RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO IN CASO DI DISSENSO DELL’ALTRO GENITORE

Di Gianfranco Dosi
I Il problema sociale del riconoscimento successivo da parte del padre dei figli nati fuori dal matrimonio
Un volume dell’Istat pubblicato nel 2014 (“Avere figli in Italia negli anni 2000”) ha analizzato le di-namiche riproduttive delle donne in Italia, sfruttando il potenziale informativo relativo ad indagini su oltre 17.000 madri condotte dall’Istat nel 2002, nel 2005 e nel 2012.
La ricerca informava che nel 2012 a fronte di 534.186 nascite in Italia circa il 2,1% erano nascite avvenute da madre nubili (ragazze madri) di età compresa tra i 14 e i 19 anni. Un fenomeno in crescita nel nostro paese, anche in regioni del nord come la Lombardia, mentre qualche anno fa la percentuale di ragazze madri si concentrava in Campania e in Sicilia. Secondo le statistiche il 68% dei padri lascia il nucleo familiare prima della nascita del figlio, rendendo la situazione economica della giovane mamma più complicata, in quanto, oltre a dover portare avanti la gravidanza, deve cercare un modo per mantenere se stessa e poi il figlio.
È soprattutto questo il contesto generale di riferimento delle problematiche giuridiche del riconoscimento successivo del figlio nato fuori dal matrimonio. Figli che nascono senza essere riconosciuti dal padre e che molti padri, però, chiedono in seguito, spesso molti anni dopo, di riconoscere.
Si tratta di situazioni in cui una ragazza porta avanti la gravidanza da sola, partorisce e si prende poi cura del figlio da sola, magari anche per molti anni.
In seguito la madre e il figlio potranno sempre chiedere che il tribunale dichiari la paternità.
Spesso, però, avviene che dopo la nascita del figlio sia lo stesso padre a chiedere di riconoscere il figlio di cui si era disinteressato.
II Il riconoscimento successivo consensuale
a) Il figlio infraquattordicenne
Al riconoscimento successivo che potremmo chiamare consensuale fanno riferimento il terzo e il quarto comma dell’art. 250 del codice civile.
Al primo comma l’art. 250 del codice civile prevede che “Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente” e al terzo comma prescrive che “Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento”.
In entrambi i casi (riconoscimento congiunto o separato) possiamo parlare di riconoscimento con-sensuale, cioè con l’accordo pieno di entrambi i genitori.
Pertanto il padre che intenda riconoscere il figlio infraquattordicenne tardivamente per farlo ha necessità del consenso della madre che lo ha già riconosciuto. Il consenso viene manifestato di norma davanti all’ufficiale di stato civile contestualmente all’atto del riconoscimento effettuato tardivamente dal secondo genitore. Può anche, però, essere contenuto in un atto pubblico o in un testamento (art. 45 DPR 3 novembre 2000, n. 396. Ordinamento di stato civile).
In alternativa rispetto a queste modalità il padre dovrà depositare presso l’ufficio di stato civile la sentenza del tribunale che tiene luogo del consenso mancante (di cui si parlerà più oltre). Il primo comma dell’art. 45 dell’Ordinamento di stato civile è molto chiaro in proposito affermando che il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni “non può essere ricevuto” senza il consenso del genitore che lo ha riconosciuto per primo. Del consenso di farà menzione nell’atto di riconoscimento. L’ordinamento di stato civile attribuisce quindi al consenso del primo genitore (ovvero alla sentenza del tribunale in caso di dissenso) il valore di presupposto di validità del se¬condo riconoscimento.
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2014, n. 17277 il consenso del primo genitore al riconoscimento successivo da parte dell’altro, deve essere prestato personalmente anche se il genitore è stato sospeso dalla responsabilità genitoriale, e non, quindi, dal tutore del minore medesimo. E’ invece il tutore a dover dare il consenso ove la madre sia deceduta (Cass. civ. Sez. I, 26 novembre 1998, n. 12018).
b) Il figlio ultraquattordicenne
Uno dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico vigente della filiazione è quello secondo cui l’assenso del figlio che abbia compiuto l’età di quattordici anni (e quindi ancora minore o mag¬giorenne) è elemento imprescindibile per l’efficacia del riconoscimento da parte dei genitori.
Il secondo comma dell’art. 250 del codice civile, infatti, prescrive che “Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso”.
La disposizione è stata così riformulata dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filia¬zione che ha ridotto da sedici anni a quattordici l’età del figlio oltre la quale il riconoscimento non può produrre effetti senza l’assenso dell’interessato.
Nessuno che abbia compiuto quattordici anni, quindi – minore o maggiorenne che sia – può essere riconosciuto come figlio nato fuori dal matrimonio se non è d’accordo.
Se il figlio che il secondo genitore intende riconoscere tardivamente ha, quindi, compiuto i quattor¬dici anni, sarà il figlio stesso che deve esprimere il proprio assenso. Perciò per riconoscere tardiva¬mente un figlio che ha più di quattordici anni (minorenne o maggiorenne che sia) non occorre mai il consenso del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Il raggiungimento, da parte del minore, dell’età di quattordici anni, ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato personale giudizio, rilevabile d’ufficio, determina, quindi, il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781; Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2003, n. 14).
Secondo l’art. 45 dell’Ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) il consenso può essere manifestato all’ufficiale di stato civile contestualmente al secondo riconoscimento (i due genitori si recheranno insieme all’ufficio di stato civile) o anche anteriormente (cioè con un pre-riconoscimento anch’esso effettuato congiuntamente dai genitori). E può anche essere contenuto in un testamento o in un atto pubblico. Secondo una opinione plausibile espressa in passato da Trib. Minorenni Ancona, 29 maggio 2006 il consenso potrebbe anche essere documentato in un verbale di udienza che è atto pubblico.
III Il procedimento (riformato nel 2012) di riconoscimento successivo in caso di dissenso del primo genitore
Non sempre la madre che ha effettuato da sola il riconoscimento del figlio alla nascita vede con favore la richiesta del padre di riconoscere il figlio tardivamente.
A questa situazione fa riferimento il quarto comma dell’art. 250 che – nel testo ampiamente rifor¬mulato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filiazione – prevede quanto segue:
Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giu¬dice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’ar¬ticolo 315-bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262.
Questa disposizione – come detto completamente riformata nel 2012 rispetto al testo del codice civile previgente1 – prevede numerosi passaggi da approfondire trattandosi di significative novità sostanziali e processuali.
a) L’interesse del minore e la valorizzazione del suo punto di vista (i casi di autorizza¬zione e di esclusione dell’autorizzazione al riconoscimento)
“Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio…”
Il primo periodo del quarto comma dell’art. 250 c.c. ribadisce il principio generale secondo cui in tutti i contesti privati o pubblici e in tutte le decisioni che concernono i minori, “L’interesse supe¬riore del minore deve essere una considerazione preminente” (art. 3 Convenzione sui diritti del minore di New York del 20 novembre 1989). Principio espresso ormai in molteplici passaggi dell’or¬dinamento giuridico interno (salvo che nella Costituzione italiana dove l’art. 31 secondo comma, incredibilmente mai fatto oggetto di un più moderno progetto di modifica, si limita ad affermare che la Repubblica “protegge…l’infanzia”), come appunto, per ciò che attiene al riconoscimento, in apertura di questo quarto comma dell’art. 250.
Il monito a tener presente l’interesse del minore è rivolto innanzitutto al genitore che per primo ha effettuato da solo il riconoscimento. In effetti una donna che si trova a riconoscere un figlio dopo essere stata magari abbandonata dall’altro genitore (giacché questa è la situazione statisticamen¬te più diffusa) avrebbe più di una buona ragione per opporsi alla richiesta di riconoscimento che perviene da chi avrebbe potuto riconoscere ed occuparsi del figlio dalla nascita. Che affidamento si può fare su un padre che fugge dalle sue responsabilità non riconoscendo il figlio? Eppure anche in queste situazioni – come nelle altre in cui il mancato riconoscimento dipende da altre circostanze (per esempio dalla mancata conoscenza della nascita) – il legislatore invita soprattutto a valutare le conseguenze che per una persona può avere il fatto di non essere riconosciuto da entrambi i genitori. Le conseguenze psicologiche e sociali del crescere senza un genitore (quali che siano le motivazioni per le quali alla nascita del figlio non è stato effettuato il riconoscimento) possono essere anche devastanti per l’equilibrio di una persona.
Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016 con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre della minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rappor¬to parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, ha ritenuto che sussiste la responsabilità della madre per il danno da privazione del rapporto genitoriale.
In secondo luogo il monito della legge è rivolto al giudice che, di fronte al ricorso del padre bio¬logico che chiede di riconoscere tardivamente il figlio (e che non può farlo, essendo necessario il consenso della madre che lo ha riconosciuto e che non vuole acconsentire) deve decidere se il dissenso manifestato dalla madre è o meno plausibile. La chiave di lettura della plausibilità o meno del dissenso è, appunto, costituita dall’interesse del minore.
L’interesse del minore ad essere riconosciuto va accertato in concreto o può essere presunto ren-dendosi quindi necessario provare soltanto i gravi motivi che sconsigliano il riconoscimento?
Secondo alcune pronunce sarebbe necessaria l’individuazione di un concreto interesse del minore al riconoscimento. Così per esempio Trib. Taranto Sez. I, 7 maggio 2014 ha affermato che il sacrificio totale alla genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi ed irreversibili
1 Il testo dell’art. 250 del codice civile prima della riforma del 2012 era il seguente:
Il figlio naturale può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto con¬giuntamente quanto separatamente.
Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni non produce effetto senza il suo assenso. [3] Il ricono¬scimento del figlio che non ha compiuto i sedici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento.
Il consenso non può essere rifiutato ove il riconoscimento risponda all’interesse del figlio. Se vi è opposizione, su ricorso del genitore che vuole effettuare il riconoscimento, sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero, decide il tribunale con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante.
Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età.
motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compressione dello sviluppo del minore e della sua salute psico-fisica.
Prevale, però, assolutamente in giurisprudenza l’altro orientamento secondo cui non servirebbe un riscontro concreto dell’interesse del minore ma al contrario è sempre necessaria l’individuazione e l’esplicitazione dei gravi motivi che depongono per la decisione di non autorizzare il riconoscimento.
È questa la posizione per esempio assunta da Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 che, confermando la decisione di merito contraria al riconoscimento, ha ribadito che l’opposizione al rico-noscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconoscimento della stessa da parte del genitore (nella specie sono stati ritenuti ostativi al riconoscimento il vissuto del padre e la sua personalità, “tenuto conto che egli era cresciuto in un contesto difficile, caratterizzato da violenti litigi fra i genitori e dall’abuso da parte del padre di sostanze alcooliche, e che il facile ricorso alla violenza aveva sempre caratterizzato la sua vita, segnata anche dallo stato di detenzione per otto anni a seguito della commissione di un crimine consistito nell’aver provocato la morte di un coetaneo nel corso di una lite”); Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 secondo cui il ricono¬scimento del figlio costituisce un diritto soggettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di dan¬no gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore (non è stato ritenuto di per sé ostativa la mera pendenza di un processo penale, nella specie per alterazione di stato, a carico del genitore richiedente e neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dal contesto di affidamento); Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 2008, n. 13830 (che non ha ritenuto fatto grave ostativo al ricono¬scimento il comportamento denunciato di minacce e lesioni posto in essere dal padre richiedente nei confronti della madre che si opponeva), dove si afferma che deve presumersi l’interesse del minore al riconoscimento da parte di entrambi i genitori, e che sul genitore che abbia già effettuato il rico¬noscimento, e che intenda opporsi a quello dell’altro, incombe l’onere della prova di fatti eccezionali, gravi ed irreversibili, tali da far ritenere in termini di accentuata probabilità che tale secondo ricono¬scimento possa seriamente compromettere lo sviluppo psicofisico del minore. In senso analogo Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (che non ha ritenuto ostativo al riconoscimento il disinteresse del padre durato molti anni dalla nascita del figlio); Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2005, n. 23074 (che ha confermato la decisione della corte d’appello, la quale, nel negare l’autorizzazione aveva rav¬visato il pericolo della detta compromissione in ragione delle connotazioni fortemente negative della personalità del genitore che intendeva procedere al secondo riconoscimento, essendo questi inserito nell’ambiente della criminalità organizzata ed attualmente detenuto per gravi reati); Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2878 (che non ha ravvisato un impedimento nello scarso interesse verso il figlio, prima e dopo la nascita); Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (che non ha rav¬visato un impedimento nelle pregresse ripetute pressioni per l’interruzione della gravidanza); Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11949 e Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14894 (che non hanno ravvisato un impedimento nello stato di pregressa e superata tossicodipendenza del padre richiedente); Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 e Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1999, n. 2338 (che non hanno ritenuto ostativo al riconoscimento rispettivamente il fatto che il minore stesse per essere adottato dal coniuge della madre e che avesse semplicemente instaurato un ottimo e vali¬do rapporto affettivo con il marito della madre); Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (che ha confermato la sentenza che aveva escluso che costituissero impedimento al secondo riconoscimento l’età del padre naturale, la sua residenza in una località lontana da quella di residenza della minore, nonché la mancanza, da parte sua, di un’attività lavorativa stabile e di un’autonoma abitazione); Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1990 e Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 1993, n. 1412 (che, accogliendo il ricorso avverso una pronuncia di rigetto dell’autorizzazione, affermavano che “il diritto al riconoscimento non può essere disconosciuto sulla sola base di una condotta morale non esente da censure, di per sé rilevante, però, per il diverso fine dell’affidamento”); Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (che non ha ritenuto ostativa all’autorizzazione al riconoscimento la mera diversità culturale, di origini, di etnia e di religione del padre richiedente); Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (che ammettendo il riconoscimento in un caso di differenze culturali e religiose, affermava che soltanto il fanatismo religioso, potrebbe assumere rilievo dirimente qualora si traduca in un’indebita compressione dei diritti di libertà del minore o in un pericolo per la sua crescita secondo i canoni generalmente riconosciuti dalle società civili).
Secondo Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2019, n. 4526 il riconoscimento del figlio minore infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto dall’altro genitore, che si oppone, costi¬tuisce un diritto di rilevanza costituzionale, che non solo non si contrappone all’interesse superiore del minore, ma anzi concorre a definirlo, in quanto incide sul diritto di quest’ultimo alla genitorialità piena e non dimidiata, quale espressione dell’identità personale, sicché è precluso non dal mancato riscontro di uno specifico interesse del minore al riguardo, ma solo dall’accertamento della forte probabilità che, già dalla mera attribuzione della genitorialità, possa derivare una compromissione grave e irreversibile dello sviluppo del minore.
In tutte queste decisioni si afferma che l’interesse del figlio minore al riconoscimento della paternità, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effet-tuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compro-missione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica (così espressamente Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2019, n. 4526 e Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4763).
La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Si tratta in sostanza della posizione spesso assunta espressamente dalla giurisprudenza in tema di dichiarazione giudiziale della paternità secondo cui il riconoscimento può essere ritenuto contrario all’interesse del minore soltanto in situazioni di grave pregiudizio per il minore nelle quali, se vi fosse stato riconoscimento, si dovrebbe dichiarare la decadenza dalla “potestà” genitoriale (Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 1996, n. 8413; Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 1996, n. 1444).
Nello stesso senso in giurisprudenza di merito si sono espressi Trib. Minorenni Palermo, 13 marzo 2012 (competente prima della riforma del 2013) secondo cui il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore al riconoscimento non costituisce ostacolo all’attuazione di esso da parte del genitore, in caso di opposizione del genitore che vi ha proceduto per primo, in quanto il sacrificio della genitorialità è ammissibile solo quando sia accertata la esistenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da segnalare la compromissione del minore per effetto del riconoscimen¬to; Trib. minorenni Palermo, 26 gennaio 2009, secondo cui la richiesta di riconoscimento ai sensi dell’art. 250 c.c. è inammissibile qualora possa arrecare grave nocumento all’integrità psichica del minore (nella specie il Tribunale ha rigettato il ricorso per il riconoscimento di minore concepito a seguito di violenza sessuale).
In una posizione tesa a valorizzare l’opinione del minore ai fini della valutazione circa l’autorizza¬zione al riconoscimento, si è posta espressamente parte della giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2004, n. 21359 e Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2000, n. 6784 se¬condo cui la l’audizione del minore è rivolta a soddisfare anche l’esigenza di accertare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo abbia proceduto al riconoscimento risponda o meno all’in¬teresse del figlio. L’orientamento che valorizza il punto di vista del minore era stato fortemente espresso anche da Trib. Minorenni Emilia-Romagna Bologna, 23 aprile 2005 dove si afferma che sebbene il riconoscimento del figlio naturale sia diritto soggettivo primario del genitore, e si presuma lo specifico interesse del minore al riconoscimento, tuttavia, nel giudizio di opposizione al ricorso promosso del secondo genitore proponente domanda giudiziale di riconoscimento, qualora il minore adolescente non ancora legittimato all’assenso ex art. 250, co. 2, c.c., manifesti consa¬pevole ed autonoma contrarietà al riconoscimento successivo, del secondo genitore ricorrente, il diritto soggettivo del secondo genitore ricorrente non può prevalere al punto di recare un pregiu¬dizio psicofisico alla prole.
Ha molto valorizzato di recente il punto di vista del minore Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 dove si afferma che il riconoscimento del figlio minore infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo dell’altro, tutelato nell’art. 30 Cost. che può, tuttavia, essere sacrificato in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore stesso. In questo quadro – si sostiene nella sentenza – il ne¬cessario bilanciamento tra l’esigenza di affermare la verità biologica con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, impone di accertare quale sia, in concreto, l’interesse del minore, valorizzando primariamente i risultati della sua audizione, una volta accertatane da parte del giudice la capacità di discernimento. La sentenza ha cassato una decisione della corte d’appello di Roma che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di riconoscimento della figlia infra-quattordicenne, mal¬grado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione.
È evidente che più l’età del minore si avvicina ai quattordici anni in cui il suo assenso è imprescindibile (art. 250, secondo comma), più il suo punto di vista deve essere preso in adeguata considerazione.
b) La procedura veloce in caso di ricorso del padre in tribunale non seguito da opposizione
“Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante…”
Questo secondo periodo della disposizione – del tutto innovativo rispetto al sistema precedente alla riforma del 2012 – prevede un procedimento veloce a disposizione del padre biologico, per il caso in cui la madre non intenda acconsentire al riconoscimento paterno successivo.
Il padre biologico può ricorrere al giudice il quale fissa un termine per la notifica del ricorso alla madre.
A questo punto la madre, presa visione del ricorso, ha due strade a disposizione: a) potrebbe non presentare nessuna opposizione (ritirando di fatto il dissenso che aveva manifestato: un vero ripensamento) e accettare la richiesta del padre di riconoscere tardivamente il figlio rimettendosi alla decisione del tribunale (in tal caso il padre potrà successivamente riconoscere il figlio presen¬tandosi all’ufficio di stato civile con la sentenza del tribunale); b) potrebbe invece anche ritenere inutile attendere una sentenza e accompagnare il padre all’ufficio di stato civile esprimendo in quella sede il consenso davanti all’ufficiale di stato civile stesso, in modo che il padre possa diret¬tamente effettuare il riconoscimento all’ufficio di stato civile).
Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della paternità, l’intervenuto riconoscimento del figlio con l’assenso dell’altro genitore dianzi all’Ufficiale dello Stato civile, determina la declaratoria di cessazione della materia del contendere, analogamente a quanto avviene nel corso dell’azione di accertamento della paternità (Trib. Parma Sez. I, 15 febbraio 2017).
Nel corso di questa procedura veloce non è prevista nessuna attività istruttoria e, circostanza che si configura certamente come illogica e forse illegittima, nemmeno l’audizione del figlio minore.
Da un punto di vista strettamente processuale sono tre gli aspetti da considerare.
Innanzitutto il problema di quale sia il giudice competente ad emettere la sentenza che “tiene luogo del consenso mancante” e quindi a quale giudice il padre deve presentare ricorso. Fino alla riforma del 2012 della filiazione il giudice competente per questo procedimento (allora a contrad¬dittorio immediato2) era il tribunale per i minorenni e questo spiega come mai la totalità della giu¬risprudenza sul punto abbia origine dai tribunali per i minorenni. Con la riforma operata dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 è stata modificata la norma fondamentale in materia di competenza nei procedimenti di diritto di famiglia che è l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, sulla base del cui secondo comma il giudice competente oggi ad adottare la sentenza è il tribunale ordinario3. La giurisprudenza ha avuto modo di confermare questa conclusione circa la competenza del tribunale ordinario (Cass. civ. Sez. VI, 29 luglio 2015, n. 16103). Del tutto inaccettabile è la posizione di chi ha ritenuto competente il giudice tutelare (Trib. Catanzaro, 5 marzo 2013).
Il secondo problema attiene al rito processuale da seguire e quindi alla forma che deve avere il ricorso del padre. Come si è visto la norma prevede che “il giudice decide con sentenza”. Il che vuol dire che il procedimento ha natura contenziosa decidendo su diritti delle persone. Nonostante ciò, in linea con la precedente prassi giudiziaria seguita nei tribunali per i minorenni ed in perfetta sintonia con il testo dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, il rito da seguire è quello camerale (“…il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”) e pertanto il ricorso del padre biologico è un ricorso camerale diretto al tribunale (che decide in composizione collegiale). Il rito è quindi certamente camerale (Trib. Pra¬to, 27 luglio 2017), sia pure definito con sentenza.
Il terzo problema attiene all’eventuale impugnazione da parte della madre (che non ha presenta¬to opposizione) della sentenza “che tiene luogo del consenso mancante” adottata su ricorso del padre. E’ evidente che, non avendo presentato opposizione, la madre è carente di interesse ad impugnare nel merito la decisione “che tiene luogo del consenso mancante” ma non si può esclu¬dere che possa avere interesse ad impugnarla per ragioni di legittimità: si pensi al caso la sentenza dovesse essere pronunciata prima dello spirare dei trenta giorni dalla notifica a disposizione della madre per presentare opposizione. Per quanto attiene alle impugnazioni, trattandosi di un prov¬vedimento avente senz’altro natura decisoria (espressamente una sentenza) il provvedimento del tribunale è reclamabile in Corte d’appello la cui decisione è poi ricorribile per cassazione.
c) Il procedimento in seguito all’opposizione della madre e l’audizione del figlio
“…se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento…”
Potrebbe però avvenire che la madre ritenga di dover insistere nel negare il suo consenso. In tal caso deve presentare opposizione (entro trenta giorni dalla notifica del ricorso del padre biologico).
Si apre quindi davanti al tribunale ordinario il procedimento (appunto a contraddittorio posticipato) che nel merito potrà accogliere l’opposizione o rigettarla.
Come si dirà nel procedimento vertendosi in un caso di conflitto d’interessi, anche in via potenzia¬le, tra il primo genitore e il figlio spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale che rappresenti in sede processuale il figlio minore.
Come si è detto il procedimento ha natura camerale-contenziosa e3d è di competenza del tribunale (in composizione collegiale). Avendo la decisione natura decisoria, avverso la sentenza saranno
2 Come si è detto il terzo comma dell’art. 250 c.c. nel testo precedente alla riforma prevedeva un procedimento camerale apposito molto semplificato sia pure a carattere contenzioso (“Se vi è opposizione, su ricorso del geni¬tore che vuole effettuare il riconoscimento, sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero, decide il tribunale con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante“).
3 Disposizioni di attuazione del codice civile Art. 38
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile.
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni.
proponibili tutti i mezzi di impugnazione ordinari. Anche l’impugnazione seguirà il rito camerale, ma l’appello va proposto con ricorso che, in caso di notifica della sentenza a cura della parte, va depositato entro trenta giorni dalla notifica e non entro dieci giorni (Cass. civ. Sez. I, 31 di¬cembre 2008, n. 30688; Cass. civ. Sez. I, 26 aprile 1999, n. 4148; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 1991, n. 687). In caso di mancata notifica a cura di parte il termine è quello ordinario semestrale (art. 327 c.p.c.).
Il tribunale istruisce il procedimento assumendo anche d’ufficio ogni informazione utile.
Nel procedimento il Pubblico ministero può assumere conclusioni solo nei limiti delle domande pro-poste dalle parti e interviene obbligatoriamente ma non gli è riconosciuto il potere di impugnazione (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2009, n. 12984).
La legge applicabile ove quella straniera (nazionale del figlio ai sensi dell’art. 35 della legge 31 maggio 1995, n. 218), contenesse norme contrarie all’ordine pubblico, è quella italiana (Cass. civ. Sez. I, 28 dicembre 2006, n. 27592 e Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 1999, n. 1951 in casi in cui la legge straniera esclude la possibilità del riconoscimento della filiazione fuori dal matrimonio).
Nel procedimento deve essere obbligatoriamente sentito il figlio minore che ha compiuto dodici anni o anche di età inferiore se capace di discernimento, in virtù del principio generale contenuto nell’art. 315-bis del codice civile 4 (Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863; Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 le quali fanno peraltro discendere l’obbligo dell’audizione dalla qualità di parte attribuita al minore nel procedimento; Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884). L’audizione può essere omessa quando appare manifestamente superflua (come nel caso in cui il minore abbia appena due anni di età: Cass. civ. Sez. I, 31 ottobre 2013, n. 24556).
Nel procedimento previsto dall’art. 250 cod. civ., nel testo anteriore alla legge 10 dicembre 2012 n. 219, per conseguire una pronuncia in luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio infrasedicenne da parte del genitore, che lo abbia già riconosciuto, pur essendo obbligatoria l’au¬dizione del minore, come confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 2011, non è configurabile alcun vizio ove l’espletamento dell’incombente sia reso oggettivamente im¬possibile dalla tenera età del minore (nella specie, di neppure due anni) e, quindi, sia omesso perché superfluo.
Naturalmente il tribunale deve tenere in considerazione il punto di vista del minore, pur potendo decidere autonomamente rispetto alle valutazioni da lui espresse. Come si è già visto Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 ha cassato proprio una decisione della corte d’appello di Roma che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di riconoscimento della figlia infra-quattor¬dicenne, malgrado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione.
d) La posizione del minore: è parte o non è parte del procedimento? È obbligatoria la nomina di un curatore speciale?
In passato è stato sempre controverso se nella procedura che si apre in seguito all’opposizione al riconoscimento successivo il minore fosse da considerare o meno parte processuale. Poiché la legge impone in questo procedimento l’ascolto del minore, si riteneva per lo più che questo fosse sufficiente a dare rilievo e dignità alla sua posizione, senza necessità di doverla qualificare pro¬cessualmente come parte (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934; Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470). Si riteneva in sostanza che fosse il genitore che lo aveva già riconosciuto a rappresentarlo adeguatamente nel procedimento, senza che l’eventuale conflitto di interessi tra tale genitore e il figlio dovesse necessariamente portare alla nomina di un curatore speciale al minore.
Nel 2010 la Corte d’appello di Brescia sollevava, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile. Una madre si era opposta al secondo riconoscimento e il tribunale aveva rigettato l’opposizione. La donna aveva, perciò, impugnato la decisione sostenendo che il riconoscimento autorizzato dal tri¬bunale era contrario all’interesse del figlio che non aveva mai visto o sentito parlare del presunto padre e che viveva attualmente sereno con la madre e il marito di lei. Il procuratore generale chie¬deva l’accoglimento dell’impugnazione, in considerazione della particolare situazione del minore. La Corte di appello valutava la necessità dell’intervento in causa di un curatore speciale a tutela degli interessi del bambino, ma tale iniziativa incontrava l’opposizione della madre, la quale soste¬neva che il minore non aveva la qualità di parte processuale in questo procedimento, in conformità alla giurisprudenza prevalente della Corte di cassazione. La Corte d’appello riteneva che non può essere messo in dubbio che il diritto al riconoscimento del figlio naturale già riconosciuto costitu¬isca per l’altro genitore un diritto soggettivo garantito dall’art. 30 Cost., ma che anche al minore sarebbe stato necessario riconoscere piena tutela, che può essere in concreto attuata soltanto se l’interessato sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio.
4 Art. 315-bis. (Diritti e doveri del figlio).
Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.
La Corte costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 8, ribadita da Corte cost. 10 novembre 2011, n. 301) valutava la questione non fondata soste¬nendo – al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d’appello – che l’interpretazione sistematica e co¬ordinata delle norme giuridiche sulla nomina di un curatore speciale al minore “impone di pervenire alla conclusione che, anche per la fattispecie prevista dall’art. 250 del codice civile, il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, possa procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 cod. proc. civ., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappre¬sentante all’incapace. Invero, già l’articolo 250 c.c. stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostanze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostene¬re l’audizione). Tale adempimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interes¬si, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse”.
Al minore, perciò, va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio.
A questa interpretazione si è allineata la giurisprudenza.
Così, per esempio, Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645 (Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011, essendo implicati nel procedimento rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’ac¬certamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed inte¬ressi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione); Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c., parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c., tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante); Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863 (Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di op¬posizione di cui all’art. 250 c.c. e qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale); App. Napoli, 23 aprile 2013 (Nel procedimento di riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250 c.c., il minore è parte e spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale).
e) I provvedimenti provvisori e urgenti
“…e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la re¬lazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata…”
L’assoluta novità della procedura prevista nel nuovo art. 250 c.c. sta nel fatto che direttamente nel corso del giudizio che porterà alla sentenza “che tiene luogo del consenso mancante” il tribunale può assumere anche d’ufficio (“salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata”) ogni prov¬vedimento provvisorio utile ad “instaurare la relazione”, cioè a creare le condizioni perché tra il mi¬nore e il padre biologico possano instaurarsi o rafforzarsi i legami e i rapporti in modo che all’atto del futuro riconoscimento la condizione di tali rapporti possa favorire la relazione tra padre e figlio.
Si tratta di provvedimenti che naturalmente, devono essere adattati alla situazione concreta te¬nendo conto soprattutto dell’età del minore, dell’esistenza o meno di pregressi rapporti tra figlio e padre biologico, delle motivazioni che spingono la madre a dissentire rispetto al riconoscimento e di ogni altra circostanza.
Si tratta di provvedimenti per forza di cose immediatamente esecutivi (art. 38 disp. att. c.c. ) impugnabili, però, in Corte d’appello anche se aventi natura provvisoria. Secondo i nuovi recenti orientamenti della giurisprudenza in materia di decreti sulla responsabilità genitoriale, la decisione della Corte d’appello sarebbe anche ricorribile per cassazione per violazione di legge5.
f) Il contenuto ampio della sentenza
“Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provve¬dimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315-bis…”
5 Cfr la voce RESPONSABILITA’ GENITORIALE
La sentenza che definisce il procedimento espressamente “autorizza” il riconoscimento. Non di¬chiara la paternità. Pertanto il procedimento non configura un’azione di stato (Trib. Forlì, 26 ottobre 2015).
Il tribunale, in conformità al principio di celerità e di concentrazione che lo caratterizza, può anche dare disposizioni concernenti la regolamentazione dell’affidamento e relativi al mantenimento del minore.
Secondo quanto dispone l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori – ancorché definiti son sentenza – si ap¬plicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Quindi il tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente.
Per quanto attiene alle impugnazioni, si ribadisce che avendo la sentenza che definisce il procedi¬mento natura decisoria la stessa è reclamabile in Corte d’appello la cui decisione è poi ricorribile per cassazione per i motivi indicati nell’art. 360 c.p.c.
Il ricorso respinto dalla sentenza potrebbe poi essere sempre riproposto se si modificano le circo¬stanze di fatto in base alle quali la decisione è stata adottata. Infatti, secondo quanto affermato in passato da Cass. civ. Sez. I, 21 agosto 1993, n. 8861 il provvedimento con il quale il Tri¬bunale pronuncia sul ricorso proposto dal genitore che intenda effettuare il riconoscimento, ha natura e forma di sentenza, ma l’efficacia preclusiva del provvedimento stesso (che non dichiara direttamente il rapporto di filiazione, ma solo eventualmente rimuove un ostacolo al suo accerta¬mento) non può essere indiscriminatamente ritenuta. Ed invero mentre non può essere, per un verso, evidentemente rimessa in discussione la decisione definitiva di accoglimento del ricorso cui sia seguito il riconoscimento, diversamente la sentenza di rigetto deve ritenersi emessa rebus sic stantibus, non potendo impedire la riproponibilità del ricorso ove vengano dedotti motivi nuovi.
g) Il cognome
“…e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262”
Costituisce una significativa novità anche la disposizione che consente al giudice di decidere sul cognome del figlio il quale, come è previsto nell’art. 262 c.c. “può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”. La stessa norma all’ultimo comma prevede che nel caso di minore età del figlio, è il giudice il soggetto chiamato a decidere sul cognome.
h) È ammissibile nel procedimento l’eccezione di non veridicità della paternità?
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101; Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4325; Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 1991, n. 1958 l’accertamento della veridicità del riconoscimento esula dal procedimento previsto dall’art. 250, 4° comma, c.c. Tut¬tavia un’indagine in tal senso potrebbe essere svolta incidenter tantum, al solo e limitato fine di verificare la legittimazione attiva del richiedente. Trattasi di un accertamento di natura sommaria a carico del giudice del merito.
Anche App. Milano, 20 febbraio 2001 e App. Roma, 9 novembre 1993 hanno espresso lo stesso convincimento affermando che il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 250 c.c. è diretto in via esclusiva a conseguire una pronuncia giudiziale che tenga luogo del mancato consenso del genitore al riconoscimento del figlio naturale ed ha pertanto ad oggetto l’accertamento se il ricono¬scimento risponda o meno all’interesse del minore, sicché resta estranea al giudizio ogni ulteriore e diversa valutazione, ivi compresa quella inerente la veridicità del rapporto di filiazione.
IV Le criticità del procedimento
La possibilità per il tribunale di adottare in corso di causa provvedimenti provvisori e con la senten¬za provvedimenti sull’affidamento, sul mantenimento e sul cognome non è tutto priva di elementi di criticità. Il più rilevante dei quali è costituito certamente dal fatto che i provvedimenti provvisori vengono adottati prima ancora della decisione (che potrebbe anche essere di accoglimento dell’op-posizione) e che ugualmente i provvedimenti sull’affidamento, sul mantenimento e sul cognome connessi alla sentenza non potrebbero essere considerati esecutivi prima del giudicato e comun¬que prima che venga effettuato il riconoscimento (che potrebbe per ipotesi anche non essere effettuato dal genitore che è stato autorizzato).
Per questo motivo è stato suggerito in giurisprudenza (Trib. Milano, 16 aprile 2014) che, nell’in¬teresse superiore del minore a vedersi immediatamente e in modo genuino riconosciuto dal geni¬tore, il tribunale dovrebbe procedere ad “autorizzare il riconoscimento con una pronuncia parziale, disponendo la prosecuzione del giudizio in modo da consentire alla parte ricorrente di versare in atti la prova dell’avvenuto riconoscimento e di adottare poi, espletati, se del caso, i necessari ac¬certamenti, tutti i provvedimenti ex art. 315-bis e 262 c.c., come previsto dall’art. 250 comma 2 ultimo capoverso c.c., introdotto dalla Legge 219/2012”.
Questo orientamento trascura però di considerare una questione in verità trascurata da quasi tutta la dottrina e cioè che avverso la sentenza “non definitiva” è sempre proponibile l’appello (immediato o anche differito: art. 340 c.p.c.) seguito anche dal ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d’appello e che, di conseguenza, il giudicato della sentenza che autorizza il riconoscimento potrebbe intervenire dopo molto tempo. Con l’effetto di rendere del tutto superfluo il meccanismo individuato dal Tribunale di Milano.
Non è condivisibile neanche una più recente giurisprudenza di merito (Tribunale Roma, Sez. I, 14 ottobre 2016; Trib. Prato, 27 luglio 2017 e Tribunale Bologna Sez. I, 8 marzo 2018), suggerita da una parte della dottrina, secondo cui il ricorso del genitore che intende riconoscere il figlio sarebbe equiparabile ad una manifestazione irrevocabile della volontà di riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio e che il tribunale dettando contestualmente i provvedimenti ritenuti op¬portuni ai sensi degli artt. 315 bis e 262 c.c. darebbe atto del perfezionamento dell’efficacia della volontà di riconoscere il figlio palesata con la proposizione del ricorso e non revocabile e potrebbe ordinare all’Ufficiale di Stato Civile l’annotazione nell’atto di nascita del minore ai sensi dell’art. 49, comma 1 lett k) del DPR 396/2000 (che parla di “atti di riconoscimento di filiazione naturale, in qualunque forma effettuati”).
L’interpretazione offerta da queste ultime posizioni (su cui contra Tribunale Udine Sez. I, 5 luglio 2018 secondo cui la sentenza ex art. 250 c.c. non produce gli effetti del riconoscimento, in quanto tiene luogo del consenso mancante e si limita quindi ad autorizzare il ricorrente a ri¬conoscere il figlio) è del tutto opinabile in quanto nessuna norma giuridica equipara il ricorso per chiedere l’autorizzazione al riconoscimento del figlio ad un atto irrevocabile di riconoscimento. Ed ogni caso vale quanto sopra detto in ordine alla necessità che la sentenza del tribunale (anche qualora interpretata come conferma di una volontà di riconoscimento da parte dell’interessato) passi in giudicato, prima di essere inviata all’ufficiale di stato civile. Anche a voler ammettere, pertanto, che la decisione del tribunale possa giuridicamente costituire una conferma di una volontà di riconoscimento già manifestata in modo irrevocabile con la proposizione del ricorso introduttivo, la eventuale sentenza che dà atto di tale volontà deve comunque passare in giudicato prima di poter essere trasmessa all’ufficiale di stato civile.
In altre parole le maggiori criticità del nuovo procedimento (che nelle intenzioni vorrebbe velociz¬zare l’instaurazione della relazione tra il genitore e il figlio) stanno nel fatto che a differenza dei provvedimenti provvisori emessi sulla base dell’art. 38 disp. att. c.c. (quindi esecutivi ancorché impugnati) i provvedimenti conseguenziali alla autorizzazione al riconoscimento contenuti nella sentenza e quindi l’affidamento, il mantenimento e il cognome (analogamente a quanto previsto nell’art. 277 c.c. in materia di “effetti della sentenza” che dichiara la filiazione) non possono che essere subordinati al giudicato. E ciò anche qualora si volesse aderire alla tesi circa la natura con¬fermativa della sentenza rispetto al riconoscimento manifestato nel ricorso introduttivo. Prima che la sentenza passi in giudicato qualsiasi effetto (non di natura provvisoria e urgente) non potrà dirsi esecutivo. Si ricorda che – come si ricorderà tra breve – l’art. 282 c.p. sull’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado è circoscritta alle sole sentenze di condanna e non a quelle costitutive e dichiarative come quella autorizzativa del riconoscimento.
V L’autorizzazione all’affidamento e all’eventuale inserimento del figlio nella famiglia matrimoniale del secondo genitore
Il procedimento di cui all’art. 250 c.c. è riferibile alla ipotesi in cui una persona (in genere un sin¬gle) manifesta la volontà di riconoscere il figlio in caso di dissenso del genitore che per primo ne ha effettuato il riconoscimento.
Nel caso in cui il ricorrente sia coniugato, il provvedimento autorizzativo del tribunale non esau¬risce le procedure necessarie. L’art. 252 c.c. prevede infatti il caso in cui il figlio sia riconosciuto da persona coniugata, e dispone che per l’inserimento nella famiglia del richiedente è anche ne¬cessaria non soltanto l’acquisizione del consenso del coniuge del richiedente, ma soprattutto la valutazione della non contrarietà di tale inserimento rispetto all’interesse del minore e quindi una valutazione attenta del contesto familiare in cui il minore verrà inserito. Questo procedimento ex art. 252 c.c. può essere certamente attivato dopo l’avvenuto riconoscimento ma non si può esclu¬dere che, per iniziativa del ricorrente, la tematica del consenso del coniuge e dell’interesse del minore all’affidamento e all’inserimento nella famiglia coniugale del ricorrente stesso possa essere oggetto anche di attenzione da parte dello stesso tribunale davanti al quale è chiesta l’autorizza¬zione al riconoscimento.
VI La natura della sentenza di autorizzazione e il sistema delle impugnazioni
L’azione di cui all’art. 250 c.c. non può essere qualificata come azione di status in quanto non crea o non cancella uno status ma si limita ad autorizzare o non autorizzare il richiedente ad effettuare il riconoscimento di un figlio. La sentenza ex art. 250 c.c. non ha quindi natura costitutiva di un diritto (sebbene in dottrina questa tesi sia sostenuta) ma la natura di una sentenza “dichiarativa” che accerta l’interesse del minore e dichiara che nulla osta all’esercizio del diritto del richiedente di effettuarne il riconoscimento.
Ebbene le sentenze dichiarative (così come quelle costitutive) per giurisprudenza ormai costante non possono essere considerate provvisoriamente esecutive ai sensi dell’art. 282 c.p.c., tali es¬sendo soltanto le sentenze di condanna (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059).
La conseguenza è che, ferma la esecutività delle disposizioni provvisorie (ex art. 38 disp. att. c.c.), la natura (dichiarativa e comunque non di condanna) della sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 250 c.c. comporta non soltanto che il riconoscimento autorizzato dal tribunale può essere effettuato all’ufficio di stato civile soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza ma che anche le statuizioni accessorie previste nell’ultimo comma dell’articolo medesimo possono essere considerate esecutive soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza di autorizzazione al riconoscimento. Fino al giudicato saranno eseguibili soltanto le disposizioni di natura provvisoria e non certo quelle di tipo definitivo (affidamento, mantenimento, cognome) che pure il tribunale è facoltizzato ad emettere. Tutto ciò analogamente a quanto avviene con la sentenza (costitutiva) ex art. 277 c.c.
Tutto ciò anche nell’ipotesi fatta propria da una parte della giurisprudenza di merito che considera la sentenza (inviabile subito all’ufficio di stato civile) come confermativa del riconoscimento richie¬sto nel ricorso introduttivo.
Come si è detto, avverso la sentenza saranno proponibili tutti i mezzi di impugnazione ordinari.
Anche l’impugnazione seguirà il rito camerale, ma l’appello va proposto con ricorso che, in caso di notifica della sentenza a cura della parte, va depositato entro trenta giorni dalla notifica e non entro dieci giorni (Cass. civ. Sez. I, 31 dicembre 2008, n. 30688; Cass. civ. Sez. I, 26 aprile 1999, n. 4148; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 1991, n. 687). In caso di mancata notifica a cura di parte il termine è quello ordinario semestrale (art. 327 c.p.c.).
Si è già detto che nel procedimento il Pubblico ministero può assumere conclusioni solo nei limiti delle domande proposte dalle parti e interviene obbligatoriamente ma non gli è riconosciuto il po¬tere di impugnazione (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2009, n. 12984).
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2019, n. 4526 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio minore infraquattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto dall’altro geni¬tore, che si oppone, costituisce un diritto di rilevanza costituzionale, che non solo non si contrappone all’interes¬se superiore del minore, ma anzi concorre a definirlo, in quanto incide sul diritto di quest’ultimo alla genitorialità piena e non dimidiata, quale espressione dell’identità personale, sicché è precluso non dal mancato riscontro di uno specifico interesse del minore al riguardo, ma solo dall’accertamento della forte probabilità che, già dalla mera attribuzione della genitorialità, possa derivare una compromissione grave e irreversibile dello sviluppo del minore (la Suprema corte ha pertanto confermato la sentenza di merito, la quale, sul presupposto che il riconoscimento del minore, nonché l’attribuzione del cognome, ha presupposti giuridicamente diversi rispetto all’esercizio della responsabilità genitoriale, che ben potrebbe essere esclusa o limitata, ha ritenuto non ostativo al riconoscimento da parte del padre, cittadino straniero, la circostanza che quest’ultimo fosse gravato da nu¬merosi precedenti penali, per reati comunque non violenti, e che fosse mosso anche dal proposito di conseguire vantaggi personali, quanto all’ottenimento del permesso di soggiorno).
Tribunale Udine Sez. I, 5 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito dall’art. 262, terzo comma, cod. civ. del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da detta disposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all’interesse del minore, e con esclusione di qualsiasi automaticità. La sentenza ex art. 250 c.c. non produce gli effetti del riconoscimento, in quanto tiene luogo del consenso mancante e si limita quindi ad autorizzare il ricorrente a riconoscere il figlio.
Tribunale Bologna Sez. I, 8 marzo 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di riconoscimento della paternità ex art. 250 c.c., la pronuncia del giudice, una volta accertata la meritevolezza della domanda e l’assenza di eventuali gravi pregiudizi per lo sviluppo psicofisico del minore, che possano giustificarne il rigetto, va ritenuta sostitutiva del riconoscimento stesso, implicito nella domanda, con la conseguente adozione, con la stessa pronuncia con la quale si dà corso al riconoscimento, degli ulteriori provvedimenti nell’interesse del minore afferenti l’affidamento, il mantenimento e il cognome.
Cass. civ. Sez. I Ord., 28 febbraio 2018, n. 4763 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio da parte di un genitore (quando vi sia già stato il riconoscimento dell’altro, che vi si oppone) costituisce espressione di un diritto di rilevanza costituzionale, che però può essere sacrificato a fronte del rischio della compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore, il giudice (nel quadro di un bilanciamento tra l’affermazione della verità biologica e la conservazione degli assetti familiari in atto) deve accertare il concreto interesse al riguardo del minore, fermo che il riconoscimento non è impedito tanto da condotte moralmente censurabili o anche da pendenze penali di chi chiede di essere autoriz¬zato al riconoscimento stesso, quanto dalla condotta di vita di costui, che si traduca in gravi carenze genitoriali.
Qualora il figlio infra quattordicenne, nato al di fuori del matrimonio, sia stato riconosciuto da un genitore, per il riconoscimento da parte dell’altro genitore ex art. 250 c.c., rileva non solo il percorso di vita del genitore richie¬dente, ma anche l’idoneità dello stesso a rivestire la figura genitoriale.
Trib. Prato, 27 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La manifestazione della volontà di riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio, irrevocabile ai sensi dell’art. 256 c.c., avviene secondo le forme previste dall’art. 254 c.c. o, in difetto del consenso dell’altro genitore che lo abbia già effettuato, con la notifica del ricorso ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. che instaura un procedimento regolato dal rito camerale che si conclude con una sentenza con cui, ove l’opposizione sia ritenuta infondata, il Tribunale ordinario detterà contestualmente i provvedimenti ritenuti opportuni ai sensi degli artt. 315 bis e 262 c.c. dando atto del perfezionamento dell’efficacia della volontà di riconoscere il figlio palesata con la proposizione del ricorso e non revocabile ed ordinando all’Ufficiale di Stato Civile l’annotazione nell’atto di nascita del minore ai sensi dell’art. 49, comma 1 lett k), del DPR 396/2000.
In tema di rifiuto del consenso al riconoscimento del figlio infra quattordicenne, il tribunale ordinario, all’esito del procedimento promosso ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c., può dettare i provvedimenti ritenuti opportuni ex artt. 315-bis e 262 c.c. contestualmente all’emissione della sentenza che tiene luogo del consenso mancante del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, la quale, in virtù della volontà di riconoscimento già irrevocabilmente manifestata dal genitore mediante la proposizione del ricorso, può essere direttamente oggetto di annotazione nell’atto di nascita del minore.
Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 (Foro It., 2017, 5, 1, 1533)
Il risultato dell’audizione della figlia minore, capace di discernimento – la quale si sia opposta decisamente al riconoscimento da parte del padre – deve essere apprezzato dal Giudice del merito nel contesto della valutazio¬ne, in concreto, del suo interesse a realizzarsi nel contesto delle relazioni affettive che consentano uno sviluppo armonico della sua identità sotto il profilo psichico, culturale e relazionale.
Nel procedimento proposto a seguito dell’opposizione del genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio al successivo riconoscimento da parte dell’altro, il secondo rico¬noscimento non costituisce, di per sé, in assenza di gravi motivi ostativi, un vantaggio per la prole, in quanto il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, deve sempre valutare la concreta ed attuale sussistenza dell’in¬teresse al riguardo di quel minore, con riferimento al suo armonico sviluppo psicologico, affettivo, educativo e sociale, da valutarsi sulla base, da un lato, di quanto accertato con riferimento alla personalità del genitore richiedente, dall’altro di quanto emerso in sede di ascolto del minore medesimo (la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito, che aveva accolto la domanda di riconoscimento, non tenendo conto dell’opposizione della figlia, di cui pure era stata riconosciuta la capacità di discernimento, né degli elementi negativi relativi alla per¬sonalità e alla condotta del ricorrente medesimo).
Il riconoscimento del figlio minore infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto da un geni¬tore, costituisce un diritto soggettivo dell’altro, tutelato nell’art. 30 Cost., che può, tuttavia, essere sacrificato in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore stesso. In questo quadro, il necessario bilanciamento tra l’esigenza di affermare la verità biologica con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, impone di accertare quale sia, in concreto, l’interesse del minore, valorizzando primariamente i risultati della sua audizione, una volta accertatane da parte del giudice la capacità di discernimento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello, che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di rico¬noscimento della figlia infra-quattordicenne, malgrado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione).
Trib. Parma Sez. I, 15 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della paternità, l’intervenuto riconoscimento del figlio con l’as¬senso dell’altro genitore dianzi all’Ufficiale dello Stato civile, determina la declaratoria di cessazione della materia del contendere.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 2, lett. b, della l. n. 219 del 2012) subordina, nell’ipotesi di minore infraquattordicenne, la possibilità del secondo riconoscimen¬to al consenso del genitore che detto riconoscimento ha già effettuato e dispone, altresì, che, al compimento del quattordicesimo anno, il minore (anche se nato o concepito prima dell’entrata in vigore della l. n. 219 del 2012cit.) divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del genitore al riconoscimento, confi¬gurando il suo assenso quale elemento costitutivo dell’efficacia della domanda stessa di riconoscimento. Ne consegue che il raggiungimento, da parte del minore, della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nella specie, la S.C., preso atto che il minore aveva compiuto quattordici anni nel corso del processo ed aveva rifiutato il suo assenso al riconoscimento, ha dichiarato, su ricorso della madre, cessata la materia del contendere, cassando senza rinvio la sentenza di riconoscimento della paternità).
Tribunale Roma, Sez. I, 14 ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di riconoscimento della paternità ex art. 250 c.c., la pronuncia del giudice, una volta accertata la meritevolezza della domanda e l’assenza di eventuali gravi pregiudizi per lo sviluppo psicofisico del minore, che possano giustificarne il rigetto, va ritenuta sostitutiva del riconoscimento stesso, implicito nella domanda, con la conseguente adozione, con la stessa pronuncia con la quale si dà corso al riconoscimento, degli ulteriori provvedimenti nell’interesse del minore afferenti l’affidamento, il mantenimento e il cognome.
Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti familiari, con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre della minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, sussiste la responsabilità della madre per il danno da pri¬vazione del rapporto genitoriale.
Trib. Forlì, 26 ottobre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di una specifica previsione normativa e non rientrando il procedimento di cui all’art. 250 c.c. tra le azioni di stato – posto che il tribunale, in assenza del consenso del genitore che per primo ha riconosciuto il minore, non dichiara giudizialmente la paternità o maternità come nel procedimento ex art. 269 e ss. c.c., ma si limita a pronunciare sentenza che tenga luogo del consenso mancante – si reputa che il tribunale debba prov¬vedere seguendo il rito camerale.
Trib. Vicenza Sez. II, 17 settembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 c.c.. Orbene, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317 bis e 320 c.c.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.
Cass. civ. Sez. VI, 29 luglio 2015, n. 16103 (Foro It., 2016, 3, 1, 930)
La competenza a provvedere sull’autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, richiesta dal genitore non ancora sedicenne, spetta al tribunale ordinario e non a quello per i minorenni.
Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c. deve essere disposta obbligatoriamente l’audizione del minore, at¬teso che questi assume la qualità di parte, come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 83 del 2011, e che, sulla base dei principi riconosciuti a livello internazionale, il minore ha diritto di essere ascoltato in tutte le procedure che lo interessano, salvo solo il caso in cui tale audizione sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo stesso.
In tema di riconoscimento dei figli naturali, nel procedimento di cui all’art. 250, comma 4, c.c., l’audizione obbli¬gatoria del minore trova il suo ineludibile fondamento non già in ragione di mere esigenze istruttorie, bensì nella stessa qualità di parte da riconoscere al minore medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 324 nota di TOMMASEO)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c., parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c., tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante.
L’accertamento della veridicità del riconoscimento esula dal procedimento previsto dall’art. 250, 4° comma, c.c. Un’indagine in tal senso può essere svolta, in tale giudizio, incidenter tantum, al limitato fine di verificare la legittimazione attiva del richiedente. Trattasi, tuttavia, di un accertamento di natura sommaria a carico del giudice del merito.
In tema di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, nel procedimento volto a conseguire la sentenza che tiene luogo del consenso mancante del genitore, che lo ha effettuato per primo, al riconoscimento da parte dell’altro, sussiste l’obbligo di ascolto del minore infra-quattordicenne, che ne è parte.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2014, n. 17277 (Foro It., 2015, 6, 1, 2126)
Il consenso al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio da parte del genitore che lo abbia effettuato per secondo deve essere prestato personalmente da quello che vi aveva proceduto per primo, anche se sospeso dalla responsabilità genitoriale, e non dal tutore del minore medesimo (nella specie, la pronuncia di merito, conferma¬ta dalla Suprema corte alla stregua del principio sopra richiamato, aveva dichiarato inammissibile l’azione per il conseguimento della sentenza sostitutiva del consenso mancante proposta dal genitore che aveva proceduto al secondo riconoscimento, a fronte del dissenso espresso dal tutore, soggetto non legittimato, dovendosi invece completare la procedura amministrativa per il conseguimento del consenso del genitore che aveva riconosciuto per primo la figlia, benché sospeso dalla responsabilità genitoriale).
Il potere, spettante in via esclusiva al genitore che per primo ha riconosciuto il figlio infra-quattordicenne, di esprimere il consenso al secondo riconoscimento, da parte dell’altro genitore, costituisce un corollario della paternità (o maternità) e non della legale rappresentanza del minore nell’esercizio della potestà genitoriale, la cui sospensione, quindi, non gli impedisce di acconsentire al suddetto secondo riconoscimento, legittimando, in caso contrario, l’altro genitore a promuovere, ex art. 250 cod. civ., l’azione per ottenere la sentenza sostitutiva, in un procedimento nel quale il primo è litisconsorte necessario, insieme al minore, rappresentato dal tutore.
Trib. Taranto Sez. I, 7 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’interesse del figlio al riconoscimento di cui all’art. 250 c.c. è definito come il complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso ed, in particolare, del diritto alla identità personale nella sua precisa ed integrale dimensione psico-fisica. Ne deriva che, in caso di opposizione da parte del genitore che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale alla genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi ed irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compressione dello sviluppo del minore e della sua salute psico-fisica.
Trib. Milano, 16 aprile 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il provvedimento giudiziale che autorizza il padre al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio si limi¬ta ad autorizzare il genitore istante a riconoscere il minore, ma non equivale a riconoscimento, non potendosi escludere affatto che la parte, pur ottenuta l’autorizzazione, non dia corso al riconoscimento, proprio ed anche in ragione delle determinazioni giudiziali in punto di affidamento o di mantenimento, con la conseguenza che le sta¬tuizioni adottate, anche eventualmente in via provvisoria, rimarrebbero di fatto prive di effetto, in una situazione di efficacia quiescente rimessa alla volontà discrezionale della parte, situazione non compatibile con l’efficacia propria dei provvedimenti giurisdizionali, oltre a creare una situazione di potenziale pregiudizio per il minore con l’introduzione nella sua vita di una figura che poi non lo riconosce. Ne deriva che nell’interesse superiore del minore a vedersi immediatamente e in modo genuino riconosciuto dal genitore deve procedersi ad autorizzare il riconoscimento con una pronuncia parziale, disponendo la prosecuzione del giudizio in modo da consentire alla parte ricorrente di versare in atti la prova dell’avvenuto riconoscimento e di adottare poi, espletati, se del caso, i necessari accertamenti, tutti i provvedimenti ex art. 315-bis e 262 c.c., come previsto dall’art. 250 comma 2 ultimo capoverso c.c., introdotto dalla Legge 219/2012.
Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645 (Foro It., 2014, 2, 1, 485)
Nel procedimento proposto a seguito dell’opposizione del genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio nato fuori dal matrimonio al successivo riconoscimento da parte dell’altro, il giudice deve procedere, a pena di nullità, all’ascolto del figlio, parte di quel procedimento, ovvero deve indicare le ragioni dell’omissione (nella specie, la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito che si era limitata ad accertare che il secondo riconoscimento non era contrario all’interesse della minore, di circa nove anni di età, senza motivare sulle ragioni ostative all’a¬scolto della stessa, quali, ad esempio, l’insufficiente capacità di discernimento).
Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011 – che ne ha per tale via confermato la conformità a Costituzione – essendo implicati nel procedimento de quo rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genito¬riale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed interessi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ.. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, la tutela della sua posizione può es¬sere in concreto attuata soltanto se sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio, mediante nomina di un terzo rappresentante.
Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione al riconoscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconoscimento della stessa da parte del genitore.
Ciò in base al vissuto dell’uomo ed alla sua personalità, tenuto conto che egli era cresciuto in un contesto difficile, caratterizzato da violenti litigi fra i genitori e dall’abuso da parte del padre di sostanze alcooliche, e che il facile ricorso alla violenza aveva sempre caratterizzato la vita del M., segnata anche dallo stato di detenzione per otto anni a seguito della commissione di un crimine consistito nell’aver provocato la morte di un coetaneo nel corso di una lite.
Cass. civ. Sez. I, 31 ottobre 2013, n. 24556 (Famiglia e Diritto, 2014, 10, 909 nota di LAI)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 cod. civ., nel testo anteriore alla legge 10 dicembre 2012 n. 219, per conseguire una pronuncia in luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio infra-sedicenne da parte del genitore, che lo abbia già riconosciuto, pur essendo obbligatoria l’audizione del minore, come confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 2011, non è configurabile alcun vizio ove l’espletamento dell’in¬combente sia reso oggettivamente impossibile dalla tenera età del minore (nella specie, di neppure due anni) e, quindi, sia omesso perché superfluo.
App. Napoli, 23 aprile 2013 (Famiglia e Diritto, 2013, 7, 718)
Nel procedimento di riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250 c.c., deve essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento, salvo che, per ragioni di età o per altre circo¬stanze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione; qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, come nel caso in cui l’altro genitore si opponga al riconoscimento, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.
App. Napoli Decreto, 17 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di procedimento innanzi al giudice minorile per conseguire il riconoscimento di un figlio minore, in ragione dell’opposizione dell’altro genitore, che abbia già proceduto al riconoscimento, il minore – anche infra-sedicenne – è parte sostanziale, e – in caso di conflitto di interessi, anche solo potenziale, con il genitore oppo¬nente – il giudice deve nominare un curatore speciale che lo rappresenti.
Trib. Catanzaro, 5 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La legge n. 219/2012, modificando l’art. 250 c.c., ha ammesso il riconoscimento del figlio da parte del genitore infra-sedicenne, sotto condizione dell’autorizzazione del giudice. Nel silenzio della legge, l’autorizzazione deve ri¬tenersi demandata alla competenza del Giudice Tutelare. In primo luogo, la legge ha attribuito al Giudice Tutelare il potere di accertamento della capacità naturale degli individui, al fine di verificarne l’idoneità al compimento di determinati atti. Inoltre, in questo senso, depone la particolare snellezza e deformalizzazione dei procedimenti di competenza del Giudice Tutelare, che assicurano di norma una particolare celerità nella decisione e si presenta¬no, pertanto, del tutto idonei alle esigenze di speditezza che simili casi richiedono. Per la competenza del giudice tutelare depone anche la circostanza che il provvedimento nel caso di specie richiesto all’Autorità Giudiziaria non risolve una questione contenziosa ma ha la funzione, in quanto autorizzatorio, di rimuovere un limite posto dall’ordinamento nei confronti di un soggetto superando, attraverso l’accertamento in concreto, la presunzione di incapacità ritenuta dal legislatore.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 653 nota di CARBONE)
Nel giudizio di opposizione al secondo riconoscimento di figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c., il minore degli anni sedici dev’essere obbligatoriamente sentito, salvo che ne sia incapace per età o per altre ragioni che il giudice di merito deve indicare in motivazione.
Trib. Minorenni Palermo, 13 marzo 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione ed il rifiuto dell’un genitore al riconoscimento del figlio naturale richiesto dall’altro ed il paventato turbamento per la serenità familiare del minore in caso di riconoscimento, va necessariamente distinto e non può interferire con il primario diritto del minore a fruire di entrambe le figure genitoriali. Né un tale atteggiamento di rifiuto si configura come un impedimento a che le parti svolgano, in caso limite, autonomamente il proprio ruolo di padre e madre, in modo da favorire, ognuna per suo conto e sotto il controllo del Giudice minorile, una corretta crescita psicofisica del minore. Il diritto al secondo riconoscimento non si pone, dunque, in termini di contrasto con l’interesse del minorenne, consistente in un complesso di opportunità derivanti dal riconoscimento, fra cui riveste particolare importanza l’acquisizione della identità personale nella sua integrale e precisa dimensione psicofisica, come figlio di una madre e di un padre determinati. Peraltro, anche l’eventuale mancato riscontro di un ulteriore interesse effettivo e concreto del minore al riconoscimento non costituisce ostacolo all’attuazione di esso da parte del genitore, in caso di opposizione del genitore che vi ha proceduto per primo, in quanto il sacri¬ficio della genitorialità è ammissibile solo quando sia accertata la esistenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da segnalare la compromissione del minore per effetto del riconoscimento.
Corte cost. Ordinanza, 10 novembre 2011, n. 301 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›articolo 250 del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost. in quanto identica questione è stata già dichiarata non fondata dalla sentenza n. 83 del 2011 e il rimettente non adduce elementi nuovi.
Corte cost., 11 marzo 2011, n. 83 (Giur. It., 2012, 2, 270 nota di GRISI)
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell›art. 250 c.c., sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost., dalla Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con l›ordinanza indicata in epigrafe.
a, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., in quanto nel giudizio promosso dal genitore naturale, a seguito dell’opposizione dell’altro genitore che abbia già operato il ricono¬scimento, al fine di effettuare a propria volta il riconoscimento, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost..
È infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell›art. 250 c.c., dovendo la norma essere interpretata nel senso che, ove alla domanda di riconoscimento di un figlio naturale faccia opposizione il genitore che lo ha già riconosciuto, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore.
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, in quanto per la fattispecie prevista dall’art. 250, quarto comma, cod. civ., il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 cod. proc. civ., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nomina¬re un rappresentante all’incapace. Invero, già la norma censurata stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostan¬ze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adem-pimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infra-sedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ.. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., costituisce un diritto sog¬gettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore, correlato alla pura e semplice attribuzione della genitorialità. Pertanto, la mera pendenza di un processo penale a carico del genitore richiedente (nella specie concorso in alterazione di stato, abbandono ed illecito affidamen¬to di neonato a terzi) non integra condizione “ex sé” ostativa all’autorizzazione al riconoscimento; neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con il diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc”.
Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è riconoscibile l’esecutività provvisoria, ex art. 282 c.p.c., del capo decisorio relativo al trasferimento dell’immobile contenuto nella sentenza di primo grado resa ai sensi dell’art. 2932 c.c., né è ravvisabile l’esecuti¬vità provvisoria della condanna implicita al rilascio dell’immobile in danno del promittente venditore, scaturente dalla suddetta sentenza nella parte in cui dispone il trasferimento dell’immobile, producendosi l’effetto traslativo della proprietà del bene solo dal momento del passaggio in giudicato di detta sentenza con la contemporanea acquisizione al patrimonio del soggetto destinatario.
Nelle sentenze rese ai sensi dell’art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, non è possibile operare la scissione tra capi costitutivi principali e capi condannatori consequenziali, specialmente con riferi¬mento ai quei capi cd. sinallagmatici, le cui statuizioni fanno parte integrante della pronuncia costitutiva nel suo complesso. Pertanto, la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sen¬tenza costitutiva va riconosciuta in concreto volta per volta a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto accessivo condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo producibile solo con il passaggio in giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo da quelle che invece sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta corrispet¬tiva – del rapporto oggetto della domanda costitutiva. Possono quindi ritenersi anticipabili i soli effetti esecutivi dei capi che sono compatibili con la produzione dell’effetto costitutivo in un momento successivo, ossia all’atto del passaggio in giudicato del capo di sentenze propriamente costitutive, quale la condanna al pagamento delle spese processuali contenuta nella sentenza che accoglie la domanda, mentre non sono anticipabili effetti quali il pagamento del prezzo della vendita ed il rilascio dell’immobile oggetto della promessa di vendita.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2009, n. 12984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle cause in cui il P.M. può assumere conclusioni solo nei limiti delle domande proposte dalle parti – come nel caso del procedimento disciplinato dall’art. 250 cod. civ., nel quale interviene obbligatoriamente ma non gli è riconosciuto il potere di impugnazione, non potendo proporre autonomamente il giudizio -, l’omissione o l’incom¬pletezza della trascrizione delle suddette conclusioni non comporta la nullità della sentenza, qualora non abbia determinato una mancata pronuncia sulle conclusioni non trascritte. (Nella specie, la S.C., esaminato il verbale d’udienza, e verificato che il P.M. aveva rassegnato le stesse conclusioni della parte privata, ha escluso la nullità della sentenza per aver il giudice motivato unitariamente).
Trib. Palermo Sez. minori, 26 gennaio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di riconoscimento dei figli naturali ai sensi dell’art. 250 c.c. è inammissibile qualora possa arrecare grave nocumento all’integrità psichica del minore (Nel caso di specie il Tribunale ha rigettato il ricorso per il riconoscimento di minore concepito a seguito di violenza sessuale).
Cass. civ. Sez. I, 31 dicembre 2008, n. 30688 (Foro It., 2009, 5, 1, 1450)
L’impugnazione della sentenza che definisce il procedimento camerale di autorizzazione al riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne, in difetto del consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimen¬to, richiede il deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, ovvero, nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa, il deposito dell’atto introduttivo entro lo stesso termine.
Nei procedimenti regolati dall’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, che si svolgono con il rito camerale e si concludono con sentenza, la forma dell’appello è quella del ricorso e non quella della citazione, stante la previsione generale di cui all’art. 737 cod. proc. civ., rispondendo alla “ratio” del sistema che, tutte le volte in cui il legislatore abbia previsto il rito camerale per il primo grado di un determinato procedimento, tale rito debba ritenersi implicitamente adottato anche per il gravame proponibile avverso di esso, ancorchè non consista nel reclamo previsto dall’art. 739 cod. proc. civ.; ne consegue che anche nel procedimento previsto dall’art. 250, comma quarto, cod. civ., il termine breve per appellare è rispettato con il tempestivo deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, mentre nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa il gravame deve considerarsi tempestivamente e validamente pro¬posto solo ove il deposito della citazione avvenga entro il termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, essendo detto deposito l’atto con il quale, nei procedimenti camerali, l’impugnazione è proposta.
Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 2008, n. 13830 (Foro It., 2008, 9, 1, 2457)
Posto che deve presumersi l’interesse del minore infra-sedicenne al riconoscimento da parte di entrambi i ge¬nitori, sul genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, e che intenda opporsi a quello dell’altro, incombe l’onere della prova di fatti eccezionali, gravi ed irreversibili, tali da far ritenere in termini di accentuata probabilità che tale secondo riconoscimento possa seriamente compromettere lo sviluppo psicofisico del minore.
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (Nuova Giur. Civ., 2008, 9, 1, 1081 nota di CHECCHINI)
I padri naturali – che hanno avuto figli nati fuori dal matrimonio – hanno sempre il diritto a riconoscere, anche con molti anni di ritardo dalla nascita, i bambini che non hanno voluto quando sono nati dalle loro compagne, compreso il caso in cui il minore, dal riconoscimento successivo, non tragga alcun interesse effettivo e concreto; l’istanza per ottenere il consenso giudiziale al riconoscimento può essere bloccata solo se vi è una forte probabi¬lità di una compromissione dello sviluppo del minore che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità.
L’interesse del figlio minore infra-sedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 28 dicembre 2006, n. 27592 (Famiglia e Diritto, 2007, 12, 1113 nota di DE FEIS, TOM¬MASEO)
In tema di azione diretta ad ottenere una pronuncia sostitutiva del consenso dell’altro genitore, al fine del rico¬noscimento di figlio naturale infrasedicenne, nato da relazione adulterina, proposta dal padre, cittadino egiziano, trova applicazione in via esclusiva la legge italiana, atteso che quella egiziana è contraria all’ordine pubblico, perché esclude la possibilità del riconoscimento della filiazione naturale.
In tema di capacità di fare il riconoscimento del figlio, disciplinata – in base alle norme del diritto internazionale privato (art. 35, secondo comma, della legge 31 maggio 1995, n. 218) – dalla legge nazionale del genitore, il principio di ordine pubblico internazionale che riconosce il diritto alla acquisizione dello “status” di figlio natu¬rale a chiunque sia stato concepito, indipendentemente dalla natura della relazione tra i genitori, costituisce un limite generale all’applicazione della legge straniera (nella specie, egiziana, recepente in materia di “statuto personale” il diritto islamico) che, attribuendo all’uomo la paternità unicamente nell’ipotesi in cui il figlio sia stato generato in un “rapporto lecito”, preclude al padre di riconoscere il figlio nato da una relazione extrama¬trimoniale. In tal caso, stante la rilevata contrarietà all’ordine pubblico internazionale della norma straniera applicabile in base al sistema di diritto internazionale privato, trova applicazione la corrispondente norma di diritto interno (art. 250 cod. civ.), la quale, in relazione alla capacità del padre di addivenire al riconoscimento del figlio naturale, si sostituisce integralmente alla norma straniera, ai sensi dell’art. 16, secondo comma, della citata legge n. 218 del 1995.
Trib. Minorenni Ancona, 29 maggio 2006 (Famiglia e Diritto, 2007, 4, 378 nota di BOLONDI)
Ai sensi dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, l’Ufficiale dello Stato Civile ha l’obbligo di riceve¬re l’atto di riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne compiuto dal secondo genitore quando il consenso a detto riconoscimento da parte del genitore che per primo ha riconosciuto il figlio sia documentato in un verbale di udienza che è atto pubblico e, come tale, fa piena prova fino a querela di falso di quanto in esso risultante.
Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2005, n. 23074 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, da parte dell’altro genitore, costituisce un diritto soggettivo di natura primaria, tuttavia condizionato all’interesse del minore. Tale secondo riconoscimento può essere sacrificato soltanto in presenza di un fatto di importanza proporzionale al valore del diritto sacrificato, ossia solo ove sussista il pericolo di un pregiudizio così grave per il minore da com¬promettere seriamente il suo sviluppo psicofisico. (Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha confer¬mato la decisione della corte d’appello, la quale, nel negare la pronuncia in luogo del mancato consenso, aveva ravvisato il pericolo della detta compromissione in ragione delle connotazioni fortemente negative della persona¬lità del genitore che intendeva procedere al secondo riconoscimento, essendo questi inserito nell’ambiente della criminalità organizzata ed attualmente detenuto per gravi reati).
Trib. Minorenni Emilia-Romagna Bologna, 23 aprile 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sebbene il riconoscimento del figlio naturale sia diritto soggettivo primario del genitore, e si presuma lo specifico interesse del minore al riconoscimento, tuttavia, nel giudizio di opposizione al ricorso promosso del secondo genitore proponente domanda giudiziale di riconoscimento, qualora il minore adolescente non ancora legittimato all’assenso ex art. 250, co. 2, c.c., manifesti consapevole ed autonoma contrarietà al riconoscimento – per altro successivo, del secondo genitore ricorrente – il diritto soggettivo del secondo genitore ricorrente non può prevale al punto di recare un pregiudizio psicofisico alla prole.
Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2878 (Fam. Pers. Succ., 2006, 1, 73 nota di SCARANO)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è un diritto soggetti¬vo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost.; in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere, così, una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia contrapposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato – anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) – solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore. (Enunciando il principio di cui in massima, in un caso nel quale la richiesta del padre al tribunale di pronunciare sentenza in luogo del consenso mancante era stata presentata tre mesi dopo la nascita del bambino, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che costituisse impedimento al secondo riconoscimento la presunta inidoneità del padre naturale a svolgere il compito genitoriale, desumibile dall’avere questi dimostrato scarso interesse verso il figlio, prima e dopo la nascita).
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2004, n. 21359 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento del figlio naturale la prescrizione riguardante l’audizione del minore, che non abbia compiuto sedici anni e che sia già stato riconosciuto da uno dei genitori, è rivolta a soddisfare l’esigenza di ac¬certare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo abbia proceduto al riconoscimento risponda o meno all’interesse del figlio. Non è configurabile, pertanto, un potere di delega al consulente tecnico d’ufficio di una funzione che la legge riserva espressamente al giudice, per supplire all’assenso del figlio (se maggiore di sedici anni) ovvero al mancato consenso dell’altro genitore (se minore di sedici anni), a tutela dell’interesse morale del minore, ritenuto per la sua età non ancora capace di una valutazione personale pienamente attendibile rispetto a un evento suscettibile di incidere sul suo equilibrio e sulla sua vita di relazione.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche alla luce degli artt. 3 e 7 della convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, il mancato rincontro di un interesse effettivo e concreto del minore ad essere riconosciuto dal proprio genitore non costituisce ostacolo all’esercizio del corrispondente diritto da parte di quest’ultimo ex art. 250 c.c., malgrado l’opposizione del genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore costituisce oggetto di un diritto soggettivo dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost., entro i limiti stabiliti dalla legge (art. 250 cod. civ.), cui rinvia la Costituzione, che non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, che è segnato dal complesso dei diritti che al minore derivano dal riconoscimento e, in particolare, dal diritto all’identità personale, inteso come diritto ad una genitorialità piena e non dimidiata. Ne consegue che, anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176), il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore ad ottenere il riconoscimento, nel caso di opposizione del genitore che per primo ha proce¬duto al riconoscimento, in quanto detto interesse va valutato in termini di attitudine a sacrificare la genitorialità, riscontrabile soltanto qualora si accerti l’esistenza di motivi gravi ed irreversibili che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, secondo la quale il pregresso compor¬tamento del genitore, che aveva preteso l’aborto e non si era occupato della bambina, non autorizza a desumere che dal riconoscimento possano derivare alla minore pregiudizi gravi ed irreparabili, né ad escludere gli effetti vantaggiosi che, almeno in linea astratta, alla minore stessa dal riconoscimento possano derivare).
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di riconoscimento del figlio minore infra-sedicenne, solo la presenza di una probabile compromissione dello sviluppo psico-fisico dello stesso, giustifica il rifiuto del consenso dell’altro genitore.
Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c., quarto comma, il minore infra-sedicenne non assume la qualità di parte, divenendo tale solamente all’esito della nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., secondo comma, in presenza di un conflitto d’interessi con il genitore legale rappresentante che si oppone al riconosci¬mento da parte dell’altro genitore naturale, determinandosi in tal caso una sorta di intervento “iussu iudicis” del minore stesso, a mezzo del suddetto curatore. Ne consegue che la sentenza emessa a chiusura del procedimento deve essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per la relativa impugnazione, anche al suddetto curatore, non determinandosi in difetto il passaggio in giudicato e la conseguente definitività della decisione, in ragione del mancato decorso di detto termine rispetto a tutte le parti in causa. [Principio enunciato nell’ambito di un giudizio concernente la domanda di equa riparazione dei danni (lamentati per effetto di una durata del giu¬dizio ex art. 250 c.c., quarto comma, prolungatasi, anche in ragione della condotta degli addetti alla Cancelleria, per quattro anni e cinque mesi e dedotta come irragionevole in considerazione pure della particolare semplicità del rito camerale e della delicatezza della vicenda in questione), proposta seppur in difetto di notificazione della sentenza emessa a conclusione del giudizio (anche) al curatore speciale nominato alla minore, e dal giudice di merito dell’impugnazione nondimeno ritenuta conclusiva del procedimento all’esito del decorso del termine breve per l’impugnazione fatto decorrere dalla relativa notifica effettuata solamente ai genitori e al P.M.).
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11949 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore costituisce oggetto di un diritto soggettivo dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost., entro i limiti stabiliti dalla legge (art. 250, c.c.), cui rinvia la Costituzione, che non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura di elemento di definizione dello stesso, che è segnato dal complesso dei diritti che al minore derivano dal riconoscimento e, in particolare, dal diritto all’identità paternale nella sua integrale e precisa dimensione psichica; pertanto il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore ad ottener il riconoscimento, nel caso di opposizione del genitore che primo ha proceduto al riconoscimento, in quanto come interesse va valutato in termini di attitudine a sacrificare la genitorialità, riscontrabile soltanto qualora si accerti l’esistenza di motivi gravi ed irreversibili che inducano a ravvisare la forte probabilità di una comprossione dello sviluppo del minore, che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità. Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, secondo la quale la pregressa tossicodipendenza del genitore, superata all’esito di un programma volontario di recupero, e l’atteggiamento di ripulsa della madre del minore nei confronti del padre naturale non costituivano ostacolo al riconoscimento e non incidevano negativamente sull’interesse del minore al riconoscimento.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non sono incompatibili con gli articoli 3 e 7 della convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo i principi informatori della disciplina relativa al riconoscimento dei minori infrasedicenni di cui all’art. 250 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (Famiglia e Diritto, 2003, 5, 445 nota di FIGONE)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, rappresenta un dirit¬to soggettivo primario dell’altro genitore, che trova protezione nell’art. 30 Cost. e in quanto tale, non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, visto il diritto del nato ad identificarsi come figlio di un padre e di una madre e ad assumere, pertanto, una com¬pleta identità. Ne deriva che il secondo riconoscimento, in presenza dell’opposizione dell’altro genitore, ex art. 250, comma 3, c.c., può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far supporre la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 della Costituzione: in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere così una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato – anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) – solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore. (Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che costituissero impedimento al secondo ricono¬scimento l’età del padre naturale, la sua residenza in una località lontana da quella di residenza della minore, nonché la mancanza, da parte sua, di un’attività lavorativa stabile e di un’autonoma abitazione).
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2003, n. 14 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. che, nell’ipotesi di minore infrasedicenne, subordina la possibilità del secondo riconoscimento al consenso del genitore che detto consenso ha già effettuato, dispo¬ne altresì che al compimento del sedicesimo anno il minore divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del secondo genitore al riconoscimento, configurando il suo assenso quale elemento costitutivo della efficacia del riconoscimento stesso. Ne consegue che il raggiungimento da parte del minore della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio determina il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro genitore e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nel caso di specie la S.C., preso atto del compimento del sedicesimo anno del minore, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere ed ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata).
Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14894 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore rappresenta un diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito, e – in quanto tale – non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto di quest’ultimo ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere una precisa e completa identità. Conseguentemente, il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione da parte dell’altro geni¬tore che per primo abbia proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
App. Cagliari, 17 maggio 2001 (Pluris, Wolters-Kluwer Italia)
L’interesse del minore costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della valutazione della legittimità del rifiuto del consenso opposto dall’altro genitore al riconoscimento del figlio naturale. Tale indagine deve essere condotta alla luce della presunzione (semplice) dell’esistenza di un interesse del minore al richiesto riconosci¬mento sotto il profilo affettivo – spirituale non meno che sotto quello dei diritti all’istruzione, educazione, man¬tenimento ad esso conseguenti.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470 (Nuova Giur. Civ., 2002, II, 294 nota di LENA)
Nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c., per conseguire una pronuncia che tenga luogo del man¬cato consenso dei genitore, che abbia già riconosciuto il figlio infra-sedicenne, al riconoscimento dello stesso minore da parte dell’altro genitore, il minore non assume la qualità di parte, ma ne è prevista l’audizione, sempre che ne sia capace per ragioni di età o per altre cause, sicchè in tale procedimento non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore nè la mancata previsione della necessità di tale nomina si pone in contrasto con gli art. 3, 31 e 111 cost., atteso che il minore risulta adeguatamente protetto dalla verifica che il tribunale per i minorenni è chiamato a compiere circa l’effettiva rispondenza all’interesse dei minore medesimo del secondo riconoscimento.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 cost.: in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere così una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
Nel procedimento disciplinato dall’art. 250, comma 4, c.c., il vizio procedurale dipendente dalla mancata audi¬zione del minore deve essere espressamente dedotto dalle parti, non trattandosi di nullità rilevabile d’ufficio, ma di prescrizione rivolta a soddisfare unicamente l’esigenza di accertare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento risponda o meno all’interesse del minore.
App. Milano, 20 febbraio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. è diretto in via esclusiva a conseguire una pronuncia giudiziale che tenga luogo del mancato consenso del genitore al riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne, ed ha pertanto ad oggetto l’accertamento se il riconoscimento risponda o meno all’interesse del minore, sicché resta estranea al giudizio ogni ulteriore e diversa valutazione, ivi compresa quella inerente la veridicità del rapporto di filiazione.
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2000, n. 6784 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di cui all’art. 250 c.c., l’audizione del minore è prevista quale prima fonte di convincimento del giudice sulla rispondenza del secondo riconoscimento all’interesse del minore medesimo e deve essere disposta anche d’ufficio col solo limite dell’incapacità del minore, per età o altra causa, a rendere dichiarazioni; in tal caso il giudice deve motivare in ordine alle ragioni che hanno impedito l’incombente, al fine di consentirne il controllo. (Nella specie la S.C. ha escluso fosse incorso in violazione di legge il giudice di merito, che aveva escluso l’audi¬zione in ragione dell’età del minore, cinque anni).
Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento di un figlio naturale minore, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, che, ancorché condizionato all’interesse del minore, è costituzionalmente garantito dall’art. 30 cost. e, come tale, non può essere disconosciuto sulla sola base di una condotta morale non esente da cen¬sure, di per sé rilevante per il diverso fine dell’affidamento.
Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (Dir. Famiglia, 2001, 536 nota di GALOPPINI)
In tema di autorizzazione al riconoscimento di figlio naturale, la mera diversità culturale, di origini, di etnia e di religione non può di per sé costituire elemento significativo ai fini dell’esclusione dell’interesse del minore all’acquisizione della doppia genitorialità. Tuttavia, il fanatismo religioso. (Nella specie, si trattava di genitori di nazionalità e religioni diverse) può assumere rilievo dirimente qualora si traduca in un’indebita compressione dei diritti di libertà del minore o in un pericolo per la sua crescita secondo i canoni generalmente riconosciuti dalle società civili.
È infondata, in fatto e in diritto, nonché contraria all›interesse del minore l›opposizione ex art. 250 c.c., della madre italiana, che ha riconosciuto per prima, al riconoscimento richiesto dall›altro genitore, peraltro alieno da gesti ed atteggiamenti prevaricatori e del tutto integrato nel tessuto socioculturale italiano, qualora l›opposizione abbia a basarsi unicamente sull›etnia e la confessione religiosa di quest›ultimo (arabo e di religione musulmana) e sul conseguente timore che la figlia, acquistando la cittadinanza tunisina e frequentando il padre, possa avere grave danno sia dalla sua sottoposizione all›ordinamento giuridico tunisino, fondato su di una concezione unitaria della religione e dello Stato sulla deteriore condizione, sotto ogni riguardo, della donna rispetto all›uomo, sia dall›integralismo religioso e politico dei musulmani; la bambina, invero, che conserva, malgrado il riconosci¬mento, la cittadinanza italiana, può e potrà sempre contare sulla tutela dei diritti fondamentali ad ogni persona garantita dall’ordinamento italiano, fermo restando che il principio di laicità di cui all’art. 8 cost. impedisce che ogni confessione religiosa possa essere in sè anteposta o posposta alle altre.
Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4325 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c. per conseguire dal tribunale una pronuncia che tenga luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio minore, da parte del genitore che abbia già effettuato tale riconoscimento, è volto esclusivamente ad accertare se il secondo riconoscimento risponde all’interesse del minore stesso, sicché in esso resta irrilevante ogni indagine sulla veridicità del secondo riconoscimento, indagine – questa – che presuppone il riconoscimento e che può essere svolta in separato giudizio, ove il riconoscimento autorizzato a norma dell’art. 250 venga impugnato ex art. 263 c.c. Un siffatto accertamento non può essere quindi svolto nel giudizio di cui all’art. 250, se non al limitato fine – in presenza di contestazioni della controparte, di verificare, ma solo “incidenter tantum”, la legittimazione attiva del richiedente.
Cass. civ. Sez. I, 26 aprile 1999, n. 4148 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al pari di quanto accade in tema di controversie in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale di minori, anche nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c., avente ad oggetto l’indagine sulla legittimità del rifiuto al secondo riconoscimento opposto dal genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio, il termine breve per appellare è rispettato con il tempestivo deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, mentre, nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa, il gravame deve considerarsi tempestivo e validamente proposto purché il deposito della citazione avvenga entro il termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, essendo detto deposito l’atto con il quale, nei procedimenti camerali, l’impugnazione è proposta.
Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1999, n. 2338 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di filiazione naturale, l’interesse del minore al secondo riconoscimento, in sede di controversia promossa per ottenere una sentenza che tenga luogo del consenso mancante dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento ( art. 250, comma 4, c.c.), deve ritenersi sussistente in linea di principio tutte le volte che non derivi al minore un pregiudizio tale da incidere sullo sviluppo psicofisico e non già allorché venga concretamente dimostrato che esso risulti per lui vantaggioso. Pertanto, correttamente i giudici del merito ritengono sussistente tale interesse anche nell’ipotesi in cui il minore abbia instaurato un valido rapporto affettivo con il nuovo partner del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, nelle more divenuto suo coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 1999, n. 1951 (Famiglia e Diritto, 1999, 5, 449 nota di CLERICI)
In tema d’accertamento della filiazione legittima o naturale, dall’art. 17 disp. att. c.c. (abrogato dall’art. 73 della legge n. 218 del 1995) si ricava che, quando preteso genitore e preteso figlio appartengono a Stati diversi, si debbono applicare contestualmente entrambe le normative e la filiazione può essere dichiarata solo in presenza di presupposti previsti da entrambe le legislazioni. Ne consegue che il giudice italiano nell’esaminare tali pre¬supposti deve valutare la compatibilità del diritto straniero con quello nazionale e, nel caso in cui una norma del primo non sia applicabile per contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano, deve applicare solo quelle norme che promanano dalla legge italiana. (Nella specie, la S.C. ha escluso l’applicabilità alla materia dei principi del diritto marocchino e musulmano che non conoscono l’istituto del riconoscimento della filiazione naturale ed addirittura puniscono penalmente la donna che abbia concepito al di fuori del matrimonio).
Cass. civ. Sez. I, 26 novembre 1998, n. 12018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figli naturali, l’indagine sulla legittimità del rifiuto del consenso al secondo ricono¬scimento opposto dal tutore del minore (nominato a seguito della morte del genitore che aveva per primo rico¬nosciuto il figlio) va condotta alla luce della presunzione (semplice) della esistenza di un interesse del minore al richiesto riconoscimento sotto il profilo spirituale non meno che sotto quello dei diritti all’istruzione, educazione mantenimento ad esso conseguenti. Un eventuale rifiuto del consenso deve ritenersi, pertanto, del tutto ingiu¬stificato in assenza di seri e specifici motivi che evidenzino la contrarietà del riconoscimento all’indicato interesse del minore. (Nell’affermare il suindicato principio di diritto la Corte ha ritenuta legittima la sentenza sostitutiva del consenso non prestato, emessa dal giudice di merito ai sensi dell’art. 250, comma 3, c.c., in relazione ad una vicenda di riconoscimento richiesto dal padre naturale di un minore la cui madre era deceduta il giorno successivo al parto, ed il cui tutore, zio materno, aveva rifiutato il consenso al detto riconoscimento deducendo, tra l’altro, che non vi fosse alcuna prova certa della asserita paternità del richiedente, mentre le prove genetiche avevano evidenziato un risultato probabilistico, in tal senso, superiore al 99,99%).
Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 1996, n. 8413 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accertamento giudiziale dell’interesse del minore ai fini dell’ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, a norma dell’art. 274 c.c., così come inciso dalla sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990, deve essere compiuto in concreto, con riferimento preminente alle globali esigenze presenti e future di formazio¬ne e di arricchimento della personalità del minore, nel contesto familiare e socio – economico di appartenenza, e quindi ai benefici dell’ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica del minore, che possono essere esclusi in base all’accertata condotta del presunto padre gravemente pregiudizievole per il figlio e tale da moti¬vare la decadenza dalla potestà sullo stesso, ovvero alla provata esistenza di gravi e fondati rischi per gli equilibri affettivi e psicologici del minore, per la sua educazione e per il suo inserimento nel contesto lavorativo e sociale.
Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 1996, n. 1444 (Nuova Giur. Civ., 1997, I, 78 nota di ZATTI)
Al fine dell’ammissibilità dell’azione di paternità naturale, l’interesse del minore deve essere accertato con preva¬lente riferimento alle esigenze globali – presenti e future – di formazione e di arricchimento della personalità del minore, nel contesto familiare e socio – economico di appartenenza, e deve essere ancorato a fatti concreti, quali il benefico ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica del minore, che può essere escluso dall’ac¬certata condotta del presunto padre gravemente pregiudizievole al figlio e tale da motivare la decadenza della potestà sullo stesso, ovvero dalla provata esistenza di gravi e fondati rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore, per la sua educazione e per il suo inserimento nel contesto lavorativo e sociale.

Nulli per illiceità della causa gli accordi di separazione volti ad escludere assegno divorzile

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 6 settembre 2019, n. 22401; Pres. Scaldaferri; Rel. Acierno
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27006-2017 proposto da:
P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA
CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato EDY GUERRINI;
– ricorrente –
contro
A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA
CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato OBERDAN IACCONI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1497/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il
23/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/05/2019 dal
Consigliere Relatore Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’Appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha posto a carico di P.P.,
ex coniuge divorziato di A.A., la somma di 200 Euro mensili a titolo di assegno divorzile.
A sostegno della decisione ha rilevato che il tribunale, ritenuta la esaustività degli accordi assunti in
sede di separazione consensuale – consistenti nel versamento di 200 milioni di lire alla A. – aveva
tenuto in considerazione tali accordi al fine di escludere, unitamente alla percezione della pensione
d’invalidità, lo stato di bisogno della ricorrente.
Il giudice di secondo grado, al contrario, ha ritenuto, che tali accordi, per la parte in cui escludevano
per il futuro di poter richiedere emolumenti in sede di divorzio, dovevano ritenersi nulli per illiceità
della causa e che la corresponsione di una tantum può avvenire soltanto in sede di giudizio di
divorzio. Nella specie, applicando il criterio assistenziale così come declinato nella pronuncia n.
11504 del 2017, doveva riconoscersi alla A. un assegno pari a 200 Euro mensili in quanto la stessa è
risultata priva di autosufficienza economica, inidonea al lavoro e affetta da serie psicopatologie
oltre che priva di una stabile abitazione. La pensione infine è risultata di ammontare esiguo.
Avverso la pronuncia ha proposto ricorso per cassazione P.P. affidato a due motivi. Ha resistito con
controricorso la A..
Nel primo ha dedotto la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, per avere la Corte d’Appello non
considerato che le somme già corrisposte unite alla pensione d’invalidità portavano ad escludere la
situazione di non autosufficienza economica.
La censura è inammissibile perché mira a contestare la valutazione svolta in fatto sulla condizione
di non autosufficienza economica della controricorrente.
Nel secondo motivo viene dedotta la nullità della sentenza impugnata perché non è stato
preventivamente accertato se alla controricorrente fosse stato nominato un amministratore di
sostegno, ciò che avrebbe escluso la validità della sottoscrizione del ricorso introduttivo del
giudizio.
La censura confusamente prospettata appare del tutto nuova e conseguentemente inammissibile.
In conclusione il ricorso è inammissibile. Deve essere applicato il principio della soccombenza in
relazione alle spese processuali.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese
processuali in favore della parte controricorrente da liquidarsi in Euro 1100 per compensi, Euro 100
per esborsi oltre accessori di legge.
Sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quarter.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2019

Non si fa luogo all’attribuzione del cognome paterno in caso di contraria volontà del minore che, già in fase preadolescenziale-adolescenziale è inserito in una rete di relazioni sociali ed è capace ad avere una marcata cognizione identitaria del sé.

Cass. civ. Sez. I, 13 agosto 2019, n. 21349
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso 33023/2018 proposto da:
C.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via Farfa n. 8, presso lo studio dell’avvocato Belli Maria Concetta, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4980/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/07/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal cons. Dott. TRICOMI LAURA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI CORRADO, che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine rigetto;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Belli Maria che ha chiesto l’accoglimento.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Latina, pronunciando sul ricorso presentato da P.A. per chiedere, ai sensidell’art. 250 c.c.il consenso al riconoscimento della minore C.A.A. (nata il (OMISSIS)), in luogo di quello mancante dell’altro genitore, C.M., per quanto interessa, con sentenza n. 1177/2015, accoglieva la domanda e, per l’effetto, ordinava all’Ufficiale di Stato civile di provvedere alle relative trascrizioni, disponendo che la minore conservasse il cognome materno all’esito dell’audizione della minore e dell’espletamento di CTU. P. proponeva impugnazione chiedendo, tra l’altro, che il cognome paterno venisse aggiunto al cognome materno della minore.
La Corte di appello di Roma, accogliendo sul punto l’appello, ha disposto che alla minore sia attribuito il cognome C. P., in luogo di C..
C.M. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi. P. è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazionedell’art. 132 c.p.c., comma 2, per irriducibile contraddittorietà della motivazione, atteso che la Corte di appello pur avendo dato atto delle difficoltà emerse nei rapporti padre/figlia, culminati nel rifiuto della minore di incontrare il padre, ha tuttavia ritenuto di accogliere l’impugnativa concernente l’attribuzione del cognome paterno, affermando che la conseguente aggiunta “è in linea con la realtà della minore” (fol. 8).
2. Con il secondo motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazionedell’art. 132 c.c., comma 2, per irriducibile illogicità della decisione laddove, dopo avere evidenziato i rischi di una marginalizzazione della figura paterna, ha ritenuto che la mancata previsione del cognome paterno avrebbe potuto contrastare con la necessità della minore di “costruirsi un’autonoma identità, nell’ottica del “paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità”” (fol. 8).
3. Con il terzo motivo, in via subordinata, si denuncia l’omessa valutazione di un fatto storico decisivo.
La ricorrente si duole che la Corte di appello, nel giustificare l’interesse della minore all’acquisizione del cognome del padre biologico, abbia fatto leva sul processo di costruzione della sua identità personale senza tenere conto dell’età della minore, già quindicenne, al momento della decisione, e quindi in piena adolescenza e con un’identità ben definita nell’ambito delle relazioni sociali; a ciò aggiunge che la minore aveva dimostrato di essere molto legata alla famiglia che aveva aiutato sia lei che la madre negli anni e che il padre biologico non assolveva nemmeno gli obblighi di mantenimento.
4.1. I motivi, da trattarsi congiuntamente perché intimamente connessi, sono fondati e vanno accolti.
4.2.L’art. 262 c.c.(come riformulato a seguito delD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154,art.27, comma 1, lett. a), a decorrere dal 7 febbraio 2014 ai sensi di quanto disposto dal medesimoD.Lgs. n. 154 del 2013,art.108, comma 1) così disciplina l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori del matrimonio:
“Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto (c.c. 258). Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre.
Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre (6).
Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all’attribuzione del cognome da parte dell’ufficiale dello stato civile, si applica il primo e il comma 2 del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in caso di riconoscimento da parte di entrambi.
Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.”.
4.3. Questa Corte, con costante giurisprudenza, ha chiarito, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto non contestualmente dai genitori, che i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, avente copertura costituzionale assoluta; che la scelta, anche officiosa, del giudice è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento, non potendo essere condizionata dall’esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamatedall’art. 262 c.c., che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio (Cass. civ. sez. I n. 12640 del 18/6/2015). Il giudice è investitodall’art. 262 c.c., commi 2 e 3, del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da detta disposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda né la prima attribuzione, essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del “prior in tempore”, né il patronimico, per il quale non sussiste alcun “favor” in sé nel nostro ordinamento (Cass. civ. sez. I n. 2644 del 3/2/2011; Cass. n. 14232 del 05/06/2013).
Ciò, perché il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali della persona e ciò che rileva non è l’esigenza di rendere la posizione del figlio nato fuori dal matrimonio quanto più simile possibile a quella del figlio di coppia coniugata, quanto piuttosto quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità (Cass. n. 17139 del 11/07/2017).
4.4. Nella specie, la Corte territoriale, pur avendo richiamato in linea di massima i principi enunciati, non vi ha dato corretta applicazione; infatti ha considerato il grave deterioramento dei rapporti padre/figlia culminato nel rifiuto così espresso da parte di quest’ultima “Biologicamente è mio padre, ma lo non lo voglio. Nessuno me ne ha parlato male…. Non lo voglio e basta. lo non ci riesco a volerlo. Non lo vedo da mesi, lo sto bene senza di lui…” e la circostanza dell’avvenuto riconoscimento si era arrestata allo stadio di diritto, senza tradursi in una affectio genitoriale e filiale nonostante i tentativi condotti anche con l’ausilio dei Servizi sociali (fol. 5 della sent. imp.) osservando tuttavia, in palese contraddizione, trasmutatasi in illogicità assoluta – e dunque – nella nullità della pronuncia, che la scelta dell’attribuzione del cognome paterno era il linea con la realtà della minore, senza spiegarne le ragioni se non mediante formule che, per la loro asettica formulazione, appaiono di stile – da un lato, osservando sic et simpliciter che ciò non poteva costituire un danno, e, dall’altro, adombrando che l’attribuzione del cognome potesse, di per sé sola, incidere positivamente sulla maturazione del rapporto padre/figlia, contrastando la marginalizzazione paterna e contribuendo ad assicurare il rilievo di entrambe le figure genitoriali al processo di costruzione dell’identità personale, nonostante l’ostilità manifestata dalla figlia.
Invero non emerge dalla sentenza impugnata che siano stati utilizzati correttamente i criteri prima enunciati volti a preservare l’interesse della minore ad evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, giacché risultano trascurate sia la contraria volontà della minore, sia il fatto storico costituito dall’età della stessa, già in fase preadolescenziale/adolescenziale, sintomatico di un potenziale e consolidato inserimento in una rete di relazioni sociali e della capacità ad avere una marcata cognizione identitaria del sé, espressa dal cognome materno che la individuava dalla nascita.
5. In conclusione il ricorso va accolto, la decisione impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello di Roma in diversa composizione per il riesame e la liquidazione delle spese anche del presente grado.
Va disposto che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 30giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
– Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione anche per provvedere sulle spese di legittimità;
– Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 30giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

Non è ravvisabile un rapporto di natura obbligatoria dei coeredi con i beni della comunione ereditaria.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 9 settembre 2019, n. 22444; Pres. Petitti; Rel. Giannaccari
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2927/2015 proposto da:
M.V., M.A., V.A.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA NIZZA 59, presso lo studio
dell’avvocato ASTOLFO DI AMATO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato
FULVIO SANTORELLI;
– ricorrenti –
contro
S.L., S.E., S.A., M.G., MO.AN., S.F., SO.LA., M.M.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA
OVIDIO 10 C/O ST ROSATI, presso lo studio dell’avvocato ANNA BEI, rappresentati e difesi
dall’avvocato FILIPPO MASSARA;
B.M.T., B.L., B.A. ex art. 86 c.p.c., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA MONTESANTO 52,
presso lo studio dell’avvocato B.A., che le rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 3013/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 01/07/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/02/2019 dal Consigliere Dott.
ROSSANA GIANNACCARI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso
per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato DI AMATO Astolfo, difensore dei ricorrenti che ha chiesto l’accoglimento del
ricorso;
udito l’Avvocato Carlo Domenico MASSARA con delega depositata in udienza dell’Avvocato
Filippo MASSARA, difensore dei resistenti S.L. + 7, che si riporta agli atti depositati;
udito l’Avvocato B.A. difensore delle resistenti e di se medesimo ex art. 86 c.p.c., che si riporta agli
atti depositati.
Svolgimento del processo
Il giudizio trae origine dalla domanda di scioglimento della comunione del compendio ereditario di
M.A., che era deceduto il (OMISSIS), lasciando come eredi la moglie Me.Vi. ed i figli Gi., I., G.,
M.A.V. ed An..
Il giudizio veniva introdotto da B.G., M.T. ed A., quali eredi di M.I., e, per quel che ancora rileva
nel presente giudizio, i convenuti V.A.M., M.A. e M.V., eredi di Mo.Gi., chiedevano accertarsi in
via riconvenzionale l’usucapione da parte del loro dante causa di un immobile sito in (OMISSIS).
Il Tribunale di Napoli, con sentenza non definitiva n. 6375/2010, rigettava la domanda di
usucapione, ritenendo che non vi fosse prova di un atto di interversione del possesso da parte del
coerede Mo.Gi., il quale, con atto del 26.9.1988, aveva chiesto un contributo per la ristrutturazione
dell’immobile in (OMISSIS), oggetto della domanda riconvenzionale, anche a nome degli altri
comproprietari, in tal modo riconoscendo l’altrui comproprietà.
Proponevano appello V.A.M., M.A. e M.V., eredi di Mo.Gi., cui resistevano le controparti.
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza dell’1.7.2014, respingeva il gravame.
La corte territoriale escludeva che Mo.Gi. avesse avuto il possesso esclusivo dell’abitazione in
(OMISSIS). Era emerso dall’istruttoria che nel 1946, al momento dell’apertura della successione,
egli occupava l’immobile unitamente alla madre e anche quando dopo il suo matrimonio, nel 1967,
lo aveva abitato con la sua famiglia, vi era stato il consenso degli altri coeredi. Era emerso dalla
documentazione prodotta in giudizio che il M. aveva gestito non solo la proprietà immobiliare in
(OMISSIS), oggetto della domanda riconvenzionale di usucapione, ma anche numerosi immobili
siti in (OMISSIS), per conto degli altri fratelli. Ulteriori elementi probatori, indice dell’assenza di un
possesso esclusivo, erano costituiti, secondo il giudice d’appello, dalla richiesta di contributo del
29.6.1998 per la ristrutturazione dell’immobile, che egli aveva sottoscritto anche a nome degli altri
coeredi, dalla circostanza che questi coeredi avessero pagato le imposte ed indicato in comproprietà
l’immobile in (OMISSIS) nella dichiarazione di successione.
La corte territoriale, pur ritenendo superfluo l’esame del motivo d’appello riguardante la scrittura del
luglio 2005, con la quale il complesso di (OMISSIS) veniva ricompreso nel progetto di divisione
della comunione ereditaria, lo esaminava e ravvisava in tale atto una rinuncia tacita all’usucapione.
Per la cassazione della sentenza d’appello, hanno proposto ricorso V.A.M., M.A. e M.V. sulla base
di sette motivi, indicati dal numero due al numero otto.
Hanno resistito, con distinti controricorsi, B.M.T., L. ed A. da una parte e M.M.A., An. e G., S.A.,
E., La., L. e F. dall’altra.
Il Pubblico Ministero nella persona del Dott. Carmelo Sgroi ha chiesto il rigetto del ricorso.
In prossimità dell’udienza, le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
Con il secondo motivo di ricorso – che introduce il ricorso per cassazione – si deduce la violazione e
falsa applicazione degli artt. 714, 1102, 1140 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la
corte territoriale errato nel qualificare i coeredi come compossessori, sostenendo che fossero
detentori dei beni ereditari e che, solo in caso di godimento separato di parte dei beni ereditari,
sarebbe necessario un atto di interversione del possesso.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame
di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, consistente in fatti e
documenti, da cui risulterebbe che il M. non avesse avuto alcun mandato da parte dei coeredi per
eseguire opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, per richiedere autorizzazioni
amministrative e per godere in modo-esclusivo dei relativi frutti.
I motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
Diversamente da quanto assume il ricorrente, i coeredi non sono detentori dei beni ereditari, in
quanto non è ravvisabile un rapporto di natura obbligatoria con i beni della comunione ereditaria,
sicché non è necessaria la prova di un atto di interversione del possesso ai fini dell’usucapione di
beni ereditari, ma la prova del possesso ad excludendum, vale a dire una situazione nella quale il
rapporto materiale del coerede con i beni ereditari sia tale da escludere gli altri coeredi dalla
possibilità di analogo rapporto. A tale riguardo, non è univocamente significativo che egli abbia
utilizzato ed amministrato il bene ereditario, e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività,
sussistendo la presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato nell’interesse anche
degli altri coeredi (Cassazione civile sez. II, 16/01/2019, n. 966; Cass. 04/05/2018, n. 10734; Cass.
25/03/2009, n. 7221).
La corte territoriale ha correttamente ritenuto che i coeredi fossero compossessori e non detentori
del bene ereditario e che Mo.Gi. non avesse dato la prova del suo possesso esclusivo.
Né è sussistente il vizio di omessa motivazione, sindacabile in sede di giudizio di legittimità nei
limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5, avendo la corte esaminato, con giudizio di fatto
insindacabile in questa sede, gli elementi istruttori in base ai quali il M. non aveva provato il
possesso esclusivo del bene ereditario (Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053).
Con accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, il giudice d’appello ha accertato che
nel 1946, al momento dell’apertura della successione, Mo.Gi. abitava l’immobile di (OMISSIS)
unitamente alla madre, che era titolare di usufrutto sui beni ereditari; anche quando, dopo il suo
matrimonio, aveva ivi vissuto con la sua famiglia, vi era stato il consenso degli altri eredi. Ulteriore
conferma del compossesso veniva ravvisata dalla gestione dei beni ereditari per conto degli altri
fratelli, e, in particolare, nella richiesta di contributo per la ristrutturazione dell’immobile, anche per
conto dei coeredi, nonché nell’indicazione della loro qualità di comproprietari contenuta nella sua
denuncia di successione, in tal modo dimostrando di utilizzare ed amministrare il bene comune
nell’interesse di altri, con il loro consenso tacito (Cass. 7075/99).
Il godimento dei beni ereditari non era, quindi, avvenuto uti dominus, ma con il consenso degli altri
coeredi, che avevano delegato al M. la gestione e l’amministrazione dei numerosi beni ereditari,
costituiti da circa 53 immobili, ubicati non solo a (OMISSIS), ma anche a (OMISSIS).
Con il quarto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 244 c.p.c., in
relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la corte territoriale rigettato la richiesta di prova
testimoniale, volta dimostrare che negli anni 80 Mo.Gi. non avrebbe permesso alla sorella l’utilizzo
del complesso di (OMISSIS) per la celebrazione del matrimonio della figlia e per depositare alcuni
mobili. La corte territoriale non aveva, inoltre, ammesso i capitoli di prova riguardanti la
circostanza che il M. avrebbe eseguito opere straordinarie sull’immobile ed avrebbe curato un lungo
contenzioso amministrativo riguardante l’immobile in questione, circostanze che confermerebbero il
riconoscimento da parte degli altri coeredi della sua esclusiva proprietà del complesso di
(OMISSIS).
Con il quinto motivo di ricorso, si deduce l’omesso esame di una serie di documenti, che
dimostrerebbero il possesso esclusivo dell’immobile in (OMISSIS), come l’esecuzione di opere di
ordinaria e straordinaria amministrazione, l’ottenimento di autorizzazioni amministrative e
l’acquisto dei frutti.
Con il sesto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1158, 1164 e
2944 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere attribuito al documento del 29.6.1988, con il
quale Mo.Gi. chiedeva la concessione di un contributo a nome degli altri coeredi, valore di
riconoscimento del diritto altrui.
I motivi, da esaminare congiuntamente, non sono fondati.
I numerosi documenti, richiamati genericamente da pag. 27 a pag. 31 del ricorso, non sono decisivi
per dimostrare il possesso ad excludendum degli altri coeredi, ma unicamente l’utilizzo e la gestione
dei beni ereditari, che implicava la richiesta di autorizzazioni amministrative, la realizzazione di
opere, la stipulazione di contratti di locazione ed il pagamento di sanzioni amministrative.
Anche i capitoli dedotti con la prova testimoniale, con l’quali si intendeva provare che il M. si era
sempre ritenuto proprietario dell’immobile in (OMISSIS) e che tale era stato considerato dai
coeredi, sono stati correttamente ritenuti inammissibili dalla corte territoriale, perché diretti a
provare la gestione dei beni ereditari da parte del M., irrilevanti ai fini della prova del possesso
esclusivo, sia perché implicanti manifestazione di giudizi non consentiti ai testimoni, ai sensi
dell’art. 244 c.p.c.
Anche le richieste di prova formulate nei capitoli 19 e 20, trascritte in ricorso, volte a dimostrare
che negli anni 80 Mo.Gi. non avrebbe permesso alla sorella l’utilizzo del complesso di (OMISSIS),
per la celebrazione del matrimonio della figlia e per depositare alcuni mobili, sono generiche, non
solo perché non individuano la data in cui i fatti sarebbero avvenuti, ma anche perché prive di
decisività alla stregua della valutazione, da parte del giudice di merito, di altri elementi istruttori che
escludevano il possesso esclusivo del bene da parte del M..
La corte ha ritenuto che vi fosse un espresso riconoscimento dell’altrui diritto, attraverso
l’interpretazione della richiesta del 29.6.1998, avanzata dal M., del contributo per la ristrutturazione
dell’immobile sito in (OMISSIS), da cui evinceva la sua volontà di agire anche per conto dei
coeredi, oltre che da altri dati esterni, quali il pagamento delle imposte da parte dei coeredi.
Le doglianze del ricorrente censurano l’interpretazione plausibile attribuita dalla corte all’atto del
29.6.1998, senza alcuna deduzione della violazione dei canoni ermeneutici violati.
– Con il settimo motivo di ricorso, si. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,
1165 e 2937 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver la corte territoriale erroneamente
ravvisato un atto di rinuncia all’usucapione nel progetto di divisione dei beni ereditari del 9.7.2005,
che comprendeva il complesso di (OMISSIS), sostenendo che tale atto era volto unicamente a
comporre in via bonaria la controversia.
Con l’ottavo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 167 e 183
c.p.c., artt. 1165, 1362, 2937 e 2967 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; la corte territoriale
avrebbe erroneamente ritenuto che fosse tardiva la contestazione, avanzata in grado d’appello, da
parte di V.A.M. e M.V., relativa al potere di rappresentanza del fratello M.A. nella redazione
dell’atto del 9.7.2005, mentre, trattandosi di mere difese, non sussisterebbe alcuna preclusione.
I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili per carenza di
interesse.
Si tratta, infatti, di motivazione “ad abundantiam”, ovvero di un “obiter dicta”, in quanto la corte
territoriale, pur ritenendo superfluo l’esame del motivo d’appello relativo all’interpretazione della
scrittura privata del luglio 2005, lo ha esaminato, ritenendo che l’inclusione del complesso di
(OMISSIS) nel progetto di divisione della comunione ereditaria, integrasse una rinuncia tacita
all’usucapione (Cassazione civile sez. lav., 22/10/2014, n. 22380, Cass., civ., sez. lav., 22 novembre
2010 n. 23635, Cass. civ., sez. III, 5 giugno 2007 n. 13068).
Il ricorso va pertanto rigettato Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, quater, va dato atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del presente giudizio che liquida in Euro 5200,00
in favore di ciascun gruppo di controricorrenti, di cui Euro 200,00 per spese ed Euro 5000,00 per
compensi, oltre spese forfettarie, Iva e Cpa come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, quater, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di
Cassazione, il 21 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2019

La volontà del testatore va individuata con riferimento all’esame globale della scheda testamentaria stessa.

Corte d’Appello Catania, Sez. II, Sent., 17 aprile 2019 – Presidente Dipietro – Cons. rel. Escher
Corte d’appello di Catania
Seconda sezione civile
La Corte composta dai sigg.ri magistrati:
dott. Giovanni Dipietro – Presidente
dott. Massimo Escher – Consigliere relatore
avv. Luigi Ciotta – Componente ausiliario
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile d’appello iscritta al N. 172/2018 R.G. promossa da:
D.B.O., nata a R. il (…) (C.F. (…)), rappresentata e difesa dall’avv. Fabrizio Romeo,
presso il cui studio in Catania in via Alberto Mario, n. 74, è elettivamente domiciliata,
giusta procura in atti
appellante
nei confronti di
D.B.P., nata a R. il (…) (C.F. (…)), rappresentata e difesa dall’avv. Mario Di Luzio,
elettivamente domiciliato in Roma via Giovanni Paolo Pannini 19, presso il detto
difensore, giusta procura in atti
appellata
Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., depositato il 12 agosto 2015 O.D.B. esponeva:
– che con testamento del 25 giugno 1959, lo zio R.D.B. aveva legato ad essa
esponente “la palazzina in Via P. dell’O. (nel testamento si legge “P.” nonostante la via
si chiami “P.” dell’O.) – Gruppo C n. 2 corrispondente al civico n. 191 – Atto Notarile
(…) dal Notaio G.C. – C. I. 2″, e che il predetto legato comprendeva tutte le unità
immobiliari a suo tempo acquistate dallo zio con il detto atto notar C. e, quindi, non
solo l’appartamento, ma anche le altre due unità immobiliari di cui si legge nel rogito
citato, ossia la rimessa insistente sulla particella frazionata (…) ed il locale di
sgombero insistente sulla particella frazionata (…);
– che lo zio R., con un coevo legato aveva disposto in favore P.D.B., sorella
dell’attrice, l’attribuzione delle sole unità immobiliari dal disponente acquistate con
atto notarile del 4.3.1958;
– che era sorta contestazione tra le due sorelle in ordine alla proprietà della rimessa e
del locale di sgombero citati,
Tanto premesso, O.D.B. chiedeva al tribunale di:
– dichiarare, in contraddittorio con P.D.B., il diritto di proprietà in capo ad essa
ricorrente sul vano terrano, adibito a rimessa, insistente sulla particella frazionata n.
(…), nonché sul vano adiacente adibito a locale di sgombero, con annesso cesso,
insistente sulla particella frazionata n. (…), situati in C., Via P. dell’O. 191;
– di condannare la sorella P. al rilascio delle predette unità immobiliari ed al
risarcimento del danno da occupazione abusiva dell’immobile, nella misura di Euro
100,00 mensili, dal marzo 2014 sino all’effettivo rilascio, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria …”
Costituitasi, P.D.B., chiedeva il rigetto della domanda, contestando la ricostruzione
della vicenda traslativa svolta dalla sorella ed assumendo che questa, giusta il legato
riferito, aver ricevuto dallo zio solo la palazzina con accesso dal via P. dell’O. 191
(che non comprendeva la rimessa ed il locale di sgombero).
Con sentenza depositata il 7.8.2017 il Tribunale di Catania ha rigettato le domande e
condannato O.D.B. al pagamento delle spese processuali.
Avverso la detta sentenza ha proposto appello O.D.B. per le ragioni di cui si dirà nel
prosieguo
Costituitasi, P.D.B. ha chiesto la conferma della sentenza.
Quindi all’udienza del 27 novembre 2018 la causa è stata posta in decisione sulle
conclusioni precisate come in atti.
Motivi della decisione
Come premesso, O.D.B. con l’atto introduttivo del giudizio ha chiesto accertarsi il di
lei diritto di proprietà sul vano terrano adibito a rimessa insistente sulla particella
frazionata n. (…), nonché sul vano adiacente adibito a locale di sgombero, con
annesso cesso, insistente sulla particella frazionata n. (…), situati in C., via P. dell’O.
191, unità immobiliari, a suo dire, illegittimamente occupate dalla sorella, la
resistente P.D.B.. Tale domanda – lo si è già accennato – è stata rigettata dal tribunale,
che ha ritenuto non provato il titolo d’acquisto per non essere le due unità immobiliari
ricomprese nel legato, ossia nell’invocato titolo d’acquisto.
La decisione è stata appellata da O.D.B., secondo cui l’attribuzione delle due unità
immobiliari sarebbe da inferire con certezza dal tenore del testamento e ciò
considerato che in esso, quanto all’oggetto di entrambi i legati immobiliari in favore
delle D.B., si fa rinvio agli atti di acquisto con cui, a suo tempo, i detti immobili
erano entrati a far parte del patrimonio del disponente.
Per comprendere la valenza della tesi va, invero, evidenziato quanto segue:
– con disposizione di ultima volontà del 25 giugno 1959, R.D.B. ha così disposto,
“lego alla nipote O. “la palazzina in Via P.(a) dell’O. – Gruppo C n. 2 corrispondente
al civico n. 191 – Atto Notarile (…) dal Notaio G.C. – C. I. 2”
– con altra disposizione compresa nel medesimo testamento, il D.B., ha così inoltre
disposto, “lego a mia nipote P. la palazzina sita in via P.(a) dell’O. n. 195 – Atto
notarile (…) dal Notaio C.F.G. – via F. C. 12 A”.
Ciò posto, a dire dell’appellante, nonostante in nessuna delle due disposizioni si
faccia riferimento al locale di sgombero ed alla rimessa, oggi censite al Foglio (…),
particella (…) e particella (…), l’inclusione delle stesse nel primo legato, quello in suo
favore, sarebbe implicita nel rinvio del disponente all’atto notarile con cui il de cuius
aveva acquistato sia la proprietà della palazzina con ingresso al n. 191 sia la proprietà
dei due locali minori.
Opposta è la tesi della convenuta-appellata, la quale assume che il legato in favore di
O.D.B. non ricomprenda i detti locali, posto che essi non rientrano nella descrizione
contenuta nel legato, non essendo unità immobiliari con accesso dal civico 191
( bensì dal civico 195).
Ciò premesso, l’appello è fondato.
Al riguardo va evidenziato, quale primo punto fermo da cui muovere, che certamente,
alla luce del testamento, i due locali (ancorché in ipotesi oggi con accesso da via P.
dell’O. 195) non sono stati attribuiti a P.D.B..
Nella disposizione in favore dell’appellata sopra riportata , invero, si fa riferimento
alla palazzina sita in via P.(a) dell’O. n. 195, acquistata con Atto notarile (…) dal
Notaio C.F.G. – via F. C. 12 A. Riferimento, quest’ultimo, decisivo non essendo stati i
due locali in contestazione acquistati con il detto rogito notar C.F..
Del resto, di ciò non sembra aver dubitato la stessa convenuta che in primo grado non
ha mai affermato espressamente di aver acquistato in forza del legato, ma solo che la
sorella non ha offerto la prova a suo carico. In questo senso si veda pure la c.t.p.
prodotta in primo grado dalla detta convenuta, laddove il geom. C. giunge (solo) per
esclusione ad affermare, che, non essendo stati acquistati da O.D.B., i due locali
appartengono a P.D.B. (senza indicare in forza di quale titolo).
Scartata l’ipotesi che i due locali siano stati attribuiti a P., occorre stabilire se
accogliere la tesi dell’appellante ovvero rigettarla affermando che i beni in
contestazione, siccome non oggetto di specifico legato, sono stati devoluti all’erede
universale D.D.B. (anch’esso istituito col testamento citato), valendo al riguardo la
regola sulla capacità espansiva della chiamata ereditaria,.
Ebbene, il riferimento che – si legge nella disposizione testamentaria a titolo
particolare in favore di O.D.B. – all’atto notar C. del (…) appare decisivo in senso
favorevole all’appellante.
Ed invero, con il detto contratto notar C. del (…) – come detto espressamente
richiamato nel legato – il de cuius acquistava da R.L., non solo “un villino facente
parte del nucleo residenziale di nuova costruzione e non ancora catastato dalla
venditrice edificato in C. Via P. dell’O. (canalicchio) e precisamente il villino facente
parte del gruppo C contraddistinto col n. II corrispondente al civico 191 costituito da
n. 7 vani piano rialzato e primo piano con otto accessori (cucina, servizio lavanderia,
cesso con doccia, cesso di servizio, due corridoi, cesso con bagno) con annesso vano
rimessa, locale caldaia, terrazza e giardinetto, confinante nello insieme a nord con
proprietà F., a sud con la venditrice, ad est con strada provinciale ad ovest con
stradella privata”, ma anche (ecco il punto) “il vano terrano adibito a rimessa
insistente sulla particella frazionata (…), nonché il vano adiacente adibito a locale di
sgombero con annesso cesso insistente sulla particella frazionata (…) confinante nello
intero a sud con proprietà D.B. ad est con viale privato in condominio a nord ed ovest
con proprietà della venditrice”.
Così stando le cose, il collegio ritiene che tra le due opzioni in campo (legato avente
ad oggetto solo la palazzina in via P. dell’O. gruppo C, n. 191; ovvero legato avente
ad oggetto tutti i beni acquistati con l’atto notar C. del (…), e quindi anche i beni, per
così dire minori, ivi indicati: il vano terrano adibito a rimessa ed il locale di
sgombero) sia preferibile quella affermata dall’appellante.
Tale interpretazione appare, invero, conforme alle regole ermeneutiche relative ai
negozi di ultime volontà. Ed infatti, l’interpretazione del testamento (cui in linea di
principio sono applicabili le regole di ermeneutica dettate dal codice in tema di
contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale
non recettizio del negozio “mortis causa”) è caratterizzata, rispetto a quella
contrattuale, da una più penetrante ricerca, al di la della dichiarazione, della volontà
del testatore: volontà del testatore che, alla stregua dell’art. 1362 c.c., va individuata
innanzitutto con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla
base dell’esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione
(Cass. sez. II – 07/05/2018, n. 10882).
Ed appare conforme alla volontà del testatore, si diceva, in quanto ove il de cuius
avesse voluto che i beni non indicati andassero all’erede lo avrebbe detto
espressamente e ciò considerata l’analiticità delle disposizioni contenute nel detto
testamento. Ed infatti, in esso, dopo l’investitura del fratello D. quale erede
universale, si legge:
a) del legato in favore entrambe le dette nipoti O. e di P. di un terreno in C. via L.
131;
b) del legato in favore di P. della palazzina di via P. dell’O. 195;
c) del legato in favore di O. della palazzina di via P. dell’O. 191;
d) del legato in favore di entrambe le nipoti di tutti i mobili e gli arredi di casa;
e) del legato di somme di denaro in favore del fratello L. ed in favore dei nipoti E. e
R.;
f) del legato di denaro in favore di tale L.D.B.;
g) del legato del fucile in favore di tale G.P..
Si vuol dire, che a fronte di un testamento contenente disposizioni divisorie talmente
precise, non appare conforme alla volontà del testatore ipotizzare che questi abbia
omesso di disporre proprio dei due locali in questione, di modo che gli stessi
andassero all’erede universale in forza della capacità espansiva citata.
Assai più aderente alla volontà del testatore è, invece, ritenere che quando egli con il
terzo legato abbia attribuito ad O. “la palazzina in Via P.(a) dell’O. – Gruppo C n. 2
corrispondente al civico n. 191 – Atto Notarile (…) dal Notaio G.C. – C. I. 2”, abbia
inteso attribuire tutt’e tre le unità immobiliari acquistate con il detto atto pubblico.
In ragione di quanto precede, in riforma della sentenza appellata, va accolta la
domanda e quindi dichiarato che O.D.B. è proprietaria del locale rimessa e del locale
sgombero edificati sulle particelle (…) e (…) del catasto terreni, successivamente
classate al foglio (…), particelle (…) e (…) del catasto fabbricati, ed oggi identificate
catastalmente al foglio (…) particelle (…) sub (…) e sub (…), giusta variazione del
14.10.2016, e, per l’effetto, va condannata P.D.B. al rilascio dei predetti immobili in
favore dell’appellante.
Va, invece, rigettata la domanda di risarcimento danni, siccome non supportata da in
primo grado una compiuta allegazione (ed ancor meno prova) del pregiudizio subito e
ciò sull’erroneo presupposto che il detto danno sarebbe in re ipsa.
Ed infatti, se è vero che per lungo tempo si è ritenuto che l’occupazione sine titulo del
bene altrui – siccome ostativa al godimento del bene – fosse di per sé produttiva di un
pregiudizio per il titolare dell’immobile, è pur vero che tale impostazione risulta oggi
abbandonata dalla giurisprudenza della Suprema corte. In questo si veda
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui – coerentemente con il sistema di
responsabilità delineato dal codice del 1942, in cui il danno risarcibile è il c.d. danno
conseguenza, vale a dire il pregiudizio causalmente riconducibile alla violazione di
una situazione giuridica soggettiva protetta – è onere del danneggiato fornire al
giudicante elementi idonei ad accertare la consistenza e l’entità del pregiudizio subito
(Cass. n. 378/2005; Cass. n. 15111/2013).
Tali contrapposti orientamenti hanno trovato, a ben vedere, sistemazione mediana
nella recente pronuncia della Suprema corte: Cass. n 27/07/2015, n.15757.
La detta sentenza ha, invero, affermato il seguente condivisibile principio: “In tema di
occupazione abusiva di immobile, il danno patrimoniale subìto dal titolare del bene –
della cui prova egli è sempre onerato – dipende dall’atteggiarsi del suo godimento su
di esso nel momento in cui si verifica l’occupazione, giacché solo se esista un
godimento diretto o indiretto si concretizza un danno emergente da rapportare alle
utilità che egli avrebbe potuto acquisire dal bene se non occupato, mentre, in caso
contrario, sarà al più ipotizzabile un lucro cessante, da identificare nell’impossibilità
di realizzare una modalità di godimento diretto che era stata programmata prima
dell’occupazione, ovvero una modalità di godimento indiretto che si sia presentata
“medio tempore” e resa, del pari, impossibile dall’occupazione”.
In adesione al principio sopra enunciato, quindi, in tanto si sarebbe potuto accogliere
la domanda risarcitoria, in quanto O.D.B., anziché invocare, come è avvenuto, la
giurisprudenza minoritaria in tema di danno in re ipsa (senza null’altro aggiungere)
avesse dedotto in base a quali elementi, anche presuntivi, inferire il concreto
pregiudizio subito (chiarendo, se non altro, così come richiedono le sezioni unite con
la citata sentenza del 2015, il tipo di godimento del bene, diretto o indiretto, precluso
dalla successiva illegittima occupazione (c.d. danno emergente), ovvero, indicando la
programmata (prima dell’occupazione) modalità di godimento particolare della res
(c.d. lucro cessante).
Né tale difetto di allegazione può essere supplito con le deduzioni operate in questo
secondo grado di giudizio, trattandosi di allegazioni di fatti totalmente nuovi
(necessità di disporre dell’area di sedime oggi occupata dal locale di sgombero per far
transitare mezzi meccanici sulla limitrofa stradella) atti a modificare sostanzialmente
il thema decidendum.
In base alla soccombenza parziale, P.D.B. va condannata al pagamento di metà delle
spese processuali di entrambi i gradi in favore dell’appellante, compensata tra le parti
la metà residua.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza disattesa o assorbita, in
accoglimento dell’appello proposto da D.B.O., nei confronti di D.B.P., avverso la
sentenza emessa dal tribunale di Catania il 7.8.2017, in accoglimento parziale
dell’appello ed in conseguente parziale riforma della sentenza impugnata, che per il
resto conferma, dichiara che O.D.B. è titolare del diritto di proprietà sul locale
rimessa e sul locale sgombero indicati nel rogito notar C. del (…), e precisamente dei
locali edificati sulle particelle (…) e (…) del catasto terreni, successivamente classate
al foglio (…) particelle (…) e (…) del catasto fabbricati, ed oggi identificati
catastalmente al foglio (…) particelle (…) sub (…) e sub (…), giusta variazione del
14.10.2016, originata da Bonifica di identificativo catastale n. (…), condannando
D.B.P. al rilascio dei predetti immobili in favore dell’appellante.
Condanna altresì D.B.P. al pagamento di metà delle processuali di entrambi i gradi,
che, per il primo grado, si liquidano nell’intero in Euro 118,50 per esborsi in Euro
875,00 per la fase di studio, in Euro 740,00 per la fase introduttiva, in 1600,00 per la
fase istruttoria ed in Euro 1620,00 per la fase decisoria, oltre IVA CPA ed oltre
rimborso spese forfettarie ex art. 1, comma 2, nella percentuale del 15 % del
compenso totale per la prestazione e che, per il presente grado, si liquidano
nell’intero, in Euro 355,00 per esborsi in Euro 1080,00 per la fase di studio, in Euro
877,00 per la fase introduttiva, ed in Euro 1820,00 per la fase decisoria oltre IVA CPA
ed oltre rimborso spese forfettarie ex art. 1, comma 2, nella percentuale del 15 % del
compenso totale per la prestazione. Compensa tra le parti la metà residua.Così deciso
in Catania nella camera di consiglio dell’11 aprile 2019.
Depositata in Cancelleria il 17 aprile 2019.

La violazione dell’obbligo di convivenza va contestata in assenza di giusta causa.

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 18 settembre 2019, n. 23284
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13307-2018 proposto da:
G.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO REGOLO 19, presso lo studio
dell’avvocato GIUSEPPE LIPERA, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.N.M.C.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 176/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 25/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/07/2019 dal
Consigliere Relatore Dott. TRICOMI LAURA.
Svolgimento del processo
CHE: Il ricorso per cassazione è stato proposto da G.C. nei confronti di C.N.M.C. avverso la
sentenza della Corte di appello di Catania, in epigrafe indicata, che, in sentenza di separazione
personale, rigettando l’appello principale e l’appello incidentale, per quanto interessa al presente
giudizio, aveva confermato la pronuncia di addebito nei confronti di G. e la previsione a suo carico
di un assegno di mantenimento a favore della moglie.
Il ricorso consta di tre motivi corredato da memoria. La controparte è rimasta intimata.
Sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per la trattazione camerale ex art. 380 bis c.p.c.
Motivi della decisione
CHE:
1.1. Con il primo motivo si denuncia l’erronea applicazione dell’art. 151 c.c., comma 2.
A parere del ricorrente la Corte territoriale, errando, avrebbe basato l’accertamento compiuto in
motivazione, in merito all’addebito, esclusivamente sulla circostanza del suo allontanamento della
casa coniugale, senza tenere conto nè dell’insussistenza di un rapporto di causalità tra detto
allontanamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza nè dell’assenza di
comportamenti contrari ai doveri coniugali posti in essere dal medesimo (fol. 5 del ricorso).
Assume che dagli atti processuali era emerso che la fine dell’unione coniugale era da ascriversi ad
incompatibilità caratteriali.
Quindi sostiene che la Corte catanese avrebbe, altresì errato nel non rilevare che la prova della
violazione dei doveri coniugali da parte del marito e del rapporto di causalità tra l’allontanamento ed
il verificarsi dell’intollerabilità della ulteriore convivenza era onere della C., limitandosi ad
affermare che G. non aveva fornito la prova che l’allontanamento era dovuto a giusta causa.
1.2. Il motivo è infondato.
1.3. Come già è stato affermato da questa Corte la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola
violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario
accertare se tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione di
intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel determinarsi della
crisi del rapporto coniugale. L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi
nel determinarsi della intollerabilità della convivenza è istituzionalmente riservato al giudice di
merito (Cass. n. 18074/2014; Cass. n. 4550/2011). In tema di onere della prova, questa Corte ha
affermato che grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza degli obblighi nascenti dal
matrimonio, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la
sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di
chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda provare le circostanze su cui
l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata violazione (ex
multis, Cass. n. 14591/2019, Cass. n. 3923/2018).
1.4. Tanto premesso, va tuttavia rimarcato che l’onere della prova si connota in maniera specifica ed
autonoma in relazione alla dedotta violazione degli obblighi ed al nesso di causalità.
Quanto al primo profilo, alla stregua dei principi richiamati, va affermato che nel caso in cui sia
dedotta la violazione dell’obbligo coniugale di convivenza, la prova dell’avvenuto allontanamento
dal domicilio coniugale, a cura del coniuge che lo denuncia, è sufficiente ad integrare la fattispecie
ai sensi dell’art. 146 c.c., comma 1, a meno che il coniuge che si è allontanato non provi che ciò sia
avvenuto per giusta causa.
Pertanto, correttamente la Corte di appello, stante il carattere incontestato dell’allontanamento
denunciato, ha ritenuto sussistere la violazione del dovere coniugale da parte del G., sulla
considerazione che questi aveva sostenuto che alla data del suo allontanamento la crisi coniugale
era già scoppiata e che l’allontanamento era una conseguenza dell’intollerabilità della prosecuzione
della convivenza, senza tuttavia fornire alcuna prova di ciò che aveva prospettato come “giusta
causa”, ma affermandolo solo labialmente (fol. 4 della sentenza): tale statuizione non risulta
nemmeno impugnata, tale non potendosi ritenere l’affermazione contenuta in ricorso, secondo la
quale dagli atti sarebbe emerso che la crisi coniugale era da ascrivere a differenze caratteriali, attesa
la assoluta genericità e mancanza di specificità della stessa (fol. 6 del ricorso).
Passando all’esame del profilo probatorio concernente il nesso di causalità, va confermato che,
anche in caso di allontanamento e di richiesta di addebito, spetta al richiedente, e non all’altro
coniuge, provare non solo l’allontanamento dalla casa coniugale, ma anche il nesso di causalità tra
detto comportamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (cfr. Cass. n.
14591/2019, Cass. n. 3923/2018, Cass. n. 3194/2017, Cass. n. 19328/2015), tuttavia nulla osta a che
tale prova sia anche di tipo logico o presuntivo.
Proprio la decisione invocata dal ricorrente ha sottolineato la specificità di tale fattispecie, laddove
chiarisce che “Diversa peraltro è la situazione, nella specie dedotta, dell’allontanamento del coniuge
dalla casa coniugale, che, se non assistito da una giusta causa, costituisce violazione dell’obbligo di
convivenza: viene meno in tal senso da parte del richiedente l’obbligo di provare il rapporto di
causalità tra la violazione e l’intollerabilità della convivenza; sarà l’altra parte a dover provare la
giusta causa dell’allontanamento, che potrebbe consistere in un comportamento negativo del
coniuge o magari in un accordo tra i due coniugi per dare vita, almeno temporaneamente, ad una
separazione di fatto, in attesa di una successiva formalizzazione.”.” (così testualmente, Cass. n.
25966 del 15/12/2016): tale pronuncia appare intesa a valorizzare una prova di tipo logico e
presuntivo da valutarsi sulla scorta del complesso compendio probatorio riveniente dall’attività
istruttoria, e la decisione impugnata appare in linea con detti principi.
Nella specie la Corte d’appello innanzi tutto ha dato riscontro al fatto che il giudizio di separazione,
proposto dalla C., era stato introdotto due anni dopo l’abbandono del tetto coniugale da parte del G.,
di guisa che non poteva ricorrere la fattispecie disciplinata dall’art. 146 c.c., comma 2; quindi ha
accertato il verificarsi della violazione del dovere di coabitazione e l’assenza di una giusta causa,
rimarcando che dal complessivo compendio probatorio non era emerso alcun elemento idoneo a
comprovare l’esistenza di pregresse cause di crisi coniugale, argomento con cui si era difeso proprio
G. adducendolo come “giusta causa”, e sulla scorta di questi plurimi elementi ha escluso che
potesse essere riformata la pronuncia di addebito pronunciata in primo grado, con accertamento di
merito che risulta insindacabile in sede di legittimità, ove non censurato sul piano motivazionale nei
limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
2.1. Con il secondo motivo ci si duole dell’erronea applicazione dell’art. 156 c.c. in merito al
riconoscimento dell’assegno di mantenimento a favore della moglie, sostenendo che la Corte
territoriale non avrebbe preso in considerazione le capacità reddituali della moglie, rivenienti da
proprietà immobiliari ed attività lavorativa, ed il peggioramento delle proprie capacità reddituali,
rivenienti da riduzione progressiva del reddito, patologie che gli avevano impedito
temporaneamente l’attività lavorativa, nonchè del tenore di vita modesto goduto durante il
matrimonio.
2.2. Il motivo è inammissibile.
Premesso che la Corte ha accertato le condizioni economiche delle parti ed ha espressamente
escluso che fosse stata fornita la prova dell’attività lavorativa svolta dalla moglie presso l’hotel
(OMISSIS), la censura, avanzata come violazione di legge, lamenta sostanzialmente ed
inammissibilmente l’errato accertamento in fatto in ordine alle condizioni economiche delle parti,
poste a base della statuizione impugnata, che vorrebbe sovvertire; in disparte da ciò, va osservato
che non è precisato nemmeno quando le circostanze indicate siano state sottoposte ai giudici di
merito.
V’è da aggiungere che la statuizione sull’addebito richiesto a carico del marito, contrariamente a
quanto prospetta il ricorrente in memoria, è inidonea ad incidere sul riconoscimento dell’assegno di
mantenimento in favore della moglie, atteso che la pronuncia di addebito incide sui rapporti
patrimoniali con la perdita del diritto al mantenimento ex art. 156 c.c., comma 1, solo in danno della
parte a carico del quale l’addebito sia pronunciato.
3.1. Con il terzo motivo ci si duole della violazione dell’art. 91 c.p.c. per avere la Corte territoriale
confermato la condanna al pagamento dei due terzi delle spese di giudizio per i due gradi della fase
di merito pur essendo egli risultato parzialmente vittorioso e, per altro verso, riscontrandosi una
soccombenza reciproca.
3.2. Il motivo è inammissibile in quanto la valutazione delle proporzioni della soccombenza
reciproca e dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, ovvero la
determinazione delle quote in cui le spese processuali debbano eventualmente ripartirsi o
compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del
giudice di merito, e restano perciò sottratte al sindacato di legittimità, essendo questo limitato ad
accertare soltanto che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere
poste a carico della parte totalmente vittoriosa, come già affermato da questa Corte anche con la
decisione erroneamente invocata dal ricorrente (cfr. Cass. n. 1629 del 23/01/2018; Cass. n. 2149 del
31/01/2014).
4. In conclusione, il ricorso va rigettato, infondato il primo motivo ed inammissibili i motivi
secondo e terzo, avendo condiviso il Collegio la proposta del relatore, anche alla luce della memoria
depositata dal ricorrente.
Non si provvede sulle spese di giudizio per il mancato svolgimento di attività difensive della
controparte.
Va disposto che siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nell’ordinanza, a
norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
– Dichiara inammissibile il ricorso;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52;
– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 9 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2019

La sentenza straniera extracomunitaria deve fondare la sua competenza giurisdizionale sugli stessi principi in base ai quali il giudice italiano eserciterebbe la sua giurisdizione.

Cass. civ., sez. I, 12 settembre 2019, sent. n. 22828 – Pres. Acierno – Rel. Scalia
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA
sul ricorso 26865/2015 proposto da:
V.Y., elettivamente domiciliato in Roma, Via Degli Scipioni 94, presso lo studio dell’avvocato
Giovanna Fiore, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Cinzia De Angeli, giusta
procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.V.N.O.S., elettivamente domiciliata in Roma, Via Fabio Massimo 95, presso lo studio
dell’avvocato Giovanni Pieri Nerli, e rappresentata e difesa dall’avvocato Laura Luzzatto Guerrini,
giusta procura in calce al ricorso;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 3631/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il
03/09/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/2019 dal Cons. Dott. Laura
Scalia;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha
concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato Giovanna Fiore per il ricorrente, che si riporta agli atti, udito l’Avvocato Giovanni
Pieri Nerli per la controricorrente, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Venezia, con ordinanza emessa del D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 30, in
data 22 giugno 2015, ha accertato la sussistenza dei requisiti di riconoscimento, ai sensi della L. n.
218 del 1995, art. 67, della sentenza pronunciata in data 20 maggio 2013 dal Tribunale distrettuale
Shevcenkivskyi di Chernivtsi (Ucraina), che aveva disposto il trasferimento in Ucraina, presso la
madre, della minore V.N.Y., nata a (OMISSIS) ed ivi residente dalla nascita, con ordine di
riconsegna rivolto al padre, già con lei convivente.
2. La Corte territoriale, nello scrutinio del provvedimento giudiziario estero, ha ritenuto non ostare
al riconoscimento della sua efficacia la pendenza in Italia del procedimento di decadenza della
madre dalla responsabilità genitoriale, introdotto dal padre successivamente alla definizione del
giudizio ucraino.
3. Ricorre per la cassazione dell’indicata ordinanza il padre della minore, V.Y., con tre motivi.
Resiste con controricorso B.V.N.O.S.. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di legge ed omesso
esame su di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in
relazione alla L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a) ed art. 3. Si censura, in particolare che la
Corte di appello di Venezia, mancando di effettuare ogni indagine sul punto, non avrebbe rilevato il
difetto di giurisdizione del giudice ucraino in quanto la minore era residente in Italia dalla nascita,
in tal modo incorrendo, anche, nella violazione dell’art. 8 del Regolamento di Bruxelles II 2 bis n.
2201 del 2003 che attribuisce la giurisdizione sulle domande relative alla responsabilità genitoriale
al giudice del luogo ove il minore risiede.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della
Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata in Italia con la L. n. 176 del 1991, sui
diritti del fanciullo. La Corte di merito non avrebbe rilevato il mancato rispetto dell’interesse
supremo del fanciullo garantito dalla normativa di diritto internazionale privato, nella specie
affermativa della giurisdizione italiana, nonchè dall’art. 3 Cost. e dall’art. 12 della Convenzione di
New York del 1989, e sarebbe incorsa in omesso esame di fatti decisivi. I servizi sociali ucraini non
avrebbe svolto alcuna indagine su relazioni ed abitudini di vita della minore, in violazione
dell’interesse a veder verificata l’idoneità dell’ambiente in cui deve crescere e svilupparsi la sua
personalità, e la qualità delle relazioni instaurate con i genitori. Il Tribunale ucraino non avrebbe
motivato sul perchè la minore dovesse essere collocata presso la madre senza prevedere alcuna
modalità di esercizio del diritto-dovere di frequentazione del padre.
3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione di legge ed omesso esame su di un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per non avere la Corte di
merito rilevato la contrarietà all’ordine pubblico, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1,
lett. g), della sentenza del Tribunale ucraino, per contrasto con i principi di cui alla L. n. 218 del
1995, art. 36-bis e di cui agli artt. 2, 3 e 30 Cost. e degli artt. 3, 9, 10 e 12 della Convenzione di
New York sui diritti del fanciullo. I principi della bigenitorialità e della corresponsabilità dei
genitori, incidenti sull’adozione di misure di protezione a tutela dell’interesse del figlio a non subire
atti pregiudizievoli, sarebbero stati violati dalla sentenza ucraina che nulla avrebbe disposto sul
diritto di visita del padre, senza che il genitore collocatario fosse sottoposto ad esame ai fini di una
declaratoria di decadenza.
4. Deve preliminarmente osservarsi che l’oggetto del presente giudizio è il riconoscimento di una
pronuncia estera, emessa in uno Stato, non appartenente all’Unione Europea, avente ad oggetto la
fissazione della residenza della figlia minore delle parti presso la madre in Ucraina. Oggetto della
cognizione del giudice del merito e di questa Corte è pertanto la corrispondenza della pronuncia in
esame ai parametri stabiliti nella L. n. 218 del 1995, art. 64.
5. Deve ulteriormente precisarsi in via preliminare che la decisione ucraina riguarda, per quel che si
conosce dalla pronuncia della Corte di appello di Venezia, l’esercizio della responsabilità genitoriale
delle parti nei confronti della figlia minore, di cui il provvedimento delibato modifica la residenza,
in tal modo fortemente incidendo sulle modalità di rapporto tra il padre e la minore stessa.
6. Non trova applicazione nella specie il regime specifico di riconoscimento delle sentenze emesse
all’interno dell’Unione Europea, dettato dal Regolamento n. 2201 del 2003, dal momento che la
pronuncia di cui si chiede il riconoscimento non è stata adottata da uno Stato membro dell’Unione
stessa (art. 23 del Regolamento).
7. Le condizioni di riconoscimento nell’ordinamento italiano della pronuncia ucraina sono, pertanto,
quelle contenute nella L. n. 218 del 1995, art. 64. L’oggetto della decisione, in quanto inerente la
responsabilità genitoriale sul figlio minore e conseguentemente, la tutela del suo preminente
interesse, pone in luce la necessità di scrutinare, in primo luogo, la condizione cd. di reciprocità
indicata nella lettera a) della norma. E’ necessario, alla luce del parametro normativo sopra indicato
che il giudice straniero abbia fondato la propria competenza giurisdizionale sugli stessi principi in
base ai quali, in casi corrispondenti, il giudice italiano avrebbe esercitato la sua giurisdizione nei
confronti del giudice straniero (S.U. n. 8038 del 2011). E’ necessario, in conclusione, che il giudice
straniero sia munito della competenza internazionale nella materia oggetto della decisione, per la
determinazione della quale occorre fare riferimento ai criteri stabiliti dall’ordinamento italiano (S.U.
n. 21946 del 2015).
Nella specie, ai fini della determinazione della competenza giurisdizionale internazionale deve
rilevarsi che la decisione ucraina, involgendo questioni strettamente inerenti l’esercizio della
responsabilità genitoriale, ha adottato misure rientranti nell’ambito degli istituti di protezione del
minore, destinate al perseguimento del suo preminente interesse. La norma applicabile risulta
pertanto la L. n. 218 del 1995, art. 42, secondo la quale “la protezione dei minori è in ogni caso
regolata dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, sulla competenza delle autorità e sulla
legge applicabile in materia di protezione di minori, resa esecutiva con la L. 24 ottobre 1980, n.
742”, di cui è parte la stessa Ucraina.
Ad essa è succeduta, anche nei rapporti reciproci, la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996,
concernente la competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione
in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, entrata in vigore in
Italia il 1 gennaio 2016, secondo la L. 18 giugno 2015, n. 101 (ex art. 2, che richiama l’art. 61 par. 2
lett. a) della Convenzione) con la quale l’Italia ha proceduto alla ratifica e all’esecuzione dello
strumento convenzionale.
Il rapporto in esame, tuttavia, resta disciplinato dalla Convenzione dell’Aja nel testo originario dal
momento che, la modifica introdotta con la successiva convenzione del 18.10.1996, ancorchè
applicabile in Ucraina dal 1 febbraio 2008, è entrata in vigore in Italia, come già rilevato, solo
successivamente all’instaurazione del giudizio volto al riconoscimento della pronuncia estera,
conclusosi con ordinanza del 22 giugno 2015.
8. L’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 stabilisce che “Le autorità, così giudiziarie
come amministrative, dello Stato di dimora abituale d’un minorenne sono, con riserva delle
disposizioni degli artt. 3, 4 e 5, capoverso 3, della presente Convenzione, competenti a prendere
delle misure per la protezione della persona o dei beni dello stesso”.
In esordio, la fonte convenzionale, nella sua prima norma, assegna con univocità allo Stato di
“dimora abituale” la competenza ad adottare le misure per la protezione del minore.
La previsione deve essere raccordata con quella contenuta nel successivo art. 4 che reca il seguente
testo: “se le autorità dello Stato di cui il minore è cittadino giudicano che l’interesse del minore lo
esige, esse possono, dopo aver informato le autorità dello Stato di sua residenza abituale, adottare
in base alla loro legislazione interna misure miranti alla protezione della sua persona o dei suoi
beni”. Si tratta di una disposizione che stabilisce una competenza concorrente in capo allo Stato di
cittadinanza del minore, destinata ad attivarsi all’esito di un percorso procedimentale precisato nella
stessa norma che ne rivela il carattere non equiordinato.
Nella Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, l’attivazione delle autorità dello Stato di cittadinanza
passa attraverso l’apprezzata necessità di un intervento a tutela dell’interesse del minore e resta,
ancora, mediata dalla previsione della preliminare informazione tra gli Stati di dimora e
cittadinanza, in relazione alle ragioni della deroga rispetto al criterio ordinario ed alla necessità
d’intervenire.
I criteri della “dimora abituale” e della cittadinanza del minore, nel combinarsi delle disposizioni di
cui agli artt. 1 e 4 della Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, non valgono ad individuare
competenze concorrenti ed alternative, ma, al contrario, evidenziano un criterio ordinario non
derogabile se non nei limiti prefigurati nell’art. 4. La competenza ulteriore ed eventuale, prevista in
quest’ultima disposizione, ha la esclusiva funzione di rafforzare la tutela e la protezione del minore
in relazione alle scelte inerenti la sua persona ed i suoi beni ma è strettamente correlata all’inerzia a
provvedere dello Stato di dimora o ad altre circostanze che possano precludere o rendere non
effettivo il suo intervento.
L’indicata disciplina prevede la possibilità di affiancare alla competenza principale dello Stato di
dimora abituale quello dello Stato di cittadinanza ove la prima non riesca a dispiegarsi in modo
efficace.
L’intervento dello Stato di cittadinanza ha natura eccezionale e come tale deve essere giustificato,
dal punto di vista sostanziale, dalla necessità di provvedere e, da quello procedimentale, dalla previa
interlocuzione con lo Stato in via ordinaria competente (art. 4, comma 1, Convenzione dell’Ala del
1961).
9. Anche nella successiva Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996 viene previsto un meccanismo
di competenza in funzione sussidiaria, analoga a quella sopradescritta, a conferma della correttezza
della soluzione ermeneutica sopra delineata, peraltro coerente con il testo e la funzione delle norme
esaminate.
L’art. 9, richiamando il meccanismo disciplinato dal precedente art. 8 sui rapporti tra Stato di
residenza abituale del minore, inteso come quello avente ordinaria competenza, e Stato di
cittadinanza del minore, inteso come quello avente competenza straordinaria ed aggiuntiva,
stabilisce che le Autorità degli Stati contraenti di cui all’art. 8, paragrafo 2 – e quindi dello Stato di
cittadinanza o di quello in cui si trovino i beni del minore o di quello la cui autorità sia stata
chiamata a conoscere di un’istanza di divorzio o di separazione legale dei genitori del minore, o di
annullamento del matrimonio o ancora dello Stato con il quale il minore presenti uno stretto legame
-, “ove ritengano di essere meglio in grado di valutare il superiore interesse del minore in un caso
particolare”, potranno avviare una diretta interlocuzione con lo Stato della residenza abituale.
Più puntualmente, lo Stato, la cui competenza è meramente aggiuntiva potrà attivarsi, all’esito di
“uno scambio di vedute”, osservando una pluralità di iniziative, tra le quali figura:
a) la richiesta all’autorità competente dello Stato contraente, quella di residenza abituale del minore,
direttamente o tramite l’Autorità centrale di tale Stato, di poter esercitare la competenza ad adottare
le misure di protezione che ritenesse necessarie;
b) l’invito alle parti a presentare tale richiesta alle autorità dello Stato contraente di residenza
abituale del minore (art. 9, commi 1 e 2).
L’Autorità richiedente potrà esercitare la competenza in nome e per conto dell’Autorità dello Stato
contraente di residenza abituale del minore ove tale autorità abbia accettato la richiesta (art. 9,
comma 3).
Nella definita ed articolata cornice, l’atteggiarsi della duplice competenza degli Stati, una principale,
che fa capo allo Stato di residenza abituale, ed una sostitutiva, propria invece dello Stato di
cittadinanza, o di quello altrimenti individuato dalla Convenzione del 1996, giusta i criteri di cui
all’art. 8, par. 2, rimarca la finalità della Convenzione stessa di realizzare, al meglio, l’interesse
superiore del minore, secondo finalità e scansioni che sono comuni a quella previgente del 1961, di
cui la seconda migliora la disciplina, meglio esplicitandone gli intenti ma in continuità coerente con
il sistema convenzionale preesistente.
10. In conclusione, sulla base della Convenzione del 1961 perchè lo Stato di cittadinanza possa
intervenire, a mezzo delle sue autorità, giudiziarie o amministrative, adottando misure in favore del
minore, è necessario dimostrare, o almeno allegare di aver assolto:
a) all’onere sostanziale, rappresentato dalla necessità di operare nella impossibilità o inerzia dello
Stato di residenza abituale del minore stesso avente competenza in via principale;
b) all’onere formale, consistente nella avviata preliminare interlocuzione con lo Stato della
residenza abituale.
Tanto premesso, ove richiesto di concedere l’exequatur, dovrà essere lo Stato di dimora abituale a
verificare che i detti presupposti siano stati tutti adempiuti.
11. La Corte di appello di Venezia, con l’impugnata decisione, non si è attenuta ai principi indicati,
avendo accolto la domanda sul rilievo che il giudice dello Stato ucraino potesse conoscere della
causa “in quanto entrambe le parti – i genitori della minore – sono di nazionalità ucraina”.
La decisione ucraina di cui è stato richiesto il riconoscimento non integra, pertanto, per le ragioni
esposte, la condizione di reciprocità prevista dalla L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. a), essendo stata
emessa da giudice di uno Stato privo della competenza giurisdizionale internazionale secondo i
criteri di determinazione di tale competenza previsti dal nostro ordinamento.
12. L’ordinanza della Corte di appello di Venezia deve essere pertanto cassata. Non essendo
necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384
c.p.c., comma 2 e, in accoglimento del proposto ricorso, deve essere rigettata la domanda di
riconoscimento nello Stato italiano della sentenza emessa dal Tribunale distrettuale Shevcenkivskyi
di Chernivtsi (Ucraina), in data 20 maggio 2013, tra B.V.N.O.S. e V.Y.. 13. La novità e complessità
delle questioni esaminate sostiene l’integrale compensazione delle spese di lite sia del giudizio di
merito che di quello di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa l’ordinanza impugnata e decidendo nel merito rigetta la domanda di
riconoscimento nello Stato italiano della sentenza emessa dal Tribunale distrettuale Shevcenkivskyi
di Chernivtsi (Ucraina), in data 20 maggio 2013, tra B.V.N.O.S. e V.Y.. Compensa le spese del
giudizio di merito e di questo giudizio.
Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati
identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2019

La responsabilità del legale è ravvisabile solo in caso di sua imperizia per aver violato o ignorato precise disposizioni di legge.

Cass. civ. Sez. III, Ord., 3 settembre 2019, n. 21982; Pres. Armano; Rel. Gorgoni
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25412-2017 R.G. proposto da:
A. IMMOBILIARE REAL ESTATE S.R.L., già Alexander Argenti S.R.L., in persona
dell’amministratore unico A.S., e CONCORDE S.R.L., in persona dell’amministratore unico I.F.,
rappresentate e difese dall’Avv. Prof. Luigi De Stefano, con domicilio eletto in Roma presso lo
Studio di quest’ultimo, via Crescenzio, n. 91;
– ricorrenti –
contro
EREDI DI G.G.;
– resistenti –
G.C.;
– resistente –
ASSICURAZIONI GENERALI S.P.A.;
– resistente –
avverso la sentenza n. 3827/17 della Corte d’Appello di Roma, depositata il 07/06/2017.
Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 17 aprile 2019 dal Consigliere Dott.
Marilena Gorgoni.
Svolgimento del processo
Le società Alexander Argenti r.l., Concorde r.l. e Cebes rl., nel 2003, ricevuta dal consorzio GI Aste
individuali, per conto dell’Inpdap, l’offerta di esercitare l’opzione di acquisto degli immobili da esse
condotti in locazione, si rivolgevano a G.G., avvocato, perché valutasse l’opportunità di
intraprendere un’azione legale per conseguire una riduzione del prezzo di opzione in considerazione
delle cattive condizioni degli immobili.
Ottenuto da G.G. il parere che una causa avrebbe avuto buone probabilità di successo, agivano
contro il consorzio GI Aste individuali, l’Inpdap, la SCIP S.R.L. e la Elle Tre S.R.L..
Dopo lo scambio degli atti introduttivi accoglievano il consiglio di G.G. di rinunciare agli atti anche
per non perdere l’opportunità di esercitare l’opzione di acquisto. La rinuncia non veniva accettata
dalla società Elle Tre, sicché, oltre a pagare a G.G. a titolo di parcella Euro 5.810,20, venivano
condannate a corrispondere alla società Elle Tre Euro 12.441,86 ciascuna per le spese di lite.
Le società agivano in giudizio contro G.G. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni
derivanti dall’espletamento del mandato professionale conferitogli.
G.G. chiedeva ed otteneva di chiamare in causa la propria compagnia assicuratrice, la quale,
costituitasi in giudizio, deduceva la inoperatività della copertura assicurativa, la mancata denuncia
del sinistro da parte dell’assicurato, l’estraneità del pagamento della parcella al legale dalla garanzia.
Il Tribunale di Roma, prima, con la sentenza n. 9681/2011, e la Corte d’Appello di Roma, investita
del gravame da Alexander Argenti S.R.L. e dalla Concorde S.R.L., anche quali cessionarie del
credito vantato dalla Cebes S.R.L. nei confronti di G.G., poi, con la sentenza oggetto dell’odierna
impugnazione, rigettavano la richiesta risarcitoria, escludendo la responsabilità del professionista,
perché: a) l’individuazione della giurisdizione risultava particolarmente difficile, in considerazione
del fatto che non veniva impugnato un atto amministrativo, ma si contestava solo la determinazione
del prezzo di vendita proposto in una offerta di opzione da un soggetto privato su incarico
dell’Inpdap; b) la società Elle Tre risultava in astratto legittimata passiva e quindi era stata
correttamente chiamata in giudizio quale soggetto tenuto alla manutenzione degli immobili; c) la
condanna al pagamento delle spese sopportate dalla società Elle Tre era stata determinata dalla sua
mancata adesione alla rinuncia al giudizio; d) la entità della condanna avrebbe potuto essere
impugnata dalle società tenute alla rifusione.
La Società A. Immobiliare Real Estate S.R.L., già Alexander Argenti S.R.L., e la Concorde S.R.L.
ricorrono per cassazione avverso detta sentenza, formulando tre motivi.
Nessuna attività difensiva è svolta dai resistenti.
Motivi della decisione
1.Con il primo motivo le società ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt.
2969 e 1218 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Ad avviso delle ricorrenti solo per un grave errore professionale commesso da G.G., la società Elle
Tre Scarl era stata chiamata in giudizio.
Nei confronti di tale società, infatti, non era stata formulata alcuna domanda e l’accertamento della
sua posizione quanto all’esecuzione delle opere necessarie per la messa in sicurezza degli immobili
era stata rinviata in un secondo momento.
La società, costituendosi in giudizio, aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva ed
aveva prodotto le procure rilasciatele il 24/06/2002 e il 13/03/2003 dal Raggruppamento
temporaneo di imprese, costituito da Pirelli Real Estate, Agied S.R.L., Immobiliare Confaro, per
gestire, in nome e per conto dell’Inpdap, gli immobili di proprietà della Scip S.R.L., al fine di
dimostrare la propria estraneità ai fatti di causa, stante l’assenza di qualsivoglia sua relazione con le
procedure di dismissione della proprietà Inpdap e l’assenza di obblighi connessi all’esecuzione di
opere.
G.G. non aveva disconosciuto le procure speciali da essa prodotte e non aveva formulato richieste
istruttorie dirette a provarne la legittimatio ad causam. Essendo la titolarità sostanziale della
situazione dedotta in giudizio un elemento costitutivo della domanda oggetto dell’onere probatorio
di parte attrice, il professionista avrebbe dovuto, ad avviso della parte ricorrente, considerarsi
gravemente inadempiente, per non aver dato alcuna dimostrazione delle ragioni della vocatio in ius
del soggetto dichiaratosi non legittimato e per non avere neppure indicato le prove indispensabili
per l’accoglimento della domanda.
La Corte territoriale che, invece, aveva escluso la ricorrenza di un errore da parte dell’avvocato –
dato che il difetto di legittimazione della società Elle Tre, asseritamente fondato dalle società
appellanti sulla qualità di procuratrice speciale rivestita dalla società Elle Tre non poteva essere
verificato, mancando in atti le procure generali speciale da cui desumere gli effettivi poteri della
chiamata e la conoscibilità degli stessi – avrebbe erroneamente attribuito loro, piuttosto che al
soggetto asseritamente inadempiente, l’onere di fornire la prova della legittimazione passiva della
società chiamata, pretendendo che esibisse le procure prodotte in giudizio dal soggetto non
legittimato e atte a consentire la valutazione del giudice.
Le ricorrenti aggiungono che, non avendo mai avuto conoscenza dell’esistenza e del contenuto delle
procure speciali conferite alla società Elle Tre, non avrebbero potuto presentarle in giudizio. A
sostegno esibiscono le comunicazioni scritte circa l’andamento della causa loro inviate da G.G.,
nelle quali non vi era cenno alcuno alla questione della legittimazione passiva della società Elle Tre.
I problemi sarebbero emersi, infatti, solo nel 2005, quando G.G. le mise a parte del fatto che la
società non aveva aderito alla definizione della controversia e che, essendo mancata un’offerta
transattiva da parte loro riguardo alle spese di lite, queste erano state liquidate dal giudice.
2. Con il secondo motivo le società ricorrenti imputano al giudice a quo la violazione dell’art. 112
c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 e la conseguente nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Asseriscono che il Collegio d’Appello avrebbe erroneamente affermato che la contestazione rivolta
a G.G. era quella di non avere adito il giudice amministrativo, trattandosi di una controversia avente
ad oggetto il prezzo di stima degli immobili locati, in ragione del loro cattivo stato manutentivo,
nell’ambito del procedimento di cartolarizzazione e dismissione del patrimonio pubblico. Invece, le
ricorrenti si sarebbero lamentate del fatto che G.G. avesse chiesto l’annullamento dell’atto di
cessione degli immobili da Inpdap a Scic. 3. Con il terzo ed ultimo motivo le ricorrenti
attribuiscono alla Corte territoriale l’avvenuta violazione dell’art. 112 c.p.c. e la nullità della
sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ai sensi dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 4.
La sentenza gravata non si sarebbe pronunciata sul terzo motivo di appello, con cui avevano
lamentato che G.G. non le avesse dissuase dall’intraprendere un costoso giudizio per poi
sollecitarle, con lettera del maggio 2006, riprodotta per intero nel ricorso, a rinunciare al giudizio e
ad accollarsi non solo le spese della sua parcella, ma anche le spese di lite della società Elle Tre che
non aveva aderito alla loro proposta transattiva.
4. Il ricorso è infondato, per le ragioni appresso illustrate.
4.1. In via preliminare, le società ricorrenti non hanno dimostrato il contenuto della transazione non
accettata dalla società Esse Tre asseritamente consigliata da G.G. né le ragioni della stessa.
Dalla lettera che G.G. aveva inviato loro nel maggio 2006 si acquisisce solo conoscenza della
ricorrenza di un accordo stragiudiziale; il contenuto non è compiutamente indicato: vi è un accenno
alla possibilità di acquisire i locali al prezzo originario di offerta, senza maggiorazione degli
interessi legali, previa rinuncia agli atti di causa; tuttavia, da tale comunicazione, avente dichiarata
finalità di aggiornamento, non è dato percepire alcuna costrizione al raggiungimento di un accordo
(tale non può considerarsi l’indicazione di un termine per addivenire alla stipula notarile dell’atto
traslativo). Si dava solo atto che le controversie che avevano ritardato la materiale acquisizione dei
beni potevano con certezza dirsi superate dall’accordo stragiudiziale confermato dai legali delle
controparti. Non vi è alcun riferimento, invece, alle ragioni che avevano spinto le parti a
raggiungere una soluzione transattiva, superando le reciproche posizioni di contrasto e non vi è
alcuna prova che l’interesse alla prosecuzione del giudizio sia stata determinata dall’andamento della
domanda in corso di causa e non da altre ragioni: considerato l’ampio spettro delle domande
formulate in giudizio da G.G. per loro conto – a) annullare l’operazione di cessione dell’immobile
dall’Inpdap alla Scip in quanto relativa ad un immobile sito in uno stabile a rischio per l’incolumità
pubblica e privata; b) ordinare l’esecuzione delle opere necessarie per la messa in sicurezza
dell’immobile e concedere un nuovo termine per l’esercizio del diritto di opzione, conseguente
all’avvenuta esecuzione dei lavori – non può escludersi, ad esempio, che i convenuti si fossero fatti
carico di eseguire tutte o parte delle opere necessarie.
Il che rappresenta una questione fondamentale nella vicenda in esame, atteso che la parte ricorrente
fonda le proprie censure proprio sulla “necessità” di addivenire ad un accordo transattivo, una volta
emerse le questioni di fatto e di diritto ostative al raggiungimento del risultato atteso o comunque
produttive di effetti dannosi.
4.1.2. La giurisprudenza di legittimità fonda l’obbligo di dissuasione da parte del difensore, invocato
dalle ricorrenti, sulla ricorrenza di una domanda che risulti chiaramente inammissibile per assenza
dei presupposti previsti dalla legge o completamente infondata, giacché il professionista ha
l’obbligo di astenersi dalle cause perse o infondate (Cass. 12/05/2016, n. 9695). Anche ammesso
che il difensore avesse accettato una causa per la quale prevedeva già dall’inizio la soccombenza dei
suoi assistiti, non avrebbe potuto, poi, disinteressarsene del tutto, con il pretesto che si trattava di
una “causa persa”, senza almeno attivarsi per trovare una soluzione transattiva, essendo tale
comportamento comunque doveroso, allo scopo di non esporre il cliente all’incremento delle spese
iniziali (Cass. 02/07/2010, n. 15717; Cass. 26/07/2010, n. 17506).
Tuttavia, nel caso di specie, tanto il giudice di prime cure quanto la Corte d’Appello, nella sentenza
gravata, hanno escluso che l’avvocato avesse intrapreso un’azione prima facie inammissibile e/o
infondata.
Ciò stando, se pure avesse indotto le società proprie clienti ad addivenire ad un componimento
bonario della lite, avrebbe tenuto un comportamento conforme all’obbligo di tutelare i loro interessi
che rischiavano di essere pregiudicati dalla prosecuzione di una controversia dalla quale poteva
derivare un incremento del pregiudizio iniziale.
4.2. Va rilevato, inoltre, che l’affermazione secondo la quale l’avvocato aveva ottenuto un
preliminare incarico stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all’utile
esperibilità di un’azione giudiziale non trova riscontro nei fatti di causa (vi è solo l’affermazione
assertiva delle ricorrenti a supporto di tale circostanza) e comunque va considerato che anche
l’eventuale prestazione di natura consulenziale non avrebbe garantito il risultato, ma avrebbe
obbligato il professionista ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti
opportuni allo scopo di permettere alle clienti di adottare una consapevole decisione, a seguito di un
ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell’azione.
Per invocare la responsabilità dell’avvocato sarebbe stato necessario dimostrare che, in applicazione
del parametro della diligenza professionale (art. 1176 c.c., comma 2), nell’adempiere siffatta
obbligazione, egli avesse omesso di prospettare loro tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad
impedire l’utile esperimento dell’azione a causa dell’ignoranza di istituti giuridici elementari e
fondamentali ovvero di incuria ed imperizia, insuscettibili di giustificazione.
Una volta avviato il processo, la responsabilità del legale è ravvisabile solo in caso di sua imperizia
per aver violato o ignorato precise disposizioni di legge ovvero errato nel risolvere questioni
giuridiche prive di margine di opinabilità.
Invece la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità solo se
la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata)
dal giudice di merito ex ante, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le
soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità – in astratto o con
riferimento al caso concreto – tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute
dal legale (Cass. 20/05/2015, n. 10289).
4.3. Dall’esame complessivo della motivazione e da quanto appena osservato si evince
l’inconfigurabilità del vizio di omessa pronuncia lamentato dalle società ricorrenti (con i motivi
numero due e tre), dato che esso è integrato solo dalla mancanza di una decisione da parte del
giudice in ordine ad una domanda che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto e va
escluso ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita o di un suo assorbimento in altre
statuizioni o qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del
problema giuridico sottoposto al suo esame (Cass. 13/08/2018, n. 20718).
4.3.1. Deve essere rilevato che in entrambi i giudizi di merito era stato negato che G.G. avesse
erroneamente evocato in giudizio la società Elle Tre. La censura di parte ricorrente è che il giudice
del merito abbia, incorrendo in errore, sovrapposto la questione della vocatio in ius con quella della
titolarità sostanziale del rapporto controverso, invertendo l’onere della prova gravante sulla parte
attrice, quindi sul difensore in giudizio, di fornire, a fronte della difesa della convenuta, la prova
della ricorrenza in capo ad essa della legittimazione passiva.
Va richiamata a tal proposito la pronuncia a sezioni unite, n. 2951 del 16/11/2016, con cui questa
Corte ha ribadito la distinzione tra legittimazione attiva e passiva al processo (che implica, sulla
scorta della prospettazione della domanda, la legittimazione ad agire in giudizio a tutela del proprio
diritto e specularmente quella a contraddire in capo a colui che si individui quale titolare della
situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio) e titolarità della posizione soggettiva oggetto
dell’azione e affermato che il problema della titolarità della posizione soggettiva, attiva ma anche
passiva, attiene al merito della decisione, cioè alla fondatezza della domanda, con la conseguenza
che la relativa prova grava, ex art. 2697 c.c., sull’attore. La titolarità del diritto e, per converso, la
titolarità della situazione giuridica soggettiva passiva appartengono alla categoria dei fatti-diritto
che della domanda costituiscono fondamento. Chi agisce in giudizio non può limitarsi ad allegare il
proprio diritto, ma è tenuto a dimostrare di esserne titolare. Il convenuto, qualora non condivida
l’assunto dell’attore in ordine alla titolarità del diritto, può limitarsi a negarla. Tale negazione
costituisce una difesa. Nell’ambito delle difese, genericamente intese come tutte quelle prese di
posizione con cui il convenuto si contrappone alla domanda, vanno individuate e tenute distinte le
eccezioni, con cui il convenuto non si limita a negare i fatti costitutivi del diritto dell’attore, ma
oppone un fatto diverso, fatti modificativi, estintivi ed impeditivi (eccezioni), il cui onere probatorio
è a suo carico. E’ anche possibile, ai fini che qui interessano, che il convenuto non contesti il fatto
costitutivo vantato dall’attore oppure che fornisca una difesa incompatibile con la negazione della
sussistenza della titolarità del diritto in capo all’attore. Nel caso di specie, costituendosi in giudizio,
la società Elle Tre aveva contestato di essere titolare della situazione giuridica soggettiva passiva.
La sua doveva considerarsi, dunque, una mera difesa, la quale implicava che l’attore fornisse la
prova della sua legittimazione passiva.
Va, nondimeno, precisato che fino alla citata pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite (n.
2951/2016), la giurisprudenza maggioritaria riteneva che la contestazione della legittimazione
passiva integrasse un’eccezione in senso stretto con onere della prova a carico dell’eccipiente.
Ne consegue che nessun errore poteva imputarsi a G.G. per non essersi fatto carico di contestare,
all’epoca dei fatti, le procure speciali prodotte in giudizio dalla società Elle Tre e per non avere
formulato le istanze istruttorie necessarie a provare la sua concreta legittimazione passiva.
4.4. Non corrisponde al vero che la Corte territoriale si sia pronunciata su una domanda – la pretesa
stima degli immobili – da esse ricorrenti non proposta.
L’intento delle attuali ricorrenti era innegabilmente quello di ottenere la riduzione del prezzo di
opzione per l’acquisto degli immobili locati in considerazione delle loro cattive condizioni.
E’ vero che la Corte territoriale ha fatto riferimento alla stima degli immobili locati, questione non
specificamente dedotta in questi termini dalle società appellanti, ma considerando che il giudice non
è necessariamente vincolato alle espressioni letterali utilizzate dalle parti in giudizio, che deve
indagare e considerare il contenuto sostanziale della domanda, che la rideterminazione del prezzo di
opzione implicitamente richiedeva l’accertamento del valore degli immobili locati, è da escludere
che il giudice a quo sia incorso nel vizio imputatogli.
Superata tale obiezione, non risulta che le società ricorrenti abbiano confutato, con la propria
attività deduttiva, che il buon esito del giudizio non sia stato ipotecato da negligenza o imperizia di
G.G., stante che la domanda proposta richiedeva la risoluzione di questioni opinabili.
4.5. Non coglie nel senso neppure l’ulteriore specifico errore imputato a G.G., quello di aver adito il
giudice ordinario anziché quello amministrativo, perché le ricorrenti non hanno fornito la prova che,
contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, non fosse opinabile, nel caso di specie,
quale fosse la giurisdizione. Né può essere del tutto sprovvista di rilievo la circostanza, rilevata
dalla Corte territoriale, che il giudice di prime cure sulla base di una delibazione sommaria non
avesse ritenuto decisiva la eccezione di giurisdizione.
5. Ne consegue il rigetto del ricorso.
6. Non v’è da regolare la liquidazione delle spese del presente giudizio, perchè i resistenti non
hanno svolto attività difensiva.
7. Ricorrono i presupposti per porre a carico della parte ricorrente l’obbligo di pagamento del
doppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Non provvede alla liquidazione delle spese per mancanza di attività difensiva da parte dei resistenti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte delle società ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte Suprema di
Cassazione, il 17 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2019

La costrizione della moglie a sopportare la presenza di una concubina integra reato ex art 570 bis c.p.

Cass. pen. Sez. VI, Sent. 6 agosto 2019, n. 35677 – Pres. Petitti, Rel. Vigna
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. COSTANZO Angelo – Consigliere –
Dott. RICCIARELLI Massimo – Consigliere –
Dott. ROSATI Martino – Consigliere –
Dott. VIGNA Maria S. – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
G.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/01/2018 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MARIA SABINA VIGNA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. ANGELILLIS CIRO, che ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
udito il difensore, avvocato TICINO LUIGI del foro di ENNA oggi nominato avvocato di fiducia di
G.G., che ha insistito nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Caltanissetta, in riforma della sentenza emessa
dal Tribunale di Enna il 17/02/2015, ha ridotto la pena inflitta a G.G. per il reato di maltrattamenti
ai danni della moglie ad anni due e mesi tre di reclusione.
Si contesta all’imputato di avere maltrattato la moglie Gu.Ca.Ma., umiliandola e costringendola a
tollerare una convivenza more uxorio sotto lo stesso tetto con altra donna, minacciandola,
percuotendola e lesinandole il denaro per fare fronte ad esigenze primarie; così rendendole la vita
particolarmente penosa e dolorosa. I fatti sono contestati dal 2009 “ad oggi” e quindi al momento
della richiesta di rinvio a giudizio del Pubblico ministero nel 2012.
2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione G.G., a mezzo del difensore di fiducia, deducendo i
seguenti motivi:
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art.
572 c.p.
La persona offesa non è stata in grado di riferire alcun episodio specifico di ingiurie, minacce o
violenza, limitandosi ad affermare di essere stata trattata male in alcune occasioni e di avere
ricevuto qualche schiaffo.
L’imputato era andato a vivere con altra donna in autonomo appartamento chiedendo anche la
separazione dalla moglie, “la quale però aveva opposto un netto rifiuto. Il figlio ha riferito che
all’interno dell’immobile vi erano appartamenti con accessi autonomi, cioè porte diverse collegate
da una scala comune; tale specificazione rende insostenibile l’accusa relativa alla umiliazione
nascente da una convivenza more uxorio sotto lo stesso tetto.
G. viveva in una condizione di estremo disagio e in tale situazione faceva vivere la famiglia ma non
ha posto in essere comportamenti idonei a imporre alla moglie un regime di vita vessatorio,
mortificante e insostenibile.
2.2. Violazione di legge in relazione all’art. 192 c.p.p. e violazione del principio del “al di là di ogni
ragionevole dubbio”.
La Corte di appello non ha fatto altro che confermare le risultanze acquisite in primo grado senza
vagliare i motivi di appello.
2.3. Violazione di legge in relazione agli artt. 516, 517, 521 e 522 c.p.p. per avere la Corte di
appello posto a base della condanna fatti e circostanze che esulano dal periodo in contestazione
(come la convivenza con una donna di nazionalità marocchina).
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
2. Il tre motivi articolati dal ricorrente – con i quali il predetto eccepisce sostanzialmente la
violazione di legge ed il vizio di motivazione in punto di valutazione della sussistenza degli estremi
del reato di maltrattamenti – possono essere esaminati congiuntamente, posto che nessuno di essi
sfugge alla censura di inammissibilità.
2.1. In primo luogo, va posto in evidenza come tali censure costituiscano mera replica delle
doglianze già dedotte in appello e non si confrontino con le puntuali risposte fornite dalla Corte
territoriale in merito alle specifiche doglianze mosse con l’atto d’appello. Secondo i consolidati
principi espressi da questa Corte, ciò rende inammissibili i motivi per difetto di specificità,
risultando soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica
argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Cass. Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e
altri, Rv. 243838).
2.2. In secondo luogo, deve essere rilevato come detti motivi si traducano in una confutazione delle
argomentate valutazioni ai giudici di merito e quindi nella prospettazione di una delibazione
alternativa delle emergenze dell’istruttoria dibattimentale. Il che, secondo il costante orientamento
di questa Corte, rende inammissibile il ricorso per cassazione, in quanto fondato su argomentazioni
che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno
dei vizi logici tassativamente previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), riguardanti la
motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del fatto (Cass. Sez. 6, n. 43963 del
30/09/2013, P.C., Basile e altri, Rv. 258153).
Ed invero, a fronte di una plausibile ricostruzione della vicenda, come descritta in narrativa, sui
precisi riferimenti probatori operati dai giudici di merito, in questa sede, non è ammessa alcuna
incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti,
dovendosi, come detto, la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal
giudice di merito per verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi
percepibili, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni
processuali (ex plurimis Cass. Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
2.3. Ad ogni buon conto, i giudici di merito hanno fornito un’adeguata risposta in ordine a tutti i
profili oggetto di censura, dovendosi a tal fine valutare unitariamente il compendio motivazionale
della sentenza in verifica e di quella appellata cui la prima fa espresso richiamo, in linea con i
consolidati principi espressi da questa Corte secondo cui, ai fini del controllo di legittimità sul vizio
di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo
grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame,
esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed
operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino
nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass.
Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595).
2.4. Deve osservarsi che, secondo il costante insegnamento di questa Corte, il delitto di
maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce,
privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua
dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, quali ad esempio, come nel caso de quo
la costrizione della moglie a sopportare la presenza di una concubina (Sez. 6, n. 44700 del
08/10/2013, P, Rv. 256962).
2.5. Va, inoltre, sottolineato che il delitto di cui all’art. 572 c.p., è configurabile anche in danno di
persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano
legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla affiliazione (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017 Rv.
272134; Sez. 6, n. 33882 dell’08/07/2014 Rv. 262078; Sez. 2, n. 30934 del 23/04/2015, Rv.
264661).
La separazione legale e a maggior ragione la separazione di fatto lasciano, infatti, integri i doveri di
reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione.
Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie in questione, la
separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria incida su quei
vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario o della separazione di fatto,
pongono, come nel caso in esame, la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque
dipendente (Sez. 6, n. 282 del 26/01/1998, Rv. 210838).
2.6. Nel caso in esame la Corte distrettuale, con motivazione immune da vizi logici, ha sottolineato
che dal 2009 – è irrilevante che i giudici di merito a titolo esemplificativo abbiano fatto riferimento
anche a condotte relative a periodi antecedenti – gli atti di offesa alla dignità della parte offesa, di
disprezzo nei confronti della stessa, nonché le violenze fisiche e le minacce sono stati abituali.
Vengono correttamente indicati dai giudici di merito l’iniziale imposizione della convivenza con
altra donna, le continue privazioni economiche imposte alla moglie e al figlio, costretti a recarsi alla
(OMISSIS) per mangiare, a fronte della agiatezza in cui viveva l’imputato con l’amante, la
sottrazione di 175.000 Euro derivanti dalla vendita da parte della parte offesa di un immobile di sua
proprietà, gli atti di violenza fisica e verbale.
2.7. I giudici di merito hanno puntualmente esplicitato le ragioni per le quali le dichiarazioni di
Gu.Ca.Ma. si debbano ritenere credibili, in quanto intrinsecamente attendibili e confortate da
riscontri esterni quali le dichiarazioni del figlio. Le considerazioni svolte sul punto si accordano
perfettamente all’insegnamento espresso da questo giudice di legittimità a Sezioni Unite, secondo
cui le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona
offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di
penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della
credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro
deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le
dichiarazioni di qualsiasi testimone (Cass. Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte ed altri, Rv.
253214).
2.8. Quanto al dolo, deve osservarsi che la giurisprudenza è costante nel ritenere che per la
sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p. non è necessario che l’agente
abbia perseguito particolari finalità né il proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o
morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico cioè la coscienza e
volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale (Sez. 6, n.
1067 del 3 luglio 1990, Rv. 186275, Soru); non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio
continuo ed ininterrotto; essendo l’elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo
unitario, e pressoché programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni; esso consiste
nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei
maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di
compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in
essere già altre volte (Sez. 6, n. 468 del 06/11/1991 dep. 20/01/1992 Rv. 188931, Faranda); esso è,
perciò costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che
determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso
di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità
fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali
sofferenze.
Di tali principi la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione sottolineando la sussistenza di una
precisa determinazione del ricorrente a sottoporre la moglie a vessazioni morali – e talvolta fisiche –
di accertata offensività.
La circostanza che l’imputato, all’epoca dei fatti, non versasse in adeguate condizioni economiche
viene correttamente ritenuta del tutto irrilevante sotto il profilo del dolo del reato di maltrattamenti.
3. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e
considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,
deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro
2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi,
a norma del D.L.gs n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 30 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2019

La condotta diretta all’installazione di microspie all’interno dell’automobile per intercettare le conversazioni che intervengono tra i soggetti all’interno, è punibile ai sensi dell’art. 615 bis c.p. integrando una tipica ipotesi di interferenza illecita nella vita privata, e non invece ai sensi dell’art. 617 bis c.p.

Cass. pen. Sez. V, 4 giugno 2019, n. 33499
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso presentato da:
M.R., nato a (OMISSIS);
Mo.Cr.Da., nato a (OMISSIS);
P.V., nato ad (OMISSIS);
avverso la sentenza del 6/3/2018 della Corte d’appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. BIRRITTERI Giovanni, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi;
udito per gli imputati P. e Mo. l’avv. Federico Viviani, che ha concluso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata è stata confermata la condanna di M.R. per il delitto di accesso abusivo a sistema informatico, nonché di Mo.Cr.Da. e P.V. per il reato di installazione di apparecchiature atte ad intercettare comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche. In particolare, il M. è stato ritenuto responsabile di avere effettuato un accesso al Sistema Operativo Interforze del Ministero dell’Interno – sul quale era astrattamente abilitato ad operare nella sua qualità di sottufficiale dei Carabinieri – per finalità diverse da quelle istituzionali, e specificamente allo scopo di reperire le informazioni commissionategli da un conoscente su propri debitori. I giudici del merito hanno invece considerato il P., in qualità di titolare dell’agenzia investigativa “Orobica”, colpevole di avere incaricato il Mo., suo collaboratore e concorrente nel medesimo illecito, dell’installazione nell’autovettura utilizzata da Pe.Gi. di un sistema GPS e di altro strumento idoneo ad eseguire captazioni sonore, con la conseguente acquisizione di riproduzioni di conversazioni il cui tenore il P. riferiva alla coniuge della persona offesa che lo aveva ingaggiato per accertare le frequentazioni del marito.
2. Avverso la citata sentenza ricorrono tutti gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori.
2.1 Il ricorso presentato nell’interesse del M. articola un unico motivo, con cui si eccepisce la genericità del capo di imputazione. Il ricorrente lamenta in particolare come siano stati indistintamente contestati all’imputato tutte e tre i commi dell’art. 615 ter c.p., i quali contemplano invece diverse fattispecie integranti autonome ipotesi di reato. A tale difetto di specificità dell’imputazione, peraltro non rilevato in udienza preliminare e nel corso del giudizio di merito, sarebbe conseguita la lesione delle prerogative difensive del M. determinando quindi la nullità del provvedimento di condanna, che ha inevitabilmente recepito l’originaria incertezza della contestazione. In subordine il ricorrente eccepisce l’intervenuta prescrizione del reato.
2.2 Il ricorso proposto nell’interesse del Mo. articola due motivi. Con il primo si lamentano l’erronea applicazione degli artt. 617 bis e 623 bis c.p., non ritenendosi integrato il delitto per cui è intervenuta condanna sotto i profili tanto dell’elemento oggettivo, quanto di quello soggettivo, nonché vizi della motivazione. In particolare, il fatto attribuito al ricorrente, e consistente nella collocazione di una “cimice” e di un GPS all’interno dell’autovettura del Pe., non potrebbe ritenersi provato, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici del merito, sulla base delle intercettazioni delle conversazioni telefoniche intercorse nelle date del 3 e del 4 luglio 2010, nonché del 23 e del 25 luglio 2010, rispettivamente tra il P. ed il suo collaboratore e tra lo stesso P. e la cliente, S.A.. Invero, con riferimento al GPS, evidenzia il ricorrente come nella prima delle captazioni menzionate il titolare dell’agenzia investigativa abbia fatto riferimento alla sua già intervenuta installazione all’interno del veicolo a cura di un’altra persona. Con riguardo, invece, allo strumento impiegato per l’esecuzione dell’intercettazione ambientale, in primo luogo l’effettiva collocazione dello stesso ad opera del Mo. non potrebbe desumersi semplicemente dalla sua dichiarazione di disponibilità in tal senso, desumibile dalla conversazione telefonica del 4 luglio, non essendovi traccia dell’attribuzione del fatto al ricorrente in alcuna altra intercettazione. Peraltro, sia il Tribunale che la Corte d’appello sarebbero caduti in contraddizione, avendo essi, per un verso, ritenuto che la comunicazione del P. alla S., la sera dello stesso giorno, degli esiti delle captazioni illecitamente eseguite fosse espressione di un atteggiamento meramente millantatorio, dovendo ritenersi le apparecchiature non ancora installate in quel momento; ma, per l’altro, considerato invece verosimile quanto riferito dallo stesso titolare dell’agenzia alla sua cliente nel corso delle telefonate del 23 e del 25 luglio, pure aventi ad oggetto le presunte intercettazioni eseguite nella vettura del Pe. e delle quali, invero, non sono mai state rinvenute le registrazioni. Per di più, non si comprenderebbe perché il ricorrente, qualora si fosse reso effettivamente autore del fatto a lui contestato, non lo avrebbe confessato all’organo inquirente al momento della confessione di ulteriori condotte di illecita installazione da lui commesse, potendosi già allora verosimilmente ritenere che tale episodio sarebbe stato posto in continuazione con gli altri illeciti per i quali ha patteggiato. Con il secondo motivo anche il Mo. eccepisce in subordine l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione.
2.3 Il ricorso presentato nell’interesse del P. articola sei motivi.
2.3.1 Con il primo deduce violazione di legge, lamentando l’improcedibilità del reato per difetto di querela, dovendo ritenersi che il giudice di primo grado, pur avendo formalmente condannato il P. ed il Mo. per il reato di cui all’art. 617 bis c.p., abbia invece implicitamente riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 615 bis c.p., reato per l’appunto procedibile solo a querela di parte. Tanto sarebbe dimostrato dall’irrogazione della pena della reclusione di durata pari a sei mesi, inferiore al minimo edittale stabilito per il delitto contestato, nonché dal fatto che il Tribunale, in relazione alle analoghe condotte poste in essere nella baita del Pe., nel proscioglierlo exart. 649 c.p.p., aveva ritenuto integrata proprio la fattispecie di cui all’art. 615 bis c.p., non essendosi nel presente procedimento spesa alcuna argomentazione in merito alla configurabilità del diverso delitto contestato.
2.3.2 Con il secondo motivo si deduce l’erronea riconduzione del fatto addebitato all’imputato entro l’ambito di applicazione del citato art. 617 bis c.p., non potendo, neanche per effetto delle previsioni di cui all’art. 623 bis c.p., tale norma incriminatrice operare rispetto a condotte – quali il posizionamento del GPS – non implicanti l’inserimento del terzo in un canale di trasmissione di dati, coerentemente con quanto ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta invece erronea applicazione della legge penale, rilevando come la condotta sarebbe scriminata ai sensi delD.M. 1 dicembre 2010, n. 269,art.5, il quale – consentendo lo svolgimento, da parte dell’investigatore privato autorizzato, di talune attività, comprensive del “pedinamento” anche a mezzo di strumenti elettronici – avrebbe dovuto condurre all’esclusione dell’antigiuridicità della condotta di posizionamento del GPS. 2.3.3 Con il quarto motivo si deducono vizi della motivazione, non avendo la Corte d’appello argomentato in merito alla configurabilità, a tutto concedere, del diverso reato di cui all’art. 615 bis c.p., implicitamente ritenuto dal giudice di primo grado. Peraltro, si rileva l’inapplicabilità anche di tale norma incriminatrice ai fatti contestati al P., tanto con riferimento al posizionamento del GPS, quanto rispetto all’installazione della “cimice” nell’abitacolo della vettura del Pe.. Anche con riguardo a tale ultima condotta, infatti, difetterebbe uno degli elementi costitutivi del reato, ed in particolare la riferibilità delle notizie e delle immagini attinenti alla vita privata ai luoghi di privata dimora richiamatidall’art. 614 c.p., non comprensivi secondo quanto ritenuto da questa Corte – dell’autovettura che si trovi sulla pubblica via. Si contesta inoltre l’insufficienza degli elementi probatori acquisiti a provare l’effettiva installazione dello strumento di captazione, ben potendosi ritenere le conversazioni telefoniche tra il ricorrente e la S. espressione di un atteggiamento meramente millantatorio del primo, considerato anche il mancato rinvenimento delle registrazioni asseritamente effettuate.
2.3.4 Con il quinto e il sesto motivo si lamentano il difetto assoluto di motivazione sull’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., sollecitata nel giudizio di primo grado e con i motivi di appello, nonché l’insufficiente argomentazione dei giudici del merito in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Motivi della decisione

1. Il ricorso del M. è inammissibile.
1.1 Deve in primo luogo ricordarsi come, nell’ipotesi di eventuale genericità del capo di imputazione, qualora nella sede dell’udienza preliminare il giudice non solleciti il pubblico ministero a porvi rimedio mediante la precisazione della contestazione (Sez. U, n. 5307/2008 del 20/12/2007, P.M. in proc. Battistella, Rv. 238239), si configuri una nullità del decreto che dispone il giudizio, ai sensidell’art. 429 c.p.p., commi 1, lett. c), e comma 2. Tale invalidità è qualificata dal costante orientamento della giurisprudenza di legittimità come nullità relativa, e non anche come nullità di ordine generale, non riguardando l’intervento, né la rappresentanza o l’assistenza dell’imputato; essa, in quanto tale, deve essere eccepita nel termine stabilito per la sollevazione delle questioni preliminari al dibattimento, exart. 491 c.p.p.(Sez. 5, n. 1382/2017 del 14/10/2016, C., Rv. 268872). Non risultando che il ricorrente abbia eccepito alcunché nel termine suindicato, né tantomeno che abbia devoluto la questione al giudice dell’appello, deve ritenersi ormai preclusa la possibilità di fare valere la paventata invalidità.
1.2 Il motivo è comunque manifestamente infondato anche nel merito. Deve infatti escludersi che il capo di imputazione relativo alla posizione del M. difetti di quei caratteri di chiarezza e di precisione necessari ad assicurare la piena esplicazione del diritto di difesa della persona accusata. Invero, il fatto contestato all’imputato risulta sufficientemente specificato nei suoi diversi aspetti, essendo chiaramente individuati la condotta illecita oggetto dell’accusa, nonché gli elementi che, secondo l’ipotesi formulata dal pubblico ministero consentono di ritenere integrata l’ipotesi aggravata di cui all’art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1), e comma 3. Posto il necessario riferimento al comma 1, ai fini dell’individuazione della condotta tipica, consistente nell’abusiva introduzione nel sistema informatico o telematico, o nel mantenimento nello stesso contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo, il riferimento ai commi successivi è giustificato dall’esplicita e chiara contestazione della commissione del fatto in qualità di pubblico ufficiale e con violazione dei doveri di servizio e abuso della qualità di operatore del sistema (art. 615 ter cpv. c.p., n. 1), nonché su un sistema relativo all’ordine e alla sicurezza pubblica (art. 615 ter c.p., comma 3).
1.3 Quanto sopra indicato, in merito al legittimo richiamo, nel capo di imputazione, dei commi 1, 2 e 3, in via congiunta, ai fini della compiuta individuazione del reato oggetto dell’accusa, è, soprattutto, pienamente giustificato dalla preferibile qualificazione delle ipotesi contemplate dai commi successivi al primo come circostanze aggravanti, piuttosto che – secondo l’orientamento giurisprudenziale richiamato dal ricorrente (Sez. 5, n. 1727 del 30/9/2008, Romano, Rv. 242939) – quali fattispecie autonome. In questo senso si sono infatti definitivamente espresse le Sezioni Unite (Sez. U, n. 4694/12 del 27/10/2011, Casani ed altri, Rv. 251270; Sez. U, n. 41210 del 18/5/2017, Savarese, non massimata sul punto), che hanno ritenuto l’ipotesi disciplinata dall’art. 615 ter cpv. c.p., n. 1), qualificabile come circostanza aggravante “esclusivamente soggettiva”, riferendosi la norma all’abuso della qualità soggettiva pubblicistica, “che rende più agevole la realizzazione della condotta tipica, oppure che connota l’accesso in sé quale comportamento di speciale gravità”. Pertanto, sebbene nella pronunzia citata la Suprema Corte affermi che per il pubblico agente il reato finisca per essere sempre aggravato, questo non esclude la natura circostanziale dell’ipotesi richiamata; tale qualificazione – riferibile anche alla previsione di cui al comma 3 – appare invero suggerita dal tenore letterale delle disposizioni in esame, e dal loro rinvio al comma 1 per la descrizione del fatto illecito, nonché dalla previsione, da parte dei commi 2 e 3, di elementi “accidentali” aggiuntivi, attinenti alla qualifica soggettiva o alle caratteristiche dell’oggetto della condotta, tali da esprimere un maggiore disvalore rispetto a quello riferito all’ipotesi “base”.
1.4 manifestamente infondata è infine l’eccezione di prescrizione proposta dal ricorrente, posto che il relativo termine non si è ad oggi ancora compiuto. Infatti per l’ipotesi in cui il fatto sia aggravato ai sensi sia del secondo che dell’art. 615 ter c.p., comma 3, la pena edittale massima è quella della reclusione di otto anni. Ne consegue che, trattandosi di aggravanti ad effetto speciale, è a tale pena che deve guardarsi per calcolare il termine di prescrizione ordinario, mentre quello prorogato è di conseguenza pari a dieci anni, per l’appunto non ancora decorsi alla data odierna.
2. Venendo ai ricorsi degli altri due imputati, assorbente è l’esame del secondo e del quarto motivo di quello del P., che sono fondati nei termini di seguito indicati e il cui accoglimento, stante il carattere non strettamente personale delle censure, deve estendersi anche alla posizione del Mo..
2.1 La norma incriminatrice di cui all’art. 617 bis c.p., appresta infatti una tutela anticipata alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni telefoniche e telegrafiche intercorrenti tra soggetti terzi. L’art. 623 bis c.p., volto ad evitare per quanto possibile vuoti di tutela derivanti dal costante sviluppo dei mezzi tecnologici, ha comportato l’estensione dell’ambito di operatività della disposizione citata ai fatti concernenti “qualunque altra trasmissione a distanza di suoni, immagini o altri dati”. Pur essendone, pertanto, derivato un ampliamento delle potenzialità applicative della norma incriminatrice in esame, la protezione dalla stessa fornita resta limitata alle comunicazioni che avvengano, appunto, “a distanza”; e tra queste ultime non possono includersi le conversazioni tra presenti oggetto di intercettazione cd. ambientale, a meno di non ricorrere all’analogia in malam partem. Si ritiene pertanto di condividere l’orientamento giurisprudenziale pressoché unanime, che nega la riconducibilità all’art. 617 bis c.p., di condotte – quali l’installazione all’interno di un’automobile di una microspia tale da intercettare solo le conversazioni intrattenute dai soggetti i quali si trovino nel veicolo (ex multis Sez. 5, n. 4264/2006 del 16/12/2005, P.M. in proc. Imbriani, Rv. 233595) – non idonee a comportare l’illecito inserimento in un canale di comunicazione riservato tra persone diverse, da cui l’agente sarebbe stato altrimenti escluso. Deve conseguentemente escludersi che integrino il delitto ritenuto dai giudici dell’appello i fatti ascritti al Mo. e al P., consistenti nella collocazione, all’interno dell’automobile del Pe., di un rilevatore GPS e di uno strumento per l’esecuzione di intercettazioni ambientali.
2.2 Anche a prescindere dall’obiezione circa l’eventuale implicita riqualificazione già operata in primo grado dei fatti in questione ai sensi dell’art. 615 bis c.p., deve invece convenirsi con il ricorso del P. che è a tale ultima fattispecie criminosa che gli stessi devono essere ricondotti, integrando una tipica ipotesi di interferenza illecita nella vita privata. Non di meno alla descritta riqualificazione – comunque consentita in quanto sollecitata dagli stessi ricorrenti – segue in ogni caso il proscioglimento degli imputati, posto che il diverso reato qui ritenuto è procedibile esclusivamente a querela di parte e dagli atti emerge che questa non è stata mai presentata dalla persona offesa. Ne consegue che la sentenza impugnata, con riguardo alla posizione del P. e del Mo., deve essere annullata senza rinvio per difetto della indicata condizione di procedibilità.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Mo.Cr.Da. e P.V., perché, previa riqualificazione del fatto loro ascritto nell’art. 615 bis c.p., l’azione penale non poteva essere esercitata per mancanza di querela. Dichiara inammissibile il ricorso di M.R. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000,00 a favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 4 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2019