591 del codice penale prevede un’unica fattispecie criminosa per tutti i casi di “abban¬dono di persone minori o incapaci”. Nel paragrafo precedente sono state ricordate alcune decisioni significative di condanna nei confronti di amministratori di strutture assistenziali per abbandono di ricoverati anziani malati non autosufficienti lasciati in pessime condizioni igienico-sanitarie. La condotta criminosa del delitto in questione consiste nel lasciare la persona incapace in balia di se stessa o di soggetti inidonei a provvedere adeguatamente alla sua custodia ed alla cura o, comun¬que, insufficienti allo scopo, in modo tale che derivi un pericolo per la incolumità personale.
In giurisprudenza, come si è visto nel paragrafo precedente, è fatta applicazione del reato di mal-trattamenti ma, non è previsto – come si diceva – un delitto specifico relativo ai maltrattamenti perpetrati in istituto e in strutture di cura e di assistenza contro i ricoverati. Attualmente le ipotesi in questione ricadono dunque nell’ambito del reato di maltrattamenti in generale.
Prendendo in considerazione il problema dei maltrattamenti contro assistiti ricoverati ricorrono elementi tipici di gravità che impongono la previsione di autonome figure di reato. Occorre consi¬derare che ricorrono spesso in questi casi sia omissioni di cura e di assistenza, mancanza di igiene, pasti preparati con alimenti avariati o in cattivo stato di conservazione, e altri fatti che incidono negativamente sulle condizioni di vita di una pluralità di assistiti. Sia comportamenti vessatori che si manifestano attraverso un’aggressione abituale diretta contro una o più persone ricoverate.
Ai contesti di cui si è detto fanno riferimento alcune decisioni in giurisprudenza.
Così per esempio Cass. pen. Sez. VI, 5 dicembre 2007, n. 6581 ha precisato che integra il reato di maltrattamenti, previsto dall’art. 572 c.p., la condotta degli operatori di una casa di cura destinata ad accogliere pazienti affetti da gravi disturbi psichici; condotta sostanziatasi nel somministrare ai malati massicce dosi di sedativi, al fine di non dover prestar loro assistenza nel corso della notte o in altre circostanze. Lo stato di prostrazione determinato dall’abuso dei farmaci integra, invero, una grave causa di sofferenza, idonea a concretizzare la materialità del reato di cui all’art. 572 c.p.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 21 maggio 2012, n. 30780 integra il delitto di maltrattamen¬ti – e non solo quello di “abuso di autorità contro arrestati o detenuti”, reato istantaneo che può concorrere con quello di maltrattamenti – la reiterata e sistematica condotta violenta, vessatoria, umiliante e denigrante da parte degli agenti della polizia penitenziaria nei confronti di detenuti in ambiente carcerario e per tal motivo sottoposti alla loro autorità o, in ogni caso, a loro affidati per ragioni di vigilanza e custodia. .
Le pratiche persecutorie realizzate fuori dello stretto ambito familiare possono integrare il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. anche all’interno di comunità come quelle carcerarie, nell’ambito delle quali il rapporto tra agente e parte offesa, che vede il primo ricoprire una posizione di supre¬mazia formale e sostanziale nei confronti della seconda, assume natura para-familiare, poiché tale rapporto è caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i due soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione anche solo psico¬logica; ne deriva che condotte vessatorie, umilianti e denigranti cui vengano sottoposti i detenuti possono ricondursi all’elemento materiale del reato di maltrattamenti in famiglia
VIII Il mobbing: reato di maltrattamenti solo nelle realtà lavorative para-familiari?
I rapporti di lavoro (l’esercizio di una professione o di un’arte) costituiscono un altro contesti significativo in cui la giurisprudenza si è soffermata nell’esplorare la configurabilità del reato di maltrattamenti.
Molto esplicita sul punto Cass. pen. Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803 secondo cui la con¬figurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p. richiede la sussistenza di un rapporto, tra l’agente ed il soggetto passivo, caratterizzato da un potere autoritativo, esercitato di fatto o di diritto, dal primo sul secondo, il quale versa in una condizione di apprezzabile soggezione. La descritta situazione, tradizionalmente confinata in ambito familiare, è stata successivamente estesa anche ai rapporti educativi, di istruzione, cura, vigilanza e custodia, ovvero quelli che si instaurano in ambito lavo¬rativo. In relazione a tale ultimo rapporto, in particolare, è necessario che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia non solo formale ma sostanziale, la quale si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere specularmente ipotizzabile un’apprezzabile soggezione del soggetto passivo ad opera di quello attivo.
In questi ultimi anni molte decisioni hanno riconosciuto la configurabilità del delitto di maltratta¬menti in ambito lavorativo. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2014, n. 17689 secondo cui commette il reato di cui all’art. 572 c.p. il preside di un liceo che abbia maltrattato una pro¬fessoressa, insegnante in quell’istituto, a lui sottoposta per ragioni lavorative e di ordinamento, facendola oggetto di persecuzioni e di vessazioni; Cass. pen. Sez. VI, 2 novembre 2010, n. 774 che afferma che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro o sovraordinato gerarchico e lavoratore dipendente, essendo caratterizzato dal potere direttivo e/o disciplinare che la legge attribuisce ai primi nei confronti del secondo, pone quest’ultimo nella condizione, specifi¬camente prevista dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., di “persona sottoposta” alla “autorità” di altri, con conseguente astratta configurabilità della stessa a carico del sovraordinato; Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2009, n. 21537 secondo cui in tema di reato di maltrattamenti, rientra nel rapporto d’autorità di cui all’art. 572 c.p. il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, in quanto caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo; Cass. pen. Sez. VI, 5 febbraio 2009, n. 16031 che afferma che ai sensi degli artt. 36 e 37 D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, il Consigliere regionale di parità è legittimato a costituirsi parte civile, ex art. 74 c.p.p., nella veste di “danneg¬giato” dal reato di maltrattamenti commessi nei confronti di più lavoratori con atti e comportamenti a carattere discriminatorio, anche al fine di ottenere il ristoro del danno non patrimoniale subito; Cass. pen. Sez. III, 5 giugno 2008, n. 27469 secondo cui tra i soggetti passivi del delitto di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p., rientrano anche coloro che sono sottoposti all’autorità dell’a¬gente o sono al medesimo affidati per ragioni di istruzione o di educazione. Il rapporto di autorità sussiste, in particolare, fra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente, essendo, quest’ultimo, sot¬toposto al potere direttivo e disciplinare del primo. In tal caso, per la configurabilità del reato non è necessaria la convivenza, ma è sufficiente che tra i due sussista un rapporto di tipo continuativo.
Già in anni lontani altre sentenze aveva affrontato l’argomento. Per esempio Cass. pen. Sez. II, 18 marzo 1986, n. 7382 aveva affermato che “il reato di maltrattamenti, tipico delitto contro la famiglia, è configurabile, in una sua più vasta accezione, nei casi in cui la degenerazione dell’uso dei mezzi di correzione colpisca persone collegate all’agente da un rapporto di dipendenza o per lo svolgimento di una professione o di un’arte; in tal caso, però, l’illiceità del trattamento deve consistere in una sistematica persecuzione suggerita da odio, malanimo, disprezzo, crudeltà fine a se stessa, riconducibili alla determinazione dell’agente di arrecare sofferenze fisiche e morali”.
Particolarmente si presenta Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591 secondo cui in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previ¬sto dall’art. 571 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (nella specie, lancio di oggetti verso il dipendente e imposizione di stare seduto per lungo tempo davanti alla scrivania del datore di lavoro senza svolgere alcuna funzione).
Una volta ammesso che anche nell’ambito lavorativo sia configurabile il delitto di maltrattamento si tratta di verificare se il delitto possa configurarsi in presenza di quella particolare modalità di maltrattare un dipendente che va sotto il nome di mobbing.
Si tratta di un comportamento consistente in una serie di atti (anche se singolarmente considerati eventualmente leciti) che hanno lo scopo di perseguitare un lavoratore per emarginarlo e spingerlo a presentare le dimissioni o ad accettare mansioni diverse o inferiori. Una condotta, quindi, con¬siderata nel suo complesso, certamente lesiva della dignità professionale e umana del lavoratore.
Quanto questo comportamento è realizzato dal datore di lavoro (o comunque da un superiore) nei confronti di un dipendente prende anche il nome di mobbing verticale mentre se questa pratica viene realizzata da alcuni lavoratori nei confronti di un loro collega ritenuto da emarginare per i più svariati motivi (politici, etnici, razziali, di orientamento sessuale) si parla mobbing orizzontale.
Il tema è stato affrontato in particolare per le pratiche di mobbing (inquadrate in genere nel delitto di “violenza privata”: Cass. pen. Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413 in una vicenda all’Ilva di Taranto) cioè per quelle pratiche consistenti in una serie di atti che hanno lo scopo di perseguita¬re un dipendente per emarginarlo e, in sostanza, attraverso la lesione della sua dignità umana e professionale, spingerlo a presentare le dimissioni o ad accettare un declassamento della qualifica. Il mobbing in genere non si esaurisce in un’unica condotta, ma richiede una molteplicità di com¬portamenti diversi, che si esprimono attraverso una vera e propria attività persecutoria finalizzata all’emarginazione o all’espulsione dall’ambiente lavorativo della vittima e proprio per questo se ne suggerisce l’assimilazione al reato di maltrattamenti che presenta la stessa abitualità e continuità di comportamenti.
Ebbene il mobbing può integrare il delitto di “maltrattamenti” (reclusione da due a sei anni) o è inevitabilmente destinato a rimanere “violenza privata” (reclusione fino a quattro anni)?
Per esempio secondo Cass. pen. Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803 – sopra citata – integra il reato di violenza privata e non il reato di maltrattamenti in famiglia la condotta violenta e mi¬nacciosa reiteratamente posta in essere da un capo officina nei confronti di un meccanico, in modo da costringere il lavoratore, nel contesto di un’azienda organicamente strutturata, a tollerare una situazione di denigrazione e deprezzamento delle sue qualità lavorative È configurabile il reato di violenza privata aggravata ex art. 61, n. 11, c.p., e non già quello di maltrattamenti in famiglia, al cospetto di comportamenti mortificanti compiuti da un capofficina nei confronti di un meccanico nel contesto di un’azienda strutturata in maniera non riconducibile ad ambiti familiari.
Secondo una tra le più articolate decisioni sul punto (Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594) “il mobbing è punibile ai sensi dell’art. 572 c.p. solo con riferimento al rapporto lavorativo di natura para-familiare, ove si verifichi l’alterazione della funzione di quel rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo. Nella sentenza si leg¬ge che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratteriz¬zato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (nella vicenda è stata esclusa la sussistenza del reato in relazione alle vessazioni subite dalla dipendente di un’azienda di grandi dimensioni).
La sentenza – la cui impostazione, come si vedrà, verrà testualmente riproposta in tutte le altre successive che ad essa faranno pedissequo riferimento – non è del tutto convincente, dal momento che fonda la sua ragione giustificatrice sul fatto che il delitto di cui all’art. 572 c.p. avrebbe come bene tutelato quello della famiglia e delle relazioni familiari e da questa considerazione fa discen¬dere logicamente che esso potrebbe trovare applicazione solo in relazioni di lavoro para-familiare.
Se, tuttavia, il bene tutelato dalla disposizione penale di cui all’art. 572 c.p. non è la famiglia ma la persona nelle sue relazioni vitali assimilabili alle “formazioni sociali in cui si svolge la sua personali¬tà” (art. 2 Costituzione) dovrebbe conseguirne che i “maltrattamenti” potrebbero configurarsi anche nelle relazioni lavorative quali che sia il tipo di organizzazione del lavoro o la dimensione dell’azienda.
Tuttavia la giurisprudenza è ancora fortemente legata in questo settore all’orientamento che ritie¬ne ammissibile la configurabilità come maltrattamenti del mobbing solo se realizzato all’interno di una realtà lavorativa para-familiare.
Nella motivazione della sentenza capofila sopra richiamata (Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594) la premessa – ma non le conseguenze che se traggono – appafrecondivisibile. Si legge infatti che il mobbing è solo vagamente assimilabile alla previsione di cui all’art. 572 c.p., ma di questa non condivide tout court, quasi per automatismo, tutti gli elementi tipici. Ed invero, sia l’art. 571 c.p. che l’art. 572 c.p., indicano come soggetto passivo delle rispettivi; previsioni anche la “persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata…per l’esercizio di una professione o di un’arte”. La formula linguistica utilizzata postula il chiaro riferimento a rapporti implicanti una subordinazione, sia essa giuridica o di mero fatto, la quale – da un lato – può indurre il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente prevaricatrice verso il soggetto passivo e – dall’altro – rende difficile a quest’ultimo di sottrarvisi, con conseguenti avvilimento ed umiliazione della sua personalità. Proprio incidendo sulle nozioni di “subordinazione ad autorità” e di “affidamento”, può farsi rientrare nella corrispondente situazione, come parte della dottrina e della, giurisprudenza ritiene, anche il rapporto che lega il lavoratore al datore di lavoro.
È il seguito della sentenza che, in relazione a quanto sopra detto in ordine al bene tutelato dall’art. 572 c.p. – non appare del tutto convivente.
Scrivono i giudici infatti che “L’affermazione merita, però, una precisazione. Osserva, invero, la Corte che tale rapporto, avuto riguardo alla ratio delle richiamate norme e, in particolare, a quella di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzato da “familiarità”, nel senso che, pur non inquadrandosi nel contesto tipico della “famiglia”, deve comportare relazioni abituali e inten¬se, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole. E’ soltanto nel li¬mitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, esemplifi¬cativamente, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista. L’inserimento dei maltrattamenti tra i delitti contro l’assistenza familiare è in linea col ruolo che la stessa Costituzione assegna alla “famiglia”, quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa ottica vanno letti e interpre¬tati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare.
Insomma solo la para-familiarità della relazione di lavoro (e non tanto la relazione di lavoro in sé) sarebbe, secondo la giurisprudenza, il contesto di punibilità dell’art. 572 codice penale.
È questo l’orientamento che tutte le decisioni di legittimità successive hanno di fatto poi adottato, con l’unica eccezione di Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553 (in un caso di mobbing all’interno di un’azienda municipalizzata per lo smaltimento dei rifiuti urbani) dove si è ritenuta – sia pure ai fini di una valutazione di legittimità di una misura cautelare – sussumibile la condotta vessatoria integrante “mobbing” nel reato di maltrattamenti.
Per il resto tutte le decisioni successive si sono adeguate all’indirizzo interpretativo che limita la possibile incriminazione per maltrattamenti ai soli casi di mobbing nelle relazioni lavorative di tipo para-familiare in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, come tale, desti¬natario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Cass. pen. Sez. III, 17 settembre 2018, n. 55348; Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 2018, n. 39920, Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2018, n. 3236; Cass. pen. Sez. VI, 13 febbraio 2018, n. 14754; Cass. pen. Sez. II, 6 di¬cembre 2017, n. 7639; Cass. pen. Sez. VI, 29 giugno 2017, n. 39338; Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591; Cass. pen. Sez. VI, 1 giugno 2016, n. 26766; Cass. pen. Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 45077; Cass. pen. Sez. VI, 1 settembre 2015, n. 44589; Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31713; Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2014, n. 47896; Cass. pen. Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24057; Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416; Cass. pen. Sez. VI, 16 ottobre 2014, n. 49545; Cass. pen. Sez. VI, 19 marzo 2014, n. 24642; Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2014, n. 13088; Cass. pen. Sez. VI, 13 gen¬naio 2012, n. 19392 e Cass. pen. Sez. VI, 11 aprile 2012, n. 16094; Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12517; Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575; Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 16164; Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2011, n. 43100; Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685).
L’interpretazione consolidata ha portato anche Cass. pen. Sez. VI, 9 febbraio 2018, n. 10784 a considerare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 c.p. eccepita in relazione agli artt. 32, 35 e 41 Cost. nella parte in cui limita la configurabilità nei luoghi di lavoro del delitto di maltrattamenti all’ipotesi in cui il rapporto tra datore di lavoro e dipendente assuma natura parafamiliare.
Quindi secondo la giurisprudenza si deve escludere che, all’interno di una struttura lavorativa non di tipo para-familiare, sia configurabile un rapporto di subordinazione lavorativa che consenta di ipotizzare il delitto di maltrattamenti in famiglia. Al fine, quindi, di ravvisare il delitto di maltrat¬tamenti è insufficiente la condizione di subalternità del dipendente, così come la quotidianità dei rapporti intercorrenti nel corso dell’orario lavorativo, occorrendo, invece, la verifica che le dinami¬che relazionali in seno all’azienda o all’ufficio riproducano le relazioni di prossimità permanente ed il clima di confidenzialità sussistente all’interno di una comunità assimilabile a quella del consorzio familiare
Singolare e paradossale la conclusione di Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2013, n. 28603 dove in una articolata motivazione si scrive che il reato sussisterebbe “in via esemplificativa, nel rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista”.
L’interpretazione è sempre quella riduttiva della collocazione formale dell’art. 572 c.p. tra i reati contro la famiglia.
Secondo la giurisprudenza l’inserimento dell’art. 572 c.p. tra i delitti contro l’assistenza familiare si pone in linea con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla “famiglia”, quale società inter¬media destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa prospettiva ermeneutica vanno letti ed interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare”.
Ed è evidente quindi – ma non condivisibile – il ragionamento che se ne fa conseguire e cioè che siffatta connotazione deve escludersi allorché la posizione lavorativa della vittima sia inquadrata all’interno di una realtà aziendale complessa la cui articolata organizzazione non implica l’instau¬rarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il dipendente, che appare in grado di determinarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare. Non sarebbe in alcun modo apprezzabile, all’interno di tale organizzazione, la riduzione del soggetto più debole in una condizione esistenziale dolorosa ed intollerabile a causa della so¬praffazione sistematica di cui egli sarebbe rimasto vittima all’interno di un rapporto quanto meno assimilabile a quello di natura familiare.
Se, da un lato, è vero – si legge per esempio in Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2013, n. 28603 – che l’art. 572 c.p. ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di mal¬trattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare, è pur vero, dall’altro, che la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti in materia familiare sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di un generico rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Da qui la ragione dell’indicazione del requisito della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di pros¬simità permanente, d abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile. Né, infine, potrebbero trarsi, al riguardo, argomenti in senso contrario dall’analisi della recente interpolazione del testo normativo attraverso la modifica introdotta dalla novella legislativa n. 172 del 1 ottobre 2012. L’art. 4, comma 1, lett. d), della legge citata ha sostituito l’art. 572 c.p., novellandone la rubrica, ora denominata “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, ed aggiungendo i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato, ma la natura (abituale) e la struttura del reato di maltrattamenti (prima “in famiglia o verso fanciulli”, ora “contro familiari e conviventi”) sono rimaste sostanzialmente immutate. Le novità, infatti, riguardano essenzialmente la previsione di un complessivo inasprimento del trattamento sanzio¬natorio e l’estensione della tutela nei confronti di persone “comunque conviventi”, in una prospet¬tiva orientata, per un verso, a valorizzare l’incidenza della relazione intersoggettiva nell’ambito di operatività della fattispecie, e, per altro verso, ad allargare anche ad un rapporto di mera “convi¬venza” – non necessariamente qualificato dalla particolare natura del legame che ha portato alla sua instaurazione – la rilevanza del rapporto “familiare”, ferme restando le altre relazioni di tipo non propriamente familiare, la cui elencazione è rimasta immutata”.
Naturalmente al di fuori del mobbing l’uso della violenza nelle relazioni tra datore di lavoro e lavoratori, quando anche sorretto da asserite finalità disciplinari, integra comunque il reato di maltrattamenti come ha ben messo in evidenza Cass. pen. Sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 100 trattando del tema – di cui si parlerà più oltre – del rapporto tra maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione e affermando che integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina ( art. 571 c.p.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipen¬denti. Nella specie il datore di lavoro e i preposti avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, che venivano corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, che così li mantenevano in uno stato di sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi.
IX Il dolo nel reato di maltrattamenti
Si è esaminata nei paragrafi precedenti la condotta che il codice penale considera quale delitto di maltrattamenti nei diversi ambiti in cui esso appare configurabile.
A tale proposito va anche detto che secondo Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 il reato di maltrattamenti in famiglia configura un reato proprio, potendo essere commesso soltan¬to da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 del codice penale. L’affermazione appare troppo perentoria dal momento che certamente an¬che il comportamento maltrattante posto in essere da un figlio minore nei confronti della madre può integrare il delitto in questione, ancorché il figlio non ricopra nessuna posizione dominante nella famiglia.
a) La coscienza e volontà del comportamento maltrattante
Ciò premesso interessa però indagare meglio l’elemento soggettivo del reato. Su di esso ci si è già in parte soffermati allorché sono state esaminate le differenze tra il reato di maltrattamenti e quello di abuso dei mezzi di correzione.
Molteplici sono le decisioni che hanno indagato la natura del dolo nel reato di maltrattamenti.
Già si è accennato – trattando delle differenze tra maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione – a Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2005, n. 39927 che ha ribadito in anni recenti un cri¬terio sul quale ormai concorda pressoché tutta la giurisprudenza. La sentenza afferma che per la configurabilità del reato di maltrattamenti l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità.
Il principio che il dolo nei maltrattamenti è generico (la coscienza e la volontà del comportamento maltrattante) è comunque un principio consolidato in giurisprudenza.
Così per esempio Cass. pen. Sez. VI, 12 aprile 2006, n. 26235 afferma che per configurare l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o mo¬rali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico, cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo e abituale. Il dolo del reato, in altri termini, consiste nell’inclinazione della volontà a una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va “progressivamente” realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persi¬stere in un’ attività illecita, posta in essere altre volte; con la conseguenza che tali singole sopraf¬fazioni, realizzate in momenti successivi, risultano collegate da un nesso di abitualità e avvinte nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo. Ugualmente secondo Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142 nel delitto di maltrattamenti in famiglia il dolo è generico, sicché non si richiede che il soggetto attivo sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e la volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva. Anche per Cass. pen. Sez. II, 20 settem-bre 2011, n. 41011 i comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose poste in essere nei confronti del coniuge, posso¬no configurare il reato di maltrattamenti quando, valutati unitariamente, evidenziano l’esistenza di una volontà finalizzata a realizzare un regime di vita avvilente e mortificante per il coniuge stesso.
Tutti principi ribaditi negli ultimi anni.
Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 1400 afferma che è idonea ad integrare il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia la coscienza e volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza. E’ sufficiente che le condotte vessatorie siano tenu¬te nella consapevolezza della loro ripetizione e della loro idoneità a creare una stabile e dolorosa patologia della vita familiare. Il dolo non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima medesima.
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia – secondo tutta la giurisprudenza – il dolo è generico, sicché non si richiede che il soggetto attivo sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e la volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva (Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 2018, n. 761; Cass. pen. Sez. III, 26 ottobre 2018, n. 1508).
Su questi concetti la giurisprudenza è praticamente sterminata: Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142; Cass. pen. Sez. VI, 24 febbraio 1998, n. 4080; Cass. pen. Sez. VI, 22 feb¬braio 1994, n. 6319; Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 16836; Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2010, n. 12798; Cass. pen. Sez. VI, 26 febbraio 2009, n. 14409; Cass. pen. Sez. VI, 18 novembre 2008, n. 45808; Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2008, n. 27048; Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2008, n. 16982; Cass. pen. Sez. VI, 11 gennaio 2007, n. 4139; Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2004, n. 4933; Cass. pen., 11 dicembre 2003, n. 6541; Cass. pen. Sez. VI, 2 ottobre 1997, n. 11471; Cass. pen. Sez. VI, 27 ottobre 1997, n. 11476).
b) La non necessità di un programma criminoso
Un contrasto sembra esistere tra Cass. pen. Sez. VI, 6 novembre 1991 (dove si afferma che l’elemento unificatore dei singoli episodi è costituito da un dolo unitario di carattere programma¬tico, che unifica le diverse azioni, che consiste nell’orientamento della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si realizza e si conferma progressivamente, in modo che l’agente accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consa¬pevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte) e Cass. pen. Sez. VI, 6 ottobre 2017, n. 49997 dove invece si ribadisce che l’elemento soggettivo richiesto dal reato di cui all’art. 572 c.p. è integrato dalla consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’atti¬vità delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, “non essendo necessaria la sussistenza di uno specifico programma criminoso”. Ed in effetti il riferimento al programma criminoso sembra richiamare più il concetto di dolo specifico che quello di dolo generico. Anche per Cass. pen. Sez. III, 7 aprile 2017, n. 4183 e Cass,. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2017, n. 17574 il delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficienti la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima.
c) Il dolo nei maltrattamenti a condotta omissiva
Come si è detto il delitto può essere integrato anche da condotte omissive, individuabili – quanto al dolo – nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta (Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332; Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 9724; Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142; Cass. pen. Sez. VI, 30 maggio 1990, n. 394).
d) Maltrattamenti e tensioni familiari
Non del tutto convincente appare un certo orientamento riduttivo che tende a non fare appli¬cazione del delitto di maltrattamenti nei casi di forte tensione familiare o coniugale, come se la tensione nei rapporti personali potesse in qualche modo giustificare l’uso della violenza abituale. Così per esempio Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2008, n. 649 afferma che il congiunto non va condannato per il reato di maltrattamenti se i continui litigi con l’altro coniuge si inquadrano in un contesto di permanente tensione caratterizzante la vita familiare e può in tal caso difettare l’elemento soggettivo del reato.
A questo indirizzo si contrappongono, però, decisamente altre decisioni tra cui Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35963 (dove si legge che il reato di maltrattamenti può evidenziarsi anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivibili ad entrambi i protagonisti della controversia (nel caso di specie due coniugi), tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità. Una tale situazione infatti, deve essere gestita comunque in modo equilibrato, nel rispetto delle regole di civile convivenza e della dignità fisica e morale della perso¬na e non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. La provocazione da parte del soggetto passivo non costituisce pertanto causa di esclusione del reato di maltrattamenti, la di cui pena non può essere perciò esclusa o diminuita) e Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35862 secondo cui il reato di cui all’art. 572 c.p. può sussistere anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivibili a entrambi i coniugi, tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità, considerato che tale situazione non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. In tal caso, la provocazione del soggetto passivo, se provata, è in astratto compatibile con il reato di maltrattamenti, il quale potrà semmai essere attenuato nelle conseguenze sanzionatorie in rela¬zione ai singoli episodi ai quali la provocazione si riferisce.
X Maltrattamenti e differenze culturali (i cosiddetti reati culturalmente orientati)
La giurisprudenza ha affrontato anche il tema delle differenze culturali quale possibile causa giu¬stificatrice della violenza e dei maltrattamenti risolvendolo nel senso di escludere che il delitto di maltrattamenti possa essere scriminato dai contesti culturali nei quali si evidenzia.
Si parla di reati “culturalmente orientati” quando un’azione commessa da un appartenente ad una diversa cultura, pur se considerata come reato dal sistema penale viene giustificata, accettata, promossa o approvata all’interno del proprio gruppo di appartenenza. E’ evidente in questi casi lo sforzo del giudice di mediare tra opposte esigenze: da un lato, il riconoscimento ed il rispetto della “diversità” culturale, dall’altro lato, la credibilità e l’efficienza del sistema penale.
Alcuni autori hanno messo in luce questo fenomeno richiamando il concetto di cultural defence del quale si parla nella letteratura giuridica statunitense per alludere ad una causa di esclusione o di diminuzione della responsabilità penale, invocabile (all’interno della legittima difesa, dell’errore di fatto, della non intenzionalità offensiva, ma anche della semi imputabilità) da un soggetto appar¬tenente ad una minoranza etnica con cultura, costumi e religione diversi o addirittura contrastanti con quelli propri del sistema dominante.
L’art. 27 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, stabilisce che “negli Stati in cui vi sono minoranze etniche, religiose o linguistiche, le persone appartenenti a queste minoranze non possono essere private del diritto di avere, in comune con gli altri membri del loro gruppo, la propria vita culturale, di professare e praticare la loro religione, di utilizzare la loro lingua”.
La questione centrale – esaminata dalle decisioni che in Italia si sono occupate di questo proble¬ma – è se riconoscere ed accettare il diritto alla diversità comporta avallare necessariamente usi e costumi differenti e sottrarli a qualsiasi sindacato.
La Corte di cassazione ha espresso un orientamento che esclude la possibilità di invocare esimenti di tipo culturale. Si legge nelle sentenze che verranno esaminate che anche per i reati culturali o culturalmente orientati, il giudice non può sottrarsi al suo compito naturale di rendere imparziale giustizia con le norme positive vigenti, compito che. non può mai attuarsi al di fuori o contro le regole che, nel nostro sistema, fissano i limiti della condotta consentita ed i profili soggettivi che presiedono ai comportamenti, che integrano ipotesi di reato, nella cornice della irrilevanza della ignorantia iuris.
Già in una decisione resa alla fine degli anni Novanta (Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 1999, n. 3398) la Corte di cassazione ebbe a precisare che il reato di maltrattamenti in famiglia non può essere scriminato dal consenso dell’avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub culturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Dette sub culture, infatti, ove vigenti, si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell’uopo sanciti dall’art. 2 della Costitu¬zione i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli art. 29 – 31 della Costituzione. (in questa vicenda la scriminante del consenso dell’avente diritto era stata fondata sull’origine albanese dell’imputato e delle persone offese per le quali varrebbe un concetto dei rapporti familiari diverso da quello vigente nel nostro ordinamento).
Pertanto il soggetto resosi responsabile di maltrattamenti in famiglia non può invocare a proprio favore la scriminante di cui all’art. 50 c.p. (consenso dell’avente diritto) neppure adducendo a sostegno di ciò l’esistenza, nel proprio paese di origine (nella specie tanto l’imputato quanto le vittime erano di nazionalità albanese), di una concezione della convivenza familiare e dei poteri del capo famiglia secondo cui comportamenti come quelli inquadrabili, secondo l’ordinamento italiano, nella suddetta figura di reato sarebbero invece accettati come normali
Alcuni anni dopo la Corte di cassazione ribadì molto perentoriamente lo stesso concetto afferman¬do che le differenze culturali non possono legittimare comportamenti in contrasto con i principi fondamentali ai quali si ispira il nostro ordinamento giuridico. Si tratta di Cass. pen. Sez. VI, 8 novembre 2002, n. 55 che si trovò a precisare che il reato di maltrattamenti in famiglia “è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione e umiliazioni, costituenti fonti di uno stato di disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di esistenza. Né l’elemento soggettivo del reato in questione può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme che stanno alla base dell’ordinamento giuridi¬co italiano, considerato che la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (art.2 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 Cost., commi 1 e 2) costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili.
Successivamente anche Cass. pen. Sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300 ribadì l’estraneità al nostro sistema positivo di qualsiasi esimente culturale nei reati contro la persona, affermando con chiarezza l’orientamento giurisprudenziale già affermatosi in Italia in tema di reati culturalmente orientati, argomentando incisivamente il netto rifiuto nei confronti di un’applicazione “culturalmen¬te differenziata” del diritto penale, calibrata cioè sulle tradizioni religiose, etniche e culturali del destinatario della norma penale.
Gli stessi principi affermarono Cass. pen. Sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700; Cass. pen. Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 32824 e Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2009, n. 48272.
Pertanto le differenti tradizioni che regolano i rapporti familiari in società culturalmente diverse non eliminano il disvalore del fatto di maltrattamenti, né sono di per sé idonee a giustificare l’ap¬plicazione delle circostanze attenuanti generiche e ugualmente fece
Perciò relativamente ai reati cosiddetti culturali, qualificati dal fatto che la norma penale va appli¬cata nei confronti di soggetti di cultura ed etnia diversa, i quali risultino portatori di tradizioni so¬ciologiche e abitudini antropologiche confliggenti con la norma penale, il giudice non può sottrarsi al suo compito di applicare le norme vigenti, non potendosi ammettere qualsivoglia soluzione in¬terpretativa che pretenda di escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, invocando le convinzioni religiose ed il retaggio culturale dell’imputato, perché tale interpretazione finirebbe col porsi in contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano
L’orientamento è stato ribadito da Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12089 secondo cui ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti familiari (nella specie, nei confronti della figlia minorenne perché non in grado di ripetere perfettamente a memoria i versi del corano) non rileva la supposta finalità educativa fondata sul codice etico-religioso del padre di religione musulmana, trattandosi di violazione dei diritti inviolabili della persona i quali rappresen¬tano uno “sbarramento invalicabile” contro l’introduzione di consuetudini, prassi e costumi “anti¬storici” contrastanti con i diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione. Ancora più di recente Cass. pen. Sez. III, 29 gennaio 2015, n. 14960 osserva che in tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asserita¬mente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare – in linea con l’art. 3 della Costituzione. – la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica. Nello stesso senso si è espressa Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832 secondo cui i comportamenti maltrattanti non possono mai ritenersi compatibili e giustificabili con un intento correttivo ed edu¬cativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.
XI Gli eventi ulteriori non voluti
Ai maltrattamenti può conseguire un evento non voluto (per esempio le lesioni o la morte della vit¬tima) oppure un evento che non era prevedibile o che si poteva in qualche modo prevedere come potrebbe essere il suicidio della persona offesa.
L’art. 572 c.p. prevede al terzo comma che “Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Come si è sopra visto il reato di “maltrattamenti in famiglia” è costituto da comportamenti che ac¬quistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo e che possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvano in una condizione – ed in questo consiste l’evento del delitto – di generale sofferenza per la persona offesa alla quale viene di fatto imposto un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile (Cass. pen. sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12605; Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126).
Non è certamente escluso che quei comportamenti possano cagionare anche lesioni gravi o gravis¬sime o addirittura la morte della persona offesa.
Il realizzarsi di questi specifici eventi ulteriori aggrava la sanzione del delitto di maltrattamenti, in base a quanto stabilisce il secondo comma dell’art. 572 c.p. e, naturalmente, rende applicabile a titolo di concorso anche il reato di lesioni o di omicidio.
Il delitto di maltrattamenti aggravato ai sensi del secondo comma dell’art. 572 c.p.c è qualificato “aggravato dall’evento” e l’evento specifico ulteriormente realizzatosi viene posto a carico dell’a¬gente – determinando l’aumento della sanzione – per il solo fatto di essersi verificato. Si tratta di delitti – come si insegna – che subiscono un aumento di pena in quanto si verifichi l’ulteriore evento dannoso o pericoloso previsto rispetto a quello richiesto per l’esistenza del reato-base: l’ulteriore evento è posto a carico dell’agente a titolo di responsabilità oggettiva. Lo prevede invia generale l’art, 42 del codice penale al terzo comma dove si legge che “la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti [cioè né a titolo di dolo, né a titolo di colpa] a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione”.
Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 44492 ritiene che in tema di maltrattamenti in fami¬glia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravante, non voluto, della morte della vittima per sui¬cidio, ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo da escludere che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima; mentre Cass. pen. Sez. VI, 29 novembre 2007, n. 12129 ritiene che in tema di maltrattamenti in famiglia, qualora il suicidio della persona offesa sia derivato dall’esigenza di sottrarsi alle conti¬nue sofferenze psico-fisiche cagionate abitualmente, potrà dirsi sussistente un rapporto eziologico tra la condotta dell’autore dei maltrattamenti e il suicidio; nesso che viene meno solo qualora si verifichi una causa autonoma e successiva che si inserisca nel processo causale in modo atipico.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 2012, n. 46848 integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, secondo comma, codice penale la condotta di colui che ponga in essere fatti di mal¬trattamento nel cui ambito si inscriva un’azione “finale”, anche se compiuta da un concorrente, la quale provochi direttamente il decesso della persona offesa, quando i maltrattamenti, globalmente considerati, pure in considerazione dell’ultimo episodio di violenza, abbiano idoneità concreta ad offendere il bene vita.
Per Cass. pen. Sez. I, 21 febbraio 2003, n. 16578 non è configurabile il reato aggravato dall’evento di cui all’art. 572 c.p., comma 2, quando la morte del familiare, che sia stato fino a quel momento sottoposto a maltrattamenti, anziché essere conseguenza non voluta della condotta abituale di maltrattamenti, sia cagionata intenzionalmente. In tali circostanze non è neppure con¬figurabile il nesso teleologico tra il reato di maltrattamenti e quello di omicidio volontario, rappre¬sentando quest’ultimo un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento nei confronti della vittima.
L’espressione “derivare”, contenuta nell’art. 572, comma secondo, codice penale, in tema di mal-trattamenti in famiglia o verso fanciulli seguiti da lesioni o morte della vittima, va interpretata – secondo Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2010, n. 29631 – in relazione ai principi posti dall’art. 41 codice penale, ed impone quindi un rinvio alle regole con le quali viene regolamentata l’impu¬tazione oggettiva degli eventi causati dall’autore di un reato.
Secondo Cass. pen. Sez. V, 13 aprile 2010, n. 28509 integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma secondo, codice penale la condotta di colui che, incaricato di prestare assisten¬za ad una persona anziana, abbandoni quest’ultima senza cure ed assistenza per un lungo periodo, aggravandone le già precarie condizioni di salute, in quanto ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra maltrattamenti e morte non è necessario che i fatti di maltrattamento costituiscano la causa unica ed esclusiva degli eventi più gravi, stante il principio della equivalenza delle cause o della “conditio sine qua non” ( art. 41 codice penale.
Secondo Cass. pen. Sez. I, 14 maggio 2008, n. 21329 non è configurabile l’ipotesi aggravata di cui all’art. 572, comma secondo, codice penale (morte come conseguenza non voluta dei mal¬trattamenti) – ma quella di omicidio volontario di cui all’art. 575 codice penale – nel caso in cui la morte della vittima, sottoposta a continui maltrattamenti, sia oggetto della sfera rappresentativa e volitiva dell’agente, oltre ad essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in esse¬re; mentre secondo Cass. pen. Sez. VI, 19 febbraio /1990 sussiste la circostanza aggravante della morte derivata dal fatto dei maltrattamenti in famiglia, prevista dall’art. 572, cpv. c. p., qua¬lora il suicidio del soggetto passivo, benché non espressamente voluto, sia da mettere in sicuro e diretto collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti per effetto dei quali lo stato di prostrazione indotto nella vittima sia da identificarsi quale vero e proprio trauma fisico e morale.
XII Concorso tra maltrattamenti e ed altri reati
I maltrattamenti si realizzano in genere attraverso condotte che sono costitutive della violenza, come le percosse e le minacce e che pertanto restano assorbite nel delitto di maltrattamenti. Altre volte attraverso o insieme a comportamenti che ledono o mettono in pericolo altri beni giuridici.
Non è sempre agevole individuare il criterio in base al quale, in presenza di più comportamenti che possono integrare differenti ipotesi delittuose debbano trovare applicazione le norme sul concorso (materiale o formale) di reati ovvero debba applicarsi l’art. 15 sul principio di specialità (secondo cui i maltrattamenti assorbono il reato ulteriore).
Secondo un indirizzo consolidato in giurisprudenza, nel reato di cui all’art. 572 c. p. restano assor¬biti soltanto i reati (per esempio percosse e di minacce) che sono elementi costitutivi della violenza fisica o morale propria del delitto di maltrattamenti (l’art. 84 c,p, sul reato complesso esclude l’ap¬plicazione delle regole sul concorso “quando la legge considera come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero per se stessi reato”); per tutti gli altri reati si ha concorso – e non assorbimento – qualora il bene giuridico offeso non riguardi l’assistenza familiare,
a) Ingiuria e minacce
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 13 novembre 2012, n. 7369, Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 11140, Cass. pen. Sez. V, 14 maggio 2010, n. 22790, Cass. pen. Sez. I, 9 no¬vembre 2005, n. 7043, Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2003, n. 33091 restano assorbiti nel delitto di maltrattamenti i reati di ingiuria, minacce ed atti persecutori.
b) Lesioni
Con la conseguenza che il delitto di maltrattamenti e quello di lesioni possono concorrere mate¬rialmente tra loro, poiché le lesioni personali volontarie non costituiscono sempre elemento essen¬ziale del delitto di maltrattamenti; pertanto il delitto di lesioni non può essere assorbito da quello di maltrattamenti secondo la disciplina del reato complesso, ma configurano un reato autonomo (Cass. pen. Sez. VI, 4 maggio 1982).
Come si è visto, tuttavia, se le lesioni sono gravi o gravissime troverà applicazione a titolo di re¬sponsabilità oggettiva l’ipotesi aggravata di cui all’ultimo comma dell’art. 572 codice penale.
c) Violenza privata
Per quanto concerne in generale la violenza privata (art. 610 c.p.) è pacifico in giurisprudenza che il reato di maltrattamenti non può ritenersi assorbito in quello, appunto, di violenza privata, non sol¬tanto perché è più gravemente punito rispetto al secondo, ma anche perché si tratta di delitti posti a tutela di beni giuridici diversi (Cass. pen. Sez. II, 6 dicembre 2012, n. 10994; Cass. pen. Sez. VI, 3 maggio 2011, n. 19700, Cass. pen. Sez. III, 6 maggio 2010, n. 22769; Cass. pen. Sez. VI, 11 maggio 2004, n. 28367 e, in passato, Cass. pen. Sez. I, 15 maggio 1982).
Si è già visto – trattando del mobbing – che secondo Cass. pen. Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803 può integrare il reato di violenza privata e non il reato di maltrattamenti in famiglia la condotta violenta e minacciosa reiteratamente posta in essere dal datore di lavoro.
d) Violazione degli obblighi di assistenza familiare
Concorrono tra loro il delitto di maltrattamenti e quello di violazione degli obblighi di assistenza familiare avendo ad oggetto beni giuridici distinti, posti a tutela, il primo, della dignità della perso¬na, e il secondo del rispetto dell’obbligo legale di assistenza nei confronti dei familiari (Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2009, n. 4390)
e) Sequestro di persona
È del tutto pacifico anche che non è configurabile il rapporto di specialità (ma c’è concorso di reati) tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacché sono figure di reato dirette a tutelare beni diversi e poi, l›uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di famigliari e, l›altro, da quella di privare taluno della libertà personale (Cass. pen. Sez. I, 2 maggio 2006, n. 18447).
f) riduzione in schiavitù
Non sussiste, ugualmente, rapporto di specialità (ma concorso di reati) tra il delitto di maltratta¬menti in famiglia e quello di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), trattandosi di reati che tutelano interessi diversi ed esattamente la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi e lo “status libertatis” dell’individuo nella seconda – e che presentano un diverso elemento materiale, in quanto nell’ipotesi dell’art. 572 c.p. è necessario che un componente della famiglia sottoponga un altro a vessazioni, mentre nel caso di riduzione in schiavitù è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza che le due ipotesi di reato, sussistendone i presupposti, possono concorrere (Cass. pen. Sez. V, 1 luglio 2002, n. 32363, Cass. pen. Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44516, Cass. pen. Sez. VI, 12 dicembre 2006, n. 1090).
Cass. pen. Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44516 ha affrontato il problema dei rapporti fra i reati di riduzione in schiavitù, di maltrattamenti in famiglia e di impiego di minori nell’accattonag¬gio. Una donna rumena veniva sorpresa per due volte dalla polizia a mendicare di mattino in una strada, seduta per terra con in grembo la figlia; l’altro figlio, di quattro anni — che per quattro ore non si era mai seduto, non aveva mangiato ed era vestito, nonostante il periodo invernale, solo con pantaloni e maglietta — elemosinava nei paraggi e consegnava poi il denaro alla madre.
La sentenza afferma che non sussiste il reato di riduzione in schiavitù, per carenza dell’elemento oggettivo, poiché non emerge quell’integrale negazione della libertà e della dignità del bambino comportante uno stato di completa servitù; che l’impiego di minori degli anni quattordici nell’ac-cattonaggio è illecito, nonostante la richiesta di elemosina costituisca «una condizione di vita tradizionale molto radicata nella cultura e nella mentalità» di alcune comunità etniche; sussiste, invece, il reato di maltrattamenti perché è ravvisabile un comportamento omissivo della madre nei confronti del minore, capace di produrgli gravi danni.
g) Atti persecutori
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 il reato di maltrattamenti in famiglia si distingue anche da quello di “stalking” (art. 612-bis c.p.), sebbene le condotte materiali appa¬iano omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva. Il reato di atti persecutori è, infatti, un reato contro la persona e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati (reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche. Cass. pen. Sez. VI, 1 marzo 2018, n. 16846 ha ritenuto che la condanna per il reato di atti persecutori passata in giudicato preclude la celebrazione del giudizio per il medesimo fatto storico pur se diversamente qualificato quale maltrattamenti in fami¬glia, in quanto le due fattispecie di reato sono l’una sussumibile nell’altra. (In motivazione, la Cor¬te ha precisato che l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona ed, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, n.200 del 2016, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati).
In Cass. pen. Sez. VI, 19 maggio 2016, n. 30704; Cass,. pen. Sez. V, 4 maggio 2016, n. 41665 e Cass. pen. Sez. II, 21 aprile 2016, n. 17719 si è affermato che in tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessa¬zione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. In questo le sentenze citate si allontanano dalla posizione che, come si è visto trattando il tema della famiglia separata, ritiene possibile il delitto di maltrattamenti anche in seguito alla cessazione della coa¬bitazione e della convivenza.
h) Abbandono di persone incapaci
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2012, n. 25183 i reati di maltrattamenti in famiglia e di abbandono di persone minori o incapaci possono concorrere in quanto le relative fattispecie incriminatrici sono poste a tutela di beni diversi ed integrate da condotte differenti. Tuttavia come ha osservato Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 12866 la reiterata e grave ca¬renza di cure ed assistenza di persone anziane non autosufficienti, pur potendo configurare il reato di maltrattamenti, non integra di per sé il diverso reato di abbandono di incapaci, per la cui configurabilità è necessario l’accertamento di una condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale la corte di appello aveva condannato l’imputata , addetta, presso un residence per anziani, alla pulizia dei locali, all’igiene personale dei pazienti e alla loro assistenza duranti i pasti, senza individuare se l’incuria nello svolgimento di dette mansioni e le condotte di maltrattamenti poste in essere nei confronti dei pazienti avessero determinato una situazione di “abbandono”)
i) Violenza sessuale
Per quanto concerne i reati di violenza sessuale la giurisprudenza ritiene che in linea di principio i reati di violenza sessuale e di maltrattamenti concorrono tra loro salvo che non si configuri il solo delitto di violenza sessuale continuata (Cass. pen. Sez. III, 13 giugno 2012, n. 13707, Cass. pen. Sez. III, 16 dicembre 2010, n. 5340, Cass. pen. Sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 12423, Cass. pen. Sez. III , 12 novembre 2008, n. 46375; Cass. pen. Sez. III, 15 aprile 2008, n. 26165, Cass. pen. Sez. III, 12 luglio 2007, n. 36962, Cass. pen. Sez. III, 16 maggio 2007, n. 22850 Cass. pen. Sez. III, 5 dicembre 2003, n. 984). A tale proposito Cass. pen. Sez. III, 13 maggio 2003, n. 26830 aveva chiarito che i reati di maltrattamenti e di violenza sessuale con-corrono allorquando le minacce e le vessazioni poste in essere nei confronti del soggetto passivo non si esauriscono nel perseguimento del piano delittuoso finalizzato al compimento del reato di violenza sessuale e si sostanziano in una serie di atti tesi a determinare, nello stesso, anche – ma non solo – attraverso la violenza sessuale, uno stato abituale di vita caratterizzata da sofferenze fisiche e psi¬chiche. da vessazioni e umiliazioni, tali da distruggerne o mortificarne seriamente la dignità. Il reato di maltrattamenti consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei cui confronti viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendergli la vita e l’esistenza particolarmente dolorose ed è sorretto dal dolo generico costituito dalla coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo e abituale, sì da lederne la personalità.
Secondo Cass. pen. Sez. III, 22 ottobre 2008, n. 45459 e Cass. pen. Sez. III, 24 giugno 2004, n. 35849 il delitto di maltrattamenti è assorbito da quello di violenza sessuale soltanto quando vi è piena coincidenza tra le condotte, nel senso che gli atti lesivi siano finalizzati esclu¬sivamente alla realizzazione della violenza sessuale e siano strumentali alla stessa, mentre in caso di autonomia anche parziale delle condotte, comprendenti anche atti ripetuti di percosse gratuite e ingiurie non circoscritte alla violenza o alla minaccia strumentale necessaria alla re¬alizzazione della violenza, vi è concorso tra il reato di violenza sessuale continuata e quello di maltrattamenti.
XIII La velocizzazione processuale per il delitto di maltrattamenti (legge 19 luglio 2019, n. 69)
La legge 19 luglio 2019, n. 69 (denominata significativamente “Codice rosso”) contenente mi¬sure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, richiama espressamente una lista di delitti3 tra cui, appunto il delitto di “maltrattamenti” – che possono a ragione essere, quindi, definiti “di violenza domestica e di genere” – a cui si fa rinvio nelle prime disposizioni della riforma per ricollegarvi l’applicazione di norme tese alla velocizzazione delle indagini e degli interventi di protezione della vittima.
La lista in questione è proposta fin dall’art. 1 della nuova legge che comincia con il dichiarare appli¬cabile a questa “lista” di delitti l’art. 347, comma 3, del codice di procedura penale che, per i delitti indicati nell’art. 407, comma 2, lett. a, n. da 1 a 6, del codice penale4 (ed ora, appunto, anche per i delitti contro la violenza domestica e di genere), prescrive l’obbligo della polizia giudiziaria di comunicare “immediatamente anche in forma orale” al Pubblico Ministero la notizia di reato5.
All’art. 2 della legge di riforma sempre nell’ottica di velocizzare il procedimento penale, per i delitti di violenza domestica e di genere facenti parte della lista (che non richiama, però, in questo caso il nuovo art. 612-ter c.p.) la riforma impone al pubblico ministero il termine di tre giorni dall’iscri¬zione della notizia di reato per assumere informazioni dalla persona offesa (salvo che sussistano esigenze di tutela o ragioni di riservatezza che non consentono il rispetto di tale termine).
In occasione della commissione degli stessi delitti e per le medesime ragioni di rapidità della tutela si prevede nell’art. 3 della nuova legge che la polizia giudiziaria deve procedere senza ritardo al compimento degli atti delegati dal pubblico ministero, mettendogli anche a disposizione quanto prima la documentazione dell’attività svolta.
Come si vede, quindi, la lista dei delitti di violenza domestica e di genere, oltre ad una oggetti¬va funzione generale di tipo classificatorio, ha la finalità di indicare quelli che sono ritenuti i più gravi comportamenti offensivi in cui è necessario velocizzare maggiormente non solo le indagini ma soprattutto gli interventi di protezione della vittima. Naturalmente la lista in questione non esaurisce il ventaglio dei possibili delitti di violenza domestica e di genere, ben potendosi rinvenire altri comportamenti penalmente illeciti caratterizzati dalla stessa intenzionalità criminosa a cui si applicheranno le norme istruttorie ordinarie.
L’art. 12 della legge 19 luglio 2019, n. 69 prescrive anche che per i condannati di tali delitti non si applicano i benefici previsti nella legge penitenziaria (art. 4-bis della legge 26 luglio 1075, n. 354: Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti).
3 Il “gruppo” di delitti in questione è costituito dai “delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-qua¬ter, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice penale”.
4 Art. 407 (Termini di durata massima delle indagini preliminari)
1. Salvo quanto previsto all’articolo 393 comma 4, la durata delle indagini preliminari non può comunque supe¬rare diciotto mesi.
2. La durata massima è tuttavia di due anni se le indagini preliminari riguardano:
a) i delitti appresso indicati:
1) delitti di cui agli articoli 285, 286, 416-bis e 422 del codice penale, 291-ter, limitatamente alle ipotesi ag-gravate previste dalle lettere a), d) ed e) del comma 2, e 291-quater, comma 4, del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43;
2) delitti consumati o tentati di cui agli articoli 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, e 630 dello stesso codice penale;
3) delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;
4) delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonché delitti di cui agli articoli 270, terzo comma e 306, secondo comma, del codice penale;
5) delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall’articolo 2, comma terzo, della legge 18 aprile 1975, n. 110;
6) delitti di cui agli articoli 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, comma 2, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabi¬litazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni;
(omissis)
5 Art. 1 legge 19 luglio 2019, n. 69 (Obbligo di riferire la notizia del reato)
1. All’articolo 347, comma 3, del codice di procedura penale, dopo le parole: ”nell’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6)” sono inserite le seguenti: “del presente codice, o di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice penale”.
MALTRATTAMENTI
Giurisprudenza
Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, non può ritenersi lecito l’uso sistematico da parte del genitore di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del figlio minore, anche se sorretto da “animus corrigendi”, integrando in tal caso il più grave reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione. Né tali comportamenti maltrattanti possono ritenersi compatibili e giustificabili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.
Tribunale Genova Sez. I, 4 luglio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la condotta dell’agente che per un arco di tempo di oltre sei mesi molesti ripetutamente il coniuge con continue richieste di denaro e ponga, altresì, in essere atti denigratori, consistiti in vere e proprie perquisizioni, arrivando a cercare di impedirgli di uscire da casa, percuotendolo in un crescendo di violenza, tanto da causare allo stesso vere e proprie lesioni e costringendolo a sopportare un regime di vita umiliante e vessatorio.
Il reato di cui all’art. 572 c.p. integra un reato abituale che richiede, sotto il profilo oggettivo, il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinino sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi.
Corte d’Appello Ancona, 17 giugno 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con la previsione di cui all’art. 572 c.p., il legislatore ha attribuito particolare disvalore soltanto alla reiterata aggressione all’altrui personalità, assegnando autonomo rilievo penale all’imposizione di un sistema di vita oggettivamente caratterizzato da sofferenze, afflizioni, lesioni dell’integrità fisica o psichica, le quali incidono negativamente sulla personalità della vittima e su valori fondamentali propri della dignità e della condizione umana; ciò in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità ed al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza.
Tribunale Cassino, 17 giugno 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella nozione di “maltrattamenti” rientrano i fatti lesivi dilla integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente doloroso le relazioni familiari, e si manifestino mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento, con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non lasciare traccia.
Corte d’Appello Palermo Sez. IV,14 giugno 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è contraddistinto, sotto il profilo soggettivo, dal dolo generico e, dunque, dalla coscienza e dalla volontà dell’agente di sottoporre la persona offesa alla propria condotta abitualmente offensiva, mentre non è richiesto che il medesimo sia animato dal fine di maltrattare la vittima. In tal senso non rileva, dunque, un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto, essendo l’elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario che consiste nell’ attitudine della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
La materialità del delitto di cui all’art. 572 c.p. si concreta in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro del soggetto passivo nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffa¬zione sistematica tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza. L’elemento psichico si concre¬tizza in modo unitario ed uniforme, tale da evidenziare nell’agente una grave intenzione di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i veri episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima. Non rileva, in senso contrario, stante la natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con la persona offesa.
In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione.
Cass. pen. Sez. VI, 11 giugno 2019, n. 32781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche comportamenti fisicamente non violenti, che si arrestano alla soglia della minaccia, raggiungono la soglia della rilevanza penale ai fini del reato di cui all’art. 572 c.p. quando si collochino in una più ampia e unitaria condotta abituale idonea ad imporre alla vittima un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile. E’, dunque, essenziale, ai fini della ricostruzione del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., l’accertamento dell’abitualità e ripetitività della condotta lungo un ambito temporale rilevante senza che la valutazione di offen¬sività possa arrestarsi a fronte di condotte che non culminino in veri e propri atti di aggressione fisica.
Tribunale Cassino, 31 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamento in famiglia, di natura abituale, a forma libera e di sola condotta, sotto il profilo soggettivo è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze, instaurando un sistema di sopraffazioni e vessazioni che ne avviliscono la personalità e co¬stituiscono fonte di disagio continuo, incompatibile con normali condizioni di vita. Ai fini della configurabilità del reato non assumono alcun rilievo le finalità perseguite dall’autore degli atti vessatori, né lo stato di nervosismo o di risentimento dell’agente esclude l’elemento psicologico del reato, costituendo, al contrario, uno dei possibili moventi dell’ipotesi delittuosa.
Tribunale Pescara, 28 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra gli estremi del reato p. e p. dall’art. 572 c.p. la sottoposizione dei familiari ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni che costituiscono fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza.
Tribunale Napoli Sez. V, 17 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraf¬fazioni e di vessazioni che avviliscono la personalità della vittima.
Corte d’Appello Ancona, 13 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione e umiliazioni, costituenti fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. E ad integrare l’abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, come sopra caratterizzati ed “unificati”, anche se per un limitato periodo di tempo, senza che valgano ad escludere il reato eventuali parentesi di normalità nella condotta dell’agente.
Tribunale Napoli Sez. V, 3 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Premesso che le lesioni personali volontarie non costituiscono sempre elemento essenziale del delitto di maltrat¬tamenti, il delitto di lesioni non può essere assorbito da quello di maltrattamenti secondo la disciplina del reato complesso, ma configura un reato autonomo.
Tribunale Taranto Sez. I, 16 aprile 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di ves¬sazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Tribunale Vicenza, 6 aprile 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, l’elemento psicologico del reato non implica l’intenzione e la volontà dell’a¬gente di sottoporre le vittime in modo continuo e abituale ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma soltanto la consapevolezza dell’agente medesimo di persistere in un’attività vessatoria.
L’elemento psicologico del reato p. e p. dall’art. 572 c.p. è costituito dal dolo generico, non richiedendosi che l’autore della condotta abbia come fine intenzionale quello di maltrattare e umiliare la persona offesa. È sufficien¬te, cioè, che egli abbia la consapevolezza e la volontà dei singoli atti di maltrattamento e della loro reiterazione. Il dolo è cioè coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale e continuativo.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 2 aprile 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo richiesto per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, previsto e punito dall’art. 572 c.p., è generico, sicché non si richiede che l’agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e la volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva. Detto elemento soggettivo deve ritenersi sussistente in re ipsa ove, in virtù delle circostanze del fatto e della modalità della con¬dotta, possa ritenersi che l’agente non poteva certamente ignorare che la sistematicità dei propri comportamenti vessatori ingenerava sofferenze per il familiare, creando un clima insostenibile.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 2 aprile 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le condotte di maltrattamenti commesse quando l’imputato era minorenne, data la natura di reato abituale del delitto di cui all’art. 572 c.p., non rilevano come autonomi reati (non contestati e per i quali sussiste – ovvia¬mente – la competenza del Tribunale per i Minorenni) bensì quali segmenti del reato in contestazione, che era in corso alla data di quando l’imputato era maggiorenne. E’ noto, infatti, che il reato di maltrattamenti in famiglia si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili ovvero non perseguibili, ma che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2019, n. 16583 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., commesso all’interno di una comunità per l’assi¬stenza e la cura dei disabili, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime può derivare anche dal clima ves¬satorio generalmente instaurato, per effetto di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi dal personale a carico dei soggetti ricoverati, i quali, a causa delle proprie condizioni di vulnerabilità, sono vittime del detto reato tanto se patiscano in prima persona le violenze fisiche o verbali, quanto se ne siano meri spettatori.
Cass. pen. Sez. V, 25 marzo 2019, n. 21133 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto maltrattamenti in famiglia, oltre che l’esercizio reiterato di minacce e restrizioni della libertà di movimento di una donna componente del gruppo familiare, anche la sostanziale privazione della sua funzione genitoriale, realizzata mediante l’avocazione delle scelte economiche, organizzative ed educative relative ai figli minori e lo svilimento, ai loro occhi, della sua figura morale.
In tema di maltrattamenti, l’autore del reato non può invocare, a propria discolpa, l’inesigibilità di un compor¬tamento diverso da quello tenuto siccome coartato dalla volontà di altri, che abbia imposto un proprio modello culturale improntato ad autoritarismo maschilista, in quanto il principio della non esigibilità non trova applicazio¬ne al di là delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate. (Vedi: Sez. 6, n. 973 del 1993, Rv. 194384).
Corte d’Appello Roma Sez. II, 20 marzo 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di cui all’art. 572 c.p. sussiste anche nel caso in cui sia commesso nei confronti di persone non convi¬venti purché legati con il soggetto agente, da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione.
Tribunale Cagliari, 6 marzo 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violenza fisica non costituisce componente necessaria del delitto di maltrattamenti in famiglia, che può essere realizzato anche con atti di disprezzo e offesa della dignità della persona offesa, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali e anche con condotte che, in sé, non costituiscano reato.
Tribunale Cagliari, 2 marzo 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La compromissione del bene protetto dal reato ex art. 572 c.p. non si verifica in presenza di semplici fatti che ledano ovvero mettano in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia; tali azioni devono essere la componente di una più ampia e unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile. Di talché, fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della per¬sona, derivanti da situazioni contingenti e particolari che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona.
Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2019, n. 16855 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, punito dall’art. 572, c.p., la condotta del genitore “degenere” che imponga al proprio figlio ad un regime di vita snaturato, in particolare costringendolo ad assiste¬re ai rapporti sessuali avuti con diversi uomini – anche contemporaneamente – ed ad assumere droga.
Tribunale Lecce Sez. I, 8 febbraio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti sussiste anche nei riguardi della convivente, indipendentemente dall’esserci o meno un vincolo matrimoniale.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 28 gennaio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia deve ritenersi pacificamente configurabile anche ove le condotte delittuose siano realizzate in danno del coniuge separato, legalmente o di fatto. Rileva in tal senso la circostanza che la separazione in quanto condizione transeunte, pure liberando i coniugi dagli obblighi di convivenza e di fedeltà, non esclude la permanenza in capo agli stessi degli obblighi di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale a garanzia del cui adempimento è diretta la previsione di cui all’art. 572 c.p.. Di talché, la cessazione del rap¬porto di convivenza non influisce, escludendola, sulla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia che può essere consumato anche nei confronti di persona non convivente, laddove sia unita all’autore da vincoli di filiazione o nascenti dal coniugio.
Cass. pen. Sez. VI, 23 gennaio 2019, n. 4935 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, integra gli estremi del reato la condotta di chi infligge abitualmente ves¬sazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un’altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante, che non ricorre qualora le violenze, le offese e le umiliazioni siano reciproche, con un grado di gravità e intensità equivalenti.
Cass. pen. Sez. II, 23 gennaio 2019, n. 10222 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio bensì a qualunque tipo di relazione sentimentale implicante l’insorgenza di legami affettivi e assistenziali non dissimili da quelli caratterizzanti la “famiglia” come tradizionalmente intesa.
Nel caso di “convivenza more uxorio”, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le con¬dotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di atti persecutori.
Tribunale Pescara, 17 gennaio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità del reato, è necessario che il soggetto attivo sot¬toponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità, quanto dalla coscienza e volontà dell’agente di porre in essere abitualmen¬te tali atti. La serie di fatti in cui si sostanzia il reato “de quo”, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, in quanto la “ratio” dell’antigiuridicità penale risiede nella loro reiterazione, che si protrae in un arco di tempo che può essere anche limitato, e nella persistenza dell’elemento intenzionale.
Cass. pen. Sez. III, 27 novembre 2018, n. 345 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In mancanza di una stabile convivenza e di un progetto di vita comune, la sola durata prolungata del rapporto affettivo e la nascita di un figlio non costituiscono elementi sufficienti per ritenere sussistente un nucleo familiare quale presupposto del reato di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 2018, n. 761 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché possano riconoscersi gli estremi del delitto di cui all’art. 572 c.p., l’agente deve porre in essere siste¬maticamente un’attività vessatoria e oppressiva. Per la configurabilità del dolo rileva la volontà di avvilire e so¬praffare la vittima, dovendosi trascurare, nel lasso di tempo considerato, eventuali periodi di pacifica convivenza tra le mura domestiche.
Cass. pen. Sez. III, 6 novembre 2018, n. 17810 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti tra maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione, nel caso di uso sistematico di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del minore affidato, anche se sorretto da “animus corrigendi”, deve escludersi la configurabilità del meno grave delitto previsto dall’art. 571 cod. pen. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che integri il delitto di maltrattamenti la condotta di sistematico ricorso ad atti violenti tenuta dal ricorrente nei confronti dei figli minori della propria convivente, a nulla rilevando il preteso intento educativo).
Cass. pen. Sez. VI, 25 ottobre 2018, n. 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell’essere stato il delitto commesso alla presenza del minore, prevista dall’art. 61, n. 11-quinquies, cod. pen., non è necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell’abitualità, essendo suf¬ficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato.
Cass. pen. Sez. III, 18 ottobre 2018, n. 56673 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sono da considerare persone della famiglia, anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di prestarsi reciproca assistenza e protezione, di avere beni in comune, di dare vita a un nucleo solido e duraturo, anche in assenza di una stabile convivenza fisica. È attribuita particolare valenza probatoria alla dichiarazione resa dalla coppia all’Anagrafe del comune di residenza del soggetto presso il quale si instaura la convivenza. In particolare, in presenza di tale dichiarazione l’onere probatorio è invertito, spettando all’imputato, che contesti la sussistenza del legame fattuale caratterizzato dalla stabilità e dalla mutua solidarie¬tà, fornire prova contraria. L’intervallarsi di condotte improntate a registri di normalità alle vessazioni fisiche e morali non esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. III, 16 ottobre 2018, n. 1508 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della rituale contestazione del delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572, cod. pen., commesso ai danni di anziani ricoverati in una casa di riposo, non è necessario che il capo d’imputazione rechi l’identificazione anagrafica delle vittime, essendo sufficiente che in esso siano indicati il luogo e l’arco temporale di compimento delle condotte illecite.
La sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen. non implica l’in¬tenzione di sottoporre la vittima, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria.
Cass. pen. Sez. VI, 9 ottobre 2018, n. 6126 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato abituale di maltrattamenti in famiglia, è richiesto il compimento di atti che non siano sporadici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività, occorrendo una persi¬stente azione vessatoria idonea a ledere la personalità della vittima. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna emessa in relazione a tre distinti episodi di minaccia, ingiuria e percosse, posti in essere dall’imputato a distanza di tempo l’uno dall’altro ed in un arco temporale di circa undici mesi).(Conf. Sez.6, n.8953/1984).
Cass. pen. Sez. III, 17 settembre 2018, n. 55348 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine di ravvisare il delitto di maltrattamenti in caso di vessazioni del direttore di una direzione provinciale del tesoro in danno di impiegate, è insufficiente la condizione di subalternità delle impiegate al superiore gerarchi¬co, quale si configura nella relazione delle dipendenti della tesoreria provinciale rispetto al direttore, così come la quotidianità dei rapporti intercorrenti nel corso dell’orario lavorativo fra costoro in ragione dell’identità dei progetti o dei risultati lavorativi perseguiti, occorrendo, invece, la verifica che le dinamiche relazionali in seno all’azienda o all’ufficio riproducano le relazioni di prossimità permanente ed il clima di confidenzialità sussistente all’interno di una comunità assimilabile a quella del consorzio familiare e dovendo la para-familiarità preesistere all’azione criminosa ed essere indipendente dal rapporto degenerato per effetto delle condotte vessatorie poste in essere nei confronti del personale.
Corte d’Appello Palermo Sez. IV, 25 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti è integrato da atti di sopraffazione sistematica, tali da rendere particolarmente dolo¬rosa la stessa convivenza, caratterizzati dall’elemento psichico, che deve evidenziare nell’agente la consapevo¬lezza e la volontà di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima.
Tribunale Udine, 24 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia, la cui integrazione richiede un atteggiamento oppressivo e prevaricatorio, causa di sofferenze fisiche o morali, che si realizza e conferma nella reiterazione dei maltrattamenti, posti in essere dal soggetto attivo nella consapevolezza di persistere nella sopraffazione dell’altro, deve ritenersi confi¬gurabile anche nell’ipotesi in cui le sistematiche condotte violente e sopraffattrici non realizzano l’unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali connotazioni. Le ripetute manifesta¬zioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano, invero, il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo.
Cass. pen. Sez. V, 18 luglio 2018, n. 42599 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di lesioni personali lievi non è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia se l’autore della condotta ha avuto non solo l’intenzione di maltrattare ma anche di ledere l’integrità fisica del soggetto passivo. (Fattispe¬cie in cui la Corte ha escluso qualsiasi violazione del principio del “ne bis in idem” nei confronti dell’imputato del reato di lesioni, già condannato per il delitto di maltrattamenti, in ragione della diversità dell’elemento soggettivo tra i due reati).
Tribunale Vicenza, 16 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della sussistenza del delitto p. e p. dall’art. 572 c.p., è necessario che vi sia un soggetto che abitualmen¬te infligge sofferenze fisiche o morali ad un altro, il quale, specularmente, ne resta succube. Nel caso in cui le violenze, offese, umiliazioni sono reciproche, pur se di diverso peso e gravità, non può ritenersi integrata la fattispecie ascritta.
Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2018, n. 45736 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno, causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravitàdel comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Tribunale Frosinone, 3 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
dall’abitualità del comportamento dell’agente e, dunque, dalla unitarietà della condotta, pur nella pluralità delle manifestazioni, che costituiscono, dunque, estrinsecazione di un sistema di vita di relazione abitualmente dolo¬roso ed avvilente. Ai fini della sussistenza del reato, pertanto, è necessario dimostrare, ancorché in via indiziaria, l’esistenza di tale tessuto uniforme.
Tribunale Ferrara, 21 giugno 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per ritenersi integrato il reato di cui all’art. 572 c.p. occorre che gli atti vessatori tenuti dal soggetto agente nei confronti della vittima possano inserirsi in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione alla vittima di un regime di vita oggettivamente vessatorio.
Tribunale Firenze Sez. I, 8 giugno 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che con reiterate condotte violente e vessatorie, protrattesi per circa tre anni, maltrattava la moglie, picchiandola selvaggiamente ed ingiuriandola anche in presenza dei figli minori. La reiterazione degli atti di vessazione deve dunque ingenerare una fonte di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 2018, n. 39920 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti ai danni di un lavoratore nella forma del mobbing, occorre accertare la natura parafamiliare della relazione intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore, a prescindere dal dato meramente quantitativo costituito dal numero dei dipendenti, e senza che la parafamiliarità possa essere esclusa dalla mera impostazione moderna ed attuale del contesto lavorativo o dalla circostanza che i comporta¬menti discriminanti e prevaricatori siano attuati nei confronti di più dipendenti o dal fatto che la persona offesa si sia determinata a denunciare all’autorità giudiziaria il fatto di essere vittima di cd. mobbing da parte del datore di lavoro o ancora dalla circostanza che la persona offesa abbia nel corso del processo rimesso la querela, fatto comunque rilevante in relazione alla procedibilità del solo reato di lesioni personali e non anche di quello di mal¬trattamenti. (Nella fattispecie, trattasi di mobbing lamentato dalla dipendente di uno studio notarile).
È necessario il requisito della para-familiarità per configurare il delitto di maltrattamenti in famiglia in ambito lavorativo, concretizzandosi nella sottoposizione di una persona all›autorità di un›altra in un contesto di prossimità permanente.
Il reato di maltrattamenti in famiglia può essere realizzato anche in ambienti di lavoro, purché il contesto lavo¬rativo presenti i caratteri della para-familiarità. Tale requisito deve essere valutato non tanto sulla scorta di ele¬menti quantitativi o dimensionali dell’azienda, bensì analizzando in concreto la qualità del rapporto intercorrente tra il datore ed il lavoratore.
Cass. pen. Sez. VI, 22 maggio 2018, n. 57870 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’invio di messaggi ingiuriosi e minacciosi e l’utilizzo ai medesimi fini dei social network, in particolare laddove i medesimi contegni si pongano in disattendimento delle prescrizioni imposte nell’ordinanza cautelare di divieto di dimora, sono condotte idonee ad integrare la fattispecie punita dall’art. 572 c.p.
Integra il reato di maltrattamenti in famiglia aggravato la condotta del soggetto che invia alle persone offese messaggi non solo tramite telefono ma anche per mezzo di social network, stante la potenziale diffusività ed il carattere altamente invasivo del mezzo utilizzato.
Tribunale Bari, 22 maggio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elemento soggettivo del reato ex art. 572 c.p. si sostanzia nel dolo generico, ossia nella consapevolezza e vo¬lontà di sottoporre la persona offesa ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuato ed abituale.
L’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia consiste nella sottoposizione dei familiari a una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di vita. In tal caso, i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Tribunale Pescara, 15 maggio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima al soggetto agente, in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza. Tanto che nello schema del delitto di maltrattamenti non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, senza che assuma rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito.
Tribunale Firenze Sez. I, 23 aprile 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato si configura come reato necessariamente abituale, e si si carat¬terizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Detto reato si perfeziona allorché si realizza un minimo di tali condotte (delittuose o meno) collegate da un nesso di abitualità.
Tribunale Napoli Sez. V, 6 aprile 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato p. e p. dall›art. 572 c.p. il prevenuto che con reiterate condotte violente, sottoponeva la coniuge a continui maltrattamenti costringendola ad un regime di vita intollerabilmente vessatorio ed umiliante nonché lesivo per la sua integrità psicofisica. Per la configurabilità di tale reato occorre che il soggetto agente non si limiti a porre in essere fatti che ledono o pongono in pericolo beni che l›ordinamento giuridico già autonomamente protegge (percosse, lesioni, ingiuria, violenza privata), ma occorre che il suo comportamento si estenda a tutti quei fatti lesivi del patrimonio morale e dell›integrità psichica del soggetto passivo, che, seppure singolarmente considerati non costituiscono reato, siano tali da rendere abitualmente dolorosa la relazione con l›agente.
Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2018, n. 32368 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integrano il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore anche le condotte persecutorie poste in essere da un genitore nei confronti dell’altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di con¬dotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest’ultimo.
Cass. pen. Sez. VI, 20 marzo 2018, n. 36802 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le molestie sessuali e le prevaricazioni poste in essere sul luogo di lavoro in danno di lavoratori sono riconducibili nella fattispecie di maltrattamenti prevista dall’art. 572 c.p., qualora il rapporto interpersonale sia caratterizzato dal requisito della para-familiarità, avuto riguardo non semplicemente al numero dei dipendenti dell’azienda, alla durata del rapporto di lavoro, alla reiterazione del condotte discriminatorie nei confronti dei soggetti ed alla reazione delle vittime, bensì alle dinamiche relazionali intercorrenti fra i lavoratori ed il datore di lavoro, nonché all’esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità delle vittime suddette. (Nella fattispecie, l’autore delle vessazioni era il capofficina).
Cass. pen. Sez. III, 20 marzo 2018, n. 46043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di completo abbattimento, ma può consistere anche in un avvilimento generale conse¬guente alle vessazioni patite, non escludendo sporadiche reazioni vitali ed aggressive della vittima la sussistenza di uno stato di soggezione a fronte di soprusi abituali.
Cass. pen. Sez. VI, 1 marzo 2018, n. 16846 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condanna per il reato di atti persecutori passata in giudicato preclude la celebrazione del giudizio per il mede¬simo fatto storico pur se diversamente qualificato quale maltrattamenti in famiglia, in quanto le due fattispecie di reato sono l’una sussumibile nell’altra. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi ele¬menti costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona ed, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, n.200 del 2016, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati).
Cass. pen. Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 18833 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, scaturente da una condotta riportabile alla c.d. violenza assistita, proprio perchéfondato su di una relazione non diretta, ma indiretta fra il comportamento dell’agente e la vittima – essendo l’azione rivolta a colpire non il minore, ma altri ovvero, come nella specie, connotandosi per la reciprocitàdelle offese fra i genitori, postula una prova rigorosa che l’agire – in ipotesi – illecito, per un verso, sia connotato dalla c.d. abitualità; per altro verso, sia idoneo ad offendere il bene giuridico protetto dall’in¬criminazione, id est abbia cagionato – secondo un rapporto di causa-effetto – uno stato di sofferenza di natura psìco- fisica nei minori spettatori passivi.
Il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti diretta¬mente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all’interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l’abitua¬lità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi.
Cass. pen. Sez. VI, 22 febbraio 2018, n. 19868 (Dir. Pen. e Processo, 2018, 9, 1201 nota di Barbati)
Il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti contro familiari e conviventi) è configurabile nell’ipotesi in cui i maltrattamenti siano posti in essere dal marito nei confronti dell’ex moglie, non rilevando in sé e per sé, ai fini della configurabilità del reato, la durata della convivenza tra i due dopo il divorzio, quanto piuttosto l’esistenza di una stabile relazione affettiva tra l’imputato e la persona offesa, relazione che ha creato reciproco affidamento e aspettative di assistenza, protezione e solidarietà.
Corte d’Appello Perugia, 14 febbraio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi della integrità fisica o morale, della libertà o del decoro delle persone di famiglia, in modo tale da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e le vittime. L’oggetto giuridico del reato contestato non è infatti costituito dal solo interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia, ma anche quello della difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone nella nonna indicate.
Cass. pen. Sez. VI, 13 febbraio 2018, n. 14754 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosid¬detto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte poste in essere dai superiori in grado nei confronti di un appuntato dei Carabinieri).
Corte d’Appello Napoli Sez. III, 13 febbraio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la condotta delittuosa concretizzatasi in plurimi episodi di violenza, ingiuria e minaccia posti in essere dall’imputato ai danni della coniuge, connessi in maniera inscindibile dalla volontà unitaria, persistente e ispiratrice della condotta criminosa tesa a ledere in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 9 febbraio 2018, n. 10784 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 c.p. eccepita in relazione agli artt. 32, 35 e 41 Cost. nella parte in cui limita la configurabilità nei luoghi di lavoro del delitto di maltrattamenti all’ipotesi in cui il rapporto tra datore di lavoro e dipendente assuma natura parafamiliare.
Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 2018, n. 10763 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il concorso per omissione nel delitto di maltrattamenti in famiglia la condotta della referente del Comune presso un asilo nido che ometta di intervenire pur avendo conoscenza dei maltrattamenti consumati nella struttura.
Il concorso nel reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. può configurarsi anche in forma omissiva nell’ipotesi in cui il soggetto garante, nella fattispecie un’educatrice di un asilo, non denunci i maltrattamenti posti in essere dalle colleghe.
Tribunale Trani, 29 gennaio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violenza perpetrata dal padre nei confronti dalla madre alla presenza dei figli denota l’inidoneità del padre non solo sotto il profilo dell’accudimento primario, ma anche sotto quello delle esigenze affettive e evolutive della prole minore e in grado di garantire la figura genitoriale paterna, che rende allo stato non attuabile un affida¬mento condiviso. Deve quindi disporsi l’affido esclusivo.
Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 12866 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La reiterata e grave carenza di cure ed assistenza di persone anziane non autosufficienti, pur potendo configurare il reato di maltrattamenti, non integra di per sé il diverso reato di abbandono di incapaci, per la cui configurabilità è necessario l’accertamento di una condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale la corte di appello aveva con¬dannato l’imputata , addetta, presso un residence per anziani, alla pulizia dei locali, all’igiene personale dei pazienti e alla loro assistenza duranti i pasti, senza individuare se l’incuria nello svolgimento di dette mansioni e le condotte di maltrattamenti poste in essere nei confronti dei pazienti avessero determinato una situazione di “abbandono”)
Tribunale Firenze Sez. I, 23 gennaio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, il reato di maltrattamenti in famiglia integra una ipotesi di reato necessaria¬mente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti che, isolatamente considerati, potreb¬bero anche essere non punibili ovvero non perseguibili, ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 3087 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le condotte vessatorie poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori, in quanto i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza. (In motivazione, la Corte ha precisato che il reato previsto dall’art.612-bis cod. pen. è configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di cessazione della relazione di fatto).
Cass. pen. Sez. VI, 13 febbraio 2017, n. 3356 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di per¬sona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. Peraltro, il reato persiste anche in caso di separazione legale, tenuto conto del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dall’obbligo di convivenza e di fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, atteso che la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività vessatoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicolo¬gica subordinata o comunque dipendente.
Cass. pen. Sez. II, 6 dicembre 2017, n. 7639 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti di lavoro, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, come tale, destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo.
Cass. pen. Sez. III, 22 novembre 2017, n. 6724 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo. (Fattispecie in cui la condotta contestata, consistita nell’ingiuriare, minacciare ed aggre¬dire fisicamente la vittima, tenendo, altresì, atteggiamenti palesemente denigratori nei suoi confronti era stata attuata nel corso di tre mesi di convivenza frammezzata da periodi di quiete).
Corte d’Appello Lecce Taranto, 6 novembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorrono nell’imputazione per il reato di mobbing, p. e p. dall’art. 612-bis, i prevenuti che in qualità di responsa¬bile della s.r.l. l’uno e vice-direttore l’altro, sottoponevano un proprio dipendente a quotidiani atti discriminatori e vessatori ingenerando nel predetto un “disturbo dell’adattamento con umore depresso”, stati di ansia e crisi di panico; in particolare sottoponevano il predetto ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo rispetto alle legittime aspirazioni dello stesso, con demansionamento nonché emarginazione ed isolamento dagli altri dipendenti.
Tribunale Genova Sez. I, 25 ottobre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti presuppone la sottoposizione della persona offesa ad una serie di atti di vessazione continui, idonei a cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, tali da costituire fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita.
Cass. pen. Sez. VI, 19 ottobre 2017, n. 56961 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto previsto dall’art 572 cod. pen. configura un reato abituale, essendo costituito da una pluralità di fatti commessi reiteratamente dall’agente con l’intenzione di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, onde ogni successiva condotta di maltrattamento si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; allorché, di contro, la serie di fatti co¬stituenti maltrattamenti si esaurisca e, dopo un notevole intervallo temporale, ne inizi un’altra contro lo stesso soggetto passivo, si è in presenza di due autonomi reati di maltrattamenti, eventualmente uniti dal vincolo della continuazione ove sussista un medesimo disegno criminoso.
Corte d’Appello Lecce, 19 ottobre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che maltrattava la compagna convivente con aggressioni fisiche e verbali pressoché quotidiane, picchiandola con schiaffi, calci e spintoni, ingiuriandola e minacciandola di farle del male, costringendo la donna ad un regime di vita penoso ed intollera¬bilmente vessatorio. Con riferimento all’elemento soggettivo, poi, va rilevato che, per integrare il delitto di cui si tratta, è sufficiente il dolo generico, per cui non si richiede che l’agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva.
Cass. pen. Sez. VI, 6 ottobre 2017, n. 49997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elemento soggettivo richiesto dal reato di cui all’art. 572 c.p. è integrato dalla consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, non essendo necessaria la sussistenza di uno specifico programma criminoso.
Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2017, n. 52723 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione.
Corte d’Appello Lecce Taranto, 4 settembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti che determinano nella vittima sofferenze fisiche e morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica di un soggetto passivo nel senso di infliggergli abitualmente sofferenze.
Tribunale Cassino, 4 settembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia, occorre che sia accertata una condotta (consi¬stente in aggressioni fisiche o vessazioni o manifestazioni di disprezzo) abitualmente lesiva dell’integrità fisica e del patrimonio morale della persona offesa che, a causa di ciò, versa in una condizione di sofferenza: sotto il profilo soggettivo, pertanto, occorre la dimostrazione della sussistenza di una volontà sopraffattrice idonea ad abbracciare le diverse azioni e a ricollegare a unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e fisica del soggetto passivo.
Tribunale Firenze Sez. I, 21 agosto 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità del delitto è richiesta la sussistenza di una serie abituale di atti vessatori nei confronti della persona offesa, consistenti in minacce, percosse, offese, lesioni, pri¬vazioni ed umiliazioni, ma anche in atti di disprezzo e di lesione della dignità della persona, causa di sofferenze morali o fisiche per la stessa e tale reato può essere integrato anche da condotte di per sé non costituenti reato.
Corte d’Appello Lecce, 28 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ imputabile per i reati p. e p. dagli artt. 572, 612 comma 2 e 594 c.p., il prevenuto che maltrattando la moglie, picchiandola, perseguitandola con telefonate ed sms, minacciandola di un male ingiusto anche attraverso l’uso di armi, teneva un atteggiamento avvilente, arrogante, violento ed autoritario, procurando alla donna sofferenze fisiche e morali tali da rendere la convivenza insostenibile.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 27 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato p. e p. dall’art. 572 c.p. il prevenuto che percuotendo con calci e pugni la moglie, ingiuriandola con espressioni offensive ed ostentando una relazione extraconiugale con la stes-sa, usava continui maltrattamenti nei confronti della stessa. In merito alla fattispecie ascritta si rileva, che, mentre il “semplice” tradimento coniugale non costituisce reato, quando questo è ripetuto e associato ad altri comportamenti che risultano umilianti o lesivi della dignità del coniuge può venirsi a configurare il reato di maltrattamenti familiari.
Tribunale Firenze Sez. I, 27 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In ordine all’abitualità dei comportamenti maltrattanti di cui all’art. 572 c.p., essi devono essere tali da cagionare sofferenza, prevaricazione e umiliazioni e da creare fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza.
Tribunale Genova Sez. I, 5 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto previsto dall’art. 572 c.p. si configura attraverso la sottoposizione del familiare ad una serie di soffe¬renze fisiche e morali che, isolatamente considerate, potrebbero anche non costituire reato, in quanto la ratio dell’antigiuridicità penale risiede nella loro reiterazione protrattasi in un arco di tempo che può essere anche limitato e nella persistenza dell’elemento intenzionale. Di talché l’integrazione della fattispecie in parola non può essere esclusa ove alle condotte penalmente rilevanti si alternino momenti di vita familiare comunque sereni e gratificanti, in quanto le ripetute manifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo.
Tribunale Firenze Sez. I, 4 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra la condotta p. e p. dall’art. 572 c.p., la condotta di chi abbia posto in essere reiterati comportamenti di maltrattamento nei confronti della ex convivente e del figlio.
Cass. pen. Sez. VI, 28 giugno 2017, n. 40959 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma con¬cretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 28 giugno 2017, n. 39338 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Commette il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. la gestrice di fatto di un albergo che nei confronti di una lavoratrice tenga condotte vessatorie in un contesto di parafamiliarità, ossia di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratteriz¬zate da discrezionalità e informalità.
Tribunale Genova, 28 giugno 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’integrazione del delitto ex art. 572 c.p. è necessaria una condotta di vessazione continuativa, la quale deve costituire fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita, poiché altrimenti deve escludersi l’abitualità del comportamento, implicita nella struttura normativa della fattispecie, ed i singoli fatti che ledono o mettono in pericolo l’incolumità di una persona della famiglia conservano la propria autonomia di reati contro la persona.
Cass. pen. Sez. VI, 27 giugno 2017, n. 35673 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reato di maltrattamento, la cessazione della convivenza da parte di un uomo – non legato con la donna maltrattata da rapporto di coniugio – non consente di qualificare la prosecuzione della condotta persecu¬toria nell’ambito del reato di cui all’art. 572 c.p., dovendosi tale parte della condotta qualificare nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 612-bis, comma 2, c.p.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 15 giugno 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che, attraverso continue, perduranti e reiterate vessazioni di ordine psicologico e fisico, rendeva penosa ed intollerabile la convivenza alla moglie, fa¬cendola vivere in un clima di paura e prostrazione. In merito alla fattispecie ascritta la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, reiterati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica inten¬zione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze.
Tribunale Firenze Sez. II, 5 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti si caratterizza per una “condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determi¬nano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze”.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 26 aprile 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, ai fini della sussistenza della abitualità quale requisito del reato di maltrat¬tamenti in famiglia, è sufficiente che gli atti vessatori siano ripetuti, anche se per un limitato periodo di tempo, ed idonei a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa, non essendo, di contro, necessario che la condotta illecita venga realizzata in un lasso di tempo prolungato.
Cass. pen. Sez. VI, 20 aprile 2017, n. 25498 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la permanenza del complesso di obblighi verso il figlio implica il permanere in capo ai genitori, che avevano costi¬tuito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e di reciproco rispetto).
La cessazione della convivenza non esclude, per ciò stesso, la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della coppia quando il rapporto personale di fatto sia stato il risultato di un progetto di vita fondato sul¬la reciproca solidarietà ed assistenza, la cui principale ricaduta non può che essere il derivato rapporto di filiazione.
Cass. pen. Sez. VI, 19 aprile 2017, n. 27088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le condotte criminose poste in essere nei confronti del familiare convivente integranti percosse ed umiliazioni in danno del medesimo, ma prive del connotato dell’abitualità, in quanto verificatesi nell’ambito di un rapporto conflittuale, e di volta in volta commesse quale (abnorme) reazione occasionata da specifici comportamenti posti in essere dalla vittima, e, dunque, non come espressione della volontà di determinare in questa un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita, non risultano sussumibili nel reato di maltrattamenti in famiglia, ma integrano distinti episodi autonomamente rilevanti (nella specie di percosse, di lesioni, ed even¬tualmente di diffamazione, tuttavia non perseguibili per difetto o rimessione accettata di querela).
Cass. pen. Sez. I, 19 aprile 2017, n. 206 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 572 cod. pen., è sufficiente la sussistenza di un rapporto di convivenza caratterizzato dalla situazione di fatto della sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra, che non deriva da un rapporto di familiarità o di lavoro, ma si sviluppa in un contesto di affidamento e di soggezione del sottoposto rispetto a chi assume una posizione di supremazia. (Fattispecie in cui la Corte ha riconosciuto la configurabilità del reato commesso da una persona, da tutti riconosciuta come “badante” della vittima, pur in mancanza della consacrazione di tale relazione in un formale rapporto di lavoro).
Tribunale Torino, 14 aprile 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato p. e p. dall’art. 572 c.p. il prevenuto che maltratti il figlio minore costrin¬gendolo ad un regime di vita umiliante e vessatorio picchiandolo abitualmente in vari modi e cagionandogli varie ecchimosi. L’elemento soggettivo della fattispecie ascritta consiste nella coscienza e volontà dell’agente di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che ne avviliscono la personalità.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 11 aprile 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è, invece, sufficiente la consapevolezza, in capo all’autore del reato, di persistere in un’attività delittuosa, già posta in es¬sere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice.
Cass. pen. Sez. III, 7 aprile 2017, n. 4183 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficienti la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la perso¬nalità della vittima.
Tribunale Campobasso, 5 aprile 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia posti in essere ai danni del coniuge, occorre di volta in volta verificare se la condotta irrispettosa dell’un coniuge verso l’altro assuma connotati di tale gravità da costituire per il soggetto passivo fonte abituale di sofferenze fisiche e morali, nel qual caso è configurabile l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 572 c.p.), ovvero si concreti nella inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo di assistenza morale ed affet¬tiva verso l’altro coniuge, nel qual caso si versa nell’ipotesi delittuosa ex art. 570, comma 1, c.p., ovvero, infine, abbia carattere meramente estemporaneo ed occasionale.
Tribunale Genova Sez. I, 21 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p., può essere commesso da qualsiasi membro della famiglia in danno di un altro, anche non convivente, purché la relazione tra i due sia di intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà reciproche.
Tribunale Ascoli Piceno, 15 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ imputabile per il reato p. e p. dall’art. 572 c.p. il prevenuto che con condotte abituali, maltrattava la propria figlia minore, sottoponendola a vessazioni psicologiche con atti di disprezzo ed umiliazioni che le cagionavano profonde sofferenze morali. Nel caso di specie il reato deve ritenersi pienamente integrato avendo posto in es¬sere il prevenuto, una pluralità di atti di sopraffazione (reiterate ingiurie, minacce, molestie, atti di aggressività verbale eclatante posti in essere non a carico della figlia ma in presenza della stessa) ripetuti nel tempo attra¬verso cui l’imputato gettava in uno stato di angoscia la figlia ledendo sistematicamente la sua dignità morale e la sua integrità psico-fisica.
Cass. pen. Sez. III, 21 febbraio 2017, n. 16543 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti (art. 572 cod. pen.) integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si ca¬ratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), idonei a cagionare nella vittima durevoli sof¬ferenze fisiche e morali.
Cass. pen. Sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 11956 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da “animus corrigendi”, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti. (In appli¬cazione del principio, la S.C. ha riqualificato, ai sensi dell’art. 572 cod. pen., la condotta dell’insegnante della scuola materna di ripetuto ricorso alla violenza, sia psicologica che fisica nei confronti dei bambini, per finalità educative, non rilevando in senso contrario il limitato numero di episodi di violenza che ciascun bambino, singo¬larmente considerato, aveva subito).
Gli atti di violenza esercitati da un’insegnante di scuola materna nei confronti di infanti di tre anni devono essere qualificati come delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e non come abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (art. 571 c.p.), atteso peraltro che le dichiarazioni dei bimbi, per quanto da valutarsi con particolare attenzione, non possono ritenersi aprioristicamente inaffidabili.
Cass. pen. Sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 10906 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di maltrattamenti familiari possono essere riconosciute le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis c.p. ai genitori che, per la loro inadeguatezza etno-culturale, ritengono consentite punizioni corporali sul figlio minore che nel Paese di origine (Marocco) non costituiscono illecito, allorquando la loro incapacità culturale non gli ha permesso di rendersi conto della patologia diagnosticata al figlio stesso a causa dei loro atti, nonché per la loro incapacità di gestirne i suoi comportamenti oppositivi e provocatori (ricondotti, pur sbagliando, ad aspetti caratte¬riali) che si proponevano di contenere con metodi non certamente consentiti ed erroneamente ritenuti educativi.
Cass. pen. Sez. VI, 14 febbraio 2017, n. 9154 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il compimento sistematico di atti di natura vessatoria integra il reato previsto dall’art. 572 c.p. anche qualora le condotte dell’agente siano sorrette da un intento educativo o animate da spirito “di protezione”.
Corte d’Appello Cagliari Sez. II, 9 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussiste il reato ex art. 572 c.p. allorché il soggetto agente abbia assoggettato la di lui madre ad un regime di vita intollerabile, caratterizzato da un’abituale e prolungata serie di aggressioni verbali, minacce, ingiurie e danneggiamenti degli arredi e delle suppellettili della casa.
Cass. pen. Sez. VI, 8 febbraio 2017, n. 10901 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto previsto dall’art. 572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sotto¬porre la vittima ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza.
Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 2017, n. 10932 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di cui all’art. 572 c.p. sussiste in caso di reiterate condotte vessatorie poste in essere in costanza di separazione legale o di fatto, in presenza della quale persistono i doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarietà sociale sorti dal rapporto coniugale.
Tra coniugi che siano soltanto separati legalmente e non ancora divorziati non si configura l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., bensì il reato di maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572 c.p., in ragione della permanenza del vincolo famigliare nel caso di semplice separazione.
Cass. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2017, n. 17574 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di maltrattamenti contro familiari, oltre che verificare l’abitualità dei comportamenti offensivi, è neces¬sario accertare la sussistenza dell’elemento psicologico del “dolo abituale”, non potendosi richiamare il generico criterio per il quale non occorre uno specifico programma criminoso, ma è sufficiente la consapevolezza di persi¬stere in un’attività vessatoria diretta a ledere la personalità della vittima, dovendosi, invero, valutare la coscien¬za e la volontà di persistere in una tale siffatta attività. A sua volta, anche in mancanza di dati probatori nuovi e senza il rinnovo dell’istruttoria dibattimentale, è ben possibile la reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado, purché il (nuovo) giudizio di condanna reso in appello poggi su argomentazioni più forti, tali da elidere il dubbio che potrebbe essere evocato dal contrasto tra le due sentenze.
Corte d’Appello Palermo Sez. IV, 20 gennaio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, il delitto di maltrattamenti è integrato da atti di sopraffazione sistematica, tali da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza, caratterizzati dall’elemento psichico, che deve evidenziare nell’agente la consapevolezza e la volontà di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima.
Tribunale Bari Sez. I, 20 gennaio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che poneva in essere una serie di atti lesivi dell’integrità psicofisica della moglie e la maltrattava sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così rendendo abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni familiari, offendendola, picchiandola frequentemente ed impedendole di coltivare i sui interessi. L’oggetto giuridico della tutela penale apprestata dall’art. 572 c.p. non è solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti vessatori e violenti ma è anche la difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari.
Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52900 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, configurando un’ipotesi di reato abituale, si consuma nel momento e nel luo¬go in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti; fermo restando che, attesa la struttura persistente e continuativa del reato, ogni successiva condotta di maltrat¬tamento compiuta si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; ne deriva che il termine di prescrizione decorre dal giorno dell’ultima condotta tenuta.
Tribunale Campobasso, 2 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto p. e p. dall’art. 572 c.p. si concreta nella sottoposizione dei familiari ad atti di vessazione continui, tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Ai fini della configurabilità della fattispecie ascritta occorre accertare se la condotta irrispettosa di uno dei coniugi verso l’altro sia così grave da costituire, per il coniuge vessato, fonte abituale di sofferenze fisiche e morali ovvero si concreti nell’inosservanza, cosciente e volonta¬ria, dell’obbligo di assistenza morale ed affettiva dei coniugi, derivante dal matrimonio, oppure abbia carattere estemporaneo ed occasionale in quanto espressione di un momento di particolare tensione che può verificarsi nella vita di coppia.
Tribunale Ivrea, 12 ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che colpendo con calci e pugni ripetutamente la madre in più occasioni e minacciandola in vario modo, la costringeva a subire continue aggressioni fisiche ed umiliazioni morali, facendola vivere in uno stato di prostrazione sia fisica che morale. Alcun dubbio sussiste in merito alla configurabilità del reato p. e p. dall›art. 572 c.p., ricorrendone sia l›elemento materiale, cioè la reiterazione, per apprezzabile lasso di tempo, di percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni, atti di disprezzo e di offesa alla dignità imposti dall›imputato ai familiari conviventi, sia quello psicologico, ritenendosi sufficiente, ad integrare il dolo del delitto de qua, la consapevolezza dell›autore del reato di persistere in un›attività delittuosa.
Cass. pen. Sez. VI, 11 ottobre 2016, n. 48703 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti verso familiari e con¬viventi, l’intento educativo e correttivo non esclude il reato di cui all’art. 572 c.p. in caso di sistematico ricorso ad atti di violenza commessi nei confronti di minori.
Tribunale Bari Sez. I, ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è integrato anche quando le sistematiche condotte violente e sopraffat¬trici non realizzano l’unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la parte lesa, poiché le ripetute ma¬nifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo. Per l’integrazione dell’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia è imprescindibile il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se per un limitato periodo di tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art. 571 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente com¬portamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (nella specie, lancio di oggetti verso il dipendente e imposizione di stare seduto per lungo tempo davanti alla scrivania del datore di lavoro senza svolgere alcuna funzione).
Commette il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., e non il meno grave delitto di abuso dei mezzi di correzione o disciplina punito dall’art. 571 c.p., il datore di lavoro che nei confronti di un lavoratore dipendente tenga condotte non riconducibili alla nozione di abuso in quanto eccentriche rispetto all’esercizio, pur eccedente i limiti fisiologici, del potere di correzione e disciplinare funzionale ad assicurare la qualità e l’efficacia del risul¬tato perseguito dalla singola organizzazione lavorativa, e, quindi, condotte che valgono ad integrare il delitto di maltrattamenti, sempreché siano caratterizzate da parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro, di abitudini di vita proprie e fisiologiche alle comunità familiari per la stretta comunanza di vita, nonché di af¬fidamento e fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, contraddistinte da ampia discrezionalità ed informalità.
Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di cui all’art. 572 c.p. la realizzazione, da parte del datore di lavoro, di pratiche persecutorie realizzate in un contesto lavorativo caratterizzato da parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro, di abitudini di vita proprie e fisiologiche alle comunità familiari per la stretta comunanza di vita, nonché di af¬fidamento e fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Tribunale Firenze Sez. II, 2 agosto 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La realizzazione di condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell’altro genitore integra il de¬litto di maltrattamenti in famiglia nei confronti dei figli ogni qualvolta essi siano resi sistematici spettatori obbli¬gati delle stesse. Tale atteggiamento integra, invero, anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affittivi ed esistenziali della prole.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 19 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel rapporto tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, la osservanza della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612 bis, comma 1, c.p., rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie, risultando configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori solo in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale.
Corte d’Appello Palermo Sez. IV, 7 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia le condotte sono poste in essere ai danni di un familiare ovvero di un convivente; tale fattispecie si differenzia da quella di stalking in quanto la condizione di coniuge separato o divorziato costituisce circostanza aggravante della fattispecie, potendo, la vittima del reato, essere anche una persona estranea all’ambito familiare. Pertanto si configura il delitto di maltrattamento nel caso in cui le condotte criminose siano cosumate ai danni del convivente mentre sussiste la fattispecie p. e p. dall’art. 612-bis c.p., rela¬tivamente alle condotte assunte dopo la fine del rapporto di convivenza, costituendo, tale circostanza, il criterio discriminante tra le due ipotesi delittuose.
Cass. pen. Sez. II, 5 luglio 2016, n. 39331 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche qualora la condotta sia commessa ai danni del coniuge le¬galmente separato.
È configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l›agente, quando quest›ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha altresì precisato che la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie e, pertanto, quanto al rapporto tra i coniugi, la separazione legale non esclude il reato quando le condotte persecutorie incidano sui vincoli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione, che permangono integri anche seguito della cessazione della convivenza).
Il reato di maltrattamenti in famiglia si configura anche a seguito della cessazione della convivenza e in presenza della separazione, qualora l’attività persecutoria si contestualizzi in ambito familiare. Ciò in quanto, il vincolo coniugale non viene meno con la separazione legale, ma si attenua soltanto, posto che rimangono integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione tra coniugi. Ne discende che lad¬dove la condotta criminosa incida sui rapporti familiari, la separazione non esclude il reato di cui all’art. 572 c.p.
Tribunale Genova Sez. II, 21 giugno 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato p. e p. dall›art. 572 CP, perché, sottoponendo la propria madre ad una lunga serie di atti vessatori tali da determinare reiterate e durevoli sofferenze psichiche e morali, costituite da ingiurie, da privazioni, da umiliazioni, da un completo disinteresse per le condizioni psicofisiche della madre, poneva in essere una condotta di sistematica vessazione e sopraffazione della persona offesa, avvilendone la personalità e maltrattandola.
Cass. pen. Sez. VI, 1 giugno 2016, n. 26766 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore possono integrare il delitto di maltrattamenti in fa¬miglia quando il soggetto agente versi in una posizione di supremazia, che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo, riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supre¬mazia. (Nella fattispecie, è stato escluso il reato con riguardo a condotte dei titolari di una tabaccheria in danno di una dipendente quali abituali atti di scherno, disprezzo e vilipendio, riguardanti il suo aspetto fisico e le sue competenze professionali, anche al cospetto dei clienti, così da determinare l’insorgere nella stessa di una pa¬tologia psichica. Afferma che, “con particolare riferimento ai rapporti di lavoro, occorre”. E annulla senza rinvio per insussistenza del fatto la condanna, sull’asserito presupposto che “nella situazione oggetto del presente procedimento, relativa ai rapporti tra i gestori di una ricevitoria e una loro dipendente, qualificabili in termini di lavoro subordinato, non ricorreva quel nesso di supremazia-soggezione che ha esposto la parte offesa a situa¬zioni assimilabili a quelle familiari”.
Cass. pen. Sez. VI, 19 maggio 2016, n. 30704 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone la sussistenza di un vincolo familiare, o comunque di stretta assistenza e solidarietà reciproche, vincolo che viene meno con l’allontanamento del coniuge o convivente dal domicilio familiare attraverso il quale si manifesta la chiara volontà di rompere il sodalizio familiare. Ciò posto, si configura il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato dall’art. 572 c.p. nell’ipotesi di sussistenza del vincolo familiare mentre si configura il reato di atti persecutori, disciplinato dall’art. 612-bis c.p. nell’iposi del venir meno di detto vincolo.
In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della rela¬tiva fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamen¬ti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva configurato il concorso tra i due reati, sul presupposto della diversità dei beni giuridici tutelati, ritenendo integrato quello di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori).
Corte d’Appello Roma Sez. III, 6 maggio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, è da ritenersi integrato il reato di maltrattamenti, laddove il soggetto agente ponga in essere una condotta abitualmente lesiva e vessatoria nei confronti dei componenti della sua famiglia, con atteggiamento di prevaricazione, di prepotenza, di disprezzo e di violenza, contravvenendo anche al minimo dovere di mutuo rispetto che caratterizza i rapporti familiari, con consapevolezza e volontà degli atti di maltrat¬tamenti, della loro reiterazione e quindi della sottoposizione dei soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo ed abituale.
Cass. pen. Sez. V, 4 maggio 2016, n. 41665 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispe¬cie; è, invece, configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. Ne deriva che è configurabile il solo delitto di maltrattamenti in famiglia allorché le condotte criminose siano poste in essere in costanza di separazione legale.
Cass. pen. Sez. II, 21 aprile 2016, n. 17719 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti fra il reato di cui all’art. 572 c.p. e quello di cui all’art. 612-bis c.p., salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma 1, c.p. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece confi¬gurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma 2, c.p.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale.
Cass. pen. Sez. III, 7 luglio 2016, n. 10497 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, previsto dall’art. 572 cod. pen., può concorrere con il reato di minaccia grave nell’ipotesi in cui la minaccia sia finalizzata al conseguimento dell’impunità per i maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 2016, n. 24375 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti è una fattispecie necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 23 marzo 2016, n. 19852 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il cagionare nella vittima minore, all’agente affidata per ragioni di educazione e/o istruzione, sofferenze fisiche e/o morali, pur se accompagnate dall’intenzione di agire per finalità educative e correttive, non integra la con¬dotta tipica del delitto di abuso dei mezzi di correzione ex art. 571 c.p. I trattamenti lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità del minore costituiscono, invece, l’elemento materiale del reato di maltrattamenti, previsto dall’art. 572 c.p.
Tribunale Genova Sez. I, 23 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 del Codice Penale è necessario il dolo generico ovvero la coscienza e volontà di sottoporre la vittima a sopraffazioni fisiche e morali ripetute nel tempo ed in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e vessazioni in grado di incidere sulla sua personalità avvilendola.
Tribunale Napoli, 16 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia configura una ipotesi di reato necessariamente abituale, costituito da una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali acquistano rilevanza penale per la loro reiterazione nel tempo. Trattasi di fatti singolarmente lesivi dell’integrità fisica o psichica del soggetto passivo, i quali non sempre, singolarmente considerati, configurano ipotesi di reato, ma che valutati nel loro complesso devono inte¬grare, ai fini della configurabilità del delitto in parola, una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa.
Cass. pen. Sez. VI, 10 marzo 2016, n. 13422 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia può essre integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sè, non costituiscono reato. (In motivazione, la Corte ha precisato come il termine “maltrattare” non evoca in sè la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all’art.572 cod.pen.).
Tribunale Ivrea, 6 mazo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia richiede, in punto di elemento soggettivo, un dolo generico consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e vessazioni che ne avviliscono la personalità.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 2 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., la convivenza non è un presupposto necessario, essendo a tal fine sufficiente che tra i soggetti coinvolti sussi¬sta un legame sentimentale assistito dal carattere dell’abitualità e della frequentazione nel medesimo luogo di abitazione, suscettibile di far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale.
Cass. pen. Sez. II, 17 febbraio 2016, n. 8401 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di cui all’art. 572 c.p., per fatti avvenuti prima della sua riforma avvenuta nel 2012 e nel 2013, è con¬figurabile anche in danno di persona convivente more uxorio, quando si sia in presenza di un rapporto tenden¬zialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione e dal quale emerga un progetto di vita comune.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di persona convivente “more uxorio”, quan¬do si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione. La valutazione della esistenza del legame richiede un giudizio di merito che deve essere trasfuso in una motivazione priva di fratture logiche ed aderente alla emer¬genze processuali e tale può considerarsi il fatto che l’imputato e la parte offesa successivamente alla nascita della figlia abbiano deciso di convivere e abbiano preso in locazione una casa familiare nonché la circostanza che l’imputato ancorché si sia reso protagonista di frequenti allontanamenti dalla casa familiare abbia continuato a pagare il canone di locazione le quote condominiali e le bollette relative alle utenze dell’abitazione. Tali elementi inducono a ritenere sussistente un comune intento della coppia di iniziare e proseguire una stabile convivenza con caratteristiche della famiglia di fatto, ovvero un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assi-stenza.
Tribunale Napoli, 17 febbraio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o meno, realizzati in tempi successivi, ma collegati dal nesso di abitualità ed uniti da un’unica intenzio¬ne criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo. La caratteristica del reato necessariamente abituale è, dunque, rappresentata dal fatto che ciascuna delle singole azioni costituisce un elemento della serie, al realizzarsi del quale sorge la condotta tipica.
Cass. pen. Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 14742 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato anche quando le sistematiche condotte violente e sopraffattrici non realizzano l’unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali con¬notazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la parte lesa, poiché le ripetute mani¬festazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo.
Lo stato di nervosismo e di risentimento non esclude l’elemento psicologico del reato di maltrattamenti in fami¬glia, costituendo, al contrario, uno dei possibili moventi dell’ipotesi delittuosa. (La S.C. ha applicato il suddetto principio di diritto in fattispecie relativa allo stato di risentimento dell’imputato, determinato dal rifiuto del co¬niuge a congiungersi carnalmente).
Cass. pen. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 9954 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che faccia ricor¬so a qualunque forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva ricondotto al predetto reato la condotta di una insegnante che aveva sottoposto i bambini a lei affidati a violenze fisiche, consistite in schiaffi o nel tirare loro i capelli con forza, ovvero a violenza psicologica e, ancora, a condotte umilianti, come il minacciarli dell’arrivo di un diavoletto, nel costringerli a cantare o a mangiare, nel farli tenere la lingua fuori dalla bocca).
Cass. pen. Sez. Unite, 29 gennaio 2016, n. 10959 (Dir. Pen. e Processo, 2016, 8, 1063 nota di MICHELA-GNOLI)
L’espressione “delitti commessi con violenza alla persona” comprende anche i reati di atti persecutori e di mal¬trattamenti in famiglia. Il sintagma ‘violenza alla persona’ deve essere inteso alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle relative disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario. La nozione di violenza sviluppata in ambito internazionale e comunitario è più ampia di quella prevista nel codice penale italiano ed è comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche morali o psicologiche.
La disposizione dell’art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., che stabilisce l’obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con “violenza alla persona”, è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 cod. pen., in quanto l’espressione “violenza alla persona” deve essere intesa alla luce del concetto di “vio¬lenza di genere”, risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario.
Cass. pen. Sez. VI, 26 gennaio 2016, n. 8886 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Spetta al giudice ordinario la competenza a conoscere del delitto di maltrattamenti in famiglia allorché la con¬dotta criminosa, benché iniziata quando l’imputato era ancora minorenne, sia terminata in epoca successiva al raggiungimento della maggiore età, trattandosi di una fattispecie di reato unica non suscettibile di frazionamenti.
Tribunale Genova, 26 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di una relazione coniugale, il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 del Codice Penale si configura in presenza di condotte vessatorie reiterate nel tempo che assumano il carattere di abitualità attra¬verso la sottoposizione del familiare ad una serie abituale di privazioni, sofferenze, umiliazioni tali da risultare incompatibili con le normali condizioni di vita e creare nella vittima uno stato di abituale soggezione psicologica.
Tribunale Firenze Sez. I, 26 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazio¬ni ed umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di umiliazione e disprezzo della vittima, che comportino vere e proprie sofferenze morali. Nel caso di specie costituiscono una vera e propria sofferenza morale lo stato d’animo della vittima, costantemente soggetta a richieste di prestazioni intime, dalla stesse non gradite, e per questo insultata e svalorizzata.
Cass. pen. Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 18937 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta di maltrattamenti contro familiari o conviventi può consistere anche nella privazione pressoché totale del sostegno economico ai danni della persona offesa, a maggior ragione se unita ad ulteriori condotte vessatorie di altro genere. Non può invece rientrare nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p. la costrizione del coniuge al rapporto sessuale: il rapporto di coniugio non comporta alcun diritto a pretenderne la consumazione contro la volontà del consorte, ragion per cui il predetto comportamento integra pienamente il delitto di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p.
Cass. pen. Sez. VI, 12 gennaio 2016, n. 2625 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché l’interesse protetto dal reato di cui all’art. 572 cod. pen. è la personalità del singolo in relazione al rap¬porto che lo unisce al soggetto attivo, è configurabile una pluralità di reati, eventualmente unificati dalla conti¬nuazione, nel caso di maltrattamenti posti in essere nei confronti di più familiari.
Tribunale Firenze Sez. I, 8 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, la relazione di convivenza tra i componenti della famiglia non è elemento essenziale per la configurabilità della condotta incriminata, essendo preminente l’aspetto della mera relazione familiare dalla quale scaturiscono gli obblighi in capo ai partecipanti del nucleo. In particolare, laddove la con¬dotta venga realizzata da un padre nei confronti della prole, i doveri di padre restano vigenti anche quando la convivenza non c’è, con la conseguenza che, laddove sussistano gli elementi costitutivi del reato, cioè la sotto¬posizione ad atti di vessazione reiterata, tali da cagionare sofferenza, prevaricazione ed umiliazioni, in quanto costituenti fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di esistenza, gli estre¬mi del reato sono da ritenersi pienamente integrati anche in difetto di convivenza.
Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 7760 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., l’esistenza, in una casa di cura e ricovero per anziani, di un generalizzato clima di sopraffazione e violenza nei confronti degli assistiti non esime dalla rigorosa individuazione dei distinti autori delle varie condotte, in quanto il carattere personale della responsabilità penale impedisce che il singolo addetto, in mancanza di addebiti puntuali che lo riguardano, possa essere chiamato a rispondere, sia pure in forma concorsuale, del contesto in sé considerato, anche nel caso in cui da tale contesto egli tragga vantaggio.
Cass. pen. Sez. VI, 18 novembre 2015, n. 4170 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’uso sistematico della violenza sui minori, anche nel caso in cui sia sostenuto dal c.d. animus corrigendi, integra gli estremi del delitto di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. VI, 13 novembre 2015, n. 5258 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In un contesto familiare di continua conflittualità, ove alla veemenza verbale ed alla collera del marito la moglie risponde con capacità reattiva e non con un supino atteggiamento, non può configurarsi il delitto di maltratta¬menti in famiglia.
Tribunale Bari Sez. I, 15 dicembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella nozione di “maltrattamenti” di cui all’art. 572 c.p. rientrano i fatti lesivi dell’integrità fisica e del patrimo¬nio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente dolorose le relazioni familiari, che si manifestano mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento ed offendono il decoro e la dignità della persona, sia con atti o parole che con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non la¬sciare traccia.
Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2015, n. 46336 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Risponde del delitto di maltrattamenti, aggravati dal fine della discriminazione razziale, in danno di un dipenden¬te straniero, l’amministratore di fatto di una Snc che abbia attuato condotte vessatorie nell’ambito di un’azienda a conduzione familiare.
Cass. pen. Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 45077 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La figura di reato di cui all’art. 572 c.p. non costituisce la tutela penale del mobbing lavorativo, che, purtutta¬via, può essere ricondotto a tale ipotesi criminosa solo quando il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
A prescindere dalla prova delle condotte vessatorie, la pratica del mobbing lavorativo può integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo allorquando il rapporto professionale presenti il carattere della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abi¬tudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del soggetto “debole” nei confronti di chi ha la posizione di supremazia.
Cass. pen. Sez. VI, 17 settembre 2015, n. 17950 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti a carico del coniuge è ravvisabile anche quando gli atti vessatori, confliggenti con un nor¬male regime di vita, siano posti in essere dopo la separazione di fatto e la cessazione della convivenza stricto iure.
Cass. pen. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44589 (Dir. Pen. e Processo, 2016, 4, 477 nota di ARRIGO)
La fattispecie di cui all’art. 572 c.p., lungi dal rappresentare il generico strumento di repressione penale del mobbing lavorativo, può trovare applicazione solo in presenza di situazioni del tutto particolari, che conferiscano al rapporto il carattere della parafamiliarità, come ad esempio la sovrapposizione tra dinamiche professionali e relazioni familiari vere e proprie.
Al mobbing in ambito lavorativo è applicabile l’art. 572 c.p. purché vi sia con la vittima un rapporto di “para-familiarità”. Infatti, il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo alla condizione che sussista il presupposto della “para-familiarità”, intesa come sottoposizione di una persona alla autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia.
Cass. pen. Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 43960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il deterioramento del rapporto matrimoniale e la relazione extraconiugale del marito, manifestata alla moglie, non integra già di per sé il delitto di maltrattamenti, a meno che non sussistano altri elementi idonei a creare una situazione di sofferenza morale e fisica alla donna. Così pure non c’è (violenza economica), secondo la sentenza n. 43960/2015, se le scelte economiche e organizzative familiari, anche se non condivise allo stesso modo da entrambi i coniugi, sono compiute senza vessazioni o violenze fisiche.
Cass. pen. Sez. V, 16 luglio 2015, n. 47543 (Quotidiano Giuridico, 2015 nota di SCARCELLA)
Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umilii, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Cass. pen. Sez. VI, 7 luglio 2015, n. 32156 (Famiglia e Diritto, 2015, 10, 937)
Il rapporto sentimentale, sia pure di una certa durata, che difetti di qualsiasi manifestazione tangibile di stabilità, quale la convivenza, non consente di ritenere creatasi neppure quella situazione di minore reattività nella vitti¬ma, generata dall’affidamento e che consente di configurare il delitto di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 30436 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito all’imputazione per il reato di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate, in danno del figlio minore, il termine correzione va inteso quale sinonimo di educazione con riferimento ai connotati intrin¬secamente conformativi di ogni processo educativo e non può certamente ritenersi tale l’uso abituale della vio¬lenza a scopi educativi, e cio’ sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignita’ delle persone, anche minori, in quanto titolari di specifici diritti e non piu’ come in passato semplici oggetto di protezione, sia perche’ non puo’ perseguirsi quale meta educativa lo sviluppo armonico della personalita’ mediante l’uso di un mezzo violento che tale fine contraddice. Ne consegue che l’eccesso di mezzi di correzione violenti concretizza il reato di maltrattamenti in famiglia e non rientra nella fattispecie di cui all’art. 571 c.p., neppure ove sostenuto da animus corrigendi non essendo, l’intenzione soggettiva, idonea a far rientrare nella fattispecie meno grave una condotta oggettiva di abituali maltrattamenti, umiliazioni, rimproveri anche per motivi banali, offese, minacce e violenze fisiche.
Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126 (Quotidiano Giuridico, 2015 nota di PETRINI)
L’abitualità che caratterizza il delitto di maltrattamenti in famiglia può derivare dal continuo ed invasivo controllo da parte del marito, divorato da una patologica ed incontenibile gelosia nei confronti della moglie. Ma il giudice di merito deve vagliare con particolare attenzione la credibilità della vittima e dei testimoni, suoi prossimi con¬giunti, anche alla luce di eventuali motivi di astio di questi ultimi, derivanti da una pretesa risarcitoria di notevole valore economico, azionata in sede civile dall’indagato.
Cass. pen. Sez. III, 29 gennaio 2015, n. 14960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente ri¬conosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incom¬patibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare – in linea con l’art. 3 Cost. – la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica.
Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12065 (Famiglia e Diritto, 2015, 5, 507)
Il delitto ex art. 572 c.p. è necessariamente abituale, dal momento che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Le singole condotte assumono rilevanza nella misura in cui rendono evidente l’esistenza di un programma criminoso animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
La condotta penalmente rilevante di maltrattamenti in famiglia è riscontrabile soltanto laddove l’abitualità delle vessazioni riveli la programmatica strumentalizzazione di una relazione ai fini di una prevaricazione sistematica che induce, nella vittima, una perdurante afflizione.
Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 422)
Integrano il reato di maltrattamenti in danno dei figli minori anche condotte di reiterata violenza fisica o psico¬logica nei confronti dell’altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori obbligati di tali com¬portamenti, in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole.
Possono integrare il delitto di maltrattamenti (art. 572 c.p.) anche condotte omissive connotate da una delibe¬rata indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della “persona. debole” da tutelare; ne consegue che, nell’ambito della disamina della condotta maltrattante di un coniuge nei confronti dell’altro, va ricompresa nel novero dell’offensività, tipica della norma, anche la “posizione passiva dei figli mino¬ri” laddove questi siano “sistematici spettatori obbligati” delle manifestazioni di violenza, anche psicologica (nella specie del padre nei confronti della madre).
Cass. pen. Sez. II, 18 novembre 2014, n. 8998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di minorata difesa, la circostanza aggravante di aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, a seguito della modifica normativa introdotta dalla legge n. 94 del 2009, deve essere specificamente valutata anche in riferimento all’ età senile e alla debolezza fisica della persona offesa, avendo voluto il legislatore assegnare rilevanza ad una serie di situazioni che denotano nel soggetto passivo una particolare vulnerabilità della quale l’agente trae consapevolmente vantaggio. (Fattispecie relativa a una rapina in cui la vittima – una donna di settantaquattro anni – che aveva accennato una reazione alle minacce dei malfattori, veniva da questi afferrata per le spalle e scaraventata a terra).
Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 1400 (Famiglia e Diritto, 2015, 3, 281)
È idonea ad integrare il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia la coscienza e volontà di persistere in un›attività vessatoria, già posta in essere in precedenza. E› sufficiente che le condotte vessatorie siano tenute nella consapevolezza della loro ripetizione e della loro idoneità a creare una stabile e dolorosa patologia della vita familiare.
Integra il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi la condotta del marito che sottopone la moglie, nell’arco di un anno, a tre gravi e violente aggressioni fisiche, le quali si aggiungono a una situazione familiare contrassegnata dallo stato di frequente ubriachezza dello stesso, durante il quale egli sottopone la donna a insulti e vessazioni morali.
Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una plu¬ralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima medesima.
Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53425 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da “ani¬mus corrigendi”, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti. (In applicazione del principio, la S.C. ha annullato la decisione del giudice di merito qualificando ai sensi dell’art. 572 cod. pen., e non come abuso dei mezzi di correzione, la condotta di ripetuto ricorso alla violenza, sia psicologica che fisica, inflitta, per finalità educative, da una maestra di scuola materna ai bambini a lei affidati). (Annulla con rinvio, Trib. lib. Trieste, 29/04/2014)
Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416 (Famiglia e Diritto, 2015, 3, 281)
Ai fini della sussumibilità del mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti ex art. 572 c.p., l’esi¬stenza di una situazione para-familiare e di uno stato di soggezione e subalternità del lavoratore va verificata avendo riguardo delle dinamiche relazionali in seno all’azienda tra datore di lavoro e lavoratore.
Cass. pen. Sez. VI, 16 ottobre 2014, n. 49545 (Famiglia e Diritto, 2015, 2, 155)
Si deve escludere che, all’interno di una struttura pubblica, sia configurabile un rapporto di subordinazione la¬vorativa riconducibile a quelli di tipo parafamiliare, presupposto necessario per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia.
Ai fini della punibilità dei comportamenti vessatori nei rapporti di lavoro mediante la fattispecie di maltrattamen¬ti in famiglia, è richiesta non solo la sussistenza di un rapporto di autorità, ma anche la presenza di una relazione interpersonale intensa qualificata come “parafamiliare”. La sentenza n. 49545 del 2014 sembra affermare, non senza qualche rischio di eccessiva semplificazione, che all’interno di una struttura pubblica tale rapporto “para¬familiare” non sia mai configurabile.
Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2014, n. 34197 (Quotidiano Giuridico, 2014 nota di SCARCELLA)
L’art. 572 c.p. richiede condotte lesive, fisicamente o psicologicamente, che devono essere tali da portare a sofferenze morali (tra le varie: percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali), non essendo sufficiente, ai fini di integrarlo, un comportamento che, per quanto fastidioso nei confronti del coniuge, valutato oggettivamente, non vada al di là della obiettiva attitudine a portare ad una pur comprensibile ma non penalmente rilevante condizione di “stizza”.
Cass. pen. Sez. VI, 8 luglio 2014, n. 33882 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l›agente, quando quest›ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell›educazione, nell›istruzione e nell›assistenza morale del figlio minore naturale derivanti dall›esercizio congiunto della potestà genitoriale, implica necessariamente il rispetto reciproco tra i genitori anche se non conviventi).
Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31713 (Famiglia e Diritto, 2014, 10, 947)
Comportamenti discriminatori e vessatori possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo qualora si verifichino all’interno di rapporti tra datore di lavoro e dipendenti di natura parafamiliare, caratterizzati da relazioni intense ed abituali, tali da parificare un ambiente di lavoro ad una famiglia. Tale rapporto parafamiliare, pur essendo in astratto possibile in strutture complesse, deve svilupparsi con l’isolamento del lavoratore e non deve essere confuso con la mera confidenza.
Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2014, n. 47896 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non esclude l’abitualità della condotta di maltrattamenti l’eventuale intermittenza di periodi di comportamento non aggressivo da parte dell’agente, sussistendo il rapporto di convivenza anche quando, per i peculiari impegni di lavoro dell’autore del reato e della vittima, siano frequenti e prolungate le assenze.
Cass. pen. Sez. VI, 6 maggio 2014, n. 23013 (Quotidiano Giuridico, 2014 nota di MONTICELLI)
Il delitto di cui all’art. 572 c.p. si configura qualora sia dimostrato il requisito dell’abitualità della condotta, il qua¬le può essere desunto sia dai segni fisici rilevati sulle vittime che dagli anomali comportamenti reattivi osservati sulle stesse, soprattutto se ci si riferisce a bambini di tenerissima età non in grado di esprimersi verbalmente e di far emergere tempestivamente il loro disagio.
Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2014, n. 17689 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Commette il reato di cui all’art. 572 c.p. il preside di un liceo che abbia maltrattato una professoressa, insegnan¬te in quell’istituto, a lui sottoposta per ragioni lavorative e di ordinamento, facendola oggetto di persecuzioni e di vessazioni.
Cass. pen. Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24057 (Foro It., 2014, 7-8, 2, 401)
Si configura il reato previsto dall’art. 572 del codice penale, e non quello previsto dall’art. 600, comma 1, codice penale, nel caso in cui il datore maltratti un proprio dipendente, sottoposto alla sua autorità, qualora il rapporto di lavoro tra i due soggetti assuma carattere parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abitua¬li, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia e che la esercita tramite il potere direttivo o disciplinare.
Commette il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. il datore di lavoro nel caso in cui i lavoratori dipendenti siano ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico-sanitarie, con somministrazione scarsa o nulla di cibo e privazione del compenso.
Nell’ambito di rapporti lavorativi di natura parafamiliare, caratterizzati da relazioni intense ed abituali, da con¬suetudini di vita tra datore e prestatore di lavoro, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione anche solo psicologica, integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la condotta del datore di lavoro consistente nell’a¬ver tenuto alle proprie dipendenze lavorative alcuni cittadini rumeni in condizioni di estremo degrado materiale, nell’averli ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico-sanitarie, con somministrazione scarsa o nul¬la di cibo e privazione del compenso (nella specie, la Suprema corte ha ritenuto che il giudice di appello avesse correttamente riqualificato la fattispecie di riduzione in schiavitù, originariamente contestata al datore di lavoro, come maltrattamenti in famiglia).
Si configura il reato p. e p. dall’art. 572 c.p. nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, di natura para-familiare, caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia il quale, a sua volta, esercita il potere direttivo o disciplinare rendendo ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 2 aprile 2014, n. 15143 (Famiglia e Diritto, 2014, 6, 625)
Occorre che la condotta vessatoria sia reiterata per un lasso di tempo che giustifichi il convincimento del giudice di merito circa una volontà da parte dell’agente di una sopraffazione sistemica diretta a rendere dolorosa la convivenza delle persone della famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 19 marzo 2014, n. 24642 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non commette il reato di maltrattamenti in danno di una funzionaria comunale il sindaco, qualora le condotte percepite dalla funzionaria come denigratorie della propria professionalità e dignità rientrino nell’’ambito di scelte decisionali motivate da ragioni di tipo strettamente fiduciario, ovvero dettate da logiche politiche assimilabili a pratiche di cd. spoils system, e la posizione lavorativa della funzionaria comunale sia inquadrata in una dinamica relazionale complessa, la cui articolata disciplina è retta dalle norme del pubblico impiego, che ne delineano le forme di esercizio dei diritti e l’adempimento dei reciproci doveri, senza lasciare spazio all’instaurarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il suo dipendente, che appare in grado di determinare forme di soggezione di una parte nei confronti dell’altra, ovvero una consuetudine o comunanza di vita assimila¬bile a quella caratterizzante il consorzio familiare, tanto più che il ruolo proprio del sindaco, rispetto alle attribu¬zioni del funzionario di un comune, non è assimilabile alla tipica posizione di un datore di lavoro, instaurandosi il rapporto lavorativo di un dipendente comunale con il relativo ente pubblico territoriale, e non con il sindaco.
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosid¬detto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di una funzionaria comunale).
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31123 (Famiglia e Diritto, 2014, 11, 1039)
Non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente, quand’anche provochi un penoso regime di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 c.p.; l’integrazione del delitto contestato deve essere verificata in base al principio che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza e che, sul piano soggettivo, l’agente deve volere la produzione del regime di vita segnato dalla vessazione nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare.
Il delitto ex art. 572 c.p. è integrabile anche quando non vi sia più convivenza, laddove le condotte violente e minacciose siano idonee a provocare un penoso regime di vita. Tuttavia, non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente (quand’anche provochi un penoso regime di vita), può essere qualificato a normadell’ art. 572 c.p. poiché: (a) è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produt¬tivo di doveri di solidarietà ed assistenza e che, sul piano soggettivo, (b) l’agente intenda produrre un regime di vita segnato dalla vessazione, nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare.
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31121 (Foro It., 2014, 12, 2, 664)
La configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, previsto e punito dalla fattispecie incriminatrice di cu¬iall’art. 572 c.p., non esige il carattere monogamico del vincolo sentimentale posto a fondamento della relazione, né una continuità di convivenza, intesa come coabitazione. A tal fine è, invece, necessario che detta relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà. La fattispecie incriminatrice, pertanto, deve ritenersi certamente configurabile nell’ambito di un rapporto di convivenza duratu¬ro (specificamente circa due anni) con un soggetto già coniugato, nell’ambito di un alloggio istituito come luogo di svolgimento del rapporto di coppia, che si concretizzi, quando possibile, in coabitazione.
Non sussiste alcuna incompatibilità logica tra condotte vessatorie determinate da gelosia ossessiva e condotte ispirate da generosità orientata a soddisfare le esigenze economiche dei componenti di un nucleo familiare, giacché la volontà lesiva tipicamente riconducibile alla fattispecie di maltrattamenti ex art. 572 c.p. non è quella di provocare sofferenza in qualunque possibile modo alla vittima, quanto piuttosto la consapevolezza di porre in essere con regolarità comportamenti prevaricatori, così da imporre un penoso regime di vita al familiare.
Posto che la fattispecie di maltrattamenti non è esclusa dall’intermittenza tra periodi di aperta patologia della relazione familiare e periodi di maggiore equilibrio, sempre che la loro reiterazione sia tale da determinare, con continuità, uno stabile stato di sofferenza della relazione familiare, il dolo del reato non è integrato solo quando l’agente abbia programmato una serie continua di prevaricazioni, essendo sufficiente che egli si renda conto di provocare una protratta condizione di disagio della vittima, quale effetto della propria persistente attività ves¬satoria.
Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2014, n. 13088 (Famiglia e Diritto, 2014, 6, 624)
Le pratiche vessatorie realizzate ai danni di un lavoratore dipendente al fine di determinare l’emarginazione (cd. mobbing), anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 172 del 2012, possano integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia soltanto quando s’inquadrino nel contesto di un rapporto che – per le caratteristiche peculiari della prestazione lavorativa ovvero per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro – comporti relazioni intense e abituali, una stretta comunanza di vita ovvero una relazione di affidamento del soggetto più debole verso quello rivestito di autorità, assimilabili alle caratteristiche proprie del consorzio familiare. (Fattispecie nella
quale la Corte ha escluso la sussistenza del delitto in parola, per essersi verificate le condotte vessatorie nel contesto di un’articolata realtà aziendale, caratterizzata da uno stabilimento di ampie dimensioni e da decine di dipendenti sindacalizzati).
Comportamenti discriminatori e vessatori, anche a sfondo sessuale sia verbale che fisico, possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo qualora si verifichino all’interno di rapporti tra datore di lavoro e dipen¬denti di natura parafamigliare, caratterizzati da relazioni intense ed abituali, tali da parificare un ambiente di lavoro ad una famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 4 marzo 2014, n. 12004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, integra la circostanza aggravante della lesione grave, di cui al secondo comma dell’art. 572 cod. pen., la ritardata crescita del minore che, per via dei maltrattamenti, si sia trovato in condizioni di denutrizione o malnutrizione tali da cagionare la predetta malattia.
In tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, la circostanza aggravante della lesione grave, di cui al secondo comma dell’art. 572 c.p., può essere integrata dalla ritardata crescita del minore che, per via dei mal¬trattamenti, si sia trovato in condizioni di denutrizione o malnutrizione tali da cagionare la predetta malattia. Ciò in quanto la nozione di malattia nella fattispecie di lesioni personali – cui evidentemente fa rinvio anchel’art. 572, comma 2, c.p. – non comprende solamente le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì tutte quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa.
Cass. pen. Sez. III, 10 dicembre 2013, n. 4343 (Quotidiano Giuridico, 2014 nota di LEOTTA)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è da considerarsi reato abituale, in cui il termine di prescrizione inizia a decorrere dal giorno dell’ultima condotta tenuta, la quale “chiude il periodo di consumazione del reato”. Quest’ul¬timo inizia fin dalla “condotta primigenia” che, valutata insieme con le susseguenti, forma la serie minima di fatti penalmente rilevanti.
Cass. pen. Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 45585 (Famiglia e Diritto, 2014, 1, 81)
L’eventuale inadeguatezza del ruolo genitoriale della moglie mai e in nessun caso può giustificare il maltratta¬mento ad opera del marito, cui non può competere alcun intervento in funzione di un inammissibile “ius corrigen¬di”, il quale, comunque, non dà alcuna legittimità ad azioni e condotte caratterizzate da violenza.
Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 44700 (Famiglia e Diritto, 2014, 1, 81)
Nello schema del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali.
Cass. pen. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti dell’art. 572 c.p., deve considerarsi famiglia ogni consorzio di persone tra cui, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione. Ne consegue che sono da conside¬rare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo.
A seguito della novella normativa di cui alla legge n. 172 del 2012, che ha modificato la rubrica dell’art. 572 c.p. da “Maltrattamenti in famiglia” in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, precisando che soggetto passivo del reato di cui al citato articolo non è soltanto una persona della famiglia, bensì una persona della famiglia o comunque convivente, si è inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza. Ciò in quanto si è riconosciuto il valore sociale della convivenza come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l’ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire.
Nel caso di famiglia di fatto, il delitto di maltrattamenti non è configurabile allorquando viene meno la convi¬venza, ciò che rende manifesta l’avvenuta estinzione dell’affectio che reggeva quell’unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza.
Il principio secondo il quale il requisito della convivenza o coabitazione non sarebbe necessario per integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, se vale nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi in considerazione della circostanza per cui nonostante la cessazione della convivenza persistono altri obblighi giu¬ridici, sia pure attenuati, di assistenza morale o materiale nascenti dal matrimonio, non può valere nell’ipotesi di famiglia di fatto, in quanto la cessazione della convivenza rende manifesta l’avvenuta estinzione dell’affectio che reggeva quella unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza che costituisce il fondamento volontario della famiglia di fatto.
Il delitto di maltrattamenti è configurabile pure se con la vittima degli abusi vi sia un rapporto familiare di mero fatto, desumibile, anche in assenza di una stabile convivenza, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza. (Nella specie, la Corte ha escluso ricorresse un rapporto di tal genere nel caso di due persone che, pur avendo generato dei figli, non avevano convissuto se non per brevissimi periodi ed avevano instaurato un legame caratterizzato da precarietà ed instabilità).
Cass. pen. Sez. VI, 28 marxo 2013, n. 28603 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve escludersi la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, previsto e punito dalla norma incrimi¬natrice di cui all’art. 572 c.p., in relazione alle pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione, nell’ipotesi in cui il rapporto sia inquadrato all’interno di una realtà aziendale complessa, la cui articolata organizzazione non implichi l’instaurarsi di quella stretta ed intesta relazione tra par¬te datoriale e dipendente, in grado di determinarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare.
L’esclusione della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, in relazione alle pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente, non consente di pretermettere la valutazione della rilevanza di condotte idonee a configurare altre fattispecie di rilievo penale, pur meno gravi, che come tali devono essere prese in considerazione nell’ambito della cognizione di merito.
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (nella specie, la Corte ha escluso la sussistenza della natura para-familiare del rapporto, considerato che la posizione lavorativa della persona offesa era inquadrata all’interno di una realtà aziendale complessa – istiuto di credito – la cui articolata organizzazione, attraverso la previsione di “quadri intermedi”, non implicava certo l’instaurarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il dipendente, che appare in grado di deter¬minarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare).
Cass. pen. Sez. VI, 14 febbraio 2013, n. 12828 (Famiglia e Diritto, 2013, 6, 605)
Integra il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. la condotta del figlio che muove pressanti e continue richieste di somme di denaro formulate alla madre, accompagnate da atti produttivi di diverse sofferenze morali per il tramite di contegni vessatori e ingiuriosi e attraverso l’esposizione a stati d’ira.
Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 9724 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti è integrato non soltanto da specifici fatti commissivi direttamente opprimenti la per¬sona offesa, sì da imporle un inaccettabile e penoso sistema di vita, ma altresì da fatti omissivi di deliberata indifferenza verso elementari bisogni esistenziali e affettivi di una persona disabile.
Integrano il reato di maltrattamenti in danno di una persona disabile non solo fatti commissivi sistematicamente lesivi della sua personalità, ma anche condotte omissive connotate da una deliberata indifferenza e trascuratezza verso i suoi elementari bisogni affettivi ed esistenziali. (Fattispecie relativa ad una serie di comportamenti posti in essere nei confronti di una persona totalmente inabile e portatrice di “sindrome di down”, affidata alla cura e vigilanza di una “badante” con essa convivente).
Cass. pen. Sez. II, 6 dicembre 2012, n. 10994 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, che consiste nella sottoposizione di un familiare ad una serie abituale di atti di vessazione, continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, risultando incompatibili con normali condizioni di vita, è configurabile anche nel caso in cui al familiare venga improvvisamente riservato un trattamento sistematicamente e immotivatamente deteriore rispetto a quello in precedenza ordinariamente riservatogli, ove ciò renda manifesta l’esistenza di un programma criminoso animato da una volontà unitaria di vessare, fisicamente, ed anche psicologicamente, il soggetto passivo. (Nella specie, la Corte ha ritenuto confi¬gurabile il reato in presenza del trattamento, non in assoluto disumano né insopportabile, riservato alla moglie disabile dell’imputato, – “medio tempore” divenuto convivente sotto il tetto coniugale con altra donna -, consi¬stente, fra l’altro, nella sistemazione della stessa in un vano ricavato da un “garage”, nella somministrazione di cibo non sempre fresco ed adeguato alle sue condizioni, e nel mancato apprestamento delle necessarie cure).
I reati di maltrattamenti in famiglia e di abbandono di persone minori o incapaci possono concorrere in quanto le relative fattispecie incriminatrici sono poste a tutela di beni diversi ed integrate da condotte differenti. (In motivazione la S.C. ha osservato che i criteri di assorbimento e di consunzione sono privi di fondamento nor¬mativo, perché si riferiscono solo a casi determinati, non generalizzabili, in quanto i giudizi di valore che essi richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, facendo dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale).
Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 2012, n. 46848 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, secondo comma, cod. pen.la condotta di colui che ponga in essere fatti di maltrattamento nel cui ambito si inscriva un’azione “finale”, anche se compiuta da un concorrente, la quale provochi direttamente il decesso della persona offesa, quando i maltrattamenti, globalmente considerati, pure in considerazione dell’ultimo episodio di violenza, abbiano ido¬neità concreta ad offendere il bene vita. (Fattispecie in cui la sentenza impugnata aveva attribuito la morte di un minore non solo all’autore del colpo letale, ma anche ad altro soggetto che aveva maltrattato la vittima con medesime modalità, ritenendo l’ultima percossa ed il successivo decesso il naturale sviluppo dell’unitaria ed abituale condotta di maltrattamenti).
Cass. pen. Sez. VI, 13 novembre 2012, n. 7369 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia in danno del coniuge assorbe i reati di ingiuria, molestia ed atti persecutori anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, rimanendo integri i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale.
Cass., Sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34492 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umilii, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità. (Nella fattispecie la Suprema Corte ha confermato la sentenza di condanna di un insegnante che aveva costretto un alunno a scrivere per 100 volte sul quaderno la frase “sono un deficiente”).
Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2012, n. 25183 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se per un limitato periodo di tempo.
Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la perso¬nalità della vittima.
Cass. pen. Sez. III, 13 giugno 2012, n. 13707 (Famiglia e Diritto, 2013, 5, 508)
Il reato di maltrattamenti e quello di violenza sessuale si pongono in rapporto di specialità solo quando le con¬dotte a sfondo sessuale siano le uniche in cui si concretizza la fattispecie criminosa del maltrattamento, mentre i due delitti conservano la loro autonomia e possono concorrere fra loro qualora le violenze sessuali siano solo uno degli atteggiamenti di umiliazione e di compressione della libertà della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 21 maggio 2012, n. 30780 (Foro It., 2013, 9, 2, 505)
Integra il delitto di maltrattamenti – e non solo quello di “Abuso di autorità contro arrestati o detenuti”, reato istantaneo che può concorrere con quello di maltrattamenti – la reiterata e sistematica condotta violenta, vessa¬toria, umiliante e denigrante da parte degli agenti della polizia penitenziaria nei confronti di detenuti in ambiente carcerario e per tal motivo sottoposti alla loro autorità o, in ogni caso, a loro affidati per ragioni di vigilanza e custodia. (Fattispecie in cui è stata accertata la protrazione di condotta vessatoria violenta per un periodo di tempo significativo in danno di due detenuti).
Le pratiche persecutorie realizzate fuori dello stretto ambito familiare possono integrare il delitto di maltratta¬menti exart. 572 c.p. anche all’interno di comunità come quelle carcerarie, nell’ambito delle quali il rapporto tra agente e parte offesa, che vede il primo ricoprire una posizione di supremazia formale e sostanziale nei confronti della seconda, assume natura para-familiare, poiché tale rapporto è caratterizzato da relazioni intense ed abi¬tuali, da consuetudini di vita tra i due soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall’e¬sercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione anche solo psicologica; ne deriva che condotte vessatorie, umilianti e denigranti cui vengano sottoposti i detenuti possono ricondursi all’elemento materiale del reato di maltrattamenti in famiglia
Cass. pen. Sez. VI, 11 aprile 2012, n. 16094 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosid¬detto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un ATER nei confronti di una dipendente)
Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12089 (Foro It., 2012, 10, 2, 533)
Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti familiari (nella specie, nei confronti della figlia minorenne perché non in grado di ripetere perfettamente a memoria i versi del corano) non rileva la supposta finalità educativa fondata sul codice etico-religioso del padre di religione musulmana, trattandosi di violazione dei diritti inviolabili della persona i quali rappresentano uno “sbarramento invalicabile” contro l’introduzione di consuetudini, prassi e costumi “antistorici” contrastanti con i diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione.
Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12517 (Famiglia e Diritto, 2012, 10, 929 nota di FOLLA)
Aggressioni verbali, insulti e offese continuate realizzate dal datore di lavoro ai danni di una lavoratrice invalida non integrano il reato di “Maltrattamenti in famiglia”, se il rapporto di lavoro, pur connotato da una gerarchia di sovraordinazione, non sia altresì caratterizzato da una natura “para-familiare”; esse danno, invece, luogo a “Violenza privata” aggravata.
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’auto¬rità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Cass. pen. Sez. VI, 13 gennaio 2012, n. 19392 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consue¬tudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 (Famiglia e Diritto, 2012, 10, 944)
Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) si distingue da quello di “stalking” (art. 612-bis c.p.), anche se le condotte materiali appaiono omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva. Il reato di maltrat¬tamenti familiari, infatti, è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p.. Il reato di atti persecutori è, invece, un re¬ato contro la persona e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati (reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche. Il rapporto tra tale reato e il reato di maltrattamenti è regolato dalla clausola di sussidiarietà pre¬vista dall’art. 612-bis, comma 1, c.p., che rende applicabile – nelle condizioni date prima descritte – il reato di maltrattamenti, più grave per pena edittale rispetto a quello di atti persecutori nella sua forma generale di cui all’art. 612-bis, comma 1, c.p..
In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della rela¬tiva fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. (In motivazione, la S.C. ha precisato che ciò può valere, in particolare, in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa, ravvisandosi il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto).
Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2011, n. 43100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare. (Fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell’ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del reato previsto dall’art. 572 cod. pen.).
Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 (Foro It., 2012, 2, 2, 81)
L’oggetto della tutela penale nel reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. non è rappresentato soltanto dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto, fondato su costruttivi e socializzanti vincoli familiari aperti alle risorse del mondo esterno, a prescindere da condotte pacificamente vessatorie e violente; pertanto, il delitto di maltrattamenti può essere integrato anche da atteggiamenti iperpro¬tettivi nei confronti del minore che si concretizzano nel non fargli frequentare con regolarità la scuola, nell’impe¬dirne la socializzazione, nell’impartire regole di vita tali da incidere sul suo sviluppo psichico e nel prospettargli la figura paterna come negativa e violenta.
Nel concetto di maltrattamenti, richiesto ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p., rientrano non solo condotte che si qualificano per una chiara connotazione negativa, talora violenta, talora subdolamente mortificante o ingiustificatamente punitiva, ma sempre e comunque negativa, ma anche atteggiamenti iperpro¬tettivi, qualificabili come eccesso di accudienza, di protezione e di cura. L’oggetto giuridico del delitto in oggetto, invero, non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, connotati da una chiara connotazione negativa, ma anche dalla tutela della incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto.
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia il genitore che tenga nei confronti del figlio minore comportamenti iperprotettivi tali da incidere sullo sviluppo psicofisico dello stesso, a prescindere dal fatto che il minore abbia o meno percepito tali comportamenti come un maltrattamento o vi abbia acconsentito.
Integrano l’elemento oggettivo del delitto ex art. 572 c.p. gli atteggiamenti iperprotettivi tenuti nei confronti del minore, che siano concretamente idonei a ritardare gravemente nel minore stesso sia lo sviluppo psicologico relazionale, sia l’acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari.
Il ricorso dell’elemento psicologico del delitto di maltrattamenti in famiglia, ritenuto sussistente anche in pre¬senza di atteggiamenti denotanti un eccesso di accudienza, di protezione e di cura nei confronti del minore, se può escludersi in una fase iniziale, allorquando sia legittimo ritenere che la famiglia agisca in buona fede nella scelta delle metodiche educative e nell’accurata attenzione nell’impedire al minore contatti di ogni tipo, isolan¬dolo nelle sicure mura domestiche, deve certamente ritenersi sussistente qualora perduranti le condotte familiari anche in seguito a ripetuti e sinergici interventi correttivi provenienti da una pluralità di esperti e tecnici dell’età evolutiva e del disagio psichico, oltre che delle competenti Autorità giudiziarie. La persistenza, ciò nonostante, delle metodiche di iperaccudienza e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle prescrizioni, talora imposte e talora concordate, segnala, invero, al di là di ogni ragionevole dubbio, la pacifica ricorrenza in capo agli agenti della intenzionalità della condotta che connota il delitto previsto e punito dal disposto codicistico di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. II, 20 settembre 2011, n. 41011 (Famiglia e Diritto, 2012, 1, 58)
I comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose poste in essere nei confronti del coniuge, possono configurare il reato di maltrattamenti quando, valutati unitariamente, evidenziano l’esistenza di una volontà finalizzata a realizzare un regime di vita avvilente e mortificante per il coniuge stesso.
Cass. pen. Sez. V, 13 luglio 2011, n. 38347 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, l’ età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative introdotte dalla legge n. 94 del 2009, rileva in misura maggiore attribuendo al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta criminosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di orientarsi da parte della vittima nella comprensione degli eventi secondo criteri di normalità. (Fattispecie in tema di furto di danaro in danno di un anziano, indotto a prelevarlo da un libretto postale con il pretesto di fargli una cospicua donazione per la quale era necessario sostenere spese notarili).
Cass. pen. Sez. VI, 3 maggio 2011, n. 19700 (Dir. Pen. e Processo, 2011, 8, 944)
Nel caso in cui l’agente realizzi i maltrattamenti mediante lesioni personali dolose, è configurabile il concorso tra i delitti ex art. 572 e art. 582 c.p., senza però che sia ravvisabile, con riguardo a quest’ultimo reato, l’aggravante del nesso teleologico.
Cass. pen. Sez. VI, 26 aprile 2011, n. 26153 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non rileva, ai fini dell’esclusione del dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia, la circostanza che il marito abbia agito sulla base della convinzione della superiorità della figura maschile all’interno della famiglia e della conseguente legittimità di atteggiamenti “padronali” nei confronti della moglie. (Dichiara inammissibile,
Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 16164 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti può integrarsi solo quando sussista un affidamento della parte lesa al potere disciplina¬re dell’autore dei fatti, circostanza che può verificarsi anche in ambienti di lavoro, che siano però caratterizzati da una consuetudine di vita costante di natura parafamiliare, che crei nella parte offesa un rapporto di dipendenza ed affidamento simile a quello che si realizza nell’ambito indicato, con riconoscimento da parte di questa della soggezione al potere del dirigente, e realizzazione, per l’effetto, di una situazione di debolezza che impone una più pregnante tutela (nella fattispecie, si è ritenuto insussistente il reato di maltrattamenti nel rapporto gerar¬chico intercorrente tra dirigenti medici).
Cass. pen. Sez. III, 16/12/2010, n. 5340 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti e quello di violenza sessuale possono porsi in rapporto di specialità esclusivamente nell’ipotesi che le condotte a sfondo sessuale siano le uniche che fondano anche l’ipotesi di maltrattamenti, mentre i due delitti conservano autonomia e possono concorrere tra loro qualora le violenze sessuali integrino soltanto una delle forme di umiliazione e compressione della libertà della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 45037 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio.
Cass. pen. Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803 (Foro It., 2011, 7-8, 2, 414)
Integra il reato di violenza privata, aggravato dall’abuso della relazione di prestazione d’opera, e non il reato di maltrattamenti in famiglia o quello di atti persecutori ex art. 612-bis, cod. pen., la condotta violenta e minac¬ciosa reiteratamente posta in essere da un capo officina nei confronti di un meccanico, in modo da costringere il lavoratore, nel contesto di un’azienda organicamente strutturata, a tollerare una situazione di denigrazione e deprezzamento delle sue qualità lavorative. (Fattispecie in cui la S.C. ha escluso, nell’ambito del rapporto di lavoro, la presenza di una posizione di supremazia formale e sostanziale nei confronti del soggetto passivo, con forme e modalità tali da assimilarne i caratteri a quelli propri di un rapporto di natura para-familiare). (Annulla con rinvio, App. Torino, 20/11/2009)
La configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p. richiede la sussistenza di un rapporto, tra l’agente ed il sog¬getto passivo, caratterizzato da un potere autoritativo, esercitato di fatto o di diritto, dal primo sul secondo, il quale versa in una condizione di apprezzabile soggezione. La descritta situazione, tradizionalmente confinata in ambito familiare, è stata successivamente estesa anche ai rapporti educativi, di istruzione, cura, vigilanza e custodia, ovvero quelli che si instaurano in ambito lavorativo. In relazione a tale ultimo rapporto, in particolare, è necessario che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia non solo formale ma sostanziale, la quale si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere specularmente ipotizzabile un’apprezzabile soggezione del soggetto passivo ad opera di quello attivo.
È configurabile il reato di violenza privata aggravata ex art. 61, n. 11, c.p., e non già quello di maltrattamenti in famiglia, al cospetto di comportamenti mortificanti compiuti da un capofficina nei confronti di un meccanico nel contesto di un›azienda strutturata in maniera non riconducibile ad ambiti familiari.
Cass. pen. Sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45467 (Foro It., 2011, 3, 2, 138)
In tema di rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, deve escludersi che l’intento educativo e correttivo dell’agente costituisca un elemento dirimente per far rientrare il sistematico ricorso ad atti di violenza commessi nei confronti di minori nella meno grave previsione di cui all’art. 571 cod. pen. Ne consegue che l’esercizio del potere di correzione al di fuori dei casi consentiti, o con mezzi di per sè illeciti o contrari allo scopo, deve ritenersi escluso dalla predetta ipotesi di abuso e va inquadrato nell’ambito di diverse fattispecie incriminatrici. (Nel caso di specie, la S.C. ha censurato la pronuncia di merito, ravvisando il delitto di maltrattamenti nei confronti dei bambini affidati ad un asilo).
I comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose abitualmente poste in essere dall’imputato nei confronti del coniuge, possono configurare il reato di maltrattamenti quando essi realizzino un regime di vita avvilente e mortificante.
Cass. pen. Sez. VI, 2 novembre 2010, n. 774 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro o sovraordinato gerarchico e lavoratore dipenden¬te, essendo caratterizzato dal potere direttivo e/o disciplinare che la legge attribuisce ai primi nei confronti del secondo, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., di “persona sottoposta” alla “autorità” di altri, con conseguente astratta configurabilità della stessa a carico del sovraordinato.
Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142 (Foro It., 2011, 2, 2, 78)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante condotte omissive, individuabili nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta verso altri soggetti.
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori realizzati nei confronti di un soggetto determinato, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno della comunità come conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sotto¬poste al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere sia dall’entità numerica degli atti vessatori che dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi.
Integra il delitto di maltrattamenti ( art. 572 cod. pen.) anche nei confronti dei figli la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità dell’imputato, in ordine al delitto di cui all’art. 572 cod. pen., anche nei confronti dei figli minori, pur riconoscendo che gli atti di violenza fisica erano stati indirizzati solo alla convivente, avendo evidenziato con congrua valutazione di merito, incensurabile in sede di legittimità, le ricadute del comportamento del genitore sui minori, i quali avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria ma¬dre e, quindi, assistevano agli atti vessatori del padre, ivi comprese le minacce di morte indirizzate alla madre).
Cass. pen. Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 11251 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché ben può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso, come anche da una serie di comportamenti lesivi dell’incolumità fisica e della serenità psichica del minore, quale che sia l’intenzione correttiva o disciplinare del soggetto attivo. Perfeziona, pertanto, il reato in oggetto il comportamento della madre che con violenza im¬pone il taglio di capelli alla propria figlia minorenne recalcitrante , essendo risultato che all’isterica opposizione della bambina aveva fatto riscontro altrettanta isterica reazione della madre, che, indipendentemente dal luogo di provenienza e dall’ambito culturale della genitrice, aveva inteso proseguire nelle sue operazioni particolarmen¬te pericolose, proprio per affermare la propria autorità sulla piccola abusando dei mezzi di correzione e disciplina.
Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2010, n. 1417 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia sussiste se l’agente non si limita a porre in essere sporadici episodi di violenza, di minaccia o di offesa, come espressione reattiva – magari – ad un particolare e contingente clima di tensione, ma sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in modo che i singoli atti siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo), quanto da un’intenzione criminosa che si ponga come elemento unificatore dei singoli atti vessatori (elemento soggettivo, inteso come dolo unitario).
Affinché si configuri il reato di maltrattamenti in famiglia occorre che il soggetto agente non si limiti a porre in essere fatti che ledono o pongono in pericolo beni che l’ordinamento giuridico già autonomamente protegge (percosse, lesioni, ingiuria, violenza privata), ma occorre che il suo comportamento si estenda a tutti quei fatti lesivi del patrimonio morale e dell’integrità psichica del soggetto passivo, che, seppure singolarmente considerati non costituiscono reato, siano tali da rendere abitualmente dolorosa la relazione con l’agente.
Cass. pen. Sez. II, 23 settembre 2010, n. 35997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, l’ età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative introdotte dalla legge n. 94 del 2009, è rilevante nel senso che impone al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta cri¬minosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di orientarsi da parte della vittima nella comprensione degli eventi secondo criteri di normalità. (Fattispecie in tema misura cautelare disposta per truffa consumata, con le medesime modalità, in danno di numerose persone, tutte di età compresa tra i sessan¬taquattro e gli ottantaquattro anni).
Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente nel caso in cui il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente o tra il preposto e il lavoratore soggetto all’autorità del primo assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
Cass. pen. Sez. V, 14 maggio 2010, n. 22790 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i reati di ingiuria, minacce e violenza privata che rientrano nella materialità di detto delitto.
Cass. pen. Sez. III, 6 maggio 2010, n. 22769 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli non può ritenersi assorbito in quello di violenza privata, non soltanto perché è più gravemente punito rispetto al secondo, ma anche perchè si tratta di delitti posti a tutela di beni giuridici diversi. (In motivazione la Corte ha ulteriormente affermato che, diversamente, il reato di cui all’art. 610 cod. pen. non concorre con quello di minaccia aggravata, in quanto quest’ultimo è assorbito nel primo, costituendo la minaccia una delle condotte che caratterizzano la violenza privata).
Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2010, n. 29631 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’espressione “derivare”, contenuta nell’art. 572, comma secondo, cod. pen., in tema di maltrattamenti in fami¬glia o verso fanciulli seguiti da lesioni o morte della vittima, va interpretata in relazione ai principi posti dall’art. 41 cod. pen., ed impone quindi un rinvio alle regole con le quali viene regolamentata l’imputazione oggettiva degli eventi causati dall’autore di un reato. (Nella specie, la Corte ha ritenuto che il sopravvenire di un’infezione non interrompa il nesso di causalità tra i maltrattamenti e l’evento-morte, dovendo l’insorgere dell’infezione considerarsi come una causa simultanea che ha potenziato l’efficienza causale dei maltrattamenti, concorrendo a produrre il predetto evento).
Cass. pen. Sez. V, 13 aprile 2010, n. 28509 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen. la condotta di colui che, inca¬ricato di prestare assistenza ad una persona anziana, abbandoni quest’ultima senza cure ed assistenza per un lungo periodo, aggravandone le già precarie condizioni di salute, in quanto ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra maltrattamenti e morte non è necessario che i fatti di maltrattamento costituiscano la causa unica ed esclusiva degli eventi più gravi, stante il principio della equivalenza delle cause o della “conditio sine qua non” ( art. 41 cod. pen.).(In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen., nei confronti degli imputati che, incaricati di assistere una persona anziana, l’avevano, invece, abbandonata, aggravandone le condizioni di salute, già precarie, e favorendo l’insor¬gere di un fecaloma inveterato, che nella fase iniziale si sarebbe potuto distruggere, e che, invece, durante le molte settimane di abbandono, si era sviluppato in maniera abnorme, determinando la necessità di un intervento chirurgico, non superato dal paziente).
Cass. pen. Sez. IV, 17 marzo 2010, n. 24688 (Foro It., 2011, 6, 2, 385)
Oggetto di tutela dell’art. 572 c.p. sono le persone della famiglia, ove per famiglia non si intende soltanto un consorzio di persone avvinte da vincoli di parentela naturale o civile, ma anche un’unione di persone tra le quali, per relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza, protezione e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di una persona legata all’autore della condotta da una relazione sentimentale, che abbia comportato un’assidua frequentazione della di lei abitazione, trattandosi di un rapporto abituale tale da far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia può concorrere con il delitto di lesioni volontarie essendo diversa l’obiet¬tività giuridica dei due reati.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è ravvisabile anche in costanza della c.d. famiglia di fatto, ovvero quando in un consorzio di persone si sia realizzato, per strette relazioni e consuetudini di vita, un regime di vita impron¬tato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi, anche assistenziali; convivenza e coabitazione non costituiscono pertanto requisiti della fattispecie in questione.
Cass. pen. Sez. VI, 12 marzo 2010, n. 25138 (Giur. It., 2011, 2, 409 nota di PAVESI)
Il reato di maltrattamenti in famiglia può dirsi integrato allorché sia ravvisabile, come diretta conseguenza di una precisa volontà sopraffattrice, una condotta abitualmente lesiva dell’integrità fisica e morale altrui a causa della quale la persona offesa versa in uno stato di costante sofferenza e soggezione. Non è possibile, peraltro, ravvisare questo fondamentale requisito dell’abitualità della condotta vessatoria in limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di un periodo di tempo moderatamente lungo (nel caso specifico tre anni) ancor più se la condizione psicologica della persona offesa, lungi dall’apparire sopraffatta, sia più propriamente scossa o esasperata ma non propriamente intimorita o soggiogata.
Posto che, ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, occorre accertare una condotta (consistente in aggressioni fisiche o vessazioni o manifestazioni di disprezzo) abitualmente lesiva della dignità fisica e del patrimonio morale della persona offesa, che, a causa di ciò, versa in una condizione di sofferenza, va annullata per vizio di motivazione la sentenza di condanna che non poggi su elementi idonei a rappresentare l’abitualità della condotta vessatoria dell’imputato (nella specie, è stata annullata senza rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado, i quali avevano dedotto da episodi di ingiurie, minacce e percosse del marito a danno della moglie uno “stato di tensione” e uno “stato di sofferenza” considerati sintomatici di una condotta abituale di sopraffazione).
Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 16836 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia non implica l’intenzione di sotto¬porre il convivente, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consape¬volezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria. (Rigetta, App. Milano, 06/11/2008)
Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 20494 (Foro It., 2010, 9, 2, 441)
Essendo necessario, per la sussistenza del reato previsto dall’art. 572 c.p., che la condotta si manifesti in più atti, anche non necessariamente delittuosi, realizzati in momenti successivi, purché collegati da un nesso di abitualità e avvinti da un’unica intenzione criminosa, diretta a ledere l’integrità fisica o morale della vittima, va annullata per vizio di motivazione la sentenza di condanna che configuri il reato di maltrattamenti senza che risulti provato l’elemento dell’abitualità, ossia dell’instaurazione di un regime di vita improntato alla sopraffazione e alla vessa¬zione (nella specie, è stata annullata con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado, i quali avevano desunto la sussistenza del reato di maltrattamenti da singole condotte violente del marito a danno della moglie, inserite in un contesto familiare di forte tensione).
Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 11140 (Dir. Pen. e Processo, 2010, 6, 683)
Il delitto di ingiuria è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché ben può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso, ovvero da una serie di comportamenti lesivi dell’incolumità fisica e della serenità psichica del minore, che, mantenuti per un periodo di tempo apprezzabile e complessivamente considerati, realizzano l’evento, quale che sia l’intenzione correttiva o disciplinare del sogget¬to attivo. (Fattispecie in cui alcuni bambini affidati ad un’insegnante di scuola materna erano stati in più occasioni oggetto di minacce e percosse, ovvero sottoposti a umilianti dileggi per il loro basso rendimento scolastico).
Cass. pen. Sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 12423 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile il concorso formale tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale, allorquando l›atto sessuale, oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, leda anche la sua libertà di autodeterminazione in materia sessuale.
Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2010, n. 12798 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elemento soggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli di cui all’ art. 572 c.p., deve rinvenirsi nella coscienza e volontà dell’agente di porre in essere, in maniera reiterata, comportamenti violenti, fisici e verbali, nei confronti dei propri familiari, in tal modo facendo vivere i medesimi in uno stato di terrore. Congrua sul punto la motivazione resa nella fattispecie dalla impugnata decisione, la quale al riguardo si integra e si salda con quella della sentenza di primo grado con la quale il Tribunale, confutando l’assunto difensivo, rite¬neva certo che l’imputato, nonostante la sua giovane età, che comunque non era tale da impedirgli di compiere liberamente le sue scelte di vita – in data odierna 26 anni – era consapevole della duratura sofferenza arrecata ai propri congiunti sia con gli atti di violenza fisica che con le frequenti e immotivate aggressioni verbali ai quali li sottoponeva.
Cass. pen. Sez. III, 19 gennaio 2010, n. 9242 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le qua¬li, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo. Il delitto di maltrattamenti in famiglia si consuma anche tra persone legate soltanto da un puro rapporto di fatto, che, per le intime relazioni e consuetudini di vita correnti tra le stesse, presenti somiglianza ed analogia con quello proprio delle relazioni coniugali.
Cass. pen. Sez. VI, 21 dicembre 2009, n. 8592 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti siano consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. (Fattispecie relativa alla continua espressione di frasi ingiuriose e a maltrattamenti fisici da parte delle operatrici di un istituto pubblico di assisten¬za nei confronti di persone anziane ivi ricoverate nel reparto di lunga degenza).
Cass. pen. Sez. V, 15 dicembre 2009, n. 2100 (Famiglia e Diritto, 2010, 5, 503)
La reiterazione del gesto punitivo può essere una delle modalità di manifestazione dell’abuso del mezzo di cor¬rezione: questo, infatti, può commettersi trasmodando nell’impiego di un mezzo lecito, sotto gli aspetti sia della forza fisica esercitata in un singolo gesto punitivo, che della reiterazione del gesto stesso.
Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2009, n. 4390 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti e quello di violazione degli obblighi di assistenza familiare possono concorrere tra loro, avendo ad oggetto beni giuridici distinti, posti a tutela, il primo, della dignità della persona, e il secondo del rispetto dell’obbligo legale di assistenza nei confronti dei familiari.
Cass. pen. Sez. III, 22 ottobre 2009, n. 49433 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di malattia rilevante ai fini del reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina è più ampia di quella relativa al reato di lesione personale, comprendendo ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d’ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento.
Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 44492 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio, ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo da escludere che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2009, n. 48272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.
Cass. pen. Sez. II, 2 ottobre 2009, n. 40727 (Foro It., 2010, 3, 1, 132)
Il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 672 c.p. è configurabile anche ove l’azione delittuosa venga com¬messa nei confronti del convivente “more uxorio”. È configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona convivente more uxorio, quando vi sia un rapporto tendenzialmente stabile.
Cass. pen. Sez. VI, 14 luglio 2009, n. 38125 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Risponde del reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., il marito che continuamente percuote ed ingiu¬ria la moglie, ostenta infedeltà, e impedisce alla medesima di rientrare nella casa familiare all’esito di un ricovero in ospedale, in quanto tale quadro probatorio, rappresentato con motivazione adeguata e priva di carenze o vizi logici, rappresenta quella situazione di abitualità di sofferenze fisiche e morali, che determinando nel soggetto passivo una condizione di vita costantemente dolorosa e avvilente.
Cass. pen. Sez. VI, 21 maggio 2009, n. 40385 (Foro It., 2010, 3, 2, 153)
Non integrano il delitto di maltrattamenti in famiglia fatti episodici di aggressione, violenza e rimprovero nei con¬fronti dei figli, collegati alla contingente e particolare situazione di frustrazione vissuta dalla madre che, oltre al fallimento del proprio matrimonio, si vede rifiutata dai figli che hanno un rapporto di frequentazione privilegiato col padre, invece che con la madre stessa, affidataria.
Cass. pen. Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 32824 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non rileva, per l’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia, nella specie in danno della moglie, il credo religioso dell’autore delle condotte, non potendo ritenersi che l’adesione ad un credo, che non sancisca la parità dei sessi nel rapporto coniugale, giustifichi i maltrattamenti in danno della moglie.
Cass. pen. Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 32824 (Giur. It., 2010, 5, 1158)
La fede islamica, ove pure non sancisca la parità dei sessi nel rapporto coniugale, tuttavia non autorizza i maltrat¬tamenti da parte del marito e, anzi, pone a fondamento della sua autorevolezza proprio il dovere di astenersene. E sotto questo profilo, risulta del tutto conseguente la ritenuta ininfluenza delle convinzioni religiose del marito non solo sulla qualificazione giuridica della condotta, ma anche sulla sussistenza del dolo di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta vessatoria integrante “mobbing” non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati. (Fattispecie nella quale, in fase cautelare, l’indagato, direttore generale di un’azienda municipalizzata per lo smaltimento dei rifiuti urbani è stato ritenuto responsabile dei reati di maltrattamenti, lesioni personali e violenza privata).
Cass. pen. Sez. VI, 26 febbraio 2009, n. 14409 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mera pluralità di episodi vessatori (nella specie, trattavasi di percosse, ingiurie e minacce) non è di per sé sufficiente a integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, in assenza di un dolo che abbracci ed unifichi le di¬verse azioni e che ricolleghi a unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e psichica del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2009, n. 21537 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reato di maltrattamenti, rientra nel rapporto d’autorità di cui all’art. 572 c.p. il rapporto intersogget¬tivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, in quanto caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo.
Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594 (Famiglia e Diritto, 2009, 11, 1011 nota di MACRÌ)
Il “mobbing” è punibile ai sensi dell’art. 572 c.p. solo con riferimento al rapporto lavorativo di natura para-familiare, ove si verifichi l’alterazione della funzione di quel rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo.
Nel quadro del delitto di “Maltrattamenti in famiglia” il rapporto di autorità richiesto dall’art. 572 c.p., avuto ri¬guardo alla ratio della richiamata norma, deve comunque essere caratterizzato da “familiarità”, deve comportare relazioni abituali e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’al¬tra (rapporto supremazia-soggezione), la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole. È soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para- familiare che può configurarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti.
In materia di delitti contro la famiglia, la chiara formulazione letterale delle relative disposizioni codicistiche determina l’estensione del loro ambito di operatività a rapporti di fatto prescindenti giuridica o di mero fatto, la quale, da un lato, può indurre il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente prevaricatrice verso il sog¬getto passivo, e dall’altro, rende difficile a quest’ultimo sottrarvisi, con conseguenti avvilimento ed umiliazione della sua personalità. Avuto riguardo alla ratio delle norme di cui agli artt. 571 e 572 c.p., il rapporto di riferi¬mento deve, in ogni caso, dirsi caratterizzato da familiarità, nel senso che pur non inquadrandosi nel contesto tipico della famiglia, deve comportare relazioni abituali ed intense tra le parti, ed è solo nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo attraverso lo svilimento e la umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti in famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 5 febbraio 2009, n. 16031 (Nuova Giur. Civ., 2009, 11, 1, 1105 nota di CINQUE)
Ai sensi degli artt. 36 e 37 D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, il Consigliere regionale di parità è legittimato a co-stituirsi parte civile, ex art. 74 c.p.p., nella veste di “danneggiato” dal reato di maltrattamenti commessi nei confronti di più lavoratori con atti e comportamenti a carattere discriminatorio, anche al fine di ottenere il ristoro del danno non patrimoniale subito.
Cass. pen. Sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700 (Dir. Pen. e Processo, 2009, 8, 980)
Le differenti tradizioni che regolano i rapporti familiari in società culturalmente diverse non eliminano il disvalore del fatto di maltrattamenti, né sono di per sé idonee a giustificare l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Cass. pen. Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 20647 (Famiglia e Diritto, 2008, 10, 939)
Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo conte¬nuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo. (Nel caso di specie, la S.C. ha ravvisato l’esistenza di una convivenza di fatto di durata ultradecennale e connotata dalla nascita di due figlie, che ha dato luogo ad una situazione qualificabile come “famiglia di fatto”, ricompresa in quanto tale nell’ambito della tutela prevista dall’art. 572 cod. pen.).
Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658 (Giur. It., 2010, 2, 397)
Poiché il delitto di maltrattamenti in famiglia può concretizzarsi anche in una condotta reiteratamente aggressiva ed offensiva nei confronti del coniuge separato di fatto, la conseguente responsabilità non si pone in contrasto con l’allontanamento spontaneo, avendo la medesima per obiettivo una tutela più ampia della persona offesa.
La fattispecie criminosa dei maltrattamenti infraconiugali può e deve ravvisarsi anche in situazioni di separazione e di sopravvenuta interruzione della convivenza, allorché la condotta del soggetto agente realizzi gli elementi strutturali tipici dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 572 c.p. attraverso ripetute e insistite manifestazioni di offen¬sività e di aggressività attuate in danno del coniuge separato.
È inammissibile il ricorso per cassazione avverso l›applicazione della misura cautelare ex art. 282-bis c.p. volto al riesame in termini puramente fattuali della vicenda essendo precluso al giudice di legittimità il sindacato di merito se non nei limiti della coerenza, logicità ed ortodossia giuridica della motivazione. Il delitto di maltrattamenti può concretizzarsi anche sotto il profilo di una condotta reiteratamente aggressiva ed offensiva nei confronti del coniuge separato di fatto e la misura cautelare non si pone in rapporto di inconciliabilità con l›allontanamento spontaneo avendo la medesima per obiettivo una tutela più ampia della persona offesa.
Cass. pen. Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 9531 (Famiglia e Diritto, 2009, 5, 524)
Non risponde del reato di maltrattamenti il coniuge che reiteratamente picchia, ingiuria ed umilia l’altro coniuge in quanto ai fini della configurabilità della fattispecie criminosa in argomento si richiede che vi sia un soggetto che abitualmente infligge sofferenze fisiche o morali a un altro, il quale, specularmente, ne resta succube.
ffinché sia integrato il reato di cui all’art. 572 c.p., secondo il significato riconducibile al termine “maltrattare”, è necessario che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, l’agente eserciti, abitualmente, una forza oppres¬siva nei confronti di una persona della famiglia (o di uno degli altri soggetti indicati dall’art. 572 c.p.) mediante l’uso delle più varie forme di violenza fisica o morale.
Cass. pen. Sez. I, 15 gennaio 2009, n. 5945 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di abbandono di persona minore o incapace l’evento aggravatore della morte si pone in rapporto di con¬causa con la condizione patologica della parte lesa, che deve trovarsi, quale presupposto del reato, in condizione di “malattia di mente o di corpo” o di “vecchiaia” tale da non poter provvedere a se stessa.
Cass. pen. Sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300 (Giur. It., 2010, 2, 416 nota di PAVESI)
L’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia, integrato dalla condotta dell’agente che sottopo¬ne la moglie ad atti di vessazione reiterata, non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’or¬dinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta nei rapporti interpersonali.
Relativamente ai reati culturali, qualificati dal fatto che la norma penale va applicata nei confronti di soggetti di cultura ed etnia diversa, i quali risultino portatori di tradizioni sociologiche e abitudini antropologiche confliggenti con la norma penale, il giudice non può sottrarsi al suo compito di applicare le norme vigenti, non potendosi ammettere qualsivoglia soluzione interpretativa che pretenda di escludere la sussistenza dell’elemento soggetti¬vo del reato, invocando le convinzioni religiose ed il retaggio culturale dell’imputato, perché tale interpretazione finirebbe col porsi in contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali.
Cass. pen. Sez. VI, 18 novembre 2008, n. 45808 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia ( articolo 572 c.p.), non è necessario il dolo specifico, ossia che l’agente debba prefiggersi lo scopo di rendere abitualmente dolorosa la vita delle sue vittime, a causa di una inclinazione prevaricatoria, ma è invece sufficiente il dolo generico, ossia che il soggetto abbia la coscienza e la volontà di mantenere abitualmente un comportamento che sia causa di sofferenze e abbia effetto si degradazione dei rapporti tra i conviventi.
Cass. pen. Sez. III, 12 novembre 2008, n. 46375 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile il concorso formale tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale quando la condotta integrante il reato di cui all›art. 572 cod. pen. non si esaurisca negli episodi di violenza sessuale, ma s›inserisca in una serie d›atti vessatori e percosse tipici della condotta di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2008, n. 6490 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il congiunto non va condannato per il reato di maltrattamenti se i continui litigi con l’altro coniuge si inquadrano in un contesto di permanente tensione caratterizzante la vita familiare e può in tal caso difettare l’elemento soggettivo del reato in argomento.
Cass. pen. Sez. III, 22 ottobre 2008, n. 45459 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti è assorbito da quello di violenza sessuale soltanto quando vi è piena coincidenza tra le condotte, nel senso che gli atti lesivi siano finalizzati esclusivamente alla realizzazione della violenza sessuale e siano strumentali alla stessa, mentre in caso di autonomia anche parziale delle condotte, comprendenti anche atti ripetuti di percosse gratuite e ingiurie non circoscritte alla violenza o alla minaccia strumentale necessaria alla realizzazione della violenza, vi è concorso tra il reato di violenza sessuale continuata e quello di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. III, 19 settembre 2008, n. 39338 (Dir. Pen. e Processo, 2009, 1, 25)
Il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso di famiglia di fatto.
Cass. pen. Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44516 (Giur. It., 2010, 1, 179 nota di FERRARI)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste nel cagionare al soggetto passivo delle sofferenze morali e/o materiali, mentre quello di riduzione in servitù implica un’integrale negazione della libertà e della dignità della vittima, un suo completo asservimento all’agente. Le due condotte sono in progressione criminosa e quando è ravvisabile la seconda, la prima deve ritenersi consunta; invece, la contravvenzione dell’impiego di minori nell’accattonaggio ricorre in presenza di un isolato episodio di mendicità con utilizzo di minori. (Fattispecie in cui la Corte ha ravvisato il reato di maltrattamenti in famiglia nel comportamento di una madre che si avvaleva del figlio di quattro anni per chiedere l’elemosina ai passanti ogni giorno, facendolo stare in piedi per quattro ore consecutive in periodo invernale, senza cibo e senza che fosse adeguatamente vestito).
Non integra il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù la condotta posta in essere da chi pratichi l’accattonaggio per alcune ore del giorno facendosi aiutare dal figlio minore, e ciò per l’assenza di una condizione di integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione del minore ai fini di sfruttamento economico. (La Corte ha precisato che la condotta, qualora sia continuativa e cagioni al minore sofferenze morali e materiali, integra il meno grave delitto di maltrattamenti in famiglia e, ove si risolva in un isolato episodio di mendicità, la contrav¬venzione dell’impiego di minori nell’accattonaggio).
Il reato di riduzione in schiavitù e/o servitù può configurarsi anche a carico dei genitori che impieghino i figli nell’accattonaggio, nel furto o in altre attività illecite, e ricorre allorquando le forme di assoggettamento del minore comportino una integrale negazione della sua dignità e libertà. È invece configurabile il reato di mal¬trattamenti in famiglia quando il genitore consenta o favorisca attività del minore che, pur non comportando un completo asservimento del medesimo, siano nondimeno lesive della sua integrità fisica e psichica, cagionandone sofferenze morali e materiali.
Cass. pen. Sez. II, 17 settembre 2008, n. 39023 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di minorata difesa, l’ età non può di per sè costituire condizione autosufficiente ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, cod. pen., dovendo essere accompagnata da fenomeni di decadimento o di indebolimento delle facoltà mentali o da ulteriori condizioni personali, quali il basso livello culturale del soggetto passivo, che determinano un diminuito apprezzamento critico della realtà.
Cass. pen. Sez. VI, 27 giugno 2008, n. 26571 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia a carico del coniuge è configurabile anche in caso di separazione e di con¬seguente cessazione della convivenza, purché la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della fattispecie. (Principio affermato relativamente al caso di reiterate ed offensive manifestazioni di aggressività, attuate dal coniuge separato per convincere la moglie a riprendere la convivenza)
Cass. pen. Sez. III, 5 giugno 2008, n. 27469 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tra i soggetti passivi del delitto di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p., rientrano anche coloro che sono sotto¬posti all’autorità dell’agente o sono al medesimo affidati per ragioni di istruzione o di educazione. Il rapporto di autorità sussiste, in particolare, fra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente, essendo, quest’ultimo, sotto¬posto al potere direttivo e disciplinare del primo. In tal caso, per la configurabilità del reato non è necessaria la convivenza, ma è sufficiente che tra i due sussista un rapporto di tipo continuativo.
Cass. pen. Sez. VI, 27maggio 2008, n. 35963 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti può evidenziarsi anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascri¬vibili ad entrambi i protagonisti della controversia (nel caso di specie due coniugi), tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità. Una tale situazione infatti, deve essere gestita comunque in modo equilibrato, nel rispetto delle regole di civile convivenza e della dignità fisica e morale della persona e non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. La provocazione da parte del soggetto passivo non costituisce pertanto causa di esclusione del reato di maltrattamenti, la di cui pena non può essere perciò esclusa o diminuita.
Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35862 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. può sussistere anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivi¬bili a entrambi i coniugi, tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità, considerato che tale situazione non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. In tal caso, la provocazione del soggetto passivo, se provata, è in astratto compatibile con il reato di maltrattamenti, il quale potrà semmai essere attenuato nelle conseguenze sanzionatorie in relazione ai singoli episodi ai quali la provocazione si riferisce.
Cass. pen. Sez. I, 14 maggio 2008, n. 21329 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è configurabile l’ipotesi aggravata di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen. (morte come conseguenza non voluta dei maltrattamenti) – ma quella di omicidio volontario di cui all’art. 575 cod. pen. – nel caso in cui la morte della vittima, sottoposta a continui maltrattamenti, sia oggetto della sfera rappresentativa e volitiva dell’agente, oltre ad essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in essere. (In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la sussistenza del delitto di omicidio volontario nella condotta di due conviventi che avevano omesso di sommini¬strare il cibo ad una bimba, continuamente sottoposta a maltrattamenti e di cui avevano la responsabilità della cura ed educazione, correttamente ritenendo che rientra nella cognizione e nell’esperienza di qualsiasi individuo, pur se dotato di modeste facoltà cognitive e intellettive, che la mancata somministrazione di cibo ad un bambino è destinata a provocarne la morte).
Cass. pen. Sez. III, 15 aprile 2008, n. 26165 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti in famiglia quando la condotta violenta, pur ispirata da prevalenti motivazioni di carattere sessuale, non si esaurisca nel mero uso della violenza necessaria a vincere la resistenza della vittima per abusarne sessualmente, ma s’inserisca in un contesto di sopraffazioni, ingiurie, minacce e violenze di vario genere nei confronti di quest’ultima, tipiche della condotta di maltrattamen¬ti. (Rigetta, App. Milano, 24 Aprile 2007)
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2008, n. 27048 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti, l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che ne avviliscono la personalità. (Fattispecie in cui è risul¬tato che l’imputato aveva sottoposto la convivente ad un clima oppressivo, umiliante, vessatorio e di sistematica sopraffazione, insultandola continuamente e senza motivo, cacciandola di casa ed infliggendole percosse e lesioni).
Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2008, n. 16982 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’integrazione del reato di maltrattamenti è sufficiente il dolo generico, che si sostanzia nella volontà dell’agente di sottoporre la vittima a sofferenze fisiche o morali in modo abituale; deve pertanto escludersi che l’intenzione dell’agente di agire esclusivamente per pretese finalità educative possa far venir meno il dolo.
Cass. pen. Sez. VI, 5 dicembre 2007, n. 6581 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di maltrattamenti, previsto dall’art. 572 c.p., la condotta degli operatori di una casa di cura de¬stinata ad accogliere pazienti affetti da gravi disturbi psichici; condotta sostanziatasi nel somministrare ai malati massicce dosi di sedativi, al fine di non dover prestar loro assistenza nel corso della notte o in altre circostanze. Lo stato di prostrazione determinato dall’abuso dei farmaci integra, invero, una grave causa di sofferenza, idonea a concretizzare la materialità del reato di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. VI, 29 novembre 2007, n. 12129 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
sottrarsi alle continue sofferenze psico-fisiche cagionate abitualmente, potrà dirsi sussistente un rapporto eziolo¬gico tra la condotta dell’autore dei maltrattamenti e il suicidio; nesso che viene meno solo qualora si verifichi una causa autonoma e successiva che si inserisca nel processo causale in modo atipico, eccezionale ed imprevedibile.
In tema di reato di maltrattamenti in famiglia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo che possa escludersi che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 7 novembre 2007, n. 45283 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia, anziché la fattispecie meno grave di abuso di mezzi di correzione e disciplina, qualora i mezzi educativi o correttivi siano affiancati dall’uso di altri mezzi non consentiti in quanto do¬tati di immanente antigiuridicità (fattispecie relativa all’uso, da parte della madre nei confronti dei tre figli minori d’età, di mezzi e metodi privi di finalità correttive o pedagogiche, quali percosse e punizioni umilianti e gratuite).
Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, essendo a forma libera, può sicuramente essere integrato anche da con¬dotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore. (Nella specie l’imputato aveva tenuto ripetutamente nei confronti della figlia minore atteggiamenti diretti e idonei a stimolare in lei un’impropria e precoce inclinazione erotico-sessuale, con palese turbamento, acclarato con perizia, della sua equilibrata evoluzione psichica)
Cass. pen. Sez. III, 12 luglio 2007, n. 36962 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di violenza sessuale e quello di maltrattamenti in famiglia possono concorrere tra loro, salvo che nel caso in cui vi sia piena coincidenza tra le due condotte, nel senso che il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale. (Rigetta, App. Milano, 14 Luglio 2004)
Cass. pen. Sez. VI, 31 maggio 2007, n. 40340 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato all’art. 572 c.p., concorre con quello di lesioni personali ( art. 582 c.p.).
Sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 570 c.p.) e non la meno grave fattispecie di abuso di mezzi di correzione, nel caso di uso sistematico della violenza da parte del genitore nei confronti dei figli minori, pur in presenza dell’animus corrigendi.
Cass. pen. Sez. III, 16 maggio 2007, n. 22850 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 911 nota di PITTARO)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia concorre con quello di violenza sessuale qualora le reiterate condotte di abuso sessuale, oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, ledono anche la sua libertà di autodetermi¬nazione in materia sessuale, attesa la diversità dei beni giuridici offesi.
Allorché i fatti di abuso sessuale siano commessi nell’ambito della famiglia o nell’ambito di un rapporto di affida¬mento, da parte di soggetto che ha un obbligo di assistenza o protezione nei confronti del minore, con il reato sessuale concorre quello di cui all’art. 572 c.p. se trattasi di condotte reiterate nel tempo in modo da configurare un’azione abituale idonea a ledere anche l’integrità psichica della vittima.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia, reato necessariamente abituale, può concorrere formalmente con quello di violenza sessuale rivolta verso un minore infraquattordicenne, atteso che questa, se reiterata nel tempo, può configurare un’azione abituale idonea a ledere anche l’integrità psichica della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 20 febbraio 2007, n. 34460 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta relativa al delitto di maltrattamenti in famiglia si distingue rispetto a quella propria del delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina, in quanto, mentre quest’ultima presuppone un uso consentito e le¬gittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a cagione dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura, la prima implica un regime di prevaricazione e violenza ed una abitua¬lità di comportamenti illegittimi, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita della vittima. (Nella fattispecie si è ritenuto che il comportamento del padre che, fin dalla più tenera età, abbia impedito alla figlia di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa integri il reato di maltrattamenti in famiglia)
Il comportamento del padre che sottoponga la figlia minore ad un regime di prevaricazione e violenza, tale da rendere intollerabili le condizioni di vita, impedendole, come nel caso di specie, di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa, configura il reato di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli ( art. 572 c.p.) e non quello meno grave di abuso di mezzi di correzione e di disciplina ( art. 571 c.p.) che presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi abuso a cagione dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura. Non è ammissibile la condotta del genitore che reiteratamente impedisca alla figlia, fin dall’età di quattro anni, di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa, se non per andare a scuola o a fare la spesa integrando, tale condotta, il reato di maltrattamenti in famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2007, n. 21329 (Riv. Pen., 2008, 3, 320)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di persona convivente more uxorio quando si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due per¬sone, con legami di reciproca assistenza e protezione. (Nell’affermare tale principio, la S.C. ha precisato che, agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo).
Cass. pen. Sez. VI, 11 gennaio 2007, n. 4139 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per configurare l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.), si richiede il dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità.
Cass. pen. Sez. VI, 12 dicembre 2006, n. 1090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei reati di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù l’agente, realizzando tali alternative condotte, “mal¬tratta” necessariamente il soggetto passivo, a prescindere dalla percezione che questo (che potrebbe anche essere acquiescente) ne abbia, sicché non può ritenersi configurabile il concorso tra il reato in esame e quello di cuiall’art. 572 c.p., essendo irrilevante, stante il principio di consunzione, la diversità dei beni giuridici tutelati dalle due norme.
Cass. pen. Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 3419 (Famiglia e Diritto, 2007, 5, 494)
Configura il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. la condotta di chi, avuto in consegna un minore allo scopo di accudirlo, educarlo ed avviarlo ad una istruzione, consente che viva in stato di abbandono in strada, per vendere piccoli oggetti e chiedere l’elemosina, appropriandosi poi del ricavato e disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo fisico e morale cui egli si trovi esposto: si tratta infatti di una condotta lesiva dell’integrità fisica e morale del minore, idonea a determinare una situazione di sofferenza, di cui va ritenuto responsabile chiunque ne abbia l’affidamento.
L’offensività del bene protetto dalla norma di cui all’art. 572 c.p. si attua nel momento in cui si crea per la persona offesa la situazione di sofferenza in cui è costretta a vivere. Il verificarsi di tale situazione integra l’evento del de¬litto e non si richiede che dalla stessa derivi un ulteriore danno alla integrità fisica o psichica del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. I, 2 maggio 2006, n. 18447 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è configurabile il rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacché sono figure di reato dirette a tutelare beni diversi e poi, l’uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di famigliari e, l’altro, da quella di privare taluno della libertà personale.
Cass. pen. Sez. VI, 12 aprile 2006, n. 26235 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per configurare l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisi¬che o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico, cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo e abituale. Il dolo del reato, in altri termini, consiste nell’inclinazione della volontà a una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei mal¬trattamenti, si va “progressivamente” realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in un’ attività illecita, posta in essere altre volte; con la conseguenza che tali singole sopraffazioni, realizzate in momenti successivi, risultano collegate da un nesso di abitualità e avvinte nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il compimento di atti e comportamenti (violenza, persecuzione psicologica), posti in essere dal datore di lavoro con carattere sistematico e duraturo e miranti a danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro, può travalicare i confini meramente civilistici o giuslavoristici della condotta di mobbing ed integrare ipotesi di reato.
Cass. pen. Sez. I, 9 novembre 2005, n. 7043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di percosse e minacce, anche gravi, sempre che tali com¬portamenti siano stati contestati come finalizzati al maltrattamento, ma non quello di lesioni attesa la diversa obiettività giuridica dei reati (principio affermato in sede di denunzia di conflitto positivo di competenza, che è stato dichiarato inammissibile).
Cass. pen. Sez. III, 8 novembre 2005, n. 44262 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione.
Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2005, n. 39927 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la configurabilità del reato di maltrattamenti l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, in¬staurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità; ne consegue che deve escludersi che l’intenzione dell’agente di agire esclusivamente per finalità educative sia elemento dirimente per fare rientrare gli abituali atti di violenza posti in essere in danno dei figli minori nella previsione di cui all’art. 571 cod. pen., in quanto gli atti di violenza devono ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie dell’abuso dei mezzi di correzione, dovendo ritenersi tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tradiscano l’importante e delicata funzione educativa.
Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, la nozione di malattia nella mente (il cui rischio di causazione implica la rilevanza penale della condotta) è più ampia di quelle concernenti l’imputabilità o i fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del sog¬getto passivo, dallo stato d’ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento.
Costituisce abuso dei mezzi di correzione (sempre che, ricorrendo il requisito dell’abitualità ed il necessario elemento soggettivo, non si renda configurabile il più grave reato di maltrattamenti), anche il comportamento doloso, attivo od omissivo, mantenuto per un tempo apprezzabile, che umilii, svaluti, denigri e sottoponga a sevizie psicologiche un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche psichica, senza che in contrario possa rilevare il fatto che esso sia stato posto in essere con intenzione correttiva e disciplinare.
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 2004, n. 34522 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia si estrinseca nel compimento di una pluralità di atti volti a ledere l’integrità fisica e il patrimonio morale del soggetto passivo. L’addebito di assunzione, da parte del prevenuto, del modello di padre famiglia prevaricatore, pur configurando un comportamento deprecabile, se posto in relazione ad un modo di gestire il rapporto familiare oggi improntato ad una sostanziale parità dei coniugi nelle decisioni della vita familiare, mai può costituire ed integrare quella lesione del bene giuridico tutelato dall’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. III, 24 giugno 2004, n. 35849 (Dir. Pen. e Processo, 2005, 4, 463 nota di RANZATTO)
In caso di maltrattamenti in famiglia integratisi anche attraverso la condotta di ripetute violenze sessuali, non è ipotizzabile il concorso fra il delitto di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis c.p., ed il delitto di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 c.p., atteso che in tale ipotesi in applicazione del principio di specialità si configura il solo delitto di violenza sessuale continuata, caratterizzato da un dolo unitario e programmatico.
Il delitto di violenza sessuale continuata non concorre formalmente con il delitto di maltrattamenti in famiglia essendo anch’esso caratterizzato da un dolo unitario e programmatico; né il concorso tra i due reati può essere giustificato dalla diversa obiettività giuridica, trattandosi di criterio estraneo alla configurazione codicistica del principio di specialità.
Cass. pen. Sez. VI, 11 maggio 2004, n. 28367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La diversa obiettività giuridica del reato di maltrattamenti in famiglia e di quello di lesioni personali volontarie esclude l’assorbimento del secondo nel primo, rendendoli concorrenti tra loro.
Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2004, n. 4933 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia, punito dall’art. 572 c.p., il dolo è generico, sicché non si richiede che l’a¬gente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva.
Cass. pen., 11 dicembre 2003, n. 6541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo nel delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) è unitario e programmatico, nel senso che esso funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima e si concretizza nell’incli¬nazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
Il dolo nel delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) si caratterizza come unitario e programmatico, ovvero funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima e si concretizza nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltratta¬menti, si va via via realizzando e confermando, così che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
Cass. pen. Sez. III, 5 dicembre 2003, n. 984 (Riv. Pen., 2005, 230)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia può concorrere con quello di violenza sessuale, in quanto non vi è assorbi¬mento fra tali reati attesa la diversità dei beni giuridici protetti dai due delitti. (Fattispecie in cui la Corte ha rite¬nuto correttamente configurata la continuazione fra i delitti nel caso di ripetute violenze fisiche e morali adottate nei confronti anche della sorella minore che tentava di sottrarsi a non gradite pretese sessuali dell’imputato).
Cass. pen. Sez. VI, 4 dicembre 2003, n. 7192 (Riv. Pen., 2005, 500)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione con¬tinui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2003, n. 33091 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di percosse, minacce, ingiurie.
Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 (Riv. Pen., 2004, 1137)
Nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Sta¬to alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimen¬to di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia, deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile. (In motivazione, la Corte ha precisato che fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona).
Cass. pen. Sez. III, 13 maggio 2003, n. 26830 (Guida al Diritto, 2003, 43, 70)
Gli atti di violenza fisica e morale posti in essere per coartare la volontà del soggetto passivo a fini sessuali sono strumentali alla consumazione dei reati di cui agli articoli 609-bis e seguenti del codice penale e, normalmente, non fanno concorrere, con essi, il reato previsto dall’articolo 572 del codice penale, in quanto indotti non dalla volontà di infliggere alla vittima una serie continua e abituale di sofferenze fisiche e morali tali da renderle la vita impossibile, bensì dal proposito di soddisfare la propria libidine sessuale: pertanto, in genere, il reato di violenza sessuale continuata non concorre formalmente con quello di maltrattamenti, atteso che esso è caratterizzato da dolo unitario e programmato e che il concorso tra i due reati non può essere giustificato dalla loro diversa og¬gettività giuridica trattandosi di criterio estraneo alla configurazione codicistica del principio di specialità. I reati di che trattasi, peraltro, possono concorrere allorquando le minacce e le vessazioni poste in essere nei confronti del soggetto passivo non si esauriscono nel perseguimento del piano delittuoso finalizzato al compimento del reato di violenza sessuale e si sostanziano in una serie di atti tesi a determinare, nello stesso, anche – ma non solo – attraverso la violenza sessuale, uno stato abituale di vita caratterizzata da sofferenze fisiche e psichiche. da vessazioni e umiliazioni, tali da distruggerne o mortificarne seriamente la dignità.
Il reato di maltrattamenti consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei cui confronti viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e program¬mata tale da rendergli la vita e l’esistenza particolarmente dolorose ed è sorretto dal dolo generico costituito dalla coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo e abituale, sì da lederne la personalità.
Cass. pen. Sez. I, 21 febbraio 2003, n. 16578 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è configurabile il reato aggravato dall’evento di cui all’art. 572 c.p., comma 2, quando la morte del familiare, che sia stato fino a quel momento sottoposto a maltrattamenti, anziché essere conseguenza non voluta della condotta abituale di maltrattamenti, sia cagionata intenzionalmente. In tali circostanze non è neppure configura¬bile il nesso teleologico tra il reato di maltrattamenti e quello di omicidio volontario, rappresentando quest’ultimo un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento nei confronti della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 31 gennaio 2003, n. 7781 (Riv. Pen., 2003, 613)
Poiché l’interesse protetto dal reato di cui all’art. 572 c.p. è la personalità del singolo in relazione al rapporto che lo unisce al soggetto attivo, è configurabile il reato continuato nel caso di maltrattamenti posti in essere nei confronti di più familiari.
Cass. pen. Sez. VI, 30 gennaio 2003, n. 8848 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di soli¬darietà e di mutua assistenza. (Nella specie, la Corte ha peraltro ritenuto irrilevante, ai fini penali, la circostanza che tra l’imputato e la persona offesa esistesse un matrimonio contratto all’estero nel Paese di comune origine non dichiarato efficace in Italia, posto che le disposizioni regolatrici della materia – art. 17, primo comma, delle preleggi e art. 28della legge n. 218 del 1995 – rinviano per la validità del matrimonio alla legge del luogo in cui esso è stato celebrato o alla legge nazionale dei coniugi al momento della celebrazione).
Cass. pen. Sez. VI, 8 novembre 2002, n. 55 (Riv. Pen., 2003, 910)
Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la mo¬glie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione e umiliazioni, costituenti fonti di uno stato di disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di esistenza. Né l’elemento soggettivo del reato in questione può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assolu¬to contrasto con le norme che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, considerato che la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (art.2 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 Cost., commi 1 e 2) costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili.
Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p., e non quello di abuso dei mezzi di correzione e disciplina di cui all’art. 571 c.p., l’imposizione di un regime di vita scolastica assolutamente ed inutilmente umiliante e vessatorio per i piccoli alunni, soggetti a ripetute ingiurie, ad imposizioni mortificanti ed in alcuni casi anche a violenza fisica. Infatti il reato di cui all’art. 571 c.p. presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi, e non è configurabile, per mancanza dell’elemento oggettivo, nel caso in cui lo ius corrigendi venga esercitato fuori dai casi consentiti o con mezzi di per sé illeciti e contrari al fine educativo. Per integrare l’abitualità dei comportamenti richiesta dall’art. 572 c.p. basta la ripetizione degli atti vessatori, unificati dalla medesima intenzione criminosa, anche se succedutisi per un limitato o per limitati periodi di tempo, ed anche se gli atti lesivi si siano alternati a periodi di normalità.
Cass. pen. Sez. V, 1 luglio 2002, n. 32363 (Riv. Pen., 2003, 457)
Non sussiste rapporto di specialità (art. 15 c.p.) tra il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e quello di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), trattandosi di reati che tutelano interessi diversi – la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi, lo “status libertatis” dell’individuo nella seconda – e che presentano un di¬verso elemento materiale, in quanto nell’ipotesi dell’art. 572 c.p. è necessario che un componente della famiglia sottoponga un altro a vessazioni, mentre nel caso di riduzione in schiavitù è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza che le due ipotesi di reato, sussistendone i pre¬supposti, possono concorrere.
Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2001, n. 36576 (Famiglia e Diritto, 2002, 2, 135 nota di BERSANI)
Deve ritenersi responsabile del reato di maltrattamenti alla famiglia, previsto e punito dall’art. 572 c.p. colui che risulti aver percosso e vessato moralmente la convivente. Sono da considerarsi membri della famiglia, tutelati dall’art. 572 c.p. anche i componenti della famiglia di fatto, fondata cioè sulla volontà di vivere insieme, di avere figli, di avere beni comuni, di dar vita, cioè, ad un nucleo stabile e duraturo. Questa interpretazione dell’art. 572 c.p. è la più coerente con i principi ispiratori del nostro ordinamento, nonchè con la realtà sociale moderna. Del resto l’introduzione del divorzio e il suo largo utilizzo hanno dimostrato che il matrimonio non è più un legame in¬dissolubile ed hanno eliminato, dunque, il presupposto più plausibile per una tutela diversificata dei due rapporti.
Corte cost., 9 maggio 2001, n. 114 (Foro It., 2001, I, 2423)
Premesso che la scelta del legislatore di prevedere una speciale disciplina per l’incidente probatorio rispetto ai reati sessuali è collegata a specifiche esigenze sia di assicurazione della genuinità della prova, sia, soprattutto di protezione del minore infrasedicenne rispetto alle possibili lesioni della sua personalità derivanti dalle mo¬dalità del suo intervento nel procedimento, non è fondata la questione di legittimità sollevata riguardo all’art. 398 comma 5 bis c.p.p.(Provvedimenti sulla richiesta di incidente probatorio) nella parte in cui non prevede, fra le ipotesi di reato in presenza delle quali essa si applica, il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, di cui all’art. 572 c.p. in riferimento all’art. 3 della Costituzione. Diversamente è per il reato di maltrattamenti in famiglia che non presenta caratteristiche di tale assimilabilità, rispetto ai reati sessuali, da imporre in modo automatico l’estensione della medesima ratio. Tuttavia le modalità particolari di assunzione della testimonianza del minore infrasedicenne, previste dall’art. 398 comma 5 bis, con l’introduzione ad opera della legge 269/98 del comma 4 bis all’art. 498 c.p.p., il quale si applica nel dibattimento indipendentemente dal titolo di reato per il quale si procede, possono trovare applicazione, poiché esso è applicabile, in forza dell’art. 401 comma 5, anche nell’incidente probatorio, nell’ambito di un procedimento per reato diverso da quelli sessuali.
Cass. pen. Sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina ( art. 571 c.p.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale. (Nella specie, gli imputati, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, che venivano corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, che così li mantenevano in uno stato di sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi).
Cass. pen. Sez. III, 29 novembre 2000, n. 3998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di violenza sessuale continuata non concorre formalmente con il delitto di maltrattamenti, atteso che anch’esso è caratterizzato da un dolo unitario e programmatico, nè il concorso tra i due reati può essere giu¬stificato dalla loro diversa obiettività giuridica, trattandosi di criterio estraneo alla configurazione codicistica del principio di specialità.
Cass. pen. Sez. VI, 18 ottobre 2000, n. 12545 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di soli¬darietà e di mutua assistenza. (Nella specie la Corte ha peraltro ritenuto irrilevante, ai fini penali, la circostanza che tra l’imputato e la persona offesa esistesse un matrimonio contratto all’estero nel paese di comune origine non dichiarato efficace in Italia, posto che le disposizioni regolatrici della materia ù art. 17 comma 1 disp. prel. c.c. e art. 28 l. n. 218 del 1995 ù rinviano per la validità del matrimonio alla legge del luogo in cui esso è stato celebrato o alla legge nazionale dei coniugi al momento della celebrazione).
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di soli¬darietà e di mutua assistenza. (Nella specie la Corte ha peraltro ritenuto irrilevante, ai fini fiscali, la circostanza che tra l’imputato e la persona offesa esistesse un matrimonio contratto all’estero nel paese di comune origine non dichiarato efficace in Italia, posto che le disposizioni regolatrici della materia – art. 17, comma 1, disp. prel. c.c. e art. 28 l. n. 218 del 1995 – rinviano per la validità del matrimonio alla legge del luogo in cui esso è stato celebrato o alla legge nazionale dei coniugi al momento della celebrazione).
Cass. pen. Sez. VI, 2 maggio 2000, n. 9414 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fattispecie di cui all’art. 572 c.p. si perfeziona con il compimento di una pluralità di atti lesivi dell’integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, legati tra loro dal vincolo dell’abitualità nonché dell’elemento psicologico unitario e pressoché programmatico.
Cass. pen. Sez. VI, 20 ottobre 1999, n. 3398 (Riv. Pen., 2000, 238)
Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) non può essere scriminato dal consenso dell’avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub culturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Dette sub culture, infatti, ove vigenti, si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell’ordi¬namento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell’uopo sanciti dall’art. 2 cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli art. 29 – 31 cost. (Fattispecie in cui la scriminante del consenso dell’avente diritto era stata fondata sull’origine albanese dell’imputato e delle persone offese per le quali varrebbe un concetto dei rapporti familiari diverso da quello vigente nel nostro ordinamento).
Il soggetto resosi responsabile di maltrattamenti in famiglia non può invocare a proprio favore la scriminante di cuiall’art. 50 c.p. (consenso dell’avente diritto) neppure adducendo a sostegno di ciò l’esistenza, nel proprio paese di origine (nella specie tanto l’imputato quanto le vittime erano di nazionalità albanese), di una concezione della convivenza familiare e dei poteri del capo – famiglia secondo cui comportamenti come quelli inquadrabili, secondo l’ordinamento italiano, nella suddetta figura di reato sarebbero invece accettati come normali.
Cass. pen. Sez. V, 9 aprile 1999, n. 6885 (Giust. Pen., 2000, II, 72)
Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 591 c.p. (abbandono di persone minori o incapaci) è necessario accertare in concreto, salvo che si tratti di minore di anni quattordici, l’incapacità del soggetto passivo di prov¬vedere a se stesso. Ne consegue che non vi è presunzione assoluta di incapacità per vecchiaia, la quale non è una condizione patologica ma fisiologica che deve essere accertata concretamente quale possibile causa di inettitudine fisica o mentale all’adeguato controllo di ordinarie situazioni di pericolo per l’incolumità propria. Ne consegue, altresì, che il dovere di cura e di custodia deve essere raccordato con la capacità, ove sussista, di autodeterminazione del soggetto anziano.
Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 1999, n. 3570 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra gli estremi del reato di cui all’art. 572 c.p. la sottoposizione dei familiari, ancorchè non conviventi, ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni, che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Ed invero, comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di atti di molestia, di ingiuria, di minaccia e di danneggiamento, manifestano l’esistenza di un programma criminoso di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costitui¬scono l’espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa l’esistenza dei familiari.
Il reato di cui all’art. 572 c.p. si può configurare anche in assenza di un rapporto di convivenza, e cioè quando questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri anche in tal caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.
Cass. pen. Sez. VI, 17 aprile 1998, n. 7803 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 c.p., non viene meno, quale reato abituale, se nel pe¬riodo considerato, tra una serie e l’altra di episodi di violenza, venga ripristinata la convivenza ad opera della persona offesa, qualora quest’ultima sia indotta a ciò a causa della mancanza di disponibilità di una diversa situazione alloggiativa.
Cass. pen. Sez. III, 9 marzo 1998, n. 4752 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o del de¬coro del soggetto passivo, nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la stessa convivenza particolarmente dolorosa: atti sorretti dal dolo generico in¬tegrato dalla volontà cosciente di ledere la integrità fisica o morale della vittima. (Nella specie la Corte ha ritenu¬to integrare il reato in questione nel coinvolgimento del minore, da parte degli imputati, nei loro giochi amorosi).
Cass. pen. Sez. VI, 24 febbraio 1998, n. 4080 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo del reato di maltrattamenti in famiglia consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di violenze fisiche e morali in modo continuo e abituale, per cui l’eventuale stato di malattia, fisica o psichica, della vittima non esclude affatto il dolo del soggetto agente, ma semmai accentua la gravità del fatto, essendo l’offesa arrecata a persona psichicamente o fisicamente menomata.
Cass. pen. Sez. VI, 26 gennaio 1998, n. 282 (Giust. Pen., 1999, II, 443)
In tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonchè di collaborazione. Pertanto, poichè la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione, il suddetto stato di separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata.
Cass. pen. Sez. VI, 27 ottobre 1997, n. 11476 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo e abituale, in modo da lederne complessivamente la personalità.
Cass. pen. Sez. VI, 27 ottobre 1997, n. 11471 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo ed abituale, in modo da lederne complessivamente la personalità.
Cass. pen. Sez. III, 3 luglio 1997, n. 8953 (Giust. Pen., 1998, II, 437)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione. E’ sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali.
Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 1996, n. 10023 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e di fedeltà, lascia tutta¬via integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto il suddetto stato non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comun¬que incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata. (Fattispecie nella quale il marito separato pure dinanzi a terzi percuoteva abitualmente e minacciava la moglie di ritorsioni gravi sul figlio minore).
Cass. pen. Sez. VI, 24 settembre 1996, n. 8650 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora la condotta irrispettosa dell’un coniuge verso l’altro abbia carattere meramente estemporaneo ed oc¬casionale, nel senso che sia solo l’espressione reattiva di uno stato di tensione, che comunque può sempre verificarsi nella vita di coppia, si dovrà eventualmente fare richiamo a figure criminose estranee ai delitti contro la famiglia e rientranti tra quelli contro la persona; se la detta condotta si concreti nella inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo di assistenza morale ed effettiva verso l’altro coniuge, obbligo che scaturisce dal vincolo matrimoniale e che ha la finalità di garantire che l’altro coniuge – in caso di difficoltà – non sia mai lasciato solo a se stesso, si versa nell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 570, comma 1 c.p.; se la condotta antidoverosa assuma connotati di tale gravità da costituire, per il soggetto passivo, fonte abituale di sofferenze fisiche e morali, l’ipo¬tesi delittuosa configurabile è quella dei maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. V, 5 luglio 1996, n. 7651 (Giust. Pen., 1997, II, 379)
Richiedere abitualmente il compimento di atti sessuali contro natura alla convivente in rapporto di coppia, di cui si conosca l’indisponibilità, benchè la donna resista ed esiga rispetto e benchè al rifiuto della stessa talora segua offerta di scuse, integra gli estremi del reato di maltrattamento perchè la ripetizione insistente delle richieste, dato il disvalore che la persona convivente vi attribuisce, cagiona a costei sofferenze per il disprezzo che l’uomo mostra delle sue condizioni.
Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1996, n. 8510 (Foro It., 1996, II, 614)
Posto che l’elemento materiale del delitto di maltrattamenti in famiglia, che ha natura abituale, consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata, tale da rendere particolarmente do¬lorosa la stessa convivenza, e che l’elemento psicologico ha carattere di dolo generico ed è unitario e uniforme, consistendo nella volontà cosciente di commettere abitualmente una serie di atti lesivi, va annullata con rinvio per nuovo giudizio la sentenza che abbia motivato la sussistenza del reato sulla base del mero dato obiettivo della reiterazione degli episodi lesivi.
Cass. pen. Sez. VI, 25 giugno 1996, n. 8314 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Risponde del reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli l’insegnante che ponga in essere nei confronti dei propri alunni una condotta, espressione di un unico disegno volontario e consapevole, che renda dolorose e mortificanti per i suoi alunni le relazioni con lui, e agisca in esplicazione della coscienza e della volontà di sotto¬porre gli alunni in sè e la classe affidatagli ad una serie di sofferenze fisiche e morali, vietate – prima che dalla legge – dalle regole di pedagogia, metodologia e didattica. (Nella specie, i maltrattamenti consistevano nell’im¬brattamento del viso, nello schiaffeggiamento, nel taglio dei capelli degli alunni).
Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 1996, n. 8396 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, fra esse annoverando espressamente la condotta del marito che costringa la moglie a sopportare la presenza della concubina nel domicilio coniugale. Peraltro, in ordine alla configurabilità del delitto in oggetto, non assume rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto in oggetto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito.
Cass. pen. Sez. VI, 16 maggio 1996, n. 4904 (Famiglia e Diritto, 1996, 324 nota di PITTARO)
Alla luce della concezione personalistica e pluralistica della Costituzione (art. 2, 3, 29, 30, 31), del riformato diritto di famiglia ( art. 147 c.c.) e della convenzione delle nazioni unite sui diritti del bambino (New York, 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la l. 27 maggio 1991 n. 176), non può non ritenersi lecito l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi.
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904 (Dir. Famiglia, 1997, 509 nota di BONAMORE)
L’uso della violenza per scopi educativi non può ritenersi lecito, onde l’eccesso di mezzi di correzione violenti non configura il reato di abuso di mezzi di correzione previsto dall’art. 571 c.p., bensì quello di maltrattamenti in fa¬miglia di cui all’art. 572 c.p. La differenza fra i due reati, infatti, è da ravvisarsi nella condotta e non nell’elemento soggettivo, che si atteggia in entrambe le fattispecie come dolo generico.
Il delitto di maltrattamenti di minore ( art. 572 c.p.) si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche me¬diante omissioni giacchè “trattare” un figlio (per di più minore degli anni 14) da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c. che impone l’obbligo di “mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” e, per converso, “maltrattare” vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità nè materiale, nè morale di risolvere da solo.
Il delitto di maltrattamenti di minore ( art. 572 c.p.) si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche me¬diante omissioni giacchè “trattare” un figlio (per di più minore degli anni 14) da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c. che impone l’obbligo di “mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” e, per converso, “maltrattare” vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità nè materiale, nè morale di risolvere da solo.
Cass. pen. Sez. VI, 04/03/1996, n. 4015 (Giust. Pen., 1997, II, 245)
In tema di maltrattamenti familiari ( art. 572 c.p.), correttamente il giudice di merito desume dalla ripetitività dei fatti di percosse e di ingiurie l’esistenza di un vero e proprio sistema di vita di relazione abitualmente doloroso ed avvilente, consapevolmente instaurato dall’agente, a seguito di iniziali stati di degenerazione del rapporto familiare. Per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all’autore del reato, in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decorso della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza.
Cass. pen. Sez. I, 12/02/1996, n. 8618 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. – maltrattamenti in famiglia – la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o mo¬rali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’u¬nica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze. Ne consegue che per ritenere raggiunta la prova dell’elemento materiale di tale reato, non possono essere presi in considerazione singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, nè un eventuale precedente spe¬cifico che può valere soltanto per la valutazione della personalità dell’imputato agli effetti della determinazione della pena da infliggere in concreto.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. – maltrattamenti in famiglia – la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o mo¬rali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’u¬nica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze. Ne consegue che per ritenere raggiunta la prova dell’elemento materiale di tale reato, non possono essere presi in considerazione singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, nè un eventuale precedente spe¬cifico che può valere soltanto per la valutazione della personalità dell’imputato agli effetti della determinazione della pena da infliggere in concreto.
Cass. pen. Sez. VI, 28 febbraio 1995, n. 4636 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) non costituisce reato permanente, bensì reato abituale. Ne consegue la inapplicabilità del principio secondo cui l’intrinseca idoneità del reato permanente a durare nel tempo, anche dopo l’avverarsi dei suoi elementi costitutivi, comporta che, quando nel capo di imputazione sia indicata soltanto la data iniziale e non quella della cessazione della permanenza, l’originaria contestazione si estende all’intero sviluppo della fattispecie criminosa, con la conseguenza che l’imputato è chiamato a difendersi, oltre che in ordine alla parte già realizzatasi di tale fattispecie, anche in ordine a quella successiva emergente dall’istruttoria dibattimentale, senza necessità di una ulteriore specifica contestazione da parte del pubblico mi¬nistero. Nel reato abituale, invece, i fatti nuovi acclarati in dibattimento, specialmente quando questo si svolga a distanza di anni dalla denuncia, devono essere sempre contestati all’imputato, sia che servano a perfezionare o ad integrare la fattispecie criminosa rispettivamente enunciata nel capo di imputazione, sia – e a maggior ragione – che costituiscano una serie autonoma unificabile alla precedente per vincolo di continuazione.
Il reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamen¬te considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo; esso si perfeziona allorchè si realizza un minimo di tali condotte (delit¬tuose o meno) collegate da un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione ex art. 81 cpv. c.p., come nel caso in cui la serie reiterativa sia interrotta da una sentenza di condanna ovvero da un notevole intervallo di tempo tra una serie di ipotesi e l’altra.
Cass. pen. Sez. VI, 17 ottobre 1994, n. 3965 (Dir. Pen. e Processo, 1995, 2, 204 nota di PISA)
Il delitto di maltrattamenti risulta caratterizzato dalla presenza di quell’evento che più volte la giurisprudenza ha individuato nella produzione di durevoli sofferenze fisiche e morali nei confronti di una persona di famiglia o di una persona minore degli anni quattordici o di una persona sottoposta alla autorità dell’agente, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte. E poiché un simile evento può ritenersi realizzato anche quando ne siano vittima persone affidate ad una pubblica struttura di assistenza, ne consegue che coloro cui sono attribuiti oneri di protezione possono rispondere del delitto di cui all’art. 572 c.p. quando tollerino che quel risultato abbia a realizzarsi, purché, ovviamente, o non si siano attivati in alcun modo o si siano attivati in modo del tutto inefficiente pur essendo in condizione di impedire l’evento. Cosicchè il loro contegno omissivo, non impedendo quell’evento che avrebbero l’obbligo giuridico di impedire, viene equiparato dalla legge, sotto il profilo eziologico, a causa della sua realizzazione.
Il dolo del delitto di maltrattamenti, dovendo caratterizzarsi per l’intento di infliggere sofferenze fisiche e morali al soggetto passivo, è sì unitario, in modo da non confondersi con la coscienza e volontà di ciascun frammento della condotta, ma non è necessario che scaturisca da uno specifico programma criminoso rigorosamente fina¬lizzato alla realizzazione del risultato effettivamente raggiunto; vale a dire, non occorre che debba essere fin dall’inizio presente una rappresentazione della serie degli episodi. Quel che la legge impone è solo che sussista la coscienza e volontà di commettere una serie di fatti lesivi della integrità fisica e della libertà e del decoro della persona offesa in modo abituale. Un intento, dunque, riferibile alla continuità del complesso e perfettamente compatibile con la struttura abituale del reato, attestata ad un comportamento che solo progressivamente è in grado di realizzare il risultato. La conseguenza è che il momento soggettivo che travalica le singole parti della condotta e che esprima il dolo del delitto di maltrattamenti può ben realizzarsi in modo graduale, venendo esso a costituire il dato unificatore di ciascuna delle componenti oggettive. Ciò anche (e soprattutto) quando la con¬dotta si sostanzi nella violazione di un dovere di garanzia, tanto più rispetto a persone affidate ad una pubblica struttura di assistenza e cura.
Una nozione del delitto di maltrattamenti ispirata a principi solidaristici impone di trascendere dalla necessità di un rapporto diretto tra autore e vittima del reato; tanto più quando l’addebito si profili in rapporto alla concomi¬tante operatività dell’art. 40 comma 2 c.p. (Fattispecie in tema di contegno omissivo da parte di responsabile di Dipartimento di salute mentale di una U.S.L. nei confronti di persone affidate a pubblica struttura assistenziale).
Cass. pen. Sez. II, 30 marzo 1994, n. 10531 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5, c.p., l’ età, specie se non accompagnata da fenomeni patologici di decadimento delle facoltà mentali, ed il basso livello culturale del soggetto passivo, non rientrano, di per sé, tra le circostanze attinenti alla persona che possono ostacolare la privata difesa. (Fattispecie in tema di truffa) .
Ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 , n. 5, c. p. non è richiesto che la difesa sia quasi o del tutto impossibile, ma è sufficiente che essa sia semplicemente ostacolata; la debolezza fisica dovuta all’ età senile costituisce una minorazione delle capacità difensive del soggetto che impedisce il tentativo di reazione possibile a una persona giovane e di ordinaria prestanza fisica, particolarmente quando la violenza non venga esercitata con uso di arma o altro mezzo intimidatorio, ma solo con mezzo fisico manuale, e quando risulti che la vittima del reato è stato scelta dall’agente in considerazione dell’avanzata età.
Cass. pen. Sez. VI, 22 febbraio 1994, n. 6319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. non si richiede una intenzione di sottoporre il convivente, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria e prevaricatoria, già posta in essere altre volte, la quale riveli, attraverso l’accettazione dei singoli episodi, una inclinazione della volontà a maltrat¬tare una o più persone conviventi.
Cass. pen., 3 marzo 1993 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione. È sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali.
Cass. pen. Sez. VI, 22 dicembre 1992 (Giust. Pen., 1993, II, 629)
Il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, previsto dall’art. 572 c.p., esige per la sua configurabilità una abituale sottoposizione della persona offesa a sofferenze fisiche e psichiche, espressione di un atteggiamen¬to di normale prevaricazione da parte del soggetto attivo del reato.
Cass. pen. Sez. VI, 9 dicembre 1992 (Giust. Pen., 1993, II, 629)
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti è sufficiente un lasso di tempo, ancorchè limitato, e tut¬tavia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa.
Agli effetti di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi per famiglia ogni consorzio tra persone tra le quali, per relazioni sentimentali o consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di convivenza.
Cass. pen. Sez. V, 21 ottobre 1992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 591 c.p. (abbandono di persone minori o incapaci) costituisce abbandono qualsiasi azione o omissione che contrasti con l’obbligo della custodia o della cura ed è sufficiente, per l’integrazione del reato, che da tale condotta derivi un pericolo anche solo potenziale per l’incolumità della persona incapace. (Nella specie, relativa a ritenuta sussistenza del reato, l’imputato, amministratore unico di una società, cui era affidata la ge¬stione di un gerontocomio, abbandonava le persone ivi ospitate, incapaci di provvedere a se stesse per vecchiaia e malattia, consentendo in particolare che le stesse (alcune delle quali addirittura non in grado di intendere e di volere) fossero tenute in pessime condizioni, sotto il profilo igienico e sanitario).
Cass. pen. Sez. V, 9 gennaio 1992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c. p.) è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o meno, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali soffe¬renze; e ad integrare l’abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, come sopra caratterizzati ed , anche se per un limitato periodo di tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 6 novembre 1991 (Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1994, 1119 nota di ANGELINI)
Per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia non è necessario un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto. L’elemento unificatore dei singoli episodi è costituito da un dolo unitario di carattere programmatico, che unifica le diverse azioni. Esso consiste nell’orientamento della volontà ad una condotta op¬pressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si realizza e si conferma progressivamente, in modo che l’agente accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
Cass. pen. 30 gennaio 1991 (Giust. Pen., 1991, II, 501)
Agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c. p. deve considerarsi ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà (fattispecie in cui la cassazione ha ritenuto far parte della nel senso suesposto la zia dell’imputata che conviveva con questa virtù di un contratto di rendita vitalizia nella forma del cosiddetto vitalizio alimentare o contratto di mantenimento, che – secondo quanto precisato dalla stessa corte – non ha contenuto meramente economico, ma obbliga il vitaliziante anche a provvedere alle esigenze dell’altro soggetto e ad assisterlo in caso di malattia).
Per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 572 c. p. non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico, cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale.
Cass. pen., 16 gennaio 1991 (Giust. Pen., 1991, II, 500)
Il delitto di maltrattamenti riferito a fatti commessi in una struttura assistenziale – specie se pubblica – per persone anziane (o minori o minorate o comunque bisognose di aiuto), può essere realizzato anche a mezzo di soggetto estraneo; ciò si verifica quando i responsabili dell’assistenza consapevolmente e deliberatamente si astengano dall’impedire che persone non autorizzate realizzino condotte integranti l’elemento oggettivo del reato, posto che in tale situazione, stante il dovere funzionale, di natura pubblicistica, di attivarsi, non impedire la verificazione dell’evento, sotto il profilo eziologico, equivale a cagionarlo.
In tema di maltrattamenti di persone affidate ad una pubblica struttura di assistenza e cura, la valutazione dei comportamenti tenuti dai soggetti obbligati a garantire cura e livelli di vita decorosi e conformi ai regolamenti dell’ente, va operata con massimo rigore, dato che i comportamenti di aggressione fisica, o di lesione del pa¬trimonio morale, o di sopraffazione sistematica, costituenti l’essenzialità dell’elemento materiale del delitto de quo, sono, in negativo, esaltati dalla violazione dei doveri funzionali, connessi alla posizione di garanzia di cui quei soggetti sono onerati.
Cass. pen., 19 dicembre 1990 (Giust. Pen., 1991, II, 358)
Il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato da una condotta abituale che si estrinseca in una pluralità di atti volti a ledere la integrità fisica ed il patrimonio morale del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 16 ottobre 1990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella nozione di rientrano i fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente dolorose le relazioni familiari, e manifestantisi mediante le sofferenze morali che determi¬nano uno stato di avvilimento o con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non lasciare traccia.
Corte cost. 20 luglio 1990, n. 357 (Giust. Pen., 1990, I, 321)
È manifestamente inammissibile – in riferimento agli art. 2, 3, 29, 30 e 31 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell›art. 572, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede come causa di estinzione del reato di maltrattamenti in famiglia la seria riconciliazione dei coniugi ed il normale svolgimento della vita coniugale, giudizialmente accertati; e ciò in quanto spetta esclusivamente al legislatore stabilire se esistano fatti successivi al reato in grado di estinguere il carattere criminale delle violazioni commesse e le relative conseguenze sanzionatorie.
Una volta riconosciuta e confermata l’attuale validità della rilevanza penale di fatti che violano i principi su cui si fonda l’unità della famiglia e l’etica della coesistenza pacifica dei suoi membri (anche nell’interesse dei figli minori), non può spettare che allo stesso legislatore stabilire se esistano fatti successivi in grado di estinguere, sotto condizioni che ancora una volta solo il legislatore può disciplinare, il carattere criminale di quelle violazioni e le relative conseguenze sanzionatorie. (Manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 cod. pen. sollevata in riferimento agli artt. 2,3, 29, 30 e 31 Cost.).
Cass. pen. Sez. VI, 30 maggio 1990, n. 394 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c. p. può essere realizzato anche mediante condotte omissive, individuabili pure nel deliberato astenersi da parte dei responsabili di una pubblica struttura di assistenza e cura – in presenza del contrario dovere incombente su di loro – dall’impedire condotte illegittime realizzanti la materia¬lità del reato, sussistendo le altre condizioni previste dalla fattispecie legale; infatti non impedire il verificarsi di un evento che si ha il dovere giuridico di impedire equivale a cagionarlo (fattispecie in cui si contestava a taluno dei responsabili di una pubblica struttura di assistenza e cura di non aver impedito ad estranei di maltrattare anziani colà ricoverati).
Cass. pen. Sez. VI, 29 maggio 1990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella materialità del delitto di maltrattamenti rientrano non soltanto percosse, minacce, ingiurie, privazioni im¬poste alla vittima, ma anche atti di scherno, disprezzo, umiliazione e di asservimento idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali; ne consegue che è riservato alla valutazione del giudice di merito accertare se singoli episodi vessatori rimangano assorbiti nel reato di maltrattamenti (ad esempio, lesioni non volute) oppure integri¬no ipotesi criminose autonomamente volute dall’agente e, quindi, concorrenti, con il delitto di cui all’art. 572 c. p.
Cass. pen. Sez. VI, 19 febbraio 1990 (Riv. Pen., 1991, 425)
Sussiste la circostanza aggravante della morte derivata dal fatto dei maltrattamenti in famiglia, prevista dall’art. 572, cpv. c. p., qualora il suicidio del soggetto passivo, benché non espressamente voluto, sia da mettere in sicuro e diretto collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti per effetto dei quali lo stato di prostrazione indotto nella vittima sia da identificarsi quale vero e proprio trauma fisico e morale che la determi¬narono a darsi la morte.
Cass. pen., 13 ottobre 1989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito da una condotta abituale che si estrinseca in più atti lesivi realizzati in tempi successivi ma collegati da un vincolo di abitualità ed avvinti da un’unica intenzione criminosa di ledere in modo sistematico l’integrità fisica ed il patrimonio morale della vittima.
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia non assume rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, causati da motivi contingenti; il delitto in que¬stione, invero, quale reato abituale, non resta escluso se nel tempo considerato vi siano, nella condotta dell’im¬putato, periodi di normalità o di accordo con i familiari; un intervallo di tempo fra una serie e l’altra di episodi lesivi, non fa, infatti, venir meno l’esistenza del reato, ma può dar luogo come per ogni reato permanente, alla continuazione.
Cass. pen., 12 ottobre 1989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo, di umiliazione; fra tali atti, che si risolvono in vere e proprie sofferenze morali, deve annoverarsi anche la condotta del marito che costringa la moglie a sopportare la presenza della concubina nel domicilio coniugale.
La cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del delitto di maltrattamenti in fami¬glia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (nella specie, l’imputato aveva commes¬so ripetuti atti di violenza fisica e morale in danno della moglie anche dopo la separazione di fatto).
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 1989, n. 16185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 c. p. in relazione agli art. 581, 582 e 594 stesso codice, con riferimento all’art. 3 cost., dedotta sotto il profilo della diseguaglianza del tratta¬mento sanzionatorio previsto per il reato di maltrattamenti rispetto alla pena stabilita per i reati di percosse, lesioni e ingiuria; infatti, le norme comparate con le relative sanzioni non sono omologhe sia sotto i profili mate¬riale e soggettivo, perché i maltrattamenti, pur manifestandosi in fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, richiedono ex art. 572 c. p. un sistema di vita particolarmente tormentato per la vittima e la volontà di infierire sulle persone della famiglia in modo da rendere alle stesse la vita impossibile, sia per la diversità degli interessi tutelati.
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 1989, n. 16185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 572 c. p. in relazione agli art. 581, 582 e 594 stesso codice, con riferimento all›art. 3 cost., dedotta sotto il profilo della diseguaglianza del trattamento sanzionatorio previsto per il reato di maltrattamenti rispetto alla pena stabilita per i reati di percosse, lesioni e ingiuria; infatti, le norme comparate con le relative sanzioni non sono omologhe sia sotto i profili materiale e soggettivo, perché i maltrattamenti, pur manifestandosi in fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, richiedono ex art. 572 c. p. un sistema di vita particolarmente tormentato per la vittima e la volontà di infierire sulle persone della famiglia in modo da rendere alle stesse la vita impossibile, sia per la diversità degli interessi tutelati.
Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 1989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia, quale reato abituale, non resta escluso se nel tempo considerato vi siano parentesi di normalità nella condotta dell’agente di accordo con i familiari; pertanto, un intervallo di tempo fra una serie e l’altra di episodi lesivi dell’integrità fisica o morale del soggetto passivo non fa venir meno l’esistenza del reato, ma può dar luogo, come per ogni reato permanente, alla continuazione.
Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 1988 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o morale, della libertà o del decoro delle persone di famiglia, in modo tale da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e le vittime; l’elemento psicologico è costituito dal dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuato.
Cass. pen., 10 aprile 1987 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Stante il carattere abituale del reato previsto dall’art. 572 c. p., il giudice del merito non può ritenerne la sus¬sistenza in base ad un solo fatto di lesioni personali volontarie in danno del familiare, ma deve accertare, se gli altri allegati episodi di violenza siano lesivi dell’altrui integrità fisica e psichica e siano cementati fra loro dall’elemento intenzionale, cioè dal dolo di sottoporre il soggetto passivo ad una condizione di vita ai limiti della tollerabilità, con sevizie continue.
Cass. pen., 21 gennaio 1987 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Lo stato di avvilimento e di sofferenza provocato nel soggetto passivo del delitto di maltrattamenti in famiglia, costretto a sopportare le continue infedeltà dell’agente, di cui questi si faceva vanto per mortificare ancor più la vittima, integra gli estremi dell’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 572 c. p.
Cass. pen. Sez. VI, 16 dicembre 1986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti è reato abituale poiché è caratterizzato dalla sussistenza di una serie di fatti i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, ma che rinvengono la ratio dell’antigiuridicità penale nella loro reiterazione, che si protrae nel tempo, e nella persistenza dell’elemento intenzionale; pertan¬to, poiché i fatti debbono essere molteplici e la reiterazione presuppone un arco di tempo che può essere più o meno lungo, ma comunque apprezzabile, la consumazione del reato si perfeziona con l’ultimo di questa serie di fatti (nella specie la suprema corte ha disatteso la tesi, sostenuta dal ricorrente, relativa al rinvenimento della competenza per territorio nel luogo ove aveva avuto inizio la consumazione e motivata dall’assimilabilità del reato abituale a quello permanente).
Ai fini della sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 c. p., è particolarmente rigo¬roso per il giudice l’obbligo della motivazione, poiché occorre dimostrare che tutti i fatti sono tra loro connessi e cementati in maniera inscindibile dalla volontà unitaria, persistente e ispiratrice di una condotta insistita nella fi¬nalità criminosa; infatti, il reato di maltrattamenti è , in quanto è tutta la condotta dell’imputato che deve essere considerata come caratterizzata da una serie o insieme di azioni od omissioni finalizzate e quale comportamento assunto a sistema e distinto dal nesso di abitualità tra i vari fatti, con assoluta esclusione della mera occasionalità e del dolo d’impeto, isolato e frammentario.
Cass. pen. Sez. II, 18 marzo 1986, n. 7382 (Riv. Pen., 1987, 498)
Il reato di maltrattamenti, tipico delitto contro la famiglia, è configurabile, in una sua più vasta accezione, nei casi in cui la degenerazione dell’uso dei mezzi di correzione colpisca persone collegate all’agente da un rapporto di dipendenza o per lo svolgimento di una professione o di un’arte; in tal caso, però, l’illiceità del trattamento deve consistere in una sistematica persecuzione suggerita da odio, malanimo, disprezzo, crudeltà fine a se stes¬sa, riconducibili alla determinazione dell’agente di arrecare sofferenze fisiche e morali; quando invece si voglia conseguire, mediante l’atto del maltrattare, il diverso fine del profitto, si realizza il delitto di estorsione.
Cass. pen. Sez. III, 13 novembre 1985 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c. p. non presuppone necessariamente l’esistenza di vincoli di parentela civili o naturali, ma sussiste anche nei riguardi di una persona convivente more uxorio, perché anche in tal caso viene tra le parti a crearsi quel rapporto stabile di comunità familiare che il legislatore ha ritenuto di dover tutelare.
Cass. pen. Sez. III, 15 marzo 1985 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Rientrano nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non soltanto le percosse, le minacce, le ingiurie e le privazioni imposte ai familiari, ma anche gli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento tali da cagionare durevole sofferenza morale (nella specie: è stato ritenuto configurabile il delitto di cui all’art. 572 c. p. nel comportamento del marito che costringa la moglie a sopportare congiunzioni carnali con sua sorella nella casa coniugale).
Cass. pen., 21 giugno 1984 (Riv. Pen., 1985, 600)
Il reato di maltrattamenti familiari sussiste quando l’agente sottoponga il soggetto passivo ad una serie di soffe¬renze fisiche e morali in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo) quanto dalla coscienza e volontà (elemento soggettivo) di porre in essere tali atti; è da escludere quindi che sporadici episodi di violenza, del tutto occasionali, possano integrare una abituale condotta vessato¬ria, tale da integrare il reato in esame.
Cass. pen., 21 giugno 1983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla condanna per il delitto di maltrattamenti commessa con abuso di potere o con abuso della professione con¬segue, ai sensi dell’art. 31 cod. pen., l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione sanitaria.
Cass. pen. Sez. V, 9 giugno 1983 (Giust. Pen., 1985, II, 472)
Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia rientrano non soltanto le percosse, le minacce, le ingiurie e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento che cagionano durevole sofferenza morale; fra tali ultimi atti che consistono in sofferenze morali vere e proprie debbono farsi rientrare anche i tentativi e le azioni diretti ad ottenere pratiche sessuali contro natura, sempre s’intende che essi atti non realizzino, per difetto di un qualche elemento, le ipotesi delittuose di cui agli art. 519 e 521 c. p. e sempreché essi si rivelino come manifestazioni consapevoli di recare o produrre nella vittima offesa, disprezzo, umiliazione, vilipendio o asservimento e che la vittima stessa finisca per subirli al di fuori e al di là di uno specifico fatto di violenza, ma nell’ambito delle complessive sofferenze infertegli.
Cass. pen. Sez. I, 15 maggio 1982 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di cui all’art. 572 c. p. restano assorbiti soltanto quelli di percosse e di minacce, i quali sono elementi costitutivi della violenza fisica o morale propria del delitto di maltrattamenti; per tutti gli altri reati si ha concorso e non assorbimento, qualora il bene giuridico offeso non riguardi l’assistenza familiare (fattispecie in cui la su¬prema corte ha affermato la sussistenza del concorso tra il delitto di maltrattamenti e quello di violenza privata consistito in un episodio di lesività carnale commesso dall’imputato in danno della moglie).
Cass. pen. Sez. VI, 4 maggio 1982 (Riv. Pen., 1983, 622)
Il delitto di maltrattamenti e quello di lesioni possono concorrere materialmente tra loro, poiché le lesioni per¬sonali volontarie non costituiscono sempre elemento essenziale del delitto di maltrattamenti; pertanto il delitto di lesioni non può essere assorbito da quello di maltrattamenti secondo la disciplina del reato complesso, ma configurano un reato autonomo.
Cass. pen. Sez. VI, 29 aprile 1980 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del reato di maltrattamenti in fami¬glia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione; il reato pertanto sussiste anche nei confronti della moglie la cui convivenza sia cessata legittimamente in seguito alla proposizione della domanda di separazione.
La cessazione del rapporto di convivenza non influisce nella configurabilità del reato di maltrattamenti in fami¬glia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (nella specie: era stato ritenuto sus¬sistente il reato commesso dal marito nei confronti della moglie legalmente separata e con lui non coabitante).
Cass. pen. Sez. I, 29 giugno 1977 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il carattere distintivo tra le incriminazioni previste dall’art. 571 e dall’ art. 572 c.p. consiste nel fatto che la prima è punibile a titolo di dolo generico ed implica l’uso di mezzi o modi di trattamento sempre e di per se stessi illeciti, mentre la seconda postula l’eccesso nell’uso di mezzi giuridicamente leciti, che, tramutando l’uso in abuso, lo fa diventare illecito; inoltre, il reato di cui all’art. 571 c.p. è qualificato da un dolo specifico che si concreta nell’avere agito nell’esercizio dello “ius corrigendi”, cioè al particolare fine correttivo.

DONAZIONE INDIRETTA

Di Gianfranco Dosi
I Il contratto di donazione
Come è noto la donazione (diretta) è un contratto con il quale per spirito di liberalità una parte arricchisce l’altra disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo versa di essa un’ob¬bligazione (art. 769 c.c.). Potrebbe apparire non del tutto pertinente il fatto che le donazioni siano state disciplinate nell’ultimo titolo del libro delle successioni; ed in effetti – trattandosi di contratti – più adeguata ne avrebbe potuto essere la collocazione nell’ambito del diritto delle obbligazioni. Tuttavia la trasmissione della proprietà per spirito di liberalità e quella mortis causa devono essere apparse in sede di codificazione, e sono oggettivamente, unite da una medesima ragione di natura solidaristica resa evidente dalla comune mancanza di onerosità che le caratterizza. Uniformità che è anche resa evidente dalla disciplina fiscale unitaria (imposta sulle successioni sulle donazioni) e dalle interferenze in entrambi i casi con il regime successorio.
Nel sistema giuridico del codice le donazioni, analogamente, alle successioni, sono circondate da una particolare sacralità formale resa visibile, per quanto concerne la donazione (contratto tipico a forma vincolata), dalla forma solenne prescritta dall’art. 782 che impone a pena di nullità la for¬ma dell’atto pubblico e cioè dell’atto redatto con le richieste formalità dal notaio (art. 2699 c.c.).
La legge notarile (legge 16 febbraio 1913, n. 89) prescrive poi la presenza irrinunciabile di due testimoni all’atto (art. 47).
La donazione ha come presupposto l’arricchimento del beneficiario con corrispondente depaupera¬mento del donante nonché lo spirito di liberalità che costituisce anche la “causa” della donazione.
Non sempre però lo spirito di liberalità comporta necessariamente la qualificazione dell’atto come donazione (tale è il caso – previsto nell’art. 770 secondo comma c.c. – della “liberalità che si suole fare in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi” che non costituisce donazione) e non sempre, d’altro lato, una donazione, deve necessariamente farsi con atto pubblico (come avviene per la “donazione di modico valore” prevista nell’art. 783 c.c.).
II Le donazioni indirette (cosiddette liberalità non donative): i casi più frequenti
La problematica che in questa sede si approfondisce concerne i casi in cui una liberalità è realizzata non attraverso il contratto formale di donazione ma attraverso modalità diverse che producono pur sempre l’arricchimento (giustificato) di una persona (cosiddette “liberalità non donative”).
In questi casi – ai quali fa riferimento l’art. 809 del codice civile che parla di “liberalità” che “risul¬tano da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769” – si parla di donazione indiretta (soggetta “alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa di ingratitudine e per soprav¬venienza di figli, nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari”1) che si configura quindi tutte le volte in cui il donante raggiunge lo scopo di arricchire un’altra persona servendosi di atti che hanno una causa diversa da quella del contratto di donazio¬ne; il mezzo usato può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento.
Benché la donazione indiretta si possa realizzare anche attraverso un unico atto (pagamento del debito altrui, remissione di un debito) molto spesso si tratta di più negozi tra loro collegati (per esempio la compravendita di un bene pagato da un soggetto e intestazione della proprietà ad altro soggetto) come hanno ben messo in luce molte sentenze (Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 2015, n. 21449; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134; Cass. civ. Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680). Il meccanismo del collegamento negoziale nella donazione indiretta è stato approfondito molto bene da Cass. civ. Sez. I, 14 di¬cembre 2000, n. 15778 che ha anche focalizzato la differenza in sede di teoria generale tra la donazione indiretta e il negozio indiretto. Nella sentenza in questione si afferma che a differenza del negozio indiretto – che si presenta come un unico negozio volto al conseguimento di un risul¬tato ulteriore che non è normale o tipico del negozio stesso (si fa l’esempio della vendita fiduciaria con previsione dell’obbligo di ritrasferimento del bene) – la donazione indiretta consiste in un complesso procedimento mediante il quale, per mezzo di atti diversi da quelli previsti nell’art. 769 del codice civile, ciascuno dei quali produce l’effetto diretto ad esso connaturato, viene arricchito (in modo indiretto) un soggetto per spirito di liberalità. La donazione indiretta quindi “si concreta nell’elargizione di una liberalità attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 del codice civile, mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animus donandi del destinatario della libe¬ralità medesima”.
Occorre fare attenzione a non confondere naturalmente il negozio simulato dalla donazione indi¬retta dove l’arricchimento del beneficiario è realmente voluto tra le parti. Le problematiche della donazione indiretta non hanno nulla a che fare con quelle della simulazione (per qualche consi¬derazione in proposito Cass. civ. Sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1986 ; Cass. civ. Sez. II, 31 maggio 2013, n. 13861).
Sono svariati gli esempi con cui può verificarsi l’arricchimento (giustificato) di una persona senza ricorrere alla donazione vera e propria.
1) Il contratto a favore di terzo
La liberalità non donativa può essere certamente realizzata con un contratto a favore di terzo , ossia in virtù di un accordo tra disponente – stipulante e promittente con il quale al terzo benefi¬ciario è attribuito un diritto, senza che quest’ultimo paghi alcun corrispettivo e senza prospettiva di vantaggio economico per lo stipulante. Il contratto a favore di terzo può bensì importare una liberalità a favore del medesimo, ma costituendo detta liberalità solo la conseguenza non diretta né principale del negozio giuridico avente una causa diversa, si tratta di una donazione indiretta, la quale, se pure è sottoposta alle norme di carattere sostanziale che regolano le donazioni, non sottostà invece alle norme riguardanti la forma di queste.
2) L’acquisto di un bene immobile effettuato con denaro del genitore ma con intestazio¬ne al figlio
A seguito di una pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282), la giurisprudenza qualifica l’intestazione di beni a nome altrui come una donazione indiretta del bene: una liberalità nascente da un complesso procedimento, rivolto a fare acquistare al benefi¬ciario la proprietà di un bene, nel quale la dazione del denaro, anche quando fatta dal beneficiante al beneficiario, assume un valore semplicemente strumentale rispetto al conseguimento di quel risultato. Qui il risultato liberale è conseguito attraverso la combinazione di più atti e negozi.
Si tratta di una delle ipotesi più diffuse di donazione indiretta nell’ambito del settore del diritto di famiglia: un genitore – attuando quel collegamento negoziale di cui si è parlato tra due negozi giuridici (acquisto pagato da un soggetto con intestazione ad un terzo) – corrisponde direttamente al venditore il prezzo per un immobile che viene acquistato e intestato al figlio o mette a disposi¬zione del figlio la provvista di denaro per l’acquisto dell’immobile (Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2017, n. 13619; Cass. civ. Sez. II, 4 settembre 2015, n. 17604; Cass. civ. Sez. VI, 2 set¬tembre 2014, n. 18541; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134; Cass. civ. Sez. II, 25 ottobre 2005, n. 20638; Cass. civ. Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333; Cass. civ. Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642; Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778; Cass. civ. Sez. II, 22 settembre 2000, n. 12563; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310; Cass. civ. Sez. III, 14 maggio 1997, n. 4231; Cass. civ. Sez. II, 22 giugno 1994, n. 5989; Cass. civ. Sez. I, 23 dicembre 1992, n. 13630; Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282). Come si avrà modo di chiarire l’acquisto del bene effettuato con denaro del genitore ma con intestazione al figlio pone il problema della evidenziazione della liberalità indiretta, sia a fini fiscali sia più in generale per gli effetti giuridici indicati nell’art. 809 c.c.
3) Il negozio mixtum cum donatione
Di donazione indiretta si può parlare anche quando le parti di un contratto oneroso fissino un corrispettivo molto inferiore al valore reale del bene trasferito ovvero un prezzo eccessivamente alto, a beneficio, rispettivamente, dell’acquirente o dell’alienante. In tal caso, infatti, il contratto di compravendita è stipulato dalle parti soltanto per conseguire – appunto, in via indiretta, attraverso il voluto sbilanciamento tra le prestazioni corrispettive – la finalità, diversa ed ulteriore rispetto a quella di scambio, consistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che beneficia dell’attribuzione di maggior valore. Si tratta del caso classico del negotium mixtum cum donatione. Il fenomeno è stato approfondito da una mole significativa di decisioni di legittimità (Cass. civ. Sez. II, 17 novembre 2010, n. 23215; Cass. civ. Sez. II, 3 novembre 2009, n. 23297; Cass. civ. Sez. II, 2 settembre 2009, n. 19099; Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 2007, n. 1955; Cass. civ. Sez. II, 7 giugno 2006, n. 13337; Cass. civ. Sez. II, 29 settem¬bre 2004, n. 19601; Cass. civ. Sez. III, 9 aprile 2003, n. 5584; Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2001, n. 6711; Cass. civ. Sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642; Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 1992, n. 11499; Cass. civ. Sez. III, 18 luglio 1991, n. 7969; Cass. civ. Sez. II, 23 febbraio 1991, n. 1931; Cass. civ. Sez. II, 28 novembre 1988, n. 6411) e dalla giurispru¬denza di merito (Trib. Padova Sez. I, 4 maggio 2012; Trib. Bassano del Grappa, 19 ottobre 2011; Trib. Benevento, 4 dicembre 2007; Trib. Napoli, 1 marzo 2002). A dispetto del nome non si tratta di un contratto misto (Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1997, n. 1214) ma di una donazione indiretta attuata attraverso lo strumento della compravendita. La causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio commutativo stipulato dai contraenti ha anche la finalità di rag¬giungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore. Se la sproporzione non è voluta o lo scopo di liberalità non fosse condiviso dalle parti (rimanendo confinato nella sfera dei motivi individuali di una parte) non si potrebbe parlare di donazione indiretta e sarebbe utiliz¬zabile il rimedio dell’azione di rescissione. Ove dovesse risultare la prevalenza dell’animus donandi ci si potrebbe trovare in presenza di una donazione tipica o di una donazione remuneratoria (Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5265; Cass. civ. Sez. II, 13 luglio 1995, n. 7666) soggetta alle regole formali di cui all’art. 769 c.c.
4) Attribuzioni patrimoniali tra coniugi o conviventi
Una donazione indiretta – che verrà approfondita in un prossimo capitolo – potrebbe essere visibile nelle attribuzioni patrimoniali tra coniugi o conviventi, per esempio nell’acquisto di un immobile in comunione con il partner per quote uguali, pur essendo il prezzo corrisposto solo da uno dei due (Cass. civ. Sez. III, 4 ottobre 2018, n. 24160; Cass. civ. Sez. II, 25 marzo 2013, n. 7480). Ove si tratti di una donazione indiretta attuata con una compravendita del tutto regolare nessuna possibilità avrebbe il partner disponente di chiedere la restituzione del bene fondandosi – come nella fattispecie esaminata dalla sentenza – sulla asserita nullità della donazione per man¬canza della forma solenne utilizzata. Si vedrà nel capitolo successivo, infatti, che la giurisprudenza ritiene sufficiente per la validità della donazione indiretta la forma tipica dell’atto, nella specie compravendita, con cui la liberalità è realizzata.
5) Cointestazione di conti correnti
Si è ricondotta alla donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora detta somma, all’atto della coin¬testazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario (Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983; Cass. civ. Sez. I, 22 set¬tembre 2000, n. 12552; Cass. civ. Sez. II, 10 aprile 1999, n. 3499). Anche la cointestazione
di buoni postali fruttiferi, ad esempio operata da un genitore per ripartire fra i figli anticipatamente le proprie sostanze, può configurare, ove sia accertata l’esistenza dell’animus donandi, una dona¬zione indiretta, in quanto, attraverso il negozio direttamente concluso con il terzo depositario, la parte che deposita il proprio denaro consegue l’effetto ulteriore di attuare un’attribuzione patri¬moniale in favore di colui che ne diventa beneficiario per la corrispondente quota, essendo questi, quale contitolare del titolo nominativo a firma disgiunta, legittimato a fare valere i relativi diritti (Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2013, n. 10991).
6) Pagamento del debito altrui
Costituisce anche donazione indiretta il pagamento di un’obbligazione altrui compiuto dal terzo per spirito di liberalità verso il debitore. Anche qui si assiste ad un’operazione che vede il coinvolgi¬mento delle sfere giuridiche di tre soggetti: il solvens, estraneo al rapporto obbligatorio ma autore dell’adempimento, il quale dispone della propria sfera nel senso della liberalità verso il debitore, liberandolo da un’obbligazione; il creditore; ed il debitore, beneficiario della liberalità. Si pensi al caso in cui il genitore ripiani un debito del figlio (adempimento del terzo ex art. 1180 c.c.) senza richiedere il rimborso dell’importo corrisposto.
7) Il non esercizio di un diritto
Si ha donazione indiretta allorché una persona rinunci ad agire per la riscossione di un credito op¬pure lo rimetta completamente, ovvero rinunci ad un diritto (Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2000, n. 9872; Cass. civ. Sez. II, 30 dicembre 1997, n. 13117; Cass. civ. 29 maggio 1974, n. 1545). Anche il comportamento di chi non eserciti un diritto al fine di farlo prescrivere può costi¬tuire donazione indiretta. Interessante a tale proposito una decisione che ha ipotizzato di poter desumere l’esistenza di una donazione indiretta dal contegno inerte del convenuto in un giudizio per acquisto per usucapione della proprietà di un bene (Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 2007, n. 12496). In un caso l’accollo del mutuo contratto dalla figlia da parte del padre non è stato ritenuto donazione indiretta ma diretta (Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2006, n. 7507).
8) La designazione del terzo beneficiario nei contratti assicurativi sulla vita
Secondo quanto hanno precisato Cass. civ. Sez. III, 19 febbraio 2016, n. 3263 e Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2015, n. 7683 nell’assicurazione sulla vita la designazione quale terzo bene¬ficiario di persona non legata al designante da alcun vincolo di mantenimento o dipendenza eco¬nomica deve presumersi, fino a prova contraria, compiuta a spirito di liberalità, e costituisce una donazione indiretta. Nella giurisprudenza di merito Tribunale Modena Sez. II, 20 ottobre 2014.
9) La rinuncia ad una quota di proprietà o all’usufrutto
Secondo quanto ha avuto modo di precisare Cass. civ. Sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819 costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantag¬giare in via riflessa tutti gli altri comproprietari; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un negozio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di donazione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per quest’ultimo.
Secondo Cass. civ. Sez. II, 10 gennaio 2013, n. 482 la rinuncia all’usufrutto, quale negozio unilaterale meramente abdicativo, ha come causa la dismissione del diritto e, poiché il consolida¬mento con la nuda proprietà ne costituisce effetto “ex lege”, non può essere considerata come una donazione, né necessita della forma prescritta dall’art. 782 cod. civ.
Ugualmente secondo Trib. Torre Annunziata Sez. II, 3 marzo 2015 la rinuncia all’usufrutto, se ispirata da animus donandi, è suscettibile di integrare una donazione indiretta a favore del nudo proprietario dei beni gravati dal diritto reale parziario rinunciato, perché, comportando un’e¬stinzione anticipata di tale diritto, si risolve nel conseguimento, da parte di detto dominus, dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza: il controvalore di tali vantaggi è, pertanto, senz’altro passibile di convogliamento nella massa ereditaria di cui all’art. 556 c.c.
10) La cessione gratuita di quote di partecipazione
Può rinvenirsi una donazione indiretta anche nella cessione gratuita della quota di partecipazio¬ne ad una cooperativa edilizia, finalizzata all’assegnazione dell’alloggio in favore del cessionario (Cass. civ. Sez. II, 3 gennaio 2014, n. 56).
III Le differenze tra la donazione (diretta) e la donazione indiretta. I punti fermi di Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2017, n. 18725: la donazione “ad esecuzione indiretta”
È importante stabilire se una fattispecie concreta negoziale che ci si trova di fronte rientra nella cate¬goria delle donazioni dirette o di quelle indirette, in quanto le norme che disciplinano la validità dell’u¬na e dell’altra figura negoziale sono diverse: per le donazioni dirette l’art. 782 c.c. prescrive a pena di nullità la forma dell’atto pubblico, mentre per le donazioni indirette la norma in questione non trova applicazione dal momento che l’art. 809 c.c. non richiama tale articolo per le liberalità non donative.
La conseguenza – pacifica, come si dirà più oltre, in giurisprudenza – è che la donazione indiretta è pienamente valida ed efficace anche se non riveste la forma dell’atto pubblico essendo, invece, soltanto necessario il rispetto dei requisiti previsti dalla legge per la validità del negozio attraverso il quale vene realizzata.
Il problema dell’inquadramento di un atto tra le donazioni dirette o quelle indirette si pone so¬prattutto quando la liberalità viene realizzata attraverso un unico atto e in concreto si è posto per esempio in un caso di trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente. Questa triangolazione – cioè que¬sto inserirsi nella vicenda traslativa di un terzo (la banca) – aveva lasciato ipotizzare nella fase di merito che si fosse in presenza di una donazione indiretta.
Chiamate dalla Seconda sezione civile della Cassazione (Cass. civ. Sez. II, 4 gennaio 2017, n. 106) ad affrontare questa fattispecie (appunto un trasferimento finanziario eseguito da una banca su ordine del disponente) le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2017, n. 18725) hanno chiarito che tale trasferimento non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una do¬nazione tipica ad esecuzione indiretta (con la conseguenza che la stabilità dell’attribuzione patri¬moniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiarlo, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore2).
In particolare le Sezioni Unite con questa importante decisione hanno ribadito che la donazione indiretta si realizza: (a) con atti diversi dal contratto (ad esempio, con negozi unilaterali come l’adempimento del terzo o le rinunce abdicative); (b) con contratti (non tra donante e donatario: per esempio un contratto a favore di terzo) rispetto ai quali il beneficiario è terzo; (c) con contratti caratterizzati dalla presenza di un nesso di corrispettività tra attribuzioni patrimoniali; (d) con la combinazione di più negozi (come nel caso dell’intestazione di beni a nome altrui).
Ciò premesso e inquadrando tra le donazioni dirette l’attribuzione patrimoniale eseguita dalla ban¬ca su ordine del disponente a favore del beneficiario (disponente e beneficiario sono i soggetti del contratto la cui esecuzione avviene per intervento di un terzo, cioè della banca), hanno poi preci¬sato che la configurazione della donazione come un contratto tipico a forma vincolata e sottoposto a regole inderogabili obbliga a fare ricorso al contratto di donazione per realizzare il passaggio immediato per spirito di liberalità di ingenti valori patrimoniali da un soggetto ad un altro, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che il legislatore consenta il compimento in forme differenti di uno stesso atto, imponendo, però, l’onere della forma solenne soltanto quando le parti abbiano optato per il contratto di donazione.
Si trattava, nel caso concreto, di stabilire se l’operazione attributiva di strumenti finanziari dal patri¬monio del beneficiante in favore di un altro soggetto, compiuta a titolo liberale attraverso una banca chiamata a dare esecuzione all’ordine di trasferimento dei titoli impartito dal titolare con operazioni contabili di addebitamento e di accreditamento, costituisse una donazione tipica, identificata dalla definizione offerta dall’art. 769 cod. civ., o fosse inquadrabile tra le liberalità non donative, ai sensi dell’art. 809 cod. civ. e quindi se la stabilità del trasferimento di ricchezza attuato donandi causa a mezzo banca fosse subordinato all’adozione dello schema formale-causale della donazione.
Le Sezioni Unite affermavano che l’operazione bancaria in adempimento dell’ordine del disponen-te/beneficiante svolge una funzione esecutiva di un atto negoziale ad esso esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, il quale soltanto è in grado di giustificare gli effetti del trasfe¬rimento di valori da un patrimonio all’altro. Si è di fronte, cioè, non ad una donazione attuata indirettamente in ragione della realizzazione indiretta della causa donandi, ma ad una donazione tipica ad esecuzione indiretta”, da ritenersi, pertanto, soggetta alle norme formali di cui all’art. 769 c.c. e nel caso concreto nulla per mancanza di forma.
In pratica nella donazione in questione l’arricchimento del beneficiario è una conseguenza ulterio¬re che deriva da atti o negozi giuridici che hanno una propria causa e che si aggiunge agli effetti prodotti dallo strumento giuridico utilizzato, senza che debba trarre in inganno il fatto che il tra¬sferimento a favore del donatario venga materialmente posto in essere da un terzo quale soggetto avente la materiale disponibilità del bene di cui è però titolare il disponente. In questo caso il terzo è solo uno strumento per il trasferimento della ricchezza di cui è titolare lo stesso disponente. Da un punto di vista giuridico il trasferimento delle ricchezza si realizza direttamente dal donante al donatario anche se per mezzo di una esecuzione indiretta3.
IV La donazione indiretta come negozio giuridico di protezione e le implicazioni nel diritto di famiglia
La donazione indiretta costituisce un’operazione negoziale che, quando realizzata nell’ambito dei rapporti di famiglia, può essere certamente ricondotta ai negozi giuridici che attuano la protezione di un terzo, per esempio un figlio, o dell’altro coniuge o convivente. Proprio questa è la ragione che ne giustifica un approfondimento all’interno della categoria dei cosiddetti contratti di prote¬zione. Acquistare un bene e intestarlo ad un figlio, effettuare attribuzioni patrimoniali a favore del coniuge o del convivente, cointestare con il proprio partner un conto corrente bancario, pagare un debito altrui, sono tutte operazioni che non hanno di mira la tutela di un proprio interesse ma certamente la tutela dell’interesse altrui. In questo sta, appunto, la caratteristica di quelli che possono essere chiamati negozi giuridici di protezione.
Ebbene, acquisito che le donazioni indirette sono una modalità di arricchimento altrui realizzata con spirito di liberalità attraverso schemi negoziali diversi da quello della donazione, si tratta di verificare i problemi di cui occorre avere consapevolezza nell’uso di questi strumenti negoziali.
Alcune implicazioni sono indicate dalla legge. Così per esempio le donazioni indirette, come quelle dirette, sono revocabili per sopravvenienza di figli o per ingratitudine (art. 809 c.c.). Pertanto l’in¬testazione di un bene a terzi effettuata con denaro del disponente non mette al riparo da questi effetti. L’art. 809 c.c. include le donazioni indirette tra le donazioni oggetto di reintegrazione della quota riservata ai legittimari. Per questo i soggetti tenuti alla collazione in sede ereditaria (art. 737 c.c.) devono – in base a quanti prevede espressamente la disposizione in questione – “conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente” salvo le esenzioni previste (dall’art. 738 c.c. per le donazioni di modico valore e dall’art. 742 c.c. per le spese di mantenimento e di educazione e per le altre ivi indicate).
Al di fuori di queste conseguenze espresse, la prima più tradizionale implicazione nel diritto di famiglia delle donazioni indirette è nell’ambito della comunione legale. L’art. 179 del codice civile nel prevedere che non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge “i beni acquistati dopo il matrimonio per effetto di donazione… quando nell’atto di liberalità … non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione” si riferisce solo alla donazione diretta o anche a quella indiretta? Poiché, come si è visto, l’ipotesi classica della donazione indiretta si ha quando i genitori di uno o dell’altro coniuge acquistano e intestano al figlio un bene immobile del quale corrispondono il prezzo, si pone il problema di verificare se tale bene sia entrato nella comunione o, come per i beni oggetto di donazione diretta, resti bene personale del coniuge.
Altra diffusa implicazione si verifica quando i coniugi abbiano la cointestazione di un rapporto bancario (in genere di conto corrente). In che misura è possibile che la cointestazione che uno dei coniugi abbia inteso effettuare a favore dell’altro realizza una donazione indiretta?
Proprio di tutti questi problemi si parlerà nei prossimi capitoli.
V L’acquisto di un bene immobile effettuato con denaro del genitore ma con intestazione al figlio
a) Se il figlio è coniugato in regime di comunione legale l’immobile entra in comunione o resta bene personale del figlio?
L’art. 179 del codice civile nella parte in cui prevede che non costituiscono beni della comunione ma sono beni personali del coniuge “i beni acquistati dopo il matrimonio per effetto di donazione… quando nell’atto di liberalità … non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione” si riferisce solo alla donazione diretta o anche alla donazione indiretta?
La giurisprudenza ritiene che il bene acquistato da uno solo dei coniugi in regime di comunione dei beni con denaro di un terzo (immobile acquistato e pagato dal padre m intestato al figlio) e pertanto oggetto di donazione indiretta non entra nella comunione legale (Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494; Cass. civ. Sez, I, 15 novembre 1997, n. 11327) non essendovi una ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma di cui all’art. 179 c.c. ed in quanto, soprattutto, l’acquisizione è avvenuta senza il contributo, diretto o indiretto, del coniuge non beneficiario dell’atto (Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327; Trib. Milano, 6 novembre 1996).
La sentenza che più ha messo in rilievo in passato i principi in base ai quali la donazione indiretta del bene esclude che quel bene possa appartenere alla comunione legale è certamente Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680 che ha esaminato una decisione della Corte d’appello di Napoli (App. Napoli, 19 luglio 1994) la quale aveva escluso che la donazione indiretta potesse rientra¬re nella previsione dell’art. 179 lett. b) codice civile sulla base della considerazione che “l’acquisto del diritto di proprietà da parte del beneficiario costituisce effetto immediato e diretto del contratto di vendita, mentre lo scopo di liberalità risulta estraneo alla causa di tale contratto, con la conse¬guenza che, ove si volesse ricomprendere l’atto di liberalità (indiretta) nell’ambito dei beni per¬sonali del coniuge, si applicherebbe al contratto di vendita la disciplina dettata per la donazione”.
La Cassazione ha ritenuto questo ragionamento sostanzialmente tautologico precisando che “dalla mera descrizione del fenomeno e del meccanismo negoziale con il quale si realizza non può, infatti, discendere automaticamente l’esclusione del bene, oggetto di donazione indiretta, da quelli perso¬nali del coniuge, ai sensi dell’art. 179 lett. b) c.c., occorrendo verificare se, indipendentemente dal rilievo che la proprietà dell’immobile si acquista per effetto della vendita, sia consentito limitare la portata della norma in esame alle sole donazioni regolate dall’art. 769 c.c. In altri termini, il ragionamento seguito dal giudice di merito si risolve nell’affermazione che il bene oggetto di do¬nazione indiretta deve necessariamente essere ricompreso nella comunione legale sol perché non è conseguenza di una donazione tipica (diretta) ed in quanto la forma richiesta è quella dell’atto da cui la donazione indiretta risulta: finisce, cioè, per svilire lo stesso procedimento negoziale per mezzo del quale si attua lo scopo di liberalità, senza neppure dar conto della rilevanza che assu¬me, nella formulazione dell’art. 179 lett. b) c.c., l’uso del termine “liberalità”, con riferimento alla possibilità (legislativamente prevista: art. 809 c.c.) che essa risulti da atti diversi da quelli indicati nell’art. 769 c.c. Invece, se la donazione indiretta consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che pro-duce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento “animo donandi” del destinatario della liberalità medesima, per negare l’inclusione della donazione indiretta nell’ipotesi prevista dall’art. 179 lett. b) c.c. nessun argomento decisivo può trarsi dalla causa del contratto di vendita, che rappresenta il negozio – mezzo, produttivo dei suoi effetti normali, rispetto al c.d. negozio – fine: la donazione indiretta altro non è che la risul¬tante della combinazione di tale negozi, dalla cui funzione non può ritenersi comunque estranea la finalità di arricchimento senza corrispettivo. Quanto alla tesi, sostenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il regime della comunione legale dei beni riveste carattere generale e deve trovare, quindi, la massima sfera di operatività, è sufficiente osservare che, come riconosce la stessa Cor¬te napoletana, il legislatore non ha certamente ritenuto siffatto carattere ostativo all’esclusione di determinati beni: il problema, cioè, non consiste nell’interpretazione estensiva o meno della norma contenuta nell’art. 179 lett. b) c.c., ma nell’individuazione della sua effettiva portata e di precise ragioni, anche d’ordine sistematico, che eventualmente possano giustificare l’esclusione della donazione indiretta (o meglio, del bene oggetto di essa) dall’ambito della norma medesima.
La formulazione letterale offre, di per sé, un argomento non secondario per l’equiparazione, ai fini che qui interessano, della donazione indiretta a quelle previste dall’art. 769 codice civile. Di sicuro rilievo, inoltre, è la considerazione che, in mancanza di espressa dichiarazione del donante (al pari di quella del testatore) di voler attribuire alla comunione legale il bene, l’inclusione di questo tra quelli personali trova fondamento nel rispetto della volontà dello stesso disponente e nel carattere strettamente personale dell’attribuzione fatta ad uno solo dei coniugi. In questo senso, infatti, è la dottrina di gran lunga prevalente, la quale ha osservato, sotto il profilo letterale, che l’eccezione prevista nella parte finale della norma si riferisce all’ “atto di liberalità”, ossia a concetto più ampio di quello di donazione in senso stretto, onde sarebbe illogico ritenere che all’eccezione sia attribuito un ambito di applicazione più ampio di quello della regola; sotto il secondo profilo, che, in difetto di specifica volontà del disponente di attribuire il bene alla comunione, l’”animus donandi” non può es¬sere obliterato, presentandosi nella donazione indiretta in modo non diverso dalla donazione diretta.
Sempre dalla dottrina, sollecitata dall’indirizzo di questa Corte in tema di collazione (per il quale cfr. Cass. 1257/94) – conclude la Cassazione – viene un ulteriore contributo: il principio secondo cui oggetto della liberalità indiretta è il bene acquistato e non il denaro versato dal disponente, pone in risalto la sufficienza del collegamento tra elargizione del denaro e acquisto del bene, ossia la finalità di arricchimento del beneficiano, sia pur realizzata con strumento diverso da quello tipico della donazione (diretta).
Si deve ritenere, allora – questa è la conclusione – che non vi sia un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’art. 179 lett. b) codice civile, onde il bene oggetto di essa non deve necessariamente rientrare nella comunione legale (Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680).
In seguito hanno ribadito queste tesi nella giurisprudenza (ormai da considerare consolidata sul punto) altre decisioni tra cui Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778 (secondo cui non costituisce oggetto della comunione legale il bene immobile acquistato da uno dei coniugi, duran¬te il matrimonio, con denaro proveniente da un terzo, in quanto in tale ipotesi si configura una donazione indiretta dell’immobile a favore solo ed esclusivamente del destinatario dell’elargizione della somma di danaro) e, più di recente, Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494; Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197; Cass. civ. Sez. II, 9 novembre 2012, n. 19513 che hanno anche precisato opportunamente che in tema di comunione legale dei coniugi, la donazione indiretta rientra nell’esclusione di cui all’art. 179, primo comma, lett. b), codice civile, senza che sia necessaria l’espressa dichiarazione da parte del coniuge acquirente prevista dall’art. 179, pri¬mo comma, lett. f), né la partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di acquisto e la sua adesione alla dichiarazione dell’altro coniuge acquirente ai sensi dell’art. 179, secondo comma, trattandosi di disposizione non richiamate.
Più articolata Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2008, n. 23545 che ha indagato sulla possibilità di inquadrare nella fattispecie della donazione indiretta l’acquisto di un bene effettuato anche con denaro dell’altro coniuge in comunione.
Nella giurisprudenza di merito hanno avuto modo di ribadire gli stessi concetti Trib. Genova Sez. III, 13 ottobre 2005; Trib. Gallarate, 24 novembre 2005; Trib. Salerno Sez. I, 29 giugno 2013.
Diverso è naturalmente il caso in cui il genitore mette a disposizione del figlio il denaro e il figlio acquisti con tale denaro un immobile. A tale proposito Cass. civ. Sez. VI – 2, 24 luglio 2018, n. 19537 ha chiarito che ove la donazione riguardi una somma di denaro impiegata dal donatario per l’acquisto della casa familiare non può ravvisarsi una donazione indiretta dell’intero immobile al donatario tale da escludere la comunione del bene tra i coniugi. Infatti, la somma di denaro donata dal genitore al figlio, coniugato in regime di comunione legale dei beni, non costituisce un’ipotesi di donazione indiretta e l’immobile acquistato con tale denaro entra a far parte del regime di comu¬nione legale dei beni, anche se manca un atto che rivesta la forma richiesta dalla legge per la va¬lidità delle donazioni, e cioè l’atto pubblico stipulato alla presenza di due testimoni. Molto esplicite sul punto erano state anche Cass. civ. Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642 e Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778 secondo cui la donazione diretta del denaro, successivamente impiegato dal beneficiario in un acquisto immobiliare con propria autonoma determinazione (caso in cui oggetto della donazione rimane comunque il denaro) va tenuta distinta dalla dazione del denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto dell’immobile, che integra un’ipotesi di donazione indiretta del bene.
b) Può parlarsi di donazione indiretta se il genitore paga solo una parte del prezzo dell’immobile intestato al figlio?
Avviene talvolta nella pratica che il genitore – o comunque il disponente – corrisponda soltanto una parte del prezzo, per esempio, l’acconto in contanti mentre resta a carico del beneficiario il pagamento della parte restante, per esempio le rate di mutuo che si è reso necessario per inte¬grare il prezzo di acquisto.
In tale evenienza è necessario chiedersi se trovano applicazione gli stessi principi fin qui indicati dalla giurisprudenza.
In passato aveva risposto a questo interrogativo Cass. civ. Sez. II, 31 gennaio 2014, n. 2149 precisando che la donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una di¬versa modalità per attuare l’identico risultato giuridico-economico dell’attribuzione liberale dell’im¬mobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo. Ed a questa conclusione si è adeguata la giurisprudenza di merito (Tribunale Frosinone, 30 marzo 2018).
Recentemente, però, la giurisprudenza ha cambiato orientamento ed ha precisato che si ha do¬nazione indiretta di un bene (nella specie, un immobile) anche quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo della relativa compravendita dovuto dal donatario, laddove sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme, dovendo, in tal caso, individuarsi l’oggetto della liberalità, analogamente a quanto affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato pari alla quota di prezzo corrisposta con la provvista fornita dal donante (Cass. civ. Sez. II, 17 aprile 2019, n. 10759)
c) In ambito successorio oggetto della collazione è l’immobile o la somma di denaro impiegata per l’acquisto?
Poiché i soggetti tenuti alla collazione in sede ereditaria (art. 737 c.c.) devono “conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente” si deve verificare se l’oggetto della collazione in caso di donazioni indirette, sia il denaro utilizzato per l’acquisto o l’immobile donato?
Nella donazione ordinaria c’è coincidenza tra ciò di cui si depaupera il donante e ciò di cui si arric¬chisce il donatario. Nell’ipotesi, invece, di acquisto di un bene con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto questa coincidenza manca. Il padre che acquista un bene per il figlio si priva del denaro occorrente per acquistarlo mentre il figlio si arricchisce del bene. Questa dissociazione – come si dirà – è al centro del modo diverso di atteggiarsi dell’azione di riduzione e di restituzione in caso di donazioni indirette.
Le Sezioni unite della Cassazione nel 1992 componendo un contrasto in giurisprudenza afferma¬rono il principio che “nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il soggetto medesimo intende in tal modo beneficiare con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e quindi integra donazione indiretta del bene stesso e non del denaro (Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2017, n. 13619). Pertanto in caso di collazione, secondo la previsione dell’art. 737 c.c. il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile, non il denaro donato per il suo acquisto (Cass. civ. Sez. II, 4 settembre 2015, n. 17604; Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282).
L’imputazione avviene considerando il valore dell’immobile al tempo dell’apertura della successio¬ne (art. 747 c.c.).
La giurisprudenza, dopo la decisione delle Sezioni Unite del 1992 ha ripetutamente ribadito lo stes¬so principio precisando che nell’ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l’acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest’ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale secondo caso, il colle¬gamento tra l’elargizione del danaro da parte del genitore e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immobile stesso, e non già del danaro impiegato per il suo acquisto (per esempio Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18541; Cass. civ. Sez. I, 23 maggio 2014, n. 11491; Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496; Cass. civ. Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746; Cass. civ. Sez. II, 24 feb¬braio 2004, n. 3642; Cass. civ. Sez. II, 22 settembre 2000, n. 12563; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310; Cass. civ. Sez. III, 14 maggio 1997, n. 4231; Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327Cass. civ. Sez. II, 8 febbraio 1994, n. 1257; Cass. civ. Sez. II, 22 giugno 1994, n. 5989 e nella giurisprudenza di merito Trib. Genova, 20 febbraio 2015; Trib. Monza Sez. I, 20 maggio 2009; Trib. Bari, 16 aprile 2008; Trib. Napoli, 20 marzo 2006; Trib. Bologna Sez. II, 7 marzo 2005; Trib. Torino Sez. II, 21 maggio 2004; Trib. Napoli, 19 gennaio 2001; Trib. Firenze, 3 ottobre 2000; Trib. Terni, 29 settembre 1998).
L’impostazione si spiega se si considera che nel caso del denaro corrisposto dal donante al do¬natario allo specifico scopo dell’acquisto del bene o mediante il versamento diretto dell’importo all’alienante o mediante la previsione della destinazione della somma donata al trasferimento immobiliare, c’è un collegamento tra l’elargizione del danaro e l’acquisto del bene da parte del beneficiario. Si deve distinguere, perciò, l’ipotesi della donazione diretta del denaro, impiegato successivamente dal beneficiario in un acquisto immobiliare con propria autonoma e distinta de¬terminazione, nel qual caso oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il do¬nante fornisca il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce l’unico specifico fine, se pur mediato, della donazione.
Nel caso, infatti, in cui il denaro sia dato al precipuo scopo dell’acquisto immobiliare e, quindi, o pagato direttamente all’alienante dal disponente, presente alla stipulazione intercorsa tra ac¬quirente e venditore dell’immobile, o pagato dal beneficiario dopo averlo ricevuto dal disponen¬te in esecuzione del complesso procedimento che quest’ultimo ha inteso adottare per ottenere il risultato della liberalità, con o senza la stipulazione in proprio nome d’un contratto prelimi¬nare con il proprietario dell’immobile, il collegamento tra l’elargizione del denaro da parte del disponente e l’acquisto del bene immobile da parte del beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
Va escluso, pertanto, che la donazione indiretta dell’immobile debba necessariamente articolarsi in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipulazione, sottoscrizione d’un contratto preliminare in nome proprio), essendo necessario, ma al tempo stesso sufficiente, che sia provato il collegamento tra elargizione del denaro ed acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso (negli stessi termini Trib. Mi¬lano Sez. IV, 15 maggio 2010).
Non ricorre, quindi, la fattispecie quando il danaro costituisca il bene di cui il donante ha inteso beneficiare il donatario e il successivo reimpiego sia rimasto estraneo alla previsione del donante (Cass. civ. Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746).
I medesimi principi in tema di donazione indiretta ha affermato da ultimo anche Cass. civ. Sez. II, 20 maggio 2014, n. 11035 con riguardo all’edificazione, con denaro del genitore, su terreno intestato al figlio (a seguito di precedente donazione indiretta). Il bene donato – hanno ribadito i giudici – può ben essere identificato, non nel denaro, ma nello stesso edificio realizzato, senza che a ciò sia di ostacolo l’operatività dei principi sull’acquisto per accessione, tutte le volte in cui, tenendo conto degli aspetti sostanziali della vicenda negoziale e dello scopo ultimo perseguito dal disponente, l’impiego del denaro a fini edificatori sia compreso nel programma negoziale perse¬guito dal genitore donante.
d) L’azione di riduzione e di restituzione nel caso di donazioni indirette
Si è visto che l’art. 809 del codice civile – rubricato “norme sulle donazioni applicabili ad altri atti di liberalità” – prospetta l’esistenza, accanto alle donazioni vere e proprie (art. 769 c.c.), di liberalità che “risultano da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769” (cosiddette liberalità non donative) che sono espressamente assoggettate da questo articolo alle “norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa di ingratitudine e per sopravvenienza dei figli nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari”. Anche l’applicazione delle norme sul¬la revocazione e sulla riduzione è comunque esclusa dal secondo comma dell’art. 809 c.c. per le “liberalità previste dal secondo comma dell’art. 770” e per “quelle che a norma dell’art. 742 non sono soggette a collazione”.
Le donazioni indirette effettuate attraverso il meccanismo dell’intestazione a nome altrui del bene acquistato con denaro del disponente costituiscono dunque liberalità revocabili per ingratitudine e per sopravvenienza di figli e soggette all’azione di riduzione ove abbiano leso la legittima dei successibili necessari.
Si è già detto che ai sensi dell’art. 737 c.c. le donazioni indirette sono soggette a collazione (“i figli e i loro discendenti ed il coniuge che concorrono alla successione devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente…”).
Occorre considerare che a tutela dei legittimari lesi il codice prevede innanzitutto l’azione di ridu¬zione e quella di restituzione, entrambe di natura personale nel senso che sono esercitabili solo nei confronti del beneficiario della liberalità eccedente la disponibile. Solo nel caso di esito infrut¬tuoso dell’azione di restituzione nei confronti del beneficiario della liberalità è anche esercitabile, nei confronti dell’eventuale terzo acquirente, l’azione reale di restituzione dell’immobile (art. 563 c.c. rubricato “Azione contro gli aventi causa dai donatari soggetti a riduzione” dove si prevede che il legittimario leso “premessa l’escussione dei beni del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti… la restituzione degli immobili”).
Ebbene, questo meccanismo trova applicazione anche in caso di donazione indiretta?
La giurisprudenza ha affermato che l’eventuale azione di riduzione e di restituzione avanzata dagli eredi legittimi nei confronti del beneficiario della donazione non può mai coinvolgere i successivi acquirenti dell’immobile oggetto di donazione indiretta (Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496; Trib. Roma Sez. VIII, 30 maggio 2011) in quanto è connaturato all’azione, nell’ipo¬tesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 codice civile, il principio della quota legittima in natura in quanto l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione. Pertanto mancando il meccani¬smo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazio¬ne indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito.
Ciò significa che in caso di vendita a terzi dell’immobile oggetto della donazione indiretta, a dif¬ferenza di quanto accade per le donazioni dirette che hanno per oggetto l’immobile, i terzi ac¬quirenti non potranno essere coinvolti dalle richieste di restituzione avanzate dagli eredi legittimi del donante. Anche la banca che dovesse concedere un mutuo sull’immobile oggetto di donazione indiretta non dovrà temere l’esercizio dell’azione di riduzione o di restituzione.
La sentenza 11496/2010 sopra riferita è in linea con la costante giurisprudenza dell’ultimo decen¬nio che, con alterne vicende, ha sancito nell’ipotesi di acquisto immobiliare effettuato con denaro del donante, che – come si è prima detto – l’oggetto della liberalità indiretta sia rappresentato dal bene acquisito e non già dal denaro necessario per l’acquisto dello stesso (Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282).
L’affermazione che oggetto della donazione è l’immobile (cioè l’effettivo arricchimento del bene¬ficiario) e non – come si riteneva in passato – il denaro (cioè l’impoverimento del donante) ha notevoli risvolti pratici, a cominciare da quanto si è detto circa il fatto che oggetto della collazione – preliminare alla riduzione – è l’immobile.
La soluzione data dalla sentenza 11496/2010 è ragionevole tenendo conto del fatto che – come si è sopra chiarito e come è stato osservato molto bene in dottrina a commento della sentenza in questione – nelle donazioni indirette manca il nesso di derivazione dal patrimonio del donante a quello del donatario che è alla base del funzionamento del sistema di tutela dei legittimari. Infatti il bene non è mai appartenuto al disponente (a differenza di quanto avviene nelle donazioni ordi¬narie) e l’azione di riduzione non può rendere inefficace la compravendita in quanto all’inefficacia conseguente all’azione di riduzione conseguirebbe che l’immobile dovrebbe tornare a far parte del patrimonio semmai del venditore e non del disponente (che non è mai stato proprietario) mentre all’inefficacia della dazione di denaro conseguirebbe che il legittimario potrebbe soddi¬sfarsi sul denaro rientrato nell’asse ereditario.
Ipotizziamo che il padre corrisponda il prezzo per un immobile che viene intestato al figlio e che costui venda a terzi il bene. Se l’altro figlio – alla morte del padre – intendesse denunciare la lesio¬ne della sua legittima effettuata con la donazione indiretta, con l’azione di riduzione non potrebbe dichiarare inefficace la compravendita ma solo imputare l’equivalente speso per l’acquisto nell’asse ereditario. Per questo stesso motivo sarà solo il denaro acquisito con la vendita del bene dal figlio beneficiato che costituirà il credito del legittimario leso.
Proprio per questo la Cassazione con la decisione 11496/2010, ha stabilito che nel caso di riduzio¬ne di una donazione indiretta di un immobile, realizzata mediante l’acquisto del bene con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, “non si applica il principio della quota legittima in natura (connaturata all’azione nell’ipotesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 cod. civ.), poiché l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione. Pertanto mancando il meccani¬smo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazio¬ne indiretta deve essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito”.
Ciò comporta anche che l’immobile oggetto di donazione indiretta, in sede di circolazione, non in¬contra più gli ostacoli tipici dei beni di provenienza donativa consistenti nel rischio di una possibile azione reale di restituzione del bene.
La Cassazione quindi ha scelto una soluzione che consente al bene di circolare liberamente anche dopo la donazione indiretta. Il terzo sub-acquirente non è più a rischio mentre il legittimario leso non perderà il suo diritto alla integrità della legittima mantenendo un corrispondente diritto di credito nei confronti del beneficiato dalla donazione indiretta.
e) La disciplina fiscale
L’art. 35, comma 22, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 convertito con legge 4 agosto 2006, n. 248 (modificato dall’art. 1 comma 48 legge 27 dicembre 2006, n. 296) prescrive che «All’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad Iva, le parti hanno l’obbligo di rendere apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di paga¬mento del corrispettivo. Con le medesime modalità ciascuna delle parti ha l’obbligo di dichiarare se si è avvalsa di un mediatore; nell’ipotesi affermativa, ha l’obbligo di dichiarare l’ammontare della spesa sostenuta per la mediazione, le analitiche modalità di pagamento della stessa, con l’indica¬zione del numero di partita Iva o del codice fiscale dell’agente immobiliare. In caso di omessa, in¬completa o mendace indicazione dei predetti dati si applica la sanzione amministrativa da euro 500 a euro 10.000 e, ai fini dell’imposta di registro, i beni trasferiti sono assoggettati ad accertamento di valore ai sensi dell’articolo 52, comma 1, del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131».
L’evidenziazione della donazione indiretta nell’atto con cui la si effettua – indicando, anche ai fini della tracciabilità, la provenienza del denaro impiegato per l’acquisto del bene – è lo strumento principale per non esporre a rischio le conseguenze indicate nell’art. 809 c.c. (revocazione e ridu¬cibilità della donazione) oltre che l’esclusione del bene dalla eventuale comunione legale dell’acqui¬rente. Dall’atto (cosiddetto atto mezzo) sarà chiaro, quindi, che il denaro utilizzato per l’acquisto è fornito non dall’acquirente ma dal disponente. In mancanza di questa indicazione la prova della donazione indiretta, per assicurare quelle conseguenze giuridiche, potrebbe essere molto gravosa.
D’altro lato, come tra breve si dirà, l’evidenziazione serve anche ad evitare che il beneficiario della donazione indiretta venga fatto oggetto di accertamento fiscale per avere effettuato un acquisto non giustificato dal suo livello di reddito.
Vediamo qual è la disciplina fiscale della donazione indiretta.
Con il decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria, convertito nella legge 24 novembre 2006, n. 286, è stata reintrodotta nel nostro or¬dinamento l’imposta sulle successioni e donazioni che era stata abolita con la legge 18 ottobre 2001, n. 283.
L’imposta colpisce tutti i “trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito oltre che la “costituzione di vincoli di destinazione” con aliquote differenziate: a) per i beni devoluti a favore del coniuge e dei parenti in linea retta sul valore complessivo netto eccedente per ciascun beneficiario 1.000.000 di euro: aliquota 4%; b) per i beni devoluti a favore degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta, nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado: aliquota 6%; c) devoluti a favore di altri soggetti: aliquota 8%.
L’imposizione indicata trova applicazione anche per le donazioni indirette.
Infatti, salvo le nuove aliquote (4%, 6% e 8%) – che sono più alte di quelle previste nel testo unico originario (D. Lgs 31 ottobre 1990, n. 346) che erano del 3%, 5% e 7% – la riforma del 2006 ha richiamato in vita, in quanto applicabili, le altre disposizioni previste nel testo unico alla data del 24 ottobre 2001 in cui ne era cessata l’applicazione. Tra queste l’art. 1, comma 4-bis di quel testo unico che riguarda proprio l’estensione della tassazione alle donazioni indirette. La norma così dispone: “Ferma restando l’applicazione dell’imposta alle liberalità indirette risultanti da atti soggetti a registrazione, l’imposta non si applica nei casi di donazioni o di altre liberalità collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, qualora per l’atto sia prevista l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzio¬nale, o dell’imposta sul valore aggiunto”.
Il che significa come principio generale che l’atto o il negozio con il quale è realizzata o da cui ri¬sulta la liberalità indiretta sconta l’imposta sulle successioni e sulle donazioni con le aliquote sopra indicate, esattamente come la donazione tipica.
Non sempre però l’imposta sulle donazioni è dovuta – ed è questa l’importanza della norma – in quanto per le donazioni indirette realizzate attraverso un negozio di trasferimento soggetto all’imposizione di registro proporzionale ordinaria (e quindi per le donazioni indirette più diffuse, effettuate mediante acquisto di un bene immobile con denaro del disponente ma intestazione ad altro soggetto) non troverà applicazione l’imposta sulle successioni e sulle donazioni ma solo quella prevista per l’atto mezzo utilizzato e cioè per la compravendita. Ed è evidente il motivo: si tratterebbe, in caso contrario, di una doppia imposizione: una sull’atto di compravendita e una sulla donazione indiretta. Il che evidentemente sarebbe del tutto iniquo. L’imposta è quindi assol¬ta mediante la sola imposizione dell’atto mezzo impiegato per realizzare l’intento liberale (dal 1° gennaio 2014 con imposta di registro del 9% o del 2% se prima casa).
Acquisita quindi l’inapplicabilità (ex art. 1, comma 4-bis, testo unico 346/1990) alle donazioni indirette dell’imposta sulle donazioni allorché il negozio mezzo è autonomamente tassato con l’im¬posta di registro proporzionale o con l’iva (per il principio dell’alternatività tra imposta di registro/ iva e imposta sulle donazioni) si deve precisare che l’imposta sulle donazioni non sarà mai dovuta in queste ipotesi, anche se la liberalità indiretta non dovesse risultare evidenziata nell’atto, cioè anche se nell’atto non è indicato che il prezzo è corrisposto da un terzo. Il fisco si “accontenta” co¬munque della sola imposizione ordinaria di registro. In tal caso sarà, però, la prova della liberalità indiretta ai fini dell’applicazione degli istituti richiamati dall’art. 809 c.c. ad essere più complessa, essendo necessario provare in giudizio, in difetto di evidenziazione nell’atto, che la provvista per l’acquisto è stata corrisposta non dall’acquirente ma dal terzo disponente.
Deve essere anche richiamata un’altra norma di rilievo che trova applicazione in tutti i casi in cui la liberalità indiretta non è stata già tassata con l’imposta sulle donazioni o con l’imposta di registro/iva applicata al negozio di compravendita utilizzato. Cioè in tutti i casi in cui di fatto l’imposizione è stata evasa. Si riferisce a queste ipotesi l’art. 56-bis del testo unico 346/1990. Si tratta di un sistema di accertamento e di registrazione volontaria delle liberalità indirette teso a far emergere gli incrementi patrimoniali tassabili, con lo scopo di evitare l’evasione dell’imposta sulle donazioni in caso di liberalità indirette. La norma stabilisce al primo comma che le liberalità non donative (diverse cioè dalle donazioni tipiche) e diverse da quelle già tassate, anche attra¬verso la tassazione dell’atto mezzo, sono accertate e sottoposte ad imposta se ricorrono due condizioni: a) che l’interessato dichiari l’esistenza della liberalità nell’ambito di un procedimento di accertamento di tributi diversi dall’imposta sulle successioni e sulle donazioni b) se siano di valore superiore ad una certa soglia (la franchigia era nel testo unico del 1990 di 350.000.000 di lire). Secondo il richiamo normativo fatto dall’art. 56-bis del Testo Unico originario, l’aliquota di imposta sarebbe quella massima prevista nel regime precedente alla riforma del 2006 (7%), ma sembra pacifico che debba trovare ovviamente applicazione l’aliquota massima nuova (8%) ed ugualmente le franchigie saranno quelle attuali (a seconda del rapporto che lega il disponente alla persona arricchita).
In pratica la previsione di questo meccanismo serve a consentire al contribuente sotto accerta¬mento fiscale – in caso di liberalità indiretta (che non sia stata già tassata) – di corrispondere l’im¬posta di donazione se “confessa” la liberalità indiretta; in tal caso subendo in chiave sanzionatoria la tassazione massima dell’8% (sempre per il valore superiore alla franchigia).
Per capire il senso di questa norma si deve considerare che un contribuente titolare di una situa¬zione patrimoniale incompatibile con i suoi redditi può legittimamente determinare nell’ammini¬strazione finanziaria il promovimento di un accertamento sintetico.
Il contribuente per vincere la presunzione di aver acquisito quella patrimonialità con redditi oc¬cultati, potrà dichiarare l’esistenza della liberalità indiretta di cui ha beneficiato (Cass. civ. Sez. VI, 17 ottobre 2012, n. 17805) subendo la tassazione della liberalità indiretta sia pure nella misura massima prevista (8%) ma verosimilmente più mite di quella che graverebbe altrimenti sul maggior reddito derivante dall’accertamento sintetico. La dichiarazione può essere resa nel corso dell’attività di verifica o in seguito alla notifica dell’avviso di accertamento sintetico. L’am¬ministrazione finanziaria non ha il potere autonomo di accertare la liberalità indiretta in difetto della dichiarazione confessoria del contribuente il quale quindi può decidere se mandare avanti l’accertamento in materia di imposte sul reddito oppure dichiarare la liberalità indiretta e bloccare così l’accertamento, ma con l’onere di dover corrispondere l’imposta sulla donazione.
Gli atti di liberalità non donativi rientrano pertanto – come le donazioni contrattuali tipiche – nella sfera applicativa dell’imposta sulle donazioni, sempre che la liberalità non sia stata effettuata con un atto mezzo tassato con l’imposta di registro proporzionale.
È opportuno quindi che il professionista, chiamato a redigere atti ai quali si collegano potenziali fenomeni di attribuzione liberale indiretta, renda sempre edotte le parti in ordine alle conseguenze tributarie della evidenziazione o della mancata evidenziazione della liberalità.
VI Quali sono le norme applicabili e i presupposti di validità e come si prova la donazione indiretta?
Pur non essendo espressamente richiamati dall’art. 809 c.c. – che espressamente dichiara ap¬plicabili alle donazioni indirette soltanto le norme sulla revocazione e sull’azione di riduzione – si ritengono applicabili alle donazioni indirette anche altre norme, tra le quali l’art. 4374 e 4385 c.c. in materia di obbligo degli alimenti, essendo comune alle donazioni indirette la ratio dell’obbligo di riconoscenza che è connesso all’individuazione del donatario come soggetto tenuto agli alimenti con precedenza su ogni altro obbligato; l’art. 771 c.c. sul divieto di donazione di beni futuri, l’art. 778 c.c. sul divieto di mandato a donare, le norme sulla incapacità a donare (art. 774 ss c.c.), sull’errore sul motivo (art. 787 c.c.) e sul motivo illecito (art 788 c.c.), l’art. 2901 c.c. sull’azione revocatoria ordinaria e l’art. 64 legge fallimentare in tema di revocatoria fallimentare degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento (disposizio¬ne non toccata dalla riforma del fallimento del 2005).
Il mancato richiamo nell’art. 809 c.c. alle norme sulla forma dell’atto ha portato la giurisprudenza ad affermare ormai in modo consolidato il principio che per la validità delle donazioni indirette non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità (Cass. civ. Sez. II, 15 luglio 2016, n. 14551; Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197; Cass. civ. Sez. II, 25 marzo 2013, n. 7480; Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496; Cass. civ. Sez. II, 14 gennaio 2010, n. 468; Cass. civ. Sez. II, 3 novembre 2009, n. 23297; Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 2007, n. 1955; Cass. civ. Sez. II, 7 giugno 2006, n. 13337; Cass. civ. Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333; Cass. civ. Sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642 e molte altre precedenti).
Nella giurisprudenza di merito Trib. Bari Sez. I, 21 ottobre 2013; App. L’Aquila, 7 giugno 2013; Trib. Pesaro, 28 febbraio 2009; Trib. Torino Sez. II, 21 maggio 2004, Trib. Brescia Sez. I, 24 ottobre 2003; Trib. Catania, 25 marzo 1993).
Pertanto ove la donazione indiretta consista nell’acquisto di un bene immobile con denaro del di¬sponente ma con intestazione ad altro soggetto, sarà sufficiente che vi sia la forma prescritta per l’atto di compravendita (e non l’atto pubblico con due testimoni). Altrettanto nel negotium mixtum cum donatione.
Da quanto si è detto deriva che la donazione indiretta, ove nell’atto non risulti evidenziato il pa¬gamento del prezzo da parte del genitore, si può provare attraverso due elementi. In primo luogo documentando l’atto (con il quale è stata realizzata l’attribuzione patrimoniale) che deve avere, come detto, la forma prescritta per la validità di tale attribuzione e cioè nel caso di compravendita, l’atto scritto ad substantiam (artt. 1325 e 1350 c.c.), che può essere preceduto o meno dal con¬tratto preliminare nel quale il promissario acquirente può dichiarare che il definitivo verrà stipulato per persona da nominare. In secondo luogo provando che la provvista è stata corrisposta dal disponente e non dall’intestatario del bene. L’intento liberale è proprio desumibile dal pagamento effettuato dal disponente a favore del venditore del bene.
In linea generale in ogni caso l’onere probatorio è ripartito nel senso che spetta al soggetto che agisce in giudizio dimostrare la sussistenza, nella fattispecie concreta, degli elementi costitutivi della liberalità, ovvero dell’arricchimento unilaterale non remunerato e dell’animus donandi in
4 Art. 437 (Obbligo del donatario). Il donatario è tenuto, con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante…
5 Art. 438 (Misura degli alimenti). Gli alimenti… devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario alla vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale. Il donatario non è tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio.
capo al disponente, mentre è compito del beneficiario dell’attribuzione dedurre elementi idonei a delineare una diversa giustificazione causale del trasferimento (Tribunale Torino Sez. II, 29 gennaio 2018).
Come ha precisato Cass. civ. Sez. II, 18 luglio 2019, n. 19400 la donazione indiretta è un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa con¬sistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore; differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti [artt. 2721 ss c.c.] e simulazione [art. 1417 c.c.] – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo. (Nella fattispecie, la decisione ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto l’esistenza di donazioni indirette sulla base di prove presuntive). Gli stessi principi sono stati affermati da Cass. civ. Sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1986; Cass. civ. Sez. II, 27 febbraio 2004, n. 4015; Cass. civ. Sez. II, 15 gennaio 2003, n. 502 (secondo cui alla donazione indiretta non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo)
Quindi la prova testimoniale circa la natura di donazione indiretta di un contratto sarà sempre ammissibile; come ammissibile sarà la prova per presunzioni (che ai sensi dell’art. 2729 c.c. non sarebbe ammissibile nei casi in cui la legge esclude la prova testimoniale).
VII La cointestazione di un conto corrente bancario come possibile donazione indiretta
Il secondo comma dell’art. 1298 c.c. stabilisce per il conto cointestato la presunzione di uguaglian¬za delle quote di comproprietà tra i correntisti. Pertanto al prelievo ingiustificato da parte di uno dei cointestatari di una quota maggiore di quella spettantegli per presunzione può legittimamente seguire da parte dell’altro la richiesta di reintegrazione del deposito o di restituzione della metà del saldo attivo. Salvo, sempre, che il conto non sia stato aperto nel solo interesse di un correntista o non sia alimentato soltanto da uno dei correntisti. Provando queste circostanze la presunzione di comproprietà viene vinta (art. 1298 c.c.).
La presunzione di contitolarità potrebbe anche essere vinta – come alcune vicende giudiziarie dimostrano – dando la prova che la cointestazione integra, nei confronti di uno correntista, una donazione indiretta. Anche in tale eventualità la pretesa restitutoria dell’altro correntista potrebbe essere paralizzata. La domanda che ci si pone è quindi la seguente: può un correntista, per esem¬pio uno dei coniugi, provare che l’apertura di un conto corrente cointestato e quindi il deposito della provvista iniziale, ovvero le rimesse successive nel conto, sono state effettuate con spirito di liberalità nei suoi confronti e costituiscono quindi donazioni indirette?
In una vicenda in cui la Corte di appello di Venezia aveva ritenuto che il marito avesse inteso realizzare in favore della moglie – con l’apertura di un conto cointestato a sé e alla moglie stessa – una donazione indiretta del cinquanta per cento delle somme via via versate sul conto stesso, la Cassazione recentemente ha non solo richiamato la nullità della donazione di beni futuri sancita dall’art. 771 c.c. (con riferimento alle rimesse successive all’apertura del conto, ove inquadrate nell’ambito della donazione), ma ha ritenuto che l’animus donandi non poteva essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione; viceversa la Corte di merito avrebbe dovuto motivare specifi¬camente sullo spirito di liberalità che assisteva ogni versamento (Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809).
Più volte la Corte di Cassazione ha, in ogni caso, affermato che la possibilità che costituisca dona¬zione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari può essere qualificato come donazione indi¬retta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità (Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682; Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983).
Sul punto, negli stessi termini, si sono espressi Tribunale Ferrara, 4 aprile 2018; Tribunale Roma Sez. I, 6 giugno 2017; Trib. Vicenza, 5 giugno 2012; Trib. Torino Sez. II, 5 agosto 2008; Trib. Monza, 25 gennaio 2001.
Analogamente si era espressa Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 relativamente alla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore, affermando che da tale cointestazione non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circostanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione.
Il problema è stato affrontato anche in una articolata decisone di merito (Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010) dove si è affermato, sul presupposto che la cointestazione attribuisce un recipro¬co diritto di rendicontazione, che la cointestazione di un conto corrente bancario non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione donativa attraverso una di¬smissione dei diritti del correntista sorretta da un intento liberale. Nella vicenda specifica non era stato dimostrata, secondo il tribunale, la rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate.
In precedenza anche Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 1999, n. 10850 aveva chiarito che la sola cointestazione del contratto di custodia e amministrazione di titoli a coniugi in regime di separa¬zione dei beni non è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il denaro del quale i titoli sono stati acquistati, di disporre della metà dei beni a titolo di liberalità.
Quindi la possibilità che si possa parlare di donazione indiretta, in caso di cointestazione di un conto corrente bancario, non è di per sé esclusa. Occorre però dare la prova che la provvista di denaro sia stata sorretta da un intento di liberalità.
VIII L’acquisto di un immobile cointestato e le ristrutturazioni
Come si è accennato trattando dei diversi esempi di donazione indirette, una donazione indiretta potrebbe essere visibile nelle attribuzioni patrimoniali tra coniugi o conviventi, per esempio nell’ac¬quisto di un immobile in comunione con il partner per quote uguali, pur essendo il prezzo corrisposto solo da uno dei due. In tal caso nessuna possibilità avrebbe il partner disponente di chiedere la resti¬tuzione del bene fondandosi sulla asserita nullità della donazione per mancanza della forma solenne utilizzata. Si è visto infatti che la giurisprudenza ritiene sufficiente per la validità della donazione indiretta la forma tipica dell’atto, nella specie la compravendita, con cui la liberalità è realizzata.
A questi problemi è opportuno dedicare uno spazio specifico.
a) Le spese di acquisto e di ristrutturazione costituiscono un’obbligazione giuridica?
È necessario in via preliminare osservare che le prestazioni contributive (sia obbligatorie che dovute solo moralmente) sono irripetibili6. Il principio di irripetibilità è comune alle obbligazioni contributive (ex art. 143 c.c. o ex art. 1 comma 1 legge 20 maggio 2016, n. 76) e alle obbliga¬zioni naturali (ex art. 2034 c.c.7). Nel primo caso l’irripetibilità discende dal fatto che si tratta di prestazioni dovute. Nel secondo caso discende dalla norma, appunto, l’art. 2034, che la prevede. I doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella formazione sociale costituita dalla convi¬venza refluiscono, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, sui rapporti di natura patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza. Perciò mantenere in tutto o in parte il proprio coniuge o il proprio partner, ospitarlo nella propria casa, sostenerlo economicamente, compartecipare alle spese del ménage quotidiano, adempiere a obbligazioni contratte insieme, consentirgli di viaggiare e di acquistare beni di consumo, contribuire alle necessità comuni e alle necessità del partner, sono tutti comportamenti dai quali non può mai discendere tra coniugi o tra conviventi more uxorio una successiva pretesa restitutoria.
Ebbene, il principio di irripetibilità riguarda le prestazioni contributive, non quelle che esulano da tale connotazione. In altre parole il presupposto della irripetibilità è nella causa contributionis della prestazione. Una prestazione ha carattere contributivo solo in quanto è esecutiva di un dovere (giuridico o morale) di assistenza materiale reciproca. Non se esorbita da tale connotazione. Se la prestazione contributiva non è riconducibile all’obbligo o al dovere morale di assistenza materiale fa sorgere il diritto a chiederne la restituzione. Il discrimine viene individuato nel rapporto di pro¬porzionalità fra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare.
Se i mezzi a disposizione della famiglia sono rilevanti la prestazione potrebbe anche avere carat¬tere contributivo. Ha messo bene in luce questo aspetto Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2004, n. 18749 dove si legge che i bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma dell’art. 143 cod. civ., non si esauriscono in quelli minimi, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch’esse riconducibili alla logica della solidarietà coniugale. Nell’enunciare questo principio la Corte di Cassazione ha confer¬mato la sentenza di merito, la quale – esclusa la configurabilità, nella specie, di un mutuo endofa¬miliare – aveva ritenuto espressione di partecipazione alle esigenze dell’intero nucleo familiare, ai sensi dell’art. 143 c.c., il consistente intervento finanziario della moglie – oltre un miliardo di lire – a titolo di concorso nelle spese relative alla ristrutturazione della casa di villeggiatura di proprietà del marito ma di uso familiare comune.
Allorché l’attribuzione supera il confine del dovere contributivo (in contesti familiari caratterizzati non certo dalle così ampie disponibilità economiche della vicenda esaminata dalla sopra richiemata Cass. 18749/2004) essa diventa, quindi, ripetibile (salvo che non si ravvisino, come si dirà, altre cause giustificative dell’attribuzione), tanto in separazione dei beni che in comunione legale, dove peraltro fa specifica applicazione del principio di ripetibilità di ciò che esorbita dal dovere contribu¬tivo l’art. 192 c.c. che attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme pre¬levate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, ad esempio quelle impiegate per la ristrutturazione di un bene immobile appartenente alla comunione (Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354).
L’art. 192 c.c. in altre parole, consentendo al coniuge in comunione legale che ha anticipato
6 Cfr la voce PRINCIPIO CONTRIBUTIVO
7 Art. 2034 (Obbligazioni naturali). Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace.
I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri effetti.
somme del proprio patrimonio personale impiegate in spese e investimenti dei beni comuni, di richiederne la restituzione, a maggior ragione porta ad attribuire questo diritto anche al coniuge in separazione dei beni, non potendosi concepire che nell’ambito dei regimi primari possa sussistere una irragionevole differenziazione quanto ai diritti fondamentali di ciascun coniuge.
b) Le spese di acquisto e di ristrutturazione possono costituire un’obbligazione naturale?
La questione è stata esaminata anche dal punto di vista dei diritti di restituzione tra conviventi more uxorio.
Con riferimento ai doveri morali di solidarietà tra conviventi Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1277 ha molto chiaramente confermato che le attribuzioni patrimoniali del convivente more uxorio alla compagna durante la convivenza costituiscono adempimento di doveri morali e sociali, che trovano la loro regolamentazione nell’art. 2034 del codice civile, che disciplina le obbligazioni naturali, le quali determinano, come effetto, la soluti retentio, ovvero l’impossibilità di ottenere la ripetizione di quanto spontaneamente pagato, a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze nonché proporzionata all’entità del patrimonio e delle condizioni sociali del solvens. Nella vicenda che fa da sfondo alla sentenza in questione la Corte d’appello aveva ritenuto che avessero natura indennitaria i periodici versamenti di denaro effettuati da un uomo alla partner, nel corso della convivenza svoltasi per diversi anni in Cina, ove egli si era trasferito per lavoro, al fine di consentirle l’estinzione di una precedente posizione debitoria personale, dopo che la donna aveva sì dato le dimissioni da un’attività ben retribuita in Italia, per seguire il compagno all’estero. Nel cassare la decisione la sentenza della Cassazione ritiene di dover qualificare tali attribuzioni come obbligazioni naturali, ricordando che il discrimine fra l’adempimento dei doveri sociali e mo¬rali, quale può individuarsi in qualsiasi contributo fra conviventi, destinato al ménage quotidiano ovvero espressione della solidarietà fra persone unite da un legame intenso e duraturo, e l’atto di liberalità, va individuato, oltre che nella spontaneità, soprattutto nel rapporto di proporzionalità fra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare. Orbene, tale requisito, riconosciuto in relazione alle obbligazioni naturali in generale, deve essere ribadito in riferimento all’adempi¬mento di doveri morali e sociali nella convivenza more uxorio.
Perciò la sussistenza di una obbligazione naturale, come ha anche recentemente chiarito Cass. civ. Sez. II, 30 settembre 2016, n. 19578, postula una duplice indagine, finalizzata ad accer¬tare se ricorra un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di propor¬zionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso.
È evidente che prestazioni economiche esorbitanti da tali doveri (il cui contenuto, cioè, esorbita dal dovere di solidarietà familiare) sono per ciò stesso ripetibili.
Già in passato Cass. civ. Sez. II, 13 marzo 2003, n. 3713 aveva affermato che le prestazioni pa¬trimoniali di uno dei conviventi more uxorio non possono inquadrarsi nello schema dell’obbligazione naturale se hanno come effetto esclusivo l’arricchimento del partner e non sussiste un rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi.
In giurisprudenza di merito sintetizza molto bene il principio generale Trib. Vicenza Sez. I, 23 ottobre 2013 secondo cui un’attribuzione patrimoniale in favore del convivente more uxorio con¬figura l’adempimento di un’obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens, non potendo le prestazioni patrimoniali inquadrarsi nello schema dell’obbligazione naturale ove abbia¬no come effetto esclusivo l’arricchimento del partner e non sussista un rapporto di proporzionalità tra quanto sborsato ed i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dagli stessi soggetti.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Trib. Monza, 18 novembre 1999.
L’esclusione del rapporto di proporzionalità tra l’attribuzione patrimoniale e l’adempimento dei doveri morali e sociali costituisce pacificamente un accertamento di fatto in linea di massima in¬censurabile in sede di legittimità.
Pertanto – e salvo quanto si dirà in ordine alla possibile e plausibile configurazione di una liberalità o di una donazione indiretta – la messa a disposizione di propri capitali per finalità non di consumo quotidiano, per esempio per una ristrutturazione immobiliare o investimenti patrimoniali, non è un comportamento assistito di per sé dalla garanzia dell’irripetibilità, ben potendo la parte che ha messo a disposizione dell’altro questi importi, in difetto di altre “cause” che giustifichino l’irripeti¬bilità, chiederne legittimamente la restituzione.
Assodato quindi che l’intervento economico significativo di uno dei coniugi in spese di acquisto di un immobile comune o di ristrutturazione a vantaggio della proprietà comune esubera dal dovere (giuridico o morale) contributivo, resta anche acclarato che non trova applicazione, da questo punto di vista, il principio di irripetibilità da parte di chi ha sostenuto quelle spese. In tal caso l’ingiustificato arricchimento del coniuge che di tale intervento si è avvantaggiato comporterà il dovere di restituzione in base all’art. 2033 c.c. sull’indebito oggettivo.
c) Le spese di acquisto e di ristrutturazione possono essere inquadrate nell’ambito della donazione indiretta?
Si tratta ora di verificare se l’intervento economico in questione possa avere una causa “donatio¬nis” che escluda l’irripetibilità.
A questa domanda – in una fattispecie in cui il marito aveva acquistato un immobile intestandolo an¬che alla moglie finanziandone in via esclusiva i lavori di ristrutturazione – ha dato una risposta affer¬mativa Cass. civ. Sez. III, 4 ottobre 2018, n. 24160 sostenendo che l’acquisto da parte del ma¬rito di una casa intestata anche alla moglie e i conferimenti patrimoniali del marito volti a finanziare i relativi lavori di ristrutturazione costituiscono (meglio possono costituire) una donazione indiretta.
L’affermazione – che presenta alcuni elementi di non linearità che verranno richiamati più oltre – va contestualizzata. Si legge infatti nella motivazione della decisione che “Avendo la corte d’ap¬pello escluso che si tratti di una intestazione fiduciaria… nonché avendo escluso l’esistenza di una qualsiasi causa giustificativa di tale attribuzione al di fuori dello scopo di liberalità, implicitamente la sentenza impugnata ha accertato l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accerta¬mento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della detta cointestazione, altro sco¬po che quello della liberalità (Cass. n. 4682 del 20188 che si occupa di cointestazione di un conto corrente bancario), collocando l’attività con la quale il marito ha fornito il denaro affinché la moglie divenisse con lui comproprietaria degli immobili nell’ambito della donazione indiretta in quanto esprimente una finalità di liberalità”. Continua così la motivazione: “La giurisprudenza di legitti¬mità è consolidat nel ritenere che il conferimento in denaro effettuato da un coniuge, attraverso il quale l’altro coniuge acquisti un immobile sia riconducibile nell’ambito della donazione indiretta9, come tale perseguente un fine di liberalità e soggetta ai soli obblighi di forma previsti per il nego¬zio attraverso il quale si realizza l’atto di liberalità, e revocabile solo per ingratitudine: v. Cass. n. 3147 del 198010, secondo la quale la donazione indiretta ha la sua causa, cosi come la donazione diretta, nella liberalità, e cioè nella consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario mediante attribuzioni od erogazioni patrimoniali operate nullo iure cogente. Ciò comporta che nell’ipotesi di donazione indiretta – valida anche tra coniugi, essendo da tempo venuto meno il divieto contenuto nell’art. 781 cod. civ. – vanno seguiti, ai fini dell’individuazione della causa e della rilevazione dei suoi vizi, i medesimi principi e criteri che valgono per la donazione diretta” 11.
Tra questi criteri vi è, appunto, quello secondo cui ai fini dell’attribuzione della qualifica di donazione indiretta ad una attribuzione patrimoniale deve essere “verificata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointe-stazione, altro scopo che quello della liberalità” (cfr la parte di motivazione sopra riportata). Pertan¬to se nella fattispecie al suo esame la Corte ha ritenuto di intravedere gli estremi della donazione indiretta (avendo la Corte d’appello escluso ogni altra “causa” dell’attribuzione) è anche altrettanto vero che spetta al soggetto che agisce in giudizio dimostrare la sussistenza degli elementi sui quali la domanda di restituzione è fondata e quindi la “causa” che sorreggeva l’attribuzione e che con¬sente la ripetibilità, mentre è compito del beneficiario dell’attribuzione dedurre elementi idonei a delineare una giustificazione causale del trasferimento che fonda una asserita irripetibilità.
La sentenza 24160/2018 continua nell’esame dei principi affermati dalla giurisprudenza in ma¬teria di donazione indiretta richiamando altre due sentenze. Precisamente Cass. civ. Sez. II,
8 Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682 citata, per la verità in modo non del tutto pertinente, afferma che “La cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, è qualificabile come donazione indiretta qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario: a condizione, però, che sia veri¬ficata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità”.
9 Che la giurisprudenza di legittimità sia “consolidata” in tal senso è tutto da dimostrare ed infatti la sentenza non riporta alcun precedente specifico su tale questione.
10 Cass. civ., 13 maggio 1980, n. 3147 non afferma, però, il principio che le attribuzioni di un coniuge vanno considerate una donazione indiretta ma semplicemente che “La donazione indiretta ha la sua causa, così come la donazione diretta, nella liberalità, e cioè nella consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario mediante attribuzioni od erogazioni patrimoniali operate nullo iure cogente. Ciò comporta che nell’ipotesi di do¬nazione indiretta – valida anche tra coniugi, essendo venuto meno il divieto contenuto nell’art. 781 c.c. – vanno seguiti, ai fini dell’individuazione della causa e della rilevazione dei suoi vizi, i medesimi principi e criteri che valgono per la donazione diretta. (Nella specie, l’attore agiva per la restituzione di beni intestati alla moglie, in base alla considerazione che questi, oggetto di donazione indiretta, dovevano essere destinati a vantaggio della famiglia e alla normale convivenza dei coniugi, e i giudici del merito hanno escluso che incombesse alla donataria l’onere di provare lo spirito di liberalità del donante, per poter trattenere i beni in questione nonostante la so¬pravvenuta separazione giudiziale tra i coniugi, ritenendo che, per contro, spettasse al donante dimostrare che la donazione fosse preordinata o subordinata alle pretese finalità, divenute irrealizzabili o frustrate dalla donataria. La Suprema Corte, nel confermare questa decisione, ha enunciato il precisato principio).
11 Precisa la Corte che “nella specie, l’attore agiva per la restituzione di beni intestati alla moglie, in base alla considerazione che questi, oggetto di donazione indiretta, dovevano essere destinati a vantaggio della famiglia e alla normale convivenza dei coniugi, e i giudici del merito hanno escluso che incombesse alla donataria l’onere di provare lo spirito di liberalità del donante, per poter trattenere i beni in questione nonostante la sopravvenuta separazione giudiziale tra i coniugi, ritenendo che, per contro, spettasse al donante dimostrare che la donazione fosse preordinata o subordinata alle pretese finalità divenute irrealizzabili o frustrate dalla donataria. La Corte suprema, nel confermare questa decisione, ha enunciato il precisato principio). I principi sulla donazione indi¬retta sono costanti, ripresi di recente da Cass. n. 3134 del 2012, che ha puntualizzato che se unico è il fine, di liberalità, della donazione indiretta, diverso può essere il mezzo attraverso questa si può esplicare, non limitato al più tipico e ricorrente, ovvero il conferimento dell’intera somma di denaro necessaria per un determinato acquisto, e da Cass. n. 1986 del 2016, che ha puntualizzato che nel caso di acquisto di un immobile da parte di un soggetto, con denaro fornito da un terzo per spirito di liberalità, si configura una donazione indiretta, che si differenzia dalla simulazione giacché l’attribuzione gratuita viene attuata, quale effetto indiretto, con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti (da ciò, la sentenza fa discendere che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo”.
29 febbraio 2012, n. 3134 (secondo cui “la donazione indiretta è caratterizzata dal fine per¬seguito di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, ivi compresi più negozi tra loro collegati, come nel caso in cui un soggetto, stipulato un contratto di compravendita, paghi o si impegni a pagare il relativo prezzo e, essendosene riservata la facoltà nel momento della conclusione del contratto, provveda ad effettuare la dichiarazione di nomina, sostituendo a sé, come destinatario degli effetti negoziali, il beneficiario della liberalità, così consentendo a quest’ultimo di rendersi acquirente del bene ed intestatario dello stesso”) e Cass. civ. Sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1986 (secondo cui “nel caso di acquisto di un immobile da parte di un soggetto, con denaro fornito da un terzo per spirito di liberalità, si configura una donazione indiretta, che si differenzia dalla simulazione giacché l’attribuzione gratuita viene attuata, quale effetto indiretto, con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti ed alla quale, pertanto, non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo”).
In entrambe le sentenze richiamate – riferite all’acquisto di immobili – non viene affermato, però, nulla che imponga la soluzione che l’acquisto costituisca ontologicamete una donazione indiretta, ma soltanto che nelle vicende esaminate la suddetta qualificazione era del tutto plausibile.
Quanto alla circostanza invece in cui uno dei coniugi sopporti da solo le spese di ristrutturazione per la casa comune la sentenza 24160/2018 si chiede “se il coniuge comproprietario che sostiene per intero spese di finitura o relative a migliorie all’interno dell’immobile cointestato, possa ripete¬re dall’altro coniuge la metà di quanto ha pagato ed a quali condizioni”.
La risposta è che “Le considerazioni sopra svolte circa il fine di liberalità e la riconducibilità alla donazione indiretta dell’attività svolta da un coniuge per far acquistare all’altro la proprietà di un immobile, valgono a fortiori in riferimento ai conferimenti patrimoniali eseguiti spontaneamente dal coniuge in costanza di matrimonio e volti a finanziare lavori nell’immobile che ha fatto acqui¬stare in proprietà esclusiva dell’altro coniuge o in regime di comproprietà. La donazione indiretta, in quanto tale, gode di stabilità, in quanto essa non può essere revocata che per ingratitudine…. Deve però rilevarsi che analoga finalità di liberalità in favore del coniuge non può automaticamen¬te attribuirsi ai pagamenti fatti o alle spese sostenute per l’immobile in comproprietà anche dopo la separazione: spetterà quindi al giudice del merito distinguere i pagamenti effettuati e le spese sostenute in costanza di matrimonio e prima che sia intervenuta la separazione personale delle parti e quelli effettuati dal marito successivamente (v. Cass. n.7981 del 201412, che ben delinea la differente situazione pre e post separazione personale affermando che nel regime di separazione non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state espe¬rite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione)… Eventuali conferimenti e spese successivi alla separazione, non sussistendo la finalità di liberalità, dovranno essere considerati esclusivamente spese sostenute da uno dei comproprietari in favore del bene in comunione, e quindi il giudice di merito dovrà valutare se la moglie possa essere condannata a restituirne il 50% al marito facendo applicazione delle regole ordinarie applicabili in materia di comunione ordinaria, secondo le quali (v. Cass. n. 20652 del 2013) “In tema di spese di conservazione della cosa comune, l’art. 1110 cod. civ., escludendo ogni rilievo dell’urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il partecipante alla comunione, il qua¬le, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell’amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso, a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno, preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l’amministratore, sicché solo in caso di inattività di questi ultimi egli può procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso, pur in mancanza della prestazione del consenso da parte degli interpel¬lati, incombendo comunque su di lui l’onere della prova sia della suddetta inerzia che della ne¬cessità dei lavori”. Il principio è ribadito da Cass. n. 353 del 20131 “L’art. 1110 cod. civ. consente eccezionalmente la ripetibilità delle spese sostenute dal singolo partecipante alla comunione, in caso di trascuranza degli altri, limitatamente a quelle necessarie per la conservazione della cosa, ossia al mantenimento della sua integrità. Ne consegue che restano esclusi dal diritto al rimborso gli oneri occorrenti soltanto per la migliore fruizione della cosa comune, come le spese per l’il¬luminazione dell’immobile, ovvero per l’adempimento di obblighi fiscali, come l’accatastamento del bene”. Il coniuge comproprietario avrà diritto di ripetere il 50% delle spese che ha sostenuto per la conservazione ed il miglioramento della cosa comune non in ogni caso ed illimitatamente, ma purché abbia avvisato preliminarmente l’altro comproprietario e purché questi, a fronte di un intervento necessario, sia rimasto inerte”.
In sintesi la sentenza 24160/2018 afferma il principio generale della irripetibilità dei capitali impiegati per spese di acquisto o di ristrutturazione ove sia accertata la loro natura di donazione indiretta e non che tali attribuzioni patrimoniali costituiscano ontologicamente una donazione indiretta (“…Avendo la corte d’appello escluso che si tratti di una intestazione fiduciaria… non¬ché avendo escluso l’esistenza di una qualsiasi causa giustificativa di tale attribuzione al di fuori dello scopo di liberalità, implicitamente la sentenza impugnata ha accertato l’esistenza dell’”animus donandi”…).
12 Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981: La sospensione della prescrizione non opera tra coniugi separati legalmente.

d) I casi di ripetibilità
La prova di una “causa” diversa da quella “contributionis” o “donationis” può essere data in giudi¬zio nei limiti dell’ammissibilità della prova previsti dal codice civile13.
La parte che chiede la restituzione dei capitali impiegati per l’acquisto o per la ristrutturazione può provare per esempio che si trattava di un prestito (mutuo) tra coniugi con riserva quindi di restitu¬zione degli importi da parte dell’altro coniuge; può provare l’esistenza di un accordo di anticipazio¬ne in vista della restituzione al momento della divisione del bene comune; può provare l’impegno dell’altro coniuge alla restituzione al terzo che abbia anticipato i capitali (per esempio al genitore di uno dei coniugi); può provare che al terzo che abbia anticipato i capitali al coniuge utilizzatore fosse stato garantita la restituzione da entrambi i coniugi. Qualunque evento, insomma, idoneo a smentire la causa su cui si fonda l’asserita irripetibilità.
Impedire che questa prova possa essere data significherebbe introdurre una presunzione di irripe¬tibilità che è smentita da tutte le regole previste per il caso di anticipazione da parte di un coniuge dei capitali utilizzati per migliorie sull’immobile comune.
Il principio di ripetibilità delle attribuzioni non aventi natura contributiva costituisce un’applica¬zione del principio generale di ripetibilità delle attribuzioni prive di una causa giustificatrice (art. 2033 c.c.: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha il diritto di ripetere ciò che ha pagato”). E, come si è sopra visto, attribuzioni esorbitanti dal dovere (giuridico o morale) di contribuzione e di assistenza materiale costituiscono senz’altro “pagamenti non dovuti”.
Molto chiare su questi aspetti sono Cass. civ. Sez. III, 22 settembre 2015, n. 18632 e Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330 dove si chiarisce che l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro, avvenuta senza giusta causa. In particolare – si legge in quest’ultima sentenza – l’ingiustizia dell’arricchimento da parte nella specie di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro è configurabile in presenza di prestazioni a van¬taggio del primo, che esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di con¬vivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali della famiglia di fatto, e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza; la mancanza o la ingiustizia della causa non è, invece, invocabile qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità, ovvero dell’adempimento di una obbligazione naturale.
La giurisprudenza aveva anche prima avuto modo di occuparsi espressamente di questo problema in una vicenda in cui il marito con denaro proprio aveva effettuato alcune migliorie ad una casa di proprietà della moglie (Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1989, n. 2199). Nella decisione era stato applicato l’art. 1150 c.c. secondo cui “il possessore, anche se in mala fede, ha diritto al rimborso per le spese fatte per le riparazioni straordinarie”. La sentenza non rimase isolata dal momento che lo stesso principio è stato poi ripreso da Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 1995, n. 5866 che ha applicato sempre l’art. 1150 c.c.
Il rimborso delle spese effettuate (art. 1150 c.c.) potrebbe non essere altrettanto vantaggioso quanto la minor somma tra lo speso e il migliorato (art. 985 c.c. sull’usufrutto ritenuto applicabile dalla dottrina) ma è sempre meglio di niente. In realtà nessuna delle due soluzioni è del tutto ap¬pagante, perché l’art. 985 c.c. (richiamato, come detto, dalla dottrina) presuppone che il coniuge non proprietario sia considerato usufruttuario (il che è evidentemente una forzatura) mentre l’art. 1150 c.c. (richiamato dalla giurisprudenza citata) presuppone che il coniuge sia considerato pos¬sessore (mentre, invece, è certamente detentore e non possessore).
In ogni caso il principio è sempre quello che chi si arricchisce di qualcosa che non è “dovuto” deve indennizzare l’autore dell’arricchimento (art. 2041 c.c.14).
13 Art. 2721 (Ammissibilità: limiti di valore)
La prova per testimoni dei contratti non è ammessa quando il valore dell’oggetto eccede gli € 2,58.
Tuttavia l’autorità giudiziaria può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza.
Art. 2724 (Eccezioni al divieto della prova testimoniale)
La prova per testimoni è ammessa in ogni caso:
1) quando vi è un principio di prova per iscritto: questo è costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato;
2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta;
3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova.
Art. 2725 (Atti per i quali è richiesta la prova per iscritto o la forma scritta)
Quando secondo la legge o la volontà delle parti , un contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso indicato dal n. 3 dell’articolo precedente.
La stessa regola si applica nei casi in cui la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità.
Art. 2727 (Nozione)
Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato.
Art. 2729 (Presunzioni semplici)
Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.
Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni.
14 Art. 2041 (Azione generale di arricchimento)
Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. Qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda.
Art. 2042 (Carattere sussidiario dell’azione)
L’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi inden¬nizzare del pregiudizio subìto.
DONAZIONE INDIRETTA
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. II, 18 luglio 2019, n. 19400 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donazione indiretta è un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore; differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza gravata che aveva ritenuto l’esistenza di donazioni indirette sulla base di prove presuntive).
Cass. civ. Sez. II, 17 aprile 2019, n. 10759 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Si ha donazione indiretta di un bene (nella specie, un immobile) anche quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo della relativa compravendita dovuto dal donatario, laddove sia dimostrato lo specifico collega¬mento tra dazione e successivo impiego delle somme, dovendo, in tal caso, individuarsi l’oggetto della liberalità, analogamente a quanto affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato pari alla quota di prezzo corrisposta con la provvista fornita dal donante.
Cass. civ. Sez. II, 19 marzo 2019, n. 7681 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei contratti di scambio, la donazione indiretta è configurabile solo a condizione che le parti abbiano volutamen¬te stabilito un corrispettivo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto, con l’intento, desumibile dalla notevole entità della sproporzione tra il valore reale del bene e la misura del corrispettivo, di arricchire la parte acquirente per la parte eccedente quanto pattuito.
Corte d’Appello Catania Sez. II, 8 gennaio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donazione indiretta consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipi¬co dell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità medesima.
Cass. civ. Sez. III, 4 ottobre 2018, n. 24160 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’attività con la quale il marito fornisce il denaro affinché la moglie divenga con lui comproprietaria di un im¬mobile è riconducibile nell’ambito della donazione indiretta, così come sono ad essa riconducibili, finché dura il matrimonio, i conferimenti patrimoniali eseguiti spontaneamente dal donante, volti a finanziare lavori nell’im¬mobile, giacché tali conferimenti hanno la stessa causa della donazione indiretta. Tuttavia, dopo la separazione personale dei coniugi, analoga finalità non può automaticamente attribuirsi ai pagamenti fatti dal marito o alle spese sostenute per l’immobile in comproprietà, poiché in tale ultimo caso non può ritenersi più sussistente la finalità di liberalità e tali spese dovranno considerarsi sostenute da uno dei comproprietari in regime di comu¬nione, con l’applicazione delle regole ordinarie ad essa relative. Conseguentemente, il coniuge comproprietario potrà ripetere il 50% delle spese che ha sostenuto per la conservazione ed il miglioramento della cosa comune, purché abbia avvisato preliminarmente l’altro comproprietario e purché questi, a fronte di un intervento neces¬sario, sia rimasto inerte.
Cass. civ. Sez. VI – 2, 24 luglio 2018, n. 19537 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove la donazione riguardi una somma di denaro impiegata dal donatario per l’acquisto della casa familiare e ove detto acquisto sia condiviso con il coniuge, il donatario in tal modo dona al coniuge il 50% della proprietà con¬sentendone l’intestazione allo stesso. Non può pertanto ravvisarsi una donazione indiretta dell’intero immobile al donatario tale da escludere la comunione del bene tra i coniugi. (Nella fattispecie, la Corte ha respinto il ricorso proposto dall’ex marito contro la ex moglie al fine di vedersi riconosciuta l’esclusiva proprietà dell’immobile oggetto, a suo dire, di donazione indiretta da parte della madre la quale gli aveva fornito il denaro necessario all’acquisto.)
La somma di denaro donata dal genitore al figlio, coniugato in regime di comunione legale dei beni, non costi¬tuisce un’ipotesi di donazione indiretta e l’immobile acquistato con tale denaro entra a far parte del regime di comunione legale dei beni, anche se manca un atto che rivesta la forma richiesta dalla legge per la validità delle donazioni, e cioè l’atto pubblico stipulato alla presenza di due testimoni.
Tribunale Ferrara, 4 aprile 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’atto di cointestazione con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito-qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari, può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi.
Tribunale Frosinone, 30 marzo 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’acquisto di un immobile da parte di una persona con denaro di altra persona integra gli estremi di una dona¬zione indiretta, se il denaro, quale corrispettivo della vendita, viene corrisposto, nella sua interezza, dal donante al donatario allo specifico scopo dell’acquisto del bene, oppure mediante il versamento diretto dell’importo al venditore.
Tribunale Firenze, 16 marzo 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda volta alla revoca della pretesa donazione indiretta, in conseguenza di grave ingiuria e/o grave pre¬giudizio dolosamente arrecato al proprio patrimonio quale donante, da parte del donatario, non può trovare ac¬coglimento in assenza di una prova adeguata della esistenza di una donazione a ed a fronte di una dichiarazione confessoria delle parti di segno contrario e non revocabile.
Tribunale Trani, 13 marzo 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negotium mixtum cum donatione costituisce una donazione indiretta attuata attraverso l’utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo, per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo invece sufficiente la forma dello schema negoziale adottato.
Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682 (Famiglia e Diritto, 2018, 8-9, 745 nota di BONAMINI)
La cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, è qualificabile come donazione indiretta qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario: a condizione, però, che sia veri¬ficata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Tribunale Torino Sez. II, 29 gennaio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di donazione indiretta, l’onere probatorio è ripartito nel senso che spetta al soggetto che agisce in giu¬dizio dimostrare la sussistenza, nella fattispecie concreta, degli elementi costitutivi della liberalità, ovvero dell’ar¬ricchimento unilaterale non remunerato e dell’animus donandi in capo al disponente, mentre è compito del bene¬ficiario dell’attribuzione dedurre elementi idonei a delineare una diversa giustificazione causale del trasferimento.
Trib. Taranto Sez. II, 1 agosto 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve escludersi che il contratto di assicurazione sulla vita in favore dell’erede legittimo o testamentario pos¬sa qualificarsi quale donazione indiretta del contraente in favore dei terzi designati. Infatti, la corresponsione dell’indennità in favore del beneficiario, pur se derivante dal contratto stipulato dal contraente assicurato a favore del terzo designato, non determina un corrispondente depauperamento del patrimonio del contraente assicurato e, pertanto, non può ritenersi costituire oggetto di un atto di liberalità ai sensi dell’art. 809 c.c., assoggettabile alle norme sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari. II solo depauperamento che si verifica nel patrimonio del contraente assicurato è costituito dal versamento dei premi assicurativi da lui eseguito in vita e, pertanto, solo le somme versate a tale titolo possono considerarsi oggetto di liberalità indiretta a favore del terzo designato come beneficiario, con conseguente assoggettabilità all’azione di riduzione proposta dagli eredi legittimi.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2017, n. 18725 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal di¬sponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta. Ne deriva che la stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiarlo, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore.
La donazione indiretta non si identifica totalmente con la donazione, cioè con il contratto rivolto a realizzare la specifica funzione dell’arricchimento diretto di un soggetto a carico di un altro soggetto, il donante, che nulla ottiene in cambio, in quanto agisce per spirito di liberalità. Si tratta di liberalità che si realizzano: (a) con atti diversi dal contratto (ad esempio, con negozi unilaterali come l’adempimento del terzo o le rinunce abdicative); (b) con contratti (non tra donante e donatario) rispetto ai quali il beneficiario è terzo; (c) con contratti caratte¬rizzati dalla presenza di un nesso di corrispettività tra attribuzioni patrimoniali; (d) con la combinazione di più negozi (come nel caso dell’intestazione di beni a nome altrui). La configurazione della donazione come un con¬tratto tipico a forma vincolata e sottoposto a regole inderogabili obbliga infatti a fare ricorso a questo contratto per realizzare il passaggio immediato per spirito di liberalità di ingenti valori patrimoniali da un soggetto ad un altro, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che il legislatore consenta il compimento in forme differenti di uno stesso atto, imponendo, però, l’onere della forma solenne soltanto quando le parti abbiano optato per il contratto di donazione.
Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 2017, n. 15954 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il pagamento effettuato in esecuzione di una pattuizione contrattuale successivamente dichiarata nulla è ripetibi¬le, perché non può qualificarsi come adempimento di un’obbligazione naturale in quanto non è possibile rinvenire il presupposto della spontaneità né quello dell’esecuzione di un dovere morale o sociale.
Cass. civ. Sez. VI – 2, 7 giugno 2017, n. 14203 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 785 c.c., la donazione obnuziale, essendo un negozio formale e tipico caratterizzato dall’espres¬sa menzione, nell’atto pubblico, delle finalità dell’attribuzione patrimoniale eseguita da uno degli sposi o da un terzo in riguardo di un futuro, “determinato”, matrimonio, è incompatibile con l’istituto della donazione indiretta, in cui lo spirito di liberalità viene perseguito mediante il compimento di atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c.; infatti, la precisa connotazione della causa negoziale, che deve espressamente risultare dal contesto dell’atto, non può rinvenirsi nell’ambito di una fattispecie indiretta, nella quale la finalità suddetta, ancorché in concreto perseguita, può rilevare solo quale motivo finale degli atti di disposizione patrimoniale fra loro collegati ma non anche quale elemento tipizzante del contratto, chiaramente delineato dal legislatore nei suoi requisiti di forma e di sostanza, in vista del particolare regime di perfezionamento, efficacia e caducazione che lo contrad¬distingue dalle altre donazioni.
La donazione obnuziale ha un carattere necessariamente formale, che richiede la specifica indicazione di un determinato matrimonio, in vista del quale la donazione è effettuata, e risulta, pertanto, incompatibile con il meccanismo della donazione indiretta.
Tribunale Roma Sez. I, 6 giugno 2017 (Famiglia e Diritto, 2018, 7, 687 nota di Restuccia)
La possibilità che la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora appartenuta ad uno solo dei cointestatari, possa costituire donazione indiretta è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che, al momento del¬la cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità. Ciò vale per il denaro giacente sul conto al momento in cui avvenga la cointestazione, mentre nel diverso caso in cui i versamenti da parte di uno dei correntisti siano effettuati successivamente alla cointestazione, la donazione indiretta sarebbe preclusa dal divieto di donazione di beni futuri sancito dall’art. 771 c.c.
Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2017, n. 13619 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra – anche ai fini della collazione – donazione indiretta del bene stesso e non del danaro.
Trib. Lucca, 25 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella donazione indiretta l’attribuzione gratuita viene attuata con un negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti che lo pongono in essere; in tal caso il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di libe¬ralità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore.
Cass. civ. Sez. II, 4 gennaio 2017, n. 106 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La Seconda Sezione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, della questione, oggetto di contrasto, concernente gli strumenti utilizzabili onde porre in essere una donazione indiretta, ex art. 809 c.c., ed il relativo meccanismo di funzionamento.
Cass. civ. Sez. II, 30 settembre 2016, n. 19578 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La liberalità fatta per riconoscenza nei confronti del beneficiario (cd. donazione rimuneratoria) differisce dall’ob¬bligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c., la cui sussistenza postula una duplice indagine, finalizzata ad accertare se ricorra un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adegua¬tezza in relazione a tutte le circostanze del caso.
Cass. civ. Sez. II, 15 luglio 2016, n. 14551 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la validità della donazione indiretta, non è necessaria la forma della donazione (atto pubblico a pena di nulli¬tà), bensì quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti. Infatti, l’art. 809 c.c., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione
Cass. civ. Sez. V, 24 giugno 2016, n. 13133 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla donazione indiretta effettuata dal padre ai figli di un assegno di circolare dell’ammontare di euro 2.500.000 si applica l’imposta di successione e donazione secondo le franchigie previste dall’art. 56-bis del D.Lgs. n. 346/1990 ratione temporis applicabili.
Cass. civ. Sez. III, 19 febbraio 2016, n. 3263 (Famiglia e Diritto, 2018, 1, 19 nota di Perillo)
Nell’assicurazione sulla vita la designazione quale terzo beneficiario di persona non legata al designante da alcun vincolo di mantenimento o dipendenza economica deve presumersi, fino a prova contraria, compiuta a spirito di liberalità, e costituisce una donazione indiretta. Ne consegue che è ad essa applicabile l’art. 775 c.c., e se compiuta da incapace naturale è annullabile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito. Deve peraltro precisarsi che il donatum originario è costituito dai premi versati all’assicuratore giacché il pagamento del premio ha integrato il c.d. negozio-mezzo (l’assicurazione) utilizzato per conseguire il negozio-fine (la donazione), mentre il pagamento dell’indennizzo da parte dell’assicuratore ha costituito il risultato finale utile dell’operazione per il beneficiario.
Cass. civ. Sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di acquisto di un immobile da parte di un soggetto, con denaro fornito da un terzo per spirito di libe¬ralità, si configura una donazione indiretta, che si differenzia dalla simulazione giacché l’attribuzione gratuita viene attuata, quale effetto indiretto, con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti ed alla quale, pertanto, non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo.
Cass. civ. Sez. I, 25 gennaio 2016, n. 1266 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le unioni di fatto, quali formazioni sociali rilevanti ex art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale, di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimonia¬le e si configurano come adempimento di un’obbligazione naturale ove siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza. Ne consegue che, in un tale contesto, l’attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente “more uxorio” assume una siffatta connotazione quando sia espressione dei vincoli di solidarietà ed affettività di fatto esistenti, alternativi a quelli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, benché non possa escludersi che, talvolta, essa trovi giustificazione proprio in quest’ulti¬mo, del quale deve fornirsi prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce valutazione, riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva negato la natura di obbligazione naturale al contributo lavorativo della donna all’azienda del convivente, in quanto fonte di arricchimento esclusivo dello stesso in luogo di quello dell’intera famiglia cui detto apporto lavorativo era preordinato).
Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 2015, n. 21449 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donazione indiretta si caratterizza per il fine perseguito e non già per lo strumento negoziale adottato a tal scopo, che dunque può essere costituito da qualunque negozio o da più negozi collegati. Il negozio indiretto, dunque, è il risultato del collegamento tra i due negozi. In particolare, la donazione indiretta consiste nell’elar¬gizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico descritto nell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità medesima.
Cass. civ. Sez. III, 22 settembre 2015, n. 18632 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro, avvenuta senza giusta causa. In particolare, l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro è configurabile in presenza di prestazioni a vantaggio del primo, che esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali della famiglia di fatto, e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. La mancanza o la ingiustizia della causa non è, invece, invocabile qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità, ovvero dell’adempimento di una obbli¬gazione naturale.
Cass. civ. Sez. II, 4 settembre 2015, n. 17604 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, si configura la donazione indiretta dell’immobile e non del denaro impiegato per l’acquisto, sicché, in caso di collazione, secondo le previsioni dell’art. 737 c.c., il con¬ferimento deve avere ad oggetto l’immobile e non il denaro.
Trib. Treviso, 15 giugno 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel cosiddetto “negotium mixtun cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio com¬mutativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’ar¬ricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò realizzando il negozio posto in essere una fattispecie di donazione indiretta.
Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2015, n. 7683 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’assicurazione sulla vita la designazione quale terzo beneficiario di persona non legata al designante da alcun vincolo di mantenimento o dipendenza economica deve presumersi, fino a prova contraria, compiuta a titolo di liberalità e costituisce una donazione indiretta; ne consegue che, se compiuta da un incapace naturale, è annul¬labile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito.
Trib. Torre Annunziata Sez. II, 3 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La rinuncia all’usufrutto, se ispirata da animus donandi, è suscettibile di integrare una donazione indiretta a favore del nudo proprietario dei beni gravati dal diritto reale parziario rinunciato, perché, comportando un’estin¬zione anticipata di tale diritto, si risolve nel conseguimento, da parte di detto dominus, dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza: il controvalore di tali vantaggi è, pertanto, senz’altro passibile di convogliamento nella massa ereditaria di cui all’art. 556 c.c.
Cass. civ. Sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819 (Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, 577 nota di MAZZARIOL)
Costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via ri¬flessa tutti gli altri comproprietari; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un negozio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di donazione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per quest’ultimo.
La rinuncia abdicativa della quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comunisti, mediante eliminazione dello stato di compressione in cui il diritto di questi ultimi si trovava a causa dell’appartenenza in comunione anche ad un altro soggetto, costituisce donazione indiretta, senza che sia all’uopo necessaria la forma dell’atto pubblico, essendo utilizzato per la realizzazione del fine di liberalità un negozio diverso dal contratto di donazione.
La rinuncia alla quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari, costituisce donazione indiretta e come tale non richiede la forma dell’atto pubblico.
Trib. Genova, 20 febbraio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia successoria, nel caso in cui un soggetto abbia erogato il denaro per l’acquisto di un immobile al pro¬prio figlio, deve distinguersi la donazione diretta del danaro, ove l’oggetto della liberalità rimane il denaro, dal caso in cui il denaro sia il mezzo fornito per l’acquisto della casa. In tale ipotesi, il collegamento tra l’elargizione del denaro e l’acquisto dell’immobile porta a ritenere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immo¬bile stesso e non già del denaro impiegato per il suo acquisto.
Tribunale Modena Sez. II, 20 ottobre 2014 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 396 nota di MASTROBERARDINO)
L’assicurazione sulla vita stipulata a beneficio di terzi integra i requisiti della donazione indiretta, laddove non vi siano rapporti pregressi tra assicurato e beneficiario. L’assenza di qualsivoglia legame di carattere economico o sociale tra assicurato e beneficiario è indice di sussistenza dello spirito di liberalità. Ciò viene avvalorato nel caso in cui sia designato, quale beneficiario, un ente dedito a fini assistenziali. Il premio versato dall’assicurato, costituente il diretto impoverimento del donante, fornisce la causa dell’arricchimento del donatario. Per la di¬chiarazione di incapacità naturale del contraente è sufficiente un perturbamento psichico, anche solo transitorio, tale da menomarne gravemente, pur senza escluderle, le facoltà intellettive.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elargizione di una somma di denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto di un immobile da parte del destinatario, che il disponente intenda in tal modo beneficiare, si configura come una liberalità che, in quanto avente ad oggetto l’immobile e non già la somma di denaro, è qualificabile come donazione indiretta, con la conseguenza che, ove il donatario risulti coniugato in regime di comunione legale, il bene non resta as¬soggettato al predetto regime, ai sensi dell’art. 179, primo comma, lett. b), c.c., senza che risulti necessario, a tal fine, che l’attività del donante si articoli in attività tipiche, essendo invece sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio-mezzo e l’arricchimento del soggetto onorato per spirito di liberalità.
L’elargizione di una somma di denaro finalizzata all’acquisto di un immobile da parte del beneficiario si configura come donazione indiretta, con la conseguenza che, qualora il donatario sia coniugato in regime di comunione legale, il bene acquistato è escluso da detto regime, ai sensi dell’art. 179, lett. b), c.c. Per la validità della do¬nazione indiretta non è richiesta la forma dell’atto pubblico, ma è necessaria la prova dell’effettiva dazione del relativo importo al donatario o direttamente all’alienante.
Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dazione di una somma di denaro configura una donazione indiretta d’immobile ove sia effettuata quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto del bene, dovendosi altrimenti ravvisare soltanto una donazione diretta del denaro elargito, per quanto poi successivamente utilizzato in un acquisto immobiliare.
Nel caso di soggetto che abbia erogato il denaro per l’acquisto di un immobile in capo ad uno dei figli si deve distin¬guere l’ipotesi della donazione diretta del denaro, impiegato successivamente dal figlio in un acquisto immobiliare, in cui, ovviamente, oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisce il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione. In tal caso, il collegamento tra l’elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
Cass. civ. Sez. I, 23 maggio 2014, n. 11491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le donazioni di denaro finalizzate all’acquisto di un bene (nella specie, azioni) costituiscono donazione indiretta di quel bene poiché, in presenza di collegamento tra la messa a disposizione del denaro e il fine specifico dell’acqui¬sto del bene, la compravendita costituisce lo strumento del trasferimento del bene, oggetto dell’arricchimento del patrimonio del destinatario.
Cass. civ. Sez. II, 20 maggio 2014, n. 11035 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce stru¬mento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e, quindi, integra donazione indiretta del bene stesso, non del denaro, sicché, in caso di collazione, secondo le previsioni dell’art. 737 c.c., il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile, non il denaro impiegato per il suo acquisto. Alla base di questa soluzione – convalidata anche dalla giurisprudenza successiva – vi è la sottolinea¬tura che, nel caso del denaro corrisposto dal donante al donatario allo specifico scopo dell’acquisto del bene o mediante il versamento diretto dell’importo all’alienante o mediante la previsione della destinazione della som¬ma donata al trasferimento immobiliare, c’è un collegamento tra l’elargizione del danaro e l’acquisto del bene da parte del beneficiario. Ha errato la Corte d’appello a ritenere che, mancando la contestualità tra acquisto del terreno ed edificazione che ne è seguita, il principio dell’accessione costituisca un ostacolo alla configurabilità della donazione indiretta dell’edificio, e che sia predicabile, al più, un atto di liberalità con riguardo al pagamento del corrispettivo contrattualmente pagato dal genitore in favore delle figlie già intestatarie, per effetto di do¬nazione indiretta, del terreno. Così decidendo, la Corte territoriale ha risolto il problema dell’identificazione del bene donato prescindendo, non solo da ogni riferimento all’interesse a donare dello stipulante, ma anche dagli aspetti sostanziali della vicenda negoziale, omettendo in particolare di indagare se, con riferimento all’edifica¬zione, lo schema contrattuale utilizzato fosse rivolto a far pervenire alle figlie la proprietà dell’immobile anziché il denaro di cui il genitore stipulante si è privato. A quegli aspetti sostanziali della vicenda negoziale, invece, la Corte avrebbe dovuto avere riguardo, valutando se l’effetto ultimo, voluto dal disponente, non fosse piuttosto l’arricchimento, senza corrispettivo, delle destinatarie dell’acquisto, sicché l’oggetto della donazione fosse l’og¬getto stesso dell’arricchimento, ossia l’immobile acquistato per accessione.
In tema di donazione indiretta, con riguardo alla vicenda dell’edificazione, con denaro del genitore, su terreno intestato a figli (a seguito di precedente donazione indiretta), il bene donato può ben essere identificato, non nel denaro, ma nello stesso edificio realizzato – senza che a ciò sia di ostacolo l’operatività dei principi sull’acquisto per accessione -, tutte le volte in cui, tenendo conto degli aspetti sostanziali della vicenda negoziale (nella specie alternativamente indicata dal giudice del merito come appalto o come contratto a favore di terzi) e dello scopo ultimo perseguito dal disponente, l’impiego del denaro a fini edificatori sia compreso nel programma negoziale perseguito dal genitore donante.
Cass. civ. Sez. II, 31 gennaio 2014, n. 2149 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l’identico risultato giuridi¬co-economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo.
Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1277 (Famiglia e Diritto, 2014, 10, 888 nota di BORTOLU)
Le attribuzioni patrimoniali del convivente more uxorio alla compagna durante la convivenza costituiscono adempimento di doveri morali e sociali, che trovano la loro regolamentazione nell’art. 2034 del codice civile, che disciplina le obbligazioni naturali, le quali determinano, come effetto, la soluti retentio, ovvero l’impossibilità di ottenere la ripetizione di quanto spontaneamente pagato, a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze nonché proporzionata all’entità del patrimonio e delle condizioni sociali del solvens.
Il discrimine fra l’adempimento dei doveri sociali e morali, quale può individuarsi in qualsiasi contributo fra conviventi, destinato al ménage quotidiano ovvero espressione della solidarietà fra persone unite da un legame intenso e duraturo, e l’atto di liberalità, va individuato, oltre che nella spontaneità, soprattutto nel rapporto di proporzionalità fra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare. Orbene, tale requisito, ricono¬sciuto in relazione alle obbligazioni naturali in generale, deve essere ribadito in riferimento all’adempimento di doveri morali e sociali nella convivenza more uxorio.
Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809 (Notariato, 2014, 1, 51)
In tema di donazione indiretta, la cointestazione di un conto corrente ad uso esclusivo che, ai sensi dell’art. 1854 c.c., attribuisce agli intestatari la qualità di creditori o di debitori solidali dei saldi del conto fa sì presumere, sia nei confronti dei terzi che nei rapporti interni, la contitolarità dell’oggetto del contratto ma non è prova definitiva di aver posto in essere con tale atto una donazione indiretta.
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298 c.c., comma 2), ma tale presunzione da luogo soltanto all’inversione dell’o¬nere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
L’animus donandi non può essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione di un conto corrente. Il giudice deve motivare sullo spirito di liberalità che assiste ogni versamento.
Cass. civ. Sez. II, 3 gennaio 2014, n. 56 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cessione gratuita della quota di partecipazione ad una cooperativa edilizia, finalizzata all’assegnazione dell’al¬loggio in favore del cessionario, integra donazione indiretta dell’immobile, soggetta, in morte del donante, alla collazione ex art. 746 cod. civ., tale quota esprimendo non una semplice aspettativa, ma un vero e proprio cre¬dito all’attribuzione dell’alloggio.
Trib. Genova Sez. III, 30 ottobre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza more uxorio, seppure non possa equipararsi matrimonio, sia in merito ai doveri ed agli obblighi scaturenti dal rapporto, sia in merito agli effetti derivanti dalle conseguenze della fine del rapporto, fa sorgere tra i conviventi, doveri di solidarietà di contenuto analogo a quelli stabiliti per i coniugi dall’art. 143 c.c., fonte di un’obbligazione naturale per la quale non è ammessa alcuna forma di ripetizione. Anche per la convivenza more uxorio infatti, la Cassazione ha previsto la gratuità delle prestazioni lavorative rese nell’ambito della famiglia, definendo la convivenza come una vera e propria comunità familiare caratterizzata dalla presunzione di gratuità delle prestazioni rese al suo interno. Al convivente more uxorio è stato così riconosciuto il diritto di succedere nel contratto di locazione purché la convivenza sia stata caratterizzata da serietà e stabilità.
Trib. Vicenza Sez. I, 23 ottobre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Un’attribuzione patrimoniale in favore del convivente more uxorio configura l’adempimento di un’obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens, non potendo le prestazioni patrimoniali inquadrarsi nello schema dell’ob¬bligazione naturale ove abbiano come effetto esclusivo l’arricchimento del partner e non sussista un rapporto di proporzionalità tra quanto sborsato ed i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dagli stessi soggetti.
Trib. Bari Sez. I, 21 ottobre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto della proprietà di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad un altro soggetto che il disponente intende in tal modo beneficiare, si verifica una donazione indiretta per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico prevista per la donazione, essendo sufficiente che risultino rispettati i requisiti di forma richiesti per l’atto dal quale la donazione indiretta risulta.
Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304 (Nuova Giur. Civ., 2014, 94, nota di TAGLIASACCHI)
È valida ed efficace la clausola, apposta ad un contratto di mutuo concluso tra coniugi, mediante la quale la restituzione della somma ricevuta viene sospensivamente condizionata alla separazione personale.
È valido il mutuo tra coniugi nel quale l’obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell’evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli effetti dell’art. 1354, primo comma, cod. civ.
Trib. Salerno Sez. I, 29 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il bene acquistato da un coniuge separatamente durante il matrimonio costituisce oggetto della comunione le¬gale, ai sensi dell’art. 177, comma l lett. a), c.c., salvo che si tratti di beni personali ricorrendo una delle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 179 c.c.; sono esclusi dalla comunione legale anche i beni acquistati separata¬mente dal coniuge mediante donazione indiretta, per acquisto del bene il cui prezzo sia stato pagato da un terzo.
App. L’Aquila, 7 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La validità della donazione indiretta non presuppone la forma solenne della donazione, bensì quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti. La previsione normativa di cui all’art. 809 c.c., in¬vero, nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c. che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione, anche perché, essendo la norma da ultimo richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la validità delle donazioni indirette, cioè di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 cod. civ., non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 cod. civ., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
In tema di comunione legale dei coniugi, la donazione indiretta rientra nell’esclusione di cui all’art. 179, primo comma, lett. b), cod. civ., senza che sia necessaria l’espressa dichiarazione da parte del coniuge acquirente prevista dall’art. 179, primo comma, lett. f), cod. civ., né la partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di acquisto e la sua adesione alla dichiarazione dell’altro coniuge acquirente ai sensi dell’art. 179, secondo comma, cod. civ., trattandosi di disposizione non richiamate.
Cass. civ. Sez. II, 31 maggio 2013, n. 13861
Nella donazione indiretta il negozio di attribuzione a titolo gratuito è esonerato dalle forme stringenti della dona¬zione tipica ma non sfugge alla necessità di rispettare la forma propria del negozio mezzo che, quanto meno per ciò che riguarda la pretesa compravendita tra fratello – divenuto proprietario per effetto della donazione paterna-e la sorella, non può dirsi osservata, di tal che dell’esistenza e del contenuto di tale contratto si voleva dar prova per testimoni; il coordinamento poi tra i vari negozi, per essere considerato – nella prospettiva unificatrice della causa “in concreto” – espressione di un collegamento negoziale, presuppone che tutti siano voluti per i loro effetti tipici e quindi non può realizzarsi tra negozi simulati e dissimulati, essendo di per sé la simulazione già deputata al perseguimento di scopi estranei a quelli del negozio formalmente posto in essere.
Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2013, n. 10991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di buoni postali fruttiferi, nella specie operata da un genitore per ripartire fra i figli anticipata¬mente le proprie sostanze, può configurare, ove sia accertata l’esistenza dell’”animus donandi”, una donazione indiretta, in quanto, attraverso il negozio direttamente concluso con il terzo depositario, la parte che deposita il proprio denaro consegue l’effetto ulteriore di attuare un’attribuzione patrimoniale in favore di colui che ne diventa beneficiario per la corrispondente quota, essendo questi, quale contitolare del titolo nominativo a firma disgiunta, legittimato a fare valere i relativi diritti.
Cass. civ. Sez. II, 25 marzo 2013, n. 7480 (Famiglia e Diritto, 2013, 6, 554, nota di OBERTO)
L’attribuzione patrimoniale effettuata dalla convivente more uxorio che, nel corso della relazione paramatrimo¬niale, ha proceduto all’acquisto di un immobile in comunione con il partner per quote uguali, pur avendo sborsato l’intero prezzo per l’acquisto, è qualificabile alla stregua di una donazione indiretta della quota dell’immobile stesso. Tale liberalità è valida malgrado il mancato rispetto delle forme solenni previste per la donazione, inap¬plicabili alla donazione indiretta. Nessuna forma d’invalidità è poi riconducibile al fatto che il denaro impiegato per l’acquisto fosse stato conseguito dalla donna quale provento della sua attività di prostituta, atteso che tale profilo attiene ad una fase pregressa rispetto alla donazione, che è invece frutto dello spirito di liberalità con il quale la donna aveva inteso arricchire il suo convivente.
Trib. Roma Sez. X, 22 febbraio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Si configura la donazione indiretta qualora il donante raggiunga lo scopo di arricchire un’altra persona servendosi di atti che hanno una causa diversa da quella del contratto di donazione. E così si ha donazione indiretta nel caso di pagamento di un debito altrui, di remissione del debito, ovvero di acquisto di un bene con denaro proveniente da un terzo e corrisposto per l’acquisizione della res da parte del beneficiario. Quando il denaro sia donato come tale, si è in presenza di una donazione diretta avente ad oggetto il denaro medesimo.
Cass. civ. Sez. II, 10 gennaio 2013, n. 482 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La rinuncia all’usufrutto, quale negozio unilaterale meramente abdicativo, ha come causa la dismissione del dirit¬to e, poiché il consolidamento con la nuda proprietà ne costituisce effetto “ex lege”, non può essere considerata come una donazione, né necessita della forma prescritta dall’art. 782 cod. civ.
Cass. civ. Sez. II, 9 novembre 2012, n. 19513 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione di assenso ex art. 179, secondo comma, cod. civ. del coniuge formalmente non acquirente, ma partecipante alla stipula dell’atto di acquisto, relativa all’intestazione personale del bene immobile o mobile registrato all’altro coniuge, può assumere natura ricognitiva e portata confessoria – quale fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all’altra parte – sebbene esclusivamente di presupposti di fatto già esistenti, laddove sia controversa, tra i coniugi stessi, l’inclusione del medesimo bene nella comunione legale. Analoga efficacia in favore del coniuge formalmente acquirente non può, invece, attribuirsi ad una tale dichiarazione nel diverso giudizio fra i coeredi di colui che l’aveva resa, terzi rispetto al suddetto atto, in cui si discuta della configurabilità del menzionato acquisto come una donazione indiretta di quello stesso bene in favore del coniuge da ultimo indicato, nonché della sussistenza dei presupposti per il suo conferimento nella massa ereditaria del “de cuius”. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva qualificato come donazione indiretta, conseguentemente assoggettandola a collazione, l’acquisito di un immobile successivamente al matrimonio da parte di uno dei coniugi, in relazione al quale era stato provato il diretto versamento del prezzo all’alienante ad opera dell’altro, negando rilievo alla contraria dichiarazione di quest’ultimo contenuta nell’atto di acquisto).
Cass. civ. Sez. VI, 17 ottobre 2012, n. 17805 (Fisco, 2012, 42, 6771, nota di BORGOGLIO)
L’accertamento fondato sulla spesa patrimoniale può essere confutato dimostrando che il denaro sborsato per la spesa medesima è in realtà stato elargito da terzi. In tal modo, infatti, non vi è alcuna manifestazione di capacità contributiva occultata, in quanto, al massimo, ciò può essere ravvisato in capo al soggetto che ha fornito il de¬naro. Pertanto, nel caso di acquisto di immobile effettuato dal figlio, ove il genitore, comparso in atto, ha di fatto elargito il denaro, si è in presenza di una donazione indiretta non del denaro ma dell’immobile, con tutto ciò che ne può conseguire in merito alla prova contraria sull’accertamento fondato sulla spesa patrimoniale.
Nel caso di acquisto di un bene immobile con denaro proprio del disponente e intestazione ad altro soggetto che il disponente stesso intende beneficiare, si configura la donazione indiretta dell’immobile e non del denaro usato per l’acquisto. Detto atto simulato, avente causa gratuita, può costituire prova contraria dell’accertamento effettuato ex art. 38 del D.P.R. n. 600/1973.
Trib. Vicenza, 5 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La possibilità che l’atto di contestazione con firma e disponibilità disgiunte di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, costituisca donazione indiretta, ricorre solo quando sia verificata l’esistenza dell’a¬nimus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della con¬testazione, altro scopo che quello di liberalità. E’ da escludere una tale volontà laddove appaia evidente come il de cuius, vivendo da solo ed avviandosi verso la vecchiaia, aveva inteso cointestare i suoi rapporti bancari con le sorelle, al solo scopo di fronteggiare una qualche evenienza negativa che potesse impedirgli di dettare per¬sonalmente disposizioni alla Banca, sentendosi, però, sempre il titolare esclusivo dei rapporti, disponendone a suo piacimento e non preoccupandosi di ottenere il consenso delle cointestatarie prima di ordinare una qualche operazione.
Trib. Padova Sez. I, 4 maggio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel negotium mixtum cum donatione la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa ed ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arric¬chimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, così realizzandosi una donazione indiretta.
Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 (Trust, 2012, 6, 633)
La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, ivi compresi più negozi tra loro collegati, come nel caso in cui un soggetto, stipulato un contratto di compravendita, paghi o si impegni a pagare il relativo prezzo e, essendosene riservata la facoltà nel momento della conclusione del contratto, provveda ad effettuare la di¬chiarazione di nomina, sostituendo a sé, come destinatario degli effetti negoziali, il beneficiario della liberalità, così consentendo a quest’ultimo di rendersi acquirente del bene ed intestatario dello stesso. Né la configurabilità della donazione indiretta è impedita dalla circostanza che la compravendita sia stata stipulata con riserva della proprietà in favore del venditore fino al pagamento dell’ultima rata di prezzo, giacché quel che rileva è che lo stipulante abbia pagato, in unica soluzione o a rate, il corrispettivo, oppure abbia messo a disposizione del be¬neficiario i mezzi per il relativo pagamento.
L’intestazione fiduciaria di un bene, frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti ob¬bligatori a vantaggio del fiduciante, ha luogo solo ove il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò espli¬candosi il contenuto del pactum fiduciae. Manca, dunque, nell’istituto qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest’ultimo è soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante. Qualora, dunque, l’effetto reale non risulta essere accompagnato da alcun patto contenente l’obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato, non può intendersi posto in essere il menzionato negozio. Stante quanto innanzi, la fattispecie dell’acquisito di un’azienda da parte del nominato con denaro del preteso fi¬duciante, stipulante, deve correttamente qualificarsi come donazione indiretta e non come intestazione fiduciaria.
Affinché si verifichi l’intestazione fiduciaria di un bene, che deriva dalla combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, è necessario che il trasferimento in favore del fidu¬ciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae, in mancanza del quale non si può ritenere sussistente l’intestazio¬ne fiduciaria del bene, bensì una donazione indiretta.
Trib. Bassano del Grappa, 19 ottobre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel cosiddetto negotium mixtun cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio commu¬tativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arric¬chimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò realizzando il negozio posto in essere una fattispecie di donazione indiretta. Ne consegue che la compraven¬dita ad un prezzo inferiore a quello effettivo non integra, di per sé stessa, un negotium mixtum cum donatione, essendo, all’uopo, altresì necessario non solo la sussistenza di una sproporzione tra prestazioni, ma anche la significativa entità di tale sproporzione, oltre alla indispensabile consapevolezza, da parte dell’alienante, dell’in¬sufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, funzionale all’arricchimento di contropar¬te acquirente della differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo ricevuto. Incombe poi alla parte che intenda far valere in giudizio la simulazione relativa nella quale si traduce il negotium mixtum cum donatione, l’onere di provare sia la sussistenza di una sproporzione di significativa entità tra le prestazioni, sia la consapevolezza di essa e la sua volontaria accettazione da parte dell’alienante in quanto indotto al trasferimento del bene a tali condizioni dall’animus donandi nei confronti dell’acquirente. A tal proposito deve rilevarsi come la consulenza tecnica d’ufficio non sia mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed e quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.
Trib. Roma Sez. VIII, 30 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di donazione indiretta di un immobile, realizzata mediante l’acquisto del bene con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce lo strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, che ha quindi ad oggetto il bene e non già il denaro. Tuttavia, alla riduzione di siffatta liberalità indiretta non si applica il principio della quota legittima in natura (connaturata all’azione nell’i¬potesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 c.c.), poiché l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione; pertanto mancando il meccanismo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito.
Cass. civ. Sez. II, 17 novembre 2010, n. 23215 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel negotium mixtum cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipu¬lato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le presta¬zioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta. Per la validità di tale “negotium” non é necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perché l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione, sia perché, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse.
Trib. Milano Sez. IV, 15 maggio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi in cui una dazione di denaro costituisca il mezzo per lo specifico fine dell’acquisto di un immobile si è in presenza di un’ipotesi di donazione, indiretta del bene immobile, fattispecie la cui configurazione non richiede la necessaria articolazione in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipulazione, sottoscrizione d’un contratto preliminare in nome proprio), necessario e sufficiente al riguardo essendo la prova del collegamento tra elargizione del denaro ed acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto.
Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496 (Famiglia e Diritto, 2011, 4, 348, nota di MARI, RIDELLA)
L’acquisto di un immobile con denaro del disponente e intestazione ad altro soggetto (che il primo intende, in tal modo, beneficiare) integra una donazione indiretta dell’immobile e non del denaro. All’azione di riduzione di liberalità indirette è inapplicabile il principio della quota legittima in natura, cosicché il legittimario leso deve far valere le sue pretese con le modalità tipiche del diritto di credito. Fallito il donatario, la domanda deve essere sottoposta al rito concorsuale dell’accertamento del passivo ex art. 52 e 93 della legge fallimentare – R.D. n. 267/1942
Nell’ipotesi di donazione indiretta di un immobile, realizzata mediante l’acquisto del bene con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce lo strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, che ha quindi ad oggetto il bene e non già il denaro. Tuttavia, alla riduzione di siffatta liberalità indiretta non si applica il principio della quota legittima in natura (connaturata all’azione nell’ipotesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 cod. civ.), poiché l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione; pertanto mancando il meccanismo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito, con la conseguenza che, nell’ipotesi di fallimento del beneficiario, la domanda è sottoposta al rito concorsuale dell’accertamento del passivo ex artt. 52 e 93 della legge fallimentare.
Trib. Bologna Sez. III, 14 aprile 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
La stabilità nel senso di rilievo giuridico della convivenza non può identificarsi solo nella durata temporale, oc¬correndo pure un animus di porre in comune le proprie vite. Questo animus è effettivamente elemento affine rispetto alla comunione spirituale e materiale (art. 143, comma secondo, c.c.) del matrimonio, e giustifica da un lato il profilo del danno patrimoniale quale perdita di chances per un futuro apporto economico – pari a quello anteriore al decesso – del convivente deceduto alla comunità di vita formata dai conviventi stessi, e dall’altro l’equiparazione analogica del danno non patrimoniale alla perdita di congiunto (nel caso, coniuge). Tale animus deve allora dimostrarsi adeguatamente e specificamente.
Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 709, nota di CORDIANO)
La cointestazione di un conto corrente bancario, relativa a somme già depositate e originariamente appartenenti ad uno dei cointestatari, non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione do¬nativa, nella specie integrata da un atto di rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate, che indichi una dismissione dei diritti sorretta da un intento liberale.
Cass. civ. Sez. II, 14 gennaio 2010, n. 468
Occorre premettere, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte e ricordato dalla sentenza impugnata, che “per la validità delle donazioni indirette, cioè di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipi¬co diverso da quello previsto dall’art. 782 c.c. non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’os¬servanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 c.c. nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione”.
Perché possa ravvisarsi una donazione, peraltro, è necessario che chi assume di essere beneficiario della dona¬zione, fornisca la prova della volontà del preteso donante di porre in essere un atto di liberalità. Invero, Orbene, la Corte d’appello, con motivazione immune dai denunciati vizi logici e giuridici, ha escluso la sussistenza, in capo a D.M.C., dell’animus donandi, non ravvisabile in astratto nella delega del titolare di un conto corrente a terzi ad operare sul conto medesimo e sul deposito titoli, ancorché senza obbligo di rendiconto, essendo la de¬lega stata conferita dalla D. M. al ricorrente B.L. in occasione del suo ricovero in ospedale, a distanza di meno di un mese dalla morte; e ciò, ha sottolineato la Corte d’appello, “per l’evidente ragione che non avrebbe più potuto effettuare operazioni bancarie per le sue gravi condizioni di salute”. In tale contesto, la Corte ha altresì ritenuto che la prova, anche presuntiva, che la delega integrasse un atto di liberalità in contrasto con le ultime volontà espresse nel testamento non poteva essere desunta dalla isolata dichiarazione di un teste, resa nel corso del procedimento per sequestro conservativo.
Cass. civ. Sez. II, 3 novembre 2009, n. 23297 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel negotium mixtum cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta. Per la validità di tale “negotium” non é necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perché l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione, sia perché, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse.
Cass. civ. Sez. II, 2 settembre 2009, n. 19099 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di atti di liberalità, il “negotium mixtum cum donatione” costituisce una donazione indiretta in quanto, attraverso la utilizzazione della compravendita, si realizza il fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo; pertanto, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazio¬ne diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato; poiché, l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
Trib. Monza Sez. I, 20 maggio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di donazioni, l’oggetto della liberalità va individuato nel bene effettivamente conseguito al donatario e non, invece, nella depauperazione del donante. Pertanto, nel caso specifico di dazione di denaro operata da un terzo per l’acquisto di un bene immobile, poi effettivamente acquistato, si parla di donazione indiretta dell’im¬mobile compravenduto.
Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330 (Famiglia e Diritto, 2009, 12, 1181)
L’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va pa¬rametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza.
Trib. Pesaro, 28 febbraio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La forma richiesta per la donazione indiretta è la stessa del negozio – mezzo utilizzato.
Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 (Foro It., 2009, 4, 1, 1103)
La possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointe¬stazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – può essere qualificato come donazione indiret¬ta solo quando sia verificata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
La S.C., in una fattispecie nella quale gli eredi di una defunta chiedevano il rimborso alla cointestataria di un libretto di risparmio del 50 per cento della somma portata dal libretto, da quest’ultima incassata per intero, ha enunciato il principio per cui la possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – è legata all’ap¬prezzamento dell’esistenza dell’ “animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Non si configura una liberalità d’uso, né una donazione indiretta in caso di cointestazione di un libretto banca¬rio su cui erano state in precedenza depositate somme di denaro appartenenti ad uno solo dei cointestatari, allorquando difetti la prova che, all’atto della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità (nella specie, è stata confermata la pronuncia di merito secondo cui la cointestataria non proprietaria del denaro originariamente versato non aveva fornito la dimostrazione di un atto volontario e spontaneo di disposizione patrimoniale in suo favore da parte di chi aveva aperto il libretto, in considerazione dell’assistenza morale e materiale ricevuta).
Cass. civ. Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746 (Fam. Pers. Succ., 2009, 5, 410, nota di MASSELLA DUCCI TERI)
Ai fini della configurabilità della donazione indiretta d’immobile, è necessario che il denaro venga corrisposto dal donante al donatario allo specifico scopo dell’acquisto del bene o mediante il versamento diretto dell’importo all’alienante o mediante la previsione della destinazione della somma donata al trasferimento immobiliare. Non ricorre, pertanto, tale fattispecie quando il danaro costituisca il bene di cui il donante ha inteso beneficiare il donatario e il successivo reimpiego sia rimasto estraneo alla previsione del donante.
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2008, n. 23545 (Nuova Giur. Civ., 2009, 4, 1, 355, nota di FAROLFI)
Accertata la natura personale del bene acquistato in regime di comunione da uno dei coniugi con denaro in par¬te proveniente dal patrimonio dell’altro coniuge, è necessario qualificare giuridicamente il titolo della dazione al fine di verificare se sussistano i presupposti dell’obbligo di restituzione della metà del denaro versato a titolo di prezzo, potendo tale fattispecie integrare una donazione diretta del denaro o una donazione indiretta del bene, nel caso di dazione del denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto, oppure un contratto di mutuo.
Trib. Torino Sez. II, 5 agosto 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Costituisce donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di danaro depositata presso un istituto di credito, qualora la detta somma, all’atto della cointestazione risulti essere ap¬partenuta ad uno solo dei contestatari.
Trib. Bari, 16 aprile 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dazione di somme di denaro da parte della moglie al marito, utilizzate da questo per l’acquisto di un immobile, costituisce valida donazione indiretta. Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto che il disponente stesso intende in tal modo beneficiare, si verifica una dona¬zione indiretta dell’immobile (non del denaro) per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico prevista per la donazione, ma basta l’osservanza della forma richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta.
Trib. Benevento, 4 dicembre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’esistenza, in favore del proprietario coltivatore diretto del fondo rustico confinante con quello ceduto, del diritto di prelazione e del correlativo diritto di riscatto, per il combinato disposto di cui all’art. 8, comma 1, L. n. 590/1965 e dell’art. 7, comma 2, L. n. 817/1971, è necessario che il trasferimento sia a titolo oneroso, mentre se la compravendita è utilizzata al fine di arricchire il compratore della differenza tra il valore del bene ed il prez¬zo stabilito, è configurarle un negotium mixtum cum donatione, che costituisce donazione indiretta e, pertanto, la predetta disciplina è inapplicabile.
Ass. Milano Sez. I, 10 luglio 2007
Il rapporto di convivenza more uxorio è privo di rilevanza penale ex art. 591 c.p., non potendosi estendere, ad una situazione di fatto non disciplinata dalla legge, l’obbligo di assistenza morale e materiale previsto dall’art. 143 c.c. Riconoscere l’operatività della tutela penale nel caso di violazione degli obblighi morali e di solidarietà fra i conviventi realizzerebbe, infatti, una forma inammissibile di interpretazione analogica in malam partem della norma penale.
Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 2007, n. 12496 (Fam. Pers. Succ., 2008, 8-9, 701, nota di MONTEVERDE)
Al fine di accertare l’esistenza o meno di una donazione indiretta deve sempre verificarsi la sussistenza dello spirito di liberalità, requisito comunque necessario per la configurabilità come donazione indiretta del comporta¬mento processualmente inerte del proprietario di un determinato immobile in relazione alla domanda proposta nei suoi confronti da parte di un terzo di accertamento dell’avvenuto acquisto per usucapione della proprietà di quello stesso bene.
Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 2007, n. 1955 (Contratti, 2007, 8-9, 753, nota di CERIO)
Nel cosiddetto “negotium mixtun cum donatione” la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio com¬mutativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’ar¬ricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore. Pertanto, realizza una donazione indiretta,per la quale è sufficiente la forma prescritta per il tipo di negozio adottato dalle parti e non è necessaria quella prevista per la donazione diretta, il contratto preliminare con cui, allo scopo di arricchire il promissario acquirente, il promittente venditore consapevolmente si obblighi a vendere l’immobile per un prezzo pari al valore catastale).
Cass. civ. Sez. II, 7 giugno 2006, n. 13337 (Obbl. e Contr., 2006, 12, 1033, nota di GENNARI)
In tema di atti di liberalità, il “negotium mixtum cum donatione” costituisce una donazione indiretta in quanto, attraverso la utilizzazione della compravendita, si realizza il fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo; pertanto, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazio¬ne diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato; poiché, l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
Trib. Bologna Sez. IV, 6 giugno 2006 (Obbl. e Contr., 2006, 12, 1037, nota di SCHIAVONE)
Nella delegazione di pagamento, qualora non sussista alcun rapporto obbligatorio tra delegante e delegato, si versa in un’ipotesi di delegazione “allo scoperto”. In tale ipotesi, l’atto solutorio posto in essere dal delegato nei confronti del delegatario si qualifica nei confronti del delegante o come mutuo o come atto di liberalità o come mandato. Se manca un corrispettivo o altro elemento di utilità per il delegato, si tratta di donazione indiretta, in quanto tale revocabile, in caso di fallimento del donante, ai sensi dell’art. 64 legge fallimentare (R.D. n. 267/1942).
Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2006, n. 7507 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché con la donazione indiretta le parti realizzano l’intento di liberalità utilizzando uno schema negoziale aven¬te causa diversa, configura piuttosto una donazione diretta l’accollo interno con cui l’accollante, allo scopo di arricchire la figlia con proprio impoverimento, si sia impegnato nei confronti di quest’ultima a pagare all’Istituto di credito le rate del mutuo bancario dalla medesima contratto, atteso che la liberalità non è un effetto indiretto ma la causa dell’accollo, sicché l’atto – non rivestendo i requisiti di forma prescritti dall’art. 782 cod. civ.- deve ritenersi inidoneo a produrre effetti diversi dalla “soluti retentio” di cui all’art. 2034 cod. civ.
Trib. Napoli, 20 marzo 2006 (Corriere del Merito, 2006, 12, 1392)
La dazione di somme di danaro da parte della moglie al marito, utilizzate da queste per l’acquisto di un immobile, costituisce valida donazione indiretta, sempre che siano rispettate le forme di legge, né rileva l’eventuale suc¬cessiva separazione dei coniugi, perché la causa del negozio, lo spirito di liberalità, va valutato con riferimento al momento della dazione.
Trib. Gallarate, 24 novembre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora sia stata data prova che l’acquisto di un immobile è avvenuto attraverso esborsi effettuati dai genitori di uno dei coniugi, il bene è qualificabile come bene personale di costui e l’operazione posta in essere dai primi ha natura di donazione indiretta; pertanto, l’immobile deve essere considerato bene escluso dalla comunione legale ai sensi dell’art. 179, lett. b), c.c.
Cass. civ. Sez. II, 25 ottobre 2005, n. 20638 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, si configura la donazione indiretta dell’immobile e non del denaro impiegato per l’acquisto; pertanto, in caso di collazione, secondo le previsioni dell’art. 737 cod. civ., il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile e non il denaro.
Trib. Genova Sez. III, 13 ottobre 2005 (Obbl. e Contr., 2006, 3, 266, nota di SCHIAVONE)
Qualora la donazione di denaro sia finalizzata all’acquisto di un immobile, il quale sia individuato dallo stesso donante, senza alcuna autonoma determinazione da parte del donatario, l’atto si qualifica come donazione in¬diretta dell’immobile. Di conseguenza il relativo bene non rientra nella comunione legale dei coniugi ma è bene personale del coniuge donatario.
Qualora, dalle prove assunte in corso di causa, emerga che l’immobile in contestazione è oggetto di donazione indiretta da parte del de cuius a favore della figlia, lo stesso non cade nella comunione dei beni con l’ex marito della stessa. Infatti, la donazione indiretta deve essere ricompresa, nella previsione di cui all’art. 179 c.c., lett. b).
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi , la norma dell’art. 192, comma 3, c.c. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (ad es., quelle impiegate per la ristrutturazione di bene immobile appartenente alla comunione), e non già alla ripetizione – totale o parziale – del denaro personale e dei proventi dell’attivita’ separata (che cadono nella comunione “de residuo” solamente per la parte non consumata al mo¬mento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale “ex” art. 177 c.c., primo comma lett. a), rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, comma 1, c.c., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali indipenden¬temente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Trib. Bologna Sez. II, 7 marzo 2005 (Guida al Diritto, 2005, 36, 79)
Nell’ipotesi di donazione di una somma di denaro cui faccia seguito l’acquisto di un immobile da parte del be¬neficiario, occorre distinguere l’ipotesi in cui tale somma venga utilizzata da quest’ultimo in virtù di una propria autonoma determinazione da quella in cui il donante fornisca il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile e questo sia l’unico specifico fine, se pur mediato, della donazione perché ove il denaro venga dato a quel pre¬cipuo scopo il collegamento tra l’elargizione della somma da parte del disponente e l’acquisto del bene da parte del. beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dello stesso immobile e non di una donazione del denaro impiegato per il suo acquisto. Né la donazione indiretta di un immobile deve arti¬colarsi in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipula, sottoscrizione di un contratto preliminare in nome proprio) essendo necessario, ma anche sufficiente, che sia provato il collegamento tra l’elargizione del denaro e l’acquisto e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 (Famiglia e Diritto, 2005, 3, 237 nota di CARBONE)
In sede di divisione del patrimonio comune, il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, ai sensi dell’art. 192, 3° comma, c.c., non consente la ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale di uno dei coniugi e conferiti alla comunione.
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi , la norma dell’art. 192 c.c., terzo comma, attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, non già quello alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale di uno dei coniugi e conferiti alla comunione, atteso che, per effetto della trasformazio¬ne dei beni personali in beni comuni, detti beni restano immediatamente soggetti alla disciplina della comunione legale, e quindi al principio inderogabile di cui all’art. 194 c.c., primo comma, il quale impone che, in sede di divisione, l’attivo e il passivo siano ripartiti in parti eguali, indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Cass. civ. Sez. II, 29 settembre 2004, n. 19601 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel cosiddetto negotium mixtum cum donatione la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio com¬mutativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzio¬ne tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa ed ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò realizzando il negozio posto in essere una donazione indiretta. Ne consegue che la compravendita ad un prezzo inferiore al valore effettivo non integra, di per sé, un negotium mixtum cum donatione, essendo all’uopo altresì necessaria non solo la sussistenza di una sproporzione tra le prestazioni, ma anche la significativa entità di tale sproporzione, oltre all’indispensabile consapevolezza, da parte dell’alienante, dell’insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, funzionale all’arricchimento di controparte acquirente; tali elementi costitutivi del negotium mixtum cum donatione debbono essere provati dalla parte che intenda far valere in giudizio la simulazione relativa quale esso si traduce.
Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2004, n. 18749 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma dell’art. 143 cod. civ., non si esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch’esse riconducibili alla logica della solidarietà coniugale. (Nell’enunciare il principio di cui in massima, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale – esclusa la configurabilità, nella specie, di un mutuo endofami¬liare – aveva ritenuto espressione di partecipazione alle esigenze dell’intero nucleo familiare, ai sensi della citata norma codicistica, il consistente intervento finanziario della moglie a titolo di concorso nelle spese relative alla ristrutturazione della casa di villeggiatura di proprietà del marito ma di uso familiare comune).
Trib. Torino, 15 luglio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La forma solenne dell’atto pubblico alla presenza dei testimoni ex art. 782 c.c. e art. 48, comma 1, legge n. 89 del 1913 non è necessaria per la validità della donazione indiretta di bene immobile.
Trib. Torino Sez. II, 21 maggio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso in cui il denaro sia dato al precipuo scopo dell’acquisto immobiliare e, quindi, o pagato direttamente all’alienante dal disponente, presente alla stipulazione intercorsa tra acquirente e venditore dell’immobile, o pa¬gato al beneficiario dopo averlo ricevuto dal disponente in esecuzione del complesso procedimento che quest’ul¬timo ha inteso adottare per ottenere il risultato della liberalità, con o senza la stipulazione in proprio nome di un contratto preliminare con il proprietario dell’immobile, il collegamento tra l’elargizione del denaro da parte del disponente e l’acquisto del bene da parte del beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una dona¬zione indiretta dello stesso immobile.
Per la validità della donazione indiretta non è necessaria la forma solenne dell’atto pubblico alla presenza dei testimoni, ai sensi dell’art. 782 c.c. e art. 48, primo comma, L. n. 89/1913 (legge notarile).
Trib. Padova Sez. I, 3 maggio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il pagamento con versamenti diretti all’agenzia o al venditore di una parte del prezzo di acquisto di un immobile, volta ad estinguere (parzialmente) il debito che la promissoria acquirente aveva assunto con la società venditrice per effetto del contratto preliminare di compravendita, costituisce liberalità attuata mediante adempimento del debito altrui ex art. 1180 c.c., ossia una tipica figura di donazione indiretta – il cui oggetto dovrebbe ritenersi il denaro, ma ciò è poco rilevante ai fini della causa – e come tale non soggetta agli oneri di forma del contratto di donazione.
Cass. civ. Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333 (Guida al Diritto, 2004, 15, 60, nota di SACCHETTINI)
La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento; realizzazione dunque che può venire attuata anche mediante un collegamento tra più negozi, ossia un preliminare e il pagamento del prezzo, procurando in tal modo al destinatario della liberalità il diritto di rendersi intestatario del bene, non essendo necessaria la forma dell’atto pubblico prevista per la donazione, ma bastando l’osservanza della forma richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta.
La donazione indiretta, realizzata attraverso un collegamento negoziale il cui scopo complessivo è l’attuazione di una liberalità a favore del beneficiario, è soggetta soltanto ai requisiti formali che la legge prescrive per i singoli negozi, e non anche a quelli richiesti per la donazione diretta.
La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito, che è quello di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, e può essere costituito anche da più negozi tra loro collegati, come nel caso in cui un soggetto, stipulato un preliminare di compravendita di un immobile in veste di promissario acquirente, paghi il relativo prezzo e sostituisca a sé, nella stipulazione del definitivo con il promittente venditore, il destinatario della liberalità, così consentendo a quest’ultimo di rendersi acquirente del bene ed intestatario dello stesso.
Nella donazione indiretta realizzata attraverso l’acquisto del bene da parte di un soggetto con denaro messo a disposizione da altro soggetto per spirito di libertà, l’attribuzione gratuita viene attuata con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti che lo pongono in essere, differenziandosi in tal modo dalla simulazione; tale negozio produce, insieme all’effetto diretto che gli è proprio, anche quello indiretto relativo all’arricchimento del destinatario della liberalità, sicché non trovano applicazione alla donazione indiretta i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono invece per il negozio tipico utilizzato allo scopo.
Cass. civ. Sez. II, 27 febbraio 2004, n. 4015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella donazione indiretta realizzata attraverso l’acquisto del bene da parte di un soggetto con denaro messo a disposizione da altro soggetto per spirito di libertà, l’attribuzione gratuita viene attuata con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti che lo pongono in essere, differenziandosi in tal modo dalla simulazione; tale negozio produce, insieme all’effetto diretto che gli è proprio, anche quello indiretto relativo all’arricchimento del destinatario della liberalità, sicché non trovano applicazione alla donazione indiretta i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono invece per il negozio tipico utilizzato allo scopo.
Cass. civ. Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642 (Guida al Diritto, 2004, 16, 51)
Nell’ipotesi di donazione di somma di denaro occorre distinguere l’ipotesi in cui questo sia impiegato successi¬vamente dal beneficiario in un acquisto immobiliare con propria autonoma e distinta determinazione, nel qual caso oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisca il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce l’unico specifico fine, se pur mediato, della donazione. Nel caso in cui il denaro sia dato al precipuo scopo dell’acquisto immobiliare e, quindi, o pagato direttamente all’alienante dal disponente, presente alla stipulazione intercorsa tra acquirente e venditore dell’immobile, o pagato dal be¬neficiario dopo averlo ricevuto dal disponente in esecuzione del complesso procedimento che quest’ultimo ha inteso adottare per ottenere il risultato della liberalità, con o senza la stipulazione in proprio nome d’un contratto preliminare con il proprietario dell’immobile, il collegamento tra l’elargizione del denaro da parte del disponente e l’acquisto del bene da parte del beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto. Va escluso, pertanto, che la donazione indiretta dell’immobile debba necessariamente articolarsi in attività tipiche da parte del donante, essendo neces-sario, ma al tempo stesso sufficiente, che sia provato il collegamento tra elargizione del denaro e acquisto, cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso.
La donazione diretta del denaro, successivamente impiegato dal beneficiario in un acquisto immobiliare con propria autonoma determinazione (caso in cui oggetto della donazione rimane comunque il denaro) va tenuta distinta dalla dazione del denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto dell’immobile, che integra un’ipotesi di donazione indiretta del bene, fattispecie la cui configurazione non richiede peraltro la necessaria articolazione in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipulazione, sottoscrizione d’un contratto preliminare in nome proprio), necessario e sufficiente al riguardo essendo la prova del collegamento tra elargizione del denaro ed acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto. Nel fare applicazione dei suindicati principi, la S.C. ha ritenuto che integri una fattispecie di donazione indiretta dell’immobile, e non già di donazione diretta del denaro impiegato per il suo acquisto, l’ipotesi caratterizzata dalla dazione del denaro con il precipuo scopo dell’acquisto immobiliare, in ragione del ravvisato collegamento tra l’elargizione del denaro da parte del disponente e l’acquisto del bene immobile da parte del beneficiario, indifferente al riguardo reputando che la prestazione in favore dell’alienante venga effet¬tuata direttamente dal disponente (presente alla stipulazione intercorsa tra acquirente e venditore dell’immobi¬le) ovvero dallo stesso beneficiario (dopo aver ricevuto il denaro dal disponente ed in esecuzione del complesso procedimento da quest’ultimo inteso adottare per ottenere il risultato della liberalità), con o senza stipulazione in nome proprio d’un contratto preliminare con il proprietario dell’immobile. Ed ha, d’altro canto, ritenuto al riguardo non indispensabile, bensì solamente utile ad abundatiam, desumere (anche) dall’emissione di assegni non trasferibili tratti direttamente all’ordine del venditore la dimostrazione che oggetto dell’animus donandi ma¬nifestato dal disponente nel caso fossero le quote societarie e non già il denaro, unitamente alla considerazione della concomitanza della relativa dazione sia con l’acquisto di tali quote sia con il separato acquisto di rimanenti quote da parte del coniuge del beneficiario e figlio del disponente (di guisa da consentire agli acquirenti la di¬sponibilità in parti eguali dell’intero capitale sociale, e, a tale stregua, dell’immobile unico cespite societario); la Corte, peraltro, ha ritenuto al riguardo viceversa irrilevante l’accertarsi se il disponente avesse consegnato al beneficiario assegni in bianco ovvero a favore del medesimo intestati, in ragione della raggiunta conclusione che non già il denaro (quale ne fosse la modalità di trasferimento), bensì le quote sociali hanno nel caso costituito l’oggetto della liberalità, la compravendita delle stesse pertanto assumendo mera funzione strumentale per il conseguimento del fine perseguito.
Trib. Brescia Sez. I, 24 ottobre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla donazione indiretta non debbono applicarsi né le norme sulla donazione diretta previste dall’art. 769 c.c. – eccezion fatta per la revocazione e la riduzione di cui all’art. 809 c.c. – né, per quanto concerne la forma, quella prevista dall’art. 782 c.c. dovendosi ritenere che essa si sottrae al requisito dell’atto pubblico rimanendo soggetta alla forma prescritta per il tipo contrattuale effettivamente utilizzato e cioè, ex art. 1350 c.c., alla sola forma scritta.
Cass. civ. Sez. II, 13 marzo 2003, n. 3713 (Giur. It., 2004, 530 nota di DI GREGORIO)
Le prestazioni patrimoniali di uno dei conviventi more uxorio non possono inquadrarsi nello schema dell’obbliga¬zione naturale se hanno come effetto esclusivo l’arricchimento del partner e non sussiste un rapporto di propor¬zionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi. (Nella specie al convivente more uxorio che aveva realizzato un immobile, a proprie spese e con la propria manodopera, sul fondo appartenente al partner, è stato riconosciuto il diritto all’indennizzo).
Trib. Padova Sez. II, 28 febbraio 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’estinzione ad opera del padre del debito del figlio risultante dal contratto d’appalto sottoscritto da quest’ultimo con l’impresa esecutrice dei lavori, configura adempimento dell’obbligo altrui e determina donazione indiretta della somma. In conseguenza detta donazione, se lede la quota spettante agli altri legittimari costituisce pre¬supposto per l’accoglimento dell’azione di riduzione.
L’estinzione ad opera del padre del debito del figlio risultante dal contratto d’appalto sottoscritto da quest’ultimo con l’impresa esecutrice dei lavori, configura adempimento dell’obbligo altrui e determina donazione indiretta della somma e non dell’immobile. Il progetto edificatorio non risulta, infatti, riferibile ad iniziativa del “de cuius” bensì frutto di scelte e pattuizioni del figlio proprietario del terreno, fissate nella descrizione dei lavori e nel pre¬ventivo contenuti nella convenzione sottoscritta con la ditta esecutrice, sicché l’apporto paterno deve intendersi riferibile sostanzialmente alla sola estinzione del debito avente ad oggetto il corrispettivo dell’appalto e di tale valore si è arricchito il patrimonio del beneficiato.
Cass. civ. Sez. II, 15 gennaio 2003, n. 502 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Mentre con l’interposizione reale colui che acquista il diritto (interposto), in esecuzione di accordi interni con il terzo (interponente), è tenuto ritrasferirgli il diritto, nella donazione indiretta realizzata attraverso la vendita del bene intestato a un soggetto con danaro del disponente per spirito di liberalità l’attribuzione gratuita viene attuata con il negozio oneroso che produce insieme con l’effetto diretto che gli è proprio anche quello indiretto relativo all’arricchimento del destinatario della liberalità sicché non trovano applicazione alla donazione indiretta i limiti di prova testimoniale – in materia di contratti e di simulazione – che valgono invece per il negozio tipico utilizzato allo scopo.
Cass. civ. Sez. II, 24 ottobre 2002, n. 14981 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per donazione remuneratoria deve intendersi l’attribuzione gratuita compiuta spontaneamente e nella consape¬volezza di non dover adempiere alcun obbligo giuridico, morale, sociale, per compensare i servizi resi o promessi dal donatario. Esattamente, pertanto, il giudice del merito, escluso che nel trasferimento brevi manu di un libret¬to di risparmio con un saldo attivo di oltre cento milioni di lire integri sia pur in parte l’adempimento di obblighi nascenti da un rapporto di lavoro o comunque dipendenti da un dovere giuridico, afferma che deve ravvisarsi la figura prevista dall’articolo 770 del Cc (con conseguente nullità dell’attribuzione per difetto di forma), caratte¬rizzata dalla rilevanza giuridica che assume in essa il motivo dell’attribuzione patrimoniale, correlata specifica¬mente a un precedente comportamento del donatario nei cui confronti la liberalità si pone come riconoscenza, apprezzamento di meriti o speciale remunerazione di attività svolta e non piuttosto quella dell’adempimento di un’obbligazione naturale ex articolo 2034 del codice civile.
Trib. Savona, 29 giugno 2002 (Famiglia e Diritto, 2003, 6, 598 nota di FERRANDO)
È valido il contratto con cui i conviventi more uxorio s’impegnano a partecipare alle spese della famiglia di fatto in misura eguale. In base al canone ermeneutico della buona fede, improntato ad un principio di solidarietà contrattuale, esso va tuttavia interpretato in analogia a quanto dispone, nei rapporti tra coniugi, l’art. 143 c.c., cosicché l’obbligo di contribuzione va determinato in relazione alle sostanze ed alle capacità di lavoro professionale e casalingo dei conviventi. Di conseguenza la convivente che abbia contribuito in misura maggiore, a causa delle difficoltà lavorative dell’altro, non può ripetere le maggiori somme destinate alla vita comune.
Trib. Napoli, 1 marzo 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “negotium mixtum” con donazione integra una donazione indiretta attuata attraverso l’utilizzazione dello sche¬ma di una compravendita a prezzo di favore; in tale caso, l’arricchimento del beneficiario ricorre limitatamente alla differenza tra il valore di mercato del bene e il prezzo pagato, di guisa che nell’azione di riduzione la sussi¬stenza della lesione della quota spettante per legge ai legittimari va valutata nei limiti della liberalità indiretta.
Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2001, n. 6711 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’esistenza, a favore del proprietario coltivatore diretto del fondo rustico confinante con quello ceduto, del diritto di prelazione, e del correlato diritto di riscatto, per il combinato disposto di cui agli art. 8, comma 1, l. 26 maggio 1965 n. 590 e 7, comma 2, n. 2, l. 14 agosto 1971 n. 817, è necessario che il trasferimento sia a titolo oneroso, mentre se la compravendita è utilizzata al fine di arricchire il compratore della differenza tra il valore del bene ed il prezzo stabilito, è configurabile un negotium mixtum cum donatione, che costituisce donazione indiretta, e, pertanto, la predetta disciplina è inapplicabile.
Per l’esistenza, a favore del proprietario coltivatore diretto del fondo rustico confinante con quello ceduto, del diritto di prelazione, e del correlato diritto di riscatto, per il combinato disposto di cui agli art. 8, comma 1, l. 26 maggio 1965 n. 590 e 7, comma 2, n. 2, l. 14 agosto 1971 n. 817, è necessario che il trasferimento sia a titolo oneroso, mentre se la compravendita è utilizzata al fine di arricchire il compratore della differenza tra il valore del bene ed il prezzo stabilito, è configurabile un negotium mixtum cum donatione, che costituisce donazione indiretta, e, pertanto, la predetta disciplina è inapplicabile.
Trib. Monza, 25 gennaio 2001 (Nuova Giur. Civ., 2002, I, 46, nota di MORLOTTI)
Il prelevamento, in forza di regolare delega, del denaro depositato sul conto corrente del padre, prima della di lui morte ed in osservanza del suo desiderio di compensare la figlia per l’assistenza che gli ha prestato, deve essere considerato come una donazione indiretta remuneratoria; la somma così acquisita dalla figlia, non può formare oggetto di divisione ereditaria, ma può, però, essere ridotta al fine di integrare la quota di riserva spettante a sua sorella.
Trib. Napoli Sent., 19 gennaio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di acquisto di un immobile con denaro del disponente ed intestazione al beneficiario, la configurabilità di una donazione indiretta dell’immobile presuppone il collegamento tra elargizione di denaro e acquisto, ossia la finalizzazione dell’elargizione all’acquisto.
Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778 (Famiglia e Diritto, 2001, 136, nota di CIANCI)
Nella ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l’acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest’ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazio¬ne. In tale secondo caso, il collegamento tra l’elargizione del danaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immobile stesso, e non già del danaro impiegato per il suo acquisto. Ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, è ricompreso tra quelli esclusi da detto regime, ai sensi dell’art. 179, lett. b), c.c., senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio – mezzo con l’arricchimento di uno dei coniugi per spirito di liberalità. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso che fosse ricompreso nel regime di comunione legale l’immobile acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi, in relazione al quale era stato documentalmente provato il diretto versamento di somme alla coopera¬tiva, da parte del genitore di questo, all’atto dell’assegnazione dell’immobile stesso – senza che potesse assu¬mere rilievo la circostanza, risultante dall’atto pubblico di assegnazione, e ritenuta, invece, dai giudici di merito ostativa alla configurabilità di una donazione indiretta, che il restante maggior prezzo dovesse essere versato dall’intestatario del bene mediante accollo della quota di mutuo di pertinenza dell’immobile, avuto riguardo al comprovato versamento, da parte del genitore, delle relative rate).
Nell’ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l’acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest’ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazio¬ne. In tale secondo caso, il collegamento tra l’elargizione del danaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immobile stesso e non già del danaro impiegato per il suo acquisto. Ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale è compreso tra quelli esclusi da detto regime, ai sensi dell’art. 179, lett. b, c.c., senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio – mezzo con l’arricchimento di uno dei coniugi per lo spirito di liberalità.
Non costituisce oggetto della comunione legale il bene immobile acquistato da uno dei coniugi, durante il matri¬monio, con denaro proveniente da un terzo, in quanto in tale ipotesi si configura una donazione indiretta dell’im¬mobile a favore solo ed esclusivamente del destinatario dell’elargizione della somma di danaro.
La donazione indiretta del bene immobile non deve necessariamente articolarsi in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipula ed accollo del mutuo, assunzione dell’obbligo di rivalere il figlio di quanto avrebbe pagato), essendo necessario (ma al tempo stesso sufficiente) che venga provato il collegamento tra elargizione del denaro e acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso.
Il bene acquistato da uno solo dei coniugi in regime di comunione legale con denaro di un terzo è oggetto di donazione indiretta e rientra tra i beni personali.
Nell’ipotesi in cui un soggetto (il padre) abbia erogato il denaro occorrente per l’acquisto di un immobile in capo ad un soggetto (il figlio, in comunione legale con il proprio coniuge), si deve distinguere il caso della donazione diretta del denaro, in cui oggetto della liberalità rimane la somma, dal caso in cui il denaro sia stato fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione; in tale secondo caso, il collegamento tra la elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene da parte del figlio porta a concludere che si sia in presenza di una donazione indiretta dell’immobile e non già del denaro impiegato per l’acquisto: ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquistato, dopo il matrimonio, dal figlio è escluso dal regime di comunione legale, ai sensi dell’art. 179 lett. b) c.c., senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo necessaria, ma sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il c. d. negozio – mezzo e l’ar¬ricchimento del coniuge onorato per spirito di liberalità
Trib. Firenze, 3 ottobre 2000 (Arch. Civ., 2001, 1268, nota di SANTARSIERE)
Nel caso di acquisto di un immobile, che si intesti ad altro soggetto per liberalità, la vendita costituisce lo stru¬mento per attuare l’arricchimento del destinatario, quale donazione indiretta del bene, il cui valore al tempo dell’apertura della successione formerà oggetto del conferimento in collazione.
Cass. civ. Sez. II, 22 settembre 2000, n. 12563 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto che il disponente intende in tal modo beneficiare, l’atto integra una donazione indiretta del bene stesso costituendo strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 (Giur. It., 2001, 757, nota di DI MARTINO)
Dalla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circo¬stanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione.
Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2000, n. 9872 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sopravvenienza dell’”animus donandi” alla realizzazione di un’opera su suolo altrui, può configurare una dona¬zione indiretta a favore del proprietario del suolo lasciando prescrivere il diritto all’indennità ex art. 936, comma 2, c.c. ovvero rinunciando all’indennità.
Cass. civ. Sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642 (Contratti, 2000, 7, 653, nota di RADICE)
Con il negotium mixtum cum donatione le parti, attraverso un contratto tipico oneroso, attuano anche una dona¬zione indiretta; pertanto, non è necessaria la forma solenne prescritta per la donazione diretta, ma è sufficiente la forma propria del negozio oneroso effettivamente utilizzato.
Il negotium mixtum cum donatione costituisce una donazione indiretta attuata attraverso la utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo, per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato.
Trib. Monza, 18 novembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Venuta meno una convivenza “more uxorio” per qualunque causa, non è possibile, sul piano strettamente giuri¬dico, che un partner, ovvero il suo erede, proponga contro l’altro, o contro il suo erede, un’azione di ripetizione dell’indebito per ottenere la restituzione di somme elargite al fine di sopperire a singole necessità del compagno, purché possa riscontrarsi un rapporto di proporzionalità tra le somme esborsate ed i doveri morali e sociali as¬sunti reciprocamente dai conviventi.
Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 1999, n. 10850 (Foro It., 2000, I, 2919)
La sola cointestazione del contratto di custodia e amministrazione di titoli a coniugi in regime di separazione dei beni non è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il denaro del quale i titoli sono stati acquistati, di disporre della metà dei beni a titolo di liberalità.
Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5265 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disciplina del negotium mixtum cum donatione obbedisce al criterio della prevalenza, nel senso che ricorre la donazione remuneratoria (che esige la forma solenne richiesta per le donazioni tipiche) quando risulti la pre¬valenza dell’animus donandi, laddove si avrà invece un negozio a titolo oneroso, che non abbisogna della forma solenne, quando l’attribuzione patrimoniale venga effettuata in funzione di corrispettivo o in adempimento di una obbligazione derivante dalla legge o in osservanza di un dovere nascente dalle comuni norme morali e so¬ciali che si riveli assorbente rispetto all’animus donandi. (Nella specie, la convivente di un soggetto sieropositivo al virus HIV aveva ricevuto da quest’ultimo una somma di danaro prima che la convivenza avesse termine: i giudici di merito, con sentenza confermata dalla S.C., qualificato l’atto come negotium mixtum cum donatione, ne avevano evidenziato la prevalenza dell’aspetto risarcitorio su quello di liberalità, rigettando la richiesta di restituzione del ricorrente).
Cass. civ. Sez. II, 10 aprile 1999, n. 3499 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la validità delle donazioni indirette, cioè di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 c.c., non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’os¬servanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità. (Nella specie trattavasi di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di danaro depositata presso un istituto di credito appartenuta all’atto della cointestazione ad uno solo dei cointestatari).
Trib. Terni, 29 settembre 1998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso in cui un coniuge paghi al venditore con denaro proprio il prezzo di un immobile che venga però inte¬stato all’altro coniuge, è configurabile una donazione indiretta dell’immobile, essendosi comunque realizzato lo schema della donazione, consistente nell’arricchimento del donatario, con corrispondente depauperamento del donante.
Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra donazione indiretta del bene stesso, non del danaro.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 323 nota di GIOIA)
La donazione indiretta consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è pro¬prio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità medesi¬ma. Ne deriva che non sussiste un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’art. 179 lett. b) c.c., sicché il bene oggetto di essa non deve necessariamente rientrare nella comunione legale.
Muovendo dalla premessa che, nel caso di specie, si configurava la donazione indiretta dell’immobile, ossia un atto di liberalità attuato, anziché con il contratto tipico previsto dall’art. 769 c.c., mediante un procedimento costituito da più negozi tra loro collegati, la Corte di merito ha escluso che detta donazione potesse rientrare nella previsione dell’art. 179 lett. b) c.c., sulla base della considerazione che l’acquisto del diritto di proprietà da parte del beneficiario costituisce effetto immediato e diretto del contratto di vendita, mentre lo scopo di liberalità risulta estraneo alla causa di tale contratto, con la conseguenza che, ove si volesse ricomprendere l’atto di libe¬ralità (indiretta) nell’ambito dei beni personali del coniuge, si applicherebbe al contratto di vendita la disciplina dettata per la donazione.
Trattasi, all’evidenza, di ragionamento sostanzialmente tautologico: dalla mera descrizione del fenomeno e del meccanismo negoziale con il quale si realizza non può, infatti, discendere automaticamente l’esclusione del bene, oggetto di donazione indiretta, da quelli personali del coniuge, ai sensi dell’art. 179 lett. b) c.c., occorren¬do verificare se, indipendentemente dal rilievo che la proprietà dell’immobile si acquista per effetto della vendita, sia consentito limitare la portata della norma in esame alle sole donazioni regolate dall’art. 769 c.c. In altri ter¬mini, il ragionamento seguito dal giudice di merito si risolve nell’affermazione che il bene oggetto di donazione indiretta deve necessariamente essere ricompreso nella comunione legale sol perché non è conseguenza di una donazione tipica (diretta) ed in quanto la forma richiesta è quella dell’atto da cui la donazione indiretta risulta: finisce, cioé, per svilire lo stesso procedimento negoziale per mezzo del quale si attua lo scopo di liberalità, senza neppure dar conto della rilevanza che assume, nella formulazione dell’art. 179 lett. b) c.c., l’uso del termine “liberalità”, con riferimento alla possibilità (legislativamente prevista: art. 809 c.c.) che essa risulti da atti diversi da quelli indicati nell’art. 769 c.c. Se la donazione indiretta consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomi¬tanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento “animo donandi” del destinatario della liberalità medesima (cfr. Cass. 5410/89 e la fondamentale SS.UU. 9282/92), per negare l’inclusione della donazione indiretta nell’ipotesi prevista dall’art. 179 lett. b) c.c. nessun argomento decisivo può trarsi dalla causa del contratto di vendita, che rappresenta il negozio – mezzo, produttivo dei suoi effetti norma¬li, rispetto al c.d. negozio – fine: la donazione indiretta altro non è che la risultante della combinazione di tale negozi, dalla cui funzione non può ritenersi comunque estranea la finalità di arricchimento senza corrispettivo.
Quanto alla tesi, sostenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il regime della comunione legale dei beni riveste carattere generale e deve trovare, quindi, la massima sfera di operatività, è sufficiente osservare che, come riconosce la stessa Corte napoletana, il legislatore non ha certamente ritenuto siffatto carattere ostativo all’esclusione di determinati beni: il problema, cioè, non consiste nell’interpretazione estensiva o meno della norma contenuta nell’art. 179 lett. b) c.c., ma nell’individuazione della sua effettiva portata e di precise ragioni, anche d’ordine sistematico, che eventualmente possano giustificare l’esclusione della donazione indiretta (o meglio, del bene oggetto di essa) dall’ambito della norma medesima. A ciò si aggiunga che questa Corte, con la recente sentenza n. 11327/97, ha posto in rilievo, sulla scorta di opinione largamente prevalente in dottrina, come la “ratio” della disciplina della comunione sia quella di rendere comuni i beni alla cui acquisizione entrambi i coniugi abbiano contribuito, onde sarebbe iniquo (e, va precisato, contrario allo stesso principio informatore della comunione legale) ricomprendervi le liberalità a favore di uno solo dei coniugi, trattandosi di acquisti per i quali nessun apporto è stato sicuramente dato dall’altro coniuge. E’ stato osservato in dottrina, poi, che un’acri¬tica applicazione del “favor communionis” finirebbe per impedire di concepire una liberalità indiretta a favore di uno solo dei coniugi (in regime di comunione legale), così annullando gli stessi effetti della donazione indiretta, quale procedimento negoziale del tutto legittimo per la realizzazione di scopi ulteriori rispetto a quelli persegui¬bili con una donazione diretta.
Una volta rimosse le ragioni addotte, in via di principio, dalla Corte di merito per non estendere alla donazione indiretta la norma di cui all’art. 179 lett. b) c.c., resta da verificare se sussistano altri ostacoli a ricomprendere tale complesso procedimento (diverso, va detto, dal negozio indiretto, attesa la pluralità degli strumenti giuridici collegati) nell’ambito della disposizione in esame: al quesito si deve dare risposta negativa.
La formulazione letterale offre, di per sé, un argomento non secondario per l’equiparazione, ai fini che qui inte¬ressano, della donazione indiretta a quelle previste dall’art. 769 c.c.: di sicuro rilievo, inoltre, è la considerazione che, in mancanza di espressa dichiarazione del donante (al pari di quella del testatore) di voler attribuire alla comunione legale il bene, l’inclusione di questo tra quelli personali trova fondamento nel rispetto della volontà dello stesso disponente e nel carattere strettamente personale dell’attribuzione fatta ad uno solo dei coniugi. In questo senso, infatti, è la dottrina di gran lunga prevalente, la quale ha osservato, sotto il profilo letterale, che l’eccezione prevista nella parte finale della norma si riferisce all’ “atto di liberalità”, ossia a concetto più ampio di quello di donazione in senso stretto, onde sarebbe illogico ritenere che all’eccezione sia attribuito un ambito di applicazione più ampio di quello della regola; sotto il secondo profilo, che, in difetto di specifica volontà del disponente di attribuire il bene alla comunione, l’ “animus donandi” non può essere obliterato, presentandosi nella donazione indiretta in modo non diverso dalla donazione diretta.
Sempre dalla dottrina, sollecitata dall’indirizzo di questa Corte in tema di collazione (per il quale cfr. Cass. 1257/94), viene un ulteriore contributo: il principio secondo cui oggetto della liberalità indiretta è il bene acqui¬stato e non il denaro versato dal disponente, pone in risalto la sufficienza del collegamento tra elargizione del denaro e acquisto del bene, ossia la finalità di arricchimento del beneficiano, sia pur realizzata con strumento diverso da quello tipico della donazione (diretta).
Non ha decisivo rilievo, inoltre, l’affermazione della sentenza impugnata sul non rispetto, in caso di donazione indiretta, dei paradigmi negoziali indicati nell’art. 179 c.c., tutti improntati, secondo l’assunto della Corte di merito, al soddisfacimento delle esigenze di tutela dei terzi: coglie nel segno, infatti, la critica del ricorrente, quando osserva come sia da dimostrare che i criteri dettati per la qualificazione dei beni come personali offrano assoluta certezza nelle ipotesi diverse da quella contemplata nella lett. b); dovendosi aggiungere che l’assenza di adempimenti formali per l’esclusione dell’oggetto della donazione (indiretta) dalla comunione è frutto di una precisa scelta legislativa, l’art. 179, 2° comma, c.c. avendo previsto l’intervento dell’altro coniuge, al fine di non far ricadere in comunione l’acquisto di un bene immobile o mobile registrato, soltanto per le ipotesi di cui alle lett. c), d) ed f).
Quanto all’impossibilità, in via di principio, di ricomprendere la donazione indiretta nella previsione dell’art. 179 lett. b) c.c., perché la fattispecie acquisitiva sarebbe regolata dalle norme vigenti per il negozio utilizzato (os¬sia la vendita), va rilevato che dall’art. 809 c.c. può sicuramente desumersi che per la validità della donazione indiretta non è necessaria la forma dell’atto pubblico, voluta dall’art. 782 c.c. per la donazione, essendo suffi¬ciente l’osservanza di quella richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta (tra le altre, Cass. 1214/97 e 13630/92), ma non che il legislatore abbia voluto escludere il bene oggetto di donazione indiretta dall’ambito di quelli personali del coniuge sol perché la forma dell’acquisto è quella del negozio – mezzo: ancora una volta, non si può non richiamare l’elaborazione della prevalente dottrina, alla cui stregua non sussistono ragioni per ritenere inapplicabile alla donazione indiretta una serie di norme dettate in tema di donazione, quali gli artt. 776, 777, 779, 786-88, 797-98 (e, più problematicamente, gli artt. 778 e 437, quest’ultimo concernente l’obbligo del donatario agli alimenti).
Non può essere condiviso, infine, l’argomento della non configurabilità per ragioni strutturali, in ordine alla dona¬zione indiretta, della specificazione con la quale il bene venga attribuito alla comunione: al riguardo, il Collegio aderisce pienamente all’affermazione contenuta nella citata sentenza n. 11327/97, secondo cui tale specificazio¬ne non è requisito essenziale per produrre l’effetto previsto dall’art. 179 lett. b) c.c., in quanto il legislatore si è limitato a prevedere la rilevanza della dichiarazione di voler destinare la liberalità alla comunione, allo scopo di escludere il bene donato dall’ambito di quelli personali, e con la precisazione che il procedimento negoziale non impedisce necessariamente l’effettuazione della dichiarazione, sia pure al di fuori di un atto di liberalità (che, come singolo atto, non esiste).
Si deve ritenere, allora, che non vi sia un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’art. 179 lett. b) c.c., onde il bene oggetto di essa non deve necessariamente rientrare nella comunione lega¬le: a tale conclusione questa Corte è pervenuta, sebbene sotto altro profilo, anche con la sentenza n. 7470/97, secondo cui, nel regime della comunione legale fra i coniugi, l’acquisto di un bene personale effettuato da uno di essi per donazione fattogli da un terzo, si sottrae al regime della comunione, a norma dell’art. 179, 1° comma, lett. b) c.c. ancorché la donazione sia dissimulata da una vendita, potendo l’acquirente opporre all’altro coniuge il carattere simulato di quest’ultima.
Cass. civ. Sez. II, 30 dicembre 1997, n. 13117 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La rinuncia all’usufrutto, se ispirata da “animus donandi”, è suscettibile di integrare una donazione indiretta a favore del nudo proprietario dei beni gravati dal diritto reale parziario rinunciato, perché, comportando un’estin¬zione anticipata di tale diritto, si risolve nel conseguimento da parte di detto “dominus” dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza: il controvalore di tali vantaggi è, pertanto, senz’altro passibile di convogliamento nella massa ereditaria di cui all’art. 556 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327 (Foro It., 1999, I, 994)
Il bene acquistato da uno solo dei coniugi in regime di comunione dei beni, con denaro di un terzo, e pertanto oggetto di donazione indiretta, non entra nella comunione legale, ancorché il terzo non abbia dichiarato esplici¬tamente di voler destinare il denaro stesso in favore del solo coniuge acquirente.
Nel caso di soggetto che abbia erogato il denaro per l’acquisto di un immobile in capo ad un figlio (ancorché coniugato in regime di comunione legale) si deve distinguere l’ipotesi della donazione diretta del denaro, impie¬gato successivamente dal figlio in un acquisto immobiliare, in cui, ovviamente, oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisce il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale caso il collegamento tra l’elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
Il tenore letterale dell’art. 179 lett. b), c.c. che parla di “liberalità” e non di “donazione” non consente di limi¬tarne la portata alle sole liberalità previste dall’art. 769 c.c. Consegue che la peculiare struttura della donazione indiretta non è assolutamente incompatibile con l’applicazione dell’art. 179 lett. b c.c.).
Cass. civ. Sez. III, 14 maggio 1997, n. 4231 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto che il disponente stesso intende in tal modo beneficiare, si verifica una donazione indiretta dell’immobile (non del denaro) per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico prevista per la donazione ( art. 782 c.c.), ma basta l’osservanza della forma richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta.
Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1997, n. 1214 (Contratti, 1997, 3, 297)
Il negotium mixtum cum donatione non è un contratto innominato, formato da elementi di due schemi negoziali tipici (cosiddetto contratto misto), bensì costituisce una donazione indiretta, attuata attraverso l’utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo; perciò esso non deve rivestire la forma prevista per il contratto tipico, nel cui schema sono riconducibili gli ele¬menti prevalenti, bensì quella dell’atto effettivamente adottato.
Per la validità di una donazione indiretta è sufficiente l’osservanza delle prescrizioni di forma richieste per l’atto da cui essa risulta, in quanto l’art. 809 c.c., mentre assoggetta le liberalità risultanti da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c. alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni, non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
L’art. 782 c.c., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione diretta onde tutelare il donante, non può essere esteso, a differenza delle norme che tutelano i terzi, alla donazione indiretta perché l’arricchimento non è l’effetto tipico del negozio che le parti adottano per realizzarlo.
Trib. Milano, 6 novembre 1996 (Famiglia e Diritto, 1997, 5, 469, nota di D’ADDA)
La quota di immobile acquistata da un coniuge per donazione indiretta è da qualificarsi come bene personale ai sensi dell’art. 179 lett. b) c.c., e non rientra quindi nel regime di comunione legale dato che l’acquisizione è avvenuta senza il contributo, diretto o indiretto, del coniuge non beneficiario dell’atto.
Trib. Napoli, 17 aprile 1996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
Qualora tra fideiussore e debitore garantito esistano stretti vincoli di parentela, sempre in ipotesi di mancato esercizio dell’azione di regresso, può escludersi alla fideiussione la natura di conferimento qualora la si consideri come donazione indiretta purché vi sia la prova dell’”animus donandi”.
Trib. Napoli, 25 marzo 1996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che l’”affectio familiaris” e l’”affectio maritalis” possono senz’altro assurgere ad indici sintomatici della volontà di eseguire, mercè l’utilizzazione dello schema negoziale tipico della fideiussione, una donazione indiret¬ta, ne consegue che la qualificazione in termini di conferimento delle garanzie personali gratuite e sistematiche prestate dal coniuge ovvero da uno stretto congiunto, richiede pur sempre l’assolvimento dell’onere della dimo¬strazione, gravante a carico di chi invoca il fallimento del fideiussore coniuge o congiunto, della sostanziale par¬tecipazione di quest’ultimi alla maggior quota di utili conseguiti e corrispondenti, all’apporto di capitale ottenuto grazie alla prestazione di garanzia e prima ancora, la dimostrazione dell’attività di partecipazione del fideiussore, coniuge o congiunto, alla gestione dell’impresa sociale.
Cass. civ. Sez. II, 13 luglio 1995, n. 7666 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disciplina del negotium mixtum cum donatione obbedisce al criterio della prevalenza, nel senso che ricorre la donazione remuneratoria (che esige la forma solenne richiesta per le donazioni tipiche) quando risulti la pre¬valenza dell’animus donandi, laddove si avrà invece un negozio a titolo oneroso, che non abbisogna della forma solenne, quando l’attribuzione patrimoniale venga effettuata in funzione di corrispettivo o in adempimento di una obbligazione derivante dalla legge o in osservanza di un dovere nascente dalle comuni norme morali e sociali che si riveli assorbente rispetto all’animus donandi.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 1995, n. 5866 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso in cui un coniuge consegni all’altro una somma di denaro e quest’ultimo la utilizzi per opere di migliora¬mento della casa coniugale, di sua proprietà, deve presumersi, in mancanza di prova contraria, che la consegna sia stata effettuata in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. Tuttavia, essendo stata la somma impiegata in modo da comportare anche l’arricchimento esclusivo del coniuge accipiente, questi è tenuto ad indennizzare l’altro del vantaggio conseguito (nella specie, la corte di merito aveva attribuito un’indennità ex art. 1150 c.c.
App. Napoli, 19 luglio 1994 (Giur. di Merito, 1996, 78)
In caso di donazione indiretta di un immobile, da parte del genitore al figlio coniugato in regime di comunione dei beni, l’immobile stesso entra a far parte della comunione legale dei beni, non essendo invocabile l’art. 179 lett. b) c.c. che, riferendosi alla sola donazione, non è applicabile a differenti atti (nel caso di specie compravendita) pur se posti in essere per spirito di liberalità.
Cass. civ. Sez. II, 22 giugno 1994, n. 5989 (Giur. It., 1995, I,1, 1558 nota di MASUCCI)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente e di intestazione dello stesso bene ad altro soggetto che il disponente abbia inteso così beneficiare, il conferimento ai fini della collazione deve avere ad oggetto l’immobile, non già il denaro impiegato per il suo acquisto, trattandosi di donazione indiretta dell’im¬mobile.
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente e di intestazione dello stesso bene ad un altro soggetto, che il disponente stesso abbia inteso in tal modo beneficiare, costituendo la vendita mero strumento formale di trasferimento della proprietà del bene per l’attuazione di un complesso procedimento di arricchimento del destinatario del detto trasferimento, si ha donazione indiretta non già del danaro ma dell’im¬mobile, poiché, secondo la volontà del disponente, alla quale aderisce il donatario, di quest’ultimo bene viene arricchito il patrimonio del beneficiario; conseguentemente il conferimento, ai sensi dell’art. 737 c.c., avrà ad oggetto l’immobile e non il danaro impiegato per l’acquisto, all’uopo considerando il valore acquisito dall’immo¬bile stesso al tempo dell’apertura della successione.
Cass. civ. Sez. II, 8 febbraio 1994, n. 1257 (Foro It., 1995, I, 614, nota di DE LORENZO)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente e di intestazione dello stesso bene ad altro soggetto, che il disponente abbia inteso in tale modo beneficiare, costituendo la vendita mero strumento formale di trasferimento della proprietà del bene per l’attuazione di un complesso procedimento di arricchimento del destinatario del detto trasferimento, si ha donazione indiretta non già del denaro ma dell’immobile poiché, secondo la volontà del disponente, alla quale aderisce il donatario, di quest’ultimo bene viene arricchito il pa¬trimonio del beneficiario; conseguentemente, il conferimento, ai sensi dell’art. 737 c.c., avrà ad oggetto l’im¬mobile, con il valore acquisito al tempo dell’apertura della successione e non il denaro impiegato per l’acquisto.
Trib. Catania, 25 marzo 1993 (Foro It., 1995, I, 696)
Ai fini della validità di una donazione indiretta è sufficiente la forma propria del singolo negozio scelto per attuare la liberalità atipica (nella specie, è stata ritenuta valida di donazione indiretta effettuata mediante cointestazio¬ne di libretti di deposito bancario e successivi versamenti di somme di denaro su libretti di deposito bancario cointestati).
Deve considerarsi perfezionata una donazione indiretta effettuata mediante versamenti eseguiti su libretti di deposito bancario, e ciò anche in assenza della consegna materiale dei libretti da parte del donante.
Cass. civ. Sez. I, 23 dicembre 1992, n. 13630 (Dir. Famiglia, 1994, 1, 112)
Nel caso in cui una persona paghi al venditore, con denaro proprio, il prezzo di un immobile che risulti acquistato da altri (nella specie, la moglie), si verifica una donazione indiretta dell’immobile (che in tal modo entra a far parte del patrimonio del destinatario della liberalità), per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico, prescritta dall’art. 782 c. c. per la donazione, ma basta l’osservanza della forma richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta.
Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 1992, n. 11499 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con riguardo a compravendita a prezzo di favore, integrante negotium mixtum cum donatione, l’atto di liberalità (indiretta), e, correlativamente, l’arricchimento del beneficiario sono configurabili limitatamente alla differenza fra il valore di mercato del bene ed il suddetto prezzo; ne consegue, in caso di revocazione della liberalità, che solo quella differenza deve essere restituita al venditore-donante.
Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282 (Foro It., 1993, I, 1544, nota di DE LORENZO, FABIANO)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il soggetto medesimo intende in tal modo beneficiare con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e quindi integra donazione indiretta del bene stesso e non del denaro. Pertanto in caso di collazione, secondo la previsio¬ne dell’art. 737 c.c. il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile non il denaro donato per il suo acquisto.
Cass. civ. Sez. III, 18 luglio 1991, n. 7969 (Giust. Civ., 1992, I, 726)
La vendita di un fondo eseguita a prezzo di favore, ove consegua il previsto e voluto risultato di arricchire il com¬pratore della differenza tra il valore del bene ed il prezzo stabilito configura un negotium mixtum cum donatione, che costituisce donazione indiretta con riferimento alla quale non può essere esercitato il diritto di prelazione agraria.
Cass. civ. Sez. II, 23 febbraio 1991, n. 1931 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel negotium mixtum cum donatione, che deve rivestire la forma non della donazione, m dello schema nego¬ziale effettivamente adottato dalle parti, la causa del contratto è onerosa, ma il negozio commutativo adottato viene dai contraenti posto in essere per raggiungere in via indiretta, attraverso la voluta sproporzione delle pre¬stazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella di scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò venendo il negozio posto in essere a realizzare una donazione indiretta; pertanto la vendita ad un prezzo inferiore a quello effettivo non realizza di per sé un negotium mixtum cum donatione, dovendo la insufficienza del corrispettivo essere devoluta ed orientata al fine di arricchire la controparte avvantaggiata.
Cass. Civ. 13 maggio 1989, n. 2199 (Giust. Civile, 1989, I, 2057, nota di FINOCCHIARO)
Il coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia eseguito a proprie spese migliorie ed ampliamenti dell’immobile dell’altro, in godimento ad entrambi, ha diritto ai rimborsi e alle indennità previste dall’art. 1150 c. c., per il pos¬sessore di buona fede ed applicabile anche al compossessore, mentre non può invocare l’art. 936 c. c. – opere fatte da un terzo con materiali propri – difettando nel compossessore il requisito della terzietà.
Cass. civ. Sez. III, 20 gennaio 1989, n. 285 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella dazione di una somma di danaro da parte dell’uomo alla donna in occasione della cessazione della loro relazione sentimentale, può ravvisarsi l’adempimento di un’obbligazione naturale, con la conseguenza che la suddetta somma non può essere chiesta in restituzione (soluti retentio), né dedotta in compensazione da parte del solvens.
Cass. civ. Sez. II, 28 novembre 1988, n. 6411 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negotium mixtum cum donatione, è caratterizzato dal concorso di una causa onerosa con l’animus donandi mediante l’adozione di uno schema negoziale commutativo posto in essere dai contraenti per raggiungere in via indiretta, attraverso la voluta sproporzione delle prestazioni corrispettive, una finalità diversa ed ulteriore rispet¬to a quella di scambio, consistente nell’arricchimento, per mero spazio di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore; tale negozio, pertanto, realizzando una ipotesi di donazione indiretta, non deve rivestire la forma della donazione ma quella dello schema negoziale effettivamente adottato dalle parti.
Cass. civ. Sez. III, 29 novembre 1986, n. 7064 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione naturale non è trasmissibile per via di successione mortis causa, perché, non avendo giuridicità prima e fuori dell’adempimento, non ha carattere patrimoniale né fa parte del coacervo di diritti ed obblighi nei quali subentra l’erede, il quale tuttavia può assolvere, alla stregua dei principi etici e sociali, in via originaria ad una sua propria obbligazione naturale, sorta di riflesso, in dipendenza
Cass. civ., 13 maggio 1980, n. 3147 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donazione indiretta ha la sua causa, così come la donazione diretta, nella liberalità, e cioè nella consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario mediante attribuzioni od erogazioni patrimoniali operate nullo iure cogente. Ciò comporta che nell’ipotesi di donazione indiretta – valida anche tra coniugi, essendo venuto meno il divieto contenuto nell’art. 781 c.c. – vanno seguiti, ai fini dell’individuazione della causa e della rileva¬zione dei suoi vizi, i medesimi principi e criteri che valgono per la donazione diretta. (Nella specie, l’attore agiva per la restituzione di beni intestati alla moglie, in base alla considerazione che questi, oggetto di donazione indiretta, dovevano essere destinati a vantaggio della famiglia e alla normale convivenza dei coniugi, e i giudici del merito hanno escluso che incombesse alla donataria l’onere di provare lo spirito di liberalità del donante, per poter trattenere i beni in questione nonostante la sopravvenuta separazione giudiziale tra i coniugi, ritenendo che, per contro, spettasse al donante dimostrare che la donazione fosse preordinata o subordinata alle pretese finalità, divenute irrealizzabili o frustrate dalla donataria. La Suprema Corte, nel confermare questa decisione, ha enunciato il precisato principio).

DELIBAZIONE DELLE SENTENZE ECCLESIASTICHE

Di Gianfranco Dosi

I Il quadro normativo vigente
a) le norme concordatarie
Il Concordato tra la Santa Sede e l’Italia dell11 febbraio 1929, nel testo originario, prevedeva all’art. 34 che “Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili” (primo comma) e che “Le cause con¬cernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono riser¬vate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici. Le sentenze relative, quando siano divenute definitive, saranno portate al Supremo Tribunale della della Segnatura, il quale controlle¬rà se siano state rispettate le norme del diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti. Le dette sentenze definitive coi relativi decreti del Supremo Tribunale della Segnatura saranno trasmessi alla Corte di Appello dello Stato competente per territorio, la quale, con ordinanze emesse in Camera di Consiglio, li renderà esecutivi agli effetti civili ed ordinerà che siano annotati nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio. Quanto alle cause di separazione personale, la Santa Sede consente che siano giudicate dall’autorità giudiziaria civile” (commi 4-6).
La legge 27 maggio 1929, n. 810 dava esecuzione al Concordato mentre la legge 27 maggio 1929, n. 847 ne dettava le disposizioni per l’applicazione, indicando capo II (Disposizioni relative ai ma¬trimoni celebrati davanti i ministri del culto cattolico) nell’art. 17 che “La sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, dopo che sia intervenuto il decreto del Su¬premo Tribunale della Segnatura, preveduto dall’art. 34 del Concordato dell’11 febbraio 1929, fra l’Italia e la Santa Sede, sono presentati in forma autentica alla Corte di appello della circoscrizione a cui appartiene il comune, presso il quale fu trascritto l’atto di celebrazione del matrimonio. La Corte di appello, con ordinanza pronunciata in camera di consiglio, rende esecutiva la sentenza e ne ordina la annotazione a margine dell’atto di matrimonio”.
In questo contesto Corte cost. 2 febbraio 1982, n. 18 premettendo che il principio della sovrani¬tà dello Stato e quello della sua sovranità e indipendenza nei confronti della chiesa cattolica, al pari del diritto alla tutela giurisdizionale, vanno ascritti nel novero dei princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810, limitatamente all’esecuzione data al 6° comma dell’art. 34 del concordato, nonché dell’art. 17, 2° comma, della legge 27 maggio 1929, n. 847, nella parte in cui tali norme non prevedono, secondo l’interpretazione prevalente nell’arco di più decenni, prospettata nelle ordinanze di rimessione, che la corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, debba accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.
Successivamente la legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo con proto¬collo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato late¬ranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede) apportava modificazioni del Concordato lateranense affermando testualmente che “La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collabo¬razione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”.
L’art. 8 dell’Accordo, dopo aver premesso al primo comma che “Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia tra¬scritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale” al secondo comma prescrive quanto segue:
“Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che sia¬no munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della Corte d’appello competente, quando questa accerti:
a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in conformità del presente articolo;
b) che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici é stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fonda¬mentali dell’ordinamento italiano;
c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichia¬razione di efficacia delle sentenze straniere. La Corte d’appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia.
Al momento della firma dell’Accordo, le parti dichiaravano in un Protocollo addizionale in relazione al predetto secondo comma dell’art. 8 che:
“ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine. In particolare:
1) si dovrà tener conto che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del luogo in cui si é svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico;
2) si considera sentenza passata in giudicato la sentenza che sia divenuta esecutiva secondo il diritto canonico;
3) si intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito.
Le richiamate norme processuali di cui agli articoli 796 e 797 c.p.c. per la cui applicazione “si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico” indicavano i criteri che il giudice italiano deve utilizzare nella valutazione finalizzata alla delibazione nell’ordinamento interno della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. Tra questi criteri il previgente art. 797 c.p.c. al numero 7 prevedeva che la delibazione è ammessa solo se la sentenza non contiene “disposi¬zioni contrarie all’ordine pubblico italiano”1.
Benché gli articoli 796 e 797 c.p.c. siano stati successivamente abrogati dall’art. 73 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) e sostituiti da nuove disposizioni di carattere generale, la giurisprudenza ritiene che il giudice italiano debba con¬tinuare a fare riferimento sempre ai previgenti articoli 796 e 797 c.p.c. (da ultimo Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 e 16380 dove si precisa che “Quanto, in particolare, all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, l’inequivoca formulazione letterale di tale norma del codice di rito civile, cui materialmente rinvia il punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale, nonché i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1982 non consentono alcun dubbio né circa il para¬metro da applicare – l’”ordine pubblico italiano” appunto, non già l’ordine pubblico internazionale, come invece viene adombrato con riferimento all’inapplicabile legge n. 218 del 1995, art. 64, lett. g), né circa il contenuto di esso, costituito, si ribadisce, dalle “regole fondamentali poste dalla Co¬stituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società”). Gli stessi principi erano stati affermati da Cass. civ. Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 21968 e Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19585 (In sede di delibazione della sentenza di nullità del tribunale ecclesiastico non è applicabile la leg¬ge 218/1995 ma gli artt. 796 e 797 c.p.c. e ciò per effetto del richiamo ai detti articoli contenuto nell›Accordo di modificazione del Concordato lateranense, reso esecutivo con L. 25 marzo 1985, n. 121, e gerarchicamente sovraordinato alla legge ordinaria in virtù del principio concordatario accolto dall›art. 7 Cost. ) e da molte altre sentenze precedenti.
b) Le norme del codice civile
Vanno infine segnalate le norme del codice civile che sono fortemente implicate – come si vedrà – nelle problematiche della delibazione di sentenze dichiarative della nullità di matrimoni in cui, prescindendo dalla specifica causa di nullità, la convivenza coniugale dopo la celebrazione del matrimonio viene eccepita come causa ostativa alla delibazione. Si tratta di norme che vengono considerate di ordine pubblico italiano e, appunto, come detto, considerate ostative alla delibazio¬ne di matrimoni di lunga durata.
Tra queste l’art. 123 del codice civile che, con riguardo alla simulazione del matrimonio civile, dopo aver premesso al primo comma che “il matrimonio può essere impugnato da ciascuno dei coniugi quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti” al secondo comma prevede un limite di decadenza all’impugnabilità del matrimonio simulato prevedendo che “l’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”.
L’orientamento attuale che nega la delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità in caso di matrimoni di lunga durata, si basa proprio sulla distinzione, nell’ambito dell’art. 123 c.c., delle due diverse regole di improponibilità della domanda: la prima derivante dal decorso del tempo (“L’a¬zione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio”) e la seconda conseguente alla instaurazione di una convivenza a prescindere dalla sua durata (“L’azione non può essere proposta nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”) ritenendo contrastante con l’ordine pubblico la sentenza ecclesiasti¬ca di nullità in questa seconda situazione.
Lo stesso termine di decadenza di un anno è previsto per l’azione di nullità nelle altre ipotesi di invalidità di cui agli artt. 119-122, sia pure decorrente dal venir meno della causa che ha determi¬nato gli sposi a contrarre matrimonio.
Proprio questi limiti hanno consentito alla giurisprudenza di differenziare il “matrimonio atto” dal “matrimonio rapporto”, fondando su tale differenza l’orientamento che nega, per contrasto con i principi di ordine pubblico del nostro ordinamento civile, la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità in caso di matrimoni di lunga durata.
La circostanza, infatti, che il diritto canonico ammetta l’annullamento del matrimonio in ogni tem¬po prescindendo dalla durata del matrimonio stesso è stata al centro del lungo dibattito che negli ultimi decenni ha accompagnato l’evoluzione della giurisprudenza fino al riconoscimento recente della possibilità di delibazione delle sole sentenze dichiarative della nullità di matrimoni la cui du¬rata è inferiore ai tre anni e sempre che una eccezione in tal senso venga formulata dalla parte che ritiene di averne interesse.
c) La giurisdizione del giudice italiano
Quanto alla giurisdizione del Giudice italiano nelle materie della nullità civile del matrimonio con¬cordatario e della delibazione delle sentenze canoniche di nullità di tale matrimonio, è sufficiente ribadire – in continuità con i condivisi costanti orientamenti delle Sezioni Unite di questa Corte, costituenti ormai “diritto vivente” (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 1824 del 1993 e l’ordinanza n. 14839 del 2011) – che:
a) l’Accordo (ed il Protocollo addizionale) del 1984, pur confermando, anche se implicitamente, la giurisdizione ecclesiastica sulle controversie in materia di nullità del matrimonio celebrato secondo le norme del diritto canonico (art. 8, paragrafo 2, dell’Accordo e punto 4 del Protocollo), non “ri¬serva” più tale giurisdizione ai “tribunali e (…) dicasteri ecclesiastici” (art. 34, comma 4, del Con¬cordato lateranense del 1929), né più “riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, effetti civili” (art. 34, primo paragrafo), tali “riserva” e “riconoscimento” dovendo ritenersi certamente abrogati in forza dell’art. 13, paragrafo 1, secondo periodo, dell’Accordo me¬desimo, secondo cui le disposizioni del Concordato lateranense “non riprodotte come, appunto, l’art. 34 nel presente testo sono abrogate”;
b) conseguentemente, sulle controversie aventi ad oggetto la nullità del matrimonio concordatario, regolarmente trascritto nei registri dello stato civile italiani, promosse dinanzi sia al giudice eccle¬siastico sia al giudice civile, “concorrono” autonomamente la giurisdizione italiana e la giurisdizio¬ne ecclesiastica, determinandosi il rapporto tra l’una e l’altra in base al criterio della giurisdizione preventivamente adita;
c) a seguito: prima, nella vigenza dell’art. 34 del Concordato lateranense, della fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1982 – che, tra l’altro, dichiarò l’illegittimità costitu¬zionale, per violazione dell’art. 1 Cost., comma 2, art. 7 Cost., comma 1, e art. 24 Cost., comma 1, (anche) “della L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 1 (…), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma 6, del Concordato, e della L. 27 maggio 1929, n. 847, art. 17, comma 2, (…), nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”; nonché della stessa L. n. 810 del 1929, art. 1, “limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, commi 4, 5 e 6, del Concordato”, e la L. n. 847 del 1929, art. 17, “nella parte in cui le suddette norme prevedono che la Corte d’appello possa rende¬re esecutivo agli effetti civili il provvedimento ecclesiastico, col quale è accordata la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, e ordinare l’annotazione nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio”, e, poi, dell’entrata in vigore dell’Accordo e del Protocollo addizionale del 1984, non può più dubitarsi dell’attribuzione allo Stato italiano della piena ed effettiva giurisdizio¬ne, intesa quale indefettibile manifestazione della sua sovranità, in ordine al giudizio di delibazione delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio, ogni questione vertendo, semmai soltanto sui cosiddetti “limiti interni” all’esercizio di tale giurisdizione, secondo la legge italiana interpretata anche alla luce dell’Accordo di Villa Madama.
II Contrarietà della riserva mentale all’ordine pubblico “italiano”: il principio dell’affidamento
Premesso, come si è già detto, che in sede di delibazione della sentenza di nullità del tribunale ecclesiastico non è applicabile la legge 218/1995 ma gli artt. 796 e 797 c.p.c. (Cass. civ. Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 21968 e Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19585; Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 e 16380) è stato sempre affermato dalla giurisprudenza il principio che la sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità di un matrimonio concordatario contrasta con l›ordine pubblico “italiano” (non quindi con l’ordine pubblico internazionale cui fa riferimento la legge 218/1995), e quindi non può essere dichiarata esecutiva, ove l›esclusione di uno dei cosiddetti bona matrimonii (cioè uno dei presupposti essenziali del matrimonio) sia rimasta nella sfera psichica del suo autore.
Molto significativa in proposito è stata storicamente Cass. civ. Sez. Unite, 1 ottobre 1982, n. 5026 che, affermando il principio generale, teorizzò esaustivamente sul fatto che la delibazione è possibile solo se l’esclusione sia stata manifestata all’altro coniuge, “tanto se costui si sia limi¬tato a prenderne atto, quanto se abbia positivamente consentito a tale difformità fra volontà e dichiarazione”.
Il criterio direttivo, enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, è quello secondo cui deve essere sempre rispettato, nella formazione della volontà negoziale, il principio dell’affidamento, a tutela del contraente di buona fede con la conseguenza che del tutto legittimamente lo Stato italiano può far valere, tramite il giudice della delibazione, i principi posti dal nostro ordinamento nella formazione dei negozi giuridici, e quindi può rifiutare la dichiarazione di esecutività delle sentenze ecclesiastiche, le quali, in stretta osservanza dei canoni sul dogma della volontà (come in caso di riserva mentale), non ne abbiano tenuto alcun conto.
Su questi aspetti si legge in Cass. civ. Sez. Unite, 18 luglio 2008, n. 19809 che “Vi è in Italia una regolamentazione restrittiva dei vizi del consenso, rilevando solo la violenza e l’errore nei limiti dell’art. 122 c.c.; tali vizi rilevano se risultano da cause esterne e oggettive, non potendo quelle interne o soggettive avere rilievo per un atto solenne come il matrimonio. Non ha rilievo, inoltre, nel sistema interno, il dolo, previsto come causa di annullamento del matrimonio nell’ordinamento canonico e come vizio del consenso negli altri atti di volontà (art. 1427 c.c. e segg.); in ordine alla simulazione, la cui disciplina sopravvenuta nel nuovo diritto di famiglia (art. 123 c.c.), è diversa, nella nozione e negli effetti, da quella generale del medesimo istituto negli altri atti volontari, di cui all’art. 1414 c.c. e segg., vi è la conferma, nel sistema, dell’assoluta importanza del matrimonio rapporto, potendosi rilevare l’invalidità dell’atto non voluto nei suoi effetti.
La sentenza ecclesiastica che annulla un matrimonio religioso per dolo o riserva mentale, fattispe¬cie irrilevanti e non incidenti sulla validità del matrimonio in Italia, è stata ritenuta relativamente incompatibile con l’ordine pubblico e delibabile, se gli artifizi o raggiri d’una parte abbiano deter¬minato errori con i caratteri oggettivi, che l’assimilano a quelli rilevanti nel nostro sistema, sempre che tale natura emerga da fatti accertati dalla pronuncia ecclesiastica, eventualmente rivalutata nel giudizio di delibazione.
La mera volontà di uno dei nubendi di negare gli effetti del matrimonio, rilevante in sede canonica e nel sistema interno qualificata come riserva mentale, s’è ritenuta riconoscibile come causa di invalidità del matrimonio perchè non in contrasto assoluto con l’ordine pubblico interno, qualora possa accertarsi la intervenuta manifestazione di tale volontà di non volere i frutti del matrimonio all’altro nubendo ovvero la conoscenza (o almeno la conoscibilità), da questo, di tale volontà unila¬terale, per assimilare il caso a quello della simulazione, considerato pure il rilievo dell’affidamento del destinatario della dichiarazione, contrastante con gli effetti dell’atto.
Si è così dato rilievo di ordine pubblico alla buona fede, stato soggettivo cui prima la giurispruden¬za e poi le stesse norme del nuovo diritto di famiglia hanno dato ingresso specifico nella materia matrimoniale (artt. 129 e 129 bis c.c.).
Sono state riconosciute efficaci in Italia sentenze ecclesiastiche che hanno annullato il matrimonio per l’esclusione unilaterale dei bona matrimonii, se manifestata all’altro nubendo, in rapporto alla natura bilaterale o unilaterale recettizia degli atti cui è applicabile la simulazione, integrandosi il fatto da solo rilevante per l’annullamento nel diritto canonico, con la circostanza della conoscenza della volontà dell’altro nubendo contrastante con il consenso espresso, da parte del destinatario di questo, così individuando una incompatibilità solo relativa con l’ordine pubblico interno della pro¬nuncia canonica (tra altre Cass. 19 ottobre 2007 n. 22011, 7 dicembre 2005 n. 27078, 28 marzo 2001 n. 4487).
L’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese “favor” per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali, con la conseguenza che i motivi per i quali esso si contrae, che, in quanto attinenti alla coscienza, sono rilevanti per l’ordinamento canonico, non hanno di regola significato per l’annullamento in sede civile.
Così si è giustamente ritenuto assoluto il contrasto con l’ordine pubblico interno di una sentenza ecclesiastica di nullità, fondata sull’apposizione di una condizione al vincolo matrimoniale, relativa alla residenza familiare, se non manifestata o almeno conosciuta o conoscibile dall’altro nubendo (in tal senso, Cass. 6 marzo 2003 n. 3339), essendo l’elemento accidentale lo strumento tipico per dare rilievo ai motivi interni di entrambe le parti”.
Si afferma, appunto, in Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2003, n. 3339 che l’accertamento della co¬noscenza o conoscibilità del fatto (nella specie: apposizione, da parte di un coniuge, di una condi¬zione al matrimonio attinente alla determinazione della residenza familiare) che ha determinato la mancanza o il vizio del consenso matrimoniale da parte di un coniuge, il giudice della delibazione è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità di tale esclusione da parte dell’al¬tro coniuge con piena autonomia, rispetto al giudice ecclesiastico, anche se la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alle sentenze ecclesiastiche e agli atti del processo canonico eventualmente prodotti, non potendosi fare luogo, in fase di delibazione, ad alcuna inte¬grazione di attività istruttoria.
Pertanto la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per un vizio del consenso negoziale di uno dei coniugi, trova ostacolo nel principio di ordine pubblico, costituito dall’ineludibile tutela dell’affidamento incolpevole dell’altro coniuge, allorché l’esclusione di un bonum matrimonii sia rimasta nella sfera psichica di uno dei nubendi, senza manifestarsi (né comunque essere conosciuta o conoscibile) all’altro coniuge.
L’accertamento della conoscenza o conoscibilità, da parte di quest’ultimo, di detta condizione deve essere compiuto dal giudice della delibazione con piena autonomia rispetto al giudice ecclesiastico e con particolare rigore, giacché detto accertamento attiene al rispetto di un principio di ordine pubblico di speciale valenza e alla tutela di interessi della persona riguardanti la costituzione di un rapporto, quello matrimoniale, oggetto di rilievo e tutela costituzionali.
Tutti quetsi principi sono stati ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1620; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2019, n. 4517; Cass. civ. Sez. VI – 1, 25 giugno 2019, n. 17036.
III I matrimoni di lunga durata: l’orientamento delle Sezioni Unite del 1988 favorevole alla delibazione
Accertata la non contrarietà all’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica relativamente allo spe¬cifico vizio che fonda la dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario, la giurisprudenza si è posta il problema di verificare se osti o meno alla delibazione la convivenza matrimoniale suc¬cessiva alla celebrazione.
Ciò, proprio in relazione al contenuto dell’art. 123 del codice civile che, con riguardo alla simula¬zione del matrimonio civile, al secondo comma prevede un limite di decadenza all’impugnabilità del matrimonio simulato prescrivendo che “l’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”.
Si tratta in sostanza di verificare se la norma imperativa di cui all’art. 123 del codice civile costitu¬isce o meno una norma che stabilisce un principio invalicabile di ordine pubblico oppure evidenzia una semplice diversità di disciplina tra l’ordinamento civile e quello canonico (in cui è ammessa la perpetuità dell’azione di nullità) che non richiama problemi di ordine pubblico.
Nei decenni passati, nonostante alcuni isolati tentativi da parte della giurisprudenza di negare la delibazione alle sentenze dichiarative della nullità nei matrimoni di lunga durata Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5354; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987 n. 5358; Cass. civ. Sez. I, 3 luglio 1987 n. 5823; Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 1988 n. 192 di cui si parlerà nel prossimo capitolo) era del tutto consolidato l’orientamento che ammetteva sempre la delibazione anche se la relativa azione era proposta dopo anni di convivenza matrimoniale.
Il principio che ammette la delibazione anche dopo anni di convivenza matrimoniale risulta affer¬mato con forza soprattutto da Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4700 (all’interno della quale sono richiamate le numerose sentenze schierate a difesa dell’orientamento tradizionale) e da Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4701; Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4702; Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4703 chiamate tutte ad occuparsi della questio¬ne proprio in seguito all’orientamento delle isolate sentenze sopra richiamate.
Precisarono le Sezioni Unite che il tema deve essere affrontato e risolto alla stregua della disciplina di cui agli art. 1 della legge 27 maggio 1929 n. 810 e 17 della legge 27 maggio 1929 n. 847, nel testo risultante a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1982 a seguito della quale la dichiarazione di esecutivi¬tà può essere negata solo in presenza di una contrarietà ai canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono la struttura dell’istituto matrimoniale.
In applicazione di tali principi – continuavano i giudici delle Sezioni Unite – si sono quindi ritenute delibabili le sentenze ecclesiastiche che hanno pronunciato la nullità di matrimoni concordatari in ipotesi in cui l’azione di nullità era stata proposta dopo che erano decorsi i termini fissati dalla legge civile per fare valere analoghe nullità, riportando cioè la naturale perpetuità dell’azione di nullità del matrimonio canonico nell’ambito della mera diversità di disciplina e senza distinguere fra le diverse ipotesi contenute nell’ambito dell’art. 123, comma 2, c.c.2
A tale indirizzo – precisavano le Sezioni Unite – si sono motivatamente opposte quattro decisioni, le quali, chiamate a decidere sulla compatibilità, sotto il profilo dell’ordine pubblico, tra norme ca¬noniche che prevedono la possibilità di dedurre le cause di invalidità del matrimonio senza limiti di tempo (can. 1092 n. 2 cod. iur. can.) e norme statuali che invece fissano limiti ben precisi, hanno distinto, nell’ambito dell’art. 123 c.c., che disciplina l’impugnazione del matrimonio da parte dei coniugi, quando gli stessi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti, due diverse regole di improponibilità della domanda: la prima derivante dal decorso del tempo (“L’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio”); la seconda conseguente alla instaurazione di una convivenza a prescindere dalla sua durata (L’azione non può essere proposta) “nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”).
Ricorrendo la prima ipotesi, è stato ritenuto non ragionevole negare la dichiarazione di esecutività delle sentenze ecclesiastiche, perché la differenza tra l’ordinamento canonico e quello civile non implica contrarietà all’ordine pubblico della decisione ecclesiastica, in conformità, quindi, alla sopra richiamata giurisprudenza; ricorrendo la seconda si è invece esclusa la possibilità della delibazio¬ne, sulla base del rilievo che l’instaurazione del matrimonio-rapporto, con la pienezza della convi¬venza morale e materiale dei coniugi, quale ragione preclusiva ad ogni possibilità di far valere vizi simulatori del matrimonio-atto, andrebbe annoverata nell’ambito delle regole e principi essenziali dell’ordinamento statuale.
Ritengono queste Sezioni Unite – affermano perentoriamente i giudici – che il contrasto vada composto affermando la non contrarietà all’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica che ab¬bia dichiarato la nullità di un matrimonio religioso, anche se vi sia stata convivenza fra i coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio o l’azione di nullità sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione del matrimonio stesso e ciò sulla base delle considerazioni che seguono.
Le sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità del matrimonio religioso sono delibabili quando non sono contrarie all’ordine pubblico e cioè – come si è detto in precedenza – quando non siano contrarie ai canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono la struttura dell’istituto matrimoniale così accentuato da superare il margine di maggiore disponibilità che l’ordinamento statuale si è imposto rispetto all’ordinamento canonico. Il concetto così accettato di ordine pubblico non è dato da un ordine pubblico di tipo costituzionale o comunque speciale e più ristretto, ma dallo stesso ordine pub¬blico che si configura baluardo generale ad ogni rapporto con gli altri ordinamenti. Attraverso lo strumento concordatario, prima, e con la legge di ratifica ed esecuzione, poi, lo Stato italiano ha dapprima riconosciuto e poi recepito nell’ordinamento il sistema matrimoniale canonico, com¬prensivo non solo delle norme che disciplinano la costituzione del vincolo, ma anche di quelle che ne regolano il venir meno. L’inserzione di tale normativa nell’ordinamento interno comporta, da
2 Le Sezioni Unite citano Cass. 3 maggio 1984 n. 2677; Cass. 13 giugno 1984 n. 3535; Cass. 21 gennaio 1985 n. 192; Cass. 18 febbraio 1985 n. 1376; Cass. 10 aprile 1985 n. 2370; Cass. 16 ottobre 1985 n. 5077; Cass. 15 novembre 1985 n. 5601; Cass. 4 dicembre 1985 n. 6064; Cass. 6 dicembre 1985 n. 6134; Cass. 7 maggio 1986 n. 3057; Cass. 7 maggio 1986 n. 3064; Cass. 31 luglio 1986 n. 4897; Cass. 1° agosto 1986 n. 4916; Cass. 15 gennaio 1987 n. 241.
una parte, l’impossibilità di far valere come causa ostativa alla delibabilità la circostanza che una sentenza ecclesiastica abbia dichiarato la nullità di un matrimonio canonico in violazione di norme sono state derogate e superate proprio dallo strumento concordatario, e, dall’altra la legittimità del rifiuto di delibazione quando la sentenza ecclesiastica, oltre a essere contraria ad una norma imperativa, relativa alla disciplina del matrimonio civile, sia contraria all’ordine pubblico nel senso innanzi precisato. Di quanto precede deriva, quindi, che non è contraria all’ordine pubblico italiano e può essere delibata la sentenza ecclesiastica ove la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione.
Passando all’esame della seconda questione, si tratta di accertare se il principio contenuto nell’art. 123, comma 2, c.c. (e secondo cui il matrimonio civile di cui al primo comma dello stesso articolo non può essere impugnato nell’ipotesi che i contraenti abbiano convissuto come coniugi successi¬vamente alla celebrazione) costituisca un principio fondamentale dell’ordinamento che impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica, che, malgrado la convivenza, ha dichiarato la nullità del matrimonio o se invece si tratta di norma non avente valenza di principio fondamentale. Ritengo¬no i giudici delle Sezioni Unite che la convivenza fra i coniugi, intervenuta successivamente alla celebrazione del matrimonio, ostativa all’impugnazione del matrimonio civile ai sensi dell’art. 123, comma 2, c.c. seppure si pone come una norma imperativa interna, non costituisce espressione di principi o di regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, sicché la sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matri¬monio religioso malgrado l’intervenuta convivenza fra gli stessi, non è contraria all’ordine pubblico italiano e può quindi essere dichiarata esecutiva in Italia.
IV I matrimoni di lunga durata: le inquietudini degli anni anni Duemila e la sentenza delle Sezioni Unite 19809/2008 confermativa dell’orientamento allora prevalente
La questione di cui si è detto – relativa alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche anche in caso di matrimoni in cui la convivenza coniugale si è protratta nel tempo dopo la celebrazione – è stato successivamente sfiorato anche da Cass. civ. Sez. Unite, 18 luglio 2008, n. 19809 dove si ammette che il matrimonio-rapporto ha nell’ordine pubblico italiano una incidenza rilevante, per i principi emergenti dalla costituzione e dalla riforma del diritto di famiglia e potrebbe impedire di annullare secondo le disposizioni del codice civile il matrimonio dopo che è iniziata la convivenza e spesso se questa è durata per un certo periodo di tempo (art. 120 cpv. c.c., art. 121 c.c., comma 3 e art. 123 cpv. c.c.).
La sentenza aderisce ad una interpretazione evolutiva e suggerisce un nuovo orientamento che si basa sulla considerazione che non tutte le incompatibilità tra il diritto canonico e quello civile sono uguali. Ve ne sono alcune assolute (cioè indicative di situazioni in alcun modo assimilabili a quelle che in astratto potrebbero avere rilievo o effetti analoghi in Italia) e altre relative (che indicano cioè fattispecie sostanzialmente assimilabili ai vizi previsti nell’ordinamento civile). E tra le prime, assolutamente non assimilabili, la decisione del 2008 indica proprio la lunga durata del matrimonio che, pertanto, sarebbe ostativa alla delibazione.
Affermano i giudici che occorre distinguere le incompatibilità delle sentenze di cui si chiede l’e¬secutività in Italia con l’ordine pubblico interno in “assolute” e “relative”. Tali incompatibilità, di regola, ostano all’esecuzione in Italia delle sentenze di altri ordinamenti in materia matrimoniale, ma hanno diversa rilevanza per il riconoscimento degli effetti di quelle canoniche, in base al pro¬tocollo addizionale del 1984.
La incompatibilità con l’ordine pubblico interno delle sentenze di altri ordinamenti è “assoluta”, allorché i fatti a base della disciplina applicata nella pronuncia di cui è chiesta la esecutività e nelle statuizioni di questa, anche in rapporto alla causa petendi della domanda accolta, non sono in alcun modo assimilabili a quelli che in astratto potrebbero avere rilievo o effetti analoghi in Italia.
L’incompatibilità con l’ordine pubblico interno va qualificata invece “relativa”, quando le statuizioni della sentenza ecclesiastica, eventualmente con la integrazione o il concorso di fatti emergenti dal riesame di essa ad opera del giudice della delibazione, pure se si tratti di circostanze ritenute irrilevanti per la decisione canonica, possano fare individuare una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne con effetti simili.
Impediscono l’esecutività in Italia della sentenza “ecclesiastica” solo le incompatibilità assolute, potendosi superare quelle relative, per il peculiare rilievo che lo Stato italiano si è impegnato con la Santa Sede a dare a tali pronunce.
Si afferma poi che in ogni giudizio di riconoscimento degli effetti di una sentenza di altri ordina¬menti di annullamento del matrimonio, non può non tenersi conto che, nel nostro ordine anche costituzionale, il matrimonio è finalizzato alla stabilità del vincolo che si esprime nel rapporto coniugale e nella famiglia, oltre che alla certezza dello status, per cui le cause di invalidità costitu¬iscono, per l’ordinamento interno, “eccezioni” o deroghe alla naturale validità di esso, confermata anche dal matrimonio rapporto, che si manifesta nella perdurante coabitazione dei coniugi o nella convivenza dopo l’atto matrimoniale. L’ordine pubblico italiano impedisce, quindi, la esecutività di sentenze di altri ordinamenti che annullino il matrimonio, se incompatibili con esso, qualsiasi sia il grado di tale incompatibilità; per le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, il regime concordatario comporta una graduazione di tali contrasti, impedendo la delibazione in ogni caso le incompatibilità c.d. assolute e potendo invece avere accesso nel sistema interno gli effetti di sentenze in contrasto “relativo” con l’ordine pubblico italiano.
Nonostante ciò la sentenza 19809/2008 va indubbiamente collocata nell’ambito dell’orientamento innovativo, come anche hanno ammesso recentemente le Sezioni Unite (Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 e 16380) affermando che, all’orientamento tradizionale “si erano già contrap¬poste queste stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 19809 del 2008 sia pure, incidentalmente. In essa si afferma infatti, come si è già sottolineato, che “non appare condivisibile, alla luce della distinzione enunciata fra cause di incompatibilità assoluta e relativa delle sentenze di altri ordi¬namenti con l’ordine pubblico interno, qualificare come relative quelle delle pronunce di annulla¬mento canonico intervenute dopo molti anni di convivenza o coabitazione dei coniugi, ritenendo l’impedimento a chiedere l’annullamento di cui sopra mera condizione di azionabilità, da conside¬rare esterna e irrilevante come ostacolo d’ordine pubblico alla delibazione”, anche se la sentenza ricorda che “dopo molte incertezze sul carattere ostativo alla delibazione dei comportamenti di coabitazione e della convivenza dei coniugi, la giurisprudenza attualmente prevalente esclude che tali condotte, se rilevate, comportino contrasto assoluto con l’ordine pubblico interno e impedisca¬no il riconoscimento della sentenza di nullità matrimoniale canonica”.
V I matrimoni di lunga durata: l’orientamento attuale che nega la delibazione in caso di convivenza matrimoniale superiore ai tre anni
1. Le prime sentenze degli anni Ottanta anticipatorie dell’attuale orientamento
Alla fine degli anni Ottanta, come si è sopra detto, quattro sentenze – differenziando il concetto di “matrimonio atto” da quello di “matrimonio rapporto” – portarono con molta efficacia in primo piano nel dibattito tra i giuristi il problema della delibazione di sentenze dichiarative della nullità riferibili a matrimoni la cui convivenza coniugale si è protratta nel tempo dopo la celebrazione.
Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5354; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987 n. 5358; Cass. civ. Sez. I, 3 luglio 1987 n. 5823; Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 1988 n. 192, tutte travolte dalle decisioni delle Sezioni Unite del 1988.
Come si è sopra accennato le quattro sentenze “trasgressive” in questione, basandosi sul dettato del secondo comma dell’art. 123 c.c. relativo alla proponibilità entro n anno dell’azione di nullità per simulazione (“l’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matri¬monio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”) hanno ritenuto che la predetta norma imperativa stabilisce un principio di ordine pubblico che impedisce la delibazione.
Affermano i giudici in proposito che la Corte di cassazione si è occupata più volte del problema della compatibilità, sempre sotto il profilo dello ordine pubblico, tra le norme canoniche che pre¬vedono la deducibilità in ogni tempo delle cause di invalidità del matrimonio e quelle del nostro codice civile che invece fissano (variamente) dei precisi termini per le cause di annullamento del vincolo, risolvendolo nel senso che le particolari limitazioni temporali del diritto d’impugnazio¬ne del matrimonio non toccano i connotati essenziali dello istituto o del rapporto cui si riferisce l’impugnazione medesima ma si traducono in mere disparità di disciplina, correlate al diverso valore che nei due ordinamenti rispettivamente viene assegnato al matrimonio-sacramento e il matrimonio-contratto. Le due disposizioni del secondo comma dell’art. 123 c.c. sono state fino ad oggi accomunate nell’affermazione della loro non qualificabilità come norme di ordine pubblico, sia pure con osservazioni prevalentemente attinenti alla prima, nel termine annuale per l’azione di simulazione, e senza particolari approfondimenti circa la seconda, nell’improponibilità dell’azione stessa in caso di convivenza.
La riforma del diritto di famiglia introdusse precisi limiti all’operatività delle cause di annullamen¬to. Si venivano così a porre problemi nuovi di coordinamento con l’omologa normativa canonica, attestata sull’imprescrittibilità delle impugnative per vizi del consenso perché destinate ad operare sul matrimonio-sacramento e che consentiva l’invalidazione (con effetti “ex tunc”) di vincoli che per l’ordinamento interno erano divenuti inoppugnabili. Ne è risultato, per quanto riguarda l’ordi¬namento interno, un quadro profondamente mutato del matrimonio-rapporto.
Questa nuova disciplina, ispirata ad una visione più attuale della società coniugale e quindi a regole che il legislatore ha tratto dalla moderna coscienza etica adeguandovisi, non può non assumere rilevanza e dignità di ordine pubblico e costituire così un limite all’esecutività delle sentenze eccle¬siastiche ammesse senza avere riguardo al fatto – ormai rilevante ed anzi essenziale per l’ordina¬mento italiano – della conseguita stabilità del rapporto matrimoniale nel suo momento funzionale.
Accertato che costituisce principio di ordine pubblico quello concernente la conseguita stabilità del matrimonio originariamente invalido dovuta alla convivenza dei coniugi dopo la celebrazione del matrimonio nonostante il vizio che lo inficia, resta acquisito che non può darsi ingresso in Italia a sentenze che risultano in contrasto con quel principio.
2. La riproposizione recente della tesi ostativa alla delibazione: le sentenze 1343/2011, 1780/2012 e 9844/2012
Fu solo nel 2011 che un collegio della prima sezione della Corte di Cassazione ripropose l’orien¬tamento ostativo alla delibazione che negli anni Ottanta era stato seguito dalle quattro sentenze trasgressive di cui si è sopra parlato, prontamente arginato dalle Sezioni Unite del 1988.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2011, n. 1343 affermò che “Non può essere delibata la sen¬tenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario quando la convivenza tra i coniugi si è protratta per lunghi anni o, comunque, per un periodo di tempo considerevole in quanto una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo è contrario ai principi di “ordine pubblico” rimetterlo in discussione adducendo riserve mentali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze”3.
Identica interpretazione evolutiva è contenuta in Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1780 (In materia di situazioni invalidanti l’atto-matrimonio, la successiva convivenza prolungata è da consi¬derare espressiva della volontà di accettazione del matrimonio-rapporto che ne è seguito, sempre che, dopo il matrimonio nullo, tra i coniugi si sia instaurato un vero consorzio familiare e affettivo, con superamento implicito della causa originaria di invalidità. In tale ricostruzione interpretativa, il limite di ordine pubblico postula, pertanto, che non di mera coabitazione materiale sotto lo stesso tetto si sia trattato, – che nulla aggiungerebbe ad una situazione di mera apparenza del vincolo – bensì di vera e propria convivenza significativa di un’instaurata “affectio familiae”, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci – per l’appunto, come tra veri coniugi – tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto) e in Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2012, n. 9844 (È ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario la convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio e non la semplice durata del matrimonio medesimo, in quanto l›ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese «favor” per la validità del matrimonio, inteso come matrimonio-rapporto, fondato sulla convivenza dei coniugi; è, pertanto, irrilevante in sé la mera durata ventennale dello stesso, laddove non sia dedotta e provata, nella fase di delibazione della sentenza ecclesiastica, nella specie, di nullità del matrimo¬nio concordatario per grave difetto di discrezione di giudizio del marito, l’effettiva convivenza dei coniugi nello stesso periodo).
3. Le resistenze nella prima sezione della Cassazione: la sentenza 8926/2012
Alla decisione sopra riferita si contrappose l’anno successivo Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 2012, n. 8926 che – dando vita ad un contrasto all’interno della prima sezione – affermò perentoriamente sulla linea dell’orientamento tradizionale che “la convivenza tra i coniugi successiva alla celebra¬zione del matrimonio, per quanto prolungata, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio” in quanto la con¬vivenza dei coniugi (nella specie protrattasi per oltre trent’anni) successiva alla celebrazione del matrimonio non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l’istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico.
Richiamando gli accordi tra Stato e Chiesta i giudici avvertono che l’esigenza di ottemperare al principio pacta sunt servanda e, nello stesso tempo, quella di salvaguardare il rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento impongono di trovare un punto di equilibrio nelle non poche ipotesi in cui il diritto canonico e quello civile siano difformi.
Richiamandosi, perciò, a Cass. civ. Sez. Unite 11 luglio 1988, n. 4700 e a Cass. civ. Sez. Uni¬te, 18 luglio 2008, n. 19809 (di cui sorprendentemente non viene correttamente valutata la li¬nea interpretativa oggettivamente innovativa e niente affatto allineata alla sentenza 19809/2008) viene ribadito l’indirizzo consolidatosi nel tempo favorevole alla delibazione, rilevando che, pur essendo la disposizione canonica che consente l’impugnativa del matrimonio in ogni tempo con¬traria al principio imperativo, contenuto nell’ordinamento statuale, secondo cui non è consentita l’impugnazione del matrimonio civile simulato dopo il decorso di un certo periodo, ciò nondimeno tale regola non costituirebbe un principio fondamentale dell’ordinamento, nel quale si danno casi di imprescrittibilità dell’impugnazione, anche in materia matrimoniale.
3 La vicenda merita di essere segnalata anche per la singolare e inedita sequenza delle decisioni che l’hanno segnata. La Corte d’appello di Venezia – adita dal marito in sede di rinvio a seguito di primo giudizio in cassa¬zione – aveva negato la delibazione di una sentenza del tribunale ecclesiastico ligure che aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, a causa dell’esclusione da parte di uno dei coniugi di uno dei bona matri¬monii. Una prima decisione della Cassazione nel 2005 accolse il ricorso del marito sotto il profilo della mancata prova della non conoscibilità del vizio lamentato, rinviando alla stessa Corte d’appello in diversa composizione. Anche la seconda sentenza della Corte d’appello rifiutò la delibazione adeguandosi all’orientamento consolidato e ritenendo provato che l’esclusione del bonum matrimonii era rimasto nella sfera psichica del suo autore e non era stata manifestata, ovvero conosciuta o conoscibile dall’altro coniuge, ritenendo questo aspetto in contrasto con l’inderogabile principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. La Corte tuttavia dopo aver constatato che il caso oggetto della domanda era appunto quello descritto nel principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione – soffermandosi sulle difese svolte dalla moglie osservava che costei aveva insistito su altra questione, ostativa al riconoscimento della sentenza ecclesiastica, già dedotta nel precedente grado di merito, concernente la problematica relativa all’applicabilità del limite posto dall’art. 123 c.c. sostenendo la convivenza ventennale tra i coniugi dopo la celebrazione del matrimonio. Al riguardo – giudicando la questione non fondata – la corte d’appello di Venezia rilevava che la giurisprudenza di legittimità era molto chiara nel senso di ritenere che il principio di cui all’art. 123 c.c., e di conseguenza il suo presupposto in fatto, cioè la conviven¬za, non costituiscono espressione di principi e regole fondamentali all’istituto del matrimonio. Avverso questa sentenza proponeva di nuovo ricorso per cassazione il marito consentendo così ai giudici di entrare nel merito della questione e di affermare che i giudici italiani non possono procedere alla delibazione in Italia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario in tali casi perché una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo è contrario ai principi di “ordine pubblico” rimetterlo in discussione adducendo riserve men¬tali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze.
4. La rimessione alla Sezioni Unite: le ordinanze 712/2013 e 4647/2013
Come era prevedibile, il contrasto all’interno della prima sezione della Corte di cassazione portò alla rimessione della questione alle Sezioni Unite.
L’iniziativa fu presa con due ordinanze dello stesso collegio della prima sezione.
Con la prima (Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2013, n. 712) si rimetteva testualmente alle sezioni unite la composizione del contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di delibare la sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal tribunale ecclesiastico in caso di convivenza protratta nel tempo.
Affermano i giudici nel provvedimento che “sussiste contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di delibare la sentenza di annullamento del matrimonio, emessa dal tribunale ecclesia¬stico, dove l’unione abbia avuto lunga durata e si sia dunque protratta nel tempo: la questione va quindi rimessa alle Sezioni Unite (contrasto di giurisprudenza: per Cass. Civ. 1343/2011, il fatto che il matrimonio si sia protratto per lunga durata osta alla delibazione dell’eventuale sentenza di annullamento; per Cass civ. 8926/2012, può essere affermato, invece, un generale principio di irrilevanza, ai fini della delibazione, della durata della convivenza).
In relazione alla delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, si possono registrare due orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Ed infatti, se, da un lato, si ritiene che la prolungata convivenza tra i coniugi rappresenti condizione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, in quanto ciò esprimerebbe la volontà di accettazione del rapporto proseguito, confliggente con l’esercizio della facoltà di rimet¬terlo in discussione adducendo riserva mentale risalente al tempo delle nozze, dall’altro lato, si afferma che la prolungata convivenza dei coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, non è condizione ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico che deve, pertanto essere consentita in difformità dall’art. 123, comma 2, c.c. in tema di impugnazione del matrimonio per simulazione. Ciò perché, tale norma, pur avendo carattere imperativo, non configura espressione di principi e regole fonda¬mentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, con la conseguenza che l’indicata difformità non pone la pronuncia ecclesiastica in contrasto con l’ordine pubblico italiano. Ciò premesso, atteso che, nel caso in esame, si è riproposto tale contrasto giuri¬sprudenziale relativo alla possibilità di ravvisare o meno nella prolungata convivenza tra i coniugi una causa ostativa alla delibazione della sentenza di nullità del matrimonio, si è ritenuto opportuno rimettere alle Sezioni Unite la composizione del predetto contrasto, con tutte le questioni origina¬tesi dalle sopra menzionate opzioni interpretative e allo stato irrisolte.
Anche la seconda ordinanza (Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2013, n. 4647) rilevava che “Questo Collegio, con ordinanza interlocutoria 14 gennaio 2003, n. 712 (deliberata nella medesima camera di consiglio del 6 dicembre 2012 sul ricorso n. 12658/2011 R.G.), ha ritenuto – per ragioni indicate nella motivazione della predetta ordinanza, a cui si rinvia – che sussiste un contrasto nella giuri¬sprudenza della Corte con riferimento alla rilevanza della convivenza ultrannuale dei coniugi, suc¬cessiva alla celebrazione del matrimonio, nel giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio stesso; e pertanto ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, evidenziando le seguenti questioni che necessitano di soluzione:
In primo luogo se il protrarsi ultrannuale della convivenza rappresenti condizione integrante vio¬lazione dell’ordine pubblico interno e per l’effetto sia ostativa alla dichiarazione d’efficacia della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal giudice ecclesiastico, ed in presenza di quali vizi del matrimonio-atto operi, in tesi, tale preclusione. In questa cornice, in particolare, se il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fan¬no riferimento gli artt. 120 e 122 c.c. in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’in¬staurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 cod. civ.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio- rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto” (Cass. n. 1780/2012), do¬vendo in tal senso intendersi la locuzione “abbiano convissuto come coniugi” di cui all’art. 123 c.c., comma 2 in caso di simulazione. E, in logica consecuzione:
In secondo luogo se, in caso affermativo, il contrasto tra l’indicata condizione e l’ordine pubblico interno sia verificabile d’ufficio dalla corte d’appello, versandosi in un caso d’impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica (in tal senso Cass. citata n. 1780 del 2012), dal momento che l’ordine pubblico esprime valori di natura indeclinabile ed è per l’effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione;
Inoltre se, ammessa la rilevabilità d’ufficio, rientri nei poteri delle corte d’appello, la cui indagine è astretta entro il limite del compendio istruttorio formatosi nel giudizio ecclesiastico, disporre l’acquisizione di ulteriori elementi di verifica;
Infine se l’incompatibilità in discorso, laddove si ritenga rilevabile d’ufficio, sia riscontrabile anche dalla Corte di cassazione se emerge dagli atti (secondo quanto è avvenuto in sede di pronuncia n. 1343/2011) e sia dunque scrutinabile senza necessità d’ulteriore istruttoria”.
5. La soluzione del contrasto: le sentenze gemelle delle Sezioni Unite 16379/2014 e 16380/2014
Il contrasto nella giurisprudenza della prima sezione viene risolto dalle due sentenze gemelle Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 (riferita alla vicenda di cui alla prima delle due ordinanze sopra richiamate) e Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16380 (nella vicenda cui si riferisce la seconda ordinanza) entrambe deliberate nell’udienza del 3 dicembre 2013.
a) I due principi affermati dalle Sezioni unite
Il primo principio è che la convivenza protrattasi oltre tre anni dopo la celebrazione del matrimonio è ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità.
La convivenza “come coniugi” deve intendersi quale elemento essenziale del “matrimonio-rappor¬to”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, riconoscibile esteriormente attraverso specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili e di responsabilità, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. In tal modo intesa, la convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente tra¬scritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di “ordine pubblico italiano” e pertanto è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vi¬zio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’«ordine canonico» nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.
Il secondo principio è che la convivenza matrimoniale ostativa alla delibazione deve essere ec¬cepita necessariamente dal coniuge che si oppone alla delibazione.
La convivenza “come coniugi”, come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiara¬zione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronun¬ciate dai tribunali ecclesiastici, ed in quanto connotata da una “complessità fattuale” strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempimento di doveri ed all’assunzione di responsabilità per¬sonalissimi di ciascuno dei coniugi, deve qualificarsi siccome eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di delibazione né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità – dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta – potendo invece essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la deduzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva. Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un’apposita istruzione proba¬toria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo, fermo restando comunque il controllo del giudice di legittimità secondo le speciali disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale, i normali parametri previsti dal codice di procedura civile ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.
b) le questioni trattate dalle Sezioni unite
Le Sezioni Unite – affermano i giudici – sono chiamate a pronunciarsi sul contrasto determinatosi, nell’ambito della Prima Sezione, tra – da un lato – le sentenze nn. 1343 del 2011, 1780 e 9844 del 2012 e – dall’altro – la sentenza n. 8926 del 2012 (che, peraltro, ribadisce il consolidato orien¬tamento di queste Sezioni Unite, inaugurato con le note sentenze nn. 4700, 4701, 4702 e 4703 del 1988), contrasto i cui termini essenziali sono esattamente ed esaurientemente esposti nelle ordinanze di rimessione.
• Se le convivenza protrattasi nel tempo dopo la celebrazione è ostativa alla delibazione
La principale questione di diritto, decisa in modo difforme dalle menzionate sentenze della Prima Sezione, consiste nello stabilire: – se la sentenza canonica di nullità del matrimonio, pronunciata dal tribunale ecclesiastico, possa essere dichiarata efficace nella Repubblica italiana – oppure no, per violazione dell’ordine pubblico interno – nel caso di convivenza tra i coniugi protrattasi per un certo periodo di tempo (che nell’ordinanza di rimessione viene individuato in un periodo superiore all’anno), e quali siano i vizi del “matrimonio – atto”, posti a base della pronunciata nullità canoni¬ca, eventualmente ostativi a detta dichiarazione d’efficacia; – se, in particolare, “il limite dell’ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fanno riferi¬mento gli artt. 120 e 122 c.c., in caso di vizi del consenso, ovvero sia “significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.), tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio – rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio – atto”.
Tra le molteplici ragioni che stanno al fondo del denunciato contrasto, v’è certamente quella fondata sulla tesi per cui, pur non potendosi negare la possibilità di distinguere e la stessa distinzione, sul piano giuridico, tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” – al secondo dei quali, peraltro, nessuno dubita debba essere ricondotta la situazione giuridica “convivenza tra i coniugi” o “come coniugi”, successiva alla celebrazione del “matrimonio – atto” – se ne contestano tuttavia il fonda¬mento costituzionale e legislativo e la correlativa tutela, con la conseguenza che detta situazione giuridica di “convivenza”, anche se protrattasi per un certo tempo dopo la celebrazione del matrimo¬nio, non sarebbe idonea, di per sè, ad integrare una “norma” di ordine pubblico interno ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana della sentenza canonica di nullità del matrimonio.
Tale questione è decisiva per la composizione del contrasto.
• La distinzione tra matrimonio atto e matrimonio rapporto
La distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” e la situazione giuridica “conviven¬za tra i coniugi” o “come coniugi”, da ricondurre senza dubbio alcuno al “matrimonio – rapporto”, hanno, ad avviso del Collegio – contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza di queste Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e dalle successive conformi pronunce -, un nitido e solido fondamento nella Costituzione, nelle Carte Europee dei diritti e nella legislazione italiana. Fondamento che, peraltro, ha radici in dati di immediata esperienza umana e giuridica universale.
La nostra Costituzione distingue nitidamente il “matrimonio – atto” – cui senza dubbio si riferisce l’art. 29, comma 1, laddove stabilisce che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia “fondata sul matrimonio” – dal “matrimonio – rapporto”, cui certamente si riferiscono sia lo stesso l’art. 29, com¬ma 1, laddove definisce la famiglia con l’espressione fortemente evocativa “società naturale”, sia il secondo comma dello stesso art. 29, laddove “Il matrimonio (…) ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” evoca chiaramente lo svolgimento del rapporto e della vita matrimoniali, sia infine l’art. 30, comma 1, nella parte in cui fissa le principali responsabilità genitoriali nei confronti dei figli, e 31, comma 1, laddove stabilisce che “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi (…)”.
La stessa distinzione emerge in modo chiarissimo anche da molteplici disposizioni del Codice civile e di leggi ordinarie.
Questo quadro normativo di base mostra in modo molto chiaro non soltanto che la distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto” – diversamente da quanto ritenuto dall’orientamen¬to espresso con la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 4700 del 1988 e dalle successive sentenze che l’hanno ribadito – ha nitido e solido fondamento costituzionale e legislativo, ma anche che la relazione tra il matrimonio come “atto” ed il matrimonio come “rapporto” deve porsi in termini non già di “prevalenza” (cfr. la sentenza n. 8926 del 2012 cit.), cioè di pretesa superiorità assio¬logica, dell’uno rispetto all’altro (che sembra alludere in qualche modo alla natura “sacramentale” del matrimonio cattolico), bensì di distinzione appunto: nel senso, cioè, che questi due aspetti, o dimensioni, dell’istituto giuridico “matrimonio” hanno ragioni, disciplina e tutela distinte – come del resto emerge dalla stessa sistematica del Codice civile (rispettivamente, Capi III e IV del medesi¬mo Titolo VI del Libro I) – e devono, quindi, essere distintamente considerati, anche – ed è ciò che specificamente rileva in questa sede – per l’individuazione dei principi e delle regole fondamentali che, connotando nell’essenziale ciascuno di essi, sono astrattamente idonei ad integrare norme di ordine pubblico interno che, come tali, possono essere ostative anche alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
In definitiva, il “matrimonio – rapporto”, il quale ha certamente origine nel “matrimonio – atto”, può ritenersi un’espressione sintetica comprensiva di molteplici aspetti e dimensioni dello svolgi¬mento della vita matrimoniale e familiare – che si traducono, sul piano rilevante per il diritto, in diritti, doveri, responsabilità, caratterizzandosi così, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost., come il “contenitore”, per così dire, di una pluralità di “diritti inviolabili”, di “doveri inderogabili”, di “re¬sponsabilità”, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti dei componenti della famiglia, sia come individui sia nelle relazioni reciprochi.
E un elemento essenziale del “matrimonio – rapporto” è certamente costituito dalla “convivenza” dei coniugi o “come coniugi” che, nell’attuale specifico significato giuridico di tale espressione, connota il rapporto matrimoniale in modo determinante.
Più oltre la sentenza afferma che la nozione di “convivenza coniugale” richiede tuttavia un’ulterio¬re, duplice specificazione per la sua corretta individuazione sul piano giuridico. Tali specificazioni riguardano: l’”esteriorità” – o, più precisamente, la sua “riconoscibilità esteriore” – e la determi¬nazione, secondo ragionevolezza, del periodo di tempo necessario perché essa possa qualificarsi “stabile”.
• Come deve essere esteriormente riconoscibile la convivenza tra coniugi
Quanto alla prima specificazione, concernente l’”esteriorità” della convivenza coniugale, le Sezioni unite osservano che la convivenza coniugale deve essere esteriormente riconoscibile attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondano in modo non equivoco e, perciò, essere anche dimo¬strabile in giudizio, da parte dell’interessato, mediante idonei mezzi di prova, ivi comprese le pre¬sunzioni semplici assistite dai noti requisiti di cui all’art. 2729 c.c., comma 1.
• Quale durata della convivenza è ostativa alla delibazione.
Si tratta della questione certamente più delicata, concernente la “stabilità” della convivenza. So¬stengono i giudici che appare indispensabile individuare, “secondo diritto e ragionevolezza, il pe¬riodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio, trascorso il quale dalla convivenza coniugale con dette caratteristiche può legittimamente inferirsi anche una piena ed effettiva accettazione del rapporto matrimoniale, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l’atto di matrimonio, che si considerano perciò sanati dall’accet¬tazione del rapporto. E’ proprio questa – il favor matrimonii, conseguente alla consapevole, piena ed effettiva assunzione e prosecuzione del rapporto matrimoniale – in sostanza, la ratio sottesa a quelle norme del codice civile che sanciscono la decadenza dalle azioni di annullamento del matri¬monio (art. 119, comma 2, art. 120, comma 2, art. 122, comma 4), allorquando, venute meno le cause del vizio dell’atto (revoca dell’interdizione, recupero della capacità naturale, cessazione della violenza morale, scoperta dell’errore), vi è stata coabitazione per un anno. Norme queste, relativa¬mente alle quali è significativo notare – nel senso della valorizzazione del fatto della coabitazione successiva – il progressivo ampliamento del termine di decadenza da parte del legislatore: da quello di un mese del codice civile del 1865 a quello di tre mesi del codice del 1942, fino all’attuale termine di un anno stabilito dalla riforma del diritto di famiglia del 1975. E la medesima ratio sta anche alla base dell’art. 123 – concernente gli accordi simulatori degli sposi relativi al contraendo matrimonio -, il quale, al secondo comma, stabilisce che l’azione di annullamento non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima. La differenza di tale fattispecie rispetto alle precedenti sta in ciò, che – trattandosi di accordi simulatori convenuti da entrambi gli sposi prima del matrimonio, ed esclusivamente tra gli stessi, senza coinvolgimento di terzi – la decadenza dall’azione di annullamento per ciascuno dei coniugi è individuata o nel decorso del termine di un anno dalla celebrazione del matrimonio, oppure – sine die – nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima: ciò, in quanto il legislatore ha ritenuto che il tempo di un anno dalla celebrazione del matrimonio o la convivenza come coniugi dopo tale data siano fatti idonei a far legittimamente presumere il sopravvenuto consenso degli stessi sull’inefficacia di detti accordi. L’elemento comune sta, invece, nella valorizzazione – espressa più nitidamente nell’art. 123, comma 2, alla luce delle considera¬zioni che precedono – della capacità sanante dei vizi genetici (accordi simulatori) dell’atto matri¬moniale, attribuita proprio alla “convivenza come coniugi”.
Ciò posto, resta da individuare – proprio alla luce delle più volte ricordate norme costituzionali e convenzionali – la ragionevole durata della convivenza coniugale, decorrente dalla data di celebra¬zione del matrimonio, idonea a far legittimamente presumere la raggiunta stabilità del rapporto matrimoniale.
Al riguardo, le Sezioni unite ritengono di poter prendere a riferimento – in ragione delle strette connessioni analogiche tra le fattispecie, secondo il canone ermeneutico di cui all’art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale (“Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o ma¬terie analoghe”) – la legge 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo 8 del libro primo del codice civile), secondo i quali: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto(….). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto” (cfr. anche la stessa L. n. 184 del 1983, art. 29 – bis, comma 1, che richiede per gli adottanti, ai fini dell’adozione internazionale, le medesime condizioni sogget¬tive di cui all’art. 6).
Il testo originario della L. n. 184 del 1983, art. 6, comma 1, prevedeva: “L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni tra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che in¬tendono adottare”.
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, in riferimento all’art. 2 Cost., di tale disposizione originaria – nella parte (rimasta sostanzialmente immutata) in cui dispone(va) che, ai fini dell’idoneità ad adottare, i coniugi aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, in un caso in cui tali coniugi vantavano una convivenza prematrimoniale di dieci anni, con la sentenza n. 281 del 1994, nel dichiarare non fondata tale questione, ha affermato, tra l’altro, che la norma censurata “è coerente col principio, riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 89/1993; n. 310/1989; n. 404/1988; nn. 198 e 237 del 1986; n. 11/1981; n. 45/1980), secondo cui l’i¬stituto dell’adozione è finalizzato alla tutela prevalente dell’interesse del minore. Tale principio comporta, fra l’altro, che, ai fini della complessa opera di selezione dei soggetti idonei a svolgere il delicatissimo compito di educare ed accogliere un bambino abbandonato, costituisce criterio fondamentale quello che la doppia figura genitoriale sia unita dal “vincolo giuridico che garantisce stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto”(sentenza n. 310 del 1989)”; ha inoltre sostanzialmente avallato “la scelta adottata dal legislatore italiano, che, al pari di numerosi legislatori Europei, intende il matrimonio, a tal fine, non solo come “atto costitutivo” ma anche come “rapporto giuridico “, vale a dire come vincolo raf-forzato da un periodo di esperienza matrimoniale, in cui sia perdurante la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri”; ed ha precisato infine che “il criterio dei tre anni successivi alle nozze si configura come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale(…)” (n. 2. del Considerato in diritto; da notare che l’introduzione del comma 4 dell’art. 6 ad opera della L. n. 149 del 2001, art. 6, comma 1, deriva proprio dalle osser¬vazioni svolte dalla Corte, nel n. 4. del Considerato in diritto, favorevoli alla prolungata convivenza prematrimoniale, stabile e continuativa, come requisito legittimante all’adozione).
Dalla piana lettura del su riprodotto vigente testo della legge n. 184 del 1983, art. 6, commi 1 e 4, e delle affermazioni della Corte costituzionale ora riportate risulta del tutto evidente, naturalmente mutatis mutandis, la loro ragionevole riferibilità anche alla fattispecie in esame: a ben vedere, con¬vergono infatti in tal senso tutti gli argomenti fondati sia sulla distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto”, sia sugli elementi essenziali del rapporto matrimoniale come sintesi di diritti, di doveri e di responsabilità, sia sulla valorizzazione della convivenza coniugale con le indi¬viduate caratteristiche, segnatamente di “stabilità” e di “continuità”, sia e soprattutto – per quanto ora specificamente rileva – sul “criterio dei tre anni successivi alle nozze” quale “requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale”.
Tutte le considerazioni che precedono consentono, perciò, di affermare in modo compiuto che la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disci¬plinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
• Se il limite di tempo dei tre anni vale per qualsiasi vizio che abbia determinato la di¬chiarazione di nullità del matrimonio
Infine – concludono le Sezioni unite – come correttamente richiesto con l’ordinanza di rimessione si tratta di stabilire se tale limite alla delibazione dipenda, oppure no, dalla natura del vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dalla sentenza canonica: in altri termini, se il giudice della delibazione, ai fini dell’applicazione del limite medesimo, debba distinguere, oppure no, tra detti vizi genetici comportanti la nullità del matrimonio, accertati e dichiarati secondo il diritto canonico.
La risposta negativa al quesito si impone per la decisiva ragione che all’affermazione della convi¬venza coniugale, successiva al matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto e con i caratteri dianzi individuati, quale “limite generale” d’ordine pubblico italiano alla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici, consegue necessariamente, ai fini dell’applicazione di tale limite generale, l’irrilevanza nell’”ordine civile” di qualsiasi vizio genetico del matrimonio canonico, tutte le volte che esso sia stato accertato e dichiarato dal giudice eccle¬siastico nell’”ordine canonico” nonostante la sussistenza dell’elemento essenziale della convivenza coniugale: in tutti questi casi, infatti, si manifesta chiaramente la radicale collisione di detti vizi genetici del matrimonio canonico con l’individuato limite d’ordine pubblico.
• Se la durata della convivenza matrimoniale dopo la celebrazione come causa ostativa possa essere rilevata d’ufficio o debba essere necessariamente eccepita dal coniuge che si oppone alla delibazione
Le Sezioni unite rispondono anche al dubbio posto dall’ordinanza di rimessione relativamente alla questione se il contrasto tra la convivenza coniugale e l’ordine pubblico interno sia verificabile d’ufficio dalla Corte d’appello, versandosi in un caso d’impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica dal momento che l’ordine pubblico esprime valori di natura indecli¬nabile ed è per l’effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione.
Su questa questione le Sezioni unite dopo aver ribadito che la convivenza coniugale successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario deve essere caratterizzata da “fatti e comportamenti” dei coniugi corrispondenti ad una “consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo”, dalla sua “riconoscibilità esteriore”, nonché dalla sua durata per almeno tre anni dalla data della celebrazione del matrimonio, precisano che “E’ dunque evidente che, in una fattispecie siffatta, il limite d’ordine pubblico ostativo alla delibazione non scaturisce immediatamente da una precisa disposizione, ma deve trarsi da una situazione giuridica complessa – la convivenza coniu¬gale, appunto – caratterizzata essenzialmente da circostanze oggettive esteriormente riconoscibili e, quindi, allegabili e dimostrabili in giudizio.
In secondo luogo, dal momento che l’Accordo, con norma speciale (alinea dell’art. 8, n. 2), stabi¬lisce che le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici sono dichiarate efficaci nella Repubblica italiana dalla competente corte d’appello “su domanda delle parti o di una di esse”, ne consegue con certezza sia che il procedimento di delibazione non ha conservato natura officiosa (come, invece, nel previgente sistema delineato dall’art. 34, comma 6, del Concordato lateranense e citata L. n. 847 del 1929) sia che tale procedimento giurisdizionale è un ordinario giudizio di cognizione, sia pure svolto in unico grado di merito, nel quale valgono ovviamente, tra gli altri, i fondamentali principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.; cfr. anche, del resto, l’art. 796 c.p.c., comma 1).
È noto, poi, che in linea di principio, per costante orientamento, la contrarietà di un atto all›ordine pubblico, sostanziale o processuale, attenendo a materie «indisponibili» dalle parti perché involgenti aspetti che trascendono interessi esclusivamente individuali, è questione rilevabile anche d›ufficio in ogni stato e grado del processo, salvo il dovere del giudice di promuovere su di essa il previo contraddittorio tra le parti (art. 101 c.p.c., comma 2, e art. 384 c.p.c., comma 3).
Tuttavia, le già rilevate, indubbie peculiarità della fattispecie d’ordine pubblico “convivenza coniuga¬le” – fondata su fatti specifici e rilevanti (come, ad esempio, la durata della convivenza post-matri¬moniale, l’esistenza di figli, la continuità del rapporto matrimoniale, età), nonché su comportamenti dei coniugi altrettanto specifici e rilevanti -, unitamente all’applicazione dei ricordati principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, richiedono che tali fatti e comporta¬menti: o emergano già dagli atti del giudizio di delibazione, oppure siano allegati, e in ogni caso di¬mostrati dalla parte interessata – se contestati dall’altra -, mediante la deduzione di idonei mezzi di prova, anche presuntiva (cfr., supra, n. 3.7.1.)” ed anche mediante il richiamo degli atti del proces¬so canonico e della stessa sentenza delibanda, se ivi già risultano parzialmente o compiutamente.
A tal ultimo proposito e salve le ulteriori specificazioni, deve immediatamente affermarsi che sia tali oneri di allegazione, di deduzione e di prova gravanti sulla parte interessata a far valere detto limite d’ordine pubblico, sia l’eventuale svolgimento della relativa istruzione probatoria non costituiscono violazioni del divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, imposto al giudice della deliba¬zione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale. Infatti – nell’ambito del giudizio di deliba¬zione in cui sia stata dedotto il predetto limite d’ordine pubblico -, l’oggetto specifico ed esclusivo dei relativi accertamenti è costituito dalla verifica della sussistenza, o no, della “convivenza coniugale”.
Oggetto questo, rispetto al quale l’insindacabile accertamento contenuto nel “giudicato canonico” (punto 4, lett. b, n. 2, del Protocollo addizionale), costituito dalle ragioni di fatto e di diritto della nullità del matrimonio, accertata e dichiarata appunto secondo il diritto canonico, è e deve restare del tutto estraneo ed irrilevante. Al riguardo, è appena il caso di sottolineare che è dovere del giudice della delibazione valutare l’ammissibilità e la rilevanza delle circostanze allegate e delle prove eventualmente dedotte dalle parti, nel rispetto della netta distinzione tra gli oggetti dei due processi ora rimarcata e, comunque, del suddetto divieto stabilito dall’Accordo, fermo restando in ogni caso il sindacato di legittimità sul punto esercitabile da questa Corte (cfr., ex plurimis e da ultima, la sentenza n. 24967 del 2013).
Del resto, principi analoghi sono già stati affermati più volte da questa Corte in riferimento sia a casi di diniego della delibazione, in cui rileva tout court la convivenza coniugale successiva alla ce¬lebrazione del matrimonio (sentenza n. 9844 del 2012), sia a casi di diniego della delibazione per esclusione, da parte di un coniuge, di uno dei bona matrimonii (sentenza n. 3378 del 2012), ovve¬ro per apposizione di una condizione al vincolo matrimoniale viziante il consenso di uno dei coniugi (sentenza n. 12738 del 2011): casi nei quali, appunto, il giudice italiano può e deve accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione o della condizione anzidette da parte dell’al¬tro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profili estranei, in quanto irrilevanti, al processo canonico. E sono proprio queste, in definitiva, le medesime ragioni che giustificano – fermi i predet¬ti oneri di allegazione, di deduzione e di prova gravanti sulla parte interessata ed i corrispondenti poteri di controllo del giudice della delibazione e di questa Corte – anche l’acquisizione di elementi probatori dagli atti del processo canonico e dalla stessa sentenza delibanda.
In conclusione la “convivenza coniugale” successiva alla celebrazione del matrimonio concorda¬tario, opposta da un coniuge all’altro nel giudizio di delibazione, ha i caratteri delle “eccezioni in senso stretto” (exceptiones juris) rilevabili, com’è noto, soltanto ad istanza di parte: tali ecce¬zioni vengono identificate ormai, secondo diritto vivente, o in quelle per le quali la legge riserva espressamente il potere di rilevazione alla parte, ovvero in quelle nelle quali il fatto che integra l’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del tito¬lare, comportando quindi, per avere efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico, il tramite di una manifestazione di volontà della parte.
• Se la Corte d’appello possa effettuare una istruttoria sul punto della convivenza matri¬moniale dopo la celebrazione del matrimonio
È certamente vero che, nei casi da ultimo menzionati, questa Corte, nell›ammettere detti accertamenti da parte del giudice della delibazione con piena autonomia rispetto al giudice ecclesiastico, ha nel contempo affermato che la relativa indagine ha da svolgersi con esclusivo riferimento alla pronuncia delibanda ed agli atti del processo canonico eventualmente acquisiti e non deve essere integrata da alcuna attività istruttoria (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 3339 del 2003 e 12738 del 2011 cit.), ma è altrettanto vero che nelle più volte sottolineate peculiarità della fattispecie “convivenza coniugale”, fatta valere come limite generale d’ordine pubblico alla delibazione, è certamente compresa, anche sotto il profilo in esame, un’indubbia “complessità fat¬tuale” – molto maggiore di quella rilevabile negli altri casi, anche se parimenti non coinvolta negli accertamenti della sentenza canonica -, che giustifica ampiamente lo svolgimento di un’apposita istruzione probatoria, da compiersi tuttavia, come pure già rimarcato, con particolare attenzione, tenuto conto che i relativi accertamenti, da un lato, attengono al’attuazione di un principio d’ordi¬ne pubblico italiano oggetto di rilievo e tutela anche costituzionali e, dall’altro, esigono comunque l’osservanza dei patti stipulati dalla Repubblica italiana e dalla Santa Sede con l’Accordo del 1984.
L’eventuale istruzione probatoria deve svolgersi, secondo le regole di un ordinario giudizio di cognizione, con particolare rigore, in considerazione sia della complessità degli accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità fondamentali e personalissimi, sia del dovere di rispettare il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale.
• Quali sono le differenze, in punto di convivenza matrimoniale, tra il giudizio a doman¬da congiunta e giudizio su domanda di parte
Premesso che, secondo la speciale disciplina dell’Accordo, occorre distinguere tra due ipotesi, a seconda che la domanda di delibazione sia proposta “dalle parti”, oppure “da una di esse” (alinea dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo), tutte le considerazioni che precedono rendono evidente che nella prima ipotesi – domanda di delibazione, per così dire, “congiunta” – non possono sussistere dubbi circa la tendenziale delibabilità, sotto tale profilo, della sentenza canonica di nullità, anche nel caso in cui già emergesse ex actis una situazione di “convivenza coniugale”, con i più volte sottolineati caratteri, potenzialmente idonea a costituire ostacolo alla delibazione: ciò, in ragione sia della af¬fermata rilevabilità della “convivenza coniugale” soltanto a seguito di tempestiva eccezione di par¬te, sia della prevalenza da dare alla consapevole, concorde manifestazione di volontà delle parti.
Nel caso in cui, invece, la domanda di delibazione sia proposta da uno soltanto dei coniugi, l’altro – che intenda opporsi alla domanda, eccependo il limite d’ordine pubblico costituito dalla “conviven¬za coniugale” con le evidenziate caratteristiche (cfr., supra, n. 4.1.) – ha l’onere, a pena di deca¬denza, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., commi 1 e 2, (si veda l’art. 343 c.p.c., comma 1): i) di sollevare tale eccezione nella comparsa di risposta; 2) di allegare i fatti specifici e gli specifici comportamenti dei coniugi, successivi alla celebrazione del matrimonio, sui quali l’eccezione medesima si fonda, anche mediante la puntuale indicazione di atti del processo canonico e di pertinenti elementi che già emergano dalla sentenza delibanda; 3) di dedurre i mezzi di prova, anche presuntiva, idonei a dimostrare la sussistenza di detta “convivenza coniugale”, restando ovviamente salvi i diritti di prova della controparte ed i poteri di controllo del giudice della delibazione quanto alla rilevanza ed alla ammissibilità dei mezzi di prova richiesti.
• L’intervento obbligatorio del pubblico ministero e i suoi limiti nei giudizi di delibazione
È noto che, secondo l›art. 796 c.p.c., comma 3, – richiamato dal punto 4, lett. b), del Protocollo addizionale e da questo non derogato sul punto – nel giudizio di delibazione “L’intervento del pub¬blico ministero è sempre necessario”; ciò, coerentemente con quanto dispone l’art. 70, comma 1, n. 2, dello stesso codice di rito, che prevede l’intervento obbligatorio del pubblico ministero a pena di nullità, tra le altre, “nelle cause matrimoniali” (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 9085 e 19277 del 2003).
È altresì noto che il pubblico ministero, ai sensi dell›art. 72 c.p.c., comma 1, “nelle cause che avrebbe potuto proporre ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime”, mentre, ai sensi dello stesso art. 72, comma 2, “Negli altri casi di intervento previsti dall’art. 70…. può produrre documenti, dedurre prove, prendere conclu¬sioni nei limiti delle domande proposte dalle parti”, essendo peraltro attribuito allo stesso organo requirente il potere di proporre impugnazione, tra le altre, contro le sentenze “che dichiarino l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali” (art. 72, comma 4: cfr. le sentenze, delle Sezioni Unite n. 27145 del 2008, nonché nn. 6739 del 1983, 332 del 1984, 773 del 1985), salvo in ogni caso il potere, attribuito all’organo medesimo, di impugnazione per revocazione nei casi di cui all’art. 397 c.p.c..
Esclusa quindi nettamente, ai sensi dell’Accordo, la promovibilità di tali giudizi di delibazione da parte del pubblico ministero, in questi giudizi spetta tuttavia allo stesso organo requirente l’even¬tuale esercizio dei poteri processuali previsti dal menzionato art. 72 c.p.c., comma 2, (“produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni”), soltanto però “nei limiti delle domande propo¬ste dalle parti”.
Al riguardo, deve ribadirsi che il parametro di legittimità dell’esercizio di tali poteri da parte del pubblico ministero, malgrado la dimensione pubblicistica sottesa al suo intervento, è costituito, in definitiva, dalle causae petendi e dai petita fatti valere dalle parti nonché dalle eccezioni dalle stes¬se sollevate, che delimitano l’oggetto del giudizio (cfr., tra le poche che hanno affrontato il tema, le sentenze nn. 8862 del 1993, e 2621 del 1970, pronunciata a sezioni unite).
• I riflessi nel giudizio davanti alla Corte di cassazione del principio di deducibilità a cura solo di parte dell’eccezione di convivenza matrimoniale successiva alla celebrazione
L’esclusione del rilievo d’ufficio del limite d’ordine pubblico de quo vale anche nell’eventuale giu¬dizio di legittimità promosso avverso la sentenza che decide sulla domanda di delibazione e la “convivenza coniugale” successiva alla celebrazione del matrimonio concordatario, opposta da un coniuge all’altro avendo natura di “eccezione in senso stretto” (exceptio juris), non può essere effettuata per la prima volta nel giudizio di legittimità.
6. Le sentenze successive che hanno ribadito l’impostazione delle Sezioni Unite.
I principi indicati dalle Sezioni unite sono stati successivamente ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2015, n. 1494; Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1621; Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1622; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1788; Cass. civ. Sez. I, 13 febbraio 2015, n. 2942; Cass. civ. Sez. I, 1 aprile 2015, n. 6611; Cass. civ. Sez. I, 1 luglio 2015, n. 13515; Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2015, n. 18695; Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676; Cass. civ. Sez. I, 4 ottobre 2016, n. 19811; Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188; Cass. civ. Sez. VI – 1, 1 marzo 2017, n. 5250; Cass. civ. Sez. I, 5 aprile 2017, n. 8800; Cass. civ. Sez. VI – 1, 19 aprile 2017, n. 9925; Cass. civ. Sez. VI – 3, 24 maggio 2017, n. 13120; Cass. civ. Sez. VI – 1, 15 maggio 2018, n. 11808.
Perciò il coniuge convenuto nel giudizio di delibazione può sempre eccepire la durata ultratriennale della convivenza matrimoniale, impedendo con ciò la delibazione in Italia della sentenza ecclesia¬stica dichiarativa della nullità del matrimonio.
VI Come incide il procedimento in sede ecclesiastica dichiarativo della nullità del matrimonio sulla separazione e sul divorzio?
Il problema dei rapporti tra il giudicato sulla nullità ecclesiastica e il processo di separazione o quello di divorzio si pone in termini differenziati a seconda che ci si ponga dal punto di vista dei rapporti tra coniugi o da quello dei rapporti con i figli.
Occorre premettere che, pacificamente, anche al matrimonio concordatario si applicano le norme sul matrimonio putativo (art. 128 c.c.) come più volte precisato in giurisprudenza (per tutte Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2728 dove si afferma, appunto, che l’art. 18 della legge – cosid¬detta legge matrimoniale – 27 maggio 1929 n. 847 – tuttora in vigore, anche a seguito dell’accordo del 18 febbraio 1984 di modifica del Concordato lateranense – dichiara applicabili le norme sul matrimonio putativo del codice civile anche nei casi in cui venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico).
Ebbene – rinviando per gli approfondimenti ad altre sedi4 – l’art. 128 c.c. (matrimonio cosiddetto putativo, cioè ritenuto valido dai coniugi o da almeno uno di essi) differenzia gli effetti della dichia¬razione di nullità nei rapporti tra i coniugi a seconda della loro buona o mala fede al momento della celebrazione, mentre la nullità non ha alcun rilievo nei confronti dei figli. La norma afferma, infatti, che “Se il matrimonio è dichiarato nullo, gli effetti del matrimonio valido si producono, in favore dei coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità [e quindi ex nunc in deroga al principio della decorrenza ex tunc della nullità] quando i coniugi stessi lo hanno contratto in buona fede oppure quando il loro consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi. Il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli. Se le condizioni indicate nel primo comma si verificano per uno solo dei coniugi, gli effetti valgono soltanto in favore di lui e dei figli. Il matrimonio dichiarato nullo, con¬tratto in malafede da entrambi i coniugi, ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli nati o concepiti durante lo stesso, salvo che la nullità dipenda da incesto”.
Nel caso di buona fede la nullità ha, quindi, effetto ex nunc (dal momento del giudicato della deli¬bazione) quanto meno per il coniuge a cui nessuna colpa può essere attribuita.
Rispetto ai figli la dichiarazione di nullità e la conseguente delibazione non comportano alcuna conseguenza. Quindi anche nel caso di mala fede di uno dei coniugi il figlio non è nato “fuori dal matrimonio”.
Il matrimonio cosiddetto putativo è quindi un matrimonio invalido ma idoneo a spiegare ope legis, nei rapporti fra coniugi e rispetto ai figli, gli stessi effetti del matrimonio valido fino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la nullità, la quale i n questo caso ha efficacia ex nunc e, quindi, non travolge gli effetti già prodottisi.
Per ciò che possa servire ai fini di quanto previsto nell’art. 129 bis c.c. (responsabilità del coniuge in mala fede) il coniuge interessato ha l’onere di provare la mancanza della buona fede nell’altro coniuge e può produrre in giudizio la sentenza canonica dalla quale risulti il difetto di buona fede. Va precisato che in caso di simulazione, poiché la delibazione – come si è visto – è ammessa solo se non vi è riserva mentale e cioè se anche l’altro coniuge era di fatto consapevole della simula¬zione, è evidente che la nullità ha sempre efficacia ex tunc e non vi potrà essere un problema di responsabilità di un coniuge in mala fede.
a) I rapporti tra separazione/divorzio e giudizio di nullità prima della delibazione
Prima del giudicato sulla delibazione i rapporti tra la causa di nullità e quella di separazione o divorzio non subiscono alcun reciproco condizionamento. Nel senso che la causa di separazione o divorzio non può essere sospesa per il fatto in sé della contemporanea pendenza della causa di nullità davanti al tribunale ecclesiastico.
Il principio è pacificamente riconosciuto in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 marzo 2018, n. 5670 e Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24990 secondo le quali tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, così che il secondo debba essere neces¬sariamente sospeso, ex art. 295 c.p.c., a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, trattandosi di procedimenti autonomi, sfocianti in decisioni di natura diversa ed aventi finalità e presupposti diversi, di specifico rilievo in ordinamenti distinti.
b) I rapporti tra separazione/divorzio e nullità dopo la delibazione
1) In relazione ai coniugi
• Cessazione della materia del contendere nel processo pendente di separazione o di¬vorzio
Poiché la dichiarazione di nullità ha effetti dal giudicato sulla delibazione, eliminando da questa data il vincolo matrimoniale, è evidente che, per quanto attiene ai rapporti tra coniugi, il giudi¬cato rende improcedibile qualsiasi altro procedimento in corso che trova ragione giustificatrice in quel vincolo.
Perciò l’intervenuto giudicato sulla delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico, ove so¬pravvenga in corso di separazione personale dei coniugi o di divorzio, determina la cessazione della materia del contendere in sede civilistica per tutto ciò che concerne i rapporti tra coniugi
Il principio è, insomma, che il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell’efficacia, della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, determinando il venir meno del vincolo coniugale, travolge ogni ulteriore controversia che trova nell’esistenza e nella validità del matrimonio il proprio presupposto, e quindi comporta la cessazione della materia del contendere nel processo di separazione o di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2017, n. 30496; Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 2003, n. 10055; Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2010, n. 399; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2010, n. 2600; Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2013, n. 17094).
D’altro lato la stessa legge 27 maggio 1929, n. 847 tuttora in vigore anche a seguito dell’Accordo del 1984 di modifica del Concordato lateranense del 1929, richiama, per il caso in cui venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico, la disciplina del matrimonio putativo. Ne consegue che, resa esecutiva la sentenza della giurisdizione ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, in pendenza della causa di se¬parazione dei coniugi, e venuto perciò meno il vincolo matrimoniale, viene di conseguenza meno il potere-dovere del giudice di statuire in ordine all’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato e restano nella specie anche travolte le decisioni adottate sul punto nei precedenti gradi di giudizio.
• Venir meno dell’eventuale assegno di mantenimento (ma non di quello divorzile dopo il giudicato sullo status)
Anche l’assegno di mantenimento, fondandosi sull’esistenza di un vincolo matrimoniale, viene meno con il giudicato sulla delibazione della nullità, fatto salvo, naturalmente, quanto dispone per i coniugi in buona fede l’art. 129 c.c. per fronteggiare la mancanza di mezzi adeguati nell’ex coniuge debole non passato a nuove nozze5. A tale proposito un provvedimento provvisorio può essere adottato dalla stessa Corte d’appello chiamata a delibare la nullità ecclesiastica (art. 8, n. 2, ultima parte, legge 25 marzo 1985, n. 121) mentre il provvedimento definitivo è di competenza del tribunale ordinario.
Il principio che l’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione viene travolto dal giudi¬cato sulla delibazione è affermato chiaramente da Cass. civ. Sez. I, 11 maggio 2018, n. 11553 dove si afferma che in tema di rapporti patrimoniali tra ex coniugi, nell’eventualità in cui il vincolo matrimoniale venga meno per il riconoscimento di una sua nullità originaria a seguito di sentenza della sacra Rota (dichiarata efficace nell’ordinamento italiano per effetto della sua conseguente delibazione), tale sopravvenienza comporta la caducazione del presupposto giustificativo dell’as¬segno di mantenimento disposto in sede di separazione tra i due coniugi con sentenza da parte del giudice civile, anche quando quest’ultima sia passata in cosa giudicata.
Un problema specifico si pone, tuttavia, per l’assegno attribuito in sede di divorzio, considerato soprattutto che la statuizione sull’assegno divorzile, fondandosi su una condizione di necessità del coniuge beneficiario, potrebbe privarlo per sempre, dopo la delibazione, del supporto economico necessario a vivere e delle altre provvidenze post-divorzili previste nella legge 898/1970.
Oggi la questione si presenta in termini meno problematici dal momento che come si è visto, il coniuge divorziato titolare del diritto all’assegno divorzile potrebbe eccepire la eventuale durata ultratriennale della convivenza matrimoniale, impedendo con ciò la delibazione della sentenza ec¬clesiastica e i suoi effetti di caducazione dell’assegno.
Nel tentativo della giurisprudenza di ridimensionare gli effetti della delibazione, una decisione della Corte di cassazione nel 1997 aveva affrontato il problema dei rapporti tra la delibazione della sentenza di nullità e la statuizione civile relativa all’assegno divorzile, affermando che “in seguito al venir meno della riserva della giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità del matrimonio concordatario, il giudicato di divorzio implica un accertamento incidenter tantum della validità del vincolo e pertanto non resta travolto dalla successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità” (Cass. civ. Sez. I, 18 aprile 1997, n. 3345).
La giurisprudenza cominciava così a cambiare prospettiva centrando le argomentazioni sui rapporti tra la delibazione e il giudicato in sede divorzile.
In alcuni casi si è dato rilievo nella motivazione al giudicato sull’assegno trattandosi di vicende nelle quali le statuizioni economiche erano state adottate con la sentenza definitiva di divorzio. In verità tuttavia – come si deduce dalla lettura delle principali decisioni sull’argomento – il rilievo è al giudicato sullo status. E’ perciò il giudicato sul divorzio (anche quindi quello formatosi a seguito della sentenza non definitiva) che determina la immodificabilità della statuizione sull’assegno (an¬che successivamente adottata con la sentenza definitiva).
Nella prima importante decisione in proposito (Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2001, n. 4202) viene ricostruito il rapporto fra sentenza di divorzio e sentenza di delibazione della sentenza ec¬
5 Art. 129, co. 1, c.c. (Diritti dei coniugi in buona fede). Quando le condizioni del matrimonio putativo si verifi¬cano rispetto ad ambedue i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno di essi e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alla sue sostanze, a favore dell’altro ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze”.
clesiastica di annullamento del matrimonio e si afferma che, una volta accertata la spettanza, ad una delle parti, dell’assegno di divorzio, ed una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’art. 2909 c.c. anche nel caso in cui successiva¬mente ad essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio”6.
La sentenza provocò un vivacissimo dibattuto sulle riviste giuridiche.
Il principio fu subito ripreso da Cass. civ. Sez. I, 4 marzo 2005, n. 4795 in cui si afferma che la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario passata in giudicato non im¬pedisce la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, sempre che le parti nel giudizio di divorzio non abbiano introdotto esplicitamente questioni concernenti l’esi¬stenza e la validità del vincolo. La dichiarazione di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica non travolge, tuttavia, il capo della sentenza relativo all’assegno di mantenimento. La statuizione che accerti la spettanza dell’assegno divorzile, una volta passata in giudicato è intangi¬bile anche in caso di successiva delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio”.
Dubbi vennero sollevati da Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2005, n. 11793 in cui si esprimeva la considerazione che la delibazione potesse valere a mettere in discussione il giudicato sull’assegno mediante il procedimento di revisione ex art. 9 della legge sul divorzio.
Il principio della prevalenza del giudicato relativo all’assegno divorzile sulla delibazione della nullità è stato però riaffermato – in contrapposizione alla sentenza 11793/2005 – da Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2008, n. 3186 e da Cass. civ. Sez. I, 18 settembre 2013, n. 21331 dove i giudici ribadiscono che la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio non produce alcun effetto di caducazione delle statuizioni contenute nella precedente sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio relative all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile, ove su tali statuizioni si sia formato il giudicato, non costituendo in sé un “giu¬stificato motivo” sopraggiunto, legittimante, ai sensi dell’art. 9, comma primo della legge 1° dicem¬bre 1970, n. 898, la revisione del provvedimento economico contenuto nella sentenza di divorzio.
Recentemente la riaffermato lo stesso principio in un caso in cui vi era stata la decisione non de¬finitiva sullo status Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2019, n. 18827 affermando che la questione
6 In motivazione si legge che con la sentenza n. 4202 del 23 marzo 2001 è stato ricostruito, con maggiore coe¬renza, il rapporto fra sentenza di divorzio e sentenza di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio sicchè appare opportuno riportare i passaggi salienti della motivazione che si dimostrano rilevanti ai fini della decisione del presente giudizio. Di regola – secondo la citata pronuncia n. 4202/2001 – la esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della sentenza di divorzio, ma non formano nel relativo giudizio oggetto di specifico accertamento suscettibile di dare luogo al formarsi di un giudicato. Per questa ra¬gione la sentenza di divorzio – che ha causa petendi e petitum diversi da quelli della sentenza di nullità del ma¬trimonio -, ove nel relativo giudizio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio, non impedisce la delibabilità della sentenza dei Tribunali ecclesiastici che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impegni concordatari assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi. Quanto, invece, ai capi della sentenza di divorzio che contengano statuizioni di ordine economico, si applica la regola ge¬nerale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione – al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c., non dedotti nella specie – fra le stesse parti, in altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall’art. 2909 c.c.. Conseguentemente, una volta accertato nel giudizio, con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordata¬rio, la spettanza a una parte di un assegno di divorzio, ove su tale statuizione si sia formato il giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c., questo resta intangibile, in forza dell’art. 2909 c.c..
7 Si legge in motivazione quanto segue:
1. Col primo motivo, si deduce, in riferimento alla statuizione sub a) di parte narrativa, la violazione e falsa ap¬plicazione dell’art. 324 c.p.c., art. 2909 c.c.; art. 8, comma 2, dell’Accordo del 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con L. n. 121 del 1985, circa la relazione tra gli effetti della sentenza passata in giudicato, che abbia delibato quella ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, con quelli della sentenza non definitiva passata in giudi¬cato che abbia pronunciato solo sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio, senza nulla statuire in ordine alle relative conseguenze economiche.
2. Il motivo è infondato. La conclusione cui sono pervenuti i giudici a quibus circa il rapporto tra la sentenza di nullità del matrimonio e quella di divorzio, è, infatti, coerente con la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 21331 del 2013, ed in precedenza n. 4202 del 2001; n. 4795 del 2005; n. 3186 del 2008; n. 12989 del 2012, vedi pure n. 11553 del 2018), che non si è limitata ad affermare il principio – invocato dal G. per esclu¬derne la ricorrenza nel caso in esame – secondo cui il giudicato sulla spettanza di un assegno di divorzio resta intangibile, in ipotesi di successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, ma ha, a monte, rilevato che non sussiste un rapporto di primazia della pronuncia di nullità, secondo il diritto canonico, del matrimonio concordatario sulla pronuncia di cessazione degli effetti civili dello stesso matrimonio, trattandosi di procedimenti autonomi, aventi finalità e presupposti diversi, e, soprattutto, ha aggiunto che, nel diritto italiano, il titolo giuridico dell’obbligo del mantenimento dell’ex coniuge si fonda sull’accertamento dell’impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale fra i coniugi stessi che è conseguente allo scioglimento del vincolo matrimoniale civile o alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, e non è costituito dalla validità del matrimonio, oggetto della sentenza ecclesiastica, tenuto conto che la decla¬ratoria di nullità ex tunc del vincolo matrimoniale non fa cessare alcuno status di divorziato, che è uno status inesistente, determinando, piuttosto, la pronuncia di divorzio la riacquisizione dello stato libero.
3. Così convenendo, la questione della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile non è preclusa quan¬do l’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi – che, come si è detto, costituisce il titolo giuridico dell’obbligo qui in discussione – sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell’ipotesi in cui nell’ambito di un unico giudizio la statuizione relativa allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici. E, nella specie, tanto è accaduto: per effetto della sentenza di questa Corte n. della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile non è preclusa quando l’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi – che costituisce il titolo giuridico dell’obbligo – sia passato in giudicato prima della delibazione del¬la sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell’ipotesi in cui nell’ambito di un unico giudizio la statuizione relativa allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici.
In conclusione la pronuncia che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario tra le parti, successiva al passaggio in giudicato della sentenza di separa¬zione, fa venir meno le statuizioni economiche relative al rapporto tra i coniugi in essa previste poi¬ché – a differenza di quanto avviene nel caso di precedente passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le cui statuizioni in ordine all’assegno divorzile restano efficaci in forza del principio di solidarietà post coniugale – la sentenza di separazione che stabilisce il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato trova il suo fondamento nella permanenza del vicolo coniugale e nel dovere di assistenza materiale tra coniugi sicché, venuto meno il vincolo matrimoniale, non possono sopravvivere le statuizioni accessorie dal quale esse dipendono.
• La caducazione dei diritti successori ed eventualmente postdivorzili
Ulteriore effetto del giudicato sulla delibazione è il venir meno dei diritti successori ed ogni conse¬guenza che la legge ricollega all’eventuale avvenuto riconoscimento dell’assegno divorzile.
La perdita dei diritti successori è la conseguenza del venir meno del vincolo.
Nel caso in cui il matrimonio venga dichiarato nullo dopo la morte di uno dei coniugi, il superstite, se in buona fede, conserva i diritti successori, ai sensi dell’art. 584 c.c. (successione del coniuge putativo: Quando il matrimonio è stato dichiarato nullo dopo la morte di uno dei coniugi, al coniuge superstite di buona fede spetta la quota attribuita al coniuge dalle disposizioni che precedono. Si applica altresì la disposizione del secondo comma dell’articolo 540) ma non è legittimario.
Pacifica è la perdita dei diritti che, in caso di attribuzione dell’assegno divorzile conseguono ad esso. Pertanto non sarà ipotizzabile alcuna revisione dell’assetto economico divorzile (art. 9, com¬ma 1, legge divorzio), né la pensione di reversibilità (art. 9, commi 2-4), né l’assegno periodico a carico dell’eredità in caso di decesso dell’ex coniuge obbligato (art. 9-bis), né della quota del trattamento di fine rapporto (art. 12-bis).
• Il cosiddetto “assegno di nullità”
Resta aperta per il coniuge debole ai sensi dell’art. 129 c.c. (Diritti dei coniugi in buona fede) la possibilità per la Corte d’appello di prevedere un contributo economico temporaneo di natura so¬stanzialmente alimentare. Infatti nel caso in cui le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi, la norma richiamata prevede che “il giudice può disporre a carico di uno di essi e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodi¬che di denaro, in proporzione alle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze”.
2) In relazione ai figli
Come si è visto l’art. 128 c.c. scolpisce il principio che “Il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli” indipendentemente dalla mala fede dei coniugi.
Pertanto con la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio cessa la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione personale, “ma non viene meno il provvedimento presidenziale adottato in precedenza dal giudice della separazione ex art. 708 cod.proc.civ. relativo al contributo al mantenimento dei figli, che conserva la sua efficacia finché non viene sostituito” (Cass. civ. Sez. III, 6 agosto 2004, n. 15165).
Quindi la dichiarazione di esecutività della sentenza canonica di nullità del matrimonio concorda¬tario non determina la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divorzio, per quanto concerne i provvedimenti che il giudice è chiamato ad adottare in ordine all’affidamento, alle mo¬dalità e misura del contributo al mantenimento dei figli minori e rimane ferma la possibilità per i coniugi di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti la misura e le modalità del contributo (Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2011, n. 15558).
La soluzione è la stessa anche per quanto concerne l’assegnazione della casa familiare come ha precisato Cass. civ. Sez. I, 13 settembre 2002, n. 13428 chiarendo che per effetto della deli¬bazione, da parte della Corte d’appello, di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, la regolamentazione dell’affidamento dei figli minori e del loro mantenimento trova fondamento nelle norme dettate in tema di matrimonio putativo, con la conseguenza che deve
24990 del 10.12.2010 l’accertamento inerente all’impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale fra i coniugi è passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del 14.2.2011, sicchè la valutazione di spettanza e quantificazione dell’assegno divorzile è ben ammissibile, non po¬tendo in contrario dedursi che in caso di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio concordatario le conseguenze economiche siano disciplinate dagli artt. 129 e 129 bis c.c., in tema di matrimonio putativo, dettando tali articoli una normativa che, nel caso di passaggio in giudicato della sentenza di divorzio prima della delibazione della sentenza ecclesiastica, va, appunto, coordinata con i principi che regolano il giudi¬cato, in applicazione dei principi già enunciati dalla giurisprudenza sopra citata al p. 2. figli minori. ritenersi legittimo il provvedimento di assegnazione della casa coniugale al genitore affidatario dei
Si tratta di principi affermati da moltissimo tempo. Per esempio già Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2728 aveva chiarito che le condizioni per l’affidamento ed il mantenimento della prole, a seguito di nullità del matrimonio concordatario sono disciplinate del codice civile anche nei casi in cui venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico. Detto richiamo – aggiungeva la sentenza – comporta l’applicabilità non solo della disciplina sostanziale, ma anche di quella processuale ad essa sottesa e quindi anche la possibilità di ricorrere alle disposizioni sulla revisione delle condizioni della separazione contenute nel codice di rito negli articoli 710 ss., a nulla rilevando, poi, che in occasione dell’eventuale giudi¬zio di separazione, non sia stato adottato alcun provvedimento circa il mantenimento della prole.
Ugualmente per Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1989, n. 649 la sopravvenienza, nel corso della causa di separazione dei coniugi, della delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, non priva il giudice adito del potere-dovere di adottare disposizioni in tema di affidamento, mantenimento ed educazione della prole, a norma dell’art. 155 c. c., richiamato dall’art. 129, 2° comma, c. c., e, quindi, anche a vagliare il comportamento dei coniugi, al fine di emettere detti provvedimenti in corrispondenza dell’interesse morale e materiale dei figli.
Principi analoghi sono stati affermati in Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 1985, n. 2077; Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 1984, n. 3050; Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1983, n. 5887; Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1983, n. 1553.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 25 giugno 2019, n. 17036 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei “bona matrimonii”, postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questi in effetti cono¬sciuta, o che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, atteso che, qualora le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. In quest’ambito, se, da un lato, il giudice italiano è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione anzidetta da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità, dall’altro, la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del pro¬cesso medesimo eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria; inoltre, il convincimento espresso dal giudice di merito sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell’altro costituisce, se mo¬tivato secondo un logico e corretto “iter” argomentativo, statuizione insindacabile in sede di legittimità, sebbene la prova della mancanza di negligenza debba essere particolarmente rigorosa e basarsi su circostanze oggettive e univocamente interpretabili che attestino la inconsapevole accettazione dello stato soggettivo dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2019, n. 4517 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio religioso per esclusione da parte di un coniuge di uno dei “bona” matrimoniali, postula che la divergenza unilaterale tra volon¬tà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero sia stata da questo effettivamente conosciuta o ignorata esclusivamente per sua negligenza. Ne consegue che ove tale condizione non ricorra la delibazione troverà ostacolo nella contrarietà al principio di ordine pubblico italiano di tutela della buona fede e dell’affida¬mento incolpevole.
Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2019, n. 1882 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La questione della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile non è preclusa quando l’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi – che costituisce il titolo giuridico dell’obbligo – sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell’ipotesi in cui nell’ambito di un unico giudizio la statuizione rela¬tiva allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 15 maggio 2018, n. 11808 (Famiglia e Diritto, 2019, 3, 275 nota di SANTARELLI)
Costituisce ragione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordata¬rio, la convivenza prolungata dai coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio stesso, in quanto espressiva di una volontà di accettazione del rapporto, con cui è incompatibile, quindi, l’esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge.
Cass. civ. Sez. I, 11 maggio 2018, n. 11553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti patrimoniali tra ex coniugi, nell’eventualità in cui il vincolo matrimoniale venga meno per il riconoscimento di una sua nullità originaria a seguito di sentenza della sacra Rota (dichiarata efficace nell’ordi¬namento italiano per effetto della sua conseguente delibazione), tale sopravvenienza comporta la caducazione del presupposto giustificativo dell’assegno di mantenimento disposto in sede di separazione tra i due coniugi con sentenza da parte del giudice civile, anche quando quest’ultima sia passata in cosa giudicata a pronuncia che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario tra le parti, successiva al passaggio in giudicato della sentenza di separazione, fa venir meno le statuizioni eco¬nomiche relative al rapporto tra i coniugi in essa previste poiché – a differenza di quanto avviene nel caso di precedente passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le cui statuizioni in ordine all’assegno divorzile restano efficaci in forza del principio di solidarietà post coniugale – la sentenza di separazione che stabilisce il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato trova il suo fondamento nella permanenza del vicolo coniugale e nel dovere di assistenza materiale tra coniugi sicchè, venuto meno il vincolo matrimoniale, non possono sopravvivere le statuizioni accessorie dal quale esse dipendono.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 marzo 2018, n. 5670 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, così che il secondo debba essere necessariamente sospeso, ex art. 295 c.p.c., a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, trattandosi di procedimenti autonomi, sfocianti in decisioni di natura diversa ed aventi finalità e presupposti diversi, di specifico rilievo in ordinamenti distinti.
Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2017, n. 30496 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve dichiararsi cessata la materia del contendere nel pendente giudizio di separazione personale dei coniugi, allorquando venga resa, nelle more, una pronuncia sulla delibazione della sentenza canonica che dichiari l’invali¬dità del matrimonio concordatario contratto tra le parti, riconoscendo in via definitiva effetti civili alla pronuncia del tribunale ecclesiastico.
Il passaggio in giudicato, in pendenza del giudizio di separazione personale, della sentenza che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, fa venire meno il vincolo coniugale e, quindi, fa cessare la materia del contendere in ordine alla domanda relativa alla separazio¬ne ed alle correlate statuizioni circa l’addebito e l’assegno di mantenimento richiesto in favore di uno dei coniugi.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 10 ottobre 2017, n. 23682 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La trattazione della controversia, da parte del giudice adito, con un rito diverso da quello previsto dalla legge non determina alcuna nullità del procedimento e della sentenza successivamente emessa, se la parte non deduca e dimostri che dall’erronea adozione del rito le sia derivata una lesione del diritto di difesa. (Nella specie, in appli¬cazione dell’enunciato principio, la S.C. ha dichiarato infondato il ricorso che denunciava la nullità della pronuncia di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per l’irrituale introduzione del giudizio a mezzo di ricorso, anziché con citazione, e per la mancanza nell’atto dell’avvertimento di cui all’art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c.).
Cass. civ. Sez. VI – 3, 24 maggio 2017, n. 13120 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per vari anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica ostativa alla dichiarazio¬ne di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del “matrimonio-atto”.
Nel caso in cui l’ex coniuge faccia istanza per il riconoscimento della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, la durata del matrimonio non è rilevante, né rileva la qualità del rapporto coniugale.
In tema di matrimonio, ai fini della delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, la “convivenza” tra coniugi non è necessariamente collegata ad un “buon matrimonio”, fondato su solidarietà ed affetti, ma ad un matrimonio comunque celebrato, salvo che i coniugi si siano trovati in una condizione di totale estraneità, pur coabitando, senza alcun rapporto personale o sessuale.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 19 aprile 2017, n. 9925 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di matrimonio, la convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di “ordine pubblico italiano”, la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale eccle¬siastico per qualsiasi vizio genetico del “matrimonio-atto” e detta convivenza triennale “come coniugi”, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 5 aprile 2017, n. 8800 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Esiste un limite di ordine pubblico alla declaratoria di efficacia delle sentenze emesse dai tribunali ecclesiastici sulla nullità del matrimonio celebrato con il rito concordatario, costituito dalla necessità di tutelare il c.d. “ma¬trimonio-rapporto”, cioè la convivenza matrimoniale, successiva alla celebrazione del matrimonio, intesa come vita coniugale, stabile e continua nel tempo, protratta per almeno tre anni, ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, qualun¬que ne sia il vizio.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 1 marzo 2017, n. 5250 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va cassata con rinvio alla corte d’appello in diversa composizione la decisione di merito che contraddica l’asso¬dato principio giuridico secondo cui la convivenza triennale come coniugi, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2017, n. 2486 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il P.G. presso la Corte di cassazione è legittimato, ai sensi dell’art. 72, comma 5, c.p.c., ad impugnare il provvedi¬mento di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, dovendo tale facoltà essere esercitata nel termine di cui all’art. 327 c.p.c. decorrente dal deposito della sentenza, atteso che l’art. 133 c.p.c. non prevede la comunicazione al P.M. presso il giudice “ad quem” (salva l’applicazione del termine breve nel caso in cui detta comunicazione venga comunque effettuata).
In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, l’inte¬resse del P.G. presso la Corte di cassazione all’impugnazione, ai sensi dell’art. 72, comma 2, c.p.c., sussiste nei limiti delle “causae petendi” e dei “petita” fatti valere dalle parti, nonché delle eccezioni dalle medesime solleva¬te, trattandosi di giudizio per cui è esclusa la promuovibilità da parte del pubblico ministero.
Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza stabile e duratura “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla deliba¬zione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, e deve essere opposta, a pena di decadenza, solo con la comparsa di costituzione e risposta e non anche con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. o nel giudizio di legittimità, così rispettandosi l’autonomia del coniuge convenuto, libero di proporre o meno l’eccezione, e ponendosi altresì un limite alla valutazione, al¬trimenti troppo incisiva, del giudice, rendendola opportunamente scevra da ogni forma di paternalismo. Né tale interpretazione configura un’ipotesi di cd. “overruling” tale da giustificare la rimessione in termini della parte che aveva fatto affidamento su di un diverso orientamento giurisprudenziale tutt’altro che consolidato.
La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione del¬la sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 4 ottobre 2016, n. 19811 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di matrimonio, la convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa della delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempimento di doveri ed all’assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di una eccezione in senso stretto non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Secondo il condiviso orientamento inaugurato da Cass., Sez. Un., 17 luglio 2014, n. 16379, la convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità. Ciò posto e tenuto conto dell’applicabilità nel procedimento de quo delle norme sul rito ordinario di cognizione, appare evidente che l’eccezione, proposta con comparsa di risposta depositata alla prima udienza e non nei termini previsti dell’art. 166 cod. proc. civ., deve ritenersi tardiva.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 marzo 2016, n. 5364 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che, come a più riprese segnalato tanto dal Giudice di merito quanto dalla Suprema Corte, nel caso che ne occupa è stata esclusa la non conoscibilità da parte ricorrente della condizione del coniuge, la censura veniva ritenuta infondata in ragione dell’inesistenza, nel nostro ordinamento, di un principio di ordine pubblico secondo cui il vizio che inficia il matrimonio può essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia stato viziato (nella specie, la Corte territoriale non poteva concedere delibazione alla sentenza ecclesiastica, atteso che la causa della nullità era riconducibile al coniuge che aveva chiesto la dichiarazione di nullità del matrimonio, in assenza della certezza circa la conoscenza di tale causa in capo all’altro coniuge).
Cass. civ. Sez. I, 29 gennaio 2016, n. 1749 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario contratto da uno dei coniugi per “metus reverentialis”, postula che la corte d’appello verifichi la compatibilità della qualifica¬zione canonistica della suddetta causa di nullità matrimoniale con l’ordine pubblico italiano, valutando in concre¬to che non si sia trattato di una mera “reverentia” dovuta a persona cui uno degli sposi era legato da particolare rapporto, ma unicamente di situazioni tali da integrare gli estremi della gravità, estrinsecità e decisività ai fini della formazione del consenso.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, con¬venuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardiva¬mente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, inno¬vando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stretto), che riteneva il relativo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2015, n. 18695 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione del¬la sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2015, n. 13883 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario per difet¬to di consenso, le situazioni di vizio psichico assunte dal giudice ecclesiastico come comportanti inettitudine del sog¬getto, al momento della manifestazione del consenso, a contrarre il matrimonio non si discostano sostanzialmente dall’ipotesi d’invalidità contemplata dall’art. 120 c.c., cosicché è da escludere che il riconoscimento dell’efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo in principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Pertanto, deve escludersi che il riconoscimento dell’efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo in principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Tale contrasto, in particolare, non sussiste sotto il profilo del difetto di tutela dell’affidamento della controparte, atteso che, mentre in tema di contratti la disciplina generale dell’incapacità naturale dà rilievo alla buona o ma¬lafede dell’altra parte, tale aspetto è ignorato nella disciplina dell’incapacità naturale, quale causa di invalidità del matrimonio, essendo in tal caso preminente l’esigenza di rimuovere il vincolo coniugale inficiato da vizio psichico.
Cass. civ. Sez. I, 1 luglio 2015, n. 13515 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza coniugale protrattasi per un congruo periodo di tempo (almeno 3 anni) costituisce un limite di or¬dine pubblico al riconoscimento della sentenza del Tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per vizi del consenso.
Cass. civ. Sez. I, 13 febbraio 2015, n. 2942 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 562 nota di CARBONE)
La convivenza “come coniugi” non può essere rilevata d’ufficio né eccepita dal P.M. e va pertanto riconosciuta in Italia la sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario ottenuta su concorde richiesta di entrambi i coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1790 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice italiano, investito della domanda di riconoscimento dell’efficacia della sentenza di nullità del matrimo¬nio concordatario dovuta a riserva mentale su uno dei bona matrimoni nella specie, il bonum prolis da un lato è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione anzidetta da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità, dall’altro, la relativa indagine deve essere con¬dotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del processo medesimo eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integra¬zione dell’attività istruttoria.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1788 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza coniugale, che si sia protratta per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio con¬cordatario, crea una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di ordine pubblico italiano, che sono fonti di diritti inviolabili, doveri inderogabili, responsabilità, anche genitoriali, ed aspettative legittime tra i componenti della famiglia. Non può pertanto essere dichiarata efficace nella Repubblica Italiana la sentenza definitiva di nullità di matrimonio pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico per contrarietà all’ordine pubblico interno italiano. La relativa eccezione deve però essere sollevata dalla parte a pena di decadenza nel giudizio di delibazione ed entro i termini previsti per proporre le eccezioni non rilevabili d’ufficio.
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1622 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza coniugale, che si sia protratta per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio con¬cordatario, crea una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di ordine pubblico italiano, che sono fonti di diritti inviolabili, doveri inderogabili, responsabilità, anche genitoriali, ed aspettative legittime tra i componenti della famiglia. Non può pertanto essere dichiarata efficace nella Repubblica Italiana la sentenza definitiva di nullità di matrimonio pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico per contrarietà all’ordine pubblico interno italiano. La relativa eccezione deve però essere sollevata dalla parte a pena di decadenza nel giudizio di delibazione ed entro i termini previsti per proporre le eccezioni non rilevabili d’ufficio.
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1620 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La declaratoria di esecutività della sentenza del Tribunale ecclesiastico che abbia pronunciato la nullità del ma¬trimonio concordatario per esclusione, da parte di un coniuge, di uno dei bona matrimonii postula che tale di¬vergenza sia stata manifestata all’altro coniuge ovvero che questi l’abbia effettivamente conosciuta o che poteva conoscerla, atteso che, ove non ricorra alcuna di tali situazioni, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà con l’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole.
Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2015, n. 1494 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 563 nota di CARBONE)
Il riconoscimento della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario chiesta dal marito va respinta se la moglie eccepisce la convivenza coniugale durata oltre 12 anni.
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1621 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 563 nota di CARBONE)
Il riconoscimento della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario chiesta dal marito va respinta se la moglie eccepisce la convivenza coniugale durata oltre i 3 anni.
Cass. civ. Sez. I, 13 febbraio 2015, n. 2942 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 563 nota di CARBONE)
La convivenza “come coniugi” non può essere rilevata d’ufficio né eccepita dal P.M. e va pertanto riconosciuta in Italia la sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario
Cass. civ. Sez. I, 1 aprile 2015, n. 6611 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 563 nota di CARBONE)
La convivenza “come coniugi” non può essere rilevata d’ufficio né eccepita dal P.M. e va pertanto riconosciuta in Italia la sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario chiesta dal marito, mentre la moglie non si è costituita e non quindi ha tempestivamente eccepito la convivenza coniugale.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16380 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “come coniugi” deve intendersi quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, che si ma¬nifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, riconoscibile esteriormente attraverso specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili e di responsabilità, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. In tal modo intesa, la con¬vivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitu¬tiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di “ordine pubblico italiano” e , pertanto, anche in applicazione dell’art. 7, primo comma, Cost. e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa – ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 (in particolare, dell’art. 8, numero 2, lett. c, dell’Accordo e del punto 4, lett. b, del Protocollo addizionale), e dell’art. 797, primo comma, n. 7, c.p.c. – alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesia¬stico nell’«ordine canonico» nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.
La convivenza “come coniugi”, come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, ed in quanto connotata da una “complessità fattuale” strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempi¬mento di doveri ed all’assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, deve qualificarsi sic¬come eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di deli¬bazione né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità – dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta -, potendo invece essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la de¬duzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva. Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un’apposita istruzione probatoria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della deliba¬zione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo, fermo restando comunque il controllo del giudice di legittimità secondo le speciali disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale, i normali parametri previsti dal codice di procedura civile ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.
La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione del¬la sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Trattandosi, peraltro, di situazione giuridica complessa, fondata su fatti e comportamenti specifici e rilevanti, essa può essere fatta valere solo dal coniuge convenuto, non essendo rilevabile d’ufficio.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “come coniugi” deve intendersi quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, che si ma¬nifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, riconoscibile esteriormente attraverso specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili e di responsabilità, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. In tal modo intesa, la con¬vivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitu¬tiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di “ordine pubblico italiano” e , pertanto, anche in applicazione dell’art. 7, primo comma, Cost. e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa – ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 (in particolare, dell’art. 8, numero 2, lett. c, dell’Accordo e del punto 4, lett. b, del Protocollo addizionale), e dell’art. 797, primo comma, n. 7, c.p.c. – alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesia¬stico nell’«ordine canonico» nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.
La convivenza “come coniugi”, come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, ed in quanto connotata da una “complessità fattuale” strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempi¬mento di doveri ed all’assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, deve qualificarsi sic¬come eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di deli¬bazione né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità – dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta -, potendo invece essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la de¬duzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva. Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un’apposita istruzione probatoria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di “riesame del merito” della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della deliba¬zione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo, fermo restando comunque il controllo del giudice di legittimità secondo le speciali disposizioni dell’Accordo e del Protocollo addizionale, i normali parametri previsti dal codice di procedura civile ed i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.
La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione del¬la sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
Trattandosi, peraltro, di situazione giuridica complessa, fondata su fatti e comportamenti specifici e rilevanti, essa può essere fatta valere solo dal coniuge convenuto, non essendo rilevabile d’ufficio.
Cass. civ. Sez. I, 18 settembre 2013, n. 21331 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio non produce alcun effetto di caducazione delle statuizioni contenute nella precedente sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio relative all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile, ove su tali statuizioni si sia formato il giudicato, ai sensi dell’art. 324 cod. proc. civ. non costituendo in se stessa un “giustificato motivo” sopraggiunto, legittimante, ai sensi dell’art. 9, comma primo, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, la revisione del provvedi¬mento economico contenuto nella sentenza di divorzio.
L’assegno divorzile ha come presupposti: a) l’accertamento dell’impossibilità della continuazione della comu¬nione spirituale e morale fra i coniugi che comporta lo scioglimento del vincolo matrimoniale civile (o la dichia¬razione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario), b) l’accertamento del diritto di uno dei due coniugi al mantenimento di un livello di vita, assimilabile a quello goduto nel corso del matrimonio, che può essergli garantito solo con il contributo economico dell’altro coniuge. E’ quindi da escludere che il titolo giuridico fondante l’obbligo del mantenimento del coniuge sia costituito nel diritto italiano dalla validità del matrimonio mentre invece deve ritenersi che esso trova il suo fondamento nella pregressa esistenza di un rapporto coniugale di cui è stato dichiarato lo scioglimento. Per altro verso la declaratoria di nullità ex tunc del vincolo matrimoniale non fa cessare lo status di divorziato trattandosi di uno status inesistente in quanto la pronuncia di divorzio de¬termina la riacquisizione dello stato libero.
Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2013, n. 17094 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il passaggio in giudicato, in pendenza del giudizio di separazione dei coniugi, della sentenza che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, fa venire meno il vincolo coniugale e, quindi, fa cessare la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione perso¬nale e alle correlate statuizioni circa l’addebito e l’assegno di mantenimento, adottate nel processo e non ancora divenute intangibili, le quali presuppongono l’esistenza e la validità del matrimonio e del conseguente vincolo.
A seguito, infatti, del passaggio in giudicato della sentenza che ha reso esecutiva nello Stato la pronuncia ec¬clesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, è venuto meno il vincolo coniugale e, quindi, è cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione personale e segnatamente alle correlate statuizioni in ordine all’addebito ed all’assegno di mantenimento, adottate nel corso del processo e non ancora divenute intangibili, le quali presuppongono l’esistenza e la validità del matrimonio e del conseguente vincolo (in tema, cfr cass. n. 2600 del 2010; n. 399 del 2010; n. 10033 del 2004) e che restano travolte e ca¬ducate dalla sopravvenienza (cfr cass. SU n. 1048 del 2000), la quale, data anche la natura della controversia, giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2013, n. 4647 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Si ritiene che sussista un contrasto tra la giurisprudenza della Corte di Cassazione e il giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio in considerazione della rilevanza ultrannuale della coabitazione dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio sicché si ritiene necessario l’assegnazione di tutte le questioni connesse alla violazione dell’ordine pubblico interno, al modo di intendere la coabitazione materiale di cui agli artt. 120 e 122 del codice civile, ai vizi del consenso e agli obblighi reciproci tra i coniugi di cui all’art. 148 del ridetto codice alle Sezioni Unite della Cassazione affinché vi facciano chiarezza.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2013, n. 712 (Nuova Giur. Civ., 2013, 4, 368 nota di QUADRI)
Deve essere rimessa alle sezioni unite la composizione del contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di delibare la sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal tribunale ecclesiastico in caso di convivenza protratta nel tempo.
Sussiste contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di delibare la sentenza di annullamento del matri¬monio, emessa dal tribunale ecclesiastico, dove l’unione abbia avuto lunga durata e si sia dunque protratta nel tempo: la questione va quindi rimessa alle Sezioni Unite (contrasto di giurisprudenza: per Cass. Civ. 1343/2011, il fatto che il matrimonio si sia protratto per lunga durata osta alla delibazione dell’eventuale sentenza di annul¬lamento; per Cass civ. 8926/2012, può essere affermato, invece, un generale principio di irrilevanza, ai fini della delibazione, della durata della convivenza).
In relazione alla delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, si possono re¬gistrare due orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Ed infatti, se, da un lato, si ritiene che la prolungata convivenza tra i coniugi rappresenti condizione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, in quanto ciò esprimerebbe la volontà di accettazione del rapporto proseguito, con¬fliggente con l’esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione adducendo riserva mentale risalente al tempo delle nozze, dall’altro lato, si afferma che la prolungata convivenza dei coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, non è condizione ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico che deve, pertanto essere consentita in difformità dall’art. 123, comma 2, c.c. in tema di impugnazione del matrimonio per simulazione. Ciò perché, tale norma, pur avendo carattere imperativo, non configura espressione di principi e regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, con la conseguenza che l’indicata difformità non pone la pronuncia ecclesiastica in contrasto con l’ordine pubblico italiano. Ciò premesso, atteso che, nel caso in esame, si è riproposto tale contrasto giurisprudenziale relativo alla possibilità di ravvisare o meno nella prolungata con¬vivenza tra i coniugi una causa ostativa alla delibazione della sentenza di nullità del matrimonio, si è ritenuto opportuno rimettere alle Sezioni Unite la composizione del predetto contrasto, con tutte le questioni originatesi dalle sopra menzionate opzioni interpretative e allo stato irrisolte.
Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio ha “causa petendi” e “petitum” diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio concordatario, investendo il matrimonio-rapporto e non l’atto con il quale è stato costituito il vincolo tra i coniu¬gi, per cui se, nel relativo giudizio, non sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio – con il conseguente insorgere delle questioni poste dalla statuizione contenuta nell’art. 8, comma secondo, lett. c), dell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra Stato italiano e Santa Sede – non è impedita la delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impe¬gni assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi.
Il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio non osta alla successiva delibazione della sentenza ecclesia¬stica di nullità del matrimonio contratto dalle stesse parti.
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2012, n. 9844 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario la convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio e non la semplice durata del matrimonio medesi¬mo, in quanto l’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese “favor” per la validità del matrimonio, inteso come matrimonio-rapporto, fondato sulla convivenza dei coniugi; è, pertanto, irrilevante in sé la mera durata ventennale dello stesso, laddove non sia dedotta e provata, nella fase di delibazione della sentenza ec¬clesiastica (nella specie, di nullità del matrimonio concordatario per grave difetto di discrezione di giudizio del marito), l’effettiva convivenza dei coniugi nello stesso periodo.
Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 2012, n. 8926 (Famiglia e Diritto, 2013, 1, 21 nota di IANNACCONE)
La convivenza tra i coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, per quanto prolungata, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
In tema di delibazione delle sentenze del tribunale ecclesiastico, la convivenza dei coniugi (nella specie protrat¬tasi per oltre trent’anni) successiva alla celebrazione del matrimonio non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l’istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1780 (Famiglia e Diritto, 2012, 11, 1000 nota di IPPOLITI MARTINI)
In materia di situazioni invalidanti l’atto-matrimonio, la successiva convivenza prolungata è da considerare espressiva della volontà di accettazione del matrimonio-rapporto che ne è seguito, sempre che, dopo il matrimo¬nio nullo, tra i coniugi si sia instaurato un vero consorzio familiare e affettivo, con superamento implicito della causa originaria di invalidità. In tale ricostruzione interpretativa, il limite di ordine pubblico postula, pertanto, che non di mera coabitazione materiale sotto lo stesso tetto si sia trattato, – che nulla aggiungerebbe ad una situazione di mera apparenza del vincolo – bensì di vera e propria convivenza significativa di un’instaurata “af¬fectio familiae”, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci – per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.) – tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto.
Cass. civ. Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 21968 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In sede di delibazione della sentenza di nullità del tribunale ecclesiastico non è applicabile la legge 218/1995 ma gli artt. 796 e 797 c.p.c. e ciò per effetto del richiamo ai detti articoli contenuto nell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense, reso esecutivo con L. 25 marzo 1985, n. 121, e gerarchicamente sovraordinato alla legge ordinaria in virtù del principio concordatario accolto dall’art. 7 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19585 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’abrogazione degli artt. 796 e 797 c.p.c., sancita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 73, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, non è idonea, in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta, a spiegare efficacia sulle disposizioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985, n. 121).
Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2011, n. 15558 (Foro It., 2011, 11, 1, 3005)
La dichiarazione di esecutività della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario non determina la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divorzio, per quanto concerne i provvedimenti che il giudice è chiamato ad adottare in ordine all’affidamento, alle modalità e misura del contributo al mantenimento dei figli minori.
Resa esecutiva la sentenza della giurisdizione ecclesiastica dichiarativa degli effetti civili del matrimonio, non viene meno il potere-dovere del giudice di adottare i provvedimenti riguardo ai figli e rimane ferma la possibilità per i coniugi di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti la misura e le modalità del contributo.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2011, n. 1343 (Famiglia e Diritto, 2011, 3, 235 nota di CARBONE)
Non può essere delibata la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario quando la convivenza tra i coniugi si è protratta per lunghi anni o, comunque, per un periodo di tempo considerevole in quanto una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo è contrario ai principi di “ordine pubblico” rimetterlo in discussione adducendo riserve mentali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze.
I giudici italiani non possono procedere alla delibazione in Italia della sentenza ecclesiastica di nullità del matri¬monio concordatario quando la convivenza tra i coniugi si è protratta per lunghi anni o, comunque, per un periodo di tempo considerevole. Questo perché una volta che il rapporto matrimoniale prosegue nel tempo è contrario ai principi di “ordine pubblico” rimetterlo in discussione adducendo riserve mentali, o vizi del consenso, verificatisi nel momento delle nozze. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza 1343/2011, accogliendo il ricorso di una moglie che si era opposta alla domanda dell’ex marito volta a far delibare in Italia la nullità, dichiarata dalla Sacra Rota, del loro matrimonio durato venti anni. Secondo i giudici di legittimità, dopo la celebrazione delle nozze, la succes¬siva prolungata convivenza è considerata espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito.
La sentenza resa da un Tribunale ecclesiastico ed avente ad oggetto la nullità del matrimonio, fondata sul rifiuto di procreazione non manifestato da uno dei coniugi prima del matrimonio, è contraria alla nozione di ordine pubblico e non può quindi essere delibata nell’ordinamento italiano alla luce dell’esistenza di una convivenza particolarmente prolungata fra i coniugi dopo il matrimonio, che è espressione di una volontà di accettazione del rapporto matrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, così che il secondo debba essere necessariamente sospeso, ex art. 295 cod. proc. civ., a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, trat¬tandosi di procedimenti autonomi, sfocianti in decisioni di natura diversa ed aventi finalità e presupposti diversi, di specifico rilievo in ordinamenti distinti. Nè rileva che le norme sul giudizio di delibazione, di cui agli artt. 796 e 797 cod. proc. civ., siano state abrogate dall’art. 73 della legge n. 218 del 1995, poichè tale abrogazione, in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta, non è idonea a spiegare efficacia sulle disposi¬zioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 ottobre 1984 e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121), disposizioni le quali – con riferimento alla dichiarazione di efficacia, nella Repubblica italiana, delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribu¬nali ecclesiastici – contengono un espresso richiamo agli artt. 796 e 797 cod. proc. civ., e risultano connotate, in forza del principio concordatario accolto dall’art. 7 Cost. (che implica la resistenza all’abrogazione di norme pattizie, perciò suscettibili di modifica, in difetto di accordo delle parti contraenti, solo con leggi costituzionali), da una vera e propria ultrattività.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2010, n. 2600 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In applicazione dell’art. 2909 c.c. fa stato tra le parti con l’efficacia della cosa giudicata, la delibazione della sentenza di annullamento del vincolo matrimoniale che intervenga in data anteriore alla pronuncia di divorzio (anche se il giudizio ecclesiastico di nullità matrimoniale sia stato intrapreso successivamente al procedimento di divorzio). Quest’ultima infatti, presupponendo tanto la validità del matrimonio quanto la sussistenza del vincolo ad esso conseguente si porrebbe in contrasto con la delibazione di annullamento che, al contrario, sancisce (in via definitiva se non impugnata) tanto l’invalidità del matrimonio quanto, conseguentemente, l’insussistenza del vincolo. Per quanto osservato, quindi, la delibazione travolge tanto la sentenza di divorzio, eventualmente pro¬nunciata in epoca successiva al suo passaggio in giudicato, quanto le statuizioni economiche in essa contenute e ad essa conseguenti.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2010, n. 399 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il passaggio in giudicato, in pendenza del giudizio di separazione dei coniugi, della sentenza che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità canonica del matrimonio concordatario contratto dalle parti, fa venir meno il vincolo coniugale, e quindi anche il potere-dovere del giudice di statuire in ordine all’assegno di mantenimento, trovando applicazione la disciplina del matrimonio putativo di cui agli artt. 128, 129 e 129 – bis cod. civ. (richiamati dall’art. 18 della legge 27 maggio 1929, n. 847) con la conseguenza che, qualora il giudicato sia intervenuto dopo la pubblicazione della sentenza d’appello, è inammissibile il ricorso per cassazione, restando travolte le decisioni adottate in argomento nei precedenti gradi di giudizio.
Cass. civ. Sez. Unite, 18 luglio 2008, n. 19809 (Foro It., 2008, 11, 1, 3130)
Non possono delibarsi le sole sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale contraddistinte da incompatibilità assoluta con l’ordine pubblico italiano, vale a dire fondate su fatti che attribuiscono giuridico significato a valori in alcun modo rilevanti nell’ordinamento statuale, mentre è possibile la delibazione in caso di incompatibilità relativa, che sussiste allorché la divergenza con le norme ed i principi inderogabili interni delle statuizioni conte¬nute nella pronuncia ecclesiastica possa superarsi con l’individuazione in quest’ultima, da parte del giudice della delibazione, tenendo conto della specificità dell’ordinamento canonico, e fermo che non può procedersi ad un riesame di merito di quella pronuncia, di una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne con effetti simili, e conforme ai valori e principi essenziali della coscienza sociale, desunti dalle fonti normative costituzionali e dalle norme matrimoniali inderogabili (è pertanto assolutamente incompatibile con il diritto interno la sentenza eccle¬siastica che attribuisce rilevanza – quale vizio del consenso matrimoniale – a motivi appartenenti al foro interno dei coniugi e a valori metagiuridici, e non fondati su circostanze obiettive ed esteriorizzate).
Venuta meno la riserva di giurisdizione in materia di nullità di matrimoni concordatari per i giudici ecclesiastici, per le Corti d’appello la delibazione non è più automatica o obbligatoria, dovendo esse valutare se i fatti accertati con effetto di giudicato in sede canonica varchino o meno la soglia-limite che impone l’ordine pubblico.
Occorre distinguere le incompatibilità delle sentenze di cui si chiede l’esecutività in Italia con l’ordine pubblico interno in “assolute” e “relative”. Tali incompatibilità, di regola, ostano all’esecuzione in Italia delle sentenze di altri ordinamenti in materia matrimoniale, ma hanno diversa rilevanza per il riconoscimento degli effetti di quelle canoniche, in base al protocollo addizionale del 1984. La incompatibilità con l’ordine pubblico interno delle sentenze di altri ordinamenti è “assoluta”, allorché i fatti a base della disciplina applicata nella pronuncia di cui è chiesta la esecutività e nelle statuizioni di questa, anche in rapporto alla causa petendi della domanda accolta, non sono in alcun modo assimilabili a quelli che in astratto potrebbero avere rilievo o effetti analoghi in Italia. L’incompatibilità con l’ordine pubblico interno va qualificata invece “relativa”, quando le statuizioni della sentenza ecclesiastica, eventualmente con la integrazione o il concorso di fatti emergenti dal riesame di essa ad opera del giudice della delibazione, pure se si tratti di circostanze ritenute irrilevanti per la decisione canonica, possano fare individuare una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne con effetti simili. Impediscono l’esecutività in Italia della sentenza “ecclesiastica” solo le incompatibilità assolute, potendosi superare quelle relative, per il peculiare rilievo che lo Stato italiano si è impegnato con la Santa Sede a dare a tali pronunce.
Non appare condivisibile, alla luce della distinzione enunciata tra cause di incompatibilità assoluta e relativa delle sentenze di altri ordinamenti con l’ordine pubblico interno, qualificare come relative quelle delle pronunce di annullamento canonico intervenute dopo molti anni di convivenza o coabitazione dei coniugi, ritenendo l’impedi¬mento a chiedere l’annullamento di cui sopra mera condizione di azionabilità, da considerare esterna e irrilevante come ostacolo d’ordine pubblico alla delibazione.
Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2008, n. 3186 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario passata in giudicato non impedisce la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, sempre che le parti nel giudizio di divorzio non abbiano introdotto esplicitamente questioni concernenti l’esistenza e la validità del vincolo. La di¬chiarazione di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica non travolge, tuttavia, il capo della sentenza relativo all’assegno di mantenimento.
La statuizione che accerti la spettanza dell’assegno divorzile, una volta passata in giudicato è intangibile anche in caso di successiva delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili del matrimonio concor¬datario venga accertata la spettanza, a una delle parti, dell’assegno di divorzio, e una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’articolo 2909 del c.c. anche nel caso in cui successivamente a essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
La norma dell’art. 8, comma 2, lettera b), della legge 25 marzo 1985, n. 121, che indica le condizioni alle quali possono essere dichiarate efficaci in Italia le sentenze di nullità dei matrimoni concordatari emesse dai tribunali ecclesiastici, va interpretata nel senso che sussiste una violazione del diritto delle parti di agire e resistere in giudizio solo in presenza di una compressione della difesa negli aspetti e requisiti essenziali garantiti dall’ordi¬namento dello Stato; ne consegue che, non essendo quello della immodificabilità della domanda un principio dell’ordinamento processuale dello Stato coessenziale al diritto di difesa, non vi sono ostacoli alla dichiarazione di efficacia di una sentenza ecclesiastica nella quale sia stata dichiarata la nullità del matrimonio per una ragione diversa da quella originariamente prospettata, ove la Corte d’appello abbia accertato che sulla domanda modifi¬cata vi sia stata la garanzia del contraddittorio.
Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2005, n. 11793 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”; tuttavia, la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 e successive modificazioni, dal giudice da tale norma previsto, e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni. Da tanto consegue che l’”ex” coniuge tenuto, in forza della sentenza di divorzio, alla somministrazione periodica dell’assegno divorzile, il quale abbia ricevuto la notifica di atto di precetto con l’intimazione di adempiere l’obbligo risultante dalla predetta sentenza, non può – in assenza di revisione, ai sensi del citato art. 9 della legge n. 898 del 1970, delle disposizioni concernenti la misura dell’assegno di divorzio da corrispondere all’”ex” coniuge – dedurre la sopravvenienza del fatto nuovo, in ipotesi suscettibile di determinare la modifica dell’originaria statuizione contenuta nella sentenza di divorzio, nel giudizio di opposizione a precetto, essendo del pari da escludere che il giudice di questa opposizione debba rimettere la causa al giudice competente “ex” art. 9 della legge n. 898 del 1970. (Nella specie l’obbligato, proponendo oppo¬sizione a precetto, aveva contestato il diritto dell’”ex” coniuge a procedere ad esecuzione forzata sostenendo che il diritto alla corresponsione periodica dell’assegno, al cui pagamento egli era stato condannato con la sentenza di divorzio, era venuto meno a seguito del passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello che aveva di¬chiarato efficace in Italia la pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario celebrato tra i coniugi).
Cass. civ. Sez. I, 4 marzo 2005, n. 4795 (Famiglia e Diritto, 2006, 1, 30 nota di VANZ)
La sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario passata in giudicato non impedisce la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, sempre che le parti nel giudizio di divorzio non abbiano introdotto esplicitamente questioni concernenti l’esistenza e la validità del vincolo. La di¬chiarazione di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica non travolge, tuttavia, il capo della sentenza relativo all’assegno di mantenimento.
La statuizione che accerti la spettanza dell’assegno divorzile, una volta passata in giudicato è intangibile anche in caso di successiva delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili del matrimonio concor¬datario venga accertata la spettanza, a una delle parti, dell’assegno di divorzio, e una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’articolo 2909 del c.c. anche nel caso in cui successivamente a essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Cass. civ. Sez. III, 6 agosto 2004, n. 15165 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora, nel corso del giudizio di separazione personale dei coniugi, venga resa esecutiva la sentenza eccle¬siastica dichiarativa della nullità del matrimonio, cessa la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione personale, ma non viene meno il provvedimento presidenziale adottato in precedenza dal giudice della separazione ex art. 708 c.p.c. relativo al contributo al mantenimento dei figli, che conserva la sua efficacia finché non viene sostituito.
Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 2003, n. 10055 (Famiglia e Diritto, 2004, 82)
Il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell’efficacia, nell’ordinamento dello Stato, della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, determinando il venir meno del vincolo coniugale, travolge ogni ulteriore controversia trovante nell’esistenza e nella validità del matrimonio il proprio presupposto, e quindi comporta la cessazione della materia del contendere nel processo di divorzio che sia stato instaurato successiva¬mente alla introduzione del procedimento diretto al riconoscimento della sentenza ecclesiastica.
Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2003, n. 3339 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, l’accertamento della conoscenza o conoscibilità del fatto (nella specie: apposizione, da parte di un coniuge, di una condizione al matrimonio at¬tinente alla determinazione della residenza familiare) che ha determinato la mancanza o il vizio del consenso matrimoniale da parte di un coniuge, il giudice della delibazione è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità di tale esclusione da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, rispetto al giudice ecclesiastico, anche se la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alle sentenze ecclesiastiche e agli atti del processo canonico eventualmente prodotti, non potendosi fare luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria.
Cass. civ. Sez. I, 13 settembre 2002, n. 13428 (Famiglia e Diritto, 2003, 1, 76)
Per effetto della delibazione, da parte della Corte d’appello, di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, la regolamentazione dell’affidamento dei figli minori e del loro mantenimento trova fondamento nelle norme dettate in tema di matrimonio putativo, con la conseguenza che, richiamando l’art. 129 (che disci¬plina, appunto, i rapporti tra coniugi in caso di matrimonio putativo) il successivo art. 155 c.c. deve ritenersi legittimo il provvedimento di assegnazione della casa coniugale al genitore affidatario dei figli minori, a prescin¬dere dalla circostanza che proprietario della stessa risulti il coniuge non affidatario.
Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2001, n. 4202 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concor¬datario venga accertata la spettanza, ad una delle parti, dell’assegno di divorzio, ed una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’art. 2909 c.c. anche nel caso in cui successivamente ad essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 18 aprile 1997, n. 3345 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In seguito al venir meno della riserva della giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità del matrimonio con¬cordatario, il giudicato di divorzio implica un accertamento incidenter tantum della validità del vincolo e pertanto non resta travolto dalla successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità.
Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2728 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le condizioni per l’affidamento ed il mantenimento della prole, a seguito di nullità del matrimonio concordatario pronunciata dal tribunale ecclesiastico e delibata in Italia, sono disciplinate dall’art. 155 c.c., atteso che l’art. 18 della l. 27 maggio 1929 n. 847 – tuttora in vigore, anche a seguito dell’accordo del 18 febbraio 1984 di modifica del Concordato lateranense – dichiara applicabili le norme sul matrimonio putativo del codice civile anche nei casi in cui venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico. Detto richiamo, peraltro, comporta l’applicabilità non solo della disciplina sostanziale, ma anche di quella processuale ad essa sottesa e quindi anche la possibilità di ricorrere alle disposizioni sulla revisione delle condizioni della separazione contenute nel codice di rito negli articoli 710 ss., a nulla rilevando, poi, che in occasione dell’eventuale giudizio di separazione, non sia stato adottato alcun provvedimento circa il manteni¬mento della prole.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1989, n. 649 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sopravvenienza, nel corso della causa di separazione dei coniugi, della delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, non priva il giudice adito del potere-dovere di adottare disposizioni in tema di affidamento, mantenimento ed educazione della prole, a norma dell’art. 155 c. c. richiamato dall’art. 129, 2° comma, c. c., e, quindi, anche a vagliare il comportamento dei coniugi, al fine di emettere detti provve¬dimenti in corrispondenza dell’interesse morale e materiale dei figli.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4700 (Dir. Famiglia, 1988, 1655 nota di DALL’ONGARO)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1, legge 27 maggio 1929, n. 810 e 17, l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultati a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi es¬sere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che quella nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4701 (Giust. Civ., 1988, I, 1935)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1, legge 27 maggio 1929, n. 810 e 17, l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultati a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi es¬sere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che quella nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4702 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1, legge 27 maggio 1929, n. 810 e 17, l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultati a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi es¬sere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che quella nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 luglio 1988, n. 4703 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio con¬cordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1, legge 27 maggio 1929, n. 810 e 17, l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultati a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi es¬sere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che quella nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 1988, n. 192 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 123 2° comma c. c., il quale esclude la deducibilità della simulazione del matrimonio quando i coniugi, dopo la celebrazione, abbiano convissuto in comunione materiale e spirituale, risponde ad un valore essenziale e fondamentale dell’ordinamento interno, rivolto a tutelare la stabilità conseguita con il matrimonio-rapporto, indi¬pendente dal vizio del matrimonio-atto; pertanto, con riguardo a sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione di un bonum matrimonii, il giudice della delibazione, cui risulti detta convivenza, deve negare l’esecutività in Italia, sotto il profilo del contrasto con l’ordine pubblico (nella specie, nella disciplina anteriore alle modificazioni del concordato con la Santa Sede introdotte dagli ac¬cordi di Roma del 18 febbraio 1984, resi esecutivi con l. 25 marzo 1985, n. 121).
Cass. civ. Sez. I, 3 luglio 1987, n. 5823 (Foro It., 1988, I, 474 nota di QUADRI)
Non può essere delibata, in quanto contraria all’ordine pubblico italiano, la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio fondata sull’esclusione del bonum prolis da parte di uno dei coniugi, se vi sia stata convivenza suc¬cessivamente alla celebrazione.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5358 (Foro It., 1988, I, 474 nota di QUADRI)
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concor¬datario per esclusione del bonum matrimonii, nella disciplina di cui agli art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 810 e 17 l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultanti a seguito della pronuncia della corte costituzionale n. 18 del 1982) un contrasto con l’ordine pubblico ostativo alla delibazione stessa, deve essere negato nel caso in cui la sentenza medesima non tenga conto delle disposizioni dell’art. 123, 2° comma, c. c., circa la non deducibilità della simu¬lazione del matrimonio dopo il decorso di un anno dalla celebrazione, trattandosi di diversità dell’ordinamento interno, rispetto a quello canonico, che non investe i principi e le regole fondamentali con le quali la costituzione e le leggi dello stato delineano l’istituto del matrimonio, mentre deve essere affermato nel caso in cui quella sentenza non tenga conto della citata disposizione dell’art. 123 per il verificarsi della convivenza dei coniugi suc¬cessivamente alla celebrazione, atteso che l’instaurazione del matrimonio-rapporto, con la pienezza della convi¬venza morale e materiale dei coniugi, quale ragione preclusiva ad ogni possibilità di far valere vizi simulatori del matrimonio-atto, va annoverata nell’ambito delle suddette regole e principi essenziali dell’ordinamento statuale.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5354 (Foro It., 1988, I, 474 nota di QUADRI)
È contraria al principio dell’ordine pubblico e non può essere delibata dal giudice italiano la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per esclusione di un bonum matrimonii qualora ci sia stata convivenza tra i coniugi dopo la celebrazione, convivenza che, intesa come comunione spirituale e materiale, esclude ogni rilevanza del vizio simulatorio.
In tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concor¬datario per esclusione del bonum matrimonii, nella disciplina di cui agli art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 810 e 17 l. 27 maggio 1929, n. 847 (come risultanti a seguito della pronuncia della corte costituzionale n. 18 del 1982) un contrasto con l’ordine pubblico ostativo alla delibazione stessa, deve essere negato nel caso in cui la sentenza medesima non tenga conto delle disposizioni dell’art. 123, 2° comma, c. c., circa la non deducibilità della simu¬lazione del matrimonio dopo il decorso di un anno dalla celebrazione, trattandosi di diversità dell’ordinamento interno, rispetto a quello canonico, che non investe i principi e le regole fondamentali con le quali la costituzione e le leggi dello stato delineano l’istituto del matrimonio, mentre deve essere affermato nel caso in cui quella sentenza medesima non tenga conto della citata disposizione dell’art. 123 per il verificarsi della convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione, atteso che l’instaurazione del matrimonio-rapporto, con la pienezza della convivenza morale e materiale dei coniugi, quale ragione preclusiva ad ogni possibilità di far valere vizi simulatori del matrimonio-atto, va annoverata nell’ambito delle suddette regole e principi essenziali dell’ordina¬mento statuale.
Cass. civ.Sez. I, 23 marzo 1985, n. 2077 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il matrimonio nullo, il quale debba considerarsi contratto in buona fede da almeno uno dei coniugi, in applicazio¬ne del principio generale secondo il quale la buona fede si presume fino a prova contraria (principio fissato per il possesso dall’art. 1147 c. c., ma applicabile a tutti i negozi giuridici), spiega gli effetti del matrimonio valido nei confronti, oltre che di detto coniuge, dei figli (art. 128, 3° comma c. c. sul cosiddetto matrimonio putativo); pertanto, con riguardo a figli naturali riconosciuti e legittimati per susseguente matrimonio, il cui status venga posto in discussione al fine di sostenerne la esclusione da delazione ereditaria, resta irrilevante la deduzione di ragioni di nullità del matrimonio medesimo, quando non si affermi e dimostri la mala fede di entrambi i coniugi, poiché, in difetto di tale allegazione e dimostrazione, l’eventuale nullità del rapporto matrimoniale non è comun¬que idonea ad escludere gli effetti a norma del cit. art. 128 del matrimonio valido in favore dei predetti figli.
Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 1984, n. 3050 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza a provvedere sull’affidamento e sul mantenimento dei figli minori, a seguito di pronunzia di nullità del matrimonio concordatario resa dal tribunale ecclesiastico con sentenza dichiarata esecutiva in Italia ai sensi dell’art. 17 l. 27 maggio 1929, n. 847, spetta al tribunale ordinario, non al tribunale per i minorenni, qualora i richiesti provvedimenti non incidano, in senso negativo o limitativo, sulla potestà dei genitori.
Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1983, n. 5887(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nullità del matrimonio concordatario fra i coniugi, dichiarata con sentenza definitiva del tribunale ecclesiastico e resa esecutiva agli effetti civili con ordinanza della corte d’appello, non determina la cessazione della materia del contendere nel procedimento di appello pendente per ottenere la modificazione del contributo dovuto da uno degli ex coniugi per il mantenimento dei figli fissato in sede di omologazione della separazione consensuale e la revoca del sequestro ex art. 156, ultimo comma, c. c.; ed invero la pronuncia di nullità del matrimonio non modifica sostanzialmente il regime giuridico quanto ai provvedimenti nei confronti dei figli, atteso che l’art. 129 c. c. stabilisce che, in caso di pronuncia di nullità del matrimonio, si applica, per tali provvedimenti, l’art. 155 c. c.; è invece nullità irrilevante la circostanza che l’adeguamento rifletta, nel giudizio di merito, un assegno di mantenimento che gli ex coniugi avevano stabilito in sede di separazione consensuale, poiché la legge di riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151) ha attribuito al giudice il potere di rivedere in ogni tempo la misura e le modalità del contributo degli ex coniugi per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli, anche dopo la sentenza che dichiara la nullità del matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1983, n. 1553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza a conoscere la domanda di revisione delle disposizioni relative all’affidamento dei figli adottate dal giudice civile in sede di separazione, di scioglimento o di nullità del matrimonio spetta al tribunale ordinario, e non al tribunale per i minorenni.
Cass. civ. Sez. Unite, 1 ottobre 1982, n. 5026 (Foro It., 1982, I, 2799 nota di LARICCIA)
La sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità di un matrimonio concordatario per l’esclusione del bonum sacramenti da parte di uno degli sposi contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano, e quindi non può essere dichiarata esecutiva ai sensi dell’art. 1 l. n. 810/1929 e dell’art. 17 l. n. 847/1929, quali risultano dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza corte cost. n. 18 del 1982, se l’esclusione sia rimasta nella sfera psichica del suo autore; non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano, e quindi può essere dichiarata esecutiva, ai sensi delle norme citate, se l’esclusione sia stata manifestata all’altro coniuge, tanto se costui si sia limitato a prenderne atto, quanto se abbia positivamente consentito a tale diffor¬mità fra volontà e dichiarazione.
Corte cost. 2 febbraio 1982, n. 18 (Giur. It., 1982, I,1, 965 nota di FINOCCHIARO)
Il principio della sovranità dello stato, affermato nell’art. 1, 2° comma cost., e quello della sua sovranità e in¬dipendenza nei confronti della chiesa cattolica, di cui all’art. 7, 1° comma della stessa costituzione, implicanti la tutela dell’ordine pubblico, al pari del diritto alla tutela giurisdizionale, sancito dall’art. 24 della corte, vanno ascritti nel novero dei princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale e, perciò, deve essere dichiarata l’illegitti¬mità costituzionale dell’art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 810, limitatamente all’esecuzione data al 6° comma dell’art. 34 del concordato, nonché dell’art. 17, 2° comma, l. 27 maggio 1929, n. 847, nella parte in cui tali norme non prevedono, secondo l’interpretazione prevalente nell’arco di più decenni, prospettata nelle ordinanze di rimes¬sione, che la corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, debba accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.

APPELLO NELLA SEPARAZIONE E NEL DIVORZIO

Di Gianfranco Dosi
I Il quadro normativo
Nei procedimenti di appello avverso le sentenze di separazione e di divorzio non si applicano le regole prescritte per il processo di cognizione dal codice di procedura civile1
1 Libro II, Del processo di cognizione; Titolo III, Le impugnazioni; capo II, Dell’appello; articoli 339-359. in quanto l’art. 4, com-ma 152
2 Già comma 12 prima delle miniriforma operata dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 di modifica del decreto legge 14 marzo 2015, n. 35. della legge sul divorzio (legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel testo modificato dalla legge 4 marzo 1987 n. 74) prevede che “L’appello è deciso in camera di consiglio”, con disposizione che la giurisprudenza continua ragionevolmente a ritenere applicabile alla separazione in virtù dell’art. 23 della legge 74/1987 (“Fino all’entrata in vigore del nuovo testo del codice di procedura civile, ai giudizi di separazione personale dei coniugi si applicano in quanto compatibili le regole di cui all’art. 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 8 della presente legge”) nonostante la miniriforma degli articoli 706-711 del codice di procedura civile dovuta al decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni nella legge 14 maggio 2005, n. 80.
Più che fare riferimento all’art. 23 della legge 74/1987 è corretto parlare dell’esistenza di un principio di reciproca applicazione analogica che governa le norme sul rito della separazione e del divorzio.
L’art. 5 comma 5 della legge sul divorzio, chiarisce che la sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti e che il pubblico ministero può ai sensi dell’art. 72 del codice di procedura civile, proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.
Per quanto attiene all’appello delle sentenze di divorzio non definitive l’art. 4, comma 123
3 Già comma 10 prima della miniriforma operata dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 di modifica del decreto legge 14 marzo 2015, n. 35. della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel testo modificato dalla legge 4 marzo 1987 n. 74, prevede che “Nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emet¬te sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matri¬monio. Avverso tale sentenza è ammesso solo appello immediato. Appena formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all’articolo 10”4
4 L’art. 10 della legge sul divorzio prevede l’obbligo di trasmissione delle sentenze di divorzio passate in giudicato da parte del cancelliere all’ufficio di stato civile per le annotazioni di legge. Il rito camerale è applicabile in virtù di quanto previsto per le sentenze in genere dal comma 15 (già comma 10 prima della miniriforma del 2005).
Anche in sede di separazione è prevista la possibilità di sentenze non definitive di separazione. L’art. 709-bis, comma 2, c.p.c. introdotto dalla mini riforma del 2005 dispone – espressamente prevedendo la trattazione con rito camerale – che “Nel caso in cui il processo debba continuare per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione. Avverso tale sentenza è ammesso soltanto ap¬pello immediato che è deciso in camera di consiglio”.
Pertanto l’appello in sede di separazione e divorzio (sia delle sentenze definitive che di quelle non definitive) segue sempre il rito camerale.
Questa caratteristica procedurale dell’appello finisce per “cameralizzare” l’intero procedimento di separazione e divorzio, tanto da rendere inammissibile in sede di separazione o divorzio il cumulo soggettivo con domande relative a materie per le quali è prevista la trattazione con il rito a co¬gnizione ordinaria (esempio la divisione di un bene o il risarcimento dei danni) in quanto il terzo comma dell’art. 40 c.p.c. – che dispone la prevalenza del rito ordinario in caso di domande da trat¬tare con riti diversi – non richiama espressamente l’ipotesi del cumulo soggettivo (art. 33 c.p.c.) ma si riferisce solo alle cause accessorie (art. 31) a quelle di garanzia (art. 32), agli accertamenti incidentali (art. 34) e all’eccezione di compensazione (art. 35)5
5 Cass. civ. Sez. I, 30 agosto 2004, n. 17404 sull’inammissibilità del cumulo soggettivo tra divorzio e doman¬da di adempimento di una scrittura privata; Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26158 sull’inammissibilità del cumulo soggettivo tra domanda di divorzio e domanda di divisione di un bene comune; Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2014, n. 18870 sull’inammissibilità del cumulo soggettivo tra domanda di separazione e domanda di risarcimento dei danni per violazione dei doveri coniugali. .
Il rito camerale da applicare – con le precisazioni che si faranno più avanti – è quello previsto nel libro quarto del codice di procedura civile (Dei procedimenti speciali), titolo II (Dei procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone), capo sesto (Disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio) agli articoli 737 – 742 bis6
6 Art. 737 (Forma della domanda e del provvedimento)
I provvedimenti, che debbono essere pronunciati in camera di consiglio, si chiedono con ricorso al giudice com¬petente e hanno forma di decreto motivato, salvo che la legge disponga altrimenti.
Art. 738 (Procedimento)
Il presidente nomina tra i componenti del collegio un relatore, che riferisce in camera di consiglio.
Se deve essere sentito il pubblico ministero, gli atti sono a lui previamente comunicati ed egli stende le sue conclusioni in calce al provvedimento del presidente.
Il giudice può assumere informazioni.
Art. 739 (Reclami delle parti)
Contro i decreti del giudice tutelare si può proporre reclamo con ricorso al tribunale, che pronuncia in camera di consiglio. Contro i decreti pronunciati dal tribunale in camera di consiglio in primo grado si può proporre reclamo con ricorso alla Corte d’appello, che pronuncia anch’essa in camera di consiglio.
Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto se è dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione se è dato in confronto di piu’ parti. , depurato delle caratteristiche originarie della volontaria giurisdizione e arricchito delle garanzie del contraddittorio, trattandosi di procedimento contenzioso su diritti contrapposti.
In ordine alla cameralizzazione delle cause di separazione e divorzio va osservato che il rito came¬rale non è previsto espressamente tra i tre riti principali ai quali il legislatore ha fatto riferimento nel decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 sulla semplificazione dei riti (rito a cognizione ordinaria, rito del lavoro, rito sommario di cognizione) e che le stesse prospettive di riforma del processo civile sembrano andare nella direzione di una utilizzazione di un rito caratterizzato dalla celerità e da un minor tasso di formalizzazione. Nonostante ciò il modello camerale non è stato soppresso (il decreto legislativo del 2011 sui riti civili ha espressamente escluso di intervenire sui procedimenti in materia di famiglia e minori per i quali il Governo si riservava di intervenite nell’ambito della istituzione del tribunale della famiglia e delle persone) e continua ad essere il riferimento processuale dei giudizi in cui prevalgono esigenze di tutela di interessi e diritti deboli soprattutto dei minori7
Salvo che la legge disponga altrimenti, non è ammesso reclamo contro i decreti della Corte d’appello e contro quelli del tribunale pronunciati in sede di reclamo.
Art. 740 (Reclami del pubblico ministero)
Il pubblico ministero, entro dieci giorni dalla comunicazione, può proporre reclamo contro i decreti del giudice tutelare e contro quelli del tribunale per i quali è necessario il suo parere.
Art. 741 (Efficacia dei provvedimenti)
I decreti acquistano efficacia quando sono decorsi i termini di cui agli articoli precedenti senza che sia stato proposto reclamo.
Se vi sono ragioni d’urgenza, il giudice può tuttavia disporre che il decreto abbia efficacia immediata.
Art. 742 (Revocabilità dei provvedimenti)
I decreti possono essere in ogni tempo modificati o revocati, ma restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca.
Art. 742-bis (Ambito di applicazione degli articoli precedenti)
Le disposizioni del presente capo si applicano a tutti i procedimenti in camera di consiglio, ancorché non regolati dai capi precedenti o che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone. .
II Separazione, divorzio e procedimenti di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio: stesse regole per l’appello
Come oggi è anche chiaro a livello normativo (il Capo II del IX titolo “sulla responsabilità geni¬toriale e sui diritti e doveri del figlio” unifica le disposizioni in tema di “responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”) le regole sostanziali in materia di affidamento e mantenimento dei figli sono identiche in tutti i procedimenti sul conflitto familiare.
Questa identità sostanziale – che si deve alla legge sull’affidamento condiviso (legge 54 del 2006) e poi alla riforma della filiazione del 2012/2013 (che ha introdotto nel codice civile gli articoli dal 337-bis al 337-octies) – è stata la motivazione con la quale la giurisprudenza ha potuto afferma¬re che anche le principali norme processuali in tema di appello vanno applicate ai procedimenti (anch’essi di competenza del tribunale ordinario) con cui viene regolato l’affidamento e il mante¬nimento dei figli nati fuori dal matrimonio.
Il principio è stato affermato per la prima volta da Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2011, n. 6319 con cii la Cassazione precisò che l’impugnazione avverso il decreto con il quale si regola l’affida¬mento dei figli di genitori non coniugati va proposta nel rispetto dei termini previsti dal codice di rito per l’impugnazione delle sentenze e non di quelli previsti dalla disciplina generale dei procedi¬menti in camera di consiglio.
In motivazione si affermava che quanto alla regolamentazione dell’affidamento ex art. 317 bis c.c., questa Corte ha già avuto modo di precisare (v. al riguardo, Cass. n. 23032 del 20098
7 Art. 38, comma 3, Disposizioni di attuazione del codice civile. “Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero…”. ) che la L. n. 54 del 2006, esprimendo un’evidente scelta di assimilazione della posizione dei figli naturali a quelli nati nel matrimonio, quanto al loro affidamento, precisa che “le disposizioni della presente legge si applicano anche (…) ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. Dunque sono applicabili, anche in questo settore, le regole introdotte dalla predetta legge per la separazio¬ne e il divorzio: potestà esercitata da entrambi i genitori, decisioni di maggior interesse di comune accordo (con intervento diretto del giudice, in caso di contrasto), quelle più minute assunte anche separatamente, privilegio dell’affidamento condiviso rispetto a quello ad uno dei genitori, che co¬munque può essere disposto, quando il primo appaia contrario all’interesse del minore; assegno

8 Cass. civ. Sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23032. In tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la legge n. 54 del 2006, dichiarando applicabili ai relativi procedimenti le regole da essa introdotte per quelli in materia di separazione e divorzio, esprime, per tale aspetto, un’evidente assimilazione della posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio, in tal modo conferendo una definitiva autonomia al procedimento di cui all’art. 317-bis cod. civ. rispetto a quelli di cui agli artt. 330, 333 e 336 cod. civ., ed avvici¬nandolo a quelli in materia di separazione e divorzio con figli minori, senza che assuma alcun rilievo la forma del rito camerale, previsto, anche in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza: ne consegue che, nel regime di cui alla legge n. 54 cit., sono impugnabili con il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., i provvedimenti emessi dalla corte d’appello, sezione per i minorenni, in sede di re¬clamo avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 317-bis relativamente all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare.
per il figlio, in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore, audizione obbligatoria del minore ultradodicenne, possibilità di revisione delle condizioni di affidamento, ecc..
Ma le innovazioni introdotte dalla L. n. 54 comportano, oltre agli effetti sostanziali sopraindicati, pure rilevanti problematiche processuali, in quanto forniscono una definitiva autonomia al procedi¬mento di cui all’art. 317 bis c.c., allontanandolo dall’alveo della procedura ex art. 330, 333, 336 c.c. e avvicinandolo, e per certi versi assimilandolo, a quello di separazione e divorzio, con figli minori.
L’ordinamento prevede, ormai con una certa frequenza, la scelta del rito camerale, in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza, primo tra tutti il giu¬dizio di appello nei procedimenti di separazione e divorzio.
Il decreto emesso ai sensi dell’art. 317 bis c.c. ha dunque natura sostanziale di sentenza, presen¬tando il requisito della decisorietà (risolvendo una controversia in atto tra contrapposte posizioni di diritto soggettivo), e della definitività, con efficacia assimilabile, rebus sic stantibus, a quella del giudicato.
Si è ritenuta, in tal senso, la piena ricorribilità per cassazione, nel regime dettato dalla Legge n. 54 del 2006, dei provvedimenti emessi dalla Corte di Appello – Sezione per i minorenni, ai sensi dell’art. 317 bis c.c..
Per le medesime ragioni, e con particolare riferimento al carattere contenzioso del procedimento, variamente assimilabile a quello di affidamento dei figli in sede di separazione e divorzio, è da rite¬nere che, pure nell’ambito delle forme camerali che lo caratterizzano, debbano applicarsi i termini di impugnazione di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., trattandosi di appello mediante ricorso, e non di reclamo ex art. 739 c.p.c..
In seguito il principio è stato ribadito da Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2017, n. 3302 ri¬badendosi che il decreto emesso ai sensi dell’art. 317-bis c.c. ha natura sostanziale di sentenza, presentando i requisiti della decisorietà, risolvendo una controversia tra contrapposte posizioni di diritto soggettivo, e della definitività, con efficacia assimilabile, “rebus sic stantibus”, a quella del giudicato; pertanto, in relazione a tale decreto, debbono applicarsi i termini di impugnazione dettati dagli artt. 325 e 327 c.p.c., trattandosi di appello da proporsi mediante ricorso, e non di reclamo ex art. 739 c.p.c.
III Appello camerale e garanzie processuali
Essendo il rito camerale governato da poche regole per lo più calibrate sui procedimenti di volon¬taria giurisdizione (storicamente procedimenti di governo di interessi anziché di tutela dei diritti), è evidente che il tema delle garanzie processuali è stato quello intorno al quale si è maggiormente concentrata l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza.
Le decisioni più autorevoli che hanno fatto da apripista a questa riflessione sono state Corte cost. 14 dicembre 1989, n. 573 e Corte cost. 29 dicembre 1989, n. 587 entrambe chiamate a verificare la compatibilità con l’art. 24 della Costituzione dell’art. 4, allora comma 12, della legge sul divorzio (nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74), che per l’appello (e per la se¬parazione ex art. 23 della stessa legge 74/1987) aveva introdotto il rito della camera di consiglio (“L’appello è deciso in camera di consiglio”).
La prima delle due decisioni citate, e cioè la lontana Corte cost. 14 dicembre 1989, n. 543 dichiarò infondati i dubbi di legittimità costituzionale in quanto: a) il legislatore è libero di discipli¬nare il processo secondo forme diverse da quelle del rito ordinario, purché sia assicurato il rispetto del principio del contraddittorio; b) i termini per appellare sono i termini propri delle impugnazioni delle sentenze; c) anche nel rito camerale in appello è possibile acquisire ogni specie di prova precostituita e procedere alla formazione di qualsiasi prova costituenda, purché il relativo modo di assunzione – comunque non formale nonché atipico – risulti compatibile con la natura camerale del procedimento e non violi il principio generale dell’idoneità degli atti processuali al raggiungi¬mento del loro scopo; d) l’assistenza del difensore è consentita; e) il rito camerale non esclude l’applicabilità di quelle norme che disciplinano l’appello nel rito ordinario, come ad esempio quelle sull’appello incidentale e sulla specificità dei motivi di appello, perché esse non sono incompati¬bili con il rito camerale né incidono sulla celerità del giudizio; f) l’esigenza di rendere più celere il grado d’appello con un’istruttoria semplificata giustifica pienamente la deroga al regime della pubblicità delle udienze.
La sentenza chiarì anche che l’introduzione del rito camerale per i giudizi di appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale dei coniugi (artt. 8 e 23 della legge n. 74 del 1987) non è limitata alla fase decisoria (come lascerebbe intendere l’espressione “l’appello è deciso inca¬mera di consiglio”) ma si estende all’intero giudizio di secondo grado.
Da parte sua Corte cost. 29 dicembre 1989, n. 587 ribadì subito dopo gli stessi principi af¬fermando che la prescrizione del rito camerale per i giudizi di appello avverso le sentenze di di¬vorzio e di separazione personale dei coniugi assicura le necessarie garanzie processuali, e non è indispensabile la pubblicità delle udienze collegiali, tenuto conto del grado di giudizio e del tipo di controversia trattata.
In seguito Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 710 del codice di procedura civile, nel testo sostituito dall’art. 1 della legge 29 luglio 1988, n. 331 (che ne aveva cameralizzato il rito), nella parte in cui non prevede la partecipazione del pubblico ministero per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole. Valutazione poi estesa ai figli di genitori non coniugati da Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214.
IV La legittimazione all’impugnazione
a) La legittimazione personale degli interessati e la non trasmissibilità agli eredi
Come si è detto, in punto di legittimazione all’impugnazione, solo l’art. 5, comma 5, della legge sul divorzio, chiarisce che la sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti e che il pubblico ministero può ai sensi dell’art. 72 del codice di procedura civile, proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.
La separazione personale e il divorzio hanno natura personalissima e quindi non è ipotizzabile l’a¬zione o l’impugnazione promossa da persone diverse dagli interessati.
Né l’azione, né l’impugnazione sono quindi trasmissibili agli eredi (Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2013, n. 18130; Cass. civ. Sez. I, 29 febbraio 2008, n. 5441 nelle quali si afferma che la morte di uno dei coniugi sopravvenuta nel corso del giudizio di separazione personale comporta non l’estinzione del processo, bensì la cessazione della materia del contendere). La morte dell’in¬teressato provoca de iure lo scioglimento del vincolo e quindi non è ipotizzabile la prosecuzione del processo ad opera degli eredi né l’impugnazione. Per questo motivo non è condivisibile una antecedente decisione, criticata in dottrina, che, in un caso in cui la sentenza di divorzio non era ancora passata in giudicato, ha attribuito agli eredi il potere di impugnazione (Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1992, n. 9592).
Nessuna trasmissione è ugualmente possibile agli eredi del diritto di impugnare nel caso di morte dell’interessato successivamente al giudicato ma prima dell’annotazione della sentenza negli atti di stato civile, in quanto l’annotazione ha solo efficacia di pubblicità notizia9.
Alla regola generale dell’intrasmissibilità agli eredi la giurisprudenza ha fatto eccezione ragionevole in un caso in cui gli eredi, avverso una sentenza di divorzio pronunciata dopo la morte dell’inte¬ressato, avevano interesse ad ottenere una sentenza di cessazione della materia del contendere essendo gli effetti della sentenza venuti meno per la morte dell’interessato (Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2009, n. 16801).
b) L’impugnazione in caso di domanda congiunta di divorzio o di separazione consen¬suale
Nulla prevede la legge sul divorzio all’art. 4, comma 1610
9 Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620, Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 1990, n. 3599, Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351 secondo cui ai sensi dell’art. 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218, il matrimo¬nio celebrato all’estero è valido nel nostro ordinamento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento; tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva , ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido. in ordine alla possibilità di impugnazione della sentenza di divorzio a domanda congiunta e nulla, ugualmente, prevede l’art. 711 per l’im¬pugnazione della separazione consensuale.
È evidente che essendo la soccombenza l’elemento decisivo per valutare l’interesse all’impugna¬zione, gli interessati potranno appellare la decisione sul divorzio a domanda congiunta o sulla richiesta di omologa della separazione consensuale solo ove abbia respinto la loro domanda (così in passato Cass. civ. Sez. I, 14 ottobre 1995, n. 10763). Come regola generale la giurispru¬denza esclude oggi decisamente l’appellabilità della sentenza di divorzio pronunciata su domanda congiunta dei coniugi (Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066). Tuttavia l’appellabilità è esclusa per le parti ma non per il pubblico ministero. Per questo nella prassi si richiede alle parti (non solo di firmare una inutiliter data dichiarazione di acquiescenza: art. 329 c.p.c.) ma anche di notificare la sentenza al Procuratore generale in caso di figli minori per far decorrere il termine breve per impugnare. In dottrina ugualmente si sostiene che l’omologa della separazione consen¬suale passa in giudicato il giorno stesso del deposito del provvedimento.
La sentenza di divorzio che dovesse comunque respingere la domanda congiunta (o modificare il contenuto dell’accordo dei coniugi) andrà appellata con ricorso entro trenta giorni, mentre la de¬cisione che respinge la richiesta di omologa (o, anche qui, modificare il contenuto dell’accordo di coniugi) andrà appellata ex art. 739 c.p.c., come tutti i provvedimenti camerali, con reclamo entro dieci giorni dalla notificazione. Avverso la decisione della Corte, in quest’ultimo caso, non sarà, però, ammissibile il ricorso per cassazione – neanche per violazione di legge – per insussistenza dei requisiti della definitività e della decisorietà (Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 2008, n. 10932; Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 2001, n. 3390).

10 Art. 4, comma 16: La domanda congiunta dei coniugi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio che indichi anche compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici, è proposta con ricorso al tribunale in camera di consiglio. Il tribunale, sentiti i coniugi, verificata l’esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli, decide con sentenza. Qualora il tribunale ravvisi che le condizioni relative ai figli sono in contrasto con gli interessi degli stessi, si applica la procedura di cui al comma 8.
c) L’appellabilità per dolo revocatorio delle sentenze a domanda congiunta o della sepa¬razione consensuale
In un caso in cui un coniuge aveva rappresentato all’altro una situazione mendace, la Cassazione ha ammesso l’impugnazione della sentenza di divorzio a domanda congiunta per vizi della vo¬lontà (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8096). In questa sentenza si afferma che il vizio revocatorio (e specificamente quello di cui all’art. 395 c.p.c., n. 111), può proporsi con i motivi di appello, con i quali può censurarsi “ogni profilo di ingiustizia della sentenza di primo grado, nessuno escluso” con la precisazione che, trattandosi di appello, con cui si fa valere un vizio re¬vocatorio, dovrà necessariamente operare la disciplina dell’appello e non della revocazione: non occorrerà dunque procura speciale, atto di citazione, né si potrà limitare l’impugnazione a trenta giorni dalla scoperta del dolo.
Pertanto la sentenza di divorzio congiunto (o la separazione consensuale) può senz’altro essere appellata nel caso in cui una parte abbia occultato con dolo le proprie reali condizioni economiche (“…essendo stata posta in essere intenzionalmente un’attività fraudolenta consistente in artifizi e raggiri , diretti ed idonei a paralizzare o sviare la difesa avversaria e ad impedire al Giudice l’accer¬tamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale, e così pregiudicando l’esito del procedimento”).
Nella specie il marito aveva simulato la vendita della sua azienda (ceduta per un prezzo irrisorio a un terzo e poi ricomprata dalla nuova compagna di lui), inducendo la moglie ad accettare un accordo di separazione che prevedesse un assegno di mantenimento ben inferiore rispetto a quello che le sarebbe spettato tenuto conto del vero patrimonio e dei redditi del marito12
11 Art. 395 c.p.c. (Casi di revocazione) Le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: 1) se sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra… (omissis) .
I principi affermati da questa sentenza possono essere applicati anche al caso in cui un accordo di negoziazione assistita sia raggiunto attraverso trattative in cui una delle parti si sia comportata senza rispettare gli obblighi di lealtà e di buona fede assunti con la firma della convenzione. Infatti il decreto-legge 12 settembre 2014, n.132, come modificato dalla legge di conversione 10 novem¬bre 2014, n. 162 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), all’art. 2 (Convenzione di negoziazione assistita da un avvocato) prevede al primo comma che “La convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con le¬altà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati…”. Certamente la dolosa macchinazione o il mendacio sulle proprie condizioni economiche costituisce nelle forme del dolo omissivo un vizio della volontà e, quindi, una condizione in presenza della quale una parte potrà agire per l’annullamento dell’accordo (art. 1439 c.c.)13
12 Si legge nella sentenza quanto segue: “E’ bensì vero che, in linea generale, non è ammessa impugnazione se una parte, od entrambe a seguito di accordo, non risultino soccombenti. D’altra parte, l’art. 5, comma 5, l. divorzio, prevede, apparentemente senza eccezioni, la possibilità di impugnazione, da parte di ciascun coniuge. Per il divorzio congiunto, tale previsione tuttavia (come ha avuto modo di precisare recentemente questa Corte in Cass. n. 18066 del 2014) riguarda situazioni particolari: per esempio se il primo giudice non ha recepito o ha recepito solo parzialmente l’accordo tra le parti, magari precisando che erano in questione diritti indisponibili oppure se l’accordo stesso appariva in contrasto con l’interesse del minore, ovvero se non era “congrua” la corre-sponsione una tantum di somma, escludente, per il futuro, l’assegno divorzile. In tali casi, ovviamente, ciascuno dei coniugi od entrambi potrebbero impugnare la sentenza. Il Pubblico Ministero, ai sensi del art. 5, comma 5, predetto, può impugnare, limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli. Nella separazione consensuale, cosi come nel divorzio congiunto, si stipula un accordo, di natura sicuramente negoziale (tra le altre, Cass. n. 17607 del 2003), che, frequentemente, per i profili patrimoniali, si configura come un vero e proprio contratto. Non rileva che, in sede di divorzio, esso sia recepito, fatto proprio dalla sentenza: all’evidenza, tale pronuncia è ne¬cessaria per lo scioglimento del vincolo matrimoniale, ma, quanto all’accordo, si tratta di un controllo esterno del giudice, analogo a quello di separazione consensuale. Ove l’accordo (o il contratto) sia nullo, tale nullità potrebbe essere fatta valere da chiunque vi avesse interesse, e dunque anche da chi avesse dato causa a tale nullità. E tale accordo (o contratto) potrebbe essere oggetto di annullamento da parte del soggetto incapace o la cui volontà risulti viziata (ad es. da un errore, magari sulla sussistenza dell’interesse del minore, ovvero dal dolo di una delle parti). Ma nullità o annullamento non potrebbero costituire motivo di impugnazione da parte dei soggetti dell’ac¬cordo da cui essi sono vincolati, ma dovrebbero essere fatti valere in un autonomo giudizio di cognizione (in termini generali, Cass. n. 17607 del 2003; più specificamente, Cass. n. 18066 del 2014, predetta). Nella specie, la sentenza impugnata richiama esplicitamente i presupposti della revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 1. Precisa infatti il giudice a quo che i motivi di impugnazione si inquadrano in tale fattispecie “nella cui prospettazione è evidente l’interesse della L.R. a impugnare”, e, ancora, che dal contenuto del ricorso emerge l’intenzione dell’ap¬pellante di impugnare il contenuto della sentenza di divorzio “ deducendo il dolo revocatorio “; aggiunge la sen¬tenza che sussistano i presupposti di cui all’art. 395 c.p.c., n. 1; nel dispositivo, la Corte di Appello pronuncia la “ revocazione “ della sentenza impugnata. Come è noto, le sentenze possono essere impugnate per revocazione se pronunciate in grado di appello ovvero nel giudizio di cassazione (oppure se emesse in primo grado, a talune condizioni, quando siano passate in giudicato) (artt. 395 e 396 c.p.c.). Questa Corte ha avuto modo di precisare (tra le altre, Cass. n. 11697 del 2013; n. 6322 del 1993) che il vizio revocatorio (e specificamente quello di cui all’art. 395 c.p.c., n. 1) può proporsi con i motivi di appello, con i quali può censurarsi “ogni profilo di ingiustizia della sentenza di primo grado, nessuno escluso”. E’ appena il caso di precisare che, trattandosi, nella specie, di appello, con cui si fa valere un vizio revocatorio, dovrà necessariamente operare la disciplina di tale mezzo di impugnazione: non occorrerà dunque procura speciale, atto di citazione, nè si potrà limitare l’impugnazione a trenta gironi dalla scoperta del dolo. E’ appena il caso di precisare che, ove si ammetta, come ha riconosciuto più volte questa Corte, secondo quanto già sopra osservato, la possibilità di impugnare, con l’appello, un’ipotesi di dolo revocatorio, non si potrà, all’evidenza, parlare di “domanda nuova”, come sostiene il ricorrente, e sarà pienamente ammissibile la produzione dei documenti inerenti. .

13 Art. 1439 c.c. (dolo). Il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che senza di essi l’altra parte non avrebbe contrattato.
d) L’inappellabilità dei provvedimenti del pubblico ministero o del Presidente del tribu¬nale nella negoziazione assistita
Non è ipotizzabile alcun appello rispetto alla decisione del Pubblico Ministero di vistare o autoriz¬zare un accordo di negoziazione.
Nel secondo comma dell’art. 6 si legge che “Quando ritiene che l’accordo non risponde all’interesse dei figli, il pubblico ministero lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo”. Il prov¬vedimento del presidente sarà quello stesso del Pubblico ministero e cioè il visto o l’autorizzazione, ovvero il rifiuto di vistare o autorizzare l’accordo.
Anche avverso la decisione di rifiuto del Presidente non è ipotizzabile alcuna impugnazione trat¬tandosi di un provvedimento che non è adottato nell’ambito di una competenza giurisdizionale ma nell’ambito di una competenza stragiudiziale sostitutiva rispetto a quella del pubblico ministero. In seguito quindi al rifiuto del Presidente di vistare o autorizzare l’accordo le parti – che non mo¬difichino l’accordo in relazione alle osservazioni del Presidente – potranno depositare un ricorso di separazione consensuale o giudiziale.
e) L’appello del pubblico ministero
L’art. 5 della legge sul divorzio, al comma 5, dopo aver precisato che “La sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti”, prevede anche che “Il pubblico ministero può ai sensi dell’art. 72 del co¬dice di procedura civile, proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci”.
Nessuna disposizione analoga è prevista in materia di separazione personale.
L’art. 70 c.p.c. prescrive l’intervento obbligatorio del pubblico ministero “a pena di nullità” tra l’al¬tro “nelle cause matrimoniali comprese quelle di separazione personale dei coniugi” (n. 2) nonché “nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone” (n. 3), mentre l’art. 72 gli attribuisce per tali casi di intervento obbligatorio poteri di produzione documentale, di deduzioni e conclusioni nonché il potere di impugnare le decisioni nelle cause matrimoniali (es. nullità) “salvo che per quelle di separazione personale dei coniugi”, con esclusione, quindi, del potere di impugnazione delle sentenze nelle cause di separazione personale.
Pertanto il pubblico ministero può impugnare le sentenze di divorzio “limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci” (art. 5, comma 5, legge divorzio) ma non quelle di separazione, ancorché nell’interesse dei figli.
L’impugnazione può essere proposta “con riferimento al patrimonio del minore, al suo manteni¬mento, ai trasferimenti immobiliari o mobiliari che lo riguardano” (Cass. cv. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8096).
È anche da chiarire che, trattandosi di una norma eccezionale, l’art. 5, comma 5 della legge sul divorzio, non può essere esteso alle cause di separazione “limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci” in quanto non è espressamente previsto. Che il potere di impugnazione previsto in sede di divorzio non è previsto in sede di separazione lo ha affermato anche la giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2002, n. 6965).
f) L’intervento dei figli maggiorenni in primo grado rende appellabile da parte loro la sentenza?
I figli maggiorenni sono ammessi ad intervenire nel processo di separazione o di divorzio a tutela del loro diritto al mantenimento (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296; App. Roma, 21 giugno 2006; Trib. Napoli, Sez. I, 23 luglio 2009; Trib. Macerata, 22 ottobre 2009)14.
La conseguenza di quanto detto sul tema dell’appello è che il figlio maggiorenne intervenuto in vuia autonoma (principale o litisconsortile) nel processo di separazione o di divorzio acquista le¬gittimazione ad impugnare il
L’istituto processuale dell’intervento volontario nel processo è disciplinato dall’art. 105 del co¬dice di procedura civile il quale, nei due commi che lo compongono, prevede che “chiunque può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo” (primo comma: cosiddetto intervento autonomo) e che “può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse” (secondo comma: cosiddetto intervento adesivo).
Pertanto l’intervento autonomo è previsto a tutela di un vero e proprio diritto, non quindi di una posizione giuridica soggettiva di mero fatto o legata ad un’aspettativa meramente ipotetica (Cass. civ. Sez. Unite, 5 febbraio 2013, n. 2593), mentre l’intervento adesivo è previsto an¬che solo a tutela di un interesse, non generico o di mero fatto, ma giuridicamente qualificato (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 364; Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2013, n. 21472).
Con l’intervento autonomo, quindi, il figlio maggiorenne fa valere ai sensi del primo comma dell’art. 105 c.p.c. il proprio diritto in un processo pendente tra i suoi genitori e in situazione di conflitto con entrambi (cosiddetto intervento autonomo principale) ovvero con uno soltanto dei genitori (cosiddetto intervento autonomo litisconsortile), ovvero ancora potrebbe soltanto limitarsi ad intervenire per aderire alla posizione di uno dei genitori (cosiddetto intervento adesivo dipen¬dente). Per una differenza tra i diversi tipo di intervento cfr per esempio Cass. civ. Sez. lavoro, 1 giugno 2004, n. 10530.
La sentenza avrà, naturalmente, efficacia anche nei confronti dell’interventore autonomo che ac¬quisterà così un titolo a pretendere egli stesso l’adempimento in via concorrente (e alternativa, s’intende) con la parte principale.
Il diritto che, ai sensi dell’art. 105, comma primo, cod. proc. civ., il terzo può far valere in via au¬tonoma in un giudizio pendente tra altre parti, deve essere relativo all’oggetto sostanziale dell’o¬riginaria controversia, da individuarsi con riferimento al “petitum” ed alla “causa petendi”, ovvero deve trattarsi di un diritto dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo a fondamento della domanda giudiziale originaria (Cass. civ. Sez. Unite, 5 maggio 2009, n. 10274), con la precisazione molto importante, tuttavia, che, ai fini dell’intervento autonomo non è necessaria l’identità o la comunanza di causa petendi tra l’azione esercitata dall’interveniente e quella origi¬nariamente proposta dall’attore, sicché la diversità dei rapporti dedotti in giudizio non costituisce elemento decisivo al fine di escludere l’ammissibilità dell’intervento.
Questi principi sono stati ben sviluppati in Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 in cui si è affermato che la facoltà d’intervento in giudizio, per far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto in causa (e quindi anche per proporre domande contro l’attore, sempre che rientrino nella competenza del giudice adito e presentino un collegamento implicante l’opportunità di un simultaneo processo), deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno, nel soggetto che ha instaurato il giudizio medesimo, della legitimatio ad causam che attiene, invece, alle condizioni dell’azione proposta nel merito e Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 secondo cui ai fini dell’in¬tervento principale o dell’intervento litisconsortile nel processo la diversa natura delle azioni eser-citate, rispettivamente, dall’attore in via principale e dal convenuto in via riconvenzionale rispetto a quella esercitata dall’interveniente, o la diversità dei rapporti giuridici con le une e con l’altra de¬dotti in giudizio, non costituiscono elementi decisivi per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente a farlo ritenere ammissibile la circostanza che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.
Si può dire, quindi, che la conseguenza di questa pacifica ricostruzione dell’intervento autonomo – che può aiutare a risolvere i casi dubbi – è che il terzo può intervenire nel processo non necessa¬riamente nei casi in cui egli stesso potrebbe anche essere citato nello stesso processo, ma purché abbia un diritto autonomo che potrebbe essere pregiudicato dalla decisione e che il terzo potrebbe comunque anche far valere in altro procedimento.
Come si sa il figlio maggiorenne si trova in questa situazione in quanto il suo diritto al mante¬nimento potrebbe essere certamente fatto valere nei confronti di entrambi i suoi genitori in un separato e autonomo giudizio.
L’art. 337-septies c.c. prevede che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico” che, “salvo diversa determinazione è versato direttamente all’avente diritto”. Già era riconosciuto, na¬turalmente (anche prima dell’entrata in vigore di questa norma nel 2006 come art. 155-quinquies c.c.) il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento anche oltre il compimento della maggiore età, ma è stato inevitabile che l’introduzione di una norma giuridica che richiamava espressamente questo aspetto, avesse anche ripercussioni sul tema dell’intervento del figlio maggiorenne nel pro¬cesso di separazione e di divorzio ed infatti la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile l’intervento del figlio maggiorenne nella causa di separazione dei propri genitori.
D’altro lato, come si è sopra visto, ai fini dell’ammissibilità dell’intervento di terzo in un giudizio pendente tra altre parti, è ritenuto sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una con¬nessione o un collegamento implicante l’opportunità di un simultaneus processus, indipendente¬mente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della legitimatio ad causam. capo della sentenza che lo riguarda15.
Naturalmente è escluso che il figlio maggiorenne possa impugnare il capo della sentenza che con¬cerne la pronuncia di divorzio o di separazione.

15 Non è da escludere – anche se infrequente nella prassi – che l’intervento del figlio (benché titolare di un di¬ritto e non di un semplice interesse) possa essere un intervento semplicemente adesivo rispetto alla posizione espressa da uno soltanto dei genitori. In questo caso il figlio – come qualsiasi interventore adesivo “dipendente” – non avrebbe autonomo potere di impugnazione; potrebbe solo impugnare la sentenza se l’impugnazione ve¬nisse proposta dal genitore in adesione al quale è intervenuto nel processo di primo grado (Cass. civ. Sez. II, 16 febbraio 2009, n. 3734; Cass. civ. Sez. I, 13 settembre 2003, n. 2128; Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 1998, n. 10237; Cass. civ. Sez. II, 20 ottobre 1997, n. 10252).
g) L’intervento dei figli maggiorenni in appello
I figli maggiorenni, in quanto portatori di un diritto proprio al mantenimento possono certamente anche intervenire (nelle forme dell’intervento autonomo) per la prima volta in appello (Cass. civ. Sez. III, 23 maggio 2006, n. 12114; Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 2001, n. 14315).
Infatti l’art. 344 c.p.c. (intervento in appello) prescrive che “nel giudizio d’appello è am¬messo soltanto l’intervento dei terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell’articolo 404” e quest’ultima norma prevede che “Un terzo può fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti”.
V Le forme dell’appello camerale
L’appello camerale si caratterizza, come è chiaro da quanto fin qui detto, per un alto tasso di de¬formalizzazione che lo rende sensibilmente diverso dall’appello a cognizione ordinaria le cui regole troveranno applicazione solo in quanto compatibili e non dissonanti con quelle del rito camerale. La motivazione di questa deformalizzazione è dovuta soprattutto ad esigenze di maggior celerità, adattabilità e attuazione nella tutela di situazioni, interessi e diritti in continua evoluzione come quelli riscontrabili nelle relazioni familiari.
In linea generale vi è intanto da ricordare che la Corte costituzione fin da subito dopo la riforma operata con la legge 6 marzo 1987, n. 74 – che, appunto, introdusse il rito camerale nell’appello di divorzio (ed ex art. 23 della legge stessa a quello di separazione) – ebbe modo di chiarire che l’applicazione del rito camerale per i giudizi di appello avverso le sentenze di divorzio e di separa¬zione personale dei coniugi “non è limitata alla fase decisoria, ma si estende all’intero giudizio di secondo grado” (Corte cost. 14 dicembre 1989, n. 543) e a questa decisione si è poi attenuta tutta la giurisprudenza.
Ha in seguito espresso lo stesso convincimento Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1999, n. 11386 secondo cui l’appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo (ricorso anziché citazione) alla de¬cisione in camera di consiglio.
Il principio che il rito camerale trova indiscussa applicazione non solo nei giudizi di divorzio ma anche in quelli di separazione, è pacificamente osservato in giurisprudenza (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 10 settembre 2014, n. 19002; Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2006, n. 3836; Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1179; Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13660; App. Roma, 27 luglio 2005).
a) L’atto introduttivo e i termini dell’appello
I provvedimenti, che debbono essere pronunciati in camera di consiglio, si chiedono con ricorso al giudice competente (art. 737 c.p.c.). La modalità introduttiva è, quindi quella del ricorso da depo¬sitare in Corte d’appello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza (art. 341 c.p.c.). Con il deposito del ricorso l’appellante è quindi costituito in giudizio.
L’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 e successive modificazioni) prevede che nelle Corti d’appello possano essere costituite sezioni apposite osservando il disposto dell’art. 46, in quanto applicabile, che prevede che il tribunale ordinario può essere costituito in più sezioni. Mentre però è prevista espressamente nell’ordinamento giudiziario una sezione per i minorenni in Corte d’appello composta da cinque componenti di cui due “esperti” non togati16, la costitu¬zione di sezioni famiglia con solo tre componenti come tutti i collegi d’appello (oggi diffuse in tutte le Corti d’appello) è stata sempre disciplinata soltanto da circolari del Consiglio Superiore della magistratura in quanto materia di organizzazione interna degli uffici giudiziari non coperta da riserva di legge. L’ultima circolare è quella per il triennio 2017-2019 in cui si conferma e si rafforza l’opzione culturale di privilegiare la specializzazione – sia in primo grado che in appello, ed anche presso la Corte di cassazione – come paradigma organizzativo idoneo ad assicurare la migliore risposta giurisdizionale e a permettere ai magistrati di non disperdere le proprie energie professionali. L’art. 63 della circolare, intitolato “Sezione addetta alla materia della famiglia e dei diritti della persona”, ribadisce che nelle Corti d’appello “In tutti i casi nei quali il numero dei ma¬gistrati assegnati all’ufficio e il numero degli affari giudiziari lo consente, è istituita una sezione per la trattazione dei procedimenti relativi alle persone e ai rapporti di famiglia, con eventuale ulteriore specializzazione per la trattazione delle materie di competenza del giudice tutelare e dei procedimenti di cui all’art. 19, D. Lgs. 1° settembre 2011, n. 150 in tema di riconoscimento della protezione internazionale”.
La forma camerale dell’appello non incide sui termini per appellare la sentenza, come è stato ben chiarito da Cass. civ. Sez. Unite, 27 gennaio 1996, n. 651 secondo cui il termine per proporre appello, nei procedimenti di separazione personale dei coniugi e di divorzio, è di trenta

16 L’art. 58 dell’Ordinamento giudiziario (Sezione per i minorenni) prescrive che una sezione della corte giudi¬ca sulle impugnazioni dei provvedimenti del tribunale per i minorenni a cui sono anche demandate le funzioni previste dal codice di procedura penale, nei procedimenti a carico di imputati minorenni. La sezione giudica con l’intervento di due esperti, un uomo ed una donna, aventi i requisiti prescritti dalla legge, i quali si aggiungono ai tre magistrati della sezione. Si ricorda anche che l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile prevede nell’ultima parte che “Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni”.
giorni, e non di dieci giorni come per il reclamo avverso i provvedimenti pronunciati in camera di consiglio. In precedenza Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 1992, n. 2652 si era espressa nello stesso senso.
Quindi il termine per l’appello avverso le sentenze di separazione o divorzio è di trenta giorni (art. 325 c.p.c.), decorrenti dalla notificazione a cura di parte della sentenza (art. 326 c.p.c.) e non oltre sei mesi dalla pubblicazione della sentenza in caso di omessa notificazione (art. 327 c.p.c.).
b) La riassunzione camerale
Conseguenza della trattazione con rito camerale è anche quella che il rito camerale può essere se¬guito per la riassunzione del processo davanti al giudice di rinvio a seguito di decisione della Corte di cassazione (art. 392 c.p.c.) nonostante che per la riassunzione sia prevista la citazione come atto introduttivo (art. 392, cpv c.p.c.).
Anche la giurisprudenza ha avuto modo di precisarlo. Infatti secondo Cass. civ. Sez. I, 20 luglio 2004, n. 13422 per effetto del disposto dell’articolo 394, comma 1, del c.p.c., secondo cui in sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la Suprema corte ha rinviato la causa, il giudizio conseguente alla cassazione di una sentenza emes¬sa dalla Corte d’appello in sede di impugnazione avverso la decisione resa dal giudice di primo grado in materia di separazione personale dei coniugi o di divorzio, si deve svolgere con il rito camerale e, pertanto, va instaurato con ricorso, onde la tempestività della riassunzione di detto giudizio, in relazione al termine di decadenza fissato dall’articolo 392, comma 1, del c.p.c. deve essere riscontrato avuto riguardo alla data del deposito di quel ricorso nella cancelleria del giudice del rinvio. La riassunzione del processo con atto di citazione in riassunzione, anziché con ricorso, non determina – in forza del principio della conversione degli atti viziati nella forma – l’inammis¬sibilità del relativo giudizio qualora questo, oltre a essersi svolto nella sede sua propria, sia stato trattato e deciso con il rispetto sostanziale di tutte le peculiarità del procedimento camerale, ov¬vero quando, nei termini perentori fissati dalla legge, la citazione, indipendentemente dalla sua notificazione alle altre parti, sia stata depositata in cancelleria, potendo il rapporto processuale ritenersi tempestivamente instaurato solo se un simile deposito risulti intervenuto nella pendenza dei termini sopra menzionati.
c) L’appello eventualmente introdotto con atto di citazione
Considerato che ai giudizi di separazione personale e di divorzio si applica la procedura del rito camerale e che l’appello deve essere proposto con ricorso nei termini perentori di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., laddove l’ appello dovesse essere introdotto con citazione e non con ricorso, non è la data della notifica che rileva, bensì quella del deposito in cancelleria che, a pena di inammissibilità, deve avvenire entro lo stesso termine processuale fissato dall’art. 325 e cioè entro trenta giorni dalla notifica della sentenza.
Ove, quindi, l’appello sia stato introdotto con atto di citazione e non con ricorso, non si ha la nullità dell’impugnazione, in applicazione del generale principio di conservazione degli atti processuali, se l’atto viziato ha i requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo ed il relativo deposito nella cancelleria del giudice adito sia avvenuto entro i termini perentori fissati dalla legge.
A nulla rileva, pertanto, la notificazione previamente effettuata all’appellato prima della scadenza del detto termine, ove la citazione non sia depositata, entro lo stesso termine presso la cancelleria del giudice adito.
Il principio è ormai consolidato in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 20 luglio 2015, n. 15137; Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1179; Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13660; Cass. civ. sez. I, 24 gennaio 2003, n. 380; Cass. civ. Sez. I, 17 gennaio 1998, n. 367; Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 1997, n. 7158; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4256; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1996, n. 4290).
d) Il termine assegnato per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza
Sull’osservanza del termine stabilito dal presidente della Corte per la notifica dell’atto di appello all’appellato esistono due orientamenti contrapposti i quali, entrambi, però escludono che il ter¬mine sia perentorio.
Secondo un orientamento il termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza ha la mera funzione di instaurare il contraddittorio e la notifica oltre il termine indicato (senza preventiva presentazione dell’istanza di proroga) non può rivestire alcun effetto preclusivo. Pertanto, l’inutile decorso del termine fissato per la notifica implica soltanto, nell’ipotesi di mancata costituzione dell’appellato, la necessità di fissare un nuovo ter¬mine, mentre, nell’ipotesi di costituzione dell’appellato, non impedisce la regolare instaurazione del contraddittorio, data l’efficacia sanante ex tunc di tale costituzione (Cass. civ. Sez. I, 20 luglio 2015, n. 15137; Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 2013, n. 25211; Cass. civ. sez. I, 24 gennaio 2003, n. 380).
Di contrario avviso, però, Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17202 (in un procedimento di adottabilità di un minore e Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27086, in una causa di se¬parazione, secondo cui nei procedimenti che si svolgono con il rito camerale, quale quello avverso una sentenza di separazione personale di coniugi, l’omessa notificazione del ricorso nel termine assegnato nel decreto di fissazione d’udienza in mancanza di istanza di proroga prima della sca¬denza determina l’improcedibilità dell’appello, in quanto, pur trattandosi di un termine ordinatorio ex art. 154 cod. proc. civ. si determina la decadenza dell’attività processuale cui è finalizzato. Tale sanzione, peraltro, non è esclusa dalla mancata comunicazione a cura della cancelleria del decreto di fissazione d’udienza, atteso che nei procedimenti camerali, il giudice è tenuto solo al deposito del decreto, ma non anche a disporne la relativa comunicazione, incombendo sul ricorrente l’obbli¬go di attivarsi per prendere cognizione dell’esito del proprio ricorso.
A tale orientamento ha aderito anche App. Napoli, 17 maggio 2013 secondo cui in tema di pro¬cedimenti camerali, introdotti con ricorso, è improcedibile l’atto di appello che, pur essendo stato depositato tempestivamente, nondimeno sia stato notificato dopo il decorso del termine fissato con decreto dal giudice sempre però – e in questo la decisione si differenzia da quella della Corte di cassazione sopra citata – che quel decreto sia stato tempestivamente comunicato dalla Cancelleria alla parte medesima.
La deformalizzazione impressa dal rito camerale ha spinto la giurisprudenza anche ad escludere che la mancata comparizione dell’appellante alla prima udienza possa essere causa di improce¬dibilità dal momento che tale ipotesi non è affatto regolata dalla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio; a tale mancanza deve porsi rimedio facendo riferimento alle norme generali sull’appello ed in particolare al secondo comma dell’art. 348 c.p.c.17 (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5651).
e) La costituzione dell’appellato
Nel silenzio assoluto della disciplina del procedimento camerale la costituzione dell’appellato av¬viene nei termini solitamente indicati dal presidente nel decreto di fissazione dell’udienza. Le indi¬cazioni del Presidente – che dipendono dalle diverse prassi delle Corti – non sempre sono conformi all’art. 166 c.p.c. (che imporrebbe un termine di costituzione di almeno venti giorni prima dell’u¬dienza) e spesso il termine assegnato è di dieci giorni prima dell’udienza o, addirittura in alcuni casi, alla data dell’udienza stessa.
f) L’appello camerale incidentale
È ammissibile naturalmente in sede di separazione e divorzio anche l’appello camerale inciden¬tale (Corte cost. 14 dicembre 1989, n. 543) che nel rito a cognizione ordinaria è disciplinato dall’art. 343 18
17 Art. 348, secondo comma, c.p.c. Se l’appellante non compare alla prima udienza, benché sia regolarmente costituito, il collegio con ordinanza non impugnabile, rinvia la causa ad una prossima udienza della quale il cancelliere dà comunicazione all’appellante. Se anche alla nuova udienza l’appellante non compare, l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio. .
In ordine ai termini di tale appello incidentale la giurisprudenza ha osservato che il rito camerale, previsto per l’appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale, come, da un lato, non preclude la proponibilità dell’ appello incidentale, anche indipendentemente dalla scadenza del termine per l’esperimento del gravame in via principale, così, dall’altro, risultando caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicabilità delle norme che regolano il processo ordinario e, in particolare, del termine perentorio fissato, per la relativa proposizione, dal primo comma dell’art. 343 cod. proc. civ. con la conseguenza che il principio del contraddittorio deve ritenersi rispettato per il solo fatto che il gravame incidentale sia portato a conoscenza della parte avversa entro limiti di tempo tali da assicurare a quest’ultima la possibilità di far valere le proprie ragioni mediante l’organizzazione di una tempestiva difesa tecnica. Da ciò consegue che la tardiva proposizione dell’appello incidentale non comporta l’inam¬missibilità del gravame, consentendo semmai all’appellante principale di ottenere, ove lo richieda, il differimento dell’udienza, per meglio articolare le proprie difese (Cass. civ. Sez. I Sent. 20 febbraio 2018, n. 4091; Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1179).
In passato era stata invece molto rigida sui termini dell’appello incidentale Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309 secondo cui in tema di procedimento di separazione dei coniugi (e di divor¬zio) l’articolo 4, comma 12 della legge 898 del 1970 (come sostituito dall’articolo 8, legge 74 del 1987) secondo cui l’appello è deciso in camera di consiglio, se, da un lato, richiama il procedimento di cui agli articoli 737 e seguenti del c.p.c., dall›altro non esclude l›applicabilità di quelle norme che disciplinano l›appello nel processo ordinario, come tra le altre, quelle sull›appello incidentale, non essendo queste incompatibili con il rito camerale né incidendo sulla celerità del relativo giudizio. Deve concludersi, pertanto, che anche nei giudizi di separazione e di divorzio, in grado di appello, è ammissibile l›appello in via incidentale da depositare al più tardi, entro la prima udienza, ai sensi del vecchio testo dell›articolo 343 del codice di procedura civile.

18 Art. 343 (Modo e termine dell’appello incidentale)
L’appello incidentale si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all’atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell’articolo 166.
Se l’interesse a proporre l’appello incidentale sorge dall’impugnazione proposta da altra parte che non sia l’ap¬pellante principale, tale appello si propone nella prima udienza successiva alla proposizione dell’impugnazione stessa.
VI L’appello immediato delle sentenze non definitive
Nel processo di separazione e di divorzio non è ammessa la riserva di appello avverso le sentenze non definitive (prevista e disciplinata in via generale dall’art. 340 c.p.c.).
Infatti, come si è già detto, l’art. 4, comma 12 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel testo modificato dalla legge 4 marzo 1987 n. 74, prevede che “Nel caso in cui il processo debba conti¬nuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio” e che “Avverso tale sentenza è ammesso solo appello immediato”. Anche in sede di separazione è prevista la possibilità di sen¬tenze non definitive di separazione: l’art. 709-bis, comma 2, c.p.c. dispone che “Nel caso in cui il processo debba continuare per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione. Avverso tale sentenza è ammesso soltanto appello immediato che è deciso in camera di consiglio”.
Naturalmente l’appello – che segue anche in questo caso, come si è detto, il rito camerale – avrà ad oggetto l’esistenza e la legittimità dei soli presupposti giuridici e di fatto che hanno portato alla sentenza non definitiva, come potrebbe essere la violazione di termini per la proposizione della domanda di divorzio ovvero – come spesso si riscontra nella prassi – il mancato accoglimento in sede divorzile dell’eccezione di riconciliazione.
VII I motivi di appello
La deformalizzazione del processo di appello imposta dal rito camerale, non influenza il tema della specificità dei motivi di appello (come ebbe a ricordare Corte cost. 14 dicembre 1989, n. 543 “perché esse non sono incompatibili con il rito camerale né incidono sulla celerità del giudizio”).
Deve quindi essere rispettato quanto prescritto nell’art. 342 c.p.c. (Forma dell’appello) – nel testo introdotto con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134 – nella parte in cui prescrive che “La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissi¬bilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
Sull’interpretazione dell’art. 342 c.p.c. è decisiva Cass. civ. Sez. Unite, 16 novembre 2017, n. 27199 (chiamata risolvere un contrasto di orientamenti sul punto) secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., (nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazio¬ni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134) vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, restando escluso, in considerazione della perma¬nente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado.
VIII L’inammissibilità dell’appello
Il nuovo art. 348-bis c.p.c. (Inammissibilità dell’appello), introdotto con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134, non è applicabile all’appello della sentenza di separazione o di divorzio.
La nuova norma prescrive al primo comma che “Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissi¬bile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta” mentre al secondo comma, precisa che “Il primo comma non si applica quando: a) l’appello è proposto relativamente a una delle cause di cui all’articolo 70, primo comma; b) l’appello è proposto a nor¬ma dell’articolo 702-quater”.
Come si è già visto l’art. 70, primo comma, c.p.c. prevede che il pubblico ministero deve interve¬nire tra l’altro “nelle cause matrimoniali comprese quelle di separazione personale dei coniugi” e in quelle “riguardanti lo stato e la capacità delle persone” (quindi anche in quelle di divorzio). In queste cause, quindi, per espressa previsione del nuovo articolo 348-bis, non trova applicazione la regola dell’inammissibilità dell’appello quando l’impugnazione non ha una ragionevole probabilità di essere accolta.
IX Il potere del giudice di appello di revisione delle statuizioni di primo grado in caso di sopravvenienze
Non vi sono, né vi sono mai stati, contrasti in giurisprudenza sul fatto che il giudice d’appello – quale giudice della causa ancora in corso – ha competenza anche ad adottare provvedimenti di modifica delle condizioni di separazione o die divorzio.
Il principio di modificabilità sempre (in corso di causa o dopo il giudicato) dei provvedimenti con¬cernenti i coniugi e i figli, è espressione di un più generale principio di necessaria corrispondenza tra l’assetto stabilito dal giudice o concordato dalle parti e l’evoluzione dei presupposti su cui il provvedimento di cui si chiede la revisione si fondava.
Per quanto concerne la separazione, il principio è espresso, per i rapporti tra i coniugi nell’art. 156 del codice civile (Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra coniugi) il cui ultimo comma prevede che “qualora sopravvengano giustificati motivi, il giudice, su istanza di parte, può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti di cui ai commi precedenti”. In corso di causa il princi¬pio di modificabilità dei provvedimenti disposti con l’ordinanza presidenziale è indicato nell’ultimo comma dell’art. 709 c.p.c. nel quale si prevede che “i provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’articolo 708 possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore”. Non solo i provvedimenti adottati dal presidente, ma anche quelli del giudice istruttore possono essere sempre modificati in corso di causa, in attuazione del pote¬re generale di modificazione delle ordinanze da parte del giudice che le ha pronunciate, previsto nell’art. 177 c.p.c.
La legge sul divorzio non ha una disposizione specifica di carattere sostanziale sulla modificabilità dei provvedimenti concernenti i coniugi, analoga a quella contenuta nell’art. 156 c.c. per la se¬parazione. Il diritto di richiedere in corso di causa modificazioni è previsto in ambito processuale nell’art. 4, comma 8, seconda parte della legge 898/1970 dove si legge che “L’ordinanza del pre¬sidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177 del codice di procedura civile”.
Per le questioni connesse alla responsabilità genitoriale, il principio di modificabilità è espresso nell’art. 337-quinquies (come introdotto dal D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) intitolato “Revi¬sione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli” il quale afferma che “i genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo”. Quest’ultima disposizione trova applicazione anche per il divorzio (art 6 della legge 898/1070 come da ultimo modificato dall’art. 98 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 15419).
La modifica può essere può essere chiesta in corso di causa a prescindere dal grado in cui si trova il giudizio, pertanto con una istanza al giudice istruttore o alla corte d’appello (ma non alla Corte di cassazione20
19 Il testo attuale del secondo comma dell’art. 6 della legge sul divorzio prevede che “ Il tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio applica, riguardo ai figli, le disposizioni conte¬nute nel capo II, del titolo IX, del libro primo del codice civile”. Si applicano perciò a tutti i figli le ormai uniformi disposizioni previste in tema di separazione. ) e naturalmente dopo il giudicato con le forme dell’att. 710 c.p.c. o dell’art. 9 della legge sul divorzio.
In conclusione, nel giudizio di appello possono essere chieste alla Corte, in presenza di soprav¬venienze, tutte le modifiche ritenute necessarie dell’assetto vigente di separazione o di divorzio.
Il principio vale, quindi, sia per le domande di revisione concernenti il mantenimento dei figli che per quelle concernenti il mantenimento tra coniugi o tra ex coniugi ed è stato molto chiaramente ribadito anche di recente da Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 maggio 2016, n. 10099; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1798 secondo cui nei procedimenti in tema di famiglia retti dal rito came¬rale, le sopravvenienze e la relativa prova sono ammissibili e valutabili in sede di impugnazione, purché sia prestata osservanza al principio del contraddittorio.
La giurisprudenza è stata comunque sempre conforme su questo punto, affermandosi che la na¬tura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra le parti postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condi¬zioni patrimoniali o reddituali, ed anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni, con la conseguenza che il giudice di appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatesi nelle more del giudizio (Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2184; Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2007, n. 16398; Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2005, n. 1824).
In moltissime sentenze si afferma esplicitamente che compito del giudice in presenza di domande di revisione dell’assegno coniugale o per i figli è quello di operare una “rinnovata valutazione com¬parativa” della situazione economica delle parti avvalendosi anche dei poteri di ufficio (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6289; Cass. civ. Sez. I, 21 agosto 2013, n. 19326; Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2011, n. 8754; Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2006, n. 5378; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2338).
X Le limitazioni al divieto in appello di nuove domande
Diverso dal problema delle sopravvenienze che giustificano provvedimenti di revisione anche in corso di appello, è il tema se possano le parti proporre domande nuove nel giudizio di appello della separazione e del divorzio.

20 Il problema di quale sia il giudice al quale rivolgere una istanza di revisione in pendenza del giudizio di cas¬sazione non è trattato in dottrina e non è stato risolto dalla giurisprudenza.
Nel giudizio di appello a cognizione ordinaria non possono assolutamente proporsi domande nuove e se proposte devono essere dichiarate inammissibili anche d’ufficio; non sono ammesse nuove eccezioni; non sono ammessi nuovi mezzi di prova; non possono essere prodotti nuovi documenti (art. 345 c.p.c.)21.
Il rito camerale sembrerebbe non soffrire di queste preclusioni non essendo prevista nelle norme sui procedimenti in camera di consiglio una disposizione ad hoc analoga all’art. 345 c.p.c. per il rito a cognizione ordinaria.
Tuttavia se si esamina la giurisprudenza sul punto si scopre che le nuove domande in appello anche nel rito camerale di fatto sono considerate sostanzialmente inammissibili, salvo che – come detto nel capitolo precedente – non si tratti di domande di modifica dei provvedimenti vigenti.
Le decisioni che si sono occupate del problema delle “domande nuove” possono essere suddivise in due categorie: quelle concernenti il mantenimento dei figli e quelle concernenti il mantenimento tra coniugi o ex coniugi.
a) Affidamento e mantenimento dei figli
La giurisprudenza è costante nel ritenere che le domande relative all’affidamento e al mantenimen¬to dei figli minori non ricadono sotto il divieto delle “domande nuove” in appello in quanto il giudice ha in questo ambito poteri ufficiosi di cui può valersi anche senza specifiche domande di parte.
Il principio è consolidato. Così, per esempio, secondo Cass. civ. Sez. I, 24 agosto 2018, n. 21178 in tema di contributo al mantenimento dei figli minori nel giudizio di separazione o divorzio, è legittima l’acquisizione, da parte della corte d’appello, di una relazione investigativa sulle condi¬zioni reddituali di una parte, prodotta per la prima volta insieme con la comparsa conclusionale del secondo grado del giudizio, poiché la tutela degli interessi morali e materiali della prole è sottratta all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti, ed è sempre riconosciuto al giudice il potere di adottare d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio di merito, tutti i provvedimenti necessari per la migliore protezione dei figli, e di esercitare, in deroga alle regole generali sull’onere della prova, i poteri istruttori officiosi necessari alla conoscenza della condizione economica e reddituale delle parti.
Ugualmente in Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11882 si legge che l’assegno di manteni¬mento per i figli minori, a carico del genitore non collocatario, va determinato dal giudice, anche ricorrendo ai suoi poteri istruttori di ufficio, in modo da assicurare tutte le attuali necessità di as¬sistenza morale e materiale, di cura e di educazione, dei figli medesimi, comprensive dell’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, da rapportarsi al tenore di vita loro concreta¬mente assicurato nel corso della convivenza e da apprezzarsi, alla stregua del principio di propor¬zionalità, sia in relazione al livello economico-sociale del nucleo familiare, sia alle sostanze e ai redditi dei genitori, nonché alla loro capacità di lavoro, professionale e casalingo, anche in deroga ad eventuali accordi intervenuti tra i genitori stessi, che comunque non possono incidere sull’entità dell’apporto, ma solo sulle modalità della contribuzione
In Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2004, n. 8424 e Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2000, n. 15065 si precisa che in materia di separazione e divorzio, i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli ed al contributo per il loro mantenimento possono essere diversi rispetto alle domande delle parti o al loro accordo, ed emessi dopo l’assunzione di mezzi di prova dedotti dalle parti o disposti d’ufficio dal giudice. Si verifica, perciò, una deroga alle regole generali sull’onere della prova, attribuendo al giudice poteri istruttori di ufficio per finalità di natura pubblicistica, con la conseguenza che le domande delle parti non possono essere respinte sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano e che i provvedimenti da emettere devono essere ancorati ad un’adeguata verifica delle condizioni patrimoniali dei genitori e delle esigenze di vita dei figli esperibile anche di ufficio.
In Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5636 si afferma che nel giudizio di separazione dei co¬niugi, i provvedimenti necessari alla tutela materiale e morale dei figli, riguardanti anche l’attribu¬zione e la quantificazione di un assegno per il loro mantenimento, possono essere adottati d’ufficio indipendentemente da una richiesta esplicita di uno dei coniugi o del pubblico ministero, in quanto rivolti a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche sottratte all’iniziativa e alla disponibilità delle parti; pertanto, la domanda avanzata da uno dei coniugi per la prima volta nel giudizio di appello per ottenere dall’altro un contributo al mantenimento dei figli a suo carico non può essere consi¬derata inammissibile ex art. 345 c. p. c.
In una vicenda recente – ma facendo confusione tra domande di revisione e domande “nuove” – Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 dicembre 2015, n. 25420 ha affermato che in materia di assegno di manteni¬mento per il figlio, il giudizio riguarda “la conservazione del contenuto reale del credito fatto valere con la domanda originaria” [in questo caso quindi una domanda in primo grado era stata fatta], sicché il genitore istante può chiedere un adeguamento del relativo ammontare alla stregua della svalutazione monetaria o del sopravvento di altre circostanze, verificatesi nelle more del giudizio, in particolare

21 Art. 345 c.p.c. (Domande ed eccezioni nuove)
Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inam¬missibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa.
Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio.
Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte di¬mostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio.
relative alle mutate condizioni economiche dell’obbligato ovvero alle accresciute esigenze del figlio. Ne deriva – è questa la conclusione confusiva – che la proposizione, in primo grado o in appello, di simili istanze o eccezioni non ricade sotto il divieto di “ius novorum”, né con riguardo al giudizio di primo grado (art. 183, comma 4, c.p.c.), né con riguardo al giudizio di appello (art. 345, comma 1, c.p.c.).
b) Mantenimento tra coniugi o ex coniugi
Per quanto invece attiene alle domande relative al mantenimento coniugale o tra ex coniugi vale in giurisprudenza il principio della loro assoggettabilità al divieto di domande nuove in appello espresso nell’art. 345 c.p.c.
Molto chiare in proposito sono Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1998, n. 4615 (Nel procedimento per lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, la domanda per l’attribuzione dell’assegno divorzile (art. 5, comma 4, l. n. 898 del 1970) ne presuppone la tempestiva proposizione secondo le ordinarie norme processuali, così che il giudice di appello deve rigettare la richiesta avanzata per la prima volta dinanzi a lui dal coniuge avente diritto, a nulla rilevando che questi sia rimasto contumace in primo grado), Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 aprile 2016, n. 7451 (E’ inammissibile la domanda di attribuzione dell’assegno di mantenimento proposta, per la prima volta, in appello, in violazione dell’art. 345 c.p.c., a nulla rilevando che la parte istante sia rimasta contumace in primo grado) e Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 novembre 2017, n. 27695 (In tema di separazione personale tra coniugi, la domanda rivolta a richiedere un assegno di natura alimentare costituisce un “minus” ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimen¬to per il coniuge. Ne consegue che la relativa istanza – ancorché formulata per la prima volta in appello in conseguenza della dichiarazione di addebito – è ammissibile, non essendo qualificabile come nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., attesa anche la natura degli interessi ad essa sottostanti).
A conferma dell’orientamento sono anche le decisioni secondo cui la giurisprudenza ha affermato che la domanda rivolta a richiedere un assegno di natura alimentare costituisce un “minus” ricom¬preso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge con la conseguenza che la relativa istanza – ancorché formulata per la prima volta in appello in conseguenza della dichiarazione di addebito – è ammissibile, non essendo qualificabile come nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., attesa anche la natura degli interessi ad essa sottostanti (Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 novembre 2017, n. 27695; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2013, n. 10718).
Secondo Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 2005, n. 11319 – che concerne il tema dei nuovi mezzi di prova – l’acquisizione dei mezzi di prova e, segnatamente, dei documenti è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti in camera di consiglio.
XI La sospensione del provvedimento impugnato
Non vi sono controindicazioni – e la prassi lo conferma – in ordine alla possibilità di richiedere la sospensiva del provvedimento impugnato. Naturalmente dei capi della sentenza che non concer¬nono la pronuncia di separazione o di divorzio.
Si farà applicazione quindi dell’art. 283 c.p.c. a norma del quale il giudice di appello su istanza di parte, proposta con l’impugnazione principale o con quella incidentale, quando ricorrono gravi motivi, sospende in tutto o in parte l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata.
Sull’istanza – che l’appellante può chiedere che venga decisa prima dell’udienza di comparizione (art. 351 c.p.c.22) la Corte provvede con ordinanza non impugnabile.
XII Giudizio di appello e contrasti sull’affidamento
Poiché in base a quanto dispone l’art. 709-ter c.p.c. (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni), “Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso” sembra scontato concludere – analogamente a quanto si è detto

22 Art. 351 c.p.c. (Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria)
Sull’istanza prevista dall’articolo 283 il giudice provvede con ordinanza non impugnabile nella prima udienza.
La parte può, con ricorso al giudice, chiedere che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima dell’udien¬za di comparizione. Davanti alla corte di appello il ricorso è presentato al presidente del collegio.
Il presidente del collegio o il tribunale, con decreto in calce al ricorso, ordina la comparizione delle parti in camera di consiglio, rispettivamente, davanti al collegio o davanti a sé. Con lo stesso decreto, se ricorrono giusti motivi di urgenza, può disporre provvisoriamente l’immediata sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza; in tal caso, all’udienza in camera di consiglio il collegio o il tribunale conferma, modifica o revoca il decreto con ordinanza non impugnabile.
Il giudice, all’udienza prevista dal primo comma, se ritiene la causa matura per la decisione, può provvedere ai sensi dell’articolo 281-sexies. Se per la decisione sulla sospensione è stata fissata l’udienza di cui al terzo com¬ma, il giudice fissa apposita udienza per la decisione della causa nel rispetto dei termini a comparire.
in ordine alla revisione in corso di causa di tutti i provvedimenti – che la Corte d’appello è, in sede di separazione e divorzio, anche il giudice cui è attribuito il potere di risolvere i contrasti sull’affi¬damento e di disporre “in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento” le modifiche neces¬sarie dell’assetto dell’affidamento oltre alle misure di carattere sanzionatorio previste nella norma.
XIII I poteri d’ufficio del giudice di appello
Deve essere ora approfondito il problema dei limiti del potere del giudice nel giudizio di appello. In particolare ci si deve chiedere se e in che limiti anche in sede di appello al giudice possano considerarsi estesi i poteri ufficiosi che la legge attribuisce in generale al giudice nei giudizi di se¬parazione e di divorzio.
a) Il dato normativo
Nel rito a cognizione ordinaria l’art. 359 c.p.c.23 – secondo cui nel giudizio di appello si osservano sostanzialmente le norme del giudizio primo grado – rende ammissibile, nei limiti dell’effetto de¬volutivo dell’appello, l’uso di poteri ufficiosi da parte del giudice nell’estensione con cui tali poteri sono attribuiti al giudice di primo grado.
A tale proposito occorre ricordare che il giudice civile in generale ha una fascia di poteri di iniziativa d’ufficio senz’altro consistenti24
23 Art. 359. (Rinvio alle norme relative al procedimento davanti al tribunale) Nei procedimenti d’appello davanti alla Corte o al tribunale si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale, se non sono incompatibili con le disposizioni del presente capo. . Si tratta di un numero significativo di ipotesi in cui si attribuiscono al giudice civile poteri ufficiosi in materia probatoria, tanto da far dubitare, che il processo civile possa dirsi effettivamente dominato dal principio della disponibilità delle prove.
Ugualmente avviene nel rito del lavoro dove il processo ha una connotazione semi-inquisitoria che giustifica l’attribuzione al giudice di ampi poteri ufficiosi (artt. 42125
24 Si pensi all’interrogatorio libero delle parti (art.117 e 183 c.p.c.); all’ispezione di persone e cose (art. 118 c.p.c.); all’ordine di esibizione (art. 2711 cod. civ.); alla nomina di un consulente tecnico (artt. 61 e 191 ss c.p.c.) (nei limiti in cui la consulenza tecnica possa essere considerato mezzo di prova); alla richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione (art. 213 c.p.c.a); al giuramento suppletorio e quello d’estimazione (artt. 240 e 241 c.p.c.); al potere rivolgere al teste domande utili a chiarire i fatti (art. 253, 1° comma c.p.c.); all’audizione dei testi di riferimento (art. 257 e 281 ter c.p.c.); all’esperimento giudiziale (art. 261 c.p.c.). e 43726
25 Art. 421 c.p.c. (Poteri istruttori del giudice) “Il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti.
Può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osserva¬zioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Si osserva la disposizione del comma sesto dell’articolo 420.
Dispone, su istanza di parte, l’accesso sul luogo di lavoro, purché necessario al fine dell’accertamento dei fatti, e dispone altresì, se ne ravvisa l’utilità, l’esame dei testimoni sul luogo stesso.
Il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell’articolo 246 o a cui sia vietato a norma dell’articolo 247. c.p.c.)27
26 Art. 437 c.p.c. (Udienza di discussione) Nell’udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa. Il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza.
Non sono ammesse nuove domande ed eccezioni. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa.
È salva la facoltà delle parti di deferire il giuramento decisorio in qualsiasi momento della causa.
Qualora ammetta le nuove prove, il collegio fissa, entro venti giorni, l’udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza. In tal caso il collegio con la stessa ordinanza può adottare i provvedimenti di cui all’articolo 423.
Sono applicabili le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell’articolo 429. che la giurisprudenza ha saputo ben evidenziare (Cass. civ. Sez. Unite 17 giugno 2004, n.11353 ha interpretato il disposto dell’art. 421, secondo comma, c.p.c. affermando che è caratteristica pre¬cipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, ove il giudice reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare appli¬cazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione).
Ebbene, nei procedimenti di separazione e divorzio il principio dispositivo (art. 2697 c.c. sull’onere della prova a carico di chi vuol far valere un diritto in giudizio) trova limitazioni non soltanto nelle norme generali, sopra richiamate, previste nel processo civile a cognizione ordinaria, ma anche in norme specifiche che prescrivono alle parti l’obbligo di determinati adempimenti documentali o che consentono al giudice di richiedere alle parti documentazione sulla loro condizione economica.
Infatti, sia in sede di separazione (art. 706, co. 3 ultima parte c.p.c.) che in sede di divorzio (art. 4, co. 6 legge divorzio) si prevede, innanzitutto, che “Al ricorso e alla memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi presentate”. E questo anche nel caso in cui non vi siano figli minori. Già questo è un indizio da cui desumere l’esistenza di forti dissonanze rispetto alle regole del processo ordinario in cui a carico delle parti non sono in genere posti obblighi e oneri di rivelazione sulla propria situazione economica. L’onere probatorio è nel giudizio ordinario a carico di chi vuol far valere un diritto.
Inoltre la legge sul divorzio, all’art. 5, comma 9, dopo aver ribadito l’obbligo di presentazione delle dichiarazioni dei redditi, prescrive che le parti devono depositare “ogni altra documentazione re¬lativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenere di vita, valendosi, se del caso, an¬che della polizia tributaria”. In moltissimi tribunali viene, quindi, espressamente chiesto alle parti di integrare la documentazione con il deposito di altri documenti, per esempio i saldi o gli estratti degli ultimi anni dei conti correnti bancari o delle carte di credito, indicazioni su proprietà immobiliari e mobiliari, nonché su autoveicoli, imbarcazioni, finanziamenti, mutui, stipendi e altra documentazio¬ne sui rapporti di lavoro. È anche invalsa la prassi di richiedere che l’indicazione di questi elementi venga effettuata attraverso la presentazione di apposite dichiarazioni sostitutive di atto notorio28.
La documentazione reddituale e patrimoniale richiesta ai coniugi ha lo scopo di consentire che i provvedimenti di natura economica riguardanti i coniugi e i figli siano il più possibile congrui rispet¬to alle finalità di tutela per le quali il mantenimento coniugale e per i figli è previsto dalla legge. Fatto sempre salvo l’approfondimento istruttorio.
È interessante notare che l’uso dei poteri ufficiosi di cui si sta parlando non è considerato assoluta¬mente in contrasto con la natura “disponibile” dell’assegno di mantenimento coniugale o divorzile (lo ha recentemente precisato Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2018, n. 18287 secondo cui – come si evidenzia molto bene in motivazione – ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, nonostante la sua natura disponibile, è richiesto un accertamento rigoroso da parte del giudice anche avvalendosi dei suoi poteri d’ufficio).
Tutti questi poteri di indagine (previsti, come si è visto, nella normativa sul divorzio all’art. 5, com¬ma 9) sono pacificamente ritenuti estensibili anche al processo di separazione29
28 Cfr la voce PROVE ATIPICHE .
Per quanto attiene all’adozione dei provvedimenti relativi al mantenimento dei figli – in cui co¬munque trattandosi di diritti indisponibili il potere ufficioso del giudice è scontato – una disposi¬zione generale è contenuta nel primo comma dell’articolo 337-octies del codice civile che chiude il capo II (“esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio, ovvero all’esito di procedi¬menti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio”) del titolo IX (“della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”) del primo libro del codice civile. La norma prevede che “prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 337-ter, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova”. Si tratta di una norma generale che autorizza il giudice a disporre anche in via ufficiosa a tutela dei diritti dei figli (minorenni e maggiorenni) i mezzi di prova, ivi comprese, per quanto qui interessa, le indagini a mezzo di polizia tributaria. Questo potere è ribadito espressamente nell’ultimo comma dell’articolo 337- ter del codice civile (già articolo 155 codice civile) in cui si prevede che “ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazio¬ne, anche se intestati a soggetti diversi”.
b) I poteri d’ufficio della Corte d’appello
Tanto premesso si tratta di verificare se è possibile e in che misura estendere al giudizio d’appello questi poteri ufficiosi attribuiti dalla legge al giudice nelle cause di separazione e di divorzio.
La questione involge naturalmente il tema della connotazione e della qualificazione del giudizio di appello.
Considerato, infatti, l’art. 359 c.p.c. – secondo cui nel giudizio di appello si osservano sostanzial¬mente le norme del giudizio primo grado – e che il giudizio di appello ha una natura non di un nuovo giudizio ma di una revisione della sentenza nei limiti delle specifiche censure contenute nella domanda d’appello (Cass. civ. Sez. Unite, 16 novembre 2017, n. 2719930
29 Cfr sui poteri ufficiosi del giudice nei giudizi di separazione e divorzio la voce UDIENZA PRESIDENZIALE ), se ne deve trarre la conclusione che i poteri d’ufficio della Corte d’appello si possono esercitare nei limiti devolutivi dell’appello e nel rispetto dell’art. 345 c.p.c. che prescrive che nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove; non sono ammesse nuove eccezioni; non sono ammessi nuovi mezzi di prova; non possono essere prodotti nuovi documenti31
30 Si tratta – affermano le Sezioni Unite – di un’impugnativa avverso la sentenza, piuttosto che un rimedio introduttivo di un giudizio sul rapporto controverso, dal momento che in esso la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso la prospettazione e, quindi, la deduzione di specifiche censure, senza che al giudice di secondo grado possa ritenersi assegnato il compito di “ripetere” il giudizio di primo grado, rinnovando la cognizione dell’intero materiale di causa e pervenendo ad una nuova decisione che involga “tutti” i punti già dibattuti in prima istanza. , fatte salve eventuali limitazioni espresse come il deferimento del solo giuramento decisorio.
31 Si ritiene consentita, invece, per un principio di economia processuale, l’allegazione per la prima volta in appello di fatti nuovi verificatisi successivamente al verificarsi delle preclusioni in primo grado e mutamenti legi¬slativi sopravvenuti.
L’uso dei poteri ufficiosi del giudice di appello è stato pacificamente confermato nel rito del lavoro da Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2012, n. 6753 che ha ritenuto i poteri ufficiosi esercita¬bili senz’altro anche dal giudice di appello, precisando che nel rito del lavoro stante l’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le ri¬sultanze di causa offrono significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 cod. proc. civ., ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può in via eccezionale ammet¬tere, anche d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento.
Il potere ufficioso si sostanzia, quindi, nella possibilità di fare uso del potere di “ammettere, anche d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione” e tra tali prove certamente acquistano rilevanza i documenti fiscali delle parti e la documentazione sui redditi e sulla condizione economica delle parti che per prassi è richiesta in sede di separazione e divorzio.
Nelle cause di separazione e divorzio la deviazione dalle regole del processo a cognizione ordinaria – e l’allineamento quasi al rito del lavoro – è confermata dalla prassi giudiziaria delle Corti d’appello che prevede ampi poteri del giudice di appello di richiedere alle parti documentazione sostanzial¬mente della stesa estensione di quella che può essere ordinata dal giudice di primo grado. Nei decreti con cui si indica l’udienza di comparizione insieme agli eventuali termini per la costituzione dell’appellato, in molte Corti d’appello, sono anche elencati i documenti (fiscali, contabili, estratti conto, proprietà mobiliari e immobiliari e altro) che si richiedono alle parti, anche attraverso di¬chiarazioni sostitutive di atto notorio.
Questa prassi non è in dissonanza con una decisione con cui Cass. civ. Sez. I, 10 giugno 2005, n. 12291 aveva ritenuto di precisare che nel giudizio di appello, anche nelle controversie di di¬vorzio (e di separazione personale dei coniugi) sono inammissibili nuovi mezzi di prova ancorché si tratti di prove documentali, salvo che il collegio ritenga tali mezzi indispensabili ai fini della decisione o la parte dimostri di non averli potuto produrre nel giudizio di primo grado, per causa a lei non imputabile.
Il giudizio di appello nella separazione e nel divorzio sembra quindi avere una conformazione speciale (analoga per certi versi a quella del processo del lavoro) che ne fa una sorta di giudizio speciale in cui, insieme alla revisione della sentenza di primo grado, si persegue sostanzialmente la finalità della tutela dei soggetti più vulnerabili e della ricerca della verità materiale.
XIV La sentenza camerale
Nell’appello di separazione o divorzio l’applicazione del rito camerale consente di affermare che non trovano applicazione né l’istituto di precisazione delle conclusioni, né quello dello scambio del¬le comparse conclusionali e di replica, benché nella prassi in molte Corti sono comunque concessi termini per note finali e per repliche (Cass. civ. Sez. I, 12 gennaio 2007, n. 565 secondo cui nei procedimenti di natura contenziosa che si svolgono con il rito camerale deve essere assicurato il diritto di difesa e, quindi, realizzato il principio del contraddittorio; tuttavia, trattandosi di pro¬cedimenti caratterizzati da particolare celerità e semplicità di forme, ad essi non sono applicabili le disposizioni proprie del processo di cognizione ordinaria e, segnatamente, quelle di cui agli artt. 189 (Rimessione al collegio) e 190 (Comparse conclusionali e memorie) cod. proc. civile.
La decisione è adottata con sentenza ed è naturalmente ricorribile per cassazione per tutti i motivi di cui all’art. 360 c.p.c. nonostante il rito camerale che caratterizza anche la fase decisoria del giudizio di impugnazione (Cass. civ. Sez. I, 14 ottobre 1995, n. 10763).
APPELLO NELLA SEPARAZIONE E NEL DIVORZIO
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 24 agosto 2018, n. 21178 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di contributo al mantenimento dei figli minori nel giudizio di separazione o divorzio, è legittima l’acqui¬sizione, da parte della corte d’appello, di una relazione investigativa sulle condizioni reddituali di una parte, pro¬dotta per la prima volta insieme con la comparsa conclusionale del secondo grado del giudizio, poiché la tutela degli interessi morali e materiali della prole è sottratta all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti, ed è sempre riconosciuto al giudice il potere di adottare d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio di merito, tutti i provvedi¬menti necessari per la migliore protezione dei figli, e di esercitare, in deroga alle regole generali sull’onere della prova, i poteri istruttori officiosi necessari alla conoscenza della condizione economica e reddituale delle parti.
Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2018, n. 18287 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi della legge n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la legge n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura com¬pensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in partico¬lare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazio¬ne del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio co¬mune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto.
Cass. civ. Sez. I, 20 febbraio 2018, n. 4091 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rito camerale, previsto per l’appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale, da un lato, non preclude la proponibilità dell’appello incidentale (tardiva) indipendentemente dalla scadenza del termine per l’esperimento del gravame in via principale e dall’altro, risultando caratterizzato dalla sommarietà della cogni¬zione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicazione delle norme che regolano il processo ordinario e, in particolare, del termine perentorio fissato, per la relativa proposizione, dall’art. 343, comma 1, c.p.c., con la conseguenza che il principio del contraddittorio deve ritenersi rispettato per il solo fatto che il gravame incidentale sia portato a conoscenza della parte avversa entro limiti di tempo tali da assicurare a quest’ultima la possibilità di far valere le proprie ragioni mediante l’organizzazione di una tempestiva difesa tecnica. Da ciò consegue che la tardiva proposizione dell’appello incidentale non comporta l’inammissibilità del gravame, con¬sentendo semmai all’appellante principale di ottenere, ove lo richieda, il differimento dell’udienza, per meglio articolare le proprie difese.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 novembre 2017, n. 27695 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale tra coniugi, la domanda rivolta a richiedere un assegno di natura alimentare costituisce un “minus” ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge. Ne consegue che la relativa istanza – ancorché formulata per la prima volta in appello in conse¬guenza della dichiarazione di addebito – è ammissibile, non essendo qualificabile come nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., attesa anche la natura degli interessi ad essa sottostanti.
Cass. Civ. Sez. Unite, 16 novembre 2017, n. 27199 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara indi¬viduazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giu¬dice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 25 settembre 2017, n. 22314 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti in camera di consiglio che si svolgono nei confronti di più parti ed anche in quelli contenziosi assoggettati per legge al rito camerale, è la notificazione del decreto effettuata ad istanza di parte e non la co¬municazione del cancelliere a far decorrere – tanto per il destinatario della notifica quanto per il notificante – il termine di dieci giorni per la proposizione del reclamo ai sensi dell’art. 739, comma 2, c.p.c. .
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2017, n. 3302 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il decreto emesso ai sensi dell’art. 317-bis c.c. ha natura sostanziale di sentenza, presentando i requisiti della decisorietà, risolvendo una controversia tra contrapposte posizioni di diritto soggettivo, e della definitività, con efficacia assimilabile, “rebus sic stantibus”, a quella del giudicato; pertanto, in relazione a tale decreto, debbono applicarsi i termini di impugnazione dettati dagli artt. 325 e 327 c.p.c., trattandosi di appello da proporsi me¬diante ricorso, e non di reclamo ex art. 739 c.p.c.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 19 luglio 2016, n. 14731 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti di impugnazione che si svolgono con rito camerale, il gravame è ritualmente proposto con il tempestivo deposito del ricorso in cancelleria, mentre la notifica dello stesso e del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza risponde esclusivamente alla finalità di assicurare l’instaurazione del contraddittorio, sicché la scadenza del termine all’uopo fissato, non preceduta dalla valida effettuazione della notifica o dalla presentazione di un’istanza di proroga, non comporta alcun effetto preclusivo, ma implica soltanto la necessità di procedere alla fissazione di un nuovo termine, a meno che la controparte non si sia costituita in giudizio, in tal modo sanando il predetto vizio, con efficacia ex “tunc”.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 maggio 2016, n. 10099 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio (così come quelli attinenti al regime di separazione), postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali e reddituali, e anche, eventual¬mente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni, con la conseguenza che il giudice d’appello è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatasi nelle more del giudizio.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 aprile 2016, n. 7451 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, è inammissibile la domanda di attribuzione dell’assegno di mante¬nimento proposta, per la prima volta, in appello, in violazione dell’art. 345 c.p.c., a nulla rilevando che la parte istante sia rimasta contumace in primo grado.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 dicembre 2015, n. 25420 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di assegno di mantenimento per il figlio, il giudizio riguarda la conservazione del contenuto reale del credito fatto valere con la domanda originaria, sicché il genitore istante può chiedere un adeguamento del relati¬vo ammontare alla stregua della svalutazione monetaria o del sopravvento di altre circostanze, verificatesi nelle more del giudizio, in particolare relative alle mutate condizioni economiche dell’obbligato ovvero alle accresciute esigenze del figlio. Ne deriva che la proposizione, in primo grado o in appello, di simili istanze o eccezioni non ricade sotto il divieto di “ius novorum”, né con riguardo al giudizio di primo grado (art. 183, comma 4, c.p.c.), né con riguardo al giudizio di appello (art. 345, comma 1, c.p.c.).
Cass. civ. Sez. VI – 1, 16 settembre 2015, n. 18194 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la legge n. 54 del 2006 ha equiparato la posizione dei figli nati “more uxorio” a quella dei figli nati da genitori coniugati, estendendo la disciplina in materia di separa¬zione e divorzio anche ai procedimenti ex art. 317 bis c.c., che hanno assunto autonomia procedimentale rispetto ai procedimenti di cui agli artt. 330, 333 e 336 c.c., senza che abbia alcun rilievo il rito camerale. Ne consegue che i decreti emessi dalla corte d’appello avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 317 bis c.c. relativi ai figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., ora equiparato sostanzialmente al ricorso ordinario in forza del richiamo operato dall’ultimo comma dell’art. 360 c.p.c. ai commi 1 e 3 (nel testo novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006)
Cass. civ. Sez. I, 20 luglio 2015, n. 15137 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi di separazione personale dei coniugi, cui le disposizioni processuali in materia di divorzio sono appli¬cabili ai sensi dell’art. 23, L. n. 74 del 1987, la proposizione dell’appello, che avviene secondo il rito camerale, si perfeziona, ex art. 8 della stessa legge, con il deposito, nei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., del ricorso nella cancelleria del giudice ad quem, che impedisce ogni decadenza dell’impugnazione, con la conseguenza che ogni eventuale vizio, o inesistenza, giuridica o di fatto, della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di discussione non si comunica all’impugnazione ormai perfezionatasi, ma impone al giudice che rilevi il vizio di indicarlo all’appellante perché provveda a rimuoverlo nel termine all’uopo assegnatogli.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11882 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’assegno di mantenimento per i figli minori, a carico del genitore non collocatario, va de¬terminato dal giudice, anche ricorrendo ai suoi poteri istruttori di ufficio, in modo da assicurare tutte le attuali necessità di assistenza morale e materiale, di cura e di educazione, dei figli medesimi, comprensive dell’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, da rapportarsi al tenore di vita loro concretamente assicurato nel corso della convivenza e da apprezzarsi, alla stregua del principio di proporzionalità, sia in relazione al livello economico-sociale del nucleo familiare, sia alle sostanze e ai redditi dei genitori, nonché alla loro capacità di lavoro, professionale e casalingo, anche in deroga ad eventuali accordi intervenuti tra i genitori stessi, che co-munque non possono incidere sull’entità dell’apporto, ma solo sulle modalità della contribuzione
Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8096 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio pronunciata su domanda congiunta dei coniugi è appellabile per dolo revocatorio.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1798 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti in tema di famiglia retti dal rito camerale, le sopravvenienze e la relativa prova sono ammissibili e valutabili in sede di impugnazione, purché sia prestata osservanza al principio del contraddittorio. In tal senso, è ammissibile, in sede di impugnazione del provvedimento di rigetto dell’istanza volta ad ottenere l’aumento della contribuzione dovuta a titolo di mantenimento in favore del figlio maggiore di età, la produzione di docu¬mentazione idonea ad provare l’esito positivo dell’impegno da questi nelle more profuso negli studi universitari, qualora avvenuta alla presenza del difensore di parte avversa all’adunanza di discussione, il quale, tuttavia, non ha richiesto un termine per relativo esame e controdeduzioni, limitandosi a formulare una mera opposizione.
Cass. civ. Sez. I, 10 settembre 2014, n. 19002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 23 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l’appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo – ricorso, anziché citazione – alla decisione in camera di consiglio.
Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2014, n. 18870 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito sono soggette a riti diversi e non sono cumulabili nel medesimo giudizio, atteso che, trattandosi di cause tra le stesse parti e connesse solo parzialmente per “causa petendi”, sono riconducibili alla previsione di cui all’art. 33 cod. proc. civ. laddove il successivo art. 40, nel testo novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 consente il cumulo nell’unico pro¬cesso di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione “per subordinazione” o “forte” (artt. 31, 32, 34, 35 e 36, cod. proc. civ.), stabilendo che le stesse, cumulativamente proposte o successivamente riunite, devono essere trattate secondo il rito ordinario, salva l’applicazione del rito speciale qualora una di esse riguardi una controversia di lavoro o previdenziale.
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza resa all’esito di un procedimento di divorzio contenzioso che recepisca integralmente le conclusioni conformi dei coniugi non può essere impugnata in appello da questi ultimi per carenza di interesse ad impugnare.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6289 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove, a sostegno della richiesta di diminuzione dell’assegno di divorzio, siano allegati sopravvenuti oneri familiari dell’obbligato, il giudice deve verificare se si determini un effettivo depauperamento delle sue sostanze in vista di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti, salvo che la complessiva situazione patrimo¬niale dell’obbligato sia di tale consistenza da rendere irrilevanti i nuovi oneri. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva correttamente valutato il nuovo matrimonio dell’obbligato e la nascita di un altro figlio come circostanze giustificative della modifica dell’entità dell’assegno divorzile, in correlazione all’onere, sullo stesso gravante in via esclusiva, di provvedere al mantenimento del figlio nato dal primo matrimonio).
Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 2013, n. 25211 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di procedimento di impugnazione con rito camerale, poiché il termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza ha la mera funzione di instaurare il contraddittorio, la sua inos¬servanza, senza preventiva presentazione dell’istanza di proroga, non ha alcun effetto preclusivo, implicando soltanto la necessità di fissarne uno nuovo ove la controparte non si sia costituita, mentre l’avvenuta costituzione di quest’ultima ha efficacia sanante “ex tunc” di tale vizio. (Così statuendo, la S.C. ha cassato l’impugnato decre¬to che aveva ritenuto improcedibile il reclamo avverso il provvedimento di modifica delle condizioni previste in una sentenza di divorzio per carenza di notificazione del relativo ricorso, con il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza, non essendosi attivato il difensore del reclamante per venire a conoscenza di quest’ultimo e notifi¬carlo benché emesso diversi mesi prima dell’udienza ivi fissata).
Cass. civ. Sez. I, 21 agosto 2013, n. 19326 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La costituzione di un nuovo nucleo familiare deve essere valutata ai fini della determinazione dell’importo dell’as¬segno divorzile dovuto all’ex coniuge. In particolare, inoltre, ove, a sostegno della richiesta di diminuzione dell’assegno di divorzio, siano allegati sopravvenuti oneri familiari dell’obbligato, il giudice deve verificare se si determini un effettivo depauperamento delle sue sostanze in vista di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti, salvo che la complessiva situazione patrimoniale dell’obbligato sia di tale consistenza da rendere irrilevanti i nuovi oneri.
Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2013, n. 18130 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La morte di uno dei coniugi, sopravvenuta in pendenza del giudizio di separazione personale o di divorzio, anche nella fase di legittimità, comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici; né il figlio maggiorenne non autosufficiente potrebbe coltivare una domanda di assegno nei confronti dell’obbligato ormai deceduto o, trattandosi di rapporto personale, proce¬dere nei confronti di eventuali altri eredi.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17202 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti di impugnazione che si svolgono con rito camerale (nella specie, in materia di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore), l’omessa notificazione del ricorso nel termine assegnato nel decreto di fissazione d’udienza determina l’improcedibilità dell’appello, in quanto, pur trattandosi di un termine ordinatorio ex art. 154 cod. proc. civ., si determina la decadenza dell’attività processuale cui è finalizzato, in mancanza d’istanza di proroga prima della scadenza.
App. Napoli, 17 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di procedimenti camerali, introdotti con ricorso, è improcedibile l’atto di appello che, pur essendo stato depositato tempestivamente, nondimeno sia stato notificato dopo il decorso del termine fissato con decreto dal giudice – nella specie il presidente del tribunale, trattandosi di giudizio di separazione personale dei coniugi – sempre però che quel decreto sia stato tempestivamente comunicato alla parte medesima.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2013, n. 10718 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale tra coniugi, la domanda rivolta a richiedere un assegno di natura alimentare costituisce un “minus” ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge. Ne consegue che la relativa istanza – ancorché formulata per la prima volta in appello in conse¬guenza della dichiarazione di addebito – è ammissibile, non essendo qualificabile come nuova ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ., attesa anche la natura degli interessi ad essa sottostanti.
Cass. civ. Sez. Unite, 5 febbraio 2013, n. 2593 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella controversia inerente la prosecuzione dell’occupazione dell’immobile, al di fuori di qualsiasi rapporto con¬trattuale, è inammissibile l’intervento del terzo che sia portatore di una posizione giuridica soggettiva di mero fatto e legata ad un’aspettativa meramente ipotetica. Detto principio è stato riaffermato dalla giurisprudenza consolidata della S.C. allorché ha escluso che il diritto che a norma dell’art. 105, comma 1°, c.p.c., può essere fatto valere in un processo pendente tra le parti, in conflitto tra loro, legittimante l’autonoma impugnazione della sentenza che abbia statuito in senso sfavorevole alla situazione giuridica vantata, deve essere dipendente dal titolo e quindi deve essere individuabile con riferimento al petitum ed alla causa petendi. Ove non ricorrano detti presupposti, non è ammissibile l’intervento nel processo di nuove parti.
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2012, n. 9770 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Dall’estensione delle regole introdotte in materia di separazione e divorzio anche in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ad opera della Legge dell’8 febbraio 2006 n. 54 discende, da un alto, che l’art. 317- bis c.c. assume una sua autonomia procedimentale rispetto a quelli di cui agli artt. 330, 333 e 336 del ridetto civile, indipendentemente dalla natura di rito camerale fondata su ragioni di celerità e snellezza; dall’altro che i provvedimenti emessi dalla Corte di Appello, sezione per i minorenni, in sede di reclamo avverso i provvedimenti adottati ex art. 317-bis c.c. surrichiamato e relativi all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ed alle con¬seguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2012, n. 6753 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel rito del lavoro, e in particolare nella materia della previdenza e assistenza, stante l’esigenza di contempe¬rare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 cod. proc. civ., ove reputi insuf¬ficienti le prove già acquisite, può in via eccezionale ammettere, anche d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati pun¬tualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 aprile 2012, n. 5992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’interventore adesivo non ha un’autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l’impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese imposte a suo ca¬rico), sicché la sua impugnazione è inammissibile, laddove la parte adiuvata non abbia esercitato il proprio diritto di proporre impugnazione ovvero abbia fatto acquiescenza alla decisione ad essa sfavorevole; inoltre, esso non vanta un interesse concreto ed attuale all’impugnazione di affermazioni pregiudizievoli contenute nella sentenza favorevole, qualora svolte in via incidentale e sprovviste della forza vincolante del giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5876 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di appello, nel rito camerale di cui all’art. 4, comma dodicesimo, della legge n. 898 del 1970 (Legge Divorzio) l’allegazione di documenti può eseguirsi anche oltre i termini fissati a tal fine, ma a condizione che sia rispettato il diritto dell’altra parte ad interloquire sulla tardiva produzione documentale.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5651 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impugnazione avverso la sentenza di primo grado di divorzio, la mancata comparizione, all’udienza fissata, della parte che ha proposto il gravame non è causa di improcedibilità, dal momento che tale ipotesi non è in alcun modo regolata dalla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 737 e seguenti cod. proc. civ. A tale mancanza deve porsi rimedio facendo riferimento alle norme generali sull’appello, ed, in particolare, all’art. 348 cod. proc. civ., cui non osta l’esigenza di celerità sottesa alla previsione del rito camerale; tale esigenza non consente peraltro di parificare il procedimento di divorzio a quello di cassazione, nel quale la mancata comparizione non comporta il rinvio della causa ad una nuova udienza.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 (Giur. It., 2012, 6, 1288, nota di SAVI)
È ammissibile nei giudizi di separazione e divorzio l’intervento del figlio maggiorenne che abbia diritto al man¬tenimento, in tale veste legittimato in via prioritaria a ottenere il versamento diretto del contributo. L’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controversia, o even¬tualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento del contributo al mantenimento sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
Nei giudizi di separazione o di divorzio, alla luce della introduzione dell’art. 155-quinquies c.c., l’intervento in giudizio, per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia, o eventualmente in via adesiva, del figlio maggiorenne, il quale, in quanto economicamente dipendente e sotto certi aspetti assimilabile al minorenne (in ordine al quale, proprio in epoca recente, in attuazione del principio del giusto processo, si tende a realizzare forme di partecipazione e di rappresentanza sempre più incisive), assolve, latu sensu, una funzione di amplia¬mento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento – anche in forma ripartita – del contributo al mantenimento, sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
È legittimo l’intervento in giudizio ex art. 105 c.p.c. sia principale che litisconsortile, del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economicamente, nella causa di separazione coniugale dei propri genitori, volto ad otte¬nere il contributo al proprio mantenimento, per proseguire gli studi universitari; detto intervento, inquadrabile nella fattispecie sostanziale di cui all’art. 155 quinquies, comma 1, c.c., concerne un diritto relativo all’oggetto della lite ed ampliando il contraddittorio consente un simultaneus processus avanti al giudice del merito che deve decidere in ordine all’entità e al versamento dell’assegno di mantenimento, sulla base dell’analisi delle istanze proposte da tutti gli interessati.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reclamo avverso i provvedimenti di modifica delle condizioni del divorzio, resi dal tribunale ai sensi dell’art. 9, primo comma, legge 1° dicembre 1970, n. 898, costituisce un mezzo di impugnazione, ancorché devolutivo, e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del “devolutum” e delle censure formulate ed in correlazione alle domande proposte in quella sede con la conseguenza che in sede di reclamo, mentre possono essere allegati, stante la libertà di forme proprie del procedimento, fatti nuovi, non possono essere proposte nuove eccezioni in senso stretto, che snaturerebbero il reclamo stesso quale mezzo di impugna¬zione e, come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento.
Cass. civ. Sez. I, 27 dicembre 2011, n. 28902 (Famiglia e Diritto, 2012, 4, 348 nota di VULLO)
In assenza di un dato normativo che autorizzi un’iniziativa sul piano giudiziario degli ascendenti, come avviene nei giudizi de potestate (art. 336 c.c., comma 1), non è consentito l’intervento degli stessi nei giudizi di separa¬zione e di divorzio, nei quali la posizione dei minori è tutelata sotto forme che non prevedono la loro assunzione della qualità di parte, né uno specifico diritto di difesa, come avviene nei procedimenti di adozione. D’altra parte, una lettura sistematica del quadro normativo, alla luce delle norme che disciplinano la revisione delle condizioni della separazione e che sono intese a dirimere i conflitti fra genitori induce a ritenere che questi ultimi siano gli unici soggetti cui è affidata la legittimazione sostitutiva all’esercizio dei diritti dei minori.
Anche in seguito alla novella dell’art. 155, comma 1, c.c., operata dalla legge n. 54/2006 gli ascendenti non sono titolari di alcun diritto a conservare rapporti e relazioni con i nipoti, ma solo di un mero interesse di natura morale o affettiva, il quale non legittima gli ascendenti stessi a intervenire nei giudizi di separazione e di divorzio.
Corte d’Appello Palermo Sez. I, 19 dicembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rito camerale, previsto per l’appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale, come, da un lato, non preclude la proponibilità dell’appello incidentale, anche indipendentemente dalla scadenza del termine per l’esperimento del gravame in via principale, così, dall’altro, risultando caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicabilità delle norme che regolano il processo ordi¬nario e, in particolare, del termine perentorio fissato, per la relativa proposizione, dal primo comma dell’articolo 343 del codice di procedura civile, dal momento che il principio del contraddittorio viene rispettato, in appello, per il solo fatto che il gravame incidentale sia portato a conoscenza della parte avversa entro limiti di tempo tali da assicurare a quest’ultima la possibilità di far valere le proprie ragioni mediante organizzazione di una tempe¬stiva difesa tecnica, da svolgere sia in sede di udienza camerale sia al termine dell’inchiesta.
Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27086 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti che si svolgono con il rito camerale, quale quello avverso una sentenza di separazione perso¬nale di coniugi, l’omessa notificazione del ricorso nel termine assegnato nel decreto di fissazione d’udienza de¬termina l’improcedibilità dell’appello, in quanto, pur trattandosi di un termine ordinatorio ex art. 154 cod. proc. civ., si determina la decadenza dell’attività processuale cui è finalizzato, in mancanza d’istanza di proroga prima della scadenza. Tale sanzione non è esclusa dalla mancata comunicazione a cura della cancelleria del decreto di fissazione d’udienza, atteso che, nei procedimenti camerali, il giudice è tenuto solo al deposito del decreto, ma non anche a disporne la relativa comunicazione, incombendo sul ricorrente l’obbligo di attivarsi per prendere cognizione dell’esito del proprio ricorso.
Cass. civ. Sez. I, 13 ottobre 2011, n. 21161 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento d’impugnazione delle sentenze di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il giudizio di appello è soggetto al rito camerale, onde l’impugnazione va proposta con ricorso e non con atto di citazione, che resta peraltro ammissibile, purché, nel termine perentorio di trenta giorni dalla notificazione della sentenza di primo grado, sia non soltanto notificato, ma altresì depositato in cancelleria, con l’iscrizione della causa al ruolo.
Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2011, n. 8754 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di revisione dell’assegno di divorzio, la sopravvenuta diminuzione dei redditi da occupazione lavorativa dell’obbligato (nella specie collocato in pensione con decremento del cespite monetario di circa la metà rispetto allo stipendio ed incremento patrimoniale di mera quota “pro indiviso” al 50 per cento di due terreni agricoli aventi modesta redditualità), è suscettibile di assumere rilievo, quale possibile giustificato motivo di riduzione o soppressione dell’assegno, ai sensi dell’art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel quadro di una rinnova¬tavalutazione comparativa della situazione economica delle parti ed in quanto risulti oggettivamente idonea ad alterare l’equilibrio già determinato al momento della pronuncia di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2011, n. 6319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ impugnazione avverso il decreto con il quale si regola l’affidamento dei figli di genitori non coniugati va pro¬posta nel rispetto dei termini previsti dal codice di rito per l’impugnazione delle sentenze e non di quelli previsti dalla disciplina generale dei procedimenti in camera di consiglio.
Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2010, n. 11992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti di impugnazione che si svolgono con rito camerale (nella specie, in materia di assegno divor¬zile), l’appello, pur tempestivamente proposto mediante il deposito del ricorso nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell’udienza non sia avvenuta nel termine prescritto, non essendo consentito al giudice – alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata, imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo ex art. 111, secondo comma, Cost. – di assegnare all’appellante, previa fissazione di un’altra udienza di discussione, un nuovo termine per provvedervi, a norma dell’art. 291 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’ammissibilità dell’intervento di un terzo in un giudizio pendente tra altre parti è sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento implicante l’opportunità di un “simultaneus pro¬cessus”. In particolare, la facoltà di intervento in giudizio, per far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto in causa, deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della “legitimatio ad causam”, attenendo questa alle condizioni dell’azione e non ai presupposti processuali.
Cass. civ. Sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23032 (Famiglia e Diritto, 2010, 2, 115 nota di DOSI)
In tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la legge n. 54 del 2006, dichiarando applicabili ai relativi procedimenti le regole da essa introdotte per quelli in materia di separazione e divorzio, esprime, per tale aspetto, un’evidente assimilazione della posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio, in tal modo conferendo una definitiva autonomia al procedimento di cui all’art. 317-bis cod. civ. rispetto a quelli di cui agli artt. 330, 333 e 336 cod. civ., ed avvicinandolo a quelli in materia di separazione e divorzio con figli minori, senza che assuma alcun rilievo la forma del rito camerale, previsto, anche in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza: ne consegue che, nel regime di cui alla legge n. 54 cit., sono impugnabili con il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., i provvedimenti emessi dalla corte d’appello, sezione per i minorenni, in sede di reclamo avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 317-bis relativamente all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare.
Trib. Macerata 22 ottobre 2009 (Giur. It., 2011, 1, 81, nota di SAVI)
Sussiste la legittimazione a spiegare l’intervento ex art. 105 c.p.c. del figlio divenuto maggiorenne nel corso del giudizio pendente tra i suoi genitori e volto alla revisione delle condizioni divorzili, già promosso dal genitore convivente in sua minore età, e volto all’attribuzione ed all’adeguamento dell’assegno di contributo al proprio mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22081 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La legittimazione all’intervento ad adiuvandum presuppone la titolarità nel terzo di una situazione giuridica in relazione di connessione – da individuarsi in termini di pregiudizialità dipendenza – con il rapporto dedotto in giu¬dizio, tale da esporlo ai cd. effetti riflessi del giudicato. Ciò posto, anche alla luce della novella di cui alla L. n. 54 del 2006 che notevolmente valorizza la posizione degli ascendenti e degli altri parenti di ciascun ramo genitoriale nei confronti del minore, non pare potersi riconoscersi la sussistenza di una posizione siffatta in capo ai menzio¬nati soggetti nell’ambito dei giudizi di separazione o divorzio, poiché immutati quanto alla natura, all’oggetto, ai diritti ed alle posizioni anche in seguito alla citata novella. (Fattispecie relativa al riconoscimento in appello della sussistenza di un interesse giuridicamente protetto in capo ai nonni, legittimante i medesimi ad un intervento ad adiuvandum ex art. 105, comma secondo, c.p.c. nel giudizio di separazione. Il Giudice di legittimità cassa senza rinvio la pronuncia impugnata).
Nel giudizio di separazione personale la legittimazione ad agire spetta unicamente ai coniugi, non potendosi ravvisare la sussistenza di diritti relativi all’oggetto o dipendenti dal titolo dedotto nel processo che possano legittimare un intervento di terzi ovvero un interesse di terzi a sostenere le ragioni di una delle parti sul quale fondare un intervento ad adiuvandum.
Trib. Napoli Sez. I, 23 luglio 2009 (Famiglia e Diritto, 2009, 12, 1136, nota di ARCERI)
La legittimazione del figlio maggiorenne a spiegare intervento nel procedimento di separazione o divorzio tra i genitori (o per la modifica delle relative statuizioni) presuppone, indefettibilmente, che il figlio maggiorenne continui a convivere con uno dei genitori, e che la situazione di non autosufficienza perduri a far tempo dal rag¬giungimento della maggiore età, senza soluzione di continuità.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2009, n. 16801 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta successivamente alla morte di una delle parti, è ammissibile l’appello della parte superstite, al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere nella causa di divorzio, ormai priva di oggetto, essendo gli effetti civili del matrimonio già venuti meno, per la morte di uno dei coniugi, ai sensi dell’art. 149 cod. civ.; nel giudizio d’impugnazione, gli eredi della parte deceduta sono legittimati processuali ex art. 110 cod. proc. civ, in qualità di successori universali della parte deceduta, anche se ad essi non sia trasmesso o non sia trasmissibile il diritto controverso.
Cass. civ. Sez. Unite, 5 maggio 2009, n. 10274 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto che, ai sensi dell’art. 105, comma primo, cod. proc. civ., il terzo può far valere in un giudizio pendente tra altre parti, deve essere relativo all’oggetto sostanziale dell’originaria controversia, da individuarsi con riferi¬mento al “petitum” ed alla “causa petendi”, ovvero dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo a fon¬damento della domanda giudiziale originaria, restando irrilevante la mera identità di alcune questioni di diritto, la quale, configurando una connessione impropria, non consente l’intervento del terzo nel processo.
Cass. civ. Sez. II, 16 febbraio 2009, n. 3734 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La parte che svolge intervento adesivo dipendente, ai sensi del secondo comma dell’art. 105 c.p.c. – che si ha quando il terzo sostiene le ragioni di una parte senza proporre nuove domande ed ampliare il tema del conten¬dere – può aderire all’impugnazione proposta dalla parte medesima ma non proporre impugnazione autonoma, la quale deve essere dichiarata inammissibile.
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2184 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Secondo quanto già affermato da questa Corte (Cass. 2005/1824; 2007/16398), la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio (così come quelli attinenti al regime di separazione), postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali e reddituali, e anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni (oltre che di disporne la modifica in un successivo giudizio di revisione), con la conseguenza che il giudice d’appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatasi nelle more del giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 2008, n. 10932 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale fra i coniugi, il decreto omologativo di detta separazione, essendo privo dei caratteri della definitività e della decisorietà, poiché incide su diritti soggettivi, senza tuttavia decidere su di essi e non ha attitudine ad acquistare l’efficacia del giudicato sostanziale, non è impugnabile in cassazione ex art. 111 Cost., con la conseguenza che gli eventuali vizi di legittimità non si convertono in motivi di gravame e sono in ogni tempo deducibili nell’ambito della giurisdizione camerale.
Cass. civ. Sez. I, 29 febbraio 2008, n. 5441 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La morte di uno dei coniugi sopravvenuta nel corso del giudizio di separazione personale comporta non l’estin¬zione del processo, bensì il venir meno della materia del contendere, travolgendo tutte le pronunce, emesse nel corso del procedimento, e non ancora passate in giudicato, comprese quelle relative alle istanze accessorie, comunque connesse alla separazione.
Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2007, n. 16398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda ex art.710 c.p.c. può essere esperita solo dopo che si sia formato il giudicato, sulla separazione mentre la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conse¬guenza della separazione, postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali o reddituali, ed anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni, con la conseguenza che il giudice di appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’ evoluzione delle condizioni delle parti verificatesi nelle more del giudizio.
Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’intervento principale o dell’intervento litisconsortile nel processo, anche se l’articolo 105 cod. proc. civ.esige che il diritto vantato dall’interveniente non sia limitato ad una meramente generica comunanza di riferimento al bene materiale in relazione al quale si fanno valere le antitetiche pretese delle parti, la diversa natura delle azioni esercitate, rispettivamente, dall’attore in via principale e dal convenuto in via riconvenzionale rispetto a quella esercitata dall’interveniente, o la diversità dei rapporti giuridici con le une e con l’altra dedotti in giudizio, non costituiscono elementi decisivi per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente a farlo ritenere ammissibile la circostanza che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato un collegamento di tal genere tra l’iniziale domanda di sequestro conservativo relativa alla quota ideale di un patrimonio comune e quella di divisione dello stesso patrimonio).
Cass. civ. Sez. I, 12 gennaio 2007, n. 565 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti di natura contenziosa che si svolgono con il rito camerale (quale il giudizio di appello in materia di divorzio, ai sensi dell’art. 4, dodicesimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, e succ. modif.), deve essere assicurato il diritto di difesa e , quindi, realizzato il principio del contraddittorio; tuttavia, trattandosi di procedimenti caratterizzati da particolare celerità e semplicità di forme, ad essi non sono applicabili le dispo¬sizioni proprie del processo di cognizione ordinaria e, segnatamente, quelle di cui agli artt. 189 (Rimessione al collegio) e 190 (Comparse conclusionali e memorie) cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26158 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge n. 353 del 1990, soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ. Pertanto, non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, e di quella di divisione dei beni comuni, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra.
Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove, a sostegno della richiesta di revisione nel senso della diminuzione o della soppressione dell’assegno di di¬vorzio, siano allegati sopravvenuti oneri familiari dell’obbligato (derivanti, nella specie, dalla nascita di due figli, generati dalla successiva unione), il giudice deve verificare se detta sopravvenienza determini un effettivo depau¬peramento delle sue sostanze, facendo carico all’istante – in vista di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti – di offrire un esauriente quadro in ordine alle proprie condizioni economico-patrimoniali.
Cass. civ. Sez. III, 23 maggio 2006, n. 12114 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’intervento in appello è ammissibile soltanto quando l’interventore sia legittimato a proporre opposizione di terzo ai sensi dell’art. 404 c.p.c., ossia nel caso in cui egli rivendichi, nei confronti di entrambe le parti, la tito¬larità di un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione accertata o costituita dalla sentenza di primo grado, e non anche quando l’intervento stesso sia qualificabile come adesivo, perché volto a sostenere l’impugnazione di una delle parti per porsi al riparo da un pregiudizio mediato dipendente da un rapporto che lega il diritto dell’interventore a quello di una delle parti.
Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2006, n. 5378 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di revisione dell’assegno divorzile, la sopravvenuta riduzione dei redditi di lavoro dell’obbligato, anche se dipendente da una libera scelta del medesimo riguardo all’oggetto ed alle modalità di svolgimento della propria attività lavorativa, quale quella di svolgerla non più a tempo pieno ma a tempo parziale, può costituire giustifi¬cato motivo di riduzione o di soppressione dell’assegno, atteso da un lato che tale scelta, anche non dettata da specifiche esigenze familiari o di salute, è insindacabile, in quanto esplicitazione di un fondamentale diritto di libertà della persona, dall’altro che la legge comunque non attribuisce al giudice il potere di sindacare le cause dei sopravvenuti mutamenti delle condizioni economiche delle parti, dovendo egli solo accertare se ne derivi – nel quadro di una rinnovata valutazione comparativa – la obiettiva, significativa alterazione dell’assetto economico complessivo originariamente scaturente dalla sentenza di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2006, n. 3836 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi del combinato disposto della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 4, comma 12, – quale sostituito della L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 8 – e dell’art. 23, comma 1, ultima legge, il rito camerale, previsto per l’appello avverso le sentenze di divorzio, deve considerarsi esteso anche a quello avverso le sentenze di separazione personale.
Il giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado in tema di separazione personale tra coniugi si svolge nelle forme del rito camerale, ai sensi dell’art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, applicabile ai giudizi di separazione, secondo quanto disposto dall’art. 23, primo comma, di quest’ultima legge, sicchè ben può la corte d’appello, investita della cognizione del gravame, decidere la controversia nella stessa udienza fissata dal presidente con decreto in calce al ricorso notificato alla controparte, non trovando applicazione, in materia, la disposizione di cui all’art. 352 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2338 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di revisione dell’assegno per il mantenimento dei figli, minori o maggiorenni non autosufficienti, nonché dell’assegno divorzile, al fine di verificare se ed in quale momento, successivamente alla sentenza di divorzio, sono sopravvenuti significativi mutamenti delle condizioni economiche degli ex coniugi, tali da giustificare l’au¬mento o la diminuzione dell’assegno, fino all’eventuale eliminazione, devono prendersi in considerazione tutti gli elementi atti ad incidere, in positivo o in negativo, sulla situazione patrimoniale e reddituale delle parti, sulla base di una rinnovata valutazione comparativa, quali esistenti al momento della decisione, ancorché intervenuti in corso di giudizio, anche in sede di reclamo.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1179 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rito camerale, previsto per l’ appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale, come, da un lato, non preclude la proponibilità dell’ appello incidentale, anche indipendentemente dalla scadenza del termine per l’esperimento del gravame in via principale, così, dall’altro, risultando caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicabilità delle norme che regolano il processo ordinario e, in particolare, del termine perentorio fissato, per la relativa proposizione, dal primo comma dell’art. 343 cod. proc. civ., dal momento che il principio del contraddittorio viene rispettato, in appello, per il solo fatto che il gravame incidentale sia portato a conoscenza della parte avversa entro limiti di tempo tali da assicurare a quest’ultima la possibilità di far valere le proprie ragioni mediante organizzazione di una tempestiva difesa tecnica, da svolgere sia in sede di udienza camerale sia al termine dell’inchiesta.
App. Roma, 27 luglio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giudizio di separazione, l’art. 23, comma 1, della legge 6 marzo 1987, n. 74, ha esteso il rito camerale previsto dall’art. 4, comma 12, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dalla legge dall’art. 8 della legge n. 74/1987, per l’appello avverso la sentenza di divorzio, alle impugnazioni in materia di separazione. Ne consegue che anche nel giudizio di separazione la proposizione dell’ appello deve avvenire mediante ricorso e non mediante atto di citazione, e che, ai fini della tempestività, il ricorso deve essere depositato nei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c. Ulteriore conseguenza è l’inammissibilità dell’ appello proposto con citazione, salvo che, in applicazione del principio generale della sanatoria per raggiungimento dello scopo, la citazione sia stata, oltre che notificata, anche depositata presso la cancelleria del giudice ad quem entro i termini di legge, non rilevando la data della notificazione dell’atto di appello alla controparte.
Cass. civ. Sez. I, 10 giugno 2005, n. 12291 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di appello, anche nelle controversie di divorzio (e di separazione personale dei coniugi) sono inam¬missibili nuovi mezzi di prova ancorché si tratti di prove documentali, salvo che il collegio ritenga tali mezzi indispensabili ai fini della decisione o la parte dimostri di non averli potuto produrre nel giudizio di primo grado, per causa a lei non imputabile. La violazione del divieto in parola, comunque, può essere ravvisata solo allorché una tale produzione abbia avuto rilievo decisivo ai fini della pronuncia, traducendosi in tale caso in un difetto di motivazione. (Nella specie, in applicazione del riferito principio la Suprema corte pur affermando l’irritualità della produzione di nuovi documenti in appello, ha affermato che non poteva pervenirsi alla cassazione della sentenza impugnata perché nell’ambito della motivazione il richiamo ai documenti inammissibilmente prodotti dall’appel¬lante aveva assunto un aspetto meramente marginale).
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2005, n. 1824 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come quelli attinenti al regime di separazione, postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali e reddituali, e anche, eventual¬mente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni (oltre che di disporne la modifica in un successivo giudizio di revisione), con la conseguenza che non solo il Giudice d’appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’ evoluzione delle condizioni delle parti verificatasi nelle more del giudizio, ma che anche il giudice del rinvio, a sua volta nel rispetto dei limiti posti dalla pronuncia rescindente, deve procedere a tale valutazione.
Cass. civ. Sez. I, 30 agosto 2004, n. 17404 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 40 del c.p.c. (nel testo novellato dalla legge n, 353 del 1990) consente nello stesso processo il cu¬mulo di domande soggette a riti diversi solo in presenza di ipotesi qualificate di connessione così escludendo la possibilità di proporre nello stesso giudizio più domande, connesse soggettivamente, ai sensi dell’articolo 33 e 133 del c.p.c., ma soggette a riti diversi. Deriva, da quanto precede, pertanto, che ove sia stata proposta, nella forma del rito camerale, domanda diretta all’attribuzione di un assegno di divorzio (escluso con la sentenza dichiarativa dello scioglimento del matrimonio) deve essere cassato il provvedimento che oltre a statuire su tale richiesta abbia anche attribuito all’ex coniuge richiedente, una quota del trattamento di fine rapporto non sulla base dell’articolo 12-bis della legge n. 898 del 1970, sul divorzio, ma in applicazione di una scrittura privata sot¬toscritta dalle parti prima della pronuncia di divorzio. Non sussiste, infatti, alcun rapporto di consequenzialità, tra la domanda di riconoscimento del diritto alla percezione di un assegno divorzile e la domanda di riconoscimento a una quota del trattamento di fine rapporto fondata su una scrittura privata.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13660 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi (come anche di divorzio) per la proposizione dell’appello i termini di cui agli articoli 325 e 327 del c.p.c. (a seconda che la sentenza impugnando sia stata, o meno, notificata) sono os¬servati solo quando prima della loro scadenza il ricorso o un atto equipollente sia stato depositato nella cancelleria del giudice ad quem. A nulla rileva, pertanto, la notificazione previamente effettuata all’appellato prima della sca¬denza del detto termine, ove la citazione non sia depositata, entro lo stesso presso la cancelleria del giudice adito.
Ai sensi del combinato disposto della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 4, comma 12, – quale sostituito della L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 8 – e dell’art. 23, comma 1, ultima legge, il rito camerale, previsto per l’appello avverso le sentenze di divorzio, deve considerarsi esteso anche a quello avverso le sentenze di separazione personale.
In tema di impugnazione della sentenza di separazione personale tra coniugi, la disposizione normativa secondo la quale l’appello è deciso in camera di consiglio (art. 8 legge n. 74/1987) deve essere interpretata nel senso che essa postula l’applicazione del rito camerale con riferimento all’intero giudizio di impugnazione, con la conseguenza che la proposizione dell’ appello si perfeziona con il deposito del relativo ricorso in cancelleria, nel termine perentorio di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c. (costituendo la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza un momento meramente esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio di impugnazione, funzionale soltanto all’instaurazione del contraddittorio); ove comunque l’ appello sia stato introdotto con atto di citazione e non con ricorso, non si ha la nullità dell’impugnazione, in applicazione del ge¬nerale principio di conservazione degli atti processuali, se l’atto viziato ha i requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo ed il relativo deposito nella cancelleria del giudice adito sia avvenuto entro i termini perentori fissati dalla legge.
Cass. civ. Sez. I, 20 luglio 2004, n. 13422 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per effetto del disposto dell’articolo 394, comma 1, del c.p.c., secondo cui in sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la Suprema corte ha rinviato la causa, il giudizio conse¬guente alla cassazione di una sentenza emessa dalla Corte d’appello in sede di impugnazione avverso la decisio¬ne resa dal giudice di primo grado in materia di separazione personale dei coniugi o di divorzio, si deve svolgere con il rito camerale e, pertanto, va instaurato con ricorso, onde la tempestività della riassunzione di detto giu¬dizio, in relazione al termine di decadenza fissato dall’articolo 392, comma 1, del c.p.c. deve essere riscontrato avuto riguardo alla data del deposito di quel ricorso nella cancelleria del giudice del rinvio. La riassunzione del processo con atto di riassunzione, anziché con ricorso, non determina – in forza del principio della conversione degli atti viziati nella forma – l’inammissibilità del relativo giudizio qualora questo, oltre a essersi svolto nella sede sua propria, sia stato trattato e deciso con il rispetto sostanziale di tutte le peculiarità del procedimento camerale, ovvero quando, nei termini perentori fissati dalla legge, la citazione, indipendentemente dalla sua notificazione alle altre parti, sia stata depositata in cancelleria, potendo il rapporto processuale ritenersi tempe¬stivamente instaurato solo se un simile deposito risulti intervenuto nella pendenza dei termini sopra menzionati.
Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di procedimento di separazione dei coniugi (e di divorzio) l’articolo 4, comma 12 della legge 898 del 1970(come sostituito dall’articolo 8, legge 74 del 1987) secondo cui l’appello è deciso in camera di consiglio, se, da un lato, richiama il procedimento di cui agli articoli 737 e seguenti del c.p.c., dall’altro non esclude l’appli¬cabilità di quelle norme che disciplinano l’ appello nel processo ordinario, come tra le altre, quelle sull’ appello incidentale, non essendo queste incompatibili con il rito camerale né incidendo sulla celerità del relativo giudizio. Deve concludersi, pertanto, che anche nei giudizi di separazione e di divorzio, in grado di appello, è ammissibile l’ appello in via incidentale da depositare al più tardi, entro la prima udienza, ai sensi del vecchio testo dell’articolo 343 del codice di procedura civile.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 giugno 2004, n. 11353 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, ove il giudice reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori solleci¬tati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 giugno 2004, n. 10530 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto che, a norma dell’art. 105 c.p.c. primo comma, il terzo può far valere in un processo pendente tra altre parti, in conflitto con esse (ipotesi nella quale si configura un intervento principale) o solo con alcune di esse (ipotesi di intervento litisconsortile o adesivo autonomo), legittimante l’autonoma impugnazione della sentenza che abbia statuito in senso sfavorevole alla parte adiuvata, a differenza dell’intervento meramente adesivo, escludente tale legittimazione, – deve essere relativo all’oggetto, ovvero dipendente dal titolo, e, quindi, indivi¬duabile, rispettivamente, con riferimento al “petitum” o alla “causa petendi”.
Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2004, n. 8424 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 6, comma nono, della legge n. 898 del 1970, come l’art. 155, comma settimo, cod. civ. in materia di sepa¬razione, disponendo che i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli ed al contributo per il loro mantenimento “possono essere diversi rispetto alle domande delle parti o al loro accordo, ed emessi dopo l’assunzione di mezzi di prova dedotti dalle parti o disposti d’ufficio dal giudice”, opera una deroga alle regole generali sull’onere della prova, attribuendo al giudice poteri istruttori di ufficio per finalità di natura pubblicistica, con la conseguenza che le domande delle parti non possono essere respinte sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano e che i provvedimenti da emettere devono essere ancorati ad un’adeguata verifica delle condi¬zioni patrimoniali dei genitori e delle esigenze di vita dei figli esperibile anche di ufficio.
Cass. civ. Sez. I, 13 settembre 2003, n. 2128 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’interventore adesivo dipendente, abilitato a iniziative collaterali e subordinate, rispetto a quelle della parte adiuvata. non ha il potere di proporre impugnazione (principale o incidentale) in caso di acquiescenza di detta parte.
Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2003, n. 380 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di procedimento d’appello avverso una sentenza di separazione o divorzio (soggetto allo stesso rito delle controversie di lavoro), il termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza ha la mera funzione di instaurare il contraddittorio e la notifica oltre il termine, senza preventiva presentazione dell’istanza di proroga (o come nella specie con richiesta di proroga, quando il termine indicato dal presidente era già scaduto), non può rivestire alcun effetto preclusivo. Pertanto, l’inutile decorso del termine fissato per la noti¬fica implica soltanto, nell’ipotesi di mancata costituzione dell’appellato, la necessità di fissare un nuovo termine, mentre, nell’ipotesi di costituzione dell’appellato, non impedisce la regolare instaurazione del contraddittorio, data l’efficacia sanante ex tunc di tale costituzione.
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2003, n. 507 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impugnazione della sentenza di divorzio (e di separazione), l’art. 8 della legge n. 74 del 1987(so¬stitutivo dell’art. 4, comma dodicesimo, della legge n. 898 del 1970), nel disporre che “l’appello è deciso in Camera di Consiglio”, deve essere interpretato come introduttivo del rito camerale per l’intero giudizio di impugnazione, con la conseguenza che la proposizione dell’appello si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria nel termine perentorio di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., mentre la notifica del detto ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza costituisce momento esterno e successivo alla fattispecie processuale intro¬duttiva del giudizio di impugnazione, diretto soltanto ad instaurare il contraddittorio, con la conseguenza che, depositato l’atto di appello, e tenuto conto che il termine fissato dal presidente del Collegio per la notificazione del ricorso e del pedissequo decreto non ha natura perentoria, l’inosservanza del detto termine non dà luogo ad inammissibilità o improcedibilità del gravame ma richiede – trattandosi di nullità sanabile -, oltre la previsione dei casi di cui all’art. 160 c.p.c., in mancanza di costituzione dell’appellato, la fissazione, da parte del giudice, di una nuova udienza, nonché la rinnovazione della notifica (con indicazione di un termine questa volta peren¬torio) ex art. 291 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2002, n. 10143 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando la legge imponga la introduzione del giudizio con citazione anziché con ricorso e l’adozione del rito ordinario anziché quello camerale, il fatto che il giudizio erroneamente sia introdotto con ricorso e si svolga col rito camerale non comporta la invalidità del giudizio stesso, per il principio della conversione degli atti nulli che abbiano raggiunto il loro scopo (art. 156 c.p.c.), quando dall’erronea inversione non sia derivato un concreto pregiudizio per alcuna delle parti relativamente al rispetto del contraddittorio, all’acquisizione delle prove e, più in generale, a quant’altro possa aver impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita nel giudizio ordinario.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2002, n. 6965 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di separazione personale tra coniugi, il p.m. deve intervenire a pena di nullità (art. 70 c.p.c.), ma non dispone di alcun potere, né di iniziativa, né di impugnativa della sentenza che lo conclude ex art. 72, comma 3, c.p.c. (a differenza di quanto previsto in tema di divorzio, nel cui procedimento egli assume, invece, la qualità di litisconsorte in presenza di figli minori o incapaci, ed ha potere di impugnativa della decisione conclusiva anche in ordine agli interessi patrimoniali dei detti figli), con conseguente esclusione della sua qualità di litisconsorte necessario nel giudizio “de quo”.
Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 2001, n. 14315 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’intervento in appello è ammesso solo a favore del terzo che potrebbe proporre opposizione ai sensi dell’art. 404 c.p.c., rimedio esperibile solo da chi faccia valere un diritto autonomo e incompatibile col rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza opposta, e quindi solo a favore di chi sia pregiudicato in un suo diritto, pur senza essere assoggettato agli effetti del giudicato. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione che aveva escluso la legittimazione ad intervenire in appello in un giudizio di disconoscimento della paternità del presunto padre naturale).
Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 2001, n. 3390 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale tra coniugi, il decreto omologativo di detta separazione non è impugnabile per Cassazione ex art. 111 cost. per mancanza dei richiesti caratteri di definitività e decisorietà. Esso, infatti, pur incidendo su diritti soggettivi, non decide sugli stessi, e non ha, pertanto, attitudine ad acquistare l’efficacia del giudicato sostanziale. Ne consegue altresì la inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111 cost. avverso il provvedimento della Corte d’appello che pronuncia sul reclamo avverso il decreto in questione.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2000, n. 15065 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 6, comma 9, legge n. 898 del 1970, come l’art. 155, comma 7, c.c. in materia di separazione, disponendo che i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli ed al contributo per il loro mantenimento “possono essere diversi rispetto alle domande delle parti o al loro accordo, ed emessi dopo l’assunzione di mezzi di prova dedotti dalle parti o disposti d’ufficio dal giudice”, opera una deroga alle regole generali sull’onere della prova, attribuen¬do al giudice poteri istruttori di ufficio per finalità di natura pubblicistica, con la conseguenza che le domande delle parti non possono essere respinte sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano e che i provvedimenti da emettere devono essere ancorati ad una adeguata verifica delle condizioni pa¬trimoniali dei genitori e delle esigenze di vita dei figli esperibile anche di ufficio. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza del giudice d’ appello che aveva ritenuto superate le esigenze prospettate dalla madre nel richiedere l’aumento dell’assegno per il figlio per aver il padre dichiarato, che questi non frequentava più la piscina, non era più iscritto a un istituto privato e no necessitava più di baby sitter, in assenza di una specifica contestazione della madre).
Cass. civ. Sez. I, 26 ottobre 2000, n. 14100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di impugnazione della sentenza di divorzio l’appello è soggetto al rito camerale ai sensi dell’art. 4, comma 12, l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74. Esso si propone, pertanto, con ricorso, che deve essere depositato nei termini perentori di cui agli art. 325 e 327 c.p.c.Peraltro, ove sia stato proposto con citazione, è da escluderne la nullità in applicazione del principio generale di conser¬vazione degli atti viziati, purchè il deposito della citazione nella cancelleria del giudice adito sia avvenuto entro i predetti termini perentori fissati dalla legge, a nulla rilevando, invece, a tal fine che negli stessi termini sia stata effettuata la notificazione all’appellato.
Cass. civ. Sez. I, 26 febbraio 2000, n. 2185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle controversie in materia di divorzio e separazione personale dei coniugi, poiché l’appello si perfeziona con il deposito nella cancelleria del giudice “ad quem” dell’atto di impugnazione, mentre la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza in camera di consiglio costituisce un adempimento successivo rivolto ad instaurare il contraddittorio tra le parti, qualora l’appello sia stato proposto con atto di citazione notifi¬cato e tempestivamente depositato, nessun ulteriore adempimento (quale la notifica dell’ordinanza o del decreto presidenziale che dispone il mutamento di rito) grava sull’appellante, posto che il contraddittorio, già instaurato con la notifica della citazione, è assicurato nella fase a rito camerale dalla comunicazione a cura della cancelleria, ai sensi dell’art. 134 c.p.c., del provvedimento di mutamento di rito pronunciato fuori udienza. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva dichiarato improcedibile l’appello – introdotto con citazione tempestivamente depositata e ritualmente notificata alla controparte, che si era costituita – a seguito dell’omessa notifica a cura dell’appellante del provvedimento di mutamento di rito pronunciato fuori udienza dal Presidente).
Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1999, n. 11386 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 23 della l. n. 74 del 1987 – che ha esteso ai giudizi di separazione personale tra i coniugi le regole dettate per il giudizio di divorzio dall’art. 8 della stessa legge che ha modificato l’art. 4 della l. n. 898 del 1970 – l’appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo (ricorso anziché citazione) alla decisione in camera di consiglio.
Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 1998, n. 10237 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il soggetto che abbia, in primo grado, svolto un intervento adesivo dipendente non è legittimato ad impugnare autonomamente la sentenza che ha statuito in senso sfavorevole alla parte da lui adiuvata.
Cass. civ. Sez. I, 21 agosto 1998, n. 8287 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impugnazione della sentenza di scioglimento del matrimonio, l’art. 4, comma 12, l. n. 898 del 1970(come modificato dall’art. 8 l. n. 74 del 1987), secondo il quale l’appello è deciso in camera di consiglio, va interpretato nel senso che il rito camerale deve considerarsi esteso all’intero procedimento e non limitato alla sola fase decisoria; tale norma trova applicazione in ogni caso di impugnazione della sentenza di scioglimento del matrimonio, e pertanto anche nelle ipotesi di appello riguardante unicamente gli aspetti patrimoniali della decisione, posto che le esigenze di celerità che hanno determinato il legislatore alla scelta del rito camerale non possono non ritenersi sussistenti anche per richieste di ordine patrimoniale, in relazione alle quali si con¬centrano gli interessi delle parti, anche in rapporto alle esigenze dei figli, e quindi maggiormente si manifesta la conflittualità.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 1998, n. 7495 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai giudizi di separazione personale e di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio si applica, tout court, la procedura del rito camerale, con la conseguenza che l’appello, da decidersi in camera di consiglio, va proposto con ricorso (che soggiace, quanto alla sua tempestività, ed ammissibilità, ai termini perentori di cui agli art. 325, 326 e 327 c.p.c.), anzichè con citazione, anche nel caso in cui la controversia sia limitata alla sola liquidazione dell’assegno divorzile, senza che possa legittimamente distinguersi, in contrario, tra sentenze non definitive (decisorie della domanda di divorzio) e sentenze definitive (contenenti statuizioni in tema di assegno) onde (erroneamente) invocare la proponibilità dell’appello con rito ordinario con riferimento a queste ultime.
Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1998, n. 4615 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento per lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, la domanda per l’attribuzione dell’asse¬gno divorzile (art. 5, comma 4, l. n. 898 del 1970) ne presuppone la tempestiva proposizione secondo le ordina¬rie norme processuali, così che il giudice di appello deve rigettare la richiesta avanzata per la prima volta dinanzi a lui dal coniuge avente diritto, a nulla rilevando che questi sia rimasto contumace in primo grado.
Cass. civ. Sez. I, 17 gennaio 1998, n. 367 (Giur. It., 1998, 1552 nota di RONCO)
L’appello contro la sentenza che pronuncia la separazione personale dei coniugi va proposto con ricorso, da depositarsi in cancelleria nei termini ordinari di impugnazione. Ove sia proposto con atto di citazione, l’impugna¬zione è ammissibile, per il principio di conversione degli atti processuali viziati, unicamente ove la costituzione dell’appellante sia intervenuta nei citati termini: in caso contrario, l’inammissibilità del gravame non può essere evitata neppure attraverso l’applicazione dell’istituto della rimessione in termini.
Cass. civ. Sez. I, 7 novembre 1997, n. 10942 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il gravame contro la sentenza di divorzio, dopo l’entrata in vigore delle modifiche all’art. 4 l. 1 dicembre 1970 n. 898, apportate dalla l. 6 marzo 1987 n. 74, è soggetto al rito camerale e si propone mediante ricorso da depositarsi presso la cancelleria del giudice di secondo grado. Dette modalità procedimentali non influiscono, in difetto di diversa previsione, sull’applicabilità delle comuni regole sui termini d’impugnazione della sentenza (art. 325 – 327 c.p.c.), inclusa quella inerente al termine breve di trenta giorni dalla notificazione di essa, da effettuarsi, nei confronti della parte costituita, al procuratore della medesima, ai sensi dell’art. 285 c.p.c. (che espressamente richiama l’art. 170 c.p.c.).
Cass. civ. Sez. II, 20 ottobre 1997, n. 10252 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La parte che spiega intervento adesivo dipendente nel corso del procedimento può aderire all’impugnazione eventualmente proposta dalla parte da lei adiuvata, ma non anche impugnare autonomamente la sentenza, a meno che non si tratti di pronuncia sulle spese, rispetto alla quale ella va, all’opposto, considerata portatrice di un proprio, autonomo interesse.
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 1997, n. 7158 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di impugnazione della sentenza di separazione personale dei coniugi, l’appello va proposto con ricorso e non con citazione; tuttavia, ove l’ appello sia stato proposto con citazione, in applicazione del principio generale di conservazione degli atti viziati, è da escludere la nullità dell’atto di impugnazione se il deposito della citazione nella cancelleria sia avvenuto in termini perentori fissati dalla legge, non essendo sufficiente che, in tali termini, sia stata effettuata la notificazione.
Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 1997, n. 6951 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel rito camerale del procedimento divorzile di secondo grado la tempestività dell’appello va esclusivamente considerata con riguardo al deposito del ricorso in cancelleria, indipendentemente dalla successiva notificazione del ricorso stesso e del decreto di fissazione dell’udienza.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4256 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In conseguenza del richiamo contenuto nell’art. 23 l. 6 marzo 1987 n. 74, anche ai giudizi di separazione per¬sonale tra i coniugi si applicano, nel limite della compatibilità, le regole di cui al precedente art. 4 della stessa legge, fra le quali quella relativa alla decisione dell’appello con il rito camerale. Ne consegue che l’impugnazione di sentenza di separazione personale va proposta con ricorso da depositarsi nei termini perentori di cui agli art. 325-327 c.p.c. e che tale impugnazione, se proposta con citazione, è inammissibile quando il deposito del rela¬tivo atto sia avvenuto oltre i termini suddetti, senza possibilità alcuna di rimessione in termini sul rilievo di un errore scusabile (la cui configurabilità sarebbe comunque esclusa con riguardo ad impugnazione irritualmente proposta dopo diversi anni dall’entrata in vigore della menzionata disciplina e dal manifestarsi al riguardo di un univoco orientamento giurisprudenziale) non contrastando tale impossibilità con precetti costituzionali.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4256 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In conseguenza del richiamo contenuto nell’art. 23 l. 6 marzo 1987 n. 74, anche ai giudizi di separazione per¬sonale tra i coniugi si applicano, nel limite della compatibilità, le regole di cui al precedente art. 4 della stessa legge, fra le quali quella relativa alla decisione dell’appello con il rito camerale. Ne consegue che l’impugnazione di sentenza di separazione personale va proposta con ricorso da depositarsi nei termini perentori di cui agli art. 325-327 c.p.c. e che tale impugnazione, se proposta con citazione, è inammissibile quando il deposito del rela¬tivo atto sia avvenuto oltre i termini suddetti, senza possibilità alcuna di rimessione in termini sul rilievo di un errore scusabile (la cui configurabilità sarebbe comunque esclusa con riguardo ad impugnazione irritualmente proposta dopo diversi anni dall’entrata in vigore della menzionata disciplina e dal manifestarsi al riguardo di un univoco orientamento giurisprudenziale) non contrastando tale impossibilità con precetti costituzionali.
Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È incostituzionale l›art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del p.m. nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli art. 9 l. n. 898/1970 e 710 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1996, n. 4290 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 4 comma 12 della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 8 della legge n. 74 del 1987 – appli¬cabile, ai sensi dell’art. 23 comma 3 di quest’ultima legge, alle sentenze di separazione personale pubblicate successivamente alla sua entrata in vigore – secondo il quale “l’appello è deciso in camera di consiglio”, deve essere interpretato come introduttivo del rito camerale per l’intero giudizio di impugnazione, e non soltanto per la fase decisoria. La proposizione dell’appello, pertanto, si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria nel termine perentorio di cui agli art. 325-327 c.p.c., mentre la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza costituisce un momento esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio di impugnazione, diretto soltanto ad instaurare il contraddittorio. Tuttavia, ove l’appello sia stato proposto con citazione, anziché con ricorso, è da escludere la nullità dell’atto di impugnazione, in applicazione del principio generale di conversione degli atti nulli, sempre che il deposito della citazione nella cancelleria del giudice adito sia avvenuto entro i termini perentori fissati dalla legge, non rilevando peraltro che in detti termini sia stata effettuata la notificazione all’appellato.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 gennaio 1996, n. 651 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il termine per proporre appello, nei procedimenti di separazione personale dei coniugi e di divorzio, è di trenta giorni, e non di dieci giorni come per il reclamo avverso i provvedimenti pronunciati in camera di consiglio.
Cass. civ. Sez. I, 14 ottobre 1995, n. 10763 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia della corte d’appello, resa in esito al reclamo proposto contro il provvedimento camerale del tri¬bunale sulla domanda congiunta di divorzio (art. 4 comma 13, nuovo testo, della l. 1 dicembre 1970 n. 898), è impugnabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., in quanto espressamente assoggettata alla forma della sentenza (in coerenza con la sua portata decisoria).
Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 1995, n. 5433 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione dell’art. 4 comma 12 della l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8 della l. 6 marzo 1987 n. 74, secondo la quale “l’appello è deciso in camera di consiglio”, deve essere interpretato come introdut¬tivo del rito camerale per l’intero giudizio di impugnazione, e non soltanto per la fase decisoria. Di conseguenza l’appello, che deve essere proposto con ricorso nei termini previsti dagli art. 325 e 327 c.p.c. per l’impugnazione delle sentenze, si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria nel termine stabilito per il gravame, mentre la notifica del ricorso e del decreto di fissazione della udienza costituisce un momento esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio di impugnazione, diretto soltanto ad instaurare il contraddittorio.
Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 1995, n. 4861 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con riferimento a sentenza di divorzio emessa dopo l’entrata in vigore della l. 6 marzo 1987 n. 74, l’appello è soggetto al rito camerale – come disposto dall’art. 8 della citata legge – non soltanto nella fase decisoria, ma per l’intero procedimento e, quindi, anche per l’atto introduttivo che deve avere la forma del ricorso e deve essere depositato in cancelleria entro trenta giorni dalla notificazione della pronuncia impugnata e, indipendentemente dalla notificazione, entro un anno dalla sua pubblicazione. La proposizione dell’appello in tal caso si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria nel termine stabilito per l’impugnazione, mentre la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza costituiscono un momento esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio, diretto soltanto ad instaurare il contraddittorio.
Cass. civ. Sez. I, 20 dicembre 1994, n. 10950 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impugnazione della sentenza di separazione personale dei coniugi, l’art. 4, comma 12 l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74, applicabile ai giudizi di separazione per effetto del richiamo contenuto nell’art. 23 di quest’ultima legge, secondo il quale “l’appello è deciso in camera di consiglio”, deve essere interpretato come introduttivo del rito camerale per l’intero giudizio di impugnazione, e non soltanto per la fase decisoria. Ne consegue che la proposizione dell’appello si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria nel termine stabilito dagli art. 325 e 327 c.p.c.; tuttavia ove l’appello sia proposto con citazione, è da escludere la nullità dell’atto di impugnazione, in applicazione del principio generale di conservazione degli atti viziati, sempre che il deposito della citazione nella cancelleria avvenga entro i termini perentori fissati dalla legge, non essendo sufficiente che in detti termini sia stata effettuata la notificazione.
Cass. civ. Sez. I, 13 dicembre 1994, n. 10614 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’appello avverso la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, a norma dell’art. 4 l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74 – che ha introdotto ilrito camerale per l’intero giudizio di impugnazione – si propone con ricorso depositato in cancelleria, nei termini per impugnare la sentenza previsti dagli art. 325 e 327 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 1994, n. 10251 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’appello ex art. 4 comma 12 della l. 1 dicembre 1970 n. 898, si svolge secondo le forme del rito camerale e deve essere introdotto mediante ricorso. Nell’ipotesi che sia stato tuttavia proposto con citazione, è comunque necessario che l’atto sia depositato in cancelleria entro i termini stabiliti dagli art. 325 e 327 c.p.c., a pena di inammissibilità dell’impugnazione.
Cass. civ. Sez. I, 5 agosto 1994, n. 7306 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A norma dell’art. 23 della l. 6 marzo 1987 n. 74, che ha dichiarato applicabili ai giudizi di separazione personale dei coniugi le regole del rito camerale introdotte per il giudizio di divorzio dal precedente art. 8, l’impugnazione della sentenza di separazione deve essere proposta con ricorso, anzichè con citazione, anche quando l’impugna¬zione medesima sia stata limitata al capo della sentenza che ha statuito sulla debenza dell’assegno di manteni¬mento dall’uno all’altro coniuge, poichè detta questione, lungi dal costituire una controversia diversa da quello oggetto del giudizio di separazione, rientra in quest’ultimo giudizio il quale, secondo le disposizioni degli art. 155 e 156 c.c., è finalizzato non solo a pronunciare la separazione dei coniugi, ma contestualmente anche a dettare i provvedimenti riguardo ai figli ed a disciplinare i rapporti patrimoniali tra i coniugi medesimi.
Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l›art. 710 c.p.p., nel testo sostituito dall›art. 1 l. 29 luglio 1988 n. 331, nella parte in cui non prevede la partecipazione del p.m. per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole dei coniugi separati.
Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1992, n. 9592 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La morte di uno dei coniugi, quale evento che travolge ope legis il rapporto matrimoniale, determina la cessazio¬ne della materia del contendere nel giudizio di divorzio, con la caducazione della sentenza precedentemente resa e che non abbia ancora acquisito definitività, anche quando si verifichi in pendenza del termine di impugnazione, potendo essere fatta valere dal coniuge superstite, con atto d’impugnazione proposto nei confronti degli eredi del coniuge defunto, indipendentemente dalla posizione che lo stesso coniuge superstite abbia assunto nella pregressa fase processuale.
Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 1992, n. 9192 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio secondo cui, con riguardo a sentenza di divorzio, resa dal tribunale dopo l’entrata in vigore della l. 6 marzo 1987, n. 74, l’appello, ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 23, 3° comma, di tale legge, è regolato dalla disciplina della legge stessa e quindi, ai sensi dell’art. 8 di essa, nella parte in cui sostituisce l’art. 4, 12° comma, l. 1 dicembre 1970, n. 898, è soggetto al rito camerale e va proposto con ricorso, da depositare in cancelleria nei termini perentori di cui agli art. 325-327 c. p. c., si applica anche in materia di separazione, atteso il disposto dell’art. 23, 1° comma, l. n. 74 del 1987, che richiama appunto la disciplina suddetta, sia pure nei limiti della compatibilità e fino all’entrata in vigore del nuovo testo del codice di procedura civile; ne consegue che, anche nel giudizio di separazione la proposizione dell’appello suddetto con citazione, anziché con ricorso, comporta che il gravame possa ritenersi tempestivo solo quando il deposito del relativo atto presso la cancelleria del giudice ad quem sia avvenuto entro i termini di legge, non rilevando la data della notificazione alla controparte.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 1992, n. 2652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impugnazione delle sentenze di separazione personale dei coniugi, l’art. 4, 12° comma, l. 1 dicembre 1970 n. 898, come modificato dalla l. 6 marzo 1987 n. 74 (applicabile nella specie in forza del disposto dell’art. 23l. n. 74/1987), quando stabilisce che , intende riferirsi al rito ca¬merale disciplinato dal codice di procedura civile agli art. 737 segg.; i termini da osservare per la proposizione dell’appello sono, però, quelli previsti per l’impugnazione delle sentenze e non quelli stabiliti dall’art. 739 c. p. c., in aderenza al principio per il quale i termini di cui agli art. 325 e 327 c. p.c. vanno applicati anche nel caso di sentenze emesse a conclusione di un procedimento camerale, indipendentemente dalla natura contenziosa o meno di esso.
Cass. civ. Sez. I, 28 novembre 1991, n. 12805 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel processo di divorzio l’appello si svolge con rito camerale che va introdotto con ricorso nel termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza di primo grado.
Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 1991, n. 4924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assoggettamento al rito camerale dell’appello contro la sentenza di divorzio, ai sensi dell’art. 4 12° commal. 1 dicembre 1970 n. 898, nel testo introdotto dall’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74 (applicabile anche ai giudizi in corso, ai sensi dell’art. 23 di detta legge del 1987, quando quella sentenza sia stata resa dopo la sua entrata in vigore), riguarda l’intero procedimento e, quindi, anche l’atto introduttivo, con la conseguenza che l’osservanza dei termini per la sua proposizione (i termini ordinari di cui agli art. 325-327 c. p. c., trattandosi d’impugnazione di sentenza) va riscontrata in relazione alla data del deposito in cancelleria dell’atto medesimo.
Cass. civ. Sez. Unite, 3 maggio 1991, n. 4876 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel processo di divorzio l’appello si svolge col rito camerale e perciò va proposto con ricorso e non con citazione.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 1991, n. 1310 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti per lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’applicabilità del rito camerale nel grado di appello non è limitata alla fase della decisione e l’impugnazione si propone con ricorso da depositare nei termini stabiliti dagli art. 325 e 327 c. p. c.
Cass. civ. Sez. I, 4 gennaio 1991, n. 37 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel processo di divorzio l’appello si svolge col rito camerale di cui agli art. 737 segg. c. p. c. e va perciò proposto con ricorso.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5636 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di separazione dei coniugi, i provvedimenti necessari alla tutela materiale e morale dei figli, riguar¬danti anche l’attribuzione e la quantificazione di un assegno per il loro mantenimento, possono essere adottati d’ufficio a norma dell’art. 155 c. c., indipendentemente da una richiesta esplicita di uno dei coniugi o del pubblico ministero, in quanto rivolti a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche sottratte all’iniziativa e alla disponibilità delle parti; pertanto, la domanda avanzata da uno dei coniugi per la prima volta nel giudizio di appello per otte¬nere dall’altro un contributo al mantenimento dei figli a suo carico non può essere considerata inammissibile ex art. 345 c. p. c., risolvendosi nell’allegazione di omessa pronuncia da parte del tribunale in ordine all’obbligo di entrambi i coniugi di mantenere i figli.
Corte cost. 29 dicembre 1989, n. 587 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 1° comma, 24, 2° comma e 101, 1° comma, cost. la questione di legittimità costituzionale degli art. 4, 12° comma, l. 1° dicembre 1970, n. 898 (come sostituito dall’art. 8, l. 6 marzo 1987, n. 74), nonché dell’art. 23, suddetta l. n. 74 del 1987, già esaminata con sentenza di rigetto n. 543 del 1989, estesa a nuovo profilo; le norme denunciate rispettivamente stabiliscono che l’appello avverso le sentenze pronunciate nei giudizi per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 8) ovvero pronunciate nei giudizi di separazione (art. 23) è decisa in camera di consiglio; disat¬tesa l’eccezione di inammissibilità (per avere il giudice a quo omesso la scelta interpretativa in ordine alle norme applicabili, dal momento che l’ordinanza si è chiaramente espressa nel senso che il rito camerale non va limitato alla fase decisoria, ma abbraccia l’intero procedimento d’appello), la prospettazione va ricondotta a quella che ha già formato oggetto della sentenza di rigetto n. 543 del 1989 nella quale, con riferimento ai medesimi para¬metri ora invocati si è osservato che la prescrizione del rito camerale in appello assicura le necessarie garanzie processuali; né varrebbe per indurre a diverso avviso il richiamo alla pubblicità dell’udienza collegiale in quanto in tema di pubblicità delle udienze, occorre valutare di volta in volta l’esigenza con riferimento alla natura del processo preso in considerazione avendo la corte cost. (con sent. n. 212 del 1986) ritenuta non indispensabile tale pubblicità rispetto al processo ora in esame, tenuto conto del grado di giudizio e del tipo di controversia.
Corte cost., 22 dicembre 1989, n. 573 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La previsione del rito camerale nel giudizio di appello avverso le sentenze di separazione personale dei coniugi non incide sul termine per l’impugnazione previsto dall’art. 325 cod. proc. civ., ma comporta che tale termine deve essere osservato per il solo deposito del ricorso, mentre la notifica di esso e del pedissequo decreto di fis¬sazione dell’udienza collegiale va effettuata entro il termine che spetta al giudice indicare nel medesimo decreto: onde l’emanazione di quest’ultimo dopo la scadenza del termine legale non elide il diritto di appellare. (Non fondatezza, nei sensi di cui in motivazione, della questione di incostituzionalità dell’art. 4, comma dodicesimo, della legge 1 dicembre 1970 n. 898, come novellato dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74, sollevata in ri-ferimento all’art. 24 Cost. sul presupposto che nei giudizi di separazione personale l’appello debba proporsi con lo strumento del ricorso-decreto).
La prescrizione del rito camerale per i giudizi di appello avverso le sentenze di separazione personale dei coniugi assicura le necessarie garanzie processuali, e non è indispensabile la pubblicità delle udienze, tenuto conto del grado di giudizio e del tipo di controversia trattata. (Manifesta infondatezza – in riferimento all’art. 3, comma pri¬mo, all’art. 24, comma secondo e all’art. 101, comma primo, Cost. – della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma dodicesimo, della legge 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8 della legge 6 mar¬zo 1987 n. 74, nonché dell’art. 23 di quest’ultima legge, interpretati nel senso che escluderebbero l’applicabilità all’intera fase di appello della forma contenziosa ordinaria).
Corte cost. 14 dicembre 1989, n. 543 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È infondata, in riferimento agli art. 3, 24 e 101 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 12° comma, l. 1° dicembre 1970 n. 898 (così come modificato dall’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74) e dell’art. 23 l. 6 marzo 1987 n. 74, secondo cui l’appello avverso le sentenze che pronunciano la separazione (e lo scioglimento del matrimonio), le quali siano state pubblicate dopo l’entrata in vigore della l. 74/87, è deciso in camera di consiglio, in quanto: a) il legislatore è libero di disciplinare il processo secondo forme diverse da quelle del rito ordinario, purché sia assicurato il rispetto del principio del contraddittorio; b) i termini per appellare sono i ter¬mini propri delle impugnazioni delle sentenze; c) anche nel rito camerale in appello è possibile acquisire ogni specie di prova precostituita e procedere alla formazione di qualsiasi prova costituenda, purché il relativo modo di assunzione – comunque non formale nonché atipico – risulti compatibile con la natura camerale del procedi¬mento e non violi il principio generale dell’idoneità degli atti processuali al raggiungimento del loro scopo; d) l’assistenza del difensore è consentita; e) il rito camerale non esclude l’applicabilità di quelle norme che disci¬plinano l’appello nel rito ordinario, come ad esempio quelle sull’appello incidentale e sulla specificità dei motivi di appello, perché esse non sono incompatibili con il rito camerale né incidono sulla celerità del giudizio; f) l’esigenza di rendere più celere il grado d’appello con un’istruttoria semplificata giustifica pienamente la deroga al regime della pubblicità delle udienze.
L’introduzione del rito camerale per i giudizi di appello avverso le sentenze di separazione personale dei coniugi (artt. 8 e 23 della legge n. 74 del 1987) non è limitata alla fase decisoria, ma si estende all’intero giudizio di secondo grado.
Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1989, n. 4705 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’appello avverso la pronuncia di divorzio, ancorché soggetto al rito camerale (art. 4 12° comma l. 1 dicembre 1970, n. 898, sostituito dall’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74), deve ritenersi proponibile negli ordinari termini di cui agli art. 325 e 327 c. p. c., in difetto di previsione contraria, considerando il carattere contenzioso del relativo giudizio; va pertanto esclusa l’applicabilità a detto appello del termine di dieci giorni, contemplato dall’art. 739 c. p. c. per il reclamo avverso i decreti resi in camera di consiglio dal tribunale, e va conseguenzialmente negata all’invocabilità di una corrispondente riduzione del termine per la proposizione del regolamento (facoltativo) di competenza, il quale resta quello fissato dall’art. 47 c. p. c.

Per l’adozione dei provvedimenti riguardo ai figli, il giudice dispone di poteri istruttori officiosi indipendenti dall’iniziativa delle parti ed in deroga alle regole sull’onere della prova

Cass. civ. Sez. VI – 1, 18 ottobre 2019, n. 26593
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
S.S., elettivamente domiciliata in Roma, via Panama 86, presso l’avv. Andrea Melucco, dal quale è rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso per cassazione, con richiesta di invio delle comunicazioni relative al processo presso la p.e.c. andrea.melucco.avvocato.pe.it e al fax n. 06/99334898;
– ricorrente –
nei confronti di:
A.V., rappr.to e difeso dall’avv.to Riccardo Capparelli, riccardosergiocapparelli.ordineavvocatroma.org, e dall’avv.ta Pinuccia Calcaterra (fax 06739738115; qiuseppacaicaterradettapinuccia.ordineavvocatiroma.orq) ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Germanico 101 come da procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3781/17 della Corte di appello di Roma emessa il 10.5.2017 e depositata il 7.6.2017 R.G. n. 4445/15;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Bisogni Giacinto.
Svolgimento del processo
CHE:
1. Il Tribunale di Roma, con sentenza 963/2015, ha dichiarato la separazione dei coniugi S.S. e A.V. e disposto l’affido condiviso dei due figli minori con collocamento presso la madre cui ha assegnato la casa familiare. Ha respinto la domanda di addebito proposta dalla sig.ra S.. Ha imposto al sig. A. un assegno mensile per il mantenimento dei due figli di 2.000 Euro e un assegno di mantenimento in favore della sig.ra S. di 1.500 Euro.
2. La Corte di appello Roma ha rigettato l’appello di S.S. ritenendo congrua, anche in relazione ai redditi di entrambi i coniugi (il sig. A. è dirigente d’azienda e percepisce stipendi di oltre 130 mila Euro netti annui, la sig.ra S. è insegnante precaria presso il (OMISSIS)), la determinazione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli che la S. ha chiesto di elevare a 3.000 Euro mensili con la modifica del regime delle spese straordinarie che ha chiesto di porre esclusivamente a carico del sig. A. e non nella misura dell’80%.
3. Propone ricorso per cassazione S.S. affidato a un solo motivo, illustrato con memoria difensiva, con il quale deduce la violazione degliartt. 115 e 116 c.p.c.in relazione alla valutazione della prova dei redditi personali della ricorrente.
4. Si difende con controricorso e deposita memoria difensiva A.V..
Motivi della decisione
CHE:
5. Il ricorso è inammissibile per una serie di motivi. In primo luogo non è diretto a contrastare la effettiva ragione della decisione impugnata che è stata quella di ritenere adeguata alle esigenze dei figli minori dei coniugi S. e A. l’entità dell’assegno. Sotto questo profilo va rilevata la conformità della decisione alla giurisprudenza di legittimità che in materia di assegno di mantenimento del figlio minore afferma che, in seguito della separazione personale tra coniugi, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantire un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo per quanto possibile a quello goduto in precedenza, continuando a trovare applicazionel’art. 147 c.c.che, imponendo il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, obbliga i genitori a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli stessi lo richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione (Cass. civ. sez. VI-1 n. 21273 del 18 settembre 2013). La commisurazione dell’assegno alle risorse economiche dei genitori va intesa nel senso di realizzare il principio generale di cuiall’art. 148 c.c., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo (Cass. civ., sez. I, n. 23630 del 6 novembre 2009) applicando tale commisurazione al principio della adeguatezza del mantenimento al soddisfacimento delle effettive esigenze del figlio. Alla luce di questi criteri la decisione della Corte distrettuale risulta esaustivamente motivata e non contestata dalla ricorrente.
6. La ricorrente rivolge infatti la sua impugnazione esclusivamente avverso l’affermazione della Corte di appello secondo cui la sig.ra S. “nell’attualità, sulla base dei riscontri forniti dalla controparte all’udienza del 19 gennaio 2017, risulta prestare attività di lavoro quale docente di economia e diritto presso il liceo scientifico (OMISSIS) in Roma, circostanza che la parte non aveva rappresentato in giudizio e il cui corrispettivo economico non risulta pertanto noto”. La ricorrente impugna tale affermazione per violazione degliartt. 115, 116 e 214 c.p.c.in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 4, ma non chiarisce adeguatamente, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. I n. 24298 del 29 novembre 2016) e per quale motivo l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte di appello pone in essere una violazione delle norme invocate. Il riferimentoall’art. 360 c.p.c., n. 4, e la contestazione sull’efficacia probatoria del documento depositato dalla controparte all’udienza del 19 gennaio 2017 non valgono a rendere specifica l’impugnazione e a cogliere la ratio della decisione impugnata. Infatti in primo luogo la Corte di appello non ha fatto riferimento al documento in questione e invece ha riscontrato che la sig.ra S. ha una qualificazione professionale: è avvocato. Ha prestato la propria attività lavorativa, con introiti netti pacificamente documentati per gli anni dal 2006 al 2008. Ha cessato tale attività nel 2009, quando è nato il suo secondo figlio, dato che la società in quell’epoca aveva trasferito la propria sede in Pomezia determinando l’impossibilità per la sig.ra S. di continuare a prestare la propria attività lavorativa compatibilmente con i compiti di cura familiare resi più assorbenti dalla nascita del secondogenito. Infine ha dato atto dello svolgimento dell’attività di docente svolta all’attualità senza rilevare nulla circa la stabilità di tale attività e circa il reddito che la sig.ra S. ne ritrae. Il riferimento ai riscontri forniti dalla controparte all’udienza del 19 gennaio 2017 va quindi inteso come validazione della deduzione, non contestata dalla odierna ricorrente, della esistenza in atto dell’attività di docente, in quanto espressione di una sua capacità lavorativa attuale rispetto alla quale non è stata peraltro ritenuta decisiva la prova della stabilità del rapporto di lavoro e del reddito che ne deriva. La ricorrente non ha dedotto rispetto a tale valutazione compiuta dalla Corte di appello una specifica contestazione idonea a sostanziare il vizio denunciato di nullità della sentenza o del procedimento. Va ribadito a questo riguardo che la tutela degli interessi morali e materiali della prole è sottratta all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti, ed è sempre riconosciuto al giudice il potere di adottare d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio di merito, tutti i provvedimenti necessari per la migliore protezione dei figli, e di esercitare, in deroga alle regole generali sull’onere della prova, i poteri istruttori officiosi necessari alla conoscenza della condizione economica e reddituale delle parti. Nella specie pertanto l’acquisizione agli atti del documento contestato, da cui risulta esclusivamente e genericamente la prestazione dell’attività di docente, ha costituito un mero esercizio del potere di libera valutazione del giudice del merito – in un procedimento attinente alla tutela dell’interesse dei minori – di un documento che ha fornito un semplice riscontro alla deduzione della capacità lavorativa in atto che la ricorrente non ha contestato neanche in questo giudizio. La Corte di appello ha ritenuto rilevante, ma non evidentemente in via esclusiva tale acquisizione, e ha ritenuto superflua l’acquisizione di una ulteriore indagine sull’entità del reddito che la sig.ra S. possa ritrarre dalla sua attuale capacità lavorativa ritenendo comunque congrua la misura dell’assegno di mantenimento e del contributo alle spese straordinarie già riconosciuto in primo grado. La contestazione mossa dalla ricorrente all’acquisizione e alla valutazione della prova non risulta pertanto aderente al contenuto della motivazione della decisione impugnata e alla specificità del procedimento in cui è stata emessa.
7. Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna al pagamento delle spese del giudizio di cassazione e la attestazione dell’applicabilità delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi Euro 3.100, di cui Euro 200 per spese, oltre spese forfettarie e accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1bis.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente sentenza siano omesse le generalità e le indicazioni identificative delle parti, a norma delD.Lgs. n. 196del 1003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2019

Per l’addebito della separazione è indispensabile individuare se la violazione è stata la causa o l’effetto della crisi.

Trib. Aosta, sent. 14 maggio 2019 – Pres. Gramola, Giud. Rel. Bonfilio
TRIBUNALE ORDINARIO di AOSTA
Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
dott. Eugenio GRAMOLA – Presidente
dott. Anna BONFILIO – Giudice Relatore
dott. Davide PALADINO – Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 2001/2013 promossa da:
M.D.M. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. MEGA DAVIDE e dell’avv. LODI PIZZOCHERO
PAOLO ((…)) PIAZZA A. DIAZ, 7 MILANO, elettivamente domiciliato in VIA VIA EMILIA, 18
SEGRATE presso il difensore avv. MEGA DAVIDE
ATTORE/I
contro
N.Q.P. (C.F. (…)), residente in calle P. n. 68, appartamento 5, tra F. e C., L. F., CAP 11000, Comune
di San Miguel del Padron, provincia de La Havana, Cuba
P.M. (C.F. (…)), C/O PROCURA DELLA REPUBBLICA DI AOSTA
INTERVENUTO
Nella quale, all’udienza del 15.02.2019, la parte ricorrente formulava le seguenti
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso depositato in data 10.12.2013 il sig. M.D.M., premesso di aver contratto matrimonio
civile con la sig.ra N.Q.P. a Cuba in data 27.11.2003 e di aver condotto la convivenza coniugale a
La Thuile presso la propria abitazione, non avendo figli dall’unione, riferiva che i rapporti fra i
coniugi si erano svolti in serenità sino al settembre 2010 allorché la moglie era rientrata nel paese di
origine a Cuba per un periodo di vacanza e per rivedere i suoi familiari. Riferiva l’esponente di aver
mantenuto comunque contatti telefonici con la moglie sino al novembre successivo, ricevendo
infine comunicazione laconica per SMS in data 10.11.2010 con cui la sig.ra Q.P. dichiarava di non
voler più rientrare in Italia e non riuscendo più in seguito a contattare la moglie neppure
telefonicamente. Chiedeva quindi dichiararsi la separazione tra i coniugi per fatto addebitabile alla
sig.ra Q.P. , dandosi atto dell’indipendenza economica delle parti; con vittoria delle spese del
giudizio.
In sede presidenziale, dopo plurimo rinvii disposti per consentire la notificazione dell’atto
introduttivo alla convenuta, in data 7.04.2016 il Presidente, verificata infine intervenuta rituale
notificazione del ricorso alla sig.ra Q.P., disponeva per la prosecuzione del giudizio in sede
contenziosa.
Anche dinanzi al G.I. il giudizio subiva numerosi differimenti a fronte delle difficoltà emerse per la
notificazione del verbale di udienza presidenziale alla convenuta. Infine all’udienza del 21.06.2018,
il G.I., verificata la rituale notificazione del suddetto verbale alla sig.ra Q.P., ne dichiarava la
contumacia, assegnando termini per il deposito di memorie ex art. 183, comma VI, c.p.c.
Parte ricorrente rinunciava infine all’interrogatorio pure dedotto della convenuta ed il G.I.
ammetteva la prova orale attorea, provvedendo all’escussione dei testi sigg. L.L., amico dei coniugi,
e J.D.M., fratello del ricorrente. Esaurita l’istruttoria orale sulle conclusioni formulate dal ricorrente
come in epigrafe riportate, sentito il P.M. intervenuto nel giudizio, la causa perveniva infine, dopo il
deposito di comparsa conclusionale attorea, in decisione dinanzi al Collegio.
Rileva previamente il Tribunale che tanto il ricorso introduttivo quanto il verbale di udienza
presidenziale risultano infine ritualmente notificati all’odierna convenuta per via diplomatica.
Ritualmente è stata pertanto dichiarata la contumacia della sig.ra N.Q.P. nel giudizio.
Alla luce delle risultanze in atti la domanda principale attorea per la declaratoria di separazione dei
coniugi risulta peraltro all’evidenza fondata. Non vi è dubbio infatti che la convivenza fra le parti è
ormai risolta sin dall’anno 2010 ed è in seguito mancato finanche alcun contatto personale tra i
coniugi. Sussistono pertanto i presupposti per l’accoglimento della domanda attorea.
Non può ritenersi invece fondata la domanda ulteriore formulata dall’odierno ricorrente per
l’addebito della separazione a fatto imputabile alla convenuta.
I testi escussi nel giudizio hanno potuto in effetti riferire solo de relato delle vicende relative
all’allontanamento della sig.ra Q.P. dalla casa coniugale. Ed infatti il sig. L.L., amico dei coniugi, ha
unicamente riferito al riguardo che ” era in autunno che la sig.ra P. è partita per Cuba”, aggiungendo
di sapere “dal sig. D.M. che sarebbe dovuta tornare poco dopo”. Il teste ha pure riferito che il sig.
D.M. ebbe quindi a telefonargli “disperato perché la moglie non voleva tornare in Italia”, forse nel
2011, aggiungendo infine che , per quanto a sua conoscenza “la sig.ra N.Q.P. non è più tornata in
Italia”. Il teste ha tuttavia appreso solo dall’odierno ricorrente che egli ebbe a provare più volte a
contattare la moglie perché rientrasse in Italia, proponendole anche di andare lui stesso a Cuba, ma
la moglie non ne aveva voluto sapere”. Il teste ha tuttavia ammesso di non aver mai avuto contatti
personali, anche solo telefonici, con la sig.ra Q.P. dopo il suo allontanamento dall’Italia.
Lo stesso teste sig. J.D.M., pure legato da stretti vincoli parentali all’odierno ricorrente, ha
genericamente riferito di aver conosciuto la cognata al suo arrivo in Italia e di averla
sporadicamente frequentata, aggiungendo che ella rientrava più volte all’anno a Cuba, ammettendo
tuttavia di avere appreso solo dal fratello le circostanze del suo allontanamento definitivo dalla casa
coniugale.
Orbene, secondo giurisprudenza ormai consolidata della Suprema Corte in materia “in tema di
separazione personale dei coniugi, l’allontanamento dal domicilio coniugale, in quanto violazione
dell’obbligo coniugale di convivenza, può costituire causa di addebito della separazione, a meno che
sia avvenuto per giusta causa, che può essere rappresentata dalla stessa proposizione della domanda
di separazione, di per sé indicativa di pregresse tensioni tra i coniugi e, quindi, dell’intollerabilità
della convivenza, sicché, in caso di allontanamento e di richiesta di addebito, spetta al richiedente, e
non all’altro, coniuge, provare non solo l’allontanamento dalla casa coniugale, ma anche il nesso di
causalità tra detto comportamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza” ( Cass.
Civ. Sez. 1, Sentenza n. 19328 del 29/09/2015 ).
Ed infatti “l’allontanamento dalla residenza familiare, ove attuato unilateralmente dal coniuge, cioè
senza il consenso dell’altro coniuge, costituisce violazione di un obbligo matrimoniale ed è
conseguentemente causa di addebitamento della separazione; non concreta, invece, tale violazione il
coniuge se risulti legittimato da una “giusta causa”, vale a dire dalla presenza di situazioni di fatto di
per sé incompatibili con la protrazione di quella convivenza, ossia tali da non rendere esigibile la
pretesa di coabitare” ( Cass. Civ. Sez. 1, Ordinanza n. 4540 del 24/02/2011 ).
Peraltro, in tema di separazione personale, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola
violazione dei doveri posta dall’art. 143 cod. civ. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario
accertare se tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata ed in conseguenza
di una situazione di intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel
determinarsi della crisi del rapporto coniugale. L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di
entrambi i coniugi nel determinarsi della intollerabilità della convivenza è istituzionalmente
riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una
motivazione congrua e logica” ( Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014 ).
In specie l’allontanamento della sig.ra Q.P. è in effetti dapprima avvenuto secondo consuetudine già
invalsa nella vita coniugale tra le parti, giacché è emerso che l’odierna resistente rientrava sovente
nel suo paese di origine, anche più volte all’anno, né sono in alcun modo emerse nel giudizio, anche
a seguito dell’istruttoria orale svolta, le circostanze quindi occorse nel rapporto tra i coniugi, tali da
determinare la convenuta ad interrompere definitivamente la convivenza, né consta se tale unione
fosse già attraversata da inquietudini e problematiche tali da giustificare la decisione risolutiva della
sig.ra Q.P., che peraltro non è mai comparsa personalmente nel giudizio, né si è costituita in esso.
Il Tribunale ravvisa, dunque, insufficienti gli elementi acclarati nel giudizio per ascrivere a
responsabilità dell’odierna resistente l’intervenuta frattura dell’unione coniugale tra le parti, laddove
l’allontanamento della sig.ra Q.P., pur certamente avvenuto, ben potrebbe trovare giustificazione in
disagi e tensioni già preesistenti nell’unione coniugale, non avendo il ricorrente offerto prova alcuna
della qualità del rapporto prima dell’allontanamento della resistente dal domicilio coniugale e del
tenore delle comunicazioni occorse tra i coniugi dopo tale allontanamento e prima della
determinazione assunta dalla resistente di non fare rientro presso il marito.
Del tutto ultronea deve ritenersi peraltro ogni valutazione e pronuncia del Tribunale sulle condizioni
economiche dei coniugi, non risultando promosse domande in merito per l’imposizione a carico
dell’uno o dell’altro dei coniugi di obblighi di mantenimento fondati sul vincolo coniugale.
Addivenendosi quindi ad accoglimento solo parziale delle domande attoree, si ravvisano giustificati
motivi per l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio.
P.Q.M.
IL TRIBUNALE
definitivamente pronunciando nella contumacia della sig.ra N.Q.P., ogni altra istanza ed eccezione
disattesa o assorbita, così dispone:
1. dichiara la separazione personale dei coniugi sigg. M.D.M. e N.Q.P., che hanno contratto
matrimonio a Cuba in data 27.11.2003, trascritto nei registri di matrimonio del Comune di La
Thuile al n. 2, parte II, serie C, per l’anno 2004;
2. rigetta perché infondata la domanda attorea di addebito della separazione alla convenuta;
3. compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.
Così deciso in Aosta, il 14 maggio 2019.
Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2019.

Opposizione a precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento

1. A.B. ricorre, affidandosi a quattro motivi con atto notificato a mezzo p.e.c. il 26/03/2018, per la cassazione della sentenza del 17/01/2018 della Corte di appello di Venezia, notificata a mezzo p.e.c. il 24/01/2018, con cui è stato respinto il suo appello contro la reiezione della sua opposizione al precetto notificatogli il 09/04/2014 dalla ex coniuge D.M., per Euro 17.475,02 quali arretrati dell’assegno – posto a carico dell’intimato con la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio (del Tribunale di Treviso n. 46/2010) – per il mantenimento del figlio F..
2. In particolare, alla sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio del 13/01/2010, che aveva posto a carico del B. un assegno o contributo di Euro 650 mensili per il mantenimento del figlio F., contestualmente collocato presso la madre, era seguito un primo decreto del Tribunale per i Minorenni di Venezia del 20/01/2012 (pubbl. il 06/02/2012) su ricorso del P.M.M. volto alla verifica delle capacità genitoriali di entrambi gli ex coniugi, che aveva affidato il figlio al Comune e lo aveva collocato presso il padre; mentre, nel corso dell’opposizione a precetto, era intervenuto ulteriore provvedimento del Tribunale per i Minorenni – decreto 07/11/2014 – di sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale per entrambi i genitori e, per la madre, per la persistente inottemperanza al dovere di contribuire al mantenimento del figlio.
3. Sulle contestazioni dell’ex coniuge, l’adito Tribunale di Treviso respinse l’opposizione a precetto, sull’essenziale considerazione che la collocazione del minore presso il padre non aveva privato il titolo esecutivo di efficacia e validità, incombendo sul debitore l’onere di attivare il procedimento previsto dalla legge sul divorzio, art. 9 pure escludendo il prospettato abuso del processo e la sussistenza dei presupposti della dispiegata exceptio doli generalis seu praesentis.
4. L’appello avverso tale sentenza, pubblicata il 29/10/2015, fu però – benchè fosse stata sospesa l’esecuzione comunque intrapresa dalla D., con provvedimento confermato in sede di reclamo rigettato dalla Corte di appello di Venezia con la qui gravata sentenza, la quale: in primo luogo, escluse che le statuizioni patrimoniali conseguenti alla sentenza di cessazione degli effetti civili (o di scioglimento del matrimonio), per quanto munite di validità rebus sic stantibus, fossero inficiate di per sè dal venir meno dei presupposti che giustificavano il precedente provvedimento, dovendo invece le eventuali conseguenti modifiche esser sempre disposte dal tribunale competente ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9 ed acquistando efficacia solo dal momento della domanda; in secondo luogo, escluse l’abuso del processo, sia per la correttezza dell’utilizzazione, da parte della creditrice, degli strumenti apprestati dall’ordinamento per l’attuazione di credito fondato su sentenza integrante titolo esecutivo, sia per la non configurabilità di un abuso fondato sulla prospettazione dell’unilaterale valutazione del debitore di insussistenza del credito, ad eversivo detrimento dei principi della certezza del diritto fondati sull’immodificabilità delle decisioni giudiziarie al di fuori degli strumenti a ciò deputati; in terzo luogo, escluse pure la ricorrenza dei presupposti per la exceptio doli generalis seu praesentis, visto che la creditrice non aveva affatto taciuto situazioni sopravvenute alla fonte del diritto fatto valere ed aventi forza modificativa od estintiva del diritto stesso, anzi da subito avendo prospettato la lineare tesi difensiva della necessità, ad inficiare il titolo azionato, di un previo provvedimento da adottarsi a cura del debitore nelle forme della L. n. 878 del 1970, art. 9.
5. Al ricorso del B. resiste con controricorso la D.; e sul ricorso, dapprima oggetto di procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 380-bis c.p.c., nel cui corso il ricorrente ha anche prodotto memoria, la sesta sezione ha disposto, con ordinanza 28/12/2018, n. 33647, la rimessione alla pubblica udienza: in primo luogo, rilevando come le doglianze involgessero non solo la questione dei rapporti tra provvedimenti successivi in tema di affidamento della prole, riconducibili o meno a procedimenti per la separazione personale o lo scioglimento del matrimonio ed il divorzio (connotati da una peculiare forma di giudicato, definito rebus sic stantibus), ma pure quella, di ancora più complessivo respiro, relativa al rapporto tra le rispettive esecutività ai fini dell’azionamento dell’uno e dell’altro; in secondo luogo, ritenendo meritevole di approfondimento in pubblica udienza la questione dell’incidenza, sulla consolidata giurisprudenza di questa Corte, della peculiarità della presente fattispecie, cioè l’adozione da parte del Tribunale per i Minorenni di un provvedimento di cui si era predicata l’efficacia esecutiva immediatamente modificativa almeno di uno dei presupposti del precedente provvedimento del giudice dello scioglimento del matrimonio.
6. Il ricorso è stato infine discusso alla pubblica udienza del 30/04/2019, per la quale il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Il ricorrente, che ha dedotto l’ingiustizia della pretesa creditoria di controparte per essere stato il figlio, al cui mantenimento si riferiva l’assegno posto a base dell’opposta esecuzione, collocato presso di lui fin dal marzo 2012 con provvedimento del Tribunale per i Minorenni del 20/01/2012, si duole:
– col primo motivo, di “violazione e falsa applicazione in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. dell’art. 30 Cost., artt. 147, 148,316bis e 337ter c.c.”: con ampie argomentazioni sostenendo che la sentenza di divorzio sarebbe stata modificata dai provvedimenti del Tribunale per i minorenni emessi in tema di (sospensione prima e decadenza poi) della potestà o responsabilità genitoriale, in base ad una competenza concorrente di quest’ufficio in sede di adozione di provvedimenti volti alla tutela dei figli;
– col secondo motivo, di “violazione e falsa applicazione in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. della carenza/caducazione dell’interesse ad agire in esecuzione ex art. 100 c.p.c.”, nonchè, con quello congiuntamente trattato, col terzo, di “violazione e falsa applicazione in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. della carenza/caducazione della legittimazione ad agire in esecuzione ex art. 81 c.p.c.”: contestando la sussistenza sia dell’interesse ad agire in concreto (quale vantaggio sostanziale perseguito con la domanda e non altrimenti conseguibile senza intervento del giudice), sia della legittimazione ad agire (quanto a titolarità del potere di promuovere un giudizio), siccome entrambi venuti meno in conseguenza dei provvedimenti del Tribunale per i minorenni col trasferimento del figlio presso il padre, che avrebbero eliso i presupposti del diritto iure proprio della madre al contributo al mantenimento del figlio (affidamento, collocamento e responsabilità genitoriale);
– col quarto motivo, di ” violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. dell’art. 1175 c.c. nonchè dell’art. 96 c.p.c. (exceptio doli)”: riproponendo la tesi della legittimità del rigetto della domanda ogniqualvolta siano state taciute situazioni sopravvenute aventi forza modificativa od estintiva del diritto, come sarebbe accaduto nella specie, per il collocamento del minore presso il padre e per il mancato sostenimento di qualunque spesa da parte della madre per il mantenimento del figlio.
2. La resistente dal canto suo, nel complesso ribadisce la propria persistente piena titolarità del diritto all’assegno di mantenimento anche al momento in cui aveva intimato il precetto oggetto dell’opposizione ed in particolare: ribadisce la necessità della previa modifica del provvedimento originario, costituito dalla sentenza di divorzio, da parte del giudice esclusivamente competente sul punto ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9; nega l’ammissibilità di modifiche, tanto meno implicite, dei provvedimenti patrimoniali in quella contenuti in forza di provvedimenti successivi di altre autorità giudiziarie, pure in base al chiaro riparto di competenze di cui all’art. 38 disp. att. c.c.; argomenta per l’inammissibilità di contestazioni riguardanti il merito del titolo esecutivo, oltretutto giudiziale, azionato; deduce l’inammissibilità della trasposizione sul piano processuale delle contestazioni al merito della pretesa e l’infondatezza delle violazioni dedotte con l’ultimo motivo.
3. Alla disamina di tutti i motivi va premesso che pacificamente i provvedimenti del Tribunale per i minorenni non sono espressamente intervenuti sulle conseguenze economiche della modifica del regime di collocazione del figlio.
4. Ciò posto, il primo motivo è infondato, dovendo darsi continuità al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, a mente del quale “con l’opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione o di divorzio, possono essere dedotte soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo e non anche fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 c.p.c. o del divorzio di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 878, art. 9 (in tema di assegno in sede di separazione: Cass. ord. 25/09/2014, n. 20303; Cass. 09/11/2001, n. 13872; sull’intangibilità, in sede di esecuzione, dell’an e del quantum dell’assegno di mantenimento per i figli pronunciato nel provvedimento di divorzio: Cass. 10/11/2015, n. 23471; Cass. 16/06/2011, n. 13184; Cass. 01/04/1994, n. 3225)”.
5. La conclusione è in linea con il principio generale del processo esecutivo, di irrilevanza – a pena di inammissibilità delle opposizioni esecutive su quelli fondate (Cass. 25/02/2016, n. 3712; Cass. 17/02/2011, n. 3850; e innumerevoli altre, tra cui basti un richiamo a Cass. Sez. U. 23/01/2015, n. 1238) – dei fatti anteriori alla definitività del titolo o di quelli che comunque possono essere fatti valere con gli strumenti concessi per impedirne la definitività: infatti, nella specie, il titolo esecutivo in materia di famiglia è sì assistito da definitività equiparabile al giudicato, ma si tratta di un giudicato del tutto peculiare, altrimenti detto rebus sic stantibus (tra le ultime, v. Cass. ord. 30/07/2015, n. 16173), riguardo al quale i fatti sopravvenuti possono rilevare, ma soltanto attraverso un peculiare procedimento ad hoc, quale quello dell’art. 710 c.p.c. per la separazione o quello della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 per il divorzio (scioglimento del matrimonio o declaratoria di cessazione degli effetti civili di quello concordatario).
6. Ed è proprio questa peculiarità del giudicato in materia di statuizioni economiche conseguenti a pronunce di separazione o divorzio, vale a dire la sua stretta interrelazione con una determinata situazione preesistente ma suscettibile naturaliter di un’evoluzione imponderabile perchè legata alle vicende personali dei coniugi od ex coniugi, a fondare l’insopprimibile esigenza di un previo formale intervento sul titolo preesistente, devoluto al giudice specializzato, come pure ad escludere la rilevanza diretta od immediata in sede di opposizione ad esecuzione di quei fatti, riservati alla cognizione di quel giudice specializzato nel superiore e pubblicistico interesse della migliore composizione possibile delle esigenze dei componenti della famiglia in crisi o disciolta.
7. L’esigenza di una considerazione complessiva di molteplici fattori, dei quali la collocazione del figlio è certamente uno dei più importanti ma non il solo ed esclusivo, consente di ricostruire come reciprocamente indipendenti, siccome connotate da una natura e da una funzione differenti e con oggetto solo in parte coincidente, le statuizioni in materia di collocazione del figlio e quelle sull’assegno o contributo per il suo mantenimento.
8. Tale reciproca autonomia impedisce ogni diretta o tanto meno automatica interazione delle due tipologie di provvedimenti e così l’estensione pura e semplice degli effetti delle prime sulle seconde e, benchè le une e le altre siano di certo di per sè sole esecutive, esse mantengono una reciproca autonomia e va esclusa una successione di titoli egualmente esecutivi aventi un medesimo oggetto.
9. Pertanto, una volta modificati dal tribunale per i minorenni esclusivamente l’assetto della responsabilità genitoriale e le concrete conseguenze in tema di collocazione del figlio presso l’uno anzichè l’altro dei genitori ex coniugi, non può prescindersi dal ricorso alla speciale procedura di revisione dei provvedimenti sul contributo per il mantenimento del figlio, di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 (o, per la sostanziale identità delle condizioni, di cui all’art. 710 c.p.c. in ipotesi di separazione personale), per rivederne, modificarne o neutralizzarne l’efficacia propria di titolo esecutivo.
10. Al riguardo, il giudice specializzato – e non anche, quindi, quello dell’esecuzione o dell’opposizione a questa e meno che mai il debitore in via unilaterale – è l’unico attrezzato alla necessaria complessiva ed approfondita valutazione, comparativa tra le situazioni rilevanti di entrambi i coniugi e direttamente coinvolte nelle cause della crisi del vincolo matrimoniale, comunque riferita a molteplici fattori, indispensabile di norma, pure a prescindere dalla collocazione del minore presso l’uno o l’altro dei genitori (del resto non esentando il coniuge formalmente non collocatario dall’obbligo di contribuzione la circostanza che il minore non si trovi presso di lui: in tema di divorzio, v. espressamente Cass. 08/09/2014, n. 18869).
11. In definitiva, è la persistente necessità di una complessiva valutazione di plurimi elementi anche in caso di modifica radicale del regime di collocazione del figlio ad escludere che la ponderazione delle conseguenze su persistenza e misura dell’assegno o contributo per il mantenimento del figlio possa essere rimessa all’unilaterale iniziativa dell’obbligato o anche soltanto a quella di un giudice diverso da quello cui l’ordinamento la riserva, cioè, di norma e per il caso di divorzio, il tribunale ordinario (fin da Cass. 27/03/1998, n. 3222).
12. Tale esigenza persiste tuttora, qualunque sia l’ampiezza dei provvedimenti del Tribunale per i minorenni in tema di responsabilità genitoriale, ma limitati agli aspetti non patrimoniali di questa: pertanto, in caso di divorzio o dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, finchè non intervenga un formale provvedimento di revisione anche del precedente che abbia determinato l’entità dell’assegno o contributo di mantenimento, la forza esecutiva di quest’ultimo permane e gli obblighi cui esso dà luogo persistono, benchè i sopravvenuti provvedimenti del tribunale per i minorenni in punto di concrete modalità dell’esercizio della responsabilità genitoriale costituiscano uno, anche se verosimilmente il più importante, degli elementi che il giudice della revisione della misura patrimoniale sarà chiamato a valutare, ma pur sempre in esito all’iniziativa dell’obbligato che voglia liberarsi da quella conseguenza.
13. In conclusione, la tesi del ricorrente sull’inutilità o non necessità del provvedimento del tribunale ordinario per la modifica del provvedimento originario non può essere condivisa, per la tassatività dei provvedimenti previsti al riguardo e l’esclusività della competenza del giudice (della separazione o) del divorzio in tema di provvedimenti conseguenti a contenuto patrimoniale, principi che vanno ritenuti di ordine pubblico, a tutela degli interessi di tutti i soggetti coinvolti dal disgregamento della famiglia: ed il primo motivo di ricorso va così rigettato.
14. Il secondo ed il terzo motivo, congiuntamente proposti e del resto suscettibili di unitario esame, sono del pari infondati: per generale principio del processo esecutivo, fondato su di un titolo di per sè solo normalmente necessario e sufficiente, l’interesse e la legittimazione ad agire esecutivamente sussistono, rispettivamente, in forza di un titolo esecutivo mai modificato ed in capo a chi vi è univocamente qualificato come creditore.
15. Infine, lo stesso istituto dell’exceptio doli generalis non può trovare applicazione nella fattispecie, nella quale nessuna circostanza è stata taciuta, tanto meno surrettiziamente, da parte della creditrice e l’azionamento di un titolo esecutivo la cui efficacia non è stata, da chi vi figura come debitore, modificata od elisa nelle forme previste dall’ordinamento non può configurare, di per sè solo e comunque neppure nella peculiare fattispecie per cui è causa, l’abuso del diritto di porlo in esecuzione.
16. Il ricorso va così nel suo complesso rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto: “in caso di provvedimenti in tema di affidamento o collocazione della prole nell’ambito di procedimenti di separazione personale o scioglimento del matrimonio o cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, la successiva modifica, ad opera del tribunale per i minorenni, del solo regime di collocazione del figlio non ha effetto automatico sulla precedente statuizione di un contributo periodico per il mantenimento del figlio, adottata dal tribunale della separazione o del divorzio, potendo il relativo giudicato, benchè peculiare in quanto reso rebus sic stantibus, essere neutralizzato solo col peculiare rimedio previsto dall’ordinamento e consistente nella revisione di cui all’art. 710 c.p.c. o L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9; ne consegue che, in mancanza di attivazione di tale specifica procedura, il genitore debitore di quel contributo resta obbligato in virtù della persistente forza esecutiva del primo provvedimento ed il genitore legittimamente aziona quest’ultimo finchè non venga espressamente modificato o revocato all’esito dell’esplicita valutazione, ad opera del solo giudice competente sulla revisione, di ogni altro elemento per la determinazione della debenza o della misura del contributo”.
17. Quanto alle spese del presente giudizio di legittimità, peraltro, la relativa novità della questione, pure come compiutamente individuata dall’ordinanza di rimessione alla pubblica udienza, ne rende di giustizia l’integrale compensazione.
18. Infine, non può che darsi atto – mancando la possibilità di valutazioni discrezionali (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della non sussistenza trattandosi di ricorso esente dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da quegli proposta, a norma del detto art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modif. dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso rispettivamente proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 30 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2019.

Nessuno può essere costretto a mantenere un rapporto di coniugio, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti per l’addebito.

Cassazione civile, sez. VI-1, ord. 15 ottobre 2019, n. 26084 – Pres. Genovese, Rel. Cons. Bisogni
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
A.A.I., elettivamente domiciliato in Roma, via F. Corridoni 4, presso il procuratore e domiciliatario
avv. Ermanno Prastaro, con la difesa dell’avv. Massimo Affatati, per procura in calce al ricorso e
con richiesta di ricevere le comunicazioni relative al ricorso presso il fax 06/3207160 e la p.e.c.
ermannopastraro.ordineavvocatiroma.org ovvero presso la p.e.c.
massimoaffatati.ordineavvocatipadova.it e il 049/8763266;
– ricorrente –
nei confronti di:
F.M.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1431/2017 della Corte di appello di Venezia emessa il 24 aprile 2017 e
depositata il 7 luglio 2017 R.G. n. 508/2017;
sentita la relazione in Camera di consiglio del relatore Cons. Dott. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
che:
1. La sig.ra F.M. ha proposto davanti al Tribunale di Padova domanda di separazione nei confronti
del sig. A.A.I. con il quale aveva contratto matrimonio a (OMISSIS). Non si è costituito il
convenuto e il Tribunale ha accolto la domanda senza imporre alcun assegno di mantenimento
stante la condizione di autosufficienza economica di entrambe le parti.
2. A.A.I. ha proposto appello rilevando la nullità del procedimento di primo grado per non essere
stato convocato a presenziare all’udienza presidenziale e per non avere ricevuto la notifica
dell’ordinanza di fissazione dell’udienza davanti al giudice istruttore e ha chiesto la rimessione della
causa davanti al primo giudice. Nel merito ha contestato la decisione che aveva accertato
l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza dei coniugi esclusivamente sulla base delle
dichiarazioni unilaterali della sig.ra F. non confermate da allegazioni probatorie nè da accertamento
officioso.
3. La Corte di Appello di Venezia (con sentenza n. 1431/17) ha dichiarato la nullità del
procedimento di primo grado per mancata convocazione dell’odierno ricorrente per l’udienza di
comparizione davanti al Presidente. Tuttavia ha deciso la causa escludendo che ricorresse alcuna
ipotesi di rimessione al primo giudice. Nel merito ha ritenuto infondata la richiesta di accertare la
non irreversibilità della crisi coniugale. Ha imposto alla sig.ra F. un assegno di mantenimento
mensile di 1.500 Euro.
4. Ricorre il sig. A.A.I. che con i primi due motivi sostiene che la dichiarazione di nullità del
procedimento comportava la rimessione al primo giudice. Afferma poi, con il terzo motivo, che non
poteva dichiararsi la separazione in mancanza della prova della irreversibilità della crisi coniugale.
Rileva che la F. ha continuato a comportarsi come sempre nonostante l’azione in giudizio e ha
ripetutamente effettuato elargizioni di denaro in suo favore. Con il quarto motivo chiede che
subordinatamente l’assegno di mantenimento sia rideterminato in 6.000 Euro mensili. Chiede infine
con il quinto motivo di essere rimesso in termini per acquisizione documentale su redditi e cespiti
patrimoniali relativi alla sig.ra F..
Motivi della decisione
che:
5 Nei procedimenti che iniziano con la notifica dell’atto di citazione, le disposizioni dell’art. 175
c.p.c., comma 2 e art. 168 bis c.p.c., commi 4 e 5, non consentono che l’udienza fissata nell’atto
introduttivo sia anticipata d’ufficio, sicchè il provvedimento anticipatorio, se non notificato al
convenuto, impedisce l’instaurazione di un rapporto processuale tra le parti ed è nullo e la nullità
travolge gli atti successivi per violazione del contraddittorio nei riguardi del convenuto non
costituitosi; qualora, in tal caso, il convenuto contumace impugni la sentenza, il giudice di appello,
esulando il caso da quelli previsti agli artt. 353 c.p.c. e segg., deve decidere la causa nel merito,
dopo aver dichiarato la nullità del procedimento di primo grado ed aver consentito le attività della
stessa impedite (Cass. Civ. sez. I nn. 26361 del 7 dicembre 2011 e Cass. Civ. 8713 del 29 aprile
2015).
6. Quanto al terzo motivo deve rilevarsi che, ai sensi dell’art. 151 c.c., la separazione dei coniugi
deve trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa
come fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità
e al contesto interno della vita dei coniugi, purchè oggettivamente apprezzabile e giuridicamente
controllabile; a tal fine non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla
volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al
matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza e che sia verificabile in
base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale, con particolare
riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione, a prescindere da qualsivoglia elemento di
addebitabilità (cfr. Cass. Civ. sez. I, n. 8713 del 29 aprile 2015). Infatti in tema di separazione tra
coniugi, la situazione di intollerabilità della convivenza va intesa in senso soggettivo, non essendo
necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi,
ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti,
verificabile in base a fatti obiettivi, come la presentazione stessa del ricorso ed il successivo
comportamento processuale, (e, in particolare alle negative risultanze del tentativo di conciliazione),
dovendosi ritenere, in tali evenienze, venuto meno quel principio del consenso che, con la riforma
attuata attraverso la L. 19 maggio 1975, n. 151, caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale
(cfr. Cass. Civ. sez. I n. 1164 del 21 gennaio 2014 e Cass. civ. sez. I n. 3356 del 14 febbraio 2007).
7. Quanto infine alla misura dell’assegno che il ricorrente contesta con il quarto motivo di ricorso si
osserva che la sentenza della Corte distrettuale appare pienamente conforme alla giurisprudenza di
legittimità (Cass. civ. S.U. n. 18287 dell’11 luglio 2018) secondo cui “la funzione equilibratrice del
reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile non è finalizzata
alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo
fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e
di quello personale degli ex coniugi. Risulta pertanto priva di rilevanza la richiesta di provare l’alto
tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la rilevante consistenza del patrimonio della sig.ra
F. dovendosi attribuire all’assegno divorzile, alla luce della giurisprudenza di legittimità, una
funzione assistenziale ampiamente soddisfatta dalla misura dell’assegno riconosciuto al ricorrente e
una funzione compensativa che non trova riscontro nelle sue deduzioni difensive e istruttorie.
8. Il ricorso va pertanto respinto senza statuizioni sulle spese del giudizio di cassazione e con
ricognizione, del D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, dell’obbligo del versamento di somma pari a
quella corrispondente al contributo unificato gravante sul ricorrente al momento della iscrizione a
ruolo del ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano
omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1
bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2019

La moglie che si licenzia volontariamente e non si occupa dei figli non ha elementi per richiedere l’assegno divorzile.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1
ordinanza 7 giugno – 18 ottobre 2019, n. 26594
Presidente Genovese
Relatore Bisogni
Rilevato che
1. Nel giudizio per la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio il tribunale di
Verbania ha affidato al sig. Se. Mu. i due figli e imposto un contributo di 200 Euro mensili alla De
Vi. per il mantenimento dei figli, mentre ha posto a carico del sig. Mu. un assegno divorzile mensile
di pari importo.
2. La Corte di appello di Torino ha accolto l’appello del sig. Mu. e ha revocato l’assegno divorzile
mentre ha respinto l’appello incidentale della sig.ra De Vi. inteso a ottenere un aumento
dell’assegno divorzile da 200 a 350 Euro mensili e l’affidamento condiviso dei figli, dichiarando di
essere disposta ad accogliere presso la propria residenza i figli An. e Lu. che all’epoca della
decisione avevano (omissis) e (omissis) anni. Ha rilevato la Corte di appello che il sig. Mu.,
maresciallo dei CC, percepisce uno stipendio netto annuo di 37.000 Euro mentre la De Vi.
percepiva dalla sua attività di commessa in un supermercato circa 10.000 Euro annui sino a quando
ha deciso di trasferirsi da Verbania in Calabria, presso i suoi genitori, dove è rimasta priva di
occupazione lavorativa. La Corte di appello ha quindi riscontrato un atteggiamento dismissivo nei
confronti dei figli da parte della De Vi. che non li ha visti dal 2014 e non ha mai contribuito al loro
mantenimento. Ha rilevato inoltre che la stessa è ancora in giovane età e ha dimostrato di avere
piena capacità lavorativa e ha ritenuto che pertanto uno stato di bisogno che giustifichi il contributo
al mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussista perché, semmai esistente, esso è stato causato
da una precisa volontà della sig.ra De Vi. che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua
attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue
esigenze personali.
3. Ricorre per cassazione la sig.ra Fi. De Vi. che denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art.
5 c. 6 L. div. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. per erronea valutazione dei presupposti per la revoca
dell’assegno divorzile.
4. Propone controricorso il sig. Se. Mu..
Ritenuto che
5. Il ricorso è infondato. Sebbene la Corte di Appello faccia riferimento alla sentenza n. 11504 del
2017 di questa Corte, che ha ribadito la funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno di
divorzio e la sua giustificazione al fine di garantire esclusivamente l’autosufficienza economica al
coniuge che non è in grado di procurarsela con la propria capacità lavorativa e/o patrimoniale, deve
ritenersi che anche alla luce della giurisprudenza successiva delle Sezioni Unite del 2018 (Cass. civ.
S.U. n. 18287 dell’11 luglio 2018) la decisione appare fondata perché le S.U. hanno ribadito anche
esse che il riconoscimento dell’assegno di divorzio, in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi
una funzione assistenziale, ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma
6, della L. n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge
istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Inoltre secondo la pronuncia delle
SS.UU. la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore
all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al
riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla
formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi e in particolare al
riconoscimento delle aspettative professionali sacrificate per dedicarsi alla cura della famiglia.
6. Nella specie la Corte di appello ha rilevato che l’impossibilità, semmai esistente, di procurarsi i
mezzi adeguati di cui all’art. 5 citato non dipende da incapacità lavorativa o da fattori esterni alla
volontà del coniuge richiedente l’assegno ma dalla libera scelta della sig.ra De Vi. che ha deciso di
abbandonare l’occupazione lavorativa che le assicurava un reddito fisso. Né la Corte di appello ha
potuto riscontrare, in base alle deduzioni difensive e probatorie della odierna ricorrente, un
particolare contributo alla formazione del patrimonio familiare e alla cura della famiglia ovvero un
sacrificio delle sue aspettative lavorative in funzione delle esigenze familiari. Di qui la decisione di
revocare l’assegno divorzile che deve ritenersi conforme all’art. 5 della legge n. 898/1970 come
interpretato dalla recente giurisprudenza delle Sezioni Unite.
7. Il ricorso per cassazione va pertanto respinto con compensazione delle spese del giudizio di
cassazione in considerazione dei recenti mutamenti della giurisprudenza in materia di assegno
divorzile. Al rigetto del ricorso consegue l’attestazione dell’applicabilità dell’art. 13 del D.P.R. n.
115/2002 come specificato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di
pubblicazione della presente sentenza siano omesse le generalità e le indicazioni identificative delle
parti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13 comma 1 bis del D.P.R. n. 115/2002

La domanda di accertamento di una donazione indiretta (pregiudiziale all’accoglimento della domanda di collazione) soggiace alle preclusioni di cui all’art. 167 c.p.c.

Cass. civ. Sez. II, 23 luglio 2019, n. 19833
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5817-2015 proposto da:
D.L.B., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO, 22, presso lo studio dell’avvocato MARCO LORENZANI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI DELLA COLLETTA;
– ricorrente –
contro
D.L.L.A., D.L.V., D.L.N., D.L.T., D.G.L., D.G.E., D.G.F.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 290/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 05/02/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/02/2019 dal Consigliere ANTONINO SCALISI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del I motivo, accoglimento II motivo, assorbiti III e IV motivo;
udito l’Avvocato LORENZANI Marco, difensore del ricorrente che si riporta agli atti depositati.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 5-16.11.1994, D.L.L.A. conveniva avanti il Tribunale di Belluno i fratelli D.L.N., D.L.V., D.L.T., D.L.B. e De.Lu.Te., affinché, previa eventuale riduzione della donazione a favore del fratello V., previa collazione ed eventuale riduzione della donazione indiretta a favore di N., e previa resa dei conti da parte degli eredi e, in particolare, di B., si procedesse allo scioglimento della comunione dei beni relitti da parte del padre, con formazione di progetto divisionale ed assegnazione di beni agli eredi. Esponeva, che il padre D.L.R.R., deceduto il (OMISSIS), aveva lasciato in eredità ai figli vari beni tra cui anche un fabbricato sito in (OMISSIS), rimasto nell’esclusivo possesso di B., il quale ne aveva ricavato vari appartamenti, che locava ai villeggianti; che il contratto di vendita di cui alla scrittura privata 24.5.1972, con il quale il padre aveva venduto al figlio N. due terreni edificabili siti in (OMISSIS), sui quali quest’ultimo aveva costruito due fabbricati con sei appartamenti ciascuno, doveva considerarsi una donazione, stante l’esiguità del prezzo pagato (Lire 2.500.000); che con atto pubblico 18.7.1974 il padre aveva donato al figlio V., con dispensa dalla collazione, la nuda proprietà di una porzione di fabbricato sito in (OMISSIS), con alcuni terreni adiacenti;
che il de cuius era cointestatario con il figlio N. di una cassetta di sicurezza, ove erano custoditi molti denari in valuta pregiata, che rientravano nell’asse ereditario.
Si costituivano in giudizio D.L.V., N. e B. ed eccepivano: prescrizione decennale del diritto dell’attrice ad accettare l’eredità exart. 480 c.c., atteso che l’apertura della successione risaliva al (OMISSIS), mentre l’atto di citazione era stato notificato il 5.11.1994; dal che la carenza di legittimazione attiva della medesima a proporre il giudizio di divisione; la prescrizione decennale del diritto alla riduzione della donazione in favore di V.; la prescrizione decennale dell’azione di simulazione riduzione della donazione indiretta in favore di N.. Nel merito assumevano che: B. aveva completamente ristrutturato l’edificio, il quale, dunque, era aumentato di valore; il terreno venduto a N. all’epoca non era edificabile; V. aveva provveduto alla completa ristrutturazione del piano terra e del secondo piano dell’immobile donatogli dal padre; V. e B. avevano saldato i debiti del padre. Tutti e tre i fratelli maschi avevano sostenuto le ingenti spese sanitarie del de cuius. L’attrice nel 1984 aveva ricevuto dal padre un libretto nominativo con deposito di Lire 58.000.000, a titolo di anticipo sull’eredità e, dunque, tale somma doveva rientrare nell’asse ereditario; per le somme di cui alla cassetta di sicurezza bisognava considerare gli esborsi effettuati dagli intestatari per far fronte ai debiti del padre.
Chiedevano, dunque, che venissero dichiarate le suindicate prescrizioni e, in subordine, che venisse rigettata la domanda di riduzione e accertata la nullità della donazione in denaro in favore dell’attrice e comunque imputazione alla quota di legittima.
Rinunciata da parte attrice la domanda di riduzione della donazione a favore di D.L.V., la causa era istruita documentalmente ed era anche espletata CTU. Il Tribunale di Belluno con sentenza non definitiva n. 84/05, rigettava l’eccezione di prescrizione dell’accettazione dell’eredità da parte dell’attrice e dichiarava la prescrizione dell’azione di simulazione relativa, proposta nei confronti di D.L.N.. Successivamente, con sentenza definitiva n. 77/2010, il Tribunale di Belluno: rigettava l’eccezione di prescrizione del diritto di D.L.T. e De.Lu.Te. di conseguire il lascito ereditario ad esse devoluto, per tacita rinuncia a far valere la prescrizione medesima; dichiarava inammissibile la domanda di collazione proposta nei confronti di D.L.T., essendo stata proposta solo in sede di precisazione delle conclusioni con mancata accettazione del contraddittorio da parte della difesa della medesima D.L.T.; dichiarava lo scioglimento della comunione ereditaria e disponeva la divisione dei beni secondo il progetto divisionale, di cui alla “quinta integrazione della relazione peritale” e al suo allegato A, con attribuzione dei singoli assegni mediante sorteggio; in riferimento a D.L.B. escludeva il corrispettivo per miglioramenti apportati al fabbricato di (OMISSIS), non essendo sufficientemente provato che gli interventi, eseguiti in assenza di idoneo titolo abilitativo, si fossero effettivamente risolti in un oggettivo incremento di valore dell’immobile e non, invece, a consentirne lo sfruttamento a fini commerciali a vantaggio esclusivo del coerede e, comunque, gli esborsi erano integralmente stati compensati dal percepimento delle rendite; condannava D.L.L.A. a pagare, a titolo di conguaglio, in favore degli altri condividenti, la somma di Euro 11.599,57 ciascuno, oltre interessi legali dalla data di deposito della sentenza al saldo (relativamente alla somma di cui al libretto nominativo pervenuta pacificamente nella disponibilità esclusiva dell’attrice); condannava D.L.N. a pagare, a titolo di conguaglio, in favore degli altri condividenti la somma di Euro 2.121,19 ciascuno, oltre interessi legali dalla data di deposito della sentenza al saldo (relativamente alla disponibilità esclusiva di D.L.N. della cassetta di sicurezza contenente valuta straniera); condannava D.L.L.A., V., B., T., Te. a pagare a D.L.N., a titolo di rimborso spese funerarie e oneri fiscali di successione, Euro 1.747,29 ciascuno, oltre interessi legali dalla data di deposito della sentenza al saldo; compensava le spese di lite; poneva gli oneri di CTU a carico di tutte le parti, ciascuna in proporzione della rispettiva quota divisionale.
Avverso detta sentenza, interponeva rituale appello D.L.L.A., resistevano al gravame D.L.B., V., N. e T., che proponevano a loro volta appello incidentale.
La Corte di Appello di Venezia, con sentenza n. 290 del 2014 accoglieva parzialmente l’appello principale e l’appello incidentale e, in riforma della sentenza impugnata, condannava D.L.B. al pagamento, in favore di ciascuno dei coeredi, della somma di Euro 10.514,67, oltre interessi legali dalla sentenza di primo grado. Confermava nel resto la sentenza impuntata. Compensava per 4/5 le spese processuali e condannava D.L.B. al pagamento della restante parte. Secondo la Corte distrettuale andava accolto semplicemente l’appello (principale ed incidentale) relativo al mancato riconoscimento agli eredi dell’indennizzo per utilizzo esclusivo dell’immobile da parte di D.L.B.. E per quanto può riguardare in questa sede, è l’unico aspetto che va evidenziato, posto che ogni altra questione non risulta riproposta nel giudizio di cassazione.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da D.L.B. con ricorso affidato a quattro motivi. D.L.L.A., D.L.V., D.L.B. D.L.N. D.L.T. e gli eredi di De.Lu.Te. in questa sede non hanno svolto attività giudiziale.
All’udienza del 8 novembre 2018, questa Corte rinviava la causa ad una Pubblica Udienza che il Presidente di sezione provvedeva a rinviare all’udienza del 5 febbraio 2019.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo D.L.B. lamenta Violazione e/o falsa applicazione degliartt. 418, 480 e 2937 c.c.in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Non conformità alla giurisprudenza della Corte di cassazione sentenza n. 21902 del 2011. Nonché, omesso esame circa fatti decisivi per il giudicato, oggetto di discussione tra le parti, con riferimento alle lettere 12 settembre 1991 ( D.L.L.) e 2 ottobre 1991 ( D.L.L.). Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe applicato correttamente la normativa di cuiall’art. 476 c.c., non avendo considerato che l’accettazione tacita dell’eredità presuppone una manifestazione di volontà concludente del chiamato, che non può scaturire da dichiarazioni di terzi inconcludenti. La Corte distrettuale, per altro avrebbe mal valutato le lettere scritte dalla D.L.L. e dal marito della D.L.L., dando solo una sostanza giuridica che non avevano e non potevano avere.
1.1. Il motivo è infondato.
La normativa di cui agliartt. 475 c.c.e ss. prevede l’ipotesi di accettazione espressa dell’eredità, quando la volontà di essere erede viene manifestata in modo diretto, con un atto formale, e l’ipotesi di accettazione tacita (di eredità), che si verifica, quando la persona chiamata all’eredità compie un atto che implica necessariamente la volontà di accettare, e che tale soggetto non potrebbe compiere se non nella sua qualità di erede. La dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere che presupposti fondamentali e indispensabili ai fini di una accettazione tacita sono: la presenza della consapevolezza, da parte del chiamato, dell’esistenza di una delazione in suo favore; che il chiamato assuma un comportamento inequivoco, in cui si possa riscontrare sia l’elemento intenzionale di carattere soggettivo (c.d. animus), sia l’elemento oggettivo attinente all’atto, tale che solo chi si trovi nella qualità di erede avrebbe il diritto di compiere.
Di norma, poi, vengono considerate forme di accettazione tacita di eredità: a) la proposizione da parte del chiamato dell’azione di rivendicazione, oppure l’esperire l’azione di riduzione, l’azione, cioè, volta a far valere la qualità di legittimario leso o, comunque, pretermesso dalla sua quota; b) l’azione di risoluzione o di rescissione di un contratto; c) l’azione di divisione ereditaria posto che può essere proposta solo da chi ha già assunto la qualità di erede; d) la riassunzione di un giudizio già intrapreso dal de cuius o la rinuncia agli effetti di una pronuncia in grado di appello; e) il pagamento da parte del chiamato dei debiti lasciati dal de cuius col patrimonio dell’eredità; f) ed infine, secondo la dottrina più attenta, anche, la voltura catastale determinerebbe un’accettazione tacita dell’eredità, nella considerazione che, solo chi intenda accettare l’eredità, assumerebbe l’onere di effettuare tale atto e di attuare il passaggio legale della proprietà dell’immobile dal de cuius a se stesso.
Ora, nel caso in esame, la Corte distrettuale ha accertato, con un giudizio di merito, non censurabile nel giudizio di legittimità, che D.L.L.A., De.Lu.Te. e D.L.T., avevano accettato l’eredità del proprio genitore con comportamento concludente e, in particolare, avendo rispettivamente con missiva del 12 settembre 1991, del 2 ottobre 1991, e del 19 Settembre 1991, chiesto ai propri fratelli la divisione ereditaria. Come ha avuto modo di chiarire la sentenza impugnata: “(…) Contrariamente va, invero, osservato che non solo nella missiva 12.9.1991 (doc. 4 D.L.L.A.), inviata da D.L.L.A. a tutti i fratelli ( N., V., B., T. e Te.), viene dato per pacifico che anche T. e Te. sono eredi del padre, ma anche nella risposta di De.Lu.Te. (tramite D.G.L.) del 2.10.1991 (doc. 5 D.L.L.A.) e nella risposta di D.L.T. del 19.9.1991 (doc. 7 D.L.L.A.) non è messa in discussione una tale qualità, tanto che si fa riferimento alla questione della “divisione dei beni” e viene data la “disponibilità per un incontro amichevole per farsi valere i nostri diritti”, il che non avrebbe avuto ragione di essere se Te. e T. non si ritenessero eredi e non avessero accettato l’eredità.
Le citate missive non vanno valorizzate come trattative da farsi valere quali fatti interruttivi della prescrizione (come pretenderebbe D.L.B.), ma quale accettazione tacita dell’eredità, quale comportamento concludente delle chiamate all’eredità, implicito dell’accettazione medesima. Difatti, va osservato – che l’accettazione dell’eredità (che determina l’acquisto della qualità di erede, a normadell’art. 459 c.c.) può avvenire – e si perfeziona senza bisogno di essere portata a conoscenza di altri interessati – in forma tacita, ove il chiamato all’eredità compia un atto che necessariamente presupponga la volontà di accettare la medesima e che egli non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede, il che ben può concretizzarsi nell’iniziativa assunta dal chiamato per la divisione amichevole dell’asse con istanza proposta anche in sede non contenziosa ( ). D’altro canto, lo stesso D.L.B., nell’eccepire in primo grado, la carenza di legittimazione dell’attrice per essere già intervenuta la divisione con le assegnazioni corrispondenti agli attuali possessi, ha implicitamente dato per pacifico che anche le sorelle convenute fossero eredi (….)”.
Non vi è ragione, per altro, di ritenere che le missive richiamate, della cui esistenza non si dubita, non integrassero gli estremi di un’accettazione tacita, posto che trattasi di un fatto accertato dalla Corte distrettuale e il ricorrente non ha riprodotto il contenuto delle stesse per evidenziarne l’inidoneità allo scopo di cui si dice.
2. Va qui ulteriormente precisato che il comportamento concludente del chiamato all’eredità ai fini dell’accettazione, contrariamente a quanto ritiene D.L.B. (attuale ricorrente) (pag. 6 del ricorso), e come, invece, ha chiarito la stessa Corte distrettuale, sopra riportata, non necessita, sempre che risponde ai presupposti di cui si è detto, di un’accettazione degli altri coeredi dovendosi considerare che l’accettazione è rivolta all’eredità e ancor meglio a tradurre la chiamata ereditaria nella qualità di erede, indipendentemente, e/o a prescindere, di un intervento adesivo degli altri coeredi.
2. il ricorrente lamenta, ancora:
a) Con il secondo motivo la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 737 e 747 c.c.eart. 167 c.c.in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3. Non conformità alla giurisprudenza della Corte: sent. n 15131 del 2005 e Cass. n. 18625 del 2010 e 22288 del 2013. Secondo il ricorrente la Corte di Appello nel rigettare la domanda di collazione per imputazione della donazione della somma di Lire 5.200.000 effettuata in data 13 aprile 1971 da de cuius a favore di D.L.T. perché domanda nuova formulata solo in sede di precisazione delle conclusioni, non avrebbe tenuto conto che secondo orientamento di questa Corte di Cassazione la domanda di collazione non sarebbe soggetta ai terminidell’art. 167 c.p.c.non trattandosi di domanda vera e propria ma di mera attività di carattere prodromico alle attività strettamente divisionali.
b) Con il terzo motivo, la violazione e/o falsa applicazionedell’art. 345 c.p.c.vecchio rito, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3. Non conformità con la giurisprudenza della Corte sentenza Cass. n. 88228 del 1997 e Cass. n. 5192 del 2002. Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale nel rigettare la domanda di collazione relativa alla donazione di Lire 5.200.000 non avrebbe tenuto conto che, ai sensi della normativa di cuiall’art. 345 c.p.c.nella formulazione antecedente alla riforma del 1995, la domanda di cui si dice, integrando gli estremi di una eccezione, perché diretta a paralizzare la pretesa della condividente, avrebbe potuto essere proposta in appello, così come l’attuale ricorrente avrebbe fatto proponendo appello incidentale sulla questione.
c) Con il quarto motivo, la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 167, 183 e 184 c.p.c.(vecchio rito) in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene il ricorrente che avendo egli chiesto che venisse ricostruito il relicxtum ed il donatum e tenuto conto di quanto sostenuto a favore del mantenimento del de cuius con imputazione fittizia sino ad ora ricevuto dai successori, la domanda di collazione della donazione a favore della sorella T. era legittima ed il consulente avrebbe potuto considerare quell’importo nella formazione del progetto divisionale.
2.1. I motivi che per loro innegabile connessione vanno esaminati congiuntamente, tralasciando i profili di genericità, dato che la censura una donazione il cui atto non viene individuato e tanto meno riportato nel suo contenuto, sono infondati.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte distrettuale abbia rigettato la domanda di collazione per imputazione della somma di L.. 5.200.000, ma non tiene conto che la domanda di collazione, di cui si dice, presupponeva l’accertamento dell’esistenza di una donazione indiretta a favore di D.L.T.. Pertanto, se come domanda di collazione non era soggetta ai termini di cuiall’art. 167 c.p.c., (proprio perché l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione, salva l’espressa dispensa da parte del “de cuius” nei limiti in cui sia valida, e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti), la domanda di accertamento pregiudiziale all’accoglimento della domanda di collazione era, invece, soggetta ai termini di decadenza exart. 167 c.p.c.e non poteva essere proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni, perché integrava un’ipotesi di ampliamento o mutamento della domanda.
2.2. Va qui chiarito che la domanda di cui si dice, quale domanda di accertamento dell’esistenza di una donazione indiretta non integra gli estremi di una eccezione difensiva, ma di una domanda giudiziale, dovendosi tener conto che si ha eccezione riconvenzionale allorché l’istanza resti contenuta nell’ambito dell’attività strettamente difensiva, mentre si ha domanda riconvenzionale quando il convenuto chiede un provvedimento positivo, autonomamente attributivo di una determinata utilità, cioè che vada, oltre, il mero rigetto della domanda avversaria, ampliando, così, la sfera dei poteri decisori del Giudice.
2.3. La domanda incidentale in ordine alla esistenza della donazione indiretta disposta dal de cuius D.L. a favore della figlia T., per altro, contrariamente, a quanto sostenuto dal ricorrente, non può ritenersi ricompresa nella domanda relativa alla ricostruzione del relictum e del donatum, per quanto quest’ultima domanda presuppone l’esistenza già accertata delle donazioni, che devono essere considerate nella ricostruzione del patrimonio ereditario.
In definitiva, il ricorso va rigettato. Non occorre provvedere alla liquidazione delle spese posto che gli intimati in questa fase non hanno svolto alcuna attività giudiziale. Si dà atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 14 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2019