Non è incostituzionale la previsione della scelta dell’ads con poteri in ambito sanitario anche in assenza di d.a.t.

SENTENZA N. 144
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancrlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana
SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio
BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n.
219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), promosso
dal Tribunale ordinario di Pavia, nel procedimento relativo a G. A., in qualità di amministratore di
sostegno di A. T., con ordinanza del 24 marzo 2018, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 2018 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’Unione Giuristi Cattolici
Italiani – Unione locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici italiani di Pavia “Beato Contardo
Ferrini”;
udito nella camera di consiglio del 20 marzo 2019 il Giudice relatore Franco Modugno.
Ritenuto in fatto
1.– Il giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia, con ordinanza del 24 marzo 2018, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di
consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui stabilisce che
l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza
esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (d’ora in avanti:
DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al
mantenimento in vita dell’amministrato.
1.1.– Il giudice rimettente premette che, in favore di A. T., è stato già nominato, sin dall’ottobre
2008, un amministratore di sostegno, cui allo stato non è attribuita né l’assistenza necessaria, né la
rappresentanza esclusiva in ambito sanitario. La relazione clinica del 21 febbraio 2018, tuttavia, ha
certificato che A. T. risulta attualmente «in stato vegetativo in esiti di stato di male epilettico in
paziente affetto da ritardo mentale grave da sofferenza cerebrale perinatale in sindrome disformica
[recte: dismorfica]» nonché «portatore di PEG». Il giudice a quo rileva che, pertanto, si rende
necessario integrare il decreto di nomina, ai sensi dell’art. 407, comma 4, del codice civile, ai fini
dell’individuazione dei poteri in ambito sanitario; in particolare – preso atto delle condizioni di
salute, anche personalmente verificate – «si profila come indispensabile l’attribuzione della
rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, non residuando alcuna capacità in capo
all’amministrato».
Ciò premesso, il giudice tutelare osserva che, entrato in vigore l’art. 3, commi 4 e 5, della legge n.
219 del 2017, è quest’ultimo articolo a disciplinare «le modalità di conferimento, all’amministratore
di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario». Ne conseguirebbe che
l’attribuzione all’amministratore di sostegno di detti poteri (nella specie, sotto forma di
rappresentanza esclusiva) «ricomprende necessariamente il potere di rifiuto delle cure, ancorché si
tratti di cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato»; l’amministratore di sostegno,
pertanto, avrebbe «il potere di decidere della vita e della morte dell’amministrato» senza che tale
potere possa essere «sindacato dall’autorità giudiziaria».
Il giudice rimettente riferisce, dunque, che è chiamato a fare applicazione del censurato art. 3,
comma 5, dovendo decidere sull’attribuzione all’amministratore di sostegno di A. T. della
rappresentanza esclusiva in ambito sanitario.
1.2.– Ai fini del giudizio sulla rilevanza, il giudice a quo reputa «logicamente preliminare» l’esegesi
dell’art. 3, comma 5, della legge n. 219 del 2017, osservando, in particolare, che l’espressione
«rifiuto delle cure», in considerazione della locuzione «in assenza delle disposizioni anticipate di
trattamento», non può non concernere anche i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita;
altrimenti detto, il rifiuto delle cure può interessare «tutti i trattamenti sanitari astrattamente oggetto
delle DAT».
Per escludere tale opzione ermeneutica – prosegue il giudice rimettente – potrebbe ipoteticamente
farsi leva sull’espressione «cure proposte», sostenendo che i trattamenti necessari al mantenimento
in vita non possano essere inquadrati in termini di cure, di talché il rifiuto non potrebbe riguardarli.
Si tratterebbe, tuttavia, di un’interpretazione incompatibile sia con la ratio legis, volta a valorizzare
la libertà di autodeterminazione anche nell’ipotesi di trattamenti sanitari di fine vita, sia «con
l’acquisizione, tra i diritti inviolabili ex art. 2 Cost., di un diritto a decidere sui trattamenti di fine
vita»: in quanto tale, essa appare al giudice rimettente non praticabile.
Lo stato d’incapacità, per altro verso, non potrebbe di per sé escludere il diritto a decidere sui
trattamenti necessari al mantenimento in vita, poiché ciò determinerebbe la violazione degli artt. 2,
3 [recte: 13] e 32 Cost. L’incapace è, infatti, persona e «nessuna limitazione o disconoscimento dei
suoi diritti si prospetterebbe come lecita»: deve pertanto essergli riconosciuto, e ricevere tutela, il
diritto all’autodeterminazione e al rifiuto delle cure, potendo la condizione d’incapacità influire
soltanto sulle modalità di esercizio del diritto.
Una volta appurata la possibilità che siano rifiutati anche i trattamenti necessari al mantenimento in
vita, il giudice rimettente rileva che l’art. 3, comma 5, della legge n. 219 del 2017 prevede
espressamente che, in caso di opposizione del medico all’interruzione delle cure, è possibile
l’intervento del giudice tutelare, mentre deve ritenersi, a contrario, che detto intervento non sia
possibile nel caso in cui il medico non si opponga.
1.3.– Il giudice tutelare precisa, poi, che la circostanza che il procedimento abbia natura di
volontaria giurisdizione non esclude la possibilità di sollevare questione di legittimità
costituzionale. In tal senso deporrebbe la giurisprudenza costituzionale: vengono richiamate le
sentenze n. 258 del 2017, n. 121 del 1974 e, in particolare, la n. 129 del 1957.
1.4.– Nell’argomentare in punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente esordisce
ricordando che «[l]a libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della
morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche)
extra-giuridiche, quindi squisitamente soggettive» (Corte di cassazione, sezione prima civile,
ordinanza 3 marzo-20 aprile 2005, n. 8291). Ciò implica che in tale ambito vengono in rilievo
«valutazioni personalissime», indissolubilmente legate al soggetto interessato e alle sue
convinzioni, insuscettibili d’essere vagliate oggettivamente o in base al parametro del best interest
(adottato invece dalla House of Lords inglese, decisione del 4 febbraio 1993, Airedale NHS Trust v.
Bland).
La dichiarazione di rifiuto delle cure è costituita di due momenti essenziali: quello concernente la
formazione dell’intimo convincimento, intrasferibile in capo a terzi, e quello rappresentato dalla
manifestazione di volontà, cedibile invece ad altri. E poiché l’amministratore di sostegno non è
investito di un potere incondizionato di disporre della salute della persona incapace (Corte di
cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748), ne consegue che il rifiuto delle cure
che egli manifesti deve essere la rappresentazione della volontà dell’interessato e dei suoi
orientamenti esistenziali: l’amministratore non deve decidere né «al posto dell’incapace, né per
l’incapace», perché il diritto personalissimo a rifiutare le cure è «la logica simmetria d[e]lla
indisponibilità altrui e dell’intrasferibilità del diritto alla vita».
Il giudice a quo osserva, pertanto, che, affinché la decisione sul rifiuto delle cure sia espressione
dell’interessato e non di chi lo rappresenta, questa deve risultare dalle DAT o, in assenza di queste,
deve ricorrersi alla ricostruzione della volontà dell’incapace, per mezzo di «una pluralità di indici
sintomatici, di elementi presuntivi, mediante l’audizione di conoscenti dell’interessato o strumenti
di altra natura», in modo da assicurare che la «scelta in questione non sia espressione del giudizio
sulla qualità della vita proprio del rappresentante» (è novamente richiamata Cass., n. 21748 del
2007).
Secondo il rimettente, si tratterebbe di un processo di ricerca serio e complesso, il quale renderebbe
«imprescindibile» l’intervento di un soggetto terzo e imparziale quale è il giudice, teso a tutelare il
«carattere personalissimo e [la] speculare indisponibilità altrui del diritto di rifiuto delle cure e del
diritto alla vita». Se si consentisse all’amministratore di sostegno di ricostruire autonomamente la
volontà dell’interessato, «si sentenzierebbe il concreto annichilimento della natura personalissima
del diritto a decidere sulla propria vita», poiché si configurerebbe «surrettiziamente» il potere
dell’amministratore di assumere la propria volontà a fondamento del rifiuto delle cure.
Conseguentemente, sarebbe incostituzionale l’attribuzione all’amministratore di sostegno,
determinata dalle disposizioni censurate, «di un potere di natura potenzialmente incondizionata e
assoluta attinente la vita e la morte, di un dominio ipoteticamente totale, di un’autentica facoltà di
etero-determinazione».
L’«insanabile contrasto» sarebbe, innanzitutto, con gli artt. 2, 13 e 32 Cost. Il diritto a rifiutare le
cure troverebbe fondamento in tali norme costituzionali e dovrebbe considerarsi inviolabile, con la
conseguenza che sarebbe negata ad altri la possibilità di violarlo; il suo essere diritto
«intrinsecamente correlato al singolo interessato» escluderebbe che il momento della formazione
della volontà possa essere delegato a terzi, pena un suo inesorabile disconoscimento. Le modalità
d’esercizio di rifiuto delle cure previste dalle disposizioni censurate sarebbero, pertanto,
«radicalmente inidonee a salvaguardare compiutamente la natura eminentemente soggettiva del
diritto in questione», negandone l’essenza personalissima e determinandone la violazione.
Non varrebbe a superare il vulnus la possibilità d’intervento del giudice, in caso di rifiuto opposto
dal medico all’interruzione dei trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita
dell’interessato: si tratterebbe innegabilmente di un intervento giudiziale «meramente ipotetico ed
accidentale», subordinato all’eventuale esistenza di un dissidio tra rappresentante e medico. Né,
ancora, potrebbe opporsi che, a ben vedere, le norme censurate attribuiscono la valutazione finale
circa il rifiuto delle cure al medico, il quale potrebbe effettuare un controllo sulle determinazioni
dell’amministratore di sostegno: si tratterebbe, infatti, pur sempre di una valutazione medica
«imperniata su canoni obiettivi di “appropriatezza” e “necessità”», che disconoscono la natura
personalissima e soggettiva del diritto di rifiutare le cure, non avendo il medico, d’altra parte, la
possibilità di ricostruire la volontà dell’interessato e di accertare la conformità a quest’ultima della
decisione del rappresentante.
Le norme censurate sarebbero, inoltre, in contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto manifestamente
irragionevoli. La loro applicazione, infatti, determinerebbe «un’incoerenza di ingiustificabile
significanza all’interno dell’architettura di sistema delineata dall’istituto dell’amministrazione di
sostegno»: ciò perché, se ai sensi dell’art. 411 cod. civ. è necessaria l’autorizzazione del giudice
tutelare per il compimento degli atti indicati agli artt. 374 e 375 cod. civ., attinenti alla sfera
patrimoniale, sarebbe irrazionale non prevedere analoga autorizzazione per manifestare il rifiuto
delle cure, «sintesi ed espressione dei diritti alla vita, alla salute, alla dignità e
all’autodeterminazione della persona», in quanto in tal modo l’ordinamento appresterebbe a
interessi d’ordine patrimoniale una salvaguardia superiore a quella riconosciuta ai richiamati diritti
fondamentali. Inoltre, a conferma dell’incongruenza interna al sistema dell’amministrazione di
sostegno, il giudice a quo osserva come la giurisprudenza (è richiamato il decreto del Tribunale
ordinario di Cagliari, 15 giugno 2010) riconosca la necessità dell’autorizzazione del giudice tutelare
perché il rappresentante avanzi la domanda di separazione, atto personalissimo, mentre le
disposizioni censurate non prevedono l’intervento giudiziale per autorizzare l’atto personalissimo
del rifiuto delle cure, «coinvolgente valori egualmente rilevanti e dalle implicazioni certamente
superiori».
Quale ulteriore profilo di irragionevolezza, il rimettente osserva che, se la legge n. 219 del 2017 è
tutta fondata «sull’intento di valorizzare ed accordare centralità alle manifestazioni di volontà dei
singoli», tanto da prevedere formalità e procedure per la loro espressione, non si comprende perché
venga meno «la più elementare attenzione» per tale elemento volontaristico, non prevedendosi,
quando si tratti di soggetti incapaci, meccanismo alcuno di tutela o controllo.
1.5.– Il giudice tutelare di Pavia, infine, chiede alla Corte – ove venissero accolte le questioni di
legittimità costituzionale – di dichiarare l’illegittimità costituzionale in via conseguenziale, ai sensi
dell’art. 27, secondo periodo, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), delle disposizioni impugnate anche nella parte in cui
prevedono che il rappresentante legale della persona interdetta oppure inabilitata, in assenza delle
DAT, o il rappresentante legale del minore possano rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice
tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.
2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o,
comunque sia, non fondate.
2.1.– L’interveniente rileva, innanzitutto, che il giudice a quo – oltre a non avere mosso censure in
relazione a ciascuno dei parametri costituzionali evocati, il che costituirebbe autonoma ragione
d’inammissibilità per difetto di motivazione – non ha argomentato circa l’impossibilità di
interpretare le disposizioni censurate in senso conforme a Costituzione, come invece richiesto dalla
giurisprudenza costituzionale «univoca e ormai consolidata». Interpretazione conforme a
Costituzione che, a suo avviso, sarebbe invece possibile.
Succintamente ricostruita la recente disciplina in materia di consenso informato e di DAT, il
Presidente del Consiglio dei ministri rileva che i diritti ivi riconosciuti devono essere garantiti anche
a chi non è più in grado di opporre il rifiuto alle cure ma che, quando ne era capace, aveva
chiaramente manifestato volontà in tale senso. In tale prospettiva, si pone in evidenza che gli artt.
357 e 424 cod. civ. individuano nel tutore il soggetto interlocutore dei medici con riferimento ai
trattamenti sanitari, mentre gli artt. 404 e seguenti cod. civ. sanciscono il potere di cura del disabile
anche in capo all’amministratore di sostegno, secondo i poteri conferitigli con il decreto di nomina:
al diritto di ogni persona di «manifestare validamente la propria volontà in merito all’accettazione o
al rifiuto dei possibili trattamenti sanitari» conseguirebbe l’obbligo per il rappresentante legale di
dare corso a tale volontà.
Si tratterebbe di approdi che trovano conferma, oltre che nel diritto internazionale (si richiama l’art.
6 della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità
dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sui Diritti
dell’Uomo e la biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata e resa esecutiva con la legge
28 marzo 2001, n. 145, di seguito: Convenzione di Oviedo), nella giurisprudenza della Corte di
cassazione (oltre alla già richiamata sentenza n. 21748 del 2007, sono citate Corte di cassazione,
terza sezione civile, sentenza 15 gennaio 1997, n. 364, e sentenza 25 novembre 1994, n. 10014). In
particolare, la giurisprudenza di legittimità avrebbe precisato che il tutore deve agire nell’esclusivo
interesse dell’incapace, ricostruendone la volontà «tenendo conto dei desideri da lui espressi prima
della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di
vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose,
culturali e filosofiche» (Cass., n. 21748 del 2007, citata).
Una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate dovrebbe, pertanto, portare a
ritenere che, essendo il diritto alla salute un diritto personalissimo, la rappresentanza legale «non
trasferisce sul tutore e sull’amministratore di sostegno un potere incondizionato di disporre della
salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza». D’altra parte, l’art. 3, comma 4,
della legge n. 219 del 2017 espressamente prevede che l’amministratore di sostegno deve tenere
conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere,
quando la nomina comprenda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito
sanitario: circostanza, questa, che implicherebbe un vaglio specifico da parte del giudice.
Molteplici sarebbero, pertanto, gli elementi che depongono per una possibile interpretazione
conforme delle disposizioni censurate o, comunque sia, per l’infondatezza delle questioni di
legittimità costituzionale: l’obbligo per il rappresentante, nel rifiutare le cure, di agire nell’interesse
dell’incapace, ricostruendone la volontà; la valutazione del medico, in base alle sue competenze,
sulla natura necessaria e appropriata delle cure; l’intervento del giudice in caso di opposizione del
medico e su ricorso di qualsiasi soggetto interessato laddove l’amministratore di sostegno non abbia
tenuto nella dovuta considerazione la volontà del beneficiario.
2.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri reputa, poi, inammissibile, o altrimenti infondata, la
richiesta del giudice a quo di estendere in via conseguenziale la dichiarazione d’illegittimità
costituzionale ad altre norme parimente poste dalle disposizioni censurate.
Osserva l’interveniente che questa Corte, con la sentenza n. 138 del 2009, ha affermato che l’art.
27, seconda parte, della legge n. 87 del 1953 non sottrae il rimettente dall’onere di motivare in
ordine alle ragioni «che lo inducono a sospettare dell’esistenza dell’illegittimità costituzionale» di
ciascuna delle disposizioni legislative che viene a censurare: onere cui l’odierno rimettente non
avrebbe adempiuto.
3.– Hanno depositato un comune atto di intervento nel giudizio le associazioni Unione Giuristi
Cattolici Italiani – Unione Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato Contardo
Ferrini”, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano accolte.
3.1.– In punto di legittimazione all’intervento, la difesa delle associazioni afferma che, in
considerazione degli scopi sociali, sarebbe evidente il concreto interesse delle intervenienti «a
portare il proprio contributo e ad interloquire» dinanzi a questa Corte. Il «prevalente interesse etico»
sottostante le questioni di legittimità costituzionale dovrebbe consentire una più larga
partecipazione di associazioni «espressioni della società civile» nel giudizio costituzionale, a
maggior ragione in considerazione del «carattere giusnaturalistico delle moderne costituzioni
occidentali», le quali, compresa la Costituzione italiana, rimanderebbero a un ordinamento che
«precede» quello della legge statale e che «trova il suo più solido e profondo fondamento
nell’ordine naturale delle cose, vale a dire nel diritto naturale».
3.2.– Nel merito, le intervenienti osservano come, in base alla giurisprudenza di legittimità e a
quanto disposto nella Convenzione di Oviedo, dovrebbe escludersi la possibilità di sacrificare la
salute o il bene supremo della vita di persona incapace di dare consenso, «in assenza di eventi
ineluttabili quali una malattia che non possa essere contrastata se non incorrendo nell’accanimento
terapeutico». La disposizione censurata, pertanto, favorirebbe «gli abusi, con rifiuto delle cure e
conseguente soppressione di pazienti incapaci» per interessi che possono essere i più diversi,
estranei al best interest del malato.
3.3.– Ripercorsi i dubbi, condivisi, di legittimità costituzionale del giudice a quo, le intervenienti
osservano che l’«inadeguatezza» della normativa censurata persisterebbe anche nel caso in cui
questa Corte ritenesse possibile l’interruzione delle cure solo una volta ricostruita, per opera del
giudice tutelare, la volontà dell’incapace: sarebbe evidente, infatti, «il carattere di fictio iuris di una
tale metodologia», irrispettosa della «reale e ipoteticamente diversa volontà che il paziente potrebbe
esprimere attualmente, da sé, se ne fosse in grado».
A parere delle intervenienti, infatti, un valido consenso o rifiuto delle cure «non può insorgere
anteriormente al verificarsi del quadro patologico rispetto al quale si pone la necessità di dare
l’informativa». Il problema della valutazione della persistenza del rifiuto delle cure, dunque,
esisterebbe e permarrebbe, secondo questa prospettiva, anche in caso di DAT «proprio per la
naturale volatilità della volontà delle persone rispetto ai fatti ed alle stagioni della vita»: funzione
del giudice tutelare, pertanto, dovrebbe essere, in ogni caso, quella di autorizzare terapie che non
costituiscano accanimento terapeutico e che salvaguardino, in ossequio al principio di precauzione, i
beni della salute e della vita.
3.4.– La difesa delle intervenienti dà altresì conto di una nota dell’associazione di Pavia, che ritiene
utile riportare nella «esatta consistenza testuale», nella quale vengono delineati ulteriori aspetti di
illegittimità costituzionale.
Si afferma, in particolare, che la possibilità per l’amministratore di sostegno, anche se in presenza di
DAT, di rifiutare o interrompere l’alimentazione, l’idratazione o la ventilazione artificiale sarebbe
in contrasto con la dignità umana (art. 2 Cost.), con il diritto alla salute (perché l’art. 32 Cost. si
riferisce ai trattamenti sanitari ed è dibattuta la possibilità di ricomprendervi gli anzidetti
trattamenti), con l’art. 3 Cost. (perché la legge n. 219 del 2017 equipara irragionevolmente terapie
mediche e trattamenti di mero sostegno vitale). L’art. 3, comma 4, della legge n. 219 del 2017, poi,
sarebbe costituzionalmente illegittimo perché, consentendo all’amministratore di sostegno di dover
solo tenere conto della volontà del soggetto amministrato in relazione al suo grado di capacità di
intendere e di volere, lederebbe il diritto personalissimo alla vita e alla salute che solo il titolare può
esercitare (art. 2 Cost.) ed equiparerebbe irragionevolmente chi è totalmente incapace e chi, anche
solo parzialmente, può invece manifestare la propria volontà (artt. 3 e 32 Cost.). Sono rappresentati,
infine, vizi di costituzionalità ritenuti ancora più radicali, dubitandosi della legittimità costituzionale
della privazione di trattamenti sanitari salvavita, siano o no presenti le DAT.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia ha
sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di
consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui stabilisce che
l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza
esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (d’ora in avanti:
DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al
mantenimento in vita dell’amministrato.
Secondo il giudice rimettente, le norme censurate si porrebbero in contrasto, innanzitutto, con gli
artt. 2, 13 e 32 Cost., in quanto sarebbe necessario che, in assenza delle DAT, la volontà di
esercitare il diritto inviolabile e personalissimo di rifiutare le cure, che troverebbe fondamento in
tali norme costituzionali, sia ricostruita in modo da salvaguardare la natura soggettiva del diritto
medesimo: salvaguardia che sarebbe garantita solo con l’intervento di un soggetto terzo e
imparziale quale è il giudice.
Le disposizioni censurate, poi, si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto plurimi profili.
Innanzitutto, poiché nell’amministrazione di sostegno, ai sensi dell’art. 411 del codice civile, è
necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare per il compimento degli atti, attinenti alla sfera
patrimoniale, indicati agli artt. 374 e 375 del medesimo codice, sarebbe irragionevole che analoga
autorizzazione non sia prevista per il rifiuto delle cure, «sintesi ed espressione dei diritti alla vita,
alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona». In secondo luogo, dal momento che
secondo la giurisprudenza è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare perché il rappresentante
avanzi la domanda di separazione coniugale, sarebbe costituzionalmente illegittimo che non sia
invece previsto l’intervento giudiziale per autorizzare il rifiuto delle cure, del pari atto
personalissimo «coinvolgente valori egualmente rilevanti e dalle implicazioni certamente
superiori». Infine, sarebbe irragionevole che, se si tratta di soggetti incapaci, non venga apprestata
«la più elementare attenzione» per la loro volontà, non prevedendosi meccanismo alcuno di tutela o
controllo, quando invece la legge n. 219 del 2017 è tutta fondata «sull’intento di valorizzare ed
accordare centralità all[e] manifestazioni di volontà dei singoli», tanto da prevedere formalità e
procedure per la loro espressione.
2.– Deve essere preliminarmente dichiarato inammissibile l’intervento delle associazioni Unione
Giuristi Cattolici Italiani – Unione Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato
Contardo Ferrini”.
2.1.– Al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale possono partecipare, secondo quanto
previsto dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), e dall’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale, le parti del giudizio a quo e, secondo che sia censurata una norma di legge statale o
di legge regionale, il Presidente del Consiglio dei ministri o il Presidente della Giunta regionale. Il
richiamato art. 4 delle Norme integrative prevede, altresì, la possibilità di derogare a tale regola,
ferma restando la competenza di questa Corte a giudicare sull’ammissibilità degli interventi di altri
soggetti: secondo la costante giurisprudenza, tali interventi sono ammissibili, senza venire in
contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità, soltanto quando i terzi siano
«titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura» (ex plurimis, sentenze n. 98 e n. 13 del 2019, n. 217, e n. 180 del 2018; nello stesso senso,
sentenza n. 213 del 2018).
Nel caso di specie le associazioni intervenienti – le quali hanno, altresì, dedotto questioni di
legittimità costituzionale ulteriori rispetto all’ordinanza di rimessione, per ciò solo inammissibili –
non possono essere considerate titolari di un tale interesse qualificato, posto che l’odierno giudizio
di legittimità costituzionale non è destinato a produrre, nei loro confronti, effetti immediati, neppure
indiretti. Esse, infatti, non vantano una posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata dalla
decisione di questa Corte sulle norme oggetto di censura, ma soltanto un generico interesse
connesso al perseguimento dei loro scopi statutari.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale, perché il rimettente non avrebbe prospettato «specifiche censure con
riguardo a ciascun parametro costituzionale richiamato», con conseguente difetto di motivazione.
3.1.– L’eccezione è palesemente destituita di fondamento.
Il giudice rimettente, evocando a parametro congiuntamente gli artt. 2, 13 e 32 Cost., ha in tutta
evidenza ritenuto che l’addizione richiesta a questa Corte sarebbe imposta dal combinato disposto
di tali norme costituzionali. Del resto, non solo la giurisprudenza di questa Corte ha già riconosciuto
che il principio del consenso informato trova fondamento proprio nelle norme costituzionali ora in
discorso (sentenza n. 438 del 2008 e ordinanza n. 207 del 2018), ma è la stessa legge n. 219 del
2017 a definirsi funzionale alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e
all’autodeterminazione della persona, nel rispetto, tra gli altri, dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32
Cost.
Autonomamente e adeguatamente motivate, poi, sono le censure in riferimento all’art. 3 Cost.
4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale anche sotto un ulteriore profilo: il giudice rimettente non avrebbe
«argomentato in ordine all’impossibilità di dare alle disposizioni impugnate un’interpretazione
conforme a Costituzione».
4.1.– L’eccezione non è fondata.
Il giudice tutelare di Pavia si è diffuso ampiamente sull’interpretazione delle disposizioni censurate,
soffermandosi in particolare sul significato da attribuire alla locuzione «rifiuto delle cure», la quale
ricomprenderebbe, alla luce della ratio legis e del diritto costituzionale all’autodeterminazione,
anche il rifiuto delle cure necessarie al mantenimento in vita; non solo, il giudice a quo ha
espressamente escluso di poter interpretare detta locuzione come non comprensiva del rifiuto di tali
cure. L’iter argomentativo della ordinanza di rimessione si fonda, dunque, su una seria e
approfondita attività ermeneutica concernente la disposizione censurata, conclusasi con
un’attribuzione a quest’ultima di un significato normativo che al giudice rimettente appare in
contrasto con gli evocati parametri costituzionali.
Il giudice a quo, dunque, ha implicitamente escluso, all’esito dell’attività interpretativa posta in
essere, di poter ricavare dalle disposizioni oggetto di censura norme conformi a Costituzione. Se,
poi, l’esito dell’attività esegetica del giudice rimettente sia condivisibile, o no, è profilo che attiene
al merito, e non più all’ammissibilità, delle questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis,
sentenze n. 78 e n. 12 del 2019, n. 132 e n. 15 del 2018, n. 69, n. 53 e n. 42 del 2017, n. 221 del
2015).
5.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate.
Il giudice tutelare rimettente (legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale: da
ultimo, sentenza n. 258 del 2017) impernia i dubbi di costituzionalità sul seguente assunto: in
ragione di quanto previsto dalle disposizioni censurate, l’amministratore di sostegno, al quale, in
assenza delle DAT, sia stata affidata la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, ha per ciò solo,
sempre e comunque, anche il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza
del beneficiario, senza che il giudice tutelare possa diversamente decidere e senza bisogno di
un’autorizzazione di quest’ultimo per manifestare al medico il rifiuto delle cure.
Si tratta di un presupposto interpretativo erroneo.
5.1.– Deve innanzitutto osservarsi che la legge n. 219 del 2017, come si evince sin dal suo titolo, dà
attuazione al principio del consenso informato nell’ambito della «relazione di cura e di fiducia tra
paziente e medico» (art. 1, comma 2).
Per quanto qui rileva, il principio – previsto da plurime norme internazionali pattizie, oltre che
dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e da diverse leggi nazionali che disciplinano
specifiche attività mediche – ha fondamento costituzionale negli artt. 2, 13 e 32 Cost. e svolge la
«funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello
alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il
diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso
terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative» (sentenza n. 438
del 2008; nello stesso senso, sentenza n. 253 del 2009 e ordinanza n. 207 del 2018). In attuazione
delle norme costituzionali, la legge n. 219 del 2017, pertanto, dopo aver sancito che «nessun
trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della
persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 1, comma 1),
promuove e valorizza la relazione di cura e fiducia tra medico e paziente che proprio sul consenso
informato deve basarsi (art. 1, comma 2), esplicita le informazioni che il paziente ha diritto di
ricevere (art. 1, comma 3), stabilisce le modalità di espressione del consenso e del rifiuto di
qualsivoglia trattamento sanitario, anche (ma non solo) necessario alla sopravvivenza (art. 1, commi
4 e 5), prevede l’obbligo per il medico di rispettare la volontà espressa dal paziente (art. 1, comma
6).
La legge n. 219 del 2017 ha poi introdotto, ovviamente in correlazione al diritto
all’autodeterminazione in ambito terapeutico, l’istituto delle DAT, prevedendo che ogni persona
maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di
determinarsi, possa esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il
consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti
sanitari, a tale scopo indicando un «fiduciario», che faccia le sue veci e la rappresenti nelle relazioni
con il medico e con le strutture sanitarie (art. 4, comma 1). Il medico è tenuto al rispetto delle DAT
(che devono essere redatte secondo quanto disposto dall’art. 4, comma 6), potendo egli
disattenderle, in accordo con il fiduciario, soltanto «qualora esse appaiano palesemente incongrue o
non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non
prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle
condizioni di vita» (art. 4, comma 5).
5.1.1.– L’art. 3 della legge n. 219 del 2017 reca la disciplina – concernente tanto il consenso
informato quanto le DAT – applicabile nel caso in cui il paziente sia non una persona (pienamente)
capace di agire (art. 1, comma 5), ma una persona minore di età, interdetta, inabilitata o beneficiaria
di amministrazione di sostegno.
Le norme oggetto del presente giudizio di costituzionalità regolano, in particolare, quest’ultimo
caso, stabilendo, da un lato, che, quando la nomina dell’amministratore di sostegno prevede
l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, «il consenso informato è
espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo
conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere»
(art. 3, comma 4); dall’altro, che, qualora non vi siano DAT, se l’amministratore di sostegno rifiuta
le cure e il medico le reputa invece appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice
tutelare, su ricorso dei soggetti legittimati a proporlo (art. 3, comma 5). Le norme censurate,
dunque, sono volte a disciplinare casi particolari di espressione o di rifiuto del consenso informato,
anche – ma non soltanto – laddove questo riguardi trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza.
Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice rimettente, però, esse non hanno disciplinato «le
modalità di conferimento, all’amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in
ambito sanitario», le quali, invece, restano regolate dagli artt. 404 e seguenti cod. civ., come
introdotti dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6 (Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile
del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388,
414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione,
nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali). Le norme oggetto dell’odierno
sindacato di questa Corte, altrimenti detto, non disciplinano l’istituto dell’amministrazione di
sostegno, ma regolano il caso in cui essa sia stata disposta per proteggere una persona che è
sottoposta, o potrebbe essere sottoposta, a trattamenti sanitari e che, pertanto, deve esprimere o no il
consenso informato a detti trattamenti.
L’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017 deve essere condotta, pertanto, alla
luce dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, richiamato dalle norme censurate: segnatamente,
è in base alla disciplina codicistica che devono essere individuati i poteri spettanti al giudice tutelare
al momento della nomina dell’amministratore di sostegno, i quali non sono affatto contemplati dalla
richiamata legge n. 219 del 2017.
5.2.– Questa Corte, già all’indomani della legge n. 6 del 2004, rilevò che «l’ambito dei poteri
dell’amministratore [è] puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto» (sentenze n.
51 del 2010 e n. 440 del 2005), secondo quanto previsto dal giudice tutelare nel provvedimento di
nomina, che deve contenere, tra le altre indicazioni, quelle concernenti l’oggetto dell’incarico e gli
atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario
(art. 405, quinto comma, numero 3, cod. civ.), nonché la periodicità con cui l’amministratore di
sostegno deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del
beneficiario (art. 405, quinto comma, numero 6, cod. civ.).
Più di recente, anche sulla scia dell’interpretazione e dell’applicazione dell’amministrazione di
sostegno da parte della giurisprudenza di legittimità, questa Corte ha osservato che tale istituto «si
presenta come uno strumento volto a proteggere senza mortificare la persona affetta da una
disabilità, che può essere di qualunque tipo e gravità (Corte di cassazione, sezione prima civile,
sentenza 27 settembre 2017, n. 22602)» (sentenza n. 114 del 2019). Esso consente al giudice
tutelare «di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, in
modo tale da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile a fronte del minor sacrificio
della sua capacità di autodeterminazione (in questo senso, Corte di cassazione, sezione prima civile,
sentenze 11 maggio 2017, n. 11536; 26 ottobre 2011, n. 22332; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12
giugno 2006, n. 13584; ma si veda anche Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11
settembre 2015, n. 17962)» (sentenza n. 114 del 2019).
L’amministrazione di sostegno è, insomma, un istituto duttile, che, proprio in ragione di ciò, può
essere plasmato dal giudice sulle necessità del beneficiario, anche grazie all’agilità della relativa
procedura applicativa (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 settembre 2015, n.
17962; 26 ottobre 2011, n. 22332; 1° marzo 2010, n. 4866; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12
giugno 2006, n. 13584). Con il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, difatti, il giudice
tutelare «si limita, in via di principio, a individuare gli atti in relazione ai quali ne ritiene necessario
l’intervento» (sentenza n. 114 del 2019), perché è chiamato ad affidargli, nell’interesse del
beneficiario, i necessari strumenti di sostegno con riferimento alle sole categorie di atti al cui
compimento quest’ultimo sia ritenuto inidoneo (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza
29 novembre 2006, n. 25366).
Attribuendo al giudice tutelare il compito di modellare l’amministrazione di sostegno in relazione
allo stato personale e alle condizioni di vita del beneficiario, il legislatore ha inteso limitare «nella
minore misura possibile» (sentenza n. 440 del 2005) la capacità di agire della persona disabile: il
che marca nettamente la differenza con i tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, la
cui applicazione attribuisce al soggetto uno status di incapacità, più o meno estesa, connessa a
rigide conseguenze legislativamente predeterminate. Il maggior rispetto dell’autonomia e della
dignità della persona disabile assicurata dall’amministrazione di sostegno è alla base di quelle
recenti decisioni, anche di questa Corte, che hanno escluso si estendano a tali soggetti – in ragione
d’una generalizzata applicazione, in via analogica, delle limitazioni dettate per l’interdetto o
l’inabilitato – i divieti di contrarre matrimonio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza
11 maggio 2017, n. 11536) o di donare (sentenza n. 114 del 2019; Corte di cassazione, sezione
prima civile, ordinanza 21 maggio 2018, n. 12460): il beneficiario di amministrazione di sostegno
può sì essere privato della capacità di porre in essere tali atti personalissimi, quando ciò risponda
alla tutela di suoi interessi, ma sempre che ciò sia espressamente disposto dal giudice tutelare – nel
provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno o anche in una sua successiva revisione
– con esplicita clausola ai sensi dell’art. 411, quarto comma, cod. civ.
È fuor di dubbio, infine, che possa ricorrersi all’amministrazione di sostegno anche laddove
sussistano soltanto esigenze di «cura della persona» – come d’altra parte recitano gli artt. 405,
quarto comma, e 408, primo comma, cod. civ. – in quanto esso non è istituto finalizzato
esclusivamente ad assicurare tutela agli interessi patrimoniali del beneficiario, ma è volto, più in
generale, a soddisfarne i «bisogni» e le «aspirazioni» (art. 410, primo comma, cod. civ.), così
garantendo adeguata protezione alle persone fragili, in relazione alle effettive esigenze di ciascuna
(Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza 26 luglio 2018, n. 19866; sul ricorso
all’amministrazione di sostegno per l’esercizio di scelte connesse al diritto alla salute, anche Corte
di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 15 maggio 2019, n. 12998).
5.3.– La ricostruzione del quadro normativo concernente l’amministrazione di sostegno, anche alla
luce degli approdi della giurisprudenza di questa Corte e della Corte di cassazione, rivela l’erroneità
del presupposto interpretativo su cui si fondano le questioni di legittimità costituzionale proposte
dal giudice tutelare di Pavia.
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, le norme censurate non attribuiscono ex
lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario
anche il potere di esprimere o no il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale.
Nella logica del sistema dell’amministrazione di sostegno è il giudice tutelare che, con il decreto di
nomina, individua l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in
nome e per conto del beneficiario. Spetta al giudice, pertanto, il compito di individuare e
circoscrivere i poteri dell’amministratore, anche in ambito sanitario, nell’ottica di apprestare misure
volte a garantire la migliore tutela della salute del beneficiario, tenendone pur sempre in conto la
volontà, come espressamente prevede l’art. 3, comma 4, della legge n. 219 del 2017. Tali misure di
tutela, peraltro, non possono non essere dettate in base alle circostanze del caso di specie e, dunque,
alla luce delle concrete condizioni di salute del beneficiario, dovendo il giudice tutelare affidare
all’amministratore di sostegno poteri volti a prendersi cura del disabile, più o meno ampi in
considerazione dello stato di salute in cui, al momento del conferimento dei poteri, questi versa. La
specifica valutazione del quadro clinico della persona, nell’ottica dell’attribuzione
all’amministratore di poteri in ambito sanitario, tanto più deve essere effettuata allorché, in ragione
della patologia riscontrata, potrebbe manifestarsi l’esigenza di prestare il consenso o il diniego a
trattamenti sanitari di sostegno vitale: in tali casi, infatti, viene a incidersi profondamente su «diritti
soggettivi personalissimi» (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 7 giugno 2017, n.
14158; più di recente, anche Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 15 maggio 2019,
n. 12998), sicché la decisione del giudice circa il conferimento o no del potere di rifiutare tali cure
non può non essere presa alla luce delle circostanze concrete, con riguardo allo stato di salute del
disabile in quel dato momento considerato.
La ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, pertanto, richiede al giudice tutelare di
modellare, anche in ambito sanitario, i poteri dell’amministratore sulle necessità concrete del
beneficiario, stabilendone volta a volta l’estensione nel solo interesse del disabile. L’adattamento
dell’amministrazione di sostegno alle esigenze di ciascun beneficiario è, poi, ulteriormente garantito
dalla possibilità di modificare i poteri conferiti all’amministratore anche in un momento successivo
alla nomina, tenendo conto, ove mutassero le condizioni di salute, delle sopravvenute esigenze del
disabile: il giudice tutelare, infatti, deve essere periodicamente aggiornato dall’amministratore circa
le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario (art. 405, quinto comma, numero 6, cod.
civ.), può modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte nel decreto di nomina (art.
407, quarto comma, cod. civ.), può essere chiamato a prendere gli opportuni provvedimenti – su
ricorso del beneficiario, del pubblico ministero o degli altri soggetti di cui all’art. 406 cod. civ. – in
caso di contrasto, di scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza dell’amministratore nel perseguire
l’interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste della persona disabile (art. 410, secondo comma,
cod. civ.).
5.3.1.– L’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, tenuto conto dei principi che
conformano l’amministrazione di sostegno, porta allora conclusivamente a negare che il
conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e
necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Le
norme censurate si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto
anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina –
laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali
da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno
vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo
richieda.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l’intervento delle associazioni Unione Giuristi Cattolici Italiani – Unione
Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato Contardo Ferrini”;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge
22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di
trattamento), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, dal giudice tutelare
del Tribunale ordinario di Pavia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo
2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA