Per configurarsi il reato di violazione della privacy occorre provare il danno, non essendo sufficiente la produzione, in giudizio, dei dati sensibili a fini difensivi

Cass. pen. Sez. III, 29 maggio 2019, n. 23808
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.C., nato a (OMISSIS);avverso la sentenza del 20/04/2018 della CORTE APPELLO di FIRENZE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. LUCA RAMACCI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. ROMANO GIULIO che conclude per il rigetto del ricorso.
udito il difensore (avv. Tofi Gabriele e sost. proc. avv. Bertolani Diego);
Il difensore di parte civile si riporta ai motivi di ricorso.
Il difensore dell’imputato chiede il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 20 aprile 2018 ha riformato la decisione del Tribunale di Arezzo in data 26 febbraio 2014, appellata da A.P., assolvendolo dal delitto di cui alD.Lgs. n. 196 del 2003,art.167, contestatogli per avere utilizzato dati personali, concernenti lo stato di salute, senza il consenso di A.C. (in (OMISSIS)).
Avverso tale pronuncia A.C. propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensidell’art. 173 disp. att. c.p.p..
2. Con un unico motivo di ricorso, premessa una ricostruzione della vicenda storica e processuale, deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, evidenziando che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la diffusione della documentazione nell’ambito di un procedimento civile, senza il consenso dell’avente diritto alla riservatezza, di dati sensibili, avrebbe integrato il necessario presupposto del nocumento della persona offesa, determinando un danno di natura non patrimoniale conseguente alla diffusione di dati afferenti alla sfera intima, nonché un danno patrimoniale, per avere indotto il convenuto opposto ad addivenire ad una transazione al fine di evitare la inevitabile soccombenza processuale.
Aggiunge che la diffusione di dati sensibili riguardava una platea indefinita di soggetti, quali giudice, cancellieri, avvocati e praticanti avvocati ed aveva determinato l’impossibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile 2. Risulta dalla sentenza impugnata che il procedimento penale ha tratto origine da una denuncia querela proposta da A.C. contro il padre P., perché, nell’ambito di un giudizio civile relativo a crediti rivendicati dal figlio, al fine di giustificare l’infondatezza della pretesa creditoria con il profondo risentimento nutrito nei confronti dei genitori, produceva documentazione sanitaria relativa a grave patologia psichiatrica, ritenuta causa di tale atteggiamento.
La Corte territoriale, con argomentazioni giuridicamente corrette e scevre da cedimenti logici o manifeste contraddizioni ha negato che la sussistenza del reato fosse da ritenersi esclusa per avere l’imputato legittimamente esercitato il proprio diritto alla difesa nel giudizio civile, ma ha però ritenuto insussistente il necessario requisito del nocumento.
In particolare, i giudici del gravame hanno posto in evidenza come la produzione della documentazione medica fosse avvenuta esercitando il diritto di difesa senza il rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza stabiliti dalla legge, in quanto ultronea rispetto agli altri argomenti spesi per negare la sussistenza del credito, perché finalizzata a dimostrare quelle che, secondo l’imputato, sarebbero state le reali ragioni per le quali era stato promosso il giudizio civile.
Nondimeno, la Corte del merito, richiamando correttamente la giurisprudenza di legittimità, ha escluso la sussistenza del nocumento richiesto dalla legge.
3. Invero, ilD.Lgs. n. 196 del 2003,art.167, comma 2stabiliva, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 17, 20 e 21, art. 22, commi 8 e 11 e artt. 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.
IlD.Lgs. n. 196 del 2003è stato poi modificato dalD.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga ladirettiva 95/46/CE(regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
In particolare, l’art. 167, comma 2 dispone ora: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui agli artt. 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2-sexies e 2-octies, o delle misure di garanzia di cui all’art. 2-septies ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell’art. 2-quinquiesdecies arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni”.
Il requisito del nocumento è tuttora richiesto, con l’ulteriore specificazione, rispetto al passato, che lo stesso deve essere arrecato all’interessato.
4. Ciò posto, occorre ricordare che, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, nel reato di trattamento illecito di dati personali previsto dall’art. 167 in esame il nocumento è costituito dal pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, subito dalla persona cui si riferiscono i dati quale conseguenza dell’illecito trattamento (Sez. 3, n. 29549 del 7/2/2017, F, Rv. 270458, citata in sentenza).
Nella citata pronuncia viene ricordato come, in un primo tempo, la giurisprudenza abbia qualificato il verificarsi del nocumento quale condizione oggettiva di punibilità “intrinseca”, che attualizza l’offesa dell’interesse tutelato già realizzata dal fatto tipico (Sez. 3, n. 7504 del 16/7/2013, dep. (2014), Pontillo, Rv. 259261; Sez. 5, n. 44940 del 28/9/2011, C. e altro, Rv. 251448; Sez. 3, n. 16145 del 5/3/2008, P.C. in proc. Amorosi e altro, Rv. 239898; Sez. 3, n. 28680 del 26/3/2004, Modena, Rv. 229465), il quale costituirebbe una fattispecie di pericolo concreto, integrata dalla condotta di trattamento assistita dal dolo specifico, punibile solo a condizione del verificarsi del predetto accadimento, mentre, più recentemente, il nocumento è stato ritenuto un elemento costitutivo del reato, avuto riguardo alla sua omogeneità rispetto all’interesse leso e alla sua diretta derivazione causale dalla condotta tipica, con conseguente necessità che esso sia previsto e voluto o, comunque, accettato dall’agente come conseguenza della propria azione, indipendentemente dal fatto che costituisca o si identifichi con il fine dell’azione stessa (Sez. 3, n. 40103 del 5/2/2015, Ciulla, Rv. 264798).
La medesima sentenza evidenzia anche che, indipendentemente dalla sua qualificazione, il nocumento deve essere inteso come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, subito dalla persona alla quale si riferiscono i dati o le informazioni protetti (Sez. 3, n. 30134 del 28/5/2004, Barone, Rv. 229472; Sez. 3, n. 23798 del 24/5/2012, Casalini e altro, in motivazione; Sez. 5, n. 44940 del 28/9/2011, C. e altro, in motivazione) o anche da terzi quale conseguenza dell’illecito trattamento (Sez. 3, n. 7504 del 16/7/2013, (dep. 2014), Pontillo, Rv. 259261; Sez. 3, n. 17215 del 17/2/2011, L., Rv. 249991).
5. Si tratta di principi che il Collegio condivide e che la Corte territoriale ha correttamente applicato, escludendo la sussistenza dei nocumento sulla base del fatto che non risulta essere stata dimostrata e neppure prospettata la diffusione dei dati personali al di fuori della ristretta cerchia di soggetti che ne erano venuti a conoscenza per ragioni professionali, restando a loro volta assoggettati al dovere di riservatezza, come riscontrabile anche dal fatto che il primo giudice non aveva offerto alcuna motivazione sul punto, rimettendo la questione del risarcimento del danno al giudice civile in separato giudizio, fissando una provvisionale senza alcuna indicazione circa le ragioni sulla sussistenza del presunto pregiudizio.
Va inoltre considerato che, proprio con riferimento al giudizio civile, sebbene con riferimento a fattispecie diversa, questa Corte ha avuto modo di precisare che la produzione di un CD contenente foto e filmati ritraenti altre persone non costituisce una forma di “diffusione”, bensì di “comunicazione” di dati destinata a circolare e ad essere conosciuta tra persone determinate. (Sez. 3, n. 35553 del 11/5/2017, P.C. in proc. Fumagalli, Rv. 271240).
Quanto alla facoltà di difendersi in giudizio utilizzando gli altrui dati personali, la Corte di appello ha giustamente ricordato che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, essa va esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza stabiliti dalla legge, sicché la legittimità della produzione di documenti contenenti tali dati va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa (Sez. 3, n. 35296 del 20/4/2011, Cozzolino e altri, Rv. 250852 con richiami ai prec.) ponendo in luce, nella motivazione, l’irrilevanza del fatto che gli addetti all’Ufficio giudiziario interessato siano potuti venire a conoscenza del contenuto del ricorso, essendo gli stessi tenuti al relativo segreto.
Del tutto correttamente, dunque, i giudici del gravame hanno posto in rilievo come il particolare contesto entro il quale era avvenuta la produzione del documento recante dati sensibili era tale da far ritenere, in assenza di dati fattuali significativi di segno contrario, che le informazioni in esso contenute sarebbero restate confinate nel ristretto ambito dei soggetti coinvolti, per motivi professionali, nel procedimento civile.
6. In conclusione, il necessario requisito del nocumento richiesto per la configurazione del reato dalD.Lgs. n. 196 del 2003,art.167non può ritenersi sussistente, in caso di produzione in un giudizio civile di documenti contenenti dati personali, ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una effettiva lesione dell’interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe un obbligo di riservatezza.
7. Ciò posto, deve rilevarsi che il ricorrente, senza confrontarsi appieno con le argomentazioni sviluppate dai giudici del gravame, oppone ad esse generiche ed apodittiche considerazioni, riferendosi, genericamente, ad un non meglio specificato danno non patrimoniale conseguente all’aver “visto diffuso dati afferenti la sfera più intima della persona”, nonché ad un danno patrimoniale derivante dall’aver indotto la controparte ad una “transazione, al 50%, della vertenza giudiziaria per evitare la più che probabile, a tal punto, soccombenza processuale”, che non si comprende come possa essere logicamente correlato, in mancanza di ulteriori specificazioni da parte del ricorrente, così come la dedotta impossibilità di reinserimento nel mondo del lavoro all’esito del giudizio civile, alla produzione di documentazione medica di natura psichiatrica destinata ai soli soggetti coinvolti nel procedimento civile.
La infondatezza del motivo di ricorso è dunque di macroscopica evidenza.
8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 2.000,00
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 29 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2019