ALIENAZIONE GENITORIALE

Di Gianfranco Dosi
I. Il principio della bigenitorialità nella separazione
II. I fattori che possono incrinare l’obiettivo della bigenitorialità
III. L’alienazione genitoriale come conseguenza della manipolazione del figlio da parte del genitore alienante
IV. I danni endofamiliari e la giurisprudenza civile sull’art. 709-ter c.p.c.
V. L’alienazione genitoriale nelle sentenze della prima sezione civile della Corte di cassazione
a) Le prime sbrigative sentenze (Cass. 7452/2012 e Cass. 5847/2013)
b) L’orientamento utopistico: il giudice deve verificare l’attendibilità scientifica della PAS (Cass. 7041/2013)
c) L’orientamento realistico: il giudice deve limitarsi ad accertare in concreto l’esistenza di una alienazione genitoriale (Cass. 6919/2016 e Cass. 13274/2019)
VI. Il punto di vista della Corte europea dei diritti dell’uomo
VII. Alienazione genitoriale e codice penale
a) Condotta alienante e sottrazione consensuale di minore (articoli 573 e 574 c.p.)
b) Inosservanza dei provvedimenti del giudice civile in materia di affidamento (art. 388 c.p.)
c) Il che modo il consenso del minore può avere rilevanza per escludere i reati?
d) I maltrattamenti psicologici quasi assenti in giurisprudenza (art. 572 c.p.)
I Il principio di bigenitorialità nella separazione
Negli ultimi anni la legge ha ribadito con decisione in più occasioni la prospettiva della bigenitoria¬lità come obiettivo da perseguire in via primaria in tutti i procedimenti giudiziari che si occupano dell’affidamento dei minori in sede di separazione dei genitori.
È stata decisiva in proposito la riforma operata con la legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli). Il principio esplicitato è che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. Per realizzare questa finalità – continua la legge – il giudice “adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa” e “valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori oppure stabilisce a quali di essi i figli sono affidati”.
La riforma ribaltava il precedente impianto del codice civile (basato sul principio di affidamento ad un solo genitore) introducendo l’affidamento ad entrambi i genitori (affidamento condiviso) come regola ordinaria in caso di separazione dei coniugi e di divorzio così recependo, anche se con grande ritardo, i principi già enunciati dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) nel cui Preambolo, si legge: «Il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità, deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione» e nel cui art. 9, comma 3: si afferma che «Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo»), nonché dalla Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77) recante una concezione del minore come soggetto non più incapace di provvedere a se stesso e necessariamente oggetto di decisioni altrui, ma, piuttosto, come persona titolare di una serie di diritti e protagonista delle sue scelte esistenziali.
Per la cultura giuridica quella dell’affidamento condiviso è stata una riforma di grandissimo rilievo; un nuovo paradigma concettuale ed operativo (la bigenitorialità) che il legislatore ha indicato ai genitori come modello comportamentale da attuare anche in caso di separazione o di divorzio e in sede di regolamentazione dell’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio.
La bigenitorialità consiste nella presenza comune di entrambe le figure genitoriali nella vita del figlio e nella loro cooperazione ai fini dell’adempimento dei doveri di assistenza, educazione ed istruzione verso i figli, per la cui realizzazione non è, però, strettamente necessaria una determi¬nazione paritetica del tempo da trascorrere con il minore, risultando invece sufficiente la previ¬sione di modalità di frequentazione tali da garantire il mantenimento di una stabile consuetudine di vita e di salde relazioni affettive con ciascuno dei genitori (Cass. civ. Sez. VI, 23 settembre 2015, n. 18817).
Non si tratta di un principio che spetta solo al giudice attuare, ma di un obiettivo da perseguire an¬che in qualsiasi accordo tra i genitori, come ribadito dal decreto-legge 12 settembre 2014, n.132, convertito nella legge 10 novembre 2014, n. 162 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile) che all’art. 6. (Conven¬zione di negoziazione assistita per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio) prescrive al terzo comma che “L’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di sciogli¬mento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Nell’accordo si dà atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare. Si dà anche atto che gli avvocati hanno informato le parti dell’im¬portanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori”.
La giurisprudenza ha velocemente recepito questi principi e ormai in tutte le decisioni di legittimità sull’affidamento si ribadisce che al criterio legale dell’affidamento condiviso si può derogare solo allorché risulti, nei confronti di uno dei genitori, una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore” e in questi casi, “la decisione sull’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della responsabilità genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento (Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9632; Cass. civ. Sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2010, n. 24526; Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12308; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2009, n. 26587; Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2008, n. 19065; Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 2008, n. 16593).
Anche la giurisprudenza di merito applica gli stessi principi (Trib. Novara, 31 maggio 2013; Trib. Novara,21 ottobre 2011; Trib. Roma, Sez. I, 11 ottobre 2012, Trib. Roma,Sez. I, 2 agosto 2012; Trib. Milano, Sez. IX, 11 giugno 2012; Trib. Pistoia 13 gennaio 2011; App. Napoli, 19 marzo 2010).
II I fattori che possono incrinare l’obiettivo della bigenitorialità
L’affermazione che la bigenitorialità è la prospettiva da perseguire in via primaria in sede di sepa¬razione dei genitori non significa naturalmente che questo avvenga sempre. Al contrario l’espe¬rienza insegna che spesso la separazione dei genitori produce nelle relazioni familiari sconvolgi¬menti e distorsioni che possono incrinare o frustrare quell’obiettivo talvolta in modo temporaneo ma spesso anche per lungo tempo e in alcuni casi anche permanentemente1.
All’origine di tali conseguenze possono esservi diversi fattori non necessariamente legati a com-portamenti dei genitori dolosamente preordinati ad attaccare il principio di bigenitorialità.
In alcuni casi, per esempio, la coppia genitoriale potrebbe non aver mai condiviso neanche nella vita in comune la genitorialità – per incapacità o per altre ragioni – ed è evidente in questi casi che la separazione non può magicamente far emergere uno stile comunicativo di condivisione che non c’è mai stato prima. Quindi, le caratteristiche della personalità dei genitori e le capacità genitoriali pregresse costituiscono un fattore di disfunzione che può creare problemi alla integrità della rela¬zione tra i figli e i genitori.
In alcune situazioni anche il disinteresse e addirittura la scomparsa materiale di uno dei genitori che rinuncia ad esercitare il suo ruolo, possono essere la causa principale di frustrazione dell’o¬biettivo della bigenitorialità.
Spesso, ancora, le ragioni stesse della separazione o le modalità con cui è attuata possono non favorire la piena consapevolezza circa l’importanza da attribuire alla bigenitorialità. In queste situazioni possono radicalizzarsi comportamenti di uno nei confronti dell’altro (di frustrazione, di collera, di rabbia) che sono del tutto fisiologici e normali nell’ambito di un evento stressante come la separazione ma che, se non risolti, possono produrre effetti anche devastanti nell’equilibrio delle persone e delle loro relazioni familiari.
Un’ulteriore variabile che può influire ed influisce spesso sul principio di bigenitorialità concerne i figli stessi. Innanzitutto l’età dei figli, essendo evidente che diverse sono le conseguenze sui
1 È sempre utile il riferimento a contributi interdisciplinari ormai classici su questi temi quali per esempio V. Cigoli, G. Gulotta, G. Santi, Separazione, divorzio e affidamento dei figli, III edizione, Milano, Giuffrè, 2007.
bambini e sugli adolescenti della separazione dei genitori. Nei bambini molto piccoli (2-3 anni), per esempio, gli psicologi evidenziano frequenti segni di regressione comportamentale con biso¬gno di affetto e protezione che il bambino manifesta succhiandosi il pollice, toccandosi in maniera compulsiva i capelli o con un ritorno ad oggetti transizionali precedenti; spesso con problemi di sonno, problemi alimentari, difficoltà del controllo sfinterico. Nei bambini più grandi (3-6 anni) sono osservate reazioni non regressive ma aggressive e nevrotiche che si manifestano con la rabbia, con l’aggressione ai compagni di gioco, distruggendo oggetti e così via. Nei preadolescen¬ti (7-12 anni) vi è, in ordine alla separazione dei genitori, più consapevolezza che si manifesta con sentimenti di tristezza, di dolore e di collera; spesso la rabbia è indirizzata in modo preciso verso uno o entrambi i genitori; frequenti sono anche le manifestazioni psicosomatiche di questa rabbia (mal di testa, dolori di stomaco, asma cronica, crampi).Nei figli adolescenti (13-17 anni) la separazione può portare ad un aumento del senso di responsabilità che, favorito anche da una maggiore distanza psicologica dai genitori, può evitare ripercussioni negative ma, al contrario, se affrontata con minor senso di responsabilità, potrebbe degenerare anche in atteggiamenti antiso¬ciali, depressione, fughe.
Da tutto ciò si comprende come non sempre l’obiettivo della bigenitorialità trova attuazione. Tal¬volta per inadeguatezza dei genitori, altre volte per le modalità conflittuali con cui è vissuta nel suo complesso la separazione e in molti casi anche per la reazione dei figli, soprattutto in età preado¬lescenziale e adolescenziale, rispetto all’allontanamento di uno dei genitori dalla vita quotidiana.
In tutte le situazioni descritte si verifica una lacerazione nel rapporto tra genitori e figli che può assumere anche le forme molto gravi e devastanti o una condizione di rifiuto di uno dei genitori da parte del figlio.
III L’alienazione genitoriale come conseguenza della manipolazione da parte del genitore alienante
L’espressione alienazione genitoriale – da tempo utilizzata, anche se molte volte a sproposito, nel linguaggio della patologia delle relazioni genitori-figli nel corso della separazione – evoca so¬stanzialmente la situazione che si verifica quando il rifiuto e l’ostilità che il figlio mostra verso un genitore, deve considerarsi, non tanto la conseguenza di un comportamento genericamente ostruzionistico di un genitore nei confronti dell’altro, ma una situazione determinata e indotta consapevolmente dall’altro genitore Si tratta di una manifestazione che può avere connotazioni patologiche o espressione, comunque, di disturbi relazionali, ma che è certamente pregiudizievole per la crescita del figlio minore2.
Nei contributi della psicologia giuridica su questo tema si segnala che in molti casi l’azione del ge¬nitore alienante nella programmazione del figlio è un’attività consapevole e strumentale all’elimi¬nazione dell’altro genitore anche come ex partner. Il genitore in taluni casi è spinto da distorsioni cognitive e di personalità che lo inducono a nuocere al bambino in maniera anche irreversibile; talvolta però può anche agire nella convinzione di operare per il bene del proprio figlio.
La situazione che si determina in caso di alienazione genitoriale, viene comunemente indicata come Parental Alienation Syndrome (PAS) dal nome che gli dato a metà degli anni Ottanta lo psichiatra infantile nordamericano Richard Gardner secondo il quale l’alienazione parentale deri¬verebbe dal concorso di due principali fattori che sono, il condizionamento operato dal genitore collocatario ostile all’altro genitore e il contributo all’alienazione dato da figlio minore alleatosi con un genitore contro l’altro.
In uno dei suoi lavori su questo tema – non sempre condivisi ma comunque largamente recensiti e richiamati nella letteratura psicologia italiana cui si è fatto cenno – Gardner definì la sindrome di alienazione come “disturbo che insorge principalmente nelle controversie per la custodia dei figli. La sua manifestazione principale è la campagna di denigrazione rivolta contro un genitore: una campagna che non ha giustificazioni. Essa è il risultato della combinazione di una programmazio¬ne (lavaggio del cervello) effettuata dal genitore indottrinante e del contributo dato dal bambino in proprio, alla denigrazione del genitore bersaglio. In presenza di reali abusi o trascuratezza dei genitori, l’ostilità del bambino può essere giustificata e, di conseguenza, la sindrome di alienazione genitoriale, come spiegazione dell’ostilità del bambino, non è applicabile”.
Come si vede quindi, secondo questo punto di vista, si parla di PAS solo quando il coinvolgimen¬to persuasivo che un genitore (programmatore) opera verso il figlio minore per vari motivi (per esempio per mantenere un affido esclusivo o per paura di perdere il figlio), determina nello stesso figlio una alleanza ostile all’altro genitore (bersaglio) e perciò una vera e propria coalizione contro l’altro genitore. Nonostante che la manipolazione abbia origine dal genitore, il figlio rappresenta quindi in questa interpretazione una parte attiva della campagna di denigrazione, spesso (come fa notare la Cavedon nel suo lavoro citato in nota) superando i comportamenti e le aspettative del
2 G. Buzzi, La sindrome di alienazione genitoriale, in V. Cigoli, G. Gulotta, G. Santi, Separazione, divorzio e affi¬damento dei figli, II edizione, Milano, Giuffrè, 1997, 177-187; G. Gulotta, La sindrome di alienazione genitoriale: definizione e descrizione, in Pianeta Infanzia, Questioni e documenti, Istituto degli Innkcenti, Firenze, 1998, 27-72; G. Gulotta, P. Bestonso, C. Risso, M. Trevisan, Sindrome di alienazione genitoriale, in Aiaf Osservatorio, n. 3-4, luglio-dicembre 1998, 32-38; G. Gulotta, Elementi di psicologia giuridica e diritto psicologico, Giuffrè, Milano, 2004; G. Gulotta, A. Cavedon, M. Liberatore, La sindrome da alienazione parentale, Milano, Giuffrè, 2008; A. Lubrano Lavadera, M. Marasco, M. Malagoli Togliatti, M. Franci La sindrome di alienazione genitoriale nelle consulenze tecniche d’ufficio, in Maltrattamenti e abuso all’infanzia, 2005, 3, p. 39-61.
genitore stesso ed allo scopo di sottolineare la propria lealtà nei confronti del genitore alienante dai quali i figli subiscono quindi una vera e propria violenza psicologica.
Che si tratti di una patologia (come il nome sindrome, nelle intenzioni di chi lo ha proposto, intende¬rebbe segnalare) o di una malevola disfunzione relazionale (come alcuni sono propensi a ritenere) ha per il giurista un interesse relativo, anche se ne restano evidentemente diversificate le strategie di recupero o di intervento. In verità molti autori individuano nella PAS una patologia relazionale che riguarda almeno tre soggetti (il genitore programmatore, il genitore alienato e il bambino).
Non si può parlare di PAS, come peraltro ha sottolineato lo stesso inventore dell’espressione, quan¬do le difficoltà relazionali e l’ostilità di un figlio verso uno dei genitori sono determinate più o meno intensamente da comportamenti di abuso verso il figlio commessi da quel genitore.
Quanto alla affidabilità scientifica o meno della sindrome in questione (determinata dalla sua ve¬rificabilità statistica), secondo alcuni esperti, dovrebbe essere ritenuto indizio di non scientificità il fatto che l’espressione ParentalAlienationSyndrome non sia presente nel DSM-5, (Diagnostic and Statistical Manual of MentalDisorders) cioè nel Manuale diagnostico statistico redatto dalla Ameri¬can PsychiatricAssociation aggiornato periodicamente (ultima edizione in lingua italiana del 2014) ed al quale fanno riferimento in genere gli psichiatri italiani. Il motivo è che la PAS non soddisfa i criteri statistici di ammissibilità della individuazione della patologia per l’inserimento nel manuale. Tuttavia l’inclusione o l’esclusione di una determinata patologia o sintomatologia nel DSM non è di per sé – per riconoscimento concorde degli esperti – un segnale di maggiore o minore scien¬tificità trattandosi appunto di manuali redatti da associazioni private sia pure riconosciute come importanti e significative. Nemmeno compare il riferimento a questa sindrome nell’International Classification of Diseases (ICD 9 anche in uso in Italia e ICD 10, utilizzato in USA dall’ottobre 2014) compilati dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).
In in ogni caso se la PAS non compare nel DSM-5, tuttavia nell’ambito di problemi relazionali tra genitori e e figli, il manuale in questione include una spiegazione esemplificativa di condizioni e problemi che si incontrano nella pratica clinica di routine. Si tratta in primo luogo di problemi re¬lazionali per i quali si legge nel manuale che “Le relazioni più importanti, specialmente le relazioni intime tra partner adulti e relazioni genitore/caregiver bambino hanno un impatto significativo sulla salute degli individui in queste relazioni. Tali relazioni possono essere protettive e promotrici di salute, neutrali oppure dannose per gli esiti della salute. All’eccesso, queste relazioni strette possono essere associate a maltrattamento o a trascuratezza, che hanno conseguenze significati¬ve a livello psicologico e medico per l’individuo coinvolto. Un problema può arrivare a presentarsi all’attenzione clinica sia come la ragione per la quale l’individuo richiede assistenza sanitaria op¬pure come un problema che influenza il decorso, la prognosi, oppure il trattamento del disturbo mentale o di un altro disturbo medico dell’individuo”.
Sotto l’espressone “Problemi correlati all’educazione dei figli” si parla di “Problema relazionale genitore-bambino” indicando che “Per questa categoria il termine genitore viene utilizzato per riferirsi a uno dei caregiver primari del bambino che può essere biologico, adottivo o genitore affi¬datario, oppure può essere un altro parente (come un/a nonno/a) che adempie al ruolo genitoriale per il bambino. Questa categoria dovrebbe essere utilizzata quando il principale oggetto di atten¬zione clinica è indirizzare la qualità della relazione genitore bambino oppure quando la qualità della relazione genitore-bambino influenza il decorso, la prognosi o il trattamento di un disturbo mentale o medico. Tipicamente, il problema relazionale genitore-bambino viene associato a una compro¬missione del funzionamento in ambito comportamentale, cognitivo o affettivo. Esempi di problemi comportamentali comprendono inadeguato controllo genitoriale, supervisione e coinvolgimento del bambino; iperprotezione genitoriale; eccessiva pressione genitoriale; discussioni che possono sfociare in minacce di violenza fisica ed evitamento senza soluzione di problemi. Problemi cognitivi possono comprendere attribuzioni negative alle intenzioni altrui, ostilità verso gli altri o rendere gli altri capro espiatorio, e sentimenti non giustificati di alienazione. Problemi affettivi possono comprendere sensazioni di tristezza, apatia o rabbia verso gli altri individui nelle relazioni. I clinici dovrebbero tenere in considerazione le necessità di sviluppo del bambino e il contesto culturale”.
In altri punti il DSM-5 descrive ulteriori aspetti significativi:
Child psychological abuse ”nonaccidental verbal or symbolic acts by a child’s parent or caregiv¬er that result, or have reasonable potential to result, in significant psychological harm to the child.”
Child affected by parental relationship distress ”when the focus of clinical attention is the negative effects of parental relationship discord (e.g., high levels of conflict, distress, or disparage¬ment) on a child in the family, including effects on the child’s mental or other physical disorders.”
Factitious disorder imposed on another ”falsification of physical or psychological signs or symptoms, or induction of injury or disease, in another, associated with identified deception.”
Delusional symptoms in partner of individual with delusional disorder ”In the context of a relationship, the delusional material from the dominant partner provides content for delusional belief by the individual who may not otherwise entirely meet criteria for delusional disorder.”
La frequenza dei problemi relazionali tra genitori e figli ha indotto anche la giurisprudenza ad interrogarsi sulle strategie di contrasto da mettere in campo. E in giurisprudenza si riscontrano atteggiamenti che vanno dalla rinuncia ad intervenire fino all’intervento drastico: segnale evidente di una difficoltà delle modalità di reazione giudiziaria a tale fenomeno.
Destò per esempio, all’epoca, molto stupore la decisione con cui la Corte di cassazione ritenne (in una vicenda che di fatto costituiva uno dei primi casi di alienazione genitoriale trattati in giurispru¬denza) che la circostanza che un figlio minore, divenuto ormai adolescente e perfettamente consa¬pevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri tra il minore stesso ed il coniuge non affidatario. Tale sospensio¬ne può essere disposta indipendentemente dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio ed indipendentemente anche dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ultimo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo valutate la profondità e l’intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovve¬ro ad una dannosa radicalizzazione della stessa (Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 1998, n. 317).
Recentemente Trib. Cosenza, sez. II, 29 luglio 2015 n. 778 ha disposto il collocamento di due minori per sei mesi in una struttura protetta sul presupposto che la madre dei minori ha “mani¬polato i figli allontanandoli fisicamente e psicologicamente dal padre verso cui ostentano entrambi plateali manifestazioni di rifiuto e negazione” evidenziata da una CTU in cui si descrive l’esistenza di un ‘condizionamento programmato’ della madre nei confronti dei figli teso a “logorare” la figura paterna, compresi anche i familiari [del padre] ed il posto in cui vive”. Il Tribunale mediante l’ascol¬to diretto dei minori ha constatato la sussistenza di un vero e proprio disturbo relazionale, avente le caratteristiche dell’alienazione parentale.
IV I danni endofamiliari e la giurisprudenza civile sull’art. 709-ter c.p.c.
Il tema dell’alienazione genitoriale – con cui ci si riferisce sostanzialmente sia al comportamento ostruzionistico sia all’esito di tale comportamento – comincia a comparire con frequenza nelle de¬cisioni della giurisprudenza civile solo nell’ultimo decennio, in conseguenza dell’estensione anche alle relazioni familiari delle problematiche della responsabilità civile (fortemente indotta da Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801) e dell’acquisizione che i comportamenti ostruzionistici tra genitori, per il danno che causano ai figli, avrebbero necessità (anche in chiave di prevenzione generale) di risposte in senso ampio sanzionatorie più incisive di quelle tradizionali attribuite al giudice della separazione o al tribunale per i minorenni.
Decisivi per il cambio di prospettiva sono stati l’introduzione dell’affidamento condiviso con la legge 8 febbraio 2006, n. 54 – come si è detto all’inizio – e la riforma processuale, operata con la medesima legge, che ha coniato l’art. 709-ter nel codice di procedura civile3 – con il quale si attri¬buisce al giudice il potere di sanzionare con misure risarcitorie il comportamento dei genitori lesivo dei diritti del minore – dando spazio ad una riflessione sull’uso anche delle strategie sanzionatorie finalizzato all’adempimento delle responsabilità genitoriali.
È quasi superfluo aggiungere che un importantissimo, più recente, contributo è stato anche quello offerto dalla riforma della filiazione operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 con cui si è data centralità ai diritti del figlio è che ha unificato gli strumenti processuali a disposizione del giudice della separazione attribuendogli (per vis actrac¬tiva) la funzione esclusiva di giudice delle responsabilità genitoriali 4.
3 Art. 709-ter Codice di procedura civile (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni)
Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’ar¬ticolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore.
A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempien¬ze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:
1) ammonire il genitore inadempiente;
2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.
I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.
4 Art. 38 Disposizioni di attuazione del codice civile (testo modificato dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154)
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile.
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni.
In molte decisioni inizialmente il danno era prospettato quasi unicamente nei confronti del genitore vittima dei comportamenti ostruzionistici.
Così per esempio, prima delle riforme di cui si è detto, Trib. Monza Sez. IV, 5 novembre 2004 aveva affermato che ha diritto al risarcimento del danno il genitore non affidatario che non aveva potuto esercitare per lungo tempo il diritto di visita al figlio per effetto, oltre che di problemi personali dello stesso non affidatario, delle condotta ostruzionistica del genitore affidatario.
Nella stessa linea la decisione di Trib. Reggio Emilia Sez. I, 6 novembre 2007 secondo cui Il diritto di visita attribuito ad un coniuge assume altresì la connotazione di dovere anche nei con¬fronti dell’altro coniuge; deve pertanto ravvisarsi una lesione del diritto di quest’ultimo qualora il mancato rispetto del regime di affidamento e visita da parte di un genitore, per la sua gravità, per la sua dolosa reiterazione e per la sua diretta incidenza anche sulla vita dell’altro coniuge, arrechi direttamente un pregiudizio a quest’ultimo determinandone l’impossibilità o la grave difficoltà ad organizzare la propria vita in assenza di quel supporto che la regolamentazione della visita inten¬deva dare. Il danno deve essere commisurato, anzitutto, alla gravità delle violazioni commesse.
Quasi tutte le decisioni successive – influenzate dal testo molto chiaro dell’art. 709 tre c.p.c. che prevede il risarcimento dei danni anche nei confronti del figlio minore – introducono il tema del danno cagionato non solo al genitore vittima del comportamento ostruzionistico ma anche diret¬tamente anche al minore
Importante in questa direzione, anche per l’interpretazione in chiave sanzionatoria più che risarci¬toria del risarcimento previsto nell’art. 709 ter c.p.c. e per l’attribuzione di una funzione deterren¬te al risarcimento dei danni, è stato Trib. Messina 5 aprile 2007 secondo cuil’art. 709-ter c.p.c., nei punti nn. 2 e 3, prevede un tipo di risarcimento dei danni che rientra nell’ambito dei punitive damages, aventi natura sanzionatoria, non riconducibile al paradigma degli artt. 2043 e 2059 c.c.. ed a tale proposito si precisa che non è ostativa l’osservazione che il nostro sistema giuridico non conosce la categoria dei danni punitivi, perché la legge n. 54/2006 in tema di affidamento recepi¬sce largamente l’esperienza anglosassone e nordamericana e di conseguenza ben può introdurre un quid novum, segnatamente quella condanna al risarcimento del danno che non è diretta a compensare ma a punire, al fine di dissuadere (to deter) chi ha commesso l’atto illecito dal com¬metterne altri. Si tratta di un sistema di poteri di coercizione, volti a rendere il provvedimento di affidamento attuale e in ultima analisi a realizzare l’interesse del minore a conservare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.
Dello stesso identico avviso Trib. Vallo della Lucania, 7 marzo 2007 (L’art. 709-terc.p.c. – nel prevedere in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore o impediscano il corretto svolgimento dell’affidamento condiviso una sanzione irrogabile per il comportamento lesivo posto in essere all’interno del nucleo familiare – ha introdotto nel nostro ordinamento una figura di danni c.d. punitivi derivanti dall’esperienza dell’ordinamento giuridico statunitense, i quali svolgono la chiara funzione pubblicistica della deterrenza e della punizione). Dello stesso avviso, ma riferito non a condotte ostruzionistiche ma al disinteresse di un genitore, Trib. Verona, 11 febbraio 2009 secondo cui il totale disinteresse manifestato dal padre nei con¬fronti della figlia è presupposto per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 709-ter, 2° co., c.p.c., ed in particolare di quelle di cui ai numeri 2 e 3 (che introducono nel nostro ordinamento la categoria dei c.d. “danni punitivi”, con finalità, cioè, non compensative, ma deterrenti e sanzio¬natorie): tale condotta, infatti, non solo arreca un pregiudizio alla minore, ma costringe la madre a sostenere tutto il peso della responsabilità nella gestione della figlia (nella specie, il collegio ha ammonito il padre ad un puntuale adempimento delle prescrizioni, anche patrimoniali, contenute nella sentenza di divorzio e lo ha condannato a pagare, a titolo di risarcimento dei danni, la som¬ma di euro 10.000,00 alla figlia e l’ulteriore somma di euro 10.000,00 alla madre).
In altre decisioni si dà una interpretazione (non condivisa tuttavia dal suo insieme della giurispru¬denza) in chiave di responsabilità civile risarcitoria tradizionale Per esempio in App. Firenze, 29 agosto 2007 si legge che Il genitore che, in violazione delle statuizioni del giudice del divorzio, im¬pedisca la frequentazione tra il figlio minore e l’altro genitore, e che in tal modo arrechi nocumento alla corretta crescita della personalità del minore e leda il diritto dell’altro genitore al rapporto con il figlio, va condannato, nell’ambito del procedimento ex art. 709-ter c.p.c., al risarcimento, in favore del figlio e dell’altro genitore, del solo danno non patrimoniale, individuato in re ipsa e quantificato in via equitativa. Ugualmente in Trib. Pavia Sez. I, 23 ottobre 2009 secondo cui l’art. 709-ter c.p.c. prevede che in caso di gravi inadempienze o di atti che arrechino pregiudizio al minore o ne ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il giudice possa disporre il risarci¬mento del danno a carico di uno dei genitori e nei confronti del minore. Tale previsione configura una ipotesi di responsabilità ordinaria ex art. 2043 c.c. con risarcimento del danno non patrimoniale arrecato dal genitore al minore. Ugualmente in Trib. Salerno Sez. I, 22 dicembre 2009 secondo cui il provvedimento di condanna di uno dei genitori a risarcire i danni all’altro – provvedimento compreso tra quelli che il giudice può pronunciare ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c. – ha natura risarci¬toria in senso proprio. Nella stessa direzione interpretativa Trib. Roma, 13 settembre 2011 dove si è ritenuto che la madre, separata dal coniuge e collocataria del figlio, la quale, per diversi mesi, impedisce senza giustificato motivo al padre di frequentare il figlio stesso, è tenuta al risarcimento del danno non patrimoniale ex artt. 2043 e 2059 c.c. a favore del padre per ingiusta lesione del diritto ad avere rapporti con la prole protetto dagli artt. 2 e 30 Costituzione.
Prevale però, negli anni più recenti l’interpretazione in termini di danno punitivo. Così Trib. No¬vara, 21 luglio 2011 (In ordine alla natura del provvedimento di condanna al risarcimento del danno nei confronti del minore del genitore inadempiente agli obblighi inerenti il diritto di visita, deve condividersi l’indirizzo interpretativo che ricostruisce tale istituto in termini di danno punitivo, riconducibile alla categoria delle c.d. astreintes, con la conseguenza che la valutazione del giudice prescinde dall’accertamento dell’effettiva sussistenza degli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c.e deve essere improntata a criteri equitativi), Trib. Messina Sez. I, 8 ottobre 2012 (Il disposto normativo di cui all’art. 709-ter c.p.c., nella parte in cui prevede la condanna al risarcimento dei danni in favore del figlio minore e/o dell’altro genitore nei casi di gravi inadempienze, di violazioni dei doveri genitoriali ovvero di comportamenti ostacolanti le modalità dell’affidamento, introduce nell’ordinamento un’ipotesi a sé stante di c.d. danno punitivo. A sostengo di tale argomentazione milita la circostanza che nella individuazione della misura del risarcimento occorre in primo luogo guardare alla gravità della condotta del genitore inadempiente, anche in considerazione del fatto che i rimedi di cui all’art. 709-ter c.p.c. hanno essenzialmente finalità punitiva, e non occorre una prova specifica sulla esistenza ed entità del danno, che può considerarsi naturale conseguenza del deprecabile comportamento di uno dei genitori. Così interpretata, la previsione dell’art. 709-ter c.p.c. risulta assolvere ad una funzione sanzionatoria deterrente della condotta del genitore per evitare che nel futuro lo stesso continui a rendersi inadempiente rispetto ai propri obblighi nei confronti della prole e rispetto al contenuto dei provvedimenti).
Trib. Minorenni Trieste, 23 agosto 2013 ha condannato al risarcimento dei danni a favore dell’ex partner la madre affidataria esclusiva che ostacolava i contatti tra il padre detenuto e il figlio minore.
V L’alienazione genitoriale nelle sentenze della prima sezione civile della Corte di cassazione
a) Le prime sbrigative sentenze (Cass. 7452/2012 e Cass. 5847/2013)
L’espressione alienazione genitoriale compare per la prima volta nelle sentenze della Corte di cas¬sazione civile in Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2012, n. 7452 in una vicenda giudiziaria molto conflittuale concernente l’affidamento in sede di separazione di una minore. Il tribunale di Mantova aveva disposto la sospensione della frequentazione con il padre, avendo la minore manifestato un fermo rifiuto di incontrarlo, ma aveva anche condannato la madre – ritenuta responsabile della sindrome di alienazione genitoriale riscontrata – a corrispondere un risarcimento del danno, liqui¬dato in euro 15.000,00 in favore del marito e in euro 20.000,00 in favore della figlia. La decisione veniva sostanzialmente confermata dalla Corte d’appello di Brescia (dove venivano solo ridotti gli importi del risarcimento) e pertanto la madre della minore ricorreva per cassazione lamentando che la diagnosi di alienazione genitoriale non solo era stata recepita acriticamente dal giudice ma era stata effettuata da una psicologa (e non da uno psichiatra) la quale non aveva tenuto in con¬siderazione i rilievi critici del suo consulente di parte. La madre della minore lamentava anche che la sindrome da alienazione parentale, allorché sussiste, deriva da una situazione di grave conflit¬tualità fra i genitori, onde le relative responsabilità vanno ascritte a entrambi e non a uno solo di essi. La Corte di cassazione rigettava il ricorso affermando che nessuna norma impone di affidare a medici piuttosto che a psicologi le consulenze tecniche riguardanti disturbi psicologici essendo la verifica della concreta qualificazione dell’esperto chiamato a rendere la consulenza compito esclu¬sivo del giudice di merito il quale peraltro, nella sua decisione, ben può motivare per relationem richiamando il contenuto della consulenza tecnica di ufficio. Per il resto riteneva che le censure della ricorrente integravano pure e semplici critiche di merito, inammissibili in sede di legittimità.
Indubbiamente la ricorrente aveva sollevato questioni di grande interesse, come quella relativa al recepimento per relationem da parte del giudice delle conclusioni peritali sulla sindrome di alie¬nazione genitoriale e quella relativa alla plausibilità in tale evenienza di una colpevolizzazione di uno solo dei genitori, ma la Corte di cassazione non ha ritenuto di accettare la sfida e ha di fatto lasciato senza risposte il problema della verifica da parte del giudice di quelle questioni.
Neanche una successive sentenza ritenne di approfondire la questione dell’alienazione genitoriale nonostante che ve ne fossero tutte le opportunità. Si fa riferimento a Cass. civ. Sez. I, 8 mar¬zo 2013, n. 5847 intervenuta in un giudizio di separazione in cui la Corte di appello di Catania aveva affidato i due figli minori (di 15 e 9 anni) alla madre, con divieto provvisorio di contatti con il padre. Il tribunale di Catania aveva invece con la sentenza riformata in appello disposto l’affida¬mento condiviso dei figli collocandoli presso il padre disciplinando la frequentazione con la madre, limitandone poi anche gli incontri con i figli. I giudici di appello, anche sulla base di una relazione del servizio di psichiatria della ASL avevano ritenuto che il comportamento negativo dei figli verso la madre fosse stato provocato dalla condotta ostruzionistica del marito che aveva ostacolato gli incontri e ingiustificatamente screditato la figura della madre nei loro confronti, in tal modo dan¬neggiandone l’equilibrio psichico. Ritenendo l’affidamento condiviso pregiudizievole per i minori, li avevano affidato alla madre in via esclusiva. La Corte di cassazione alla quale il padre dei minori si rivolgeva riteneva il ricorso infondato in quanto la corte di appello, utilizzando la relazione della Asl che diagnosticava una sindrome da alienazione parentale dei figli ed evidenziava il danno ir¬reparabile da essi subito per la privazione del rapporto con la madre, ”si è limitata a fare uso del potere, attribuito al giudice dall’art. 155-sexies c.c., comma 1, di assumere mezzi di prova anche d’ufficio ai fini della decisione sul loro affidamento esclusivo alla madre. Essa, inoltre, ha fondato la decisione anche su altri elementi non specificamente censurati dal ricorrente, concernenti il giudizio negativo circa le attitudini genitoriali del padre (desunto anche dalla reiterata condotta ostruzionistica posta in essere al fine di ostacolare in ogni modo gli incontri dei figli con la madre), dandone conto in una motivazione priva di vizi logici e quindi incensurabile in questa sede.
b) L’orientamento utopistico: il giudice deve verificare l’attendibilità scientifica della PAS (Cass. 7041/2013)
Una sentenza immediatamente successiva (Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2013, n. 7041) affer¬mava il principio utopistico – recepito con grande clamore dalla dottrina e nel dibattito tra i giuristi – che spetta al giudice, ricorrendo alle proprie cognizioni, ovvero avvalendosi di idonei esperti, verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti aspetti difformi dagli orientamenti tradizionali, talvolta criticati e comunque non da tutti condivisi, come nel caso della sindrome di alienazione genitoriale.
La sentenza in questione si occupò di una vicenda nella quale, nell’ambito di accordi tra coniugi omologati dal Tribunale di Padova, era stato concordato l’affidamento in via esclusiva del minore alla madre, con una regolamentazione dei rapporti del figlio minore con il padre che prevedeva una loro progressiva intensificazione in relazione alla crescita del bambino.I rapporti tra il minore e il padre si rivelavano presto soggetti ad involuzione, tanto che il padre del bambino, attribuendone la causa alla condotta della moglie, adiva il tribunale per i minorenni di Venezia che, nel contrad¬dittorio fra le parti prendeva atto che il figlio si rifiutava categoricamente di incontrare il padre (il quale escludeva una propria responsabilità a tale riguardo) e, all’esito dell’espletamento di con¬sulenza tecnica d’ufficio, con decreto del 2 ottobre 2009 pronunciava la decadenza dalla potestà genitoriale della madre sul minore, che veniva affidato al servizio sociale comunale pur rimanendo collocato presso la stessa madre.Alcuni mesi dopoil padre presentava ricorso al medesimo tribu¬nale per i minorenni di Venezia, chiedendo l’allontanamento del figlio dalla famiglia materna, con collocamento presso di sé, ovvero presso propri congiunti o i servizi sociali, diversi da quelli già individuati, rivelatisi inadeguati, e chiedeva comunque l’adozione di provvedimenti idonei a favori¬re il ripristino dei rapporti con il figlio. La madre, chiedeva la revoca della decadenza della potestà che era stata dichiarata nei suoi confronti. Il tribunale rigettava tanto la domanda di modifica del collocamento del minore, tanto quella di revoca della dichiarazione della decadenza dalla potestà e disponeva che il bambino fosse affidato al Servizio sociale comunale cui demandava, anche in collaborazione con altre istituzioni, di sostenere il percorso di riavvicinamento del minore al padre, da attuarsi mediante sostegno specialistico sia per il figlio che per ciascun genitore. Avverso tale provvedimento il padre e la madre proponevano reclamo. Il padre deduceva che, poiché la perma¬nenza del figlio presso la famiglia materna comportava un inasprimento della situazione patologi¬ca, già diagnosticata in precedenza dal consulente tecnico d’ufficio, e definita come “sindrome da alienazione parentale”, il bambino doveva essere collocato in un ambiente diverso e maggiormente idoneo a favorire il riavvicinamento alla figura paterna. La madre insisteva per essere reintegrata nella potestà.
La Corte di appello di Venezia, disponeva una consulenza tecnica d’ufficio, affidata allo psichiatra già nominato in precedenza, prendeva atto che il miglioramento dell’atteggiamento del figlio nei confronti del padre era meramente effimero. Constatava quindi che, nonostante fossero state ri¬spettate le prescrizioni circa i percorsi terapeutici già stabiliti, l’equilibrio psicofisico del minore ri¬sultava minato ed esposto a grave pericolo in relazione alla condizione in cui versava, determinata da un forte conflitto di fedeltà nei confronti della madre. Veniva evidenziato come l’immotivato e comunque ingiustificato rifiuto di rapporti con il padre fossero da attribuirsi a un’evidente alleanza collusiva tra la madre e il bambino e che, ad onta della già dichiarata decadenza dalla potestà ge¬nitoriale, la madre aveva mantenuto un potere assoluto sul figlio, che non risultava in alcun modo utilizzato per rivalutare la figura paterna e per favorire la ricostruzione di un rapporto con il padre evidentemente ritenuto “inutile e dannoso”.
Si riteneva, pertanto, che soltanto una diversa collocazione del minore potesse scongiurare l’ormai quasi cristallizzato rifiuto e odio dello stesso verso la figura paterna, e si rilevava altresì come l’età ormai adolescenziale del minore da un lato accrescesse il pericolo di uno sviluppo alterato irrever¬sibilmente dalla situazione patogenetica sopra indicata; dall’altro consentisse, senza gravi traumi, una collocazione in un ambiente scolastico/educativo dotato della necessaria specializzazione ed equidistante dai genitori. Si disponeva quindi, riservando ogni decisione sulle domande proposte con il ricorso incidentale all’esito della verifica, dopo un anno, della nuova regolamentazione, che il minore fosse affidato al padre ed inserito in una struttura residenziale educativa, prescrivendo la programmazione di incontri con entrambi i genitori, sulla base di uno specifico e dettagliato programma psicoterapeutico.
La madre ricorreva per cassazione. Preso atto che si trattava nella sostanza di una domanda di revisione delle condizioni di affidamento che sarebbe stata di competenza del tribunale ordinario il collegio rilevava come la questione non era stata sollevata nel corso del giudizio e che pertanto poteva procedersi ugualmente all’esame del ricorso. La ricorrente aveva censurato il fatto che la Corte d’appello di Venezia, pur recependo integralmente le conclusioni cui era pervenuto il consu¬lente tecnico d’ufficio, fondate sull’accertamento diagnostico, nei confronti del minore, della “sin¬drome da alienazione parentale” (PAS), non aveva esaminato le censure, specificamente proposte, sia in relazione alla validità, sul piano scientifico, di tale controversa patologia, sia in merito alla sua reale riscontrabilità nel minore e nella madre.
La Corte di cassazione riteneva il ricorso pienamente fondato, constatando in via preliminare come nella motivazione della sentenza impugnata la Corte territoriale, che pure aveva citato testual¬mente numerosi brani della consulenza tecnica d’ufficio, alla quale, a un certo punto, operava un richiamo nella sua integralità (pag. 4), aveva eluso di affrontare la questione centrale che era stata posta dalla madre del minore e che consisteva nel fatto che la condizione patologica del mi¬nore (nella stessa CTU, alla quale la Corte d’appello di era ampiamente richiamata) veniva riferita
unicamente alla condotta della madre “alienante”. Effettivamente nella CTU era scritto nella parte conclusiva che “L’attento accertamento commissionato dalla Corte di appello di Venezia, Sezione per i Minorenni porta inequivocabilmente a confermare, nella vicenda in attenzione di causa, la sussistenza di PAS, disfunzione ad intensa connotazione psicopatologica, che deve essere al più presto delimitata e interrotta al fine di tutelare il processo evolutivo del minore in attenzione, oggi già compromesso e prodromico, rebus sic stantibus, di futuro sviluppo psicopatologico”.
Ebbene, rilevava la Corte di cassazione che il decreto della Corte d’appello, richiamando le valu¬tazioni del consulente tecnico d’ufficio, affermava che il mantenimento dell’attuale collocamento del minore “non garantirà in termini certi ed irreversibili lo scioglimento di quel legame patogeno esistente fra madre e figlio, legame alla base del rilevato conflitto di fedeltà che sul piano tecnico urge risolvere”. Ben si vede – scrive il relatore della sentenza – come il provvedimento adottato as¬sume, proprio nell’ottica della teoria incentrata sulla PAS, una valenza clinica e giuridica assieme, nel senso che l’interesse del minore viene perseguito, al di là dei principi della bigenitorialità e della necessità dell’ascolto del minore (inteso non solo come mero recepimento delle sue istanze, anche affettive, ma come necessità di motivare adeguatamente provvedimenti adottati in difformità alle sue esternazioni), attraverso una serie di misure intese a prevenire, in funzione terapeutica, l’ag¬gravamento di una patologia in atto.
Deve quindi ritenersi che, come si afferma nel ricorso, il provvedimento impugnato sia intima¬mente correlato alla diagnosi di PAS formulata dal consulente tecnico d’ufficio, e che, essendo la statuizione adottata dalla Corte di appello rispondente a pretese esigenze terapeutiche, la sua validità, sotto il profilo non della scelta di merito, bensì del percorso motivazionale che la sorregge, dipenda esclusivamente da quella della valutazione clinica, posto che da una diagnosi in tesi errata non può derivare una terapia corretta.
La fondatezza delle censure della madre discende – secondo i giudici della Cassazione – dall’intrec¬cio di principi, parimenti disattesi, costantemente affermati in presenza di elaborati peritali che, interamente recepiti dal giudice del merito, siano stati sottoposti a specifiche censure, soprattutto quando, come nel caso in esame, venga in considerazione una teoria non ancora consolidata sul piano scientifico, ed anzi, molto controversa. Deve invero evidenziarsi che la ricorrente, nel pieno rispetto del principio di autosufficienza, ha richiamato le critiche mosse alla relazione depositata dal consulente tecnico d’ufficio, alla diagnosi dallo stesso formulata e, soprattutto, alla validità, sul piano scientifico, della PAS. Sono stati altresì richiamati i rilievi in base ai quali, anche volendo accedere alla validità scientifica della PAS, molti dei suoi caratteri, non sarebbero riscontrabili nel caso di specie.
Le esposte critiche non sono state esaminate nel provvedimento impugnato, così violandosi il prin¬cipio secondo cui il giudice del merito non è tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, potendo limitarsi ad un mero richiamo di esse, soltanto nel caso in cui non siano mosse alla consulenza precise censure, alle quali, pertanto, è tenuto a rispondere per non incorrere nel vizio di motivazione (Cass. 6 settembre 2007, n. 18688; Cass. 1 marzo 2007, n. 4797; Cass. 13 dicembre 2006, n. 28694).
Tale vizio è correttamente denunciato – come nel caso di specie – in sede di legittimità, attraverso una indicazione specifica delle censure non esaminate dal medesimo giudice (e non già tramite una critica diretta della consulenza stessa), censure che, a loro volta, devono essere integralmente trascritte nel ricorso per cassazione al fine di consentire, su di esse, la valutazione di decisività (Cass. 28 marzo 2006, n. 7078).
L’altro principio, parimenti disatteso e non meno importante, riguarda la necessità che il giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass. 14759 del 2007; Cass. 18 no¬vembre 1997, n. 11440), ovvero avvalendosi di idonei esperti, verifichi il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale (Cass. 3 febbraio 2012, n. 1652; Cass. 25 agosto 2005, n. 17324)
Il rilevo secondo cui in materia psicologica, anche a causa della variabilità dei casi e della natura induttiva delle ipotesi diagnostiche, il processo di validazione delle teorie, in senso popperiano, può non risultare agevole, non deve indurre a una rassegnata rinuncia, potendosi ben ricorrere alla comparazione statistica dei casi clinici.
Di certo non può ritenersi che, soprattutto in ambito giudiziario, possano adottarsi delle soluzioni prive del necessario conforto scientifico, come tali potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudentemente e rigorosamente verificate, pre¬tendono di scongiurare.
c) L’orientamento realistico: il giudice deve limitarsi ad accertare in concreto l’esistenza di una alienazione genitoriale (Cass. 6919/2016 e Cass. 13274/2019)
L’orientamento sopra segnalato ha trovato anche critiche, orientate a denunciarne la natura irrea¬listica, nella giurisprudenza di merito. Trib. Milano Sez. IX 13 ottobre 2014 dichiarava l’inam¬missibilità di un accertamento tecnico d’ufficio su un minore avente ad oggetto la verifica della P.A.S. in quanto non inserita tra le patologie nel Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali c.d. DSM-V. Ugualmente in Tribunale Milano, 11 marzo 2017 in cui si afferma che il termine alienazione genitoriale – se non altro per la prevalente e più accreditata dottrina scientifica e per la migliore giurisprudenza – non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutra¬lizzare l’altra figura genitoriale; condotte che non abbisognano dell’elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologia delle condotte medesime. Corte d’Appello Brescia, 17 maggio 2013 ha ritenuto che la mancanza di fondamento scientifico della PAS non esclude che essa possa essere utilizzata, ai fini del processo, per individuare un problema relazio¬nale in situazione di separazione dei genitori, pur non assumendo i connotati di una malattia vera e propria. Infatti, l’atteggiamento del bambino che rifiuta l’altro genitore, per un patto di lealtà con il genitore ritenuto più debole, può condurlo ad una forma di invischiamento capace di produrre nella sua crescita non solo una situazione di sofferenza, ma anche una serie di problemi psicologici alienanti. Il punto del processo è allora stabilire se i disturbi a carico del minore siano o non ricon¬ducibile alla responsabilità del genitore convivente, in quanto generati dal suo comportamento nei confronti dell’altro genitore.
Anche nella giurisprudenza di legittimità si è poi venuto a creare un orientamento più realistico che non attribuisce al giudice compiti implausibili di verifica dell’attendibilità scientifica di una tesi esposta in un ambito specialistico.
La decisione che ha impresso questa svolta realistica è Cass. civ. Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919 nella quale si chiarisce che “non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS”. Compete invece al giudice provare la eventuale alienazione genitoriale prescindendo dalla verifica della validità scientifica o meno della sindrome, affermando che qualora il genitore non affidatario o collocatario, per conseguire la modifica delle modalità di affidamento del figlio minore, denunci l’allontanamento morale e mate¬riale di quest’ultimo, attribuendolo a condotte dell’altro genitore, a suo dire espressive di una Pas (sindrome di alienazione parentale), il giudice di merito (prescindendo dalla validità o invalidità teorica di detta patologia) è tenuto ad accertare, in concreto, la sussistenza di tali condotte, alla stregua dei mezzi di prova propri della materia, quali l’ascolto del minore, nonché le presunzio¬ni, ad esempio desumendo elementi anche dalla eventuale presenza di un legame simbiotico e patologico tra il figlio ed il genitore collocatario, motivando quindi adeguatamente sulla richiesta di modifica, tenendo conto che, a tale fine, e a tutela del diritto del minore alla bigenitorialità ed alla crescita equilibrata e serena, tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali del figlio con l’altro genitore, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa su quest’ultimo Nell’affermare questo principio la Corte ha annullato la decisione di merito che, pur in regime di affidamento condiviso, aveva confermato il divieto di incontri del padre, non collocatario, con la figlia minore, preadolescente, in ragione del rifiuto da parte di quest’ultima, senza procedere agli accertamenti richiesti da tale genitore, che lamentava l’insorgenza di una PAS, determinata dalla madre collocataria).
Si trattava di una minore nata nel 2000 per la quale, dopo l’interruzione della convivenza dei genitori, il Tribunale per i minorenni di Milano con decreto del 27 marzo 2006, aveva disposto l’affidamento condiviso con collocazione presso la madre. Con successivo decreto del 18 novembre 2008, tenuto conto dell’atteggiamento della figlia di rifiuto del padre, il tribunale aveva vietato a quest’ultimo di frequentarla, prescrivendo però alla ragazza un percorso psicoterapeutico finaliz¬zato a fare riprendere i rapporti con il padre e a consentire ad entrambi i genitori di rivolgersi ai servizi psico-sociali per un sostegno allo svolgimento dei compiti genitoriali; con decreto 10 dicem¬bre 2011, rispondendo negativamente alle istanze con le quali il padre aveva dedotto l’esistenza di una “sindrome di alienazione genitoriale” determinata dalla campagna di denigrazione posta in essere dalla madre della minore nei suoi confronti, il Tribunale confermava il precedente decreto, respingendo le istanze del padre di nuovi accertamenti peritali.
La Corte d’appello di Milano, Sezione Minorenni, con decreto del 17 dicembre 2013, confermava l’affido condiviso della figlia ai due genitori nonché la residenza della ragazza presso la madre. Il padre ricorreva per cassazione denunciando la violazione del principio della bigenitorialità. Se¬condo il padre della ragazza la Corte d’appello avrebbe omesso del tutto di considerare che la madre della minore aveva ostacolato in ogni modo il suo rapporto con la ragazza e non era mai intervenuta efficacemente quando manifestava atteggiamenti ostili verso il padre. Inoltre lamen¬tava che era stato omesso l’espletamento di indagini specifiche volte ad individuare l’esistenza di una PAS (ParentalAlienationSyndrome), con ciò rivelando una ingiustificata posizione ideologica e negazionista che, in definitiva, aveva l’effetto di precludere la tutela dei suoi diritti di padre e dei diritti della figlia.
La Corte riteneva questo motivo fondato facendo rilevare che la decisione impugnata aveva con¬fermato il regime di affidamento condiviso con il contestato collocamento della figlia minore pres¬so la madre, sulla base delle seguenti proposizioni: “ S. è una ragazzina a rischio evolutivo, nel senso che il suo rifiuto del padre può precluderle relazioni mature e soddisfacenti e che lo stesso rapporto con la madre è contraddistinto da ambivalenza e aggressività”; il CTU. si era dichiarato contrario alla possibilità di incontri con il padre a breve, poiché si era verificato che la ragazza ave¬va avuto una crisi di panico alcuni giorni prima di uno di questi incontri; l’eziopatogenesi del suo atteggiamento era da rinvenire “nella relazione non particolarmente coinvolgente della coppia”, il che farebbe “implicitamente” escludere la configurabilità della sindrome di alienazione genitoriale (PAS) imputata dal ricorrente alla madre della minore.
Secondo la Cassazione la motivazione riportata è da considerare insufficiente ed anzi apparente, quindi censurabile anche alla luce del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalle Sezioni Unite (v. sent. n. 8053 e 8054/2014). La Corte d’appello, infatti, ha disposto l’interruzione della frequentazione del padre con la figlia in ragione della indisponibilità o avversione manife¬stata nei suoi confronti dalla ragazza, senza una approfondita indagine sulle reali cause del suo atteggiamento e seguendo l’indicazione finale del c.t.u., sebbene questi avesse evidenziato anche
i rischi che la distanza dalla figura paterna potesse nel tempo arrecare alla ragazza e, soprattutto, le analoghe criticità dei rapporti della ragazza con la madre, caratterizzati da “ambivalenza e ag¬gressività”, e tra gli stessi genitori. La decisione di escludere, in sostanza, il padre dalla vita della figlia appare come il risultato di una acritica adesione alle conclusioni finali del c.t.u., piuttosto che essere determinata da suoi non precisati comportamenti riprovevoli (cui la stessa Corte mostra di non attribuire rilievo, non soffermandosi su di essi e sulle relative fonti di prova, tenuto conto delle specifiche contestazioni mosse al riguardo dal ricorrente), con l’effetto di trascurare le specifiche censure avanzate e trascritte nel ricorso per cassazione (è noto che il giudice può aderire alle con¬clusioni del c.t.u., senza essere tenuto a una specifica motivazione, salvo che non formino oggetto di specifiche censure, v. Cass. n. 1149/2011). In particolare, il CTU nominato in primo grado aveva rilevato che “la madre limita di fatto la relazione tra padre e figlia attraverso un controllo continuo su ogni atto direttamente o tramite persone di sua fiducia. L’atteggiamento (…) trova una ragione nella particolare caratteristica di personalità strutturata secondo schemi rigidi”; lo stesso Tribuna¬le, nel decreto del 28 marzo 2007, aveva dato atto che “la madre sta arrecando gravi e irreparabili danni alla minore, inducendole paure e sospetti nei confronti della figura paterna” e le aveva pre¬scritto “di non ostacolare i rapporti tra la minore e il padre, dovendosi in caso contrario valutare un diverso collocamento d Questa Corte – conclude la sentenza – ha avuto occasione di osservare che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetu¬dine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione.
Pertanto, la conclusione realistica è che “non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS, ma è certo che i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte della figlia e sono venuti meno all’obbligo di verificare, in concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allon¬tanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore. Il giudice di merito, a tal fine, può utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e an¬che le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, laddove esistente, di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e uno dei genitori). Tali comportamenti, qualora accertati, pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità e, soprattutto, alla sua crescita equilibrata e serena.
A questa decisione ha fatto seguito, richiamandosi ad essa espressamente, Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2019, n. 13274 nella quale, in una vicenda in cui una preadolescente aveva manifestato un forte rifiuto verso il padre ed in cui i giudici di merito, avvalendosi delle conclusioni di una CTU che aveva evidenziato una PAS, avevano collocato la minore in una casa famiglia disponendo che dopo sei mesi sarebbe stata affidata al padre, ha messo in rilievo il fatto che il giudice può dare risalto alla diagnosi di sindrome da alienazione parentale formulata dai consulenti tecnici, fondata sul comportamento materno, ritenuto idoneo a generare un conflitto di lealtà nella prole, che può dare fondamento alla diagnosi di alienazione del figlio nei confronti del padre, ma ha anche chiarito che al di là della scelta di una o altra classificazione scientifica, ciò che rileva è l’individuazione di condotte tendenti ad escludere l’altro genitore e sovrapporre gli ambiti dell’affettività propria a quella del minore.
La Corte territoriale – afferma la orte di cassazione in questa sentenza – si è soffermata poi sui rapporti del minore con il padre, definito dallo stesso “bugiardo, violento e viscido” (così espri¬mendo però il vissuto degli adulti che hanno accesso alle sue emozioni), sulla sua situazione per¬sonale di sofferenza, conseguente alle vicende legate al conflitto genitoriale, di vittimismo (nella relazione con il padre e con i nonni paterni), richiamando gli episodi verificatisi anche nel contesto scolastico, di autolesionismo e lo stile generale di evitamento, concludendo per la sussistenza di un conseguente serio rischio di una compromissione importante dello sviluppo emotivo. La Corte territoriale ha poi escluso che vi fossero stati significativi episodi di violenza psichica o fisica del padre sul minore.
Tuttavia – conclude la sentenza – la decisione di escludere, per un semestre, la madre dalla vita del figlio (salvo la programmazione di incontri periodici del minore con i due genitori in ambiente controllato) appare come il risultato di una adesione alle conclusioni finali del C.T.U. (è noto che il giudice può aderire alle conclusioni del c.t.u., senza essere tenuto a una specifica motivazione, salvo che non formino oggetto di specifiche censure, v. Cass. n. 1149/2011).
E’ pur vero quindi che, qualora la consulenza tecnica presenti devianze dalla scienza medica ufficiale come avviene nell’ipotesi in cui sia formulata la diagnosi di sussistenza della PAS, non essendovi certezze nell’ambito scientifico al riguardo il Giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass. n. 11440/1997) oppure avvalendosi di idonei esperti, è tenuto a ve¬rificarne il fondamento (Cass. 1652/2012; Cass. 17324/2005), ma questa Corte ha osservato che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale pre¬senza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (v. Cass. n. 18817/2015, conf. Cass. 22744/2017).
Richiamando quindi i principi di diritto indicati nella decisione n. 6919/2016, la Corte conclude che, “ella specie, i giudici di merito hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte del figlio ed hanno dato rilevo ad alcuni comportamenti della madre, ritenuti come unicamente volti all’al¬lontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore. In ordine all’affidamento esclusi¬vo (e non condiviso) del figlio al padre, la Corte d’appello ha motivato sull’inidoneità della madre, essenzialmente a causa dei predetti comportamenti, richiamando comunque il giudizio espresso dai consulenti tecnici (anche sull’idoneità dell’altro genitore, affidatario esclusivo), ed ha inoltre disposto l’allontanamento della figura materna per un semestre e, per il periodo successivo, ha incaricato i servizi Sociali di programmare e garantire il rientro del minore presso la casa del padre e la gestione dei turni di responsabilità dei due genitori. La sentenza di appello non sviluppa ade¬guate e convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre all’affidamento, in una situazione di forte criticità dei rapporti tra la R. ed i Servizi sociali; in un tale contesto, la rinnovata richiesta di una consulenza tecnica è stata dalla corte territoriale respinta, stante la sufficienza della relazione svolta dai consulenti tecnici nominati e l’atteggiamento non collaborativo tenuto dalla madre. La decisione impugnata non spiega dunque per quale ragione l’affidamento in via esclusiva al padre, previo collocamento temporaneo dello stesso in una comunità o casa – famiglia, costituirebbe l’u¬nico strumento utile ad evitare al minore un più grave pregiudizio ed ad assicurare al medesimo assistenza e stabilità affettiva, sempre nell’ottica di assicurare l’esercizio del diritto del minore ad una effettiva bigenitorialità”.
VI Il punto di vista della Corte europea dei diritti dell’uomo
Tra i requisiti di idoneità genitoriale, ai fini dell’affidamento o anche del collocamento di un figlio minore presso uno dei genitori, rileva la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore.
L’importanza di tale diritto è testimoniata dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uo¬mo 9 gennaio 2013, n. 25704 (L. c. Italia) che ha affermato la violazione dell’art. 8 della con¬venzione da parte dello Stato italiano, in un caso in cui le autorità giudiziarie, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si erano impegnate a mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legame familiare tra padre e figlia minore, attraverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione legale tra i genitori. In particolare, quelle autorità si erano limitate reiteratamente e con formule stereotipate a conferma¬re i propri provvedimenti, nonché a prescrivere l’intervento dei servizi sociali, cui erano richieste di volta in volta informazioni e delegata una generica funzione di controllo, così determinandosi il consolidamento di una situazione di fatto pregiudizievole per il padre, mentre avrebbero dovuto rapidamente adottare misure specifiche per il ripristino della collaborazione tra i genitori e dei rap¬porti tra il padre e la figlia, anche avvalendosi della mediazione dei servizi sociali.
Il principio affermato dalla Corte è che In caso di separazione personale conflittuale tra coniugi, l’affidamento del figlio minorenne implica un diritto effettivo e concreto di visita del genitore presso il quale il minore non sia collocato. L’assenza di collaborazione tra i genitori in conflitto e, talora, l’atteggiamento ostile (da dimostrare nel caso concreto) del genitore collocatario nei confronti dell’altro genitore che impedisca di fatto al minore di frequentarlo, comporta una grave violazione del diritto del figlio al rispetto della vita familiare e non dispensa le autorità nazionali dall’obbligo di ricercare ogni mezzo efficace al fine di garantire il diritto del minore di frequentare adeguatamente e tempestivamente entrambi i genitori.
La vicenda
I fatti della causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue. Dalla relazione del ricorrente con una donna il 31 marzo 2001 nasceva una bambina. Il 29 gennaio 2003, a causa dei continui conflitti che laceravano la coppia, la donna lasciava la città di Roma, portando con sé la figlia a vivere presso la sua famiglia, in una cittadina del Molise. Dal momento della sua par¬tenza, la madre – secondo quanto prospettato dal ricorrente – manifestava una netta opposizione a qualsiasi relazione tra il padre e la figlia.Il 26 febbraio 2003 l’uomo chiedeva al tribunale per i minorenni di Roma l’affidamento della figlia.
Con decisione del 9 luglio 2003, il tribunale disponeva l’affidamento esclusivo della minore alla ma¬dre e concedeva al padre un diritto di visita da esercitarsi due pomeriggi a settimana, un week-end su due senza alloggio fino ai tre anni di età della minore, tre giorni a Pasqua, sei giorni a Natale e dieci giorni durante le vacanze estive.Il 20 agosto 2003, a causa delle difficoltà incontrate nell’e¬sercizio del diritto di visita, il ricorrente adiva il giudice tutelare della città in cui madre e figlia si erano trasferite. Egli lamentava di aver potuto incontrare la figlia una sola volta, il 25 luglio 2003,
per qualche minuto ed alla presenza della madre e dello zio della minore, e chiedeva il rispetto del suo diritto di visita.
Il 13 ottobre 2003 il giudice tutelare confermava il decreto del tribunale di Roma e precisava che gli incontri dovevano aver luogo nella sede dei servizi sociali alla presenza di un assistente sociale e della madre della bambina.Il 27 novembre 2003 il ricorrente adiva nuovamente il giudice tutelare per chiedere l’effettivo svolgimento degli incontri protetti. Il 23 dicembre 2003 il giudice tutelare confermava la decisione del 13 ottobre 2003. Il 26 gennaio 2004, sempre a causa delle difficoltà incontrate nell’esercizio del diritto di visita, il ricorrente adiva una terza volta il giudice tutelare, il quale, con decisione del 13 marzo 2004, confermava le decisioni precedenti. Il ricorrente afferma¬va che, tra il 2003 ed il 2004, la madre, che sarebbe stata presente agli incontri, aveva minacciato la figlia di abbandono, qualora la minore avesse detto di preferire restare sola con il padre.
Frattanto, il ricorrente aveva impugnato il decreto del tribunale di Roma del 9 luglio 2003 dinanzi alla corte d’appello di Roma, chiedendo l’affidamento della figlia, in subordine, un ampliamento del diritto di visita. Il perito nominato dalla corte d’appello osservava che la madre aveva opposto una forte resistenza agli incontri tra il ricorrente e la minore e che grazie al perito stesso ed ai suoi collaboratori era stato possibile che alcuni incontri si svolgessero in modo positivo senza la presenza della madre. Egli affermava, per contro, che i servizi sociali non avevano mai lavorato al fine di facilitare gli incontri menzionati ed avevano lasciato che la madre assistesse agli incontri tra padre e figlia. Con decreto del 19 ottobre 2004, la corte d’appello disponeva che gli incontri aves¬sero luogo sotto sorveglianza nella sede dei servizi sociali del capoluogo per tre pomeriggi al mese.
Il 30 marzo 2005 il ricorrente presentava un ricorso al tribunale della città, in cui affermava di aver potuto incontrare la figlia solo in rare occasioni, sosteneva che il decreto della corte d’appello non era stato rispettato e chiedeva l’affidamento della minore. Con decreto del 19 luglio 2005, il tribunale limitava la potestà genitoriale della madre, disponeva l’affidamento della minore ai servi¬zi sociali, confermando la collocazione della stessa presso il domicilio della madre, per consentire ai servizi sociali di vigilare affinché la minore costruisse una relazione equilibrata con il padre. Il tribunale osservava altresì che alla data del 3 giugno 2005 avevano avuto luogo solo sette incontri sui diciannove previsti, che la madre non aveva permesso allo psicologo nominato dal tribunale di vedere la minore, che il suo comportamento era finalizzato alla cancellazione della figura paterna e che i servizi sociali, nella relazione del 6 giugno 2005, avevano preso in considerazione solo le dichiarazioni della madre, ignorando la versione dei fatti fornita dal ricorrente. Dai documenti presentati risulta che, tra agosto 2005 e dicembre 2005, sui sedici incontri organizzati dai servizi sociali, il ricorrente ha incontrato la figlia solo dieci volte. Tra gennaio e febbraio 2006, gli incontri programmati non avevano avuto luogo, in quanto la madre non si era presentata. Con decreto dell’8 marzo 2006, il tribunale ordinava alla donna di non ostacolare l’esercizio del diritto di visita da parte del ricorrente e ordinava che i servizi sociali organizzassero nella loro sede, in presenza di un altro psicologo, gli incontri che non avevano avuto luogo tra il 2005 ed il 2006. In data 11 aprile 2006 i servizi sociali informavano il tribunale che, tra il 10 gennaio ed il 21 marzo, lo psico¬logo aveva potuto incontrare la minore solo cinque volte, sempre in presenza della madre, e che la bambina non voleva sentir parlare di suo padre. Il 27 maggio 2006 il tribunale constatava che il decreto dell’8 marzo 2006 non era stato rispettato e che la madre aveva scientemente operato al fine di troncare qualsiasi relazione tra il padre e la minore. Esso ordinava ai servizi sociali di prov¬vedere ad organizzare gli incontri che il tribunale aveva disposto e che i servizi stessi non avevano effettuato. Nel giugno 2006 il ricorrente incontrava lo psicologo dei servizi sociali, ma la madre non si presentava all’incontro e non vi conduceva la figlia. Il 26 settembre 2006 lo psicologo dei servizi sociali depositava una relazione sulla situazione della minore, in cui riferiva che, tra giugno e settembre, sui diciassette incontri previsti se ne erano tenuti solo undici. Egli osservava che la minore non accettava il padre e che questi si mostrava molto critico e rigido nei suoi rapporti con i servizi sociali. La madre della minore avrebbe confessato di non parlare mai del padre alla figlia, in quanto non voleva traumatizzare la minore, troppo giovane per comprendere la situazione. Lo psicologo aggiungeva che, pur manifestando grande empatia e grande attenzione nei confronti della bambina, la madre non collaborava allo sviluppo della relazione fra padre e figlia. Il 6 no¬vembre 2006 lo psicologo nominato dal tribunale in qualità di perito redigeva una relazione, nella quale suggeriva che la madre della minore seguisse un programma di sostegno psicologico e che, qualora il diritto di visita del ricorrente non venisse rispettato, dovessero essere modificate le mo¬dalità di affidamento della minore. Il 15 dicembre 2006 il tribunale, basandosi su detta relazione, ordinava alla madre della minore di seguire il programma consigliato dallo psicologo. Tra il 2006 ed il 2007, il ricorrente incontrava la minore solo qualche volta e solo per pochi minuti alla volta, a causa dell’ostilità della madre nei confronti di tali incontri. Con decreto del 9 febbraio 2007 il tri¬bunale ordinava alla donna di proseguire il suo programma di sostegno psicologico e di consentire gli incontri tra il ricorrente e la figlia.
Il 30 maggio 2007 il ricorrente depositava un nuovo ricorso presso il tribunale denunciando il mancato rispetto del suo diritto di visita, attribuendolo all’opposizione della madre ed all’inerzia dei servizi sociali. Sottolineava il mutamento di atteggiamento della bambina, la quale, in prece¬denza disponibile ad incontrarlo, sarebbe in seguito divenuta aggressiva nei suoi confronti. Inoltre chiedeva l’affidamento della minore. Il 17 luglio 2007 il tribunale confermava che gli incontri tra il ricorrente e la bambina dovevano tenersi che la madre doveva proseguire il suo programma di sostegno psicologico. Nel mese di agosto 2007, il ricorrente incontrava la figlia quattro volte. Il 10 dicembre 2007 il tribunale rilevava che la donna stava seguendo un programma di sostegno psico¬logico e la invitava a proseguire. Esso disponeva l’affidamento congiunto della minore ed incarica¬va i servizi sociali di organizzare tre incontri al mese uno in Molise ed uno a Roma in presenza di un assistente sociale. Ordinava alla madre della bambina di esortare la figlia minore ad incontrare il ricorrente. I servizi sociali organizzavano uno solo degli incontri previsti a Roma.
Il 1° luglio 2008, il ricorrente impugnava il decreto del 10 dicembre 2007 dinanzi alla corte d’ap¬pello nel quale affermava che la bambina aveva subito un danno irreparabile dovuto all’ostinata resistenza opposta dalla madre e chiedeva che la minore potesse vivere a Roma. La corte d’appello incaricava un perito di riesaminare la situazione della minore. Il perito giungeva alla conclusione che la minore soffrisse di una depressione infantile e sottolineava la necessità che la medesima riallacciasse i legami con il padre. Con decreto del 27 giugno 2009, la corte d’appello del Molise confermava il decreto del tribunale ed ordinava ai servizi sociali di dare attuazione al diritto di visita secondo le modalità stabilite. Durante l’estate 2009 il ricorrente trascorreva un pomeriggio in spiaggia con la bambina, in presenza del perito nominato dalla corte d’appello per convincere la madre. In seguito avevano luogo alcuni incontri in presenza della madre.
In data 20 agosto 2009 i servizi sociali informavano la corte d’appello che a Roma non era stato or¬ganizzato nessun incontro e che il padre aveva trascorso dei week-end in Molise per poter stare vici¬no alla figlia. Essi spiegavano che la minore temeva che il padre potesse allontanarla dalla madre e chiedevano al tribunale di vigilare sul benessere della minore, la quale sarebbe stata traumatizzata da una presunta aggressione del ricorrente, in occasione di uno degli incontri. Con decreto del 5 novembre 2009, il tribunale del capoluogo molisano richiamava ancora una volta l’attenzione sulla necessità che tutte le parti si conformassero al precedente decreto del 27 giugno 2009, suggerendo di prevedere un sostegno psicologico per la minore, al fine di superare la sua resistenza agli incon¬tri con il padre. Il ricorrente contattava i servizi sociali per lamentare l’assenza di assistenti sociali durante gli incontri. In una relazione, depositata il 14 gennaio 2010, i servizi sociali affermavano che, per carenza di personale disponibile il sabato e la domenica, non avevano potuto assicurare lo svolgimento degli incontri. Il 24 febbraio 2010 il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del Molise chiedeva la sospensione degli incontri tra il ricorrente e la minore.
Il 13 maggio 2010 il tribunale di Campobasso rigettava la richiesta del procuratore, argomentando che una siffatta decisione avrebbe avuto l’effetto di annullare il lavoro svolto per vari anni e di peggiorare il conflitto fra i genitori. Esso incaricava i servizi sociali di predisporre un programma di sostegno psicologico per la bambina e di assicurare il rispetto del diritto di visita. Tra maggio e no¬vembre 2010, malgrado le richieste rivolte dal ricorrente ai servizi sociali, non veniva organizzato alcun incontro. Il 9 agosto 2010, il ricorrente chiedeva al tribunale di far rispettare il precedente decreto e di intervenire per far sì che egli potesse incontrare la figlia. Con nota del 24 agosto 2010, il tribunale confermava ai servizi sociali che non era stata decisa alcuna sospensione degli incontri e che, di conseguenza, i medesimi dovevano aver luogo secondo le modalità già stabilite dalla corte d’appello nel giugno 2009. Con decreto del 27 ottobre 2010, il tribunale osservava che i rap¬porti tra il ricorrente e la figlia minore erano interrotti de facto, e che ciò nuoceva alla minore, ma constatava che il precedente decreto emesso dalla corte d’appello il 25 giugno 2009 in relazione al diritto di visita non era stato modificato. In data 3 gennaio 2011 i servizi sociali della residenza della minore inviavano al tribunale una relazione aggiornata sulla situazione della minore, riferen¬do in particolare che la madre era disposta a collaborare e che il padre mostrava un atteggiamento polemico, che risultava nefasto per la minore. Il 17 gennaio 2011 i servizi sociali comunicavano al tribunale che la minore proseguiva il programma di sostegno psicologico e che rifiutava di parlare con il padre. Lo psicologo informava altresì il tribunale che non era stato possibile organizzare un incontro con il padre, nonostante le convocazioni scritte indirizzate al medesimo. Il 21 gennaio 2011 i servizi sociali invitavano i due genitori della minore a fissare il calendario degli incontri. Il ricorrente, che aveva subito un’operazione, non si presentava. Il 12 aprile 2011 i servizi sociali informavano il tribunale che nel mese di marzo 2011 il ricorrente non si era presentato agli incontri fissati. Con relazione depositata il 3 ottobre 2011, i servizi sociali comunicavano al tribunale che la minore accettava di vedere il padre e che, durante l’estate, gli incontri previsti avevano effettiva¬mente avuto luogo. Con decreto del 17 novembre 2011 il tribunale rilevava che nell’ultimo periodo la madre non si era opposta agli incontri e che il percorso psicologico seguito dalla minore era po¬sitivo. Constatando che i genitori non avevano presentato nessun’altra richiesta, ordinava ai servizi sociali di vigilare affinché la minore proseguisse il programma di sostegno psicologico ed archiviava il procedimento. Il 28 maggio 2007 la madre della minore veniva condannata ad un mese di reclu¬sione con la sospensione condizionale per inosservanza delle decisioni del tribunale concernenti il diritto di visita. Il 12 ottobre 2010 la suddetta veniva condannata per calunnia e diffamazione ad un anno e sei mesi di reclusione con la sospensione condizionale. Il 17 gennaio 2011 veniva altresì condannata ad una multa per inosservanza delle decisioni emesse dal tribunale per i minorenni.
Il ricorrente lamentava una violazione del suo diritto al rispetto della vita familiare in quanto, nonostante le molteplici decisioni emesse dal tribunale per i minorenni sulle modalità di esercizio del diritto di visita, non avrebbe potuto esercitare pienamente tale diritto dopo l’allontanamento della figlia e della madre della minore avvenuto nel 2003. Egli contestava ai servizi sociali di aver usufruito di un’eccessiva autonomia nell’esecuzione delle decisioni del tribunale per i minorenni ed a quest’ultimo di non aver esercitato, come avrebbe dovuto, un controllo costante sul lavoro dei servizi sociali, affinché la condotta dei medesimi non inficiasse le decisioni del tribunale. De¬nunciava, inoltre, la totale inerzia dimostrata, talvolta per lunghi periodi, dai servizi sociali, i quali avrebbero demandato alla madre della minore il compito che spettava loro, ossia la gestione degli incontri. Infine, il ricorrente sottolineava che il tempo trascorso aveva avuto conseguenze molto gravi per la sua relazione con la figlia ed Invocava l’articolo 8 della Convenzione, secondo cui ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita familiare.
La valutazione della Corte europea
La valutazione della Corte è stata la seguente. Come la Corte ha più volte rammentato, se l’articolo 8 ha essenzialmente per oggetto la tutela dell’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubbli¬ci, esso non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da tali ingerenze: a tale obbligo negativo possono aggiungersi obblighi positivi attinenti ad un effettivo rispetto della vita privata o familiare. Essi possono implicare l’adozione di misure finalizzate al rispetto della vita familiare, incluse le relazioni reciproche fra individui, e la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate. Tali strumenti giuridici devono permettere allo Stato di adottare misure atte a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori. Essa rammenta altresì che gli obblighi positivi non implicano solo che si vigili affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di pervenire a tale risultato. Per essere adeguate, le misure volte a riunire genitore e figlio devono essere attuate rapidamente, in quanto il decorso del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il minore ed il genitore non convivente.
La Corte precisava che il fatto che gli sforzi delle autorità siano stati vani non implica automati¬camente che lo Stato abbia disatteso gli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzio¬ne. In effetti, l’obbligo in capo alle autorità nazionali di adottare misure idonee a riavvicinare il genitore ed il figlio non conviventi non è assoluto e la comprensione e la cooperazione di tutte le persone coinvolte costituiscono sempre un fattore importante. Seppure le autorità nazionali devo¬no impegnarsi a facilitare tale collaborazione, l’obbligo in capo alle medesime di ricorrere alla co¬ercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tener conto degli interessi, nonché dei diritti e delle libertà di dette persone ed in particolare dell’interesse superiore del minore e dei diritti conferiti al medesimo dall’articolo 8 della Convenzione. Come costantemente sancito dalla giurisprudenza della Corte, è necessaria grande prudenza prima di ricorrere alla coercizione in una materia così delicata e l’articolo 8 della Convenzione non autorizza i genitori a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del minore.
Il punto decisivo consiste dunque nell’appurare se le autorità nazionali abbiano adottato, allo sco¬po di facilitare il diritto di visita, ogni misura necessaria che si potesse ragionevolmente esigere da esse.
La Corte, esaminando la sequenza dei fatti, rilevava che invece di adottare misure atte a consen¬tire l’esercizio del diritto di visita del ricorrente, il tribunale si era limitato a prendere atto della situazione della minore e ad ordinare più volte ai servizi sociali la prosecuzione del programma di sostegno psicologico a beneficio dapprima della madre ed in seguito anche alla minore.
E benché non sia compito della Corte europea sostituirsi alla valutazione operata dalle competenti autorità nazionali sulle misure da adottare, in quanto tali autorità possono, in linea di principio, effettuare più efficacemente tale valutazione, tuttavia, “essa non può ignorare la circostanza che nel caso di specie il tribunale ha più volte osservato che il mancato esercizio del diritto di visita del ricorrente fosse imputabile alla madre”. Inoltre, essa osserva che il tribunale aveva atteso il 2006 per ordinare alla madre della minore di seguire un programma di sostegno psicologico e il 2009 per disporre che anche la minore seguisse detto programma.
La Corte riconosce che le autorità si trovavano nel caso di specie di fronte ad una situazione molto difficile, dovuta specificamente alle tensioni fra i genitori della minore. Essa ritiene tuttavia che una mancanza di collaborazione fra i genitori separati non possa dispensare le autorità competenti dall’adozione di ogni mezzo atto a mantenere il legame familiare. Nel caso di specie le autorità nazionali non hanno invece fatto tutto ciò che ci si poteva ragionevolmente attendere da esse, dal momento che il tribunale ha delegato la gestione degli incontri ai servizi sociali. Esse sono quindi venute meno al loro dovere di adottare misure pratiche al fine di indurre gli interessati ad una migliore collaborazione, tenendo comunque conto del superiore interesse della minore.
La Corte osservava, inoltre, che lo svolgimento del procedimento dinanzi al tribunale evidenziava piuttosto una serie di misure automatiche e stereotipate, quali le successive richieste di infor¬mazioni e la delega della funzione di controllo ai servizi sociali, ai quali veniva ordinato di far rispettare il diritto di visita. Le autorità hanno così lasciato che si consolidasse una situazione di fatto generata dall’inosservanza delle decisioni giudiziarie, mentre dal semplice decorso del tempo derivavano delle conseguenze sulla relazione del padre con la minore.
In queste circostanze, la Corte riteneva che, di fronte a tale situazione, le autorità avrebbero dovuto adottare misure più dirette e specifiche finalizzate a ristabilire il contatto tra il ricorrente e la figlia. In particolare, la mediazione dei servizi sociali avrebbe dovuto essere utilizzata per in¬coraggiare le parti a collaborare ed i servizi sociali avrebbero dovuto organizzare, secondo quanto disposto dai decreti del tribunale, gli incontri tra il ricorrente e la figlia, inclusi quelli che avrebbero dovuto tenersi a Roma. Le autorità giudiziarie nazionali non hanno invece adottato alcuna misura adeguata al fine di creare in futuro le condizioni necessarie all’effettivo esercizio del diritto di visita del ricorrente.
Tenuto conto di ciò che precede e nonostante il margine di apprezzamento dello Stato convenuto in materia, la Corte concludeva che le autorità nazionali avevano omesso di profondere un impegno adeguato e sufficiente a far rispettare il diritto di visita del ricorrente violando in tal modo il suo diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione.
VII Alienazione genitoriale e diritto penale
a) Condotta alienante e sottrazione consensuale di minore (articoli 573 e 574 c.p.)
In linea di massima il comportamento del genitore che mette in atto consapevolmente una con¬dotta che ostacola sistematicamente il rapporto tra il figlio e l’altro genitore, può astrattamente integrare il reato di cui all’art. 574 c.p. (sottrazione consensuale di minorenne).
Nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare il codice penale prevede alcune fattispecie (di¬stribuite negli articoli 573, 574 e 574-bis) caratterizzate da comportamenti di “sottrazione” di un minorenne ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale.
Secondo l’impostazione del codice penale costituisce reato “sottrarre” un minore di età al genitore che esercita la responsabilità genitoriale, cioè – in linea di prima approssimazione e salvo a preci¬sare meglio l’elemento materiale del reato – allontanarlo dal genitore ovvero condurlo e trattenerlo lontano da lui in modo da impedire od ostacolare l’esercizio delle funzioni genitoriali.
Si tratta quindi di un delitto che vede innanzitutto leso l’esercizio della genitorialità e in questo senso è certamente coerente la collocazione dei reati di “sottrazione” nell’ambito di quelli contro la famiglia (titolo XI del libro secondo del codice penale). La lesione delle funzioni genitoriali appare sistematicamente richiamata nella giurisprudenza (Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 42370; Cass. pen. Sez. VI, 4 marzo 2002, n. 11415).
Va, però, ricordato che i comportamenti di “sottrazione” hanno anche, e soprattutto, la loro vittima nello stesso minore sottratto all’esercizio delle funzioni di cura, di vigilanza di orientamento e di custodia per lui essenziali esercitate da ciascuno dei genitori. Il principio è stato molto opportuna¬mente ribadito da Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 17799 che, con riferimento al reato di sottrazione di un minore infraquattordicenne ha osservato che “la sottrazione di un minore degli anni quattordici al genitore esercente la responsabilità genitoriale o la sua ritenzione contro la volontà di questi, come previste dall’art. 574, comma 1, c.p. proteggono lo stesso bene giuridico incentrato sulla protezione degli interessi del minore, interferendo sui suoi diritti e distogliendolo dalle direttive a lui impartite dal genitore”.
La natura plurioffensiva era stata già affermata molto chiaramente anche Cass. pen. Sez. V, 8 luglio 2008, n. 37321 e da Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 20950) sulla base della stessa considerazione e cioè che con tali reati si lede non soltanto il diritto di chi esercita le respon¬sabilità genitoriali, ma anche quello del figlio a crescere nel rapporto con entrambi i genitori. Anche la giurisprudenza di merito ha espresso le stesse valutazioni: per esempio Trib. Trento, 1 aprile 2011 ha affermato che le fattispecie di “sottrazione” si presentano come lesive sia dell’interesse del figlio a crescere con il sostegno e la guida di entrambi i genitori, sia del genitore stesso che vede, così, profondamente menomata la possibilità di esercitare pienamente la potestà genitoriale instaurando e coltivando un rapporto con la propria prole che sia connotato da cura, assistenza, affettività e supporto educativo.
È evidente che un comportamento sistematico che cagiona l’alienazione genitoriale può integrare il reato in questione. Eppure non vi sono precedenti specifici su questo aspetto che richiamano espressamente l’alienazione genitoriale.
A differenza di quanto per lo più avveniva in passato (allorché i comportamenti di “sottrazione” più frequenti erano per lo più posti in essere da estranei alla famiglia), il tema della sottrazione concerne oggi soprattutto l’ambito dei rapporti tra genitori e l’ambito delle relazioni del figlio mi¬nore con ciascuno dei genitori. Un contenzioso statisticamente significativo in materia di reati di “sottrazione” è costituito proprio dall’allontanamento (materiale ma anche psicologico) di un figlio “sottratto” da un genitore all’altro.
b) Inosservanza dei provvedimenti del giudice civile in materia di affidamento (art. 388 c.p.)
L’articolo 388 del codice penale (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) – delitto contro l’autorità delle decisioni giudiziarie – costituisce una tra le norme più ricorrenti nel contenzioso penale in diritto di famiglia. Il nucleo centrale della norma, per quanto almeno concer¬ne i comportamenti penalmente rilevanti nel diritto di famiglia (dal momento che la norma ha una portata molto più ampia riguardando molteplici altri comportamenti elusivi), è nel secondo comma che punisce con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 ad euro 1.032 “chiunque elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice… che concerne l’affidamento dei minori o di altre persone incapaci…”.
L’elusione dei provvedimenti del giudice in materia di affidamento di minori (art. 388, secondo comma, c.p.) assicura pacificamente tutela a qualsiasi statuizione in materia di affidamento, anche contenuta nell’ordinanza presidenziale di separazione o in un decreto camerale di modifica o di regolamentazione dell’affidamento di figli nati fuori dal matrimonio.
Il reato è perseguibile a querela della persona offesa da identificarsi non nel minore (che certa¬mente è anche da considerare destinatario della tutela penale, come si desume anche dall’art. 709-terc.p.c. che prevede anche a suo favore, in caso di violazioni del regime di affidamento, la possibilità di un risarcimento dei danni) ma nel soggetto al quale il provvedimento attribuisce il diritto di pretendere l’adempimento dell’obbligazione. Nel caso di elusione di provvedimenti con¬cernenti l’affidamento questo soggetto è in genere uno dei genitori.
Tutte le questioni che si pongono in tema di mancata esecuzione dolosa dei diversi provvedimenti del giudice richiamati dalla norma penale possono essere risolte se si chiarisce esattamente la ratio di questa norma. Bisogna cioè verificare se l’art. 388 del codice penale è teso a sanzionare penalmente la semplice inottemperanza ai provvedimenti del giudice indicati (che il legislatore ha selezionato come più bisognosi di tutela) ovvero se l’obiettivo della norma penale è diverso.
La scelta della soluzione interpretativa è stata fatta da Cass. pen. Sez. Unite, 27 settembre 2007, n. 36692 dove – in una vicenda relativa all’inottemperanza ad un provvedimento posses¬sorio – si è affermato molto chiaramente che l’interesse tutelato dall’art. 388 c.p., non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali (e quindi l’inottemperanza non costituisce di per sé reato), bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione Entrambe le fattispecie previste dai primi due commi dell’art. 388 c.p. hanno in realtà per oggetto giuridico l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale. Con la conseguenza che costituiscono reato solo quei comportamenti che frustrano l’attuazione del provvedimento. E perciò, quando – come avviene nel diritto di fa¬miglia – la natura personale e infungibile delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva del provvedimento giudiziale escludono che l’esecuzione possa prescindere dal contributo dell’ob¬bligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del giudice, ma impedisce o comunque ostacola l’esecuzione, incidendo così sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice. Quindi il rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’art. 388 c.p., comma 2 non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato.
È questa interpretazione perciò che deve essere tenuta presente per la soluzione dei problemi che la norma pone, a cominciare da quello sul significato dell’espressione “eludere il provvedimento del giudice”.
È diventata assolutamente uniforme in giurisprudenza negli ultimi anni – a partire dalla sopra richiamata decisiva e articolata decisione delle Sezioni Unite – l’interpretazione che riferisce il termine “elusione” a un significato che fa leva non tanto sulla condotta subdola, fraudolenta o meno, quanto sul concetto di collaborazione dell’obbligato. Sussiste l’inottemperanza penalmente sanzionata tutte le volte in cui, a prescindere da comportamenti omissivi o commissivi, l’adempi¬mento dell’obbligazione presuppone la collaborazione dell’obbligato. L’inottemperanza non costitu¬isce reato, invece, allorché l’attuazione del provvedimento non richiede un intervento agevolatore del soggetto obbligato.
Ebbene, nell’ambito dell’attuazione delle decisioni relative all’affidamento di minori, è difficile se non impossibile ipotizzare comportamenti che non presuppongano la collaborazione dell’obbliga¬to. Pertanto l’inadempimento ai provvedimenti in materia di affidamento di minori finisce è, in sostanza, sempre penalmente sanzionato. Perciò quando l’obbligato deve prestare una qualche collaborazione affinché il provvedimento sia attuato correttamente, l’inadempimento, costituisce reato. Questo è il contenuto precettivo vivente dell’art. 388 del codice penale.
Anche per i provvedimenti che riguardano l’affidamento di un minore il principio in base al quale sussiste l’inadempimento penalmente sanzionato tutte le volte in cui l’adempimento dell’obbli¬gazione presuppone la collaborazione dell’obbligato si è da tempo consolidato in giurisprudenza (Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118; Cass. pen. Sez. VI, 11 maggio 2010, n. 33719; Cass. pen. Sez. III, 7 aprile 2010, n. 24294; Cass. pen. Sez. VI, 11 giugno 2009, n. 32846; Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 27995). Il principio generale che emerge da queste decisioni è che l’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concer¬ne l’affidamento di minori può connettersi ad un qualunque comportamento da cui derivi la fru¬strazione delle legittime pretese altrui, compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo, in quanto l’ottemperanza al provvedimento richiede necessariamente la collaborazione dell’obbligato.
Molto chiaro in proposito Trib. Napoli Portici, 10 giugno 2013 in un caso di affidamento con¬diviso secondo cui l’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concretarsi in qualunque comportamento da cui derivi la “frustrazione” delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo e quando per l’esercizio delle facoltà attribuite al genitore non affidatario in via prevalente sia necessaria la collaborazione di quello prevalente. Analogamente Trib. Bari Sez. I, 10 maggio 2013 secondo cui “il concetto di elusione presuppone una forma di scaltrezza, sotterfugio o raggiro che non può che manifestarsi in forma commissiva, tanto che, laddove la legge ha ritenuto sufficiente, ai fini della sanzione penale, una mera condotta omissiva, lo ha espressamente sancito. La norma in oggetto mira a tutelare non tanto l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza di ispirazione costituzionale, dell’effettività della giurisdizione. Il mero rifiuto o l’omissione di ottem¬perare ai provvedimenti di cui all’art. 388, comma 2°, c.p., non costituisce condotta elusiva penal¬mente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte o la natura interdittiva del provvedimento non implichino il contributo dell’obbligato all’esecuzione”.
In senso sostanzialmente analogo sulla sussistenza del reato in caso di violazione di obbligazioni di collaborazione di sono espressi Trib. Bari Sez. I, 23 ottobre 2012; App. Taranto, 24 ottobre 2011; Trib. Arezzo, 12 settembre 2011; Trib. Rieti, 15 giugno 2011; Trib. Napoli Sez. IV, 15 ottobre 2008.
Si deve, quindi, attribuire rilevanza non alla differenza tra comportamenti commissivi e comporta¬menti omissivi, quanto all’esistenza o meno di un onere di collaborazione da parte di chi è obbli¬gato all’adempimento del provvedimento. Tutte le volte in cui questa collaborazione sia richiesta oggettivamente dal provvedimento, l’inadempimento sarà penalmente sanzionabile a prescindere dalla natura commissiva od omissiva della condotta.
È possibile selezionare nell’ambito del diritto di famiglia comportamenti per i quali è necessaria la collaborazione dell’obbligato da quelli per i quali tale collaborazione non è richiesta? E’ praticabile, cioè, nell’ambito dei provvedimenti di affidamento, una distinzione o tutti i provvedimenti di affida¬mento richiedono necessariamente la collaborazione dell’obbligato? In verità tutti i comportamenti in materia di affidamento presuppongano la collaborazione dell’obbligato dal momento che i prov¬vedimenti in questione sono oggettivamente infungibili.La conclusione è, dunque, che in materia di affidamento di minori la infungibilità della prestazione e quindi la necessaria collaborazione dell’obbligato all’adempimento rendono sanzionabile sempre ai sensi dell’art. 388 codice penale la mancata ottemperanza al provvedimento del giudice.
È questa l’interpretazione severa ormai adottata dalla giurisprudenza in materia di inottemperanza alle disposizioni in materia di diritto di visita dei figli (Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31712chiarisce in proposito che “è sufficiente la realizzazione di un›omissione contrastante con l›obbligo stabilito nel provvedimento giudiziale, rientrando tale comportamento omissivo antido¬veroso nel concetto di “elusione” impiegato dal legislatore per la descrizione della ipotesi delit¬tuosa”. Nella giurisprudenza di merito Trib. Ivrea, 23 maggio 2014; Trib. Firenze Sez. II, 10 febbraio 2014.
Trib. Monza, 26 novembre 2012 ha confermato la condanna di un genitore che, impedendo al coniuge separato di ricevere e tenere con sé la figlia minore, eludeva l’ordinanza del Tribunale civile con la quale si attribuiva all’altro genitore il diritto di vedere la figlia, attuando comporta¬menti pretestuosi, volti a non consentire l’espletamento degli incontri o comunque finalizzati a renderli oltremodo difficili. App. Milano Sez. II, 9 giugno 2011 ha ritenuto applicabile la san¬zione penale nei confronti di chi con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, omettendo di far trovare in casa i figli per le preannunciate ferie estive con il padre, ostacolava il diritto di visita di quest’ultimo, contravvenendo ad un ordine del giudice. Il comporta¬mento del genitore separato che ostacoli o non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico di favore nei confronti del genitore non affidatario, assume rilevanza penale. Secondo Trib. Roma, 30 maggio 2005 la previsione penale dell’articolo 388, comma 2, del c.p. è posta a tutela dell’interesse del minore a vedere salvaguardata la relazione con entrambi i genitori; pertanto il reato di cui all’articolo 388, comma 2, del c.p. è integrato qualora emerga un rifiuto da parte dell’altro genitore di consegnare il bambino secondo i tempi e le modalità stabilite, che deve assumere carattere continuativo e sistematico, in modo da porsi in contrasto con l’interesse del minore e integrare il concetto di elusione previsto dalla fattispecie. L’inadempimento continuato e ingiustificato al dovere di favorire gli incontri del figlio con l’altro genitore è stato ritenuto fonte di responsabilità civile non trascurabile (Trib. Roma, 13 giugno 2000).
Per quanto concerne la giurisprudenza di legittimità, Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 27995 ha confermato la condanna per un genitore che aveva impedito all’altro genitore di tra¬scorrere con il figlio il periodo di vacanza prestabilito. Nella stessa direzione Cass. pen. Sez. VI, 6 ottobre 2005, n. 41003, nel confermare la condanna per la madre che si era allontanata dal luogo di residenza nei giorni concordati per gli incontri dei figli minori con il padre, ha affermato il principio che qualora in sede di separazione fra i coniugi il giudice civile abbia disposto l’affi¬damento dei figli minori alla madre con la possibilità per il padre di incontrarli periodicamente, l’allontanamento della madre dal luogo di residenza nei giorni concordati per gli incontri integra il reato di cui all’ art. 388 cod. pen. senza che a tale scopo abbia rilevanza che tale allontanamento fosse stato preventivamente annunciato.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118 l’’elusione dell’esecuzione di un prov¬vedimento del giudice civile che concerna l’affidamento di minori può connettersi ad un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, compresi gli atteggia¬menti di mero carattere omissivo. Ne consegue la rilevanza penale della condotta del genitore affidatario il quale, esternando al figlio un atteggiamento di rifiuto a proposito degli incontri con il genitore separato, non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore. Analogamente Cass. pen., Sez. fe¬riale, 12 settembre 2003 ha stabilito che il rifiuto del minore di vedere il padre non esonera la madre dal dovere di adottare i comportamenti strettamente indispensabili a consentire l’esercizio effettivo del diritto di visita al padre, non fornendo sul piano materiale e su quello del rapporto con la figlia minore, quell’apporto minimo in termini di coordinamento e cooperazione che è sem¬pre necessario per garantire l’esecuzione secondo buona fede dei provvedimenti del giudice civile concernenti i minori.
c) Il che modo il consenso del minore può avere rilevanza per escludere i reati?
Poiché il reato di sottrazione (che altrimenti sarebbe un sequestro di persona) si consuma sostan-zialmente con il consenso del minore (anche se esigenze di protezione hanno indotto il legislatore a prevedere espressamente il consenso solo per il figlio ultra-quattordicenne), e poiché anche in sede di inosservanza dei provvedimenti del giudice civile in materia di affidamento non può farsi ameno di considerare il comportamento e la volontà del minore, si pone il problema di compren¬dere quale libertà può essere oggi riconosciuta al minore nella relazione con i propri genitori anche separati. In che termini il comportamento di “sottrazione” del figlio effettuato da un genitore in danno dell’altro o quello di “violazione” delle regole dell’affidamento può essere influenzato dal consenso o dal dissenso del minore. Sussistono, insomma, i reati in questione se è il figlio che rifiuta il rapporto con l’altro genitore?
Nella giurisprudenza penale sulla “sottrazione” del minore ultraquattordicenne consenziente (art. 573 c.p.) e sulla “sottrazione” del minore infra-quattordicenne (art. 574 c.p.) il problema non emerge in modo significativo. Pur tuttavia non è pensabile che il consenso o il dissenso del mi¬nore non abbiano influenza sulla sussistenza del reato o sulla sua punibilità. Avviene spesso, per esempio, che un genitore si difenda dall’accusa di aver sottratto il figlio all’altro assumendo che il figlio stesso avrebbe espresso il desiderio o addirittura avrebbe chiesto esplicitamente di non frequentare l’altro genitore. In che modo l’opinione del figlio minore deve essere tenuta in consi¬derazione? Può il genitore imputato di sottrazione o di inosservanza invocare lo stato di necessità o l’assenza di dolo?
Di un certo aiuto potrebbe essere invece la giurisprudenza che si è formata sull’art. 388 del codice penale in ordine alla valutazione dell’elusione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria in materia di affidamento di minori. Qui spesso il problema ricorrente è proprio quello in cui uno dei genitori assume di non essere responsabile del reato in quanto è il figlio che rifiuta di incontrare o di avere contatti con l’altro genitore.
Anche in questo caso – per il quale evidentemente non può prescindersi dall’età del minore – la giurisprudenza ha richiamato il tema di fondo della collaborazione dell’obbligato riconoscendo in alcuni casi la mancanza di dolo (App. Campobasso, 16 aprile 2013) ed in altri più numerosi, invece, che il dolo sussiste sotto il profilo che è dovere di un genitore attivarsi concretamente “af¬finché il figlio minore maturi un atteggiamento psicologico di favore nei confronti del genitore non affidatario” (App. Milano, Sez. II, 9 giugno 2011).
Quest’ultimo punto di vista è stato spesso richiamato anche dalla giurisprudenza di legittimità. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26810 ha confermato una decisione di merito ritenendo sempre necessaria “una attiva e doverosa collaborazione da parte del genitore affida¬tario alla riuscita delle visite e degli incontri con l’altro genitore stabiliti con il provvedimento del giudice”. Ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118 ha precisato che sussiste il reato di cui all’art. 388 c.p. “se risulta che il genitore affidatario non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore”. Cass. pen. Sez. feriale, 12 settembre 2003 ha ritenuto che il rifiuto del minore di incontrare il padre non esonera la madre dal dovere di adottare i comportamenti indispensabili a consentire gli incontri.
Nell’ipotesi che qui si affronta della rilevanza da attribuire alla volontà del minore nella valutazione della sussistenza o meno a carico di uno dei genitori del reato di “sottrazione” in danno dell’altro o di “inosservanza dei provvedimenti del giudice” il figlio minore non potrebbe che essere ascoltato come teste nell’ambito cioè delle “prove” cui si riferisce il terzo libro del codice di procedura penale e specificamente della testimonianza (art. 194 e ss. c.p.p.) – ammissibile qualunque sia l’età del testimone (art. 196 c.p.p.) – anche ove gli si riconoscesse la qualità di persona offesa. Si compren¬de come questa qualificazione del minore come testimone sia di particolare problematicità per il coinvolgimento che in questa veste il minore finirebbe per avere nel processo a carico di uno dei genitori. Invero manca nel processo penale un sistema di acquisizione del punto di vista del minore che le convenzioni internazionali e lo stesso art. 315-bis del codice civile prevedono come obbligo generale ma anche come diritto del minore “in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”. La testimonianza formale del figlio minore finisce per supplire, quindi, alla mancanza di una prassi diversa dell’ascolto del figlio nel processo penale.
Per quanto concerne il consenso del minore nei casi di inosservanza dei provvedimenti del giu¬dice in materia di affidamento, è molto ricorrente il caso in cui uno dei genitori assume di non essere responsabile del reato in quanto è il figlio che rifiuta di incontrare o di avere contatti con l’altro genitore.
Anche in questo caso – per il quale evidentemente non può prescindersi dall’età del minore – la giurisprudenza ha richiamato il tema di fondo della collaborazione dell’obbligato riconoscendo in alcuni casi la mancanza di dolo (App. Campobasso, 16 aprile 2013) ed in altri più numerosi, invece, che il dolo sussiste sotto il profilo che è dovere di un genitore attivarsi concretamente “af¬finché il figlio minore maturi un atteggiamento psicologico di favore nei confronti del genitore non affidatario” (App. Milano, Sez. II, 9 giugno 2011).
Quest’ultimo punto di vista è stato spesso richiamato anche dalla giurisprudenza di legittimità. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26810 ha confermato una decisione di merito ritenendo sempre necessaria “una attiva e doverosa collaborazione da parte del genitore affida¬tario alla riuscita delle visite e degli incontri con l’altro genitore stabiliti con il provvedimento del giudice”; ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118 ha precisato che sussiste il reato di cui all’art. 388 c.p. “se risulta che il genitore affidatario non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore”; Cass. pen. Sez. feriale, 12 settembre 2003 ha ritenuto che il rifiuto del minore di incontrare il padre non esonera la madre dal dovere di adottare i comportamenti indispensabili a consentire gli incontri.
Se non vi sono specifici contegni di impedimento all’esercizio dei diritti dell’altro genitore non sus¬siste il reato (Cass. pen. Sez. feriale, 14 settembre 2010, n. 34024; Cass. pen. Sez. VI, 4 aprile 2003, n. 25899).
d) I maltrattamenti psicologici quasi assenti in giurisprudenza (art. 572 c.p.)
La legge 1 ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale) ha modificato il primo comma dell’art. 572 che veniva così riscritto: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sot¬toposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni” e inseriva un secondo comma del tenore seguente: “La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici”. La novità stava nella più ampia tutela offerta ai minori degli anni quattordici, nell’inasprimento della sanzione e – cosa certamente non di poco conto – nell’introduzione delle persone comunque “conviventi” tra i soggetti passivi del reato. Ed infatti anche la rubrica originaria della disposizione (”Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) veniva modificata in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
Il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (contenente norme per il contrasto della violenza di genere) convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, inseriva all’art. 61 del codice penale (“circostanze aggravanti”) un numero 11-quinquies il cui testo prevede come aggravante comune “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza” e abrogava conseguentemente il secondo com¬ma dell’art. 572 (dove si aggravava la pena nel caso di persona offesa minore di anni quattordici) reso inutile dall’aggravamento generale previsto in caso di reati contro minori di diciotto anni.
In seguito a queste modifiche, il testo oggi vigente dell’art. 572 del codice penale (“Maltrattamenti contro familiari e conviventi”) prevede: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente [cioè fuori dei casi di “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” di cui all’art. 571 c.p.], maltrat¬ta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni”
Alla condanna per il delitto di maltrattamenti commessa dai genitori consegue, ai sensi dell’art. 34 cod. pen., la sospensione e la decadenza della responsabilità genitoriale.
Lo spettro dei comportamenti sanzionati dal reato di maltrattamenti è praticamente illimitato (per¬cosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di di¬sprezzo e di offesa alla sua dignità, fatti lesivi dell’integrità anche solo morale del soggetto passivo.
Secondo la definizione fornita dal Consiglio d’Europa nel 1978, il maltrattamento “si concretizza negli atti e nelle carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro in¬tegrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di un terzo”.
Nel 1999 la Consulta sulla prevenzione dell’abuso sui bambini dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato la seguente definizione: “l’abuso o il maltrattamento sull’infanzia è rappresen¬tato da tutte le forme di cattivo trattamento fisico e/o affettivo, abuso sessuale, incuria o tratta¬mento negligente nonché sfruttamento sessuale o di altro genere che provocano un danno reale o potenziale alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità del bambino, nell’ambito di una relazione di responsabilità, fiducia o potere”.
Come sottolineato nel rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “per maltrattamento psicologico si intende una relazione emotiva caratterizzata da ripetute e continue pressioni psico¬logiche, ricatti affettivi, indifferenza, rifiuto, denigrazione e svalutazioni che danneggiano o inibi¬scono lo sviluppo di competenze cognitivo-emotive fondamentali quali l’intelligenza, l’attenzione, la percezione, la memoria.”
Nell’ordinamento giuridico italiano né la trascuratezza né l’abuso psicologico sono previsti espres¬samente quali fattispecie specifiche di reato. I reati nei quali questi comportamenti possono rien¬trare sono oggi sparsi all’interno del codice penale in modo disordinato come per esempio, ove ve ne siano i presupposti, quello di abbandono (art. 591 c.p.), di ingiuria (art.594 c.p.), di violenza privata (art. 610 c.p.), di minaccia (art. 612 c.p.), di lesioni (nei quali ultimi rientrano i compor¬tamenti che provocano “una malattia nel corpo o nella mente” secondo la definizione che ne dà l’art. 582 c.p.).
Qui va osservato che l’abuso psicologico contro bambini e adolescenti consiste in atti omessi o commessi che vengono ritenuti psicologicamente dannosi. Tali comportamenti vengono messi in atto individualmente da persone che, per particolari caratteristiche come l’età o la condizione sociale, sono in posizione di potere rispetto al bambino. Si tratta di comportamenti che possono danneggiare anche in modo irreversibile lo sviluppo affettivo, cognitivo, relazionale e fisico del minore. L’abuso o maltrattamento psicologico include gli atti di rifiuto, terrorismo psicologico, minaccia, sfruttamento, isolamento e allontanamento del bambino dal contesto sociale e nei casi di conflittualità fra coniugi anche il mettere il figlio contro l’altro genitore. L’abuso psicologico, se perpetuato nel tempo e qualora assuma connotazioni particolarmente gravi può produrre diverse conseguenze nella crescita del bambino: scarsa autostima e assertività, incapacità di avere fiducia negli altri, instabilità o disadattamento emozionale, disturbi del sonno e inibizione del gioco.
La giurisprudenza non ha finora operò saputo cogliere se non alcuni pochi aspetti legati specifica¬mente all’abuso psicologico sui minori soprattutto affrontando il tema dell’abuso dei mezzi di cor¬rezione ma non ha quasi mai collocato l’abuso psicologico all’interno del reato di maltrattamenti.
Solo Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 ha ritenuto che il delitto di maltratta¬menti può essere integrato anche da atteggiamenti nei confronti del minore che si concretizzano nel non fargli frequentare con regolarità la scuola, nell’impedirne la socializzazione, nell’impartire regole di vita tali da incidere sul suo sviluppo psichico e nel prospettargli la figura paterna come negativa e violenta. Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962 precisa che il reato di maltrat¬tamenti in famiglia, essendo a forma libera, può sicuramente essere integrato anche da condotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2019, n. 13274 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice può dare risalto alla diagnosi di sindrome da alienazione parentale formulata dai consulenti tecnici, fondata sul comportamento materno, ritenuto idoneo a generare un conflitto di lealtà nella prole, che può dare fondamento alla diagnosi di alienazione del figlio nei confronti del padre rilevando, peraltro, che al di là della scelta di una o altra classificazione scientifica, ciò che rileva è l’individuazione di condotte tendenti ad escludere l’altro genitore e sovrapporre gli ambiti dell’affettività propria a quella del minore.
A prescindere dalle obiezioni sollevate dalle parti, qualora la consulenza tecnica presenti devianze dalla scienza medica ufficiale come avviene nell’ipotesi in cui sia formulata la diagnosi di sussistenza della PAS, non essendovi certezze nell’ambito scientifico al riguardo il Giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass. n. 11440/1997) oppure avvalendosi di idonei esperti, è comunque tenuto a verificarne il fondamento (Cass. 1652/2012; Cass. 17324/2005). Tuttavia questa Corte ha osservato che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgrega¬zione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (v. Cass. n. 18817/2015, conf. Cass. 22744/2017).
In particolare nella pronuncia n. 6919/2016, questa Corte ha affermato poi il seguente principio di diritto, con riguardo ad un’ipotesi di alienazione parentale: in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comporta¬menti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena. Al giudice di merito, a tal fine, può utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e anche le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, laddove esistente, di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e uno dei genitori).
L’audizione del minore è un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che lo riguardano e in partico¬lare in quelle relative all’affidamento ai genitori, salvo che tale adempimento possa essere in contrasto con gli interessi del minore stesso, con la conseguenza che il mancato ascolto non sorretto da una espressa motivazione sulla contrarietà all’interesse del minore, sulla sua superfluità o sulla assenza di discernimento del soggetto in¬teressato è fonte di nullità della sentenza, in quanto si traduce in una violazione dei principi del giusto processo e del contraddittorio.
Tribunale Milano, 11 marzo 2017
Il termine alienazione genitoriale – se non altro per la prevalente e più accreditata dottrina scientifica e per la migliore giurisprudenza – non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale; condotte che non abbisognano dell’elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologia delle condotte medesime.
Cass. civ. Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di affidamento di figli minori, qualora il genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindro¬me di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice del merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia.
Cass. civ. Sez. VI, 23 settembre 2015, n. 18817 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e ma¬teriale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, non¬ché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde re¬lazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione.
Trib. Cosenza, sez. II, 29 luglio 2015 n. 778 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va disposto il collocamento di due minori per sei mesi in una struttura protetta avendo la madre dei minori “manipolato i figli allontanandoli fisicamente e psicologicamente dal padre verso cui ostentano entrambi plateali manifestazioni di rifiuto e negazione” evidenziata da una CTU in cui si descrive l’esistenza di un ‘condizionamento programmato’ della madre nei confronti dei figli teso a “logorare” la figura paterna, compresi anche i familiari [del padre] ed il posto in cui vive”. Il Tribunale mediante l’ascolto diretto dei minori ha constatato la sussistenza di un vero e proprio disturbo relazionale, avente le caratteristiche dell’alienazione parentale.
Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9632 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori può derogarsi se la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore, con la duplice conseguenza che la pronuncia di affidamento esclusivo deve essere sorretta da una motivazione non solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero sulla manifesta carenza dell’altro genitore.
Trib. Milano Sez. IX 13 ottobre 2014 (Quotidiano Giuridico, 2014 nota di MANCUSO)
È inammissibile un accertamento tecnico d’ufficio su un minore avente ad oggetto la verifica della P.A.S. in quan¬to non inserita tra le patologie nel Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali c.d. DSM-V. La pronuncia si dimostra alquanto restrittiva non tenendo in debita considerazione il riconoscimento che la letteratura scientifica internazionale e la giurisprudenza hanno dato alla questione.
Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31712 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 388 c.p., nell’ipotesi di rifiuto ad ottemperare alle disposizioni in materia di visita dei figli, è sufficiente la realizzazione di un’omissione contrastante con l’obbligo stabilito nel provvedimento giudiziale, rientrando tale comportamento omissivo antidoveroso nel concetto di “elusione” im¬piegato dal legislatore per la descrizione della ipotesi delittuosa.
Trib. Ivrea, 23 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussiste il reato ex art. 388 c.p. allorché il soggetto agente, con coscienza e volontà, non ottemperi, in assenza di giustificati motivi, agli obblighi imposti con il provvedimento dell’Autorità giudiziale in ordine alla regolamen¬tazione delle visite dell’altro genitore alla propria figlia.
Trib. Firenze Sez. II, 10 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerne l’affidamento di minori ed inte¬grante il reato di cui all’art. 388, comma 2, c.p. può ravvisarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo.
Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 17799 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di sottrazione di persone incapaci, previsto dall’art. 574 cod. pen., ha natura di reato permanente ed è caratterizzato: a) da un’azione iniziale costituita dalla sottrazione del minore; b) dalla protrazione della situazione antigiuridica mediante la ritenzione, attuata attraverso una condotta sempre attiva, perché intesa a mantenere il controllo sul minore e spesso ad utilizzare tale situazione per i fini più diversi; c) dalla possibilità, per il reo, di porre fine alla situazione antigiuridica fino a quando la cessazione di tale situazione non intervenga per sopravvenuta impossibilità o per la pronunzia della sentenza di primo grado.
Trib. Minorenni Trieste, 23 agosto 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va condannato al risarcimento dei danni a favore dell’ex partner la madre affidataria esclusiva che ostacola i contatti tra il padre detenuto e il figlio minore.
Trib. Napoli Portici, 10 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo, richiesto per la configurabilitàdel delitto di mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di un figlio minore (art. 388, comma secondo, cod. pen.), non è integrato nel solo caso in cui ricorra un plausibile e giustificato motivo che abbia determinato l’azione del genitore affidatario a tutela esclusiva dell’interesse del minore.
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concre¬tarsi in qualunque comportamento da cui derivi la “frustrazione” delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo e quando l’esercizio delle facoltà attribuite al genitore non affidatario in via prevalente sia necessaria la collaborazione di quello prevalente.
Trib. Novara, 31 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non sono più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla idoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Corte d’Appello Brescia, 17 maggio 2013 (Corriere del Merito, 2013, 11, 1051 nota di SPANGARO)
La mancanza di fondamento scientifico della PAS non esclude che essa possa essere utilizzata, ai fini del pro¬cesso, per individuare un problema relazionale in situazione di separazione dei genitori, pur non assumendo i connotati di una malattia vera e propria. Infatti, l’atteggiamento del bambino che rifiuta l’altro genitore, per un patto di lealtà con il genitore ritenuto più debole, può condurlo ad una forma di invischiamento capace di produr¬re nella sua crescita non solo una situazione di sofferenza, ma anche una serie di problemi psicologici alienanti. Il punto del processo è allora stabilire se i disturbi a carico del minore siano o non riconducibile alla responsabilità del genitore convivente, in quanto generati dal suo comportamento nei confronti dell’altro genitore.
Trib. Bari Sez. I, 10 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito all’imputazione per il reato p. e p. dall’art. 388 c.p. per avere la prevenuta, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, quale affidataria del minore, eluso l’esecuzione del provvedimento della Corte di Appello, il concetto di “elusione” presuppone una forma di scaltrezza, sotterfugio o raggiro che non può che manifestarsi in forma commissiva, tanto che, laddove la legge ha ritenuto sufficiente, ai fini della sanzione pe¬nale, una mera condotta omissiva, lo ha espressamente sancito. La norma in oggetto mira a tutelate non tanto l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza di ispirazione costituzionale, dell’effettività della giurisdizione. Il mero rifiuto o l’omissione di ottemperare ai provvedimenti di cui all’art. 388, comma 2°, c.p., non costituisce condotta elusiva penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte o la natura interdittiva del provvedimento non implichino il contributo dell’obbligato all’esecuzione.
App. Campobasso, 16 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La previsione incriminatrice contemplata dall’art. 388, comma secondo, c.p. non può ritenersi integrata, in punto di elemento soggettivo, costituito dal dolo generico, nell’ipotesi in cui il genitore affidatario del minore, nell’impedire al genitore non affidatario, ricusato dal minore, il diritto di visita con lo stesso, sia stato mosso dalla necessità di tutelare l’interesse morale e materiale del minore medesimo, soggetto di diritti e non mero oggetto di finalità esecutive perseguite da altri.
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2013, n. 7041 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica (nella specie, allo scopo di verificare le condizioni psico-fisiche del minore e conclusasi con un accertamento diagnostico di sindrome da alienazione parentale), il giudice di merito, nell’aderire alle conclusioni dell’accertamento peritale, non può, ove all’elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto – sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla compara¬zione statistica per casi clinici – a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare.
Il giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass., 14759 del 2007; Cass., 18 novembre 1997, n. 11440), ovvero avvalendosi di idonei esperti, deve verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale (Cass. 3 febbraio 2012, n. 1652; Cass., 25 agosto 2005, n. 17324). Ciò, ad esempio, nel caso in cui il CTU sostenga la presenza di una cd. PAS (sindrome di alienazione genitoriale), ripudiata dalla letteratura scientifica internazionale di maggioranza.
Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 2013, n. 5847 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel decidere sull’affidamento il giudice, utilizzando le relazioni dei servizi specialistici della Asl in cui si effettua la diagnosi di una alienazione parentale dei figli evidenziando il danno irreparabile da essi subito per la privazione del rapporto con la madre, fa legittimamente uso del potere, attribuito al giudice dall’art. 155 sexies c.c., comma 1, di assumere mezzi di prova anche d’ufficio ai fini della decisione sul loro affidamento esclusivo alla madre. Il giudice può fondare la decisione anche su elementi concernenti il giudizio negativo circa le attitudini genitoriali del padre (desunto anche dalla reiterata condotta ostruzionistica posta in essere al fine di ostacolare in ogni modo gli incontri dei figli con la madre), dandone conto in una motivazione.
Cass. civ. Sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601 (Foro It., 2013, 4, 1, 1193)
È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione – per violazione di legge – avverso la sentenza di separazione giudiziale dei coniugi che aveva confermato l’affidamento esclusivo di un minore alla madre, la quale intratteneva una relazione con la convivente, in mancanza di concreti riferimenti alle ripercussioni negative per il minore stesso, sul piano educativo e della crescita, in ragione del suo inserimento in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale.
Corte europea dei diritti dell’uomo, 9 gennaio 2013, n. 25704 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Costituisce violazione dell’art. 8 della convenzione europea dei diritti dell’uomo da parte dello Stato italiano, il fatto che le autorità giudiziarie, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si sono impe¬gnate a mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legame familiare tra padre e figlia minore, at¬traverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione legale tra i genitori.
Trib. Monza, 26 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato p. e p. dall’art. 388 c.p. la condotta della prevenuta che, impedendo al coniuge separato di rice¬vere e tenere con se la figlia minore, eludeva l’ordinanza del Tribunale civile con la quale si attribuiva al padre il diritto di vedere la figlia, attuando comportamenti pretestuosi, volti a non consentire l’espletamento degli incon¬tri o comunque finalizzati a renderli oltremodo difficili. Nei confronti dell’imputata, tuttavia, si impone la pronun¬cia di una sentenza di assoluzione, per insussistenza dei fatti, laddove risulti dimostrato che, avendo il Tribunale lasciato gli ex coniugi sostanzialmente privi di specifiche indicazioni circa il numero dei giorni settimanali in cui la bimba poteva restare presso il padre e circa l’orario di inizio della visita di tre ore, ed avendo quest’ultimo preteso di vedere la bambina ogni volta che lo voleva, anche in orario non pomeridiano e per più di due ore, provocando uno scombussolamento nei ritmi di vita della piccola, che veniva prelevata da scuola ad ogni ora e senza regola, appare evidente come le rimostranze dell’imputata non possono configurare il reato contestato, sostanziandosi sempre in reazioni a pretese non fondate del padre.
Trib. Bari Sez. I, 23 ottobre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato p. e p. dall’art. 388 c.p. il prevenuto che eluda l’esecuzione del provvedimento del Tri¬bunale civile concernente l’affidamento della figlia, omettendo di incontrarla nei giorni stabiliti. La finalità della norma de qua non è quella di tutelare l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza di ispirazione costituzionale dell’effettività della giurisdizione. E così il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti del giudice non costituisce condotta elusiva penalmente rilevante a meno che la natura personale delle prestazioni imposte o la natura interdittiva del provvedimento non implichino il contributo dell’obbligato all’esecuzione.
Trib. Roma, Sez. I, 11 ottobre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non più soltanto in positivo sull’idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Trib. Messina Sez. I, 8 ottobre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 709-ter c.p.c., nella parte in cui prevede la condanna al risarcimento dei danni in favore del figlio minore e/o dell’altro genitore nei casi di gravi inadempienze, di violazioni dei doveri genitoriali ovvero di comportamenti ostacolanti le modalità dell’affidamento, introduce nell’ordinamento un’ipotesi a sé stante di c.d. danno punitivo. A sostengo di tale argomentazione milita la circostanza che nella individuazione della misura del risarcimento occorre in primo luogo guardare alla gravità della condotta del genitore inadem¬piente, anche in considerazione del fatto che i rimedi di cui all’art. 709-ter c.p.c. hanno essenzialmente finalità punitiva, e non occorre una prova specifica sulla esistenza ed entità del danno, che può considerarsi naturale conseguenza del deprecabile comportamento di uno dei genitori. Così interpretata, la previsione dell’art. 709-ter c.p.c. risulta assolvere ad una funzione sanzionatoria deterrente della condotta del genitore per evitare che nel futuro lo stesso continui a rendersi inadempiente rispetto ai propri obblighi nei confronti della prole e rispetto al contenuto dei provvedimenti.
Trib. Roma,Sez. I, 2 agosto 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, occorre che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore, con la conseguenza che l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento.
Trib. Milano, Sez. IX, 11 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore, con la duplice conseguenza che l’e¬ventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore, e che l’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi precluso dalla mera conflit¬tualità esistente tra i coniugi, poiché avrebbe altrimenti una applicazione solo residuale, finendo di fatto con il coincidere con il vecchio affidamento congiunto.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2012, n. 7452 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nessuna norma impone di affidare a medici piuttosto che a psicologi le consulenze tecniche riguardanti disturbi psicologici; la verifica della concreta qualificazione dell’esperto a rendere la consulenza è compito esclusivo del giudice di merito che, peraltro, nella sua decisione, ben può motivare per relationem richiamando il contenuto della consulenza tecnica di ufficio.
App. Taranto, 24 ottobre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’interesse tutelato dall’art. 388, comma secondo, c.p. non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì la esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione, con la conseguenza che il mero rifiuto di ottemperare al provvedimento giudiziale non costituisce, di norma, comportamento elusivo rilevante per la configurabilità del reato di cui innanzi, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte, ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento, esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato. In tali ipotesi, infatti, l’inadempimen¬to dell’obbligato contraddice di per sé la decisione giudiziale e ne pregiudica la eseguibilità ed, in particolare, ove si tratti di un provvedimento prescrittivo di prestazioni personali o comunque di un comportamento agevo¬latore dell’obbligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del Giudice, ma tende a impedirne o comunque a ostacolarne l’esecuzione, incidendo così sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice.
Trib. Novara,21 ottobre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La normativa di cui alla legge 54/2006 prevede l’affidamento dei figli minori ad entrambi genitori quale regola “generale”, derogabile solo laddove tale affidamento sia contrario agli interessi dei minori e ciò in considerazione del primario interesse dei figli a continuare ad avere stabili rapporti sia con il padre che con la madre, i quali devono entrambi farsi carico degli oneri inerenti alla prole. Il legislatore, tuttavia, non ha tipizzato le circostanze ostative all’affidamento condiviso, rimettendo così la loro individuazione al giudice del merito, che adotterà la relativa decisione con provvedimento motivato, tenendo conto delle peculiarità del caso concreto. Conseguente¬mente, secondo l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, alla regola del affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronunzia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazio¬ne non solo più in positivo sulla idoneità dei genitori affidatario, ma anche in negativo sull’inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’oggetto della tutela penale nel reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. non è rappresentato soltanto dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma.
Trib. Roma, 13 settembre 2011 (Famiglia e Diritto, 2012, 8-9, 817 nota di LONGO)
La madre, separata dal coniuge e collocataria del figlio, la quale, per diversi mesi, impedisce senza giustificato motivo al padre di frequentare il figlio stesso, è tenuta al risarcimento del danno non patrimoniale ex artt. 2043 e 2059 c.c.a favore del padre per ingiusta lesione del diritto ad avere rapporti con la prole protetto dagli artt. 2 e 30 Cost..
Trib. Arezzo, 12 settembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’articolo 388, co. 2, c.p., non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, quando il provvedimento violato abbia ad oggetto obblighi la cui esecuzione coattiva non richieda necessariamente un intervento agevolatore del soggetto obbligato. Affinché si configuri il reato in considerazione, infatti, è necessario che l’obbligo imposto sia coattivamente ineseguibile, ri¬chiedendo la sua attuazione la necessaria collaborazione dell’obbligato, ciò in quanto l’interesse tutelato dall’art. 388 c.p. non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione.
Trib. Novara, 21 luglio 2011 (Famiglia e Diritto, 2012, 6, 612 nota di DE SALVO)
In ordine alla natura del provvedimento di condanna al risarcimento del danno nei confronti del minore del genitore inadempiente agli obblighi inerenti il diritto di visita, deve condividersi l’indirizzo interpretativo che ricostruisce tale istituto in termini di danno punitivo, riconducibile alla categoria delle c.d. astreintes, con la conseguenza che la valutazione del giudice prescinde dall’accertamento dell’effettiva sussistenza degli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c.e deve essere improntata a criteri equitativi.
Trib. Rieti, 15 giugno 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dolosa dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concretarsi in qualsiasi comportamento da cui derivi la “frustrazione” delle legittime pretese altrui, compreso il mero atteggiamento omissivo. Tuttavia, nell’ipotesi in cui la frustrazione del diritto dell’altro genitore non derivi dalla violazione di un provvedimento del giudice civile, bensì dalla violazione dell’art. 143, comma 2, c.c., non è configurabile il delitto di cui all’art. 388, comma 2, c.p..
App. Milano Sez. II, 9 giugno 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato p. e p. dall’art. 388 c.p. la prevenuta che, con più azioni esecutive del medesimo dise¬gno criminoso ed in tempi diversi, omettendo di far trovare in casa i figli per le preannunciate ferie estive con il padre, ostacolava il diritto di visita di quest’ultimo, contravvenendo ad un ordine del giudice. Il comportamento del genitore separato che ostacoli o non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico di favore nei confronti del genitore non affidatario, assume rilevanza penale. L’unico motivo idoneo a giustificare l’omessa esecuzione del provvedimento del giudice, risiede nell’esigenza di dover tutelare l’interesse del minore in una particolare situazione di emergenza che per i tempi ed i modi in cui si è manifestata, non sia stato possibile fron¬teggiare tempestivamente attraverso la sollecitazione della modifica del provvedimento giudiziale.
Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26810 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’esclusione del dolo, quale elemento soggettivo del reato di cui all’art. 388, comma 2, c.p. occorre dimostrare che il genitore affidatario, nell’impedire al genitore non affidatario il diritto di visita ricusato dal figlio minore, è stato concretamente mosso dalla necessità di tutelare l’interesse morale e materiale del minore stes¬so. (Nel caso concreto si è, dunque, annullata la sentenza gravata avendo la stessa escluso la sussistenza del predetto elemento, sebbene lo stesso era, invero, ravvisabile, anche se in forma attenuata, dal momento che non vi era stata alcuna attiva e doverosa collaborazione da parte del genitore affidatario alla riuscita delle visite e degli incontri con l’altro genitore stabiliti con provvedimento del giudice civile).
Trib. Trento, 1 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 614-bis c.p.c. introdotto dalla legge n. 69 del 2009, in tema di attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, consente al Giudice di fissare, con il provvedimento di condanna, su istanza di parte e salva la ipotesi in cui a misura appaia manifestamente iniqua, una misura di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nella esecuzione del prov¬vedimento medesimo. La norma, in particolare, individua la propria ratio nell’esistenza di una serie di obbliga¬zioni di facere caratterizzate dalla presenza di un nucleo di incoercibilità della prestazione, cioè da una quota di prestazione non attuabile mediante i mezzi di esecuzione forzata previsti nell’ordinamento, richiedendosi una non surrogabile attività di collaborazione o cooperazione ad opera del soggetto obbligato o di un soggetto terzo.
Trib. Pistoia 13 gennaio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Cass. civ. Sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 24526 (Nuova Giur. Civ., 2011, 5, 1, 412, nota di BUGETTI)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore, e che l’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi precluso dalla oggettiva distanza esistente tra i luoghi di residenza dei geni¬tori, potendo detta distanza incidere soltanto sulla disciplina dei tempi e delle modalità della presenza del minore presso ciascun genitore.
Cass. pen. Sez. feriale, 14 settembre 2010, n. 34024(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non integra il reato di elusione del provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento dei figli la condotta del coniuge separato che – quale affidatario dei figli minori, e obbligato a far sì che l’altro coniuge possa incon¬trare e tenere con sé i figli nei giorni e nelle settimane predeterminate nel provvedimento giudiziale – trasferisca in altra città la residenza propria e dei figli, ma astenendosi da specifici contegni di impedimento all’esercizio del diritto di questi di far visita e incontrare i figli.
Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12308 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La decisione sull’affidamento dei figli è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice del merito e la regola dell’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori, prevista dall’art. 155 c.c., è derogabile quando la sua applicazione risulti pregiudizievole nell’interesse del minore (Cass. 26587/2009, Cass.16593/2008).
Dunque, laddove la prole versi in una situazione di gravissimo disagio psicologico, per effetto dell’aspra conflit¬tualità esistente fra i coniugi, il giudice può disporne l’affidamento ai servizi sociali, al fine di assicurare al minore condizioni di vita consone alla sua età ed alle sue risorse psichiche.
Cass. pen. Sez. VI, 11 maggio 2010, n. 33719 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concre¬tarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la “frustrazione” delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo. (Fattispecie in cui il genitore affidatario, cambiando continuamente il luogo di dimora senza darne preavviso al marito separato, gli aveva di fatto impedito l’esercizio del diritto di visita e di frequentazione dei figli).
Cass. pen. Sez. III, 7 aprile 2010, n. 24294 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori si sostanzia in qualunque comportamento che ponga nel nulla o aggiri le finalità cautelari, il cui contenuto ed i relativi obbli¬ghi devono essere valutati non in termini letterali ma alla luce dell’interesse del minore che vi è sotteso e che ne costituisce la ragion d’essere. (Nella specie si trattava di un’ordinanza del Tribunale dei Minorenni che imponeva al genitore il divieto di non vedere il figlio minore).
Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 42370 (Foro It., 2010, 3, 1, 130)
Risponde del delitto di sottrazione di persona incapace il genitore che, senza consenso dell’altro, porti via con sé il figlio minore, allontanandolo dal domicilio stabilito, ovvero lo trattenga presso di sé, quando tale condotta – posta in essere con la coscienza e la volontà di sottrarre il minore contro la volontà dell’altro genitore – deter¬mini un impedimento all’esercizio delle diverse manifestazioni della potestà dell’altro genitore, quali le attività di assistenza e di cura, la vicinanza affettiva, la funzione educativa.
App. Napoli, 19 marzo 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione coniugale, il principio generale previsto in merito all’affidamento dei figli è quello dell’affido condiviso, cui può derogarsi solo nell’ipotesi in cui esso si dimostri pregiudizievole per l’interesse dei figli minori. La mera conflittualità tra i due coniugi non può, dunque, costituire una motivazione valida perché sia disposto l’affido esclusivo ad uno dei coniugi. In tal senso, nel caso concreto, si è ritenuta erronea la decisione del Giudice di prime cure che, invece, aveva optato per l’affidamento esclusivo, in ragione dell’esclusiva conflit¬tualità tra i coniugi e della loro lontananza.
Cass. pen. Sez. VI, 11 giugno 2009, n. 32846 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento di minori può sostan¬ziarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo.
Trib. Verona, 11 febbraio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il totale disinteresse manifestato dal padre nei confronti della figlia è presupposto per l’applicazione delle san¬zioni previste dall’art. 709-ter, 2° co., c.p.c., ed in particolare di quelle di cui ai numeri 2 e 3 (che introducono nel nostro ordinamento la categoria dei c.d. “danni punitivi”, con finalità, cioè, non compensative, ma deterrenti e sanzionatorie).
Trib. Salerno Sez. I, 22 dicembre 2009 (Famiglia e Diritto, 2010, 10, 924 nota di VULLO)
Il provvedimento di condanna di uno dei genitori a risarcire i danni all’altro – provvedimento compreso tra quelli che il giudice può pronunciare ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c. – ha natura risarcitoria in senso proprio.
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2009, n. 26587 (Giur. It., 2010, 8-9, 1797)
Affinché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso occorre che risulti, nei confronti di uno dei genito¬ri, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore – come nel caso in cui il genitore non affidatario si sia reso totalmente inadempiente all’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento in favore dei figli minori ed abbia esercitato in modo discontinuo il suo diritto di visita (in quanto tali comportamenti sono sintomatici della sua inidoneità ad affrontare quelle maggiori responsabilità che l’affido condiviso comporta) – con la conseguenza che l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore e sulla non rispondenza all’interesse del figlio dell’adozione del modello legale prioritario di affidamento.
Trib. Pavia Sez. I, 23 ottobre 2009 (Famiglia e Diritto, 2010, 2, 149 nota di ARCERI)
L’art. 709-ter c.p.c. prevede che in caso di gravi inadempienze o di atti che arrechino pregiudizio al minore o ne ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il giudice possa disporre il risarcimento del danno a carico di uno dei genitori e nei confronti del minore. Tale previsione configura una ipotesi di responsa¬bilità ordinaria ex art. 2043 c.c. con risarcimento del danno non patrimoniale arrecato dal genitore al minore.
Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 27995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra una condotta elusiva dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori anche il mero rifiuto di ottemperarvi da parte del genitore affidatario, quando l’attuazione del provvedi¬mento richieda la sua necessaria collaborazione. (Fattispecie in cui è stato impedito all’altro genitore di trascor¬rere con il figlio il periodo di vacanza prestabilito).
Trib. Napoli Sez. IV, 15 ottobre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 388 c.p. basta rilevare, da una parte, che la norma non fa distinzione tra provvedimenti di giurisdizione contenziosa e provvedimenti di giurisdizione volontaria, in quanto entrambi sono tutelati penalmente, quando riguardano l’affidamento, per ragioni di educazione, cura e custodia dei figli minori, e dall’altra, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento del Giudice Civile che concerne l’affidamento dei figli minori può connettersi ad un qualsiasi atteggiamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese dell’altro coniuge, cui preclude la possibilità di esercitare il diritto di incontrare ed incidere sulla educazione e le scelte di vita del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2008, n. 19065 (Fam. Pers. Succ., 2008, 10, 843)
In sede di separazione personale dei coniugi o di divorzio, in caso di inidoneità dei genitori l’adozione di un prov¬vedimento di affidamento – condiviso o esclusivo – ai medesimi dei figli minori contrasta con l’interesse di questi ultimi, rendendosene pertanto necessario l’affidamento a terzi.
Cass. pen. Sez. V, 8 luglio 2008, n. 37321 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta di uno dei genitori integra il reato di cui all’art. 574 cod. pen. qualora, contro la volontà dell’altro, egli sottragga il figlio per un periodo di tempo rilevante, impedendo l’altrui esercizio della potestà genitoriale e allontanando il minore dall’ambiente d’abituale dimora.
Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 2008, n. 16593 (Nuova Giur. Civ., 2009, 1, 1, 68, nota di MANTOVANI)
Perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, occorre che risulti, nei confronti di uno dei geni¬tori, una sua condizione di manifesta carenza o di inidoneità educativa, o comunque tale da rendere quell’affi¬damento in concreto pregiudizievole per il minore. Ne consegue che l’esclusione della modalità dell’affidamento condiviso dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affida¬tario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio, dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento.
Nel quadro della nuova disciplina relativa ai “provvedimenti riguardo ai figli” dei coniugi separati, di cui ai ci¬tati articoli 155 e 155-bis del codice civile, come riscritti dalla legge n. 54 del 2006, l’affidamento “condiviso” (comportante l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi ed una condivisione, appunto, delle deci¬sioni di maggior importanza attinenti alla sfera personale e patrimoniale del minore) si pone non più (come nel precedente sistema) come evenienza residuale, bensì come regola; rispetto alla quale costituisce, invece, ora eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo. Alla regola dell’affidamento condiviso può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”. Non avendo, peraltro, il legislatore ritenuto di tipizzare le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione resta rimessa alla decisione del giudice nel caso concreto da adottarsi con “provvedimento motivato”, con riferimento alla peculiarità della fattispecie che giustifichi, in via di eccezione, l’affidamento esclusivo. L’affidamento condiviso non può ragione¬volmente ritenersi comunque precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente fra i coniugi, poiché avrebbe altrimenti una applicazione, evidentemente, solo residuale, finendo di fatto con il coincidere con il vecchio affi¬damento congiunto. Occorre viceversa, perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore. Per cui l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento.
Trib. Reggio Emilia Sez. I, 6 novembre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla visita attribuito ad un coniuge assume altresì la connotazione di dovere anche nei confronti dell’altro coniuge; deve pertanto ravvisarsi una lesione del diritto di quest’ultimo qualora il mancato rispetto del regime di affidamento e visita da parte di un genitore, per la sua gravità, per la sua dolosa reiterazione e per la sua diretta incidenza anche sulla vita dell’altro coniuge, arrechi direttamente un pregiudizio a quest’ultimo deter¬minandone l’impossibilità o la grave difficoltà ad organizzare la propria vita in assenza di quel supporto che la regolamentazione della visita intendeva dare. Il danno deve essere commisurato, anzitutto, alla gravità delle violazioni commesse. Ove si ritenga giustificato, nel caso concreto, il ricorso al rimedio risarcitorio, la decisione non può prescindere dall’accertamento concreto del verificarsi di un pregiudizio, non potendo ritenersi conforme ai principi la configurazione di un “danno in re ipsa”, sussistente per il solo fatto della violazione. Il pregiudizio risarcibile può essere anche di carattere non patrimoniale, a sensi dell’art. 2059 c.c..
Cass. pen. Sez. Unite, 27 settembre 2007, n. 36692 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’art. 388 comma 2 c.p. non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato. Infatti l’interesse tutelato dal secondo come dal primo comma dell’art. 388 c.p. non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì; l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione.
Poiché l’interesse tutelato dal comma 2 dell’articolo 388 c.p., come quello tutelato dal comma 1 dello stesso articolo, non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione, il mero rifiuto di ottemperare al provvedimento giudiziale non costituisce, di norma, comporta¬mento “elusivo” rilevante per la configurabilità del reato di cui all’articolo 388, comma 2, c.p., a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato. Solo in questi casi, infatti, l’inadempimento dell’obbligato contraddice di per sé la decisione giudiziale e ne pregiudica l’eseguibilità: in particolare, ove si tratti di un provvedimento prescrittivo di prestazioni personali o comunque di un comportamento agevolatore dell’obbligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del giudice, ma tende ad impedirne o co¬munque ad ostacolarne l’esecuzione, incidendo così sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice; mentre, ove si tratti di un provvedimento interdittivo (obbligo di non fare), la violazione dell’obbligo di astensione priva immediatamente di effettività la decisione giudiziale, che risulta appunto elusa nella sua esecuzione, perché contraddetta oltre che inadempiuta (da queste premesse, in una vicenda relativa all’elusione dell’esecuzione di un’ordinanza possessoria con la quale il giudice civile aveva ingiunto all’imputata la restituzione agli istanti di un’area pertinenziale ad un magazzino di loro proprietà, indebitamente occupata, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna, per insussistenza del fatto, sul rilievo che la condotta incriminata si era sostanziata nella mera inottemperanza al “dictum” giudiziale).
App. Firenze, 29 agosto 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore che, in violazione delle statuizioni del giudice del divorzio, impedisca la frequentazione tra il figlio minore e l’altro genitore, e che in tal modo arrechi nocumento alla corretta crescita della personalità del minore e leda il diritto dell’altro genitore al rapporto con il figlio, va condannato, nell’ambito del procedimento ex art. 709- ter c.p.c., al risarcimento, in favore del figlio e dell’altro genitore, del solo danno non patrimoniale, individuato “in re ipsa” e quantificato in via equitativa.
Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, essendo a forma libera, può sicuramente essere integrato anche da con¬dotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore.
Cass. civ. Sez. III, 26 giugno 2007, n. 14759 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Non è preclusa al giudice di merito la possibilità di utilizzare proprie conoscenze tecniche o scientifiche che non rientrano nella comune esperienza per la valutazione dei fatti di causa. E’ invero pacifico, in giurisprudenza che il potere di nomina del consulente tecnico, in quanto esercizio di una facoltà concessa al giudice (e da questo esercitabile di ufficio o su istanza di parte) per integrare le conoscenze tecniche che, non rientrando nelle nozioni di comune esperienza, egli non ha il dovere di conoscere e di cui, invece, il consulente è dotato, non preclude affatto al giudice la possibilità di avvalersi, oltre che delle massime di esperienza, che ha il dovere di conoscere, siccome patrimonio comune del cd, sapere laico, anche delle conoscenze tecniche e specialistiche di cui sia per avventura in possesso o delle quali acquisisca direttamente il possesso attraverso studi o ricerche personali (sent. n. 3891 del 27/11/1974; sent. n. 3247 del 25/10/1972; sent. n. 11440 del 18-11-1997). Tale conclusione non è contraddetta dal principio che vincola il giudice ad attenersi ai fatti ed alle allegazioni di parte (il giudice deve decidere iusta alligata et probata) perché tale principio si riferisce solo alla conoscenza privata dei fatti storici che non rientrino nella categoria dei fatti notori, e non anche al sistema generale delle conoscenze peritali come è inequivocamente dimostrato dalla possibilità, generalmente riconosciuta al giudice, di dissentire, con adeguata motivazione, dalle conclusioni del perito anche sulla base di teorie non prospettate dalla parti e perciò tratte dal bagaglio culturale del giudice o da suoi studi personali (sent. 18-11-1997 n. 11440; sent. 18 ottobre 1988 n. 5665; sent. 13 gennaio 1983 n. 245). Il principio è stato affermato in una vicenda in cui si addebitava al giudice di merito di avere acriticamente recepito le conclusione del consulente tecnico di ufficio (in tema di nesso causale tra un intervento chirurgico e lesioni riportate dal paziente) addirittura integrandole con argomenti tecnici che sfuggono alla competenza di un magistrato e perciò arrogandosi poteri che non competono al giudice, cui, per la soluzione di questioni di carattere tecnico o per la interpretazione di elementi di fatto comprensibili solo ad uno specialista, può riconoscersi esclusivamente il potere-dovere di avvalersi di un esperto formulando i quesiti necessari.
Trib. Messina 5 aprile 2007 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
L’art. 709-ter c.p.c., nei punti nn. 2 e 3, prevede un tipo di risarcimento dei danni che rientra nell’ambito dei “punitive damages”, aventi natura sanzionatoria. Il giudice istruttore può emanare tutti i provvedimenti previsti da tale disposizione, compresi quelli sanzionatori. Il risarcimento del danno previsto dai punti 2 e 3 dell’art. 709 ter c.p.c. costituisce una forma di “puntivedamages” ovvero di sanzione privata, non riconducibile al paradigma degli artt. 2043 e 2059 c.c.. Non è ostativa l’osservazione che il nostro sistema giuridico non conosce la categoria dei danni punitivi, perché la legge n. 54/2006 in tema di affidamento recepisce largamente l’esperienza anglo¬sassone e nordamericana e di conseguenza ben può introdurre un “quid novum”, segnatamente quella condanna al risarcimento del danno che non è diretta a compensare ma a punire, al fine di dissuadere (“to deter”) chi ha commesso l’atto illecito dal commetterne altri. Si tratta di un sistema di poteri di coercizione, volti a rendere il provvedimento di affidamento attuale e in ultima analisi a realizzare l’interesse del minore a conservare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.
Trib. Vallo della Lucania, 7 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 709-ter c.p.c. – nel prevedere in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore o impediscano il corretto svolgimento dell’affidamento condiviso una sanzione irrogabile per il compor¬tamento lesivo posto in essere all’interno del nucleo familiare – ha introdotto nel nostro ordinamento una figura di danni c.d. punitivi derivanti dall’esperienza dell’ordinamento giuridico statunitense, i quali svolgono la chiara funzione pubblicistica della deterrenza e della punizione.
Cass. pen. Sez. VI, 6 ottobre 2005, n. 41003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora in sede di separazione fra i coniugi il giudice civile abbia disposto l’affidamento dei figli minori alla madre con la possibilità per il padre di incontrarli periodicamente, l’allontanamento della madre dal luogo di residenza nei giorni concordati per gli incontri integra il reato di cui all’ art. 388 cod. pen. senza che a tale scopo abbia rilevanza che tale allontanamento fosse stato preventivamente annunciato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 agosto 2005, n. 17324 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte Suprema (v., ex plurimis, Cass. nn. 751/1998, 225/2000, 3519/2001, 16392/2004), le valutazioni del CTU – alle quali il giudice di merito abbia aderito – possono essere censurate in sede di legittimità solo per vizi logico- formati che si concretino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica “(la cui fonte va indicata)…”, o per affermazioni illogiche o “scientificamente errate”. Ma la ricorrente, nel censurare, essa sì apoditticamente, i riferimenti scientifici della relazione del CTU, si guarda bene dall’indicare le “fonti”, che indicherebbero la “palese devianza” della predetta relazione dalle “nozioni della scienza medica”, limitandosi a mere considerazioni dell’Azienda, neppure sorrette da critiche di consulenti di parte medico-legali, che si traducono in una ‘inammissibile critica del convincimento del giudice di merito che si sia fondato sulla consulenza tecnica”.
Trib. Roma, 30 maggio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La previsione penale dell’articolo 388, comma 2, del c.p. è posta a tutela dell’interesse del minore a vedere sal¬vaguardata la relazione con entrambi i genitori.
Il reato di cui all’articolo 388, comma 2, del c.p. è integrato solo qualora emerga un rifiuto da parte dell’altro genitore di consegnare il bambino secondo i tempi e le modalità stabilite, che deve assumere carattere conti¬nuativo e sistematico, in modo da porsi in contrasto con l’interesse del minore e integrare il concetto di elusione previsto dalla fattispecie.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché i doveri che derivano dal matrimonio hanno natura giuridica, la violazione di essi che si traduca in con¬dotte di intrinseca gravità tale da configurare aggressione ai diritti fondamentali della persona (fra i quali rientra il diritto alla sessualità) fa sorgere il diritto dell’altro coniuge al risarcimento del danno patrimoniale e non pa¬trimoniale, senza che possa ritenersi che la violazione di siffatti obblighi trovi la propria sanzione nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali la separazione, il divorzio, l’addebito della separazione, l’assegno di divorzio, ecc. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda risarcitoria proposta contro un coniuge che prima delle nozze aveva taciuto all’altro la propria incapacità fisica a intrattenere normali rapporti sessuali, precisando che l’azione non era preclusa dalla mancata proposizione della domanda ex art. 129 bis c.c.).
Trib. Monza Sez. IV, 5 novembre 2004 (Danno e Resp., 2005, 8-9, 851 nota di RAMACCIONI)
Ha diritto al risarcimento del danno il genitore non affidatario che non aveva potuto esercitare per lungo tempo il diritto di visita al figlio per effetto, oltre che di problemi personali dello stesso non affidatario, delle condotta ostruzionistica del genitore affidatario.
Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento di minori può con¬nettersi ad un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo. Ne consegue la rilevanza penale della condotta del genitore affidatario il quale, esternando al figlio un atteggiamento di rifiuto a proposito degli incontri con il genitore separato, non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore. (Nella specie la Corte ha per altro rilevato la dipendenza dell’atteggiamento di rifiuto del minore dalla forte conflittualità espressa dal genitore affidatario nei confronti del coniuge, escludendo per tale ragione che potesse rilevare quale giustificato motivo per il comportamento dello stesso affidatario, pure impron¬tato ad un formale rispetto delle prescrizioni giudiziali).
Cass. pen., Sez. feriale, 12 settembre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rifiuto del minore di vedere il padre non esonera la madre dal dovere di adottare i comportamenti strettamente indispensabili a consentire l’esercizio effettivo del diritto di visita al padre, non fornendo sul piano materiale e su quello del rapporto con la figlia minore, quell’apporto minimo in termini di coordinamento e cooperazione che
è sempre necessario per garantire l’esecuzione secondo buona fede (id est: la non elusione) dei provvedimenti del giudice civile concernenti i minori.
La mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice in tema di affidamento dei minori richiede una condotta libera ed è sufficiente ad integrare la previsione criminosa il semplice dolo generico e, cioè, la coscienza e la volontà di disobbedire al provvedimento del giudice.
Cass. pen. Sez. VI, 4 aprile 2003, n. 25899 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di un figlio minore, pur essendo il genitore affidatario obbligato a sensibilizzare ed educare i figli a superare eventuali resistenze, determinate dalla crisi familiare, e a coltivare il rapporto affettivo col genitore non affidatario, tut¬tavia l’effettiva operatività di tale linea di condotta va sempre rapportata alla situazione concreta che l’agente si trova, di volta in volta, ad affrontare, per verificare se il comportamento tenuto integri o no, anche sotto il profilo soggettivo, l’elusione del provvedimento giudiziario de quo. (Nel caso di specie la Cassazione ha escluso la configurabilità del reato ex art. 388 c.p. a carico di una mamma per non aver incoraggiato le due figliolette a superare le loro resistenze ad uscire col padre solo due settimane dopo la formalizzazione della separazione).
Non risponde del delitto di dolosa inesecuzione dei provvedimenti del giudice la madre, affidataria della figlia minore, la quale nel giorno prefissato non la consegni al padre, a causa dell’ostinato rifiuto della figlia stessa.
Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 20950 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 574 c.p. configura un reato contro la famiglia, plurioffensivo in quanto lede non soltanto il diritto di chi esercita la patria potestà, ma anche quello del figlio a vivere secondo le indicazioni e determinazioni del genitore stesso. Ed infatti il reato si commette anche disponendo del minore in contrasto con l’autorità di chi esercita la potestà di genitore su di lui e con i connessi poteri di custodia e di vigilanza, conducendolo o trattenendolo in luogo non autorizzato, senza il consenso, espresso o tacito, dei genitori.
Cass. pen. Sez. VI, 4 marzo 2002, n. 11415 (Diritto e Giustizia, 2002, f. 17, 44 nota di FERRARI)
Commette il delitto di cui all’art. 574 c.p. il genitore che impedisca all’altro genitore di esercitare la potestà genitoriale, sia portando con sè il minore, sia impedendo all’altro di vederlo.
Trib. Roma, 13 giugno 2000 (Dir. Famiglia, 2001, 209)
Qualora il coniuge/genitore separato (o divorziato) ed affidatario della prole impedisca costantemente, continua¬tivamente e per lungo tempo, senza alcun vero, adeguato motivo, al genitore non affidatario di visitarla e di per¬manere con essa, malgrado questi abbia esperito ogni mezzo per instaurare e mantenere con i figli il necessario e doveroso rapporto parentale ed abbia sempre adempiuto all’obbligo di mantenimento, la condotta del genitore affidatario, riconducibile, peraltro, all’art. 388 c.p., non può non arrecare al genitore non affidatario danni morali e biologici di permanente, non trascurabile rilevanza (c.d. micro-permanente invalidità), danni risarcibili ex artt. 1226, 2043, 2057, 2059 e 2727 c.c. Ai fini della loro quantificazione monetaria, va utilizzata, come termine di riferimento, la tabella indicativa delle percentuali di invalidità (ex art. 2, L. n. 18 del 1980, nonché ex decreto Ministero della sanità D.M. 25 luglio 1980), con riguardo specifico ai casi di micro-permanente invalidità fisio-psichica, non incidente sulla capacità lavorativa del soggetto leso. In ogni caso, qualora dalla condotta di cui sopra del genitore affidatario abbia a derivare anche alla prole un danno certo e non indifferente, il genitore non affidatario, privo di “legitimatio ad processum”, non può chiedere per la propria prole alcun risarcimento, ritenuto che su quest’ultima esercita in via esclusiva la potestà parentale il genitore affidatario e che, sussistendo un palese conflitto di interesse, è necessaria la nomina di un curatore speciale. (Nella specie, il figlio era apparso con certezza gravato da una lacerante situazione di incertezza esistenziale e da un profondo, pernicioso conflitto interiore, combattuto, com’era, tra la paura di “perdere la madre” e la necessità di “conoscere il padre”).
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 1998, n. 317 (Famiglia e Diritto, 1998, 3, 275)
In tema di provvedimenti relativi alla prole, conseguenti alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed anche in base ai principi sanciti dalla convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con l. n. 176 del 1991, la circostanza che un figlio minore, divenuto ormai adolescente e perfettamente consa¬pevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa – a tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di strutture sociali e psicopedagogiche – costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri tra il minore stesso ed il coniuge non affidatario. Tale so¬spensione può essere disposta indipendentemente dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio ed indipendentemente anche dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ul¬timo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo valutate la profondità e l’intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa radicalizzazione della stessa.

CONTRATTO FIDUCIARIO

Di Gianfranco Dosi
I Fiducia e contratto come categorie antitetiche
Fiducia e contratto sono due categorie sostanzialmente antitetiche. La fiducia è, infatti, una con¬dizione psicologica che comporta l’affidarsi alla lealtà e all’onore di un’altra persona, mentre il contratto ha forza di legge tra le parti ed obbliga all’adempimento.
Queste caratteristiche, fanno sì che la fiducia sia per lo più irrilevante nell’esperienza formale del mondo giuridico. Se per non apparire proprietario di un bene o per evitare l’aggressione di una mia proprietà da parte di un creditore, mi accordo per intestare ad un amico un mio bene immobile o mie quote societarie fidandomi del fatto che egli mi restituirà quello che io gli cedo (fiducia cum amico) non compio nessuna attività su cui giuridicamente io possa contare per poter reagire all’e¬ventuale adempimento da parte del mio amico. Posso solo sperare che questa persona adempia a quanto mi assicura sulla parola che farà. Ugualmente non ha nessuna forza giuridico il fatto del debitore che trasferisce al creditore la proprietà di un bene con l’intesa fiduciaria che, quando il debito sarà estinto, il diritto gli sarà retrocesso (fiducia cum creditore).
La rilevanza di questi impegni rimane, insomma, interna al rapporto tra le persone che li pongono in essere. Nessuna azione giuridica potrà mai avere il fiduciante nei confronti del fiduciario.
La riprova di questo si ha nell’unico caso in cui il codice civile si occupa della fiducia che è l’art. 627 (la cui rubrica è “disposizione fiduciaria”), il cui primo comma afferma che “Non è ammessa azione in giudizio per accertare che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel testamento sono soltanto apparenti e che in realtà riguardano altra persona, anche se espressioni del testa¬mento possono indicare o far presumere che si tratti di persona interposta”. In caso di disposizione fiduciaria, insomma, non esiste azione. Tuttavia, precisa il secondo comma, se la persona dichia¬rata nel testamento esegue la disposizione e trasferisce i beni alla persona voluta dal testatore, “non può agire per la ripetizione”.
Il meccanismo è quello dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.) e, benché riferito alla disposizio¬ne fiduciaria testamentaria, non vi sono motivi per non considerarlo esportabile all’adempimento di altre disposizioni fiduciarie. In effetti il riferimento alla fiducia come qualcosa che vincola solo moralmente costituendo perciò un dovere morale è pienamente plausibile e giustifica l’inquadra¬mento dell’adempimento delle disposizioni fiduciarie nell’ambito delle obbligazioni naturali.
Fiducia e contratto si confermano quindi come categorie sostanzialmente antitetiche fondate la prima sul vincolo morale e la seconda sul vincolo giuridico.
Parlare, quindi, di contratto fiduciario, di pactum fiduciae, di causa fiduciae, di fiduciante e fiducia¬rio ha senso solo se si comprende che queste espressioni non si riferiscono certo più alla fiducia romanistica, priva di azione in giudizio, ma al contesto in cui determinati rapporti giuridici negoziali hanno insieme effetti reali esterni ed effetti obbligatori interni garantiti da clausole che ne assicu¬rano l’adempimento.
II Esiste ancora la fiducia come causa di un contratto? L’inquadramento in giurisprudenza del negozio fiduciario come negozio atipico ad effetti obbligatori risultante dal collegamento tra due negozi
La realtà giuridica attuale non conosce di fatto più la storica fiducia romanistica (fiducia cum amico e fiducia cum creditore) quella cioè in cui il fiduciante non ha mezzi per essere tutelato, o, perlo¬meno, potrebbe avere solo quello del risarcimento del danno. Oggi la causa fiduciae è scomparsa e confusa all’interno di clausole contrattuali che rendono il negozio cosiddetto fiduciario un vero e proprio negozio obbligatorio. Nei negozi giuridici cosiddetti fiduciari il trasferimento del bene è reale e l’adempimento del ritrasferimento è garantito da obbligazioni accessorie e non certo dalla sola fiducia.
Il che non vuol dire, naturalmente, che nella prassi non siano rinvenibili trasferimenti per così dire provvisori di diritti – spesso elusivi di obblighi verso il fisco o verso i creditori – basati solo sulla fiducia.
A differenza della fiducia romanistica in cui il trasferimento del diritto è reale, nella fiducia ger¬manistica non vi è trasferimento effettivo della titolarità del bene, perché il fiduciario riceve solo la legittimazione ad esercitare in nome proprio un diritto che però continua a rimanere in capo al fiduciante. A tale proposito va segnalata Trib. Milano, 19 novembre 2001 che ha approfondito l’ammissibilità del contratto fiduciario, riconducibile alla “fiducia germanistica”, con cui un fiducian¬te attribuisce ad una società fiduciaria la legittimazione all’esercizio dei diritti inerenti le quote di s.r.l. ma non la titolarità delle quote.
In dottrina si è spesso negata dignità al negozio fiduciario (romanistico) anche sul presupposto che il trasferimento della proprietà con causa fiduciaria contrasterebbe con i caratteri tipici del¬la proprietà, venendosi ad ammettere un tipo di proprietà (la proprietà fiduciaria, appunto) che avrebbe caratteristiche diverse da quelle previste dall’articolo 832 c.c.; si tratterebbe infatti di una proprietà solo formale svuotata del tutto da ogni contenuto e quindi di un diritto reale atipico, contrastante con il principio del numero chiuso dei diritti reali. Se il negozio fiduciario si fondasse solo su questo la tesi potrebbe avere una sua plausibilità. In verità il negozio giuridico cosiddetto fiduciario non ha più quasi nulla in comune con quello causa fiduciae del diritto romano.
Il trasferimento della proprietà, infatti, è del tutto reale, sia pure sottoposta ad una condizione concordata tra le parti. E poiché questa condizione ha carattere obbligatorio ed è, quindi, capace di attribuire rilevanza giuridica al programma concordato tra le parti, di fatto il negozio atipico che le parti realizzano perde la connotazione fiduciaria pura ed acquista una connotazione di obbliga¬torietà che l’avvicina molto a qualsiasi altro contratto atipico.
In sostanza non siamo più in presenza di un negozio fiduciario ma di un negozio obbligatorio, sia pure, in taluni casi, largamente permeato da una ampia libertà di scelta circa le modalità migliori di adempimento (si pensi al trust o ai cosiddetti contratti di affidamento fiduciario). La fiducia è solo affidabilità nelle capacità del soggetto incaricato dell’adempimento.
Per questo in giurisprudenza si considera il negozio (che ancora viene chiamato) “fiduciario” un vero e proprio negozio atipico obbligatorio dando quindi ragione alla constatazione che di fatto è oggi inesistente nel nostro ordinamento un negozio fiduciario puro, basato cioè sulla sola fiducia.
Sintomatico quanto si afferma in Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 dove si legge che l’obbligo di ritrasferimento che trae le sue origini da un pactum fiduciae concluso oralmente, può rinvenire la sua fonte non solo in un accordo contrattuale ma anche in una dichiarazione uni¬laterale, qualora essa contenga la chiara enunciazione dell’impegno attuale del soggetto ad effet¬tuare una determinata prestazione in favore di altro soggetto, ai sensi dell’art. 1174 c.c. Per cui la dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un precedente accordo fiduciario non costituisce sempli¬ce promessa di pagamento ma autonoma fonte di obbligazioni se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, e, qualora il firmatario non dia esecuzione a quanto contenuto nell’im¬pegno unilaterale, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., purché l’atto unilaterale contenga l’esatta individuazione dell’immobile, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali. In questa sentenza la differenza tra patto fiduciario (di per sé non obbligatorio) e obbligazione unilaterale (eseguibile coattivamente) è molto chiara.
Per questo motivo si parla qui di negozio giuridico cosiddetto fiduciario. In verità non è la fiducia a connotare questo negozio ma la clausola contrattuale che rende obbligatorio il ritrasferimento della proprietà. La clausola contrattuale dà azione al fiduciante. Come si è già detto il negozio fi¬duciario puro, invece, è quel negozio per il cui adempimento non è prevista azione, e che si basa, appunto sulla fiducia delle parti che intendono proprio sottrarre agli schemi legali la realizzazione del risultato da esse perseguito.
Se, oltre alla vendita, viene stipulato quindi un patto con cui il fiduciario si obbliga a ritrasferire il bene a richiesta del fiduciante, siamo nell’ipotesi del patto di retrovendita, cui sono applicabili i rimedi del risarcimento del danno e dell’esecuzione in forma specifica. In altre parole, il patto non si basa più sulla fiducia, ma sulla tutela che la legge appresta a qualsiasi contratto, tipico o atipico che sia. Molto efficacemente Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 esprime il concetto chiarendo che l’intestazione fiduciaria di un bene, frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, ha luogo solo ove il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae.
La giurisprudenza ritiene da sempre che, il negozio cosiddetto fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, entrambi voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, inter partes ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo (da ultimo Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17785 secondo cui sarebbe negozio fiduciario l’inte¬stazione fiduciaria di quote di partecipazione societaria che integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista – diversamente dal caso d’interpo¬sizione fittizia o simulata – la titolarità delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, ed a ritrasferirgliele ad una scadenza concordata, ovvero al verificarsi di una situazio¬ne che determini il venir meno del rapporto fiduciario). Nella specie si trattava di una scrittura privata con cui una persona aveva alienato una parte della propria partecipazione in una società, al prezzo di svariati milioni, al figlio il quale aveva a sua volta rilasciato una procura in favore del padre, nominato procuratore speciale e autorizzato a trasferire tutte le quote a terzi e anche a se stesso. Poiché il padre nella qualità di procuratore del figlio aveva alienato agli altri figli le quote ne nacque un contenzioso. La Corte ha ritenuto che l’alienazione di quote societarie dal padre ai figli, con contestuale rilascio di procura irrevocabile alla retrocessione o al trasferimento a terzi, realizza un pactum fiduciae volto ad attribuire ai figli i poteri gestionali della società e a lasciare al genitore quelli di controllo.
La tesi del collegamento negoziale è del tutto ragionevole, corrisponde effettivamente alla sostan¬za del negozio cosiddetto fiduciario ed è stata proposta in molte altre sentenze (Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024; Cass. civ. Sez. II, 1 aprile 2003, n. 4886; App. Napoli Sez. III, 17 febbraio 2006; Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010).
Con il negozio cosiddetto fiduciario si opera, perciò, il trasferimento della titolarità di un diritto dal fiduciante al fiduciario o l’acquisto da terzi di un diritto da parte del fiduciario stesso con danaro fornito dal fiduciante, il cui esercizio viene disciplinato da un’intesa interna, con la quale l’interpo¬sto si obbliga a comportarsi in una maniera determinata. Il negozio fiduciario si realizza, quindi, mediante il collegamento dei due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno e obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è obbligato a trasferire, in tutto o in parte, la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o a un terzo.
III Le caratteristiche del negozio giuridico cosiddetto fiduciario come negozio atipico indiretto
a) La liceità e la meritevolezza dell’interesse perseguito
Innanzitutto vi è da dire che si può parlare plausibilmente di valido negozio giuridico cosiddetto fiduciario nei soli casi in cui il trasferimento non assume una funzione elusiva di norme imperative che lo renderebbero nullo (articoli 1322 e 1418 c.c.).
Non è certamente affetta da nullità la situazione che si determina quando, per esempio, una per¬sona, dovendosi assentare per lungo tempo, trasferisce in proprietà i suoi beni ad un amico con l’accordo accessorio che quest’ultimo li amministri nel periodo dell’assenza, ovvero quando un de¬bitore trasferisca la proprietà di un bene ad un creditore, con l’intesa contrattuale che quest’ultimo lo mantenga in buono stato fino al momento della soddisfazione del debito (si ricorda che il divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. colpisce il solo patto con cui si conviene che in man¬canza di adempimento il creditore possa diventare proprietario del bene ipotecato o dato in pegno).
In base a principi che presiedono all’autonomia contrattuale, il negozio fiduciario è riconosciuto dalla legge quale contratto atipico, in quanto si proponga di realizzare interessi leciti. Invece esso deve essere dichiarato nullo al pari di ogni altro negozio, che adempia alla stessa funzione se, è di¬retto ad eludere la legge, ponendo in essere un risultato vietato e sanzionato da nullità (il principio trova affermazione da sempre: cfr per esempio Cass. civ. Sez. II, 17 febbraio 1961, n. 339).
In altri casi il negozio fiduciario potrebbe non essere affetto da nullità ma revocabile (art. 2901 c.c.). Si pensi al caso in cui si trasferiscano momentaneamente i propri beni per sottrarli ai cre¬ditori. In assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito, sicché la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, apprestando l’ordinamento, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione dell’inefficacia (Cass. civ. Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23158).
Non sono naturalmente revocabili ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti posti in essere in adempimento di un’obbligazione e, conseguentemente, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario salvo il caso in cui – come detto – sia provato il carattere fraudolento del negozio, con cui il debitore ha assunto l’obbligo poi eseguito, essendo la stipula¬zione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un pactum de contraendo validamente posto in essere cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi (Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2008, n. 9970; Trib. Trieste, 10 agosto 2011; Trib. Gallarate, 5 febbraio 2010 che fanno applicazione del principio generale di revocabilità del contratto definitivo, ancorché atto dovuto, solo allorché sia provato il carattere fraudolento del preliminare).
Inoltre ai fini dell’inquadramento della fattispecie concreta tra i negozi cosiddetti fiduciari rileva lo scopo dell’operazione che deve essere meritevole di tutela (art. 1322, cpv, c.c. che ammette le parti alla conclusione di contratti atipici “purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela”) ed è proprio la meritevolezza dell’interesse (ancorché si tratti di un concetto così vasto che finisce per confondersi con la liceità del contratto) che potrebbe non rendere plausibile l’in¬quadramento dell’operazione in concreto realizzata dalle parti tra i negozi giuridici aticipi. Si pensi al negozio fiduciario che persegue finalità di evasione fiscali (per evitare il pagamento della tassa di successione intesto un bene al mio erede, che diventerà effettivamente suo alla sua morte).
Pacificamente, quanto meno in giurisprudenza, si ritiene che l’evasione fiscale avuta di mira dai contraenti non consente di qualificare un accordo diretto all’evasione fiscale come nullo in quanto “giusta quanto assolutamente pacifico presso la giurisprudenza più che consolidata, la frode fisca¬le, diretta ad eludere le norme tributarie trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio” (tra le tante Cass. Civ. Sez. III, 18 marzo 2008, n. 7282). Il principio applicato è quello secondo cui la violazione della normativa fiscale non incide sulla validità o efficacia di un contratto, ma ha rilievo esclusivamente tributario. Quindi l’intenzione comune fraudolentemente tesa all’evasione fiscale non renderebbe di per sé nullo un negozio cosiddetto fiduciario.
La meritevolezza dell’interesse – scrutinata in sede di azione di adempimento – potrebbe costituire, perciò, il solo criterio utile, in questi casi, ai fini dell’ammissibilità della figura negoziale in questione.
A proposito della meritevolezza degli interessi perseguiti dal negozio atipico, va segnalata proprio Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1898 che ritenendo plausibile il ragionamento fatto dal giudice di merito per ritenere sussistente il negozio fiduciario, ha affermato che il giudice, nel procedere all’identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all’indivi¬duazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione “in concreto” della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l’interprete, della generale conformità a legge dell’attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell’art. 1343 c.c. (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l’ordinamento giuridico).
Ed è certamente proprio la valutazione della meritevolezza dell’interesse alla base della sentenza in cui si è recentemente sostenuto, in tema di locazione di immobili ad uso diverso da quello abi¬tativo, che l’obbligo di vendita dell’immobile, assunto dal locatore in forza di un patto fiduciario stipulato con un terzo anche anteriormente alla conclusione del contratto di locazione, non è idoneo a sopprimere il diritto di prelazione del conduttore, che trova fondamento nella salvaguar¬dia del suo interesse – dotato di rilessi pubblicistici – alla prosecuzione dell’attività svolta per tutta la durata del rapporto, così che il diritto di prelazione del conduttore prevale sull’interesse delle parti del negozio fiduciario (Cass. civ. Sez. III, 28 dicembre 2016, n. 27180 dove l’interesse a fondamento del patto fiduciario è stato ritenuto inidoneo a superare l’interesse del conduttore alla salvaguardia del suo diritto di prelazione. Nella decisione in questione si fa applicazione del principio di diritto ai sensi del quale la promessa di vendita stipulata prima della locazione con un soggetto a questa estraneo non è idonea a sopprimere il diritto di prelazione derivante, in favore del conduttore, dal rapporto locativo successivamente venuto ad esistenza (principio affermato in passato da Cass. civ. Sez. III, 31 marzo 2008, n. 8288) rilevandosi come “la circostanza secondo cui la fattispecie oggetto dell’odierna controversia abbia riguardo a un obbligo di vendi¬ta derivante dalla precedente stipulazione di un patto fiduciario anziché dalla conclusione di un formale contratto preliminare di compravendita, non vale a modificare i termini sostanziali del principio di diritto richiamato”.
b) I tre caratteri del negozio fiduciario
I caratteri del negozio fiduciario che persegua finalità lecite e meritevoli di tutela sono sostanzial¬mente tre.
a) In primo luogo l’esistenza di un negozio tipico (in genere un trasferimento di un diritto effettua¬to attraverso una compravendita).
b) In secondo luogo l’effettivo (e voluto) trasferimento del diritto al fiduciario (essendosi in pre¬senza in caso contrario, di un negozio non fiduciario ma simulato). A tale proposito ha chiarito in passato molto bene il concetto Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 secondo cui l’inte¬stazione fiduciaria di un bene comporta un reale trasferimento in favore del fiduciario, sia pure limitato dagli obblighi pattiziamente stabiliti tra le parti. Ugualmente si legge, in tempi più vicini, in Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695 secondo cui l’intestazione fiduciaria di un bene – frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante – comporta che il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter artes, del ritrasferimento al soggetto fiduciante, oppure al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae.
Il bene oggetto del trasferimento è indifferente. In genere si tratta della proprietà immobiliare ma anche azioni e titoli di credito possono essere trasferiti con un pactum fiduciae. In un caso di inte-stazione fiduciaria di azioni Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1999, n. 13261 ha affermato che in base al principio secondo cui, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, prevale “l’effettiva” proprietà del fiduciante rispetto alla titolarità “formale” del fiduciario , non può considerarsi affetta da nullità la specifica convenzione con la quale – all’interno del pactum fiduciae – il fiduciante si obblighi a tenere indenne il fiduciario dalle imposizioni fiscali gravanti su quest’ultimo in conse¬guenza dell’intestazione dei titoli azionari, non integrando tale traslazione dell’obbligazione tribu¬taria gli estremi del pagamento di imposta da parte di soggetto diverso dal materiale percettore del corrispondente reddito.
Non necessariamente deve trattarsi di diritti reali. Anche obbligazioni (diritti di natura personale, quindi) possono essere oggetto di trasferimento. Come è stato ben sottolineato da Cass. civ. Sez. II, 5 febbraio 2000, n. 1289 e Cass., civ. Sez. II, 21 novembre 1988, n. 6263 il pactum fiduciae può configurarsi in relazione a situazioni giuridiche soggettive di natura reale o personale, assumendo rilievo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene o il diritto acquistato al fiduciante o a terzi. È, pertanto, ravvisabile un contratto fiduciario nell’ipotesi in cui il ritrasfe¬rimento al fiduciante concerne i diritti derivanti al fiduciario dal contratto preliminare di compra¬vendita immobiliare già stipulato con terzi. Mai la giurisprudenza ha assunto ad elemento decisivo per la ravvisabilità del pactum fiduciae la sola natura reale della posizione giuridica soggettiva da ritrasferire. Al contrario, è stato sempre correttamente ritenuta irrilevante la natura giuridica di tale posizione soggettiva assumendo rilievo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene od il diritto acquistato al fiduciante o ad una terza persona.
c) infine vi è nel negozio fiduciario una finalità ulteriore – chiarita attraverso clausole contrattuali di natura obbligatoria – restrittiva e specificativa rispetto al mezzo utilizzato (in dottrina si parla, con un’espressione entrata nel lessico del negozio fiduciario di “eccedenza del mezzo rispetto allo scopo dei contraenti” nel senso che il risultato giuridico che si ottiene con la conclusione del contratto eccede il reale intento delle parti, che viene perseguito con pattuizioni di natura obbliga¬toria che restringono gli effetti dell’atto compiuto). Il contratto viene posto in essere con un fine pratico diverso rispetto a quello che si ha nella struttura causale del negozio utilizzato. Per questo il negozio fiduciario è un vero e proprio negozio indiretto, attraverso il quale si raggiungono, cioè, finalità ulteriori rispetto a quelli che sono tipici dello strumento negoziale utilizzato. Il concetto è ribadito da Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134; Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 e ben ripreso anche nella giurisprudenza di merito da Trib. Vicenza Sez. II, 13 aprile 2016; Trib. Monza Sez. I, 11 maggio 2015; Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 nelle quali si osserva in sostanza che il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, destinato a realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasfe¬rimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae. Questa posizione di titolarità creata in capo al fiduciario è provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante o di un terzo (così già Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134) nel senso che, ove l’effetto reale non risulta essere accompagnato da alcun patto contenente l’obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato, non può parlarsi di negozio giuridico fiduciario e l’intestazione effettuata dal presunto fiduciante dovrebbe invece qualificarsi come donazione indiretta e non come intestazione fiduciaria.
L’adempimento del negozio fiduciario non è lasciato, perciò, all’affidamento sull’impegno assun¬to dall’alto contraente ma ha natura obbligatoria. È giusto quindi il principio affermato da Trib. Genova, 23 maggio 2005 secondo cui la cessione di azioni tra l’intestatario fiduciario e un ter¬zo, avvenuta con l’intento comune alle due parti di rendere possibile al fiduciario di sottrarsi al proprio obbligo di trasferimento a favore del fiduciante, va dichiarata inefficace nei confronti del fiduciante, mentre resta accertato l’obbligo in capo al fiduciario di trasferimento delle dette azioni, siccome conseguente all’accertamento della intestazione fiduciaria da cui tale obbligo consegue.
Molto chiara, in ordine alla funzione del negozio fiduciario come negozio indiretto è Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654 che ricostruisce in generale il negozio fiduciario come accordo tra due soggetti, con cui il fiduciante trasferisce, o costituisce, in capo al fiduciario una situazione giuridica soggettiva per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore. Il fiduciario, per la rea¬lizzazione di tale obiettivo, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situa¬zione soggettiva, in funzione strumentale, avendo un comportamento coerente e congruo. Sulla stessa linea di muove App. Napoli Sez. II bis, 14 settembre 2011 secondo cui nell’ambito di un negozio fiduciario, un soggetto-fiduciante trasferisce in proprietà un bene ad un altro soggetto fiduciario non già per realizzare uno scambio, quanto piuttosto per conseguire uno scopo diverso dall’effetto traslativo, con l’obbligo del fiduciario di ritrasferire la proprietà del bene a semplice richiesta al fiduciante o ad un terzo indicato dal medesimo.
La causa concreta dell’operazione consiste, quindi, in un fine ulteriore che trascende gli effetti tipici del negozio utilizzato, proprio in ragione del collegamento negoziale tra il negozio tipico utilizzato e le obbligazioni che vi sono collegate (Cass. civ. Sez. III, 17 maggio 2010, n. 11974; Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2010, n. 11314; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024; Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402).
Va segnalata infine Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2001, n. 14375 secondo cui il diritto del fiduciante alla restituzione dei beni intestati al fiduciario si prescrive con il decorso dell’ordinario termine decennale, che decorre, in difetto di una diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario, avutane richiesta, abbia rifiutato il trasferimento del bene. Sulla stessa linea, di recente, Trib. Massa, Sez. Unica, 3 febbraio 2017 secondo cui le norme che determinano i termini di prescrizione dei diritti vanno lette ed interpretate alla luce dell’art. 2935 c.c., secondo il quale il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui il diritto può essere fatto valere; va da sé che nell’ipotesi di intestazione fiduciaria di quote societarie, il diritto del fiduciante ad ottenere il “ritrasferimento della quota” da parte del fiduciario può essere fatto valere, in difetto di diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario riceve la richiesta di re¬stituzione e rifiuta l’adempimento, considerato che prima di tale data sussiste solo un obbligo di trasferimento a richiesta del fiduciante e non una obbligazione inadempiuta.
IV Fiducia dinamica e fiducia statica
La categoria del negozio fiduciario di cui si sta parlando – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende innanzitutto l’accordo classico con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, per poi ritrasferirlo a lui stesso o ad un terzo (cosiddetta fiducia dinamica). Qui l’aggettivazione dinamica sta proprio a intendere il fatto che vi è stato un trasferi¬mento di diritti da una persona ad un’altra.
Il negozio fiduciario può, però, anche essere “statico” riferendosi all’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio – come fosse un mandatario senza rappresentanza – da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cosiddetta fiducia statica). In questo secon¬do caso il fiduciario non acquista il bene dal fiduciante (quindi non vi è un effetto di tipo traslativo tra l’alienante e l’acquirente) ma lo possiede in nome proprio avendolo acquistato da un terzo, in virtù di un precedente patto con cui si era obbligato a traferirlo successivamente al fiduciante.
La differenza è stata approfondita spesso dalla giurisprudenza non solo di merito (Trib. Chiava¬ri, 30 aprile 1991; Trib. Napoli, 16 gennaio 1993; Trib. Cagliari, 10 dicembre 1999) ma anche da quella di legittimità. Di recente per esempio Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2014, n. 6514, nel ritenere pienamente ammissibile il negozio fiduciario statico, intendendosi tale quella figura negoziale atipica che si esprime allorquando fra due soggetti si conviene che un bene deb¬ba essere trasferito nel presupposto che la sua titolarità da parte del trasferente fosse in realtà espressione di un precedente accordo diretto a crearla, ma con l’intesa della sua non corrisponden¬za alla titolarità effettiva del bene e con l’impegno del fiduciario a ripristinare la titolarità formale.
Si legge in questa sentenza che già in passato era stata individuata la ricorrenza del negozio fi¬duciario non solo nel “negozio fiduciario di tipo traslativo (che importa l’attribuzione originaria di una determinata posizione giuridica – normalmente del diritto di proprietà o di altro diritto reale – al fiduciario) anteriore o coevo all’acquisto”, ma anche nella “fiducia statica”. Si deve soprattutto a Cass. civ. Sez. II, 7 agosto 1982, n. 4438 la precisazione che: “Negli schemi del pactum fiduciae rientra, oltre il negozio fiduciario di tipo traslativo, anche la cosiddetta fiducia statica i cui estremi sono rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo “disegno” del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giu¬ridica di cui si tratta. Insomma il fiduciario ha già la proprietà di qualcosa e accetta con un patto di trasferirla ad altri.
Ugualmente delle due situazioni si ebbe ad occupare Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1988, n. 5663 secondo cui il negozio fiduciario è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamen¬to tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
La figura viene ulteriormente evocata da Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025, la quale precisò che “Il negozio fiduciario, sia quando venga preceduto da un atto di trasferimen¬to del diritto del fiduciante al fiduciario (cosiddetta fiducia dinamica) sia quando non lo sia, per essere il fiduciario già titolare del diritto che si obblighi a trasferire all’altro contraente o al terzo (cosiddetta fiducia statica), è sempre un atto realmente dovuto, con la conseguenza che ad esso non sono estensibili le norme che prevedono l’inopponibilità del negozio simulato ai creditori del titolare apparente”.
Ancora: la distinzione fra fiducia cosiddetta statica a fiducia cosiddetta dinamica è evocata da Cass. civ. Sez. II, 3 maggio 1993, n. 5113 nella chiara supposizione della legittimità di entram¬be, per escludere che vi fosse riconducibile il negozio in concreto oggetto del giudizio, avendo detta sentenza affermato che: “Il patto con il quale si conviene che uno dei contraenti acquisti un fondo in proprietà comune e trasferisca agli altri contraenti la quota ad essi rispettivamente spettante non può essere qualificato come negozio fiduciario di tipo traslativo, che è stipulato tra l’alienante e l’acquirente in vista di uno scopo pratico ulteriore rispetto a quello proprio della alienazione, né come una situazione di cosiddetta fiducia di tipo statico, che si innesta in una situazione giuridica preesistente in testa alla persona che, con il pactum fiduciae, accetta di dirottarla dal suo naturale esito, ma deve essere ricondotto alla figura giuridica del mandato senza rappresentanza ed, aven¬do per oggetto un bene immobile, deve essere, stipulato per iscritto”.
V La forma e la prova del patto fiduciario
Secondo l’impostazione generale richiamata dalla citata Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654, non essendo il contratto cosiddetto fiduciario espressamente disciplinato dalla legge e non essendoci una disposizione esplicita in senso contrario, esso è soggetto al principio generale della libertà della forma. Nella vicenda trattata dalla sentenza in questione si trattava della cessione di titoli senza corrispettivo nella quale la Corte ha ritenuto configurabile, non una donazione ma un negozio fiduciario.
Nella stessa prospettiva Trib. Bari Sez. IV, 17 dicembre 2008 ha ritenuto che il negozio fiducia¬rio costituisce una figura negoziale atipica retta dal principio della libertà delle forme, e ha affer¬mato (in un caso di trasferimento di quote societarie) che, non essendo richiesta la forma scritta né ad substantiam né ad probationem, la sussistenza del pactum fiduciae può essere provata con qualsiasi mezzo, anche con prova testimoniale.
Se è vero che in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà di forma, è anche vero, però, che se il patto ha ad oggetto beni immobili, esso deve rivestire la forma scritta.
Recentemente Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 ha ribadito che il negozio fi¬duciario, quando si riferisce a beni immobili, deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, né tale forma può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti. Il principio consolidato è quello secondo cui ogni obbligazione che importa l’obbligo di vendere un bene immobile deve seguire la forma prevista per la vendita (art. 1351 c.c.) come ha messo più volte in evidenza la giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163; Cass. civ. Sez. II, 7 aprile 2011, n. 8001; Cass. civ. Sez. II, 13 ottobre 2004, n. 20198; Cass. civ. Sez. II, 13 aprile 2001, n. 5565; Cass. civ. Sez. II, 19 luglio 2000, n. 9489; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993 n. 6024) precisando che la ratio dell’art. 1351 c.c., dettato in tema di contratto preliminare, è invocabile anche in caso di negozio fiduciario.
Anche la designazione da parte del fiduciante della persona a favore della quale deve essere traferito il bene deve rivestire ad substantiam la forma scritta (art. 1350 n. 1 e 1351 c.c.), non bastando a tal fine la prova presuntiva. Tale designazione, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, deve risultare chiaramente dalla scrittura documentale (Cass. civ. Sez. II, 30 gen¬naio 1995, n. 1086; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993, n. 6024).
Qualora l’obbligazione assunta dal soggetto nell’atto unilaterale abbia ad oggetto il trasferimento di un diritto reale immobiliare, il creditore della prestazione, in difetto del suo spontaneo adem¬pimento da parte dell’obbligato, potrà ottenere dal giudice l’emissione di una sentenza che tenga luogo dell’atto traslativo non compiuto (art. 2932 c.c.) soltanto se la dichiarazione unilaterale sia stata redatta per iscritto e sottoscritta e qualora essa contenga una analitica descrizione degli immobili degli immobili da trasferire. L’art. 2932 c.c., infatti può essere utilizzato non soltanto in presenza di un contratto preliminare cui non abbia fatto seguito il contratto definitivo, ma anche in presenza di un impegno unilaterale che abbia i requisiti essenziali per consentire il trasferimento della proprietà, ovvero contenga un impegno attuale del promittente a cui lo stesso non abbia dato volontariamente corso, benché il termine sia scaduto o in mancanza di termine, e l’indicazione precisa degli immobili oggetto dell’impegno di ritrasferimento, nonché la forma scritta prescritta dalla legge ad substantiam per il trasferimento della proprietà dei beni immobili.
Molto opportunamente nella sopra richiamata Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163 si afferma che la mera dichiarazione confessoria non può valere né quale elemento integrante il contratto, né come prova del medesimo in quanto nei contratti aventi ad oggetto il trasferimen¬to della proprietà immobiliare (e relativi preliminari), il requisito della forma scritta prevista ad substantiam comporta che l’atto scritto, costituendo lo strumento necessario ed insostituibile per la valida manifestazione della volontà produttiva degli effetti del negozio con efficienza pari alla volontà dell’altro contraente, non può essere sostituito da una dichiarazione confessoria dell’al¬tra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – quando anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto – come prova del me¬desimo; pertanto, il requisito di forma può ritenersi soddisfatto solo se il documento costituisca l’estrinsecazione formale diretta della volontà negoziale delle parti e non anche quando esso si limiti a richiamare un accordo altrimenti concluso, essendo in tal caso necessario che anche tale accordo rivesta la forma scritta e contenga tutti gli elementi essenziali del contratto non risultanti dall’altro documento, senza alcuna possibilità di integrazione attraverso il ricorso a prove stori¬che, non consentite dall’art. 2725 c.c. (che in questi casi ammette solo la prova della perdita del documento scritto).
Anche nella giurisprudenza di merito la forma scritta è considerata essenziale. Per esempio Trib. Milano Sez. IV, 10 giugno 2013; precisa che negozio fiduciario deve annoverarsi nella più ampia categoria dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico in via non diretta, ma indiretta e poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento dello stesso in favore del fiduciario, ove il patto abbia ad oggetto beni immobili, esso deve necessariamente risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam. Ugualmente Trib. Roma Sez. X, 10 febbraio 2011 afferma che il negozio fiduciario, allorché si riferisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. e tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo siffatta dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante del contratto, né come prova dello stesso, tenuto conto che il medesimo non può essere dimostrato mediante la prova testimoniale (art. 2725 c.c.) , all’infuori dell’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del documento. Ugualmente per Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010 e Trib. Genova, 13 ottobre 2005 il negozio fiduciario che inerisca al trasferimento di beni immobili deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale della sua validità, ai sensi dell’ art. 1350 c.c., forma che assolutamente non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo tale dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori della sola ed eccezionale ipotesi di perdita in¬colpevole del documento. In passato anche App. Bologna, 14 giugno 1991 aveva già affermato che la stipulazione di un patto fiduciario avente ad oggetto il trasferimento di un immobile deve essere effettuata con il rispetto della forma scritta ad substantiam ed inoltre che la prova di tale negozio fiduciario non può essere data per testimoni (ad eccezione dell’ipotesi consacrata nel n. 3 dall’art. 2724 c.c.), né mediante giuramento e nemmeno mediante confessione, cui tende essen-zialmente l’interrogatorio formale.
Al di fuori dei casi in cui vi sia un trasferimento di beni immobili (che come detto deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam e non è dimostrabile con testimoni), la prova per testimoni relativamente al pactum fiduciae è ammessa nel caso in cui il patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di accordo, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento. Qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento (Cass. civ. Sez. III, 23 marzo 2017, n. 7416; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11757; Cass. civ. Sez. I Sent., 1 agosto 2007, n. 16992).
VI Contratto fiduciario e contratto simulato: le differenze
Il negozio simulato non produce effetti tra le parti (art. 1414 c.c.). Un esempio di simulazione (relativa) è l’interposizione fittizia con cui le parti fanno comparire come intestatario del bene acquistato un soggetto che non è quello – per i motivi più vari – che tra di loro vogliono sia il pro¬prietario. Simulano una intestazione ma in verità il titolare della proprietà secondo accordi tra le parti è un altro.
Questo fenomeno non ha niente a che vedere con l’interposizione reale (ipotesi di negozio fiducia¬rio) in cui il vero proprietario è quello che risulta intestatario, mentre tra le parti si conviene che costui dovrà ritrasmettere in seguito la proprietà all’altro.
L’intestazione fiduciaria (per esempio la vendita dal fiduciante al fiduciario ovvero l’acquisto di quanto alienato da un terzo al fiduciario, sia pure con provvista erogata dal fiduciante) è realmente voluta e pienamente efficace, e segna la differenza rispetto al negozio simulato, nel quale le parti in realtà non vogliono la produzione degli effetti. Nel negozio fiduciario gli effetti del trasferimen¬to sono realmente voluti dalle parti che correggono con patti obbligatori la situazione creata dal negozio. Nel negozio simulato gli effetti sono invece voluti al solo fine di creare un’apparenza per i terzi, di modo che si palesi una esteriorità difforme da quanto effettivamente voluto dalle parti.
Molto efficacemente, per delineare la differenza radicale tra le due situazioni, Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 ha affermato che costituisce domanda nuova – e non semplice pre¬cisazione o modificazione della domanda già proposta – la richiesta volta al riconoscimento della proprietà del bene, sul presupposto del carattere fittizio dell’intestazione, discendente dalla simu¬lazione, data la diversità tra l’interposione fiduciaria e la simulazione, deducendosi con la prima l’esistenza di un contratto valido ed efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell’obbligo di ritrasferire il bene a vantaggio del fiduciante, e con la seconda, invece, un’ipotesi di divergenza tra volontà e manifestazione.
In passato si era espressa negli stessi termini Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402 dove si afferma che, tenuto conto che il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carat¬tere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo, l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nel caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ul¬timo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
Nell’interposizione fittizia si ha quindi una simulazione soggettiva e l’interposto risulta intestatario, mentre gli effetti del negozio si producono soltanto a favore dell’interponente (Cass. civ. Sez. II, 12 ottobre 2018, n. 25578; Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2013, n. 8682; Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2006, n. 5457; Cass, civ. Sez. II, 21 ottobre 1994 n. 8616). Diverso è, natural¬mente, il fenomeno dell’interposizione reale – che non ha niente a che fare con la simulazione – in cui il trasferimento della proprietà al soggetto interposto è reale e si accompagna all’assunzione di impegni di ritrasferimento. Su tutti questi aspetti vi è piena convergenza anche nella giurispruden¬za di merito1. La differenza tra interposizione fittizia (simulazione) e interposizione reale (negozio fiduciario) è stata, per esempio, ben chiarita in passato da Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 secondo cui il negozio fiduciario si realizza (come la giurisprudenza consolidata ritine, come si è visto) mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, costituito da un negozio reale traslativo realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio (il vero e proprio pactum fiduciae) per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiducian¬te o a un terzo; l’intestazione fiduciaria (nella specie di titoli azionari) integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista la titolarità del bene (a differenza di quanto avviene nella interposizione fittizia o simulata) pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo compor¬tamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire il bene a quest’ultimo, ad una scadenza convenuta ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
Il principio generale applicato costantemente in giurisprudenza è il seguente: l’azione di simula¬zione del contratto per interposizione fittizia di persona e quella diretta all’accertamento dell’inter¬posizione reale sono fondate su situazioni di fatto del tutto distinte, hanno finalità e presupposti diversi, petitum e causa petendi difformi, tema di indagine e di decisione distinti. Infatti, nella prima si ha una simulazione soggettiva e l’interposto (nella specie, in una compravendita di bene immobile) figura soltanto come acquirente, mentre gli effetti del negozio (trasferimento della pro¬prietà) si producono a favore dell’interponente; nella seconda, invece, non esiste simulazione, in quanto l’interposto, d’accordo con l’interponente, contratta con il terzo in nome proprio ed acqui¬sta effettivamente i diritti nascenti dal contratto, salvo l’obbligo, derivante dai rapporti interni, di ritrasferire i diritti, in tal modo acquistati, all’interponente.
Anche nella meno vicina Cass. civ. Sez. I, 28 settembre 1994, n. 7899 la Corte, nel chiarire la differenza fra interposizione fittizia e interposizione reale, aveva verificato l’esistenza del pactum fiduciae, statuendo che si versa nell’ipotesi del negozio fiduciario qualora i soci si accordano per creare una società di capitali il cui capitale sia stato effettivamente conferito solo da uno di loro effettivamente mentre gli altri sono soltanto apparentemente intestatari di azioni o quote sociali “l’operazione, che si realizza con la creazione della società, integra l’intestazione fiduciaria delle quote, con il conseguente obbligo per gli intestatari apparenti di trasferire le loro quote a colui che aveva conferito interamente il capitale sociale.
Già in passato per Trib. Roma 30 maggio 2001 e per Trib. Milano, 1 febbraio 2001 la simu¬lazione si concretizza nella divergenza tra volontà e manifestazione, mentre la fiducia consiste nella effettività del contratto, valido ed efficace, che costituisce a carico del fiduciario l’obbligo di provvedere al ritrasferimento al fiduciante. Il negozio fiduciario – si afferma – è una categoria non espressamente disciplinata dalla legge, e pur tuttavia tutelata dalla legge in base ai principi dell’autonomia contrattuale, che si realizza mediante il collegamento tra due negozi, uno di carat¬tere esterno, realmente voluto (a differenza del contratto assolutamente o relativamente simulato) e spiegante i suoi effetti nei confronti dei terzi – comportante il trasferimento di un diritto in capo ad un soggetto ( fiduciario ) e l’altro, di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il ri¬sultato del negozio esterno, comportante l’obbligo per il fiduciario di trasferire il diritto attribuitogli con negozio esterno all’altra parte del negozio interno (fiduciante).
Secondo Trib. Modena, 16 dicembre 2005 Il carattere fiduciario della titolarità di un diritto non può costituire il fondamento di una domanda di accertamento della proprietà esclusiva del fiduciante, in quanto l’intestazione del fiduciario è reale. Può invece fondare l’azione di carattere obbligatorio mirante ad ottenere il ritrasferimento del diritto.
VII L’attuazione del patto fiduciario: gli obblighi di correttezza e la conseguenza della loro violazione
Mentre l’inadempimento di un negozio fiduciario puro non prevede alcuna possibile azione attivabi¬le dal fiduciante, nei negozi fiduciari atipici di cui si è fin qui parlato all’inadempimento può reagirsi con la richiesta di adempimento coattivo.
1 Cfr voce Interposizione fittizia
Nel caso in cui l’inadempimento consista nell’omissione del fiduciario, il quale non voglia trasferire il bene, si potrà agire con l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre ex articolo 2932. Del resto l’articolo 2932 si applica a tutti i casi in cui c’è un obbligo di contrarre; e quindi anche nei casi in cui l’obbligo derivi da un patto aggiunto o collegato ad un negozio tipico di trasferimento (Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 e Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5160 hanno nel tempo ribadito che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c., al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazio¬ne di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un ne¬gozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere ex lege.
La possibilità di adempimento coattivo non è, però, l’unica conseguenza. Infatti secondo Cass. civ. Sez. III, 14 novembre 2011, n. 23728 l’obbligo di ritrasferimento del bene deve essere adempiuto dal fiduciario acquirente a prescindere dalla relativa eventuale richiesta da parte del fiduciante venditore. Ne consegue che, in caso di inadempimento all’anzidetto obbligo, ove le parti non abbiano stipulato al riguardo una clausola risolutiva espressa determinante la risoluzione dello stesso contratto di trasferimento, il fiduciario è tenuto, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., al risarci¬mento del danno ed è privo di legittimazione sostanziale a disporre del bene sia inter vivos che mortis causa.
L’inadempimento può anche però consistere nella vendita a terzi da parte del fiduciario del bene del fiduciante, in violazione dell’accordo di ritrasferimento. In tal caso secondo la tesi prevalente, il fiduciante potrà ottenere il risarcimento del danno. Ed anche, il terzo, qualora sia a conoscenza del pactum fiduciae, dovrà risarcire il danno ex articolo 2043.
In Cass. civ., Sez. II, 29 novembre 1985, n. 5958 il pactum fiduciae consisteva in un divieto di alienazione posto a carico dell’acquirente ì; divieto che spiega effetti meramente interni (art. 1379 c. c.); l’inosservanza di tale divieto, pertanto, non interferisce sulla validità del contratto con il quale il fiduciario abbia trasferito il bene ad un terzo, indipendentemente dalla buona o mala fede di quest’ultimo, salvo restando il diritto del fiduciante di essere risarcito del danno derivantegli dall’inadempimento di quel patto.
Già in passato Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025 aveva ben chiarito che il negozio fiduciario, nella parte contenente il pactum fiduciae, non è trascrivibile, in considerazione della sua natura obbligatoria, nulla impedisce al fiduciario di trasferire, in sua violazione, il diritto cedutogli ad un terzo, il cui acquisto è pienamente valido ed efficace anche nei confronti del fiduciante.
Interessante la più recente precisazione di Cass. civ. Sez. III, 8 aprile 2014, n. 8153 che nei rapporti fiduciari (nella specie si trattava di un contratto di sponsorizzazione) assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., contribuen¬do essi ad individuare obblighi, ulteriori o integrativi di quelli tipici del rapporto stesso, il cui ina¬dempimento è patrimonialmente valutabile, ai sensi dell’art. 1174 cod. civ., e tale da giustificare una richiesta di risarcimento danni, purché siano specificati e provati i comportamenti pregiudizie¬voli e i loro concreti effetti lesivi.
Interessante la vicenda riguardante un conto corrente bancario fiduciariamente intestato a perso¬na diversa dal proprietario dei fondi in cui Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 2009, n. 8127 afferma che, qualora un soggetto acconsenta, su richiesta di un altro, ad intestarsi un conto corrente in via fiduciaria, cioè con l’intesa che le somme che su di esso transitino sono di pertinenza dell’altro soggetto, che costui avrà in concreto la gestione del conto e che esso sarà, però, utilizzato per lo svolgimento di un’attività lecita di detto soggetto, l’intestatario del conto (fiduciario) è tenuto, per il fatto stesso di apparire verso i terzi come intestatario del conto ed a maggior ragione per il fatto di non averne la concreta gestione, ad esercitare la necessaria vigilanza sul rispetto da parte di quel soggetto della finalizzazione dell’utilizzo del conto corrente esclusivamente all’esercizio della detta attività, conforme agli accordi presi. Ne consegue che, qualora l’intestatario ometta di eser¬citare tale vigilanza, disinteressandosi completamente della gestione del conto, e l’altro soggetto utilizzi il conto corrente per realizzare un illecito in danno di terzi, l’intestatario del conto corrente può rispondere sul piano causale a titolo di imprudenza e negligenza, ai sensi dell’art. 2043 c.c., del danno cagionato ai terzi per effetto dell’illecito.
VIII Il trust come negozio fiduciario
Con il trust – al quale in questa sede si accenna solo per completezza trattandosi di un tipico rapporto giuridico fiduciario – alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un “fiduciario” detto trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato.
La Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, prevede che il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di “amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee”.
Il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione. Riceve quindi, relativamente a tali beni, un diritto di proprietà segregato e temporaneo nell’interesse altrui, diritto che non corrisponde in alcun modo ad un suo arricchimento o tutela, essendo preordinato ad una diversa destinazione la cui attuazione è rimessa al disponente stesso (da ultimo Trib. Modena, 22 novembre 2016; Trib. Milano, 20 maggio 2015).
La fiducia nel trust rileva – in conformità a quanto si è detto sopra trattando della natura non fiduciaria ma obbligatoria del pactum fiduciae – nel senso di affidabilità nelle capacità del sogget¬to incaricato dell’adempimento e non certo nel senso di non obbligatorietà dell’adempimento. Il concetto è messo bene in risalto da Cass. civ. Sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022 che affronta il tema delle violazioni dell’incarico fiduciario da parte del “trustee” – quali la cattiva gestione dei beni oggetto di trust, atti di gestione perfezionati in conflitto di interessi, omesso rendiconto, de¬pauperamento del patrimonio destinato – che costituiscono presupposti sufficienti all’accoglimento della domanda di revoca del trustee infedele. Nella sentenza si segnala che tale incarico non si sostanzia e non si esaurisce nel compimento di un singolo atto giuridico (come nel mandato), bensì in una attività multiforme e continua che deve essere sempre improntata a principi di correttezza e diligenza. Non a caso, le norme di cui all’art. 334 c.c., in tema di usufrutto legale, e art. 183 c.c., in tema di comunione legale, contemplano la possibilità della revoca per aver “male amministrato”, formula, necessariamente generica e lata, che può concretarsi non solo per effetto di specifiche violazioni di legge, ma anche quando l’assolvimento della funzione non sia, nel complesso, impron¬tato alla diligenza richiesta dalla natura fiduciaria dell’incarico, così da riuscire lesivo degli interessi che l’istituto mira a proteggere.
IX Il contratto di affidamento fiduciario
La legge 22 giugno 2016, n. 112 (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare) al terzo comma dell’art. 1 prevede che “La presente legge è volta, altresì, ad agevolare le erogazioni da parte di soggetti privati, la stipula di polizze di assicurazione e la costituzione di trust, di vincoli di destinazione di cui all’articolo 2645-ter del codice civile e di fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario anche a favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale… in favore di persone con disabilità grave, secondo le modalità e alle condizioni previste dagli articoli 5 e 6 della presente legge.”
La nuova disciplina si propone di “favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone con disabilità” (art. 1, comma 1) ed a tal fine individua, dunque, quattro diversi strumenti giuridici astrattamente idonei a proteggere gli interessi dei soggetti con disabilità grave: le polizze di assicurazione; il trust; i vincoli di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. e, come sopra detto, i “fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario”.
Viene quindi riconosciuta (ma non ancora disciplinata) la figura (finora elaborata solo dalla dottri¬na) del “contratto di affidamento fiduciario” che, al pari del trust e dei vincoli di destinazione, deve rispettare alcune condizioni al fine dell’ottenimento delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 6 della stessa legge e che è ritenuta capace conseguire due effetti fondamentali per la realizzazione del programma di tutela del disabile che sono da un lato la costituzione di un patrimonio separato in capo al fiduciario, composto dai beni (i “fondi speciali”) destinati all’attuazione del programma fiduciario e dall’altro l’opponibilità ai terzi del vincolo di destinazione (e quindi dello stesso pro¬gramma fiduciario).
La nuova figura dovrà essere disciplinata quanto prima da una legge che potrà fondarsi sulla ela-borazione finora proposta dalla dottrina secondo la quale il contratto in questione stipulato tra un “affidante” e un “affidatario fiduciario” con un garante (guardian) che potrebbe essere lo stesso affidante o un terzo, titolare dei poteri che le parti gli attribuiscono, in particolare quello di agire sul patrimonio dedicato per gli scopi di tutela programmati. Il contratto di affidamento fiduciario richiede, appunto, un programma che mira a realizzare da parte del soggetto fiduciario interessi meritevoli di tutela e di protezione. L’inadempimento del fiduciario potrà dare luogo alla nomina di altro fiduciario ed eventualmente a una azione per il risarcimento del danno. Il soggetto affidante – parte del contratto – può legittimamente intervenire nell’esecuzione del contratto per la migliore realizzazione del programma e potrà anche agire in giudizio contro il fiduciario. L’attuazione del programma è affidata al fiduciario al quale debbono essere trasferiti i mezzi necessari per attuarlo che formano il “patrimonio dedicato” separato, naturalmente, dai sui beni personali, ed aggredibile dai soli creditori della destinazione.
CONTRATTO FIDUCIARIO
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. II, 12 ottobre 2018, n. 25578 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di interposizione fittizia di persona, la simulazione ha come indispensabile presupposto la partecipazione all’accordo simulatorio non solo dell’interposto e dell’interponente, ma anche del terzo contraente che deve dare la propria consapevole adesione all’intesa raggiunta tra i primi due soggetti assumendo i diritti e gli obblighi contrattuali nei confronti dell’interponente, ragion per cui la prova dell’accordo simulatorio deve avere ad oggetto la partecipazione del terzo all’accordo stesso con la conseguenza che, in caso di compravendita immobiliare, la domanda diretta all’accertamento della simulazione, ai fini della invalidazione del negozio simulato “inter partes”, non può essere accolta se l’accordo simulatorio non risulti da atto scritto, proveniente anche dal terzo contraen¬te, mentre resta del tutto inidonea ai fini suddetti – ove sia stata già raggiunta la prova della controdichiarazione conclusa tra il solo interponente e l’interposto – l’acquisizione dell’ulteriore controdichiarazione integrativa scritta intercorsa, però, tra il solo interposto ed il terzo, al quale non abbia quindi partecipato anche l’interponente, da considerarsi terzo rispetto a tale scrittura, al quale non è, perciò, opponibile ai sensi dell’art. 2704 c.c., in difetto di idonea prova contraria.
Cass. civ. Sez. III, 23 marzo 2017, n. 7416 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, la prova per testimoni del “ pactum fiduciae” è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e ss. c.c. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, onde realizzare uno scopo ulteriore in rapporto a quello naturalmente inerente al tipo di contratto stipulato, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamen¬to, mentre ove il patto si ponga in antitesi con quanto risulta dal contratto, la qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.
Trib. Massa, Sez. Unica, 3 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le norme che determinano i termini di prescrizione dei diritti vanno lette ed interpretate alla luce dell’art. 2935 c.c., secondo il quale il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui il diritto può essere fatto va¬lere; va da sé che nell’ipotesi di intestazione fiduciaria di quote societarie, il diritto del fiduciante ad ottenere il “ritrasferimento della quota” da parte del fiduciario può essere fatto valere, in difetto di diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario riceve la richiesta di restituzione e rifiuta l’adempimento, considerato che prima di tale data sussiste solo un obbligo di trasferimento a richiesta del fiduciante e non una obbligazione inadempiuta.
Trib. Modena, 22 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con il trust alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un “fiduciario” detto trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato. La Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, prevede che il vincolo di de¬stinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di “amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee”. Benché il trust non abbia personalità giuridica, dunque, il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione. Riceve quindi, relativamente a tali beni, un diritto di proprietà segregato e temporaneo nell’interesse altrui, diritto che non cor¬risponde in alcun modo ad un suo arricchimento o tutela, essendo preordinato ad una diversa destinazione la cui attuazione è rimessa al disponente stesso. Pertanto, quando il trustee in una istauranda causa sia interessato in proprio contro il trust, sussistendo nel caso di specie un conflitto “d’interesse processuale”, va disposta la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c.
Cass. civ. Sez. III, 28 dicembre 2016, n. 27180 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo, l’obbligo di vendita dell’immobile, assunto dal locatore in forza di un patto fiduciario stipulato con un terzo anche anteriormente alla conclusione del con¬tratto di locazione, non è idoneo a sopprimere il diritto di prelazione del conduttore, che trova fondamento nella salvaguardia del suo interesse – dotato di rilessi pubblicistici – alla prosecuzione dell’attività svolta per tutta la durata del rapporto, così che il diritto di prelazione del conduttore prevale sull’interesse delle parti del negozio fiduciario.
Trib. Vicenza Sez. II, 13 aprile 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, destinato a realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti “inter partes”, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del “pactum fiduciae”.
Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17785 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Realizzandosi il negozio fiduciario mediante il collegamento di due negozi, parimenti voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, “inter partes” ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo, l’intestazione fiduciaria di quote di partecipazione societaria integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (diversamente dal caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, ed a ritrasferirgliele ad una scadenza concor¬data, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’alienazione di quote societarie dal padre ai figli, con contestuale rilascio di procura irrevocabile alla retrocessione o al trasferimento a terzi, realizzasse un “pactum fiduciae” volto ad attribuire ai figli i poteri gestionali della società e a lasciare al genitore quelli di controllo).
Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’intestazione fiduciaria di un bene – frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante – comporta che il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, “inter partes”, del ritrasferimento al soggetto fiduciante, oppure al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del “pactum fiduciae”, laddove manca in detta figura qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest’ultimo si rivela soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante.
Trib. Milano, 20 maggio 2015 (Trust, 2016, 7, 380)
Il trustee è litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal terzo creditore del disponente per sentir dichiarare la simulazione o, in subordine, l’inefficacia ex art. 2901 c.c. dell’atto di conferimento di beni in trust, in conside¬razione del fatto che il trustee è il soggetto che amministra il patrimonio nell’interesse dei beneficiari, nonché il proprietario fiduciario del bene o del diritto il cui trasferimento è impugnato.
Trib. Monza Sez. I, 11 maggio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di obbligazioni e contratti, il “negozio fiduciario “ rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il ne¬gozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente, in sostanza, alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae.
Trib. Taranto Sez. II, 27 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In considerazione del rapporto fiduciario che caratterizza il contratto di prestazione d’opera intellettuale, ciascu¬na parte può recedere dal contratto indipendentemente dalla presenza di giusti motivi a carico del prestatore d’opera, permanendo in capo a quest’ultimo il diritto ad ottenere il rimborso delle spese sostenute ed a percepire il compenso per l’opera svolta fino al momento del recesso. Ciò non esclude, tuttavia, che, ove si inseriscano nel contratto clausole estranee al contenuto tipico del negozio di prestazione d’opera, alle stesse possano applicarsi le ordinarie regole in tema di inadempimento contrattuale con la conseguente possibilità, nel caso di contratti a prestazioni corrispettive, di azionare la forma di autotutela rappresentata dall’eccezione di inadempimento.
Cass. civ. Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23158 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito, sicché la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, appre¬stando l’ordinamento, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comporta¬no, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione dell’inefficacia
Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, costituito da un negozio reale traslativo realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio (il vero e proprio “pactum fiduciae”) per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o a un terzo; l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nella interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo, ad una scadenza convenuta ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11757 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato, richiede, qualora riguardi beni immobili, la forma scritta “ad substantiam” e la prova per testimoni di tale patto è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e segg. cod. civ. – sempre che non comporti, il trasferimento, sia pure indiretto, di beni immobili – soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di accordo, senza diretta¬mente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento. Qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad im¬pedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito osservando che il “pactum fiduciae” comportante il trasferimento indiretto di beni immobili attraverso l’intestazione di quote di partecipazione della società proprietaria di tali beni deve essere stipulato per iscritto e non può essere provato con testimoni)
Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 (Giur. It., 2015, 3, 582 nota di STEFANELLI)
L’obbligo di ritrasferimento che trae le sue origini da un pactum fiduciae concluso oralmente, può rinvenire auto¬noma fonte in una dichiarazione unilaterale, qualora essa contenga la chiara enunciazione dell’impegno attuale del soggetto ad effettuare una determinata prestazione in favore di altro soggetto, ai sensi dell’art. 1174 c.c. Il riferimento alla causa di questo impegno, indicata nel negozio fiduciario intercorso tra le parti, non rileva ai soli fini dell’astrazione processuale, ma è idoneo a dare liceità causale e meritevolezza all’impegno assunto con l’atto unilaterale.
La dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un precedente accordo fiduciario non costituisce semplice promessa di pagamen¬to ma autonoma fonte di obbligazioni se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, e, qualora il firmatario non dia esecuzione a quanto contenuto nell’impegno unilaterale, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., purché l’atto unilaterale contenga l’esatta individuazione dell’immobile, con l’in¬dicazione dei confini e dei dati catastali. (Cassa con rinvio, App. Catania, 28/09/2009)
In tema di negozio fiduciario una dichiarazione scritta contenente un impegno che nasce come unilaterale e che come atto unilaterale ha una propria autonoma dignità è atto a costituire fonte di obbligazioni in quanto è volto ad attuare l’accordo fiduciario preesistente. Tale atto è quindi idoneo a consentire al giudice di disporre coattiva¬mente il trasferimento del bene fiduciariamente intestato ai sensi dell’art. 2932 c.c.
La dichiarazione unilaterale scritta, con cui un soggetto, in attuazione di un precedente accordo fiduciario stipula¬to oralmente, si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili, costituisce autonoma fonte di obbligazione se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, il quale è suscettibile di esecuzione in forma specifica, purché l’atto unilaterale individui con esattezza gli immobili, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali.
Cass. civ. Sez. III, 8 aprile 2014, n. 8153 (Danno e Resp., 2014, 12, 1125 nota di SANTORO)
Nel contratto di sponsorizzazione, in quanto rapporto caratterizzato da un rilevante carattere fiduciario, assumo¬no particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., contribuen¬do essi ad individuare obblighi, ulteriori o integrativi di quelli tipici del rapporto stesso, il cui inadempimento è patrimonialmente valutabile, ai sensi dell’art. 1174 cod. civ., e tale da giustificare una richiesta di risarcimento danni, purché siano specificati e provati i comportamenti pregiudizievoli e i loro concreti effetti lesivi.
Anche se il contratto di sponsorizzazione si caratterizza per il rilevante carattere fiduciario del rapporto, nell’am¬bito del quale assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali possono indurre ad individuare obblighi ulteriori o integrativi rispetto a quelli tipici del rapporto, a fini risarcitori non è sufficiente che la società sponsorizzata richiami generici doveri di salvaguardia degli interessi e dell’immagine dello sponsor. Per poter considerare tali doveri oggetto di obblighi di comportamento patrimonial¬mente valutabili ai sensi dell’art. 1174 c.c., lo sponsor deve addurre, invece, la specifica prova dei comportamen¬ti pregiudizievoli, della loro accessorietà rispetto all’accordo di sponsorizzazione e dei loro concreti effetti lesivi per lo sponsor tali da giustificare una richiesta di risarcimento del danno all’immagine subito, ovvero l’effettiva sussistenza ed entità delle sue perdite di profitti e soprattutto il nesso causale fra dette perdite e le vicende che hanno condotto al preteso inadempimento.
Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2014, n. 6514 (Foro It., 2014, 10, 1, 2884)
È ammissibile, in quanto non risulta privo di causa, il negozio fiduciario statico.
Trib. Milano Sez. IV, 10 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario 23deve annoverarsi nella più ampia categoria dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico in via non diretta, ma indiretta. Poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento dello stesso in favore del fiduciario, pertanto, ove il patto abbia ad oggetto beni immobili, esso deve necessariamente risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam. Formulata domanda di rilascio dell’immobile occupato dalla convenuta ed eccepita, da parte di questa, l’intesta¬zione solo fittizia del bene a parte attrice, l’esistenza del contratto asseritamente dissimulato deve essere, per¬tanto, necessariamente provata per iscritto, con conseguente inammissibilità di tutte le istanze istruttorie even¬tualmente formulate da parte convenuta al fine di ricostruire in via testimoniale la esistenza del factum fiduciae.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2013, n. 8682 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La differenza fra interposizione fittizia di persona e interposizione reale non sta nella partecipazione o no del terzo contraente all’accordo che ha portato alla sostituzione dell’interposto all’interponente (dal momento che anche nella seconda il terzo può partecipare all’accordo), ma nel concreto atteggiarsi della volontà degli interes¬sati. Pertanto, poiché nella simulazione fittizia l’interposto figura soltanto come acquirente, mentre gli effetti del negozio si producono a favore dell’interponente, ricorre un’ipotesi di interposizione reale nel caso in cui non vi sia un accordo simulatorio o perché interponente ed interposto vogliono veramente far ricadere nella sfera giuridica dell’interposto gli effetti del contratto stipulato col terzo o perché è proprio il terzo a rifiutare la propo¬sta dell’interponente ed a pretendere ed ottenere di contrattare in via diretta con un altro soggetto interposto.
Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario è un accordo tra due soggetti, con cui il fiduciante trasferisce, o costituisce, in capo al fiduciario una situazione giuridica soggettiva per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore. Il fiduciario, per la realizzazione di tale obiettivo, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, avendo un comportamento coerente e congruo. Ciò premesso, non essendo tale fattispecie contrattuale espressamente disciplinata dalla legge e non essendoci una disposizione esplicita in senso contrario, essa è soggetta al principio generale della libertà della forma. (Nel caso di specie, l’attribuzione di titoli di credito oggetto di contestazione è stata giustificata, stante le risultanze istruttorie, alla luce di un obbligo che la resistente aveva assunto con un dato soggetto (fiduciante) e non, invece, per spirito di liberalità, come sostenuto dal ricorrente).
La cessione di titoli senza corrispettivo non è sempre sorretta dall’animus donandi, atteso che non ogni attribu¬zione patrimoniale gratuita integra una donazione, ma solo quella fatta per spirito di liberalità. È configurabile, invece, un negozio fiduciario allorché un soggetto (fiduciante) trasferisce ad un altro soggetto (fiduciario) la titolarità di un diritto il cui esercizio viene limitato da un accordo tra le parti (pactum fiduciae) per uno scopo che il fiduciario si impegna a realizzare, ritrasferendo poi il diritto allo stesso fiduciante o ad un terzo beneficia¬rio. La fattispecie si sostanzia in un accordo tra due soggetti, con cui il primo trasferisce (o costituisce) in capo al secondo una situazione giuridica soggettiva (reale o personale) per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore, ed il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, e di porre in essere un proprio comportamento co¬erente e congruo. Trattandosi di fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge, e, in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà di forma.
Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5160 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rimedio previsto dall’art. 2932 cod. civ., al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costi¬tuzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere “ex lege”.
Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 (Trust, 2012, 6, 633)
L’intestazione fiduciaria di un bene, frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti ob¬bligatori a vantaggio del fiduciante, ha luogo solo ove il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò espli¬candosi il contenuto del pactum fiduciae. Manca, dunque, nell’istituto qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest’ultimo è soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante. Qualora, dunque, l’effetto reale non risulta essere accompagnato da alcun patto contenente l’obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato, non può intendersi posto in essere il menzionato negozio. Stante quanto innanzi, la fattispecie dell’acquisito di un’azienda da parte del nominato con denaro del preteso fi¬duciante, stipulante, deve correttamente qualificarsi come donazione indiretta e non come intestazione fiduciaria.
Affinché si verifichi l’intestazione fiduciaria di un bene, che deriva dalla combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, è necessario che il trasferimento in favore del fidu¬ciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae, in mancanza del quale non si può ritenere sussistente l’intestazio¬ne fiduciaria del bene, bensì una donazione indiretta.
In tema di modificazioni della domanda giudiziale, laddove l’atto di citazione sia diretto ad ottenere il trasferi¬mento di un determinato bene in favore dell’attore in forza dell’obbligo assunto dall’intestatario fiduciario, costi¬tuisce domanda nuova – e non semplice precisazione o modificazione della domanda già proposta, consentita in virtù della facoltà concessa alle parti dall’art. 183 cod. proc. civ. – la richiesta volta al riconoscimento della pro¬prietà dello stesso bene, sul presupposto del carattere fittizio dell’intestazione, discendente dalla simulazione tanto della dichiarazione di nomina da parte dello stipulante, quanto dell’accettazione della persona nominata, e ciò data la diversità tra le due anzidette fattispecie, deducendosi con la prima l’esistenza di un contratto valido ed efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell’obbligo di ritrasferire il bene a vantaggio del fiduciante, e con la seconda, invece, un’ipotesi di divergenza tra volontà e manifestazione. (Rigetta, App. Roma, 14/07/2009)
Cass. civ. Sez. III, 14 novembre 2011, n. 23728 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fiduciario è obbligato a ritrasferire il bene al fiduciante prescindendo dalla sua eventuale richiesta. Il fiduciario risulta privo della legittimazione sostanziale a disporre del bene sia inter vivos che mortis causa.
Nel contratto fiduciario di compravendita immobiliare l’obbligo di ritrasferimento del bene deve essere adempiuto dal fiduciario acquirente a prescindere dalla relativa eventuale richiesta da parte del fiduciante venditore. Ne consegue che, in caso di inadempimento all’anzidetto obbligo, ove le parti non abbiano stipulato al riguardo una clausola risolutiva espressa determinante la risoluzione dello stesso contratto di trasferimento, il fiduciario è te¬nuto, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., al risarcimento del danno ed è privo di legittimazione sostanziale a disporre del bene sia “inter vivos” che “mortis causa”.
App. Napoli Sez. II bis, 14 settembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un negozio fiduciario, un soggetto-fiduciante trasferisce in proprietà un bene ad un altro soggetto fiduciario non già per realizzare uno scambio, quanto piuttosto per conseguire uno scopo diverso dall’effetto traslativo, con l’obbligo del fiduciario di ritrasferire la proprietà del bene a semplice richiesta al fiduciante o ad un terzo indicato dal medesimo. Ne deriva, dunque, che l’effetto traslativo è limitato nei rapporti interni da un patto obbligatorio, che non richiede la forma scritta e che può essere provato liberamente, non comportando alcun ampliamento o modificazione del contenuto del contratto stipulato fiduciariamente.
Trib. Trieste, 10 agosto 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti posti in essere in adempimento di un’obbligazio¬ne e, conseguentemente, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario. Quanto detto non trova applicazione nel caso in cui sia provato il carattere fraudolento del negozio, con cui il debitore ha assunto l’obbligo poi eseguito, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un factum de contraendo validamente posto in essere cui il promissario non potrebbe unilateral¬mente sottrarsi.
Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163 (Giur. It., 2012, 5, 1045 nota di PERROTTA, MICHETTI)
Il negozio fiduciario come specie del più ampio genere dei negozi indiretti si contraddistingue per il fatto di realiz¬zare un determinato effetto giuridico non in via diretta, bensì indiretta. Pertanto, poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, ove tale patto abbia a oggetto beni immobili, esso deve risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile a un contratto preliminare; né l’atto scritto può essere sostituito da una dichiarazione confessoria proveniente dall’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – anche quando contenga il preciso riferimento a un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo.
Il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti “inter partes”, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del “pactum fiduciae”. Ne consegue come necessario corollario che se il “pactum fiduciae” riguardi beni immobili, occorre che esso risulti da un atto in forma scritta “ad substantiam”, atteso che la “ratio” dell’art. 1351 c.c., dettato in tema di contratto preliminare, è invocabile anche in caso di negozio fiduciario.
Cass. civ. Sez. II, 7 aprile 2011, n. 8001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato, richiede, allorché riguardi beni immobili, la forma scritta ad “substantiam”, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 cod. civ. prescrive la stessa forma del contratto definitivo.
Trib. Roma Sez. X, 10 febbraio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario, allorché si riferisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo siffatta dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante del contratto, né come prova dello stesso, tenuto conto che il medesimo non può essere di¬mostrato mediante la prova testimoniale, all’infuori dell’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del documento.
Trib. Milano, 1 febbraio 2001 (Società, 2001, 8, 973 nota di DI MAIO)
La simulazione si concretizza nella divergenza tra volontà e manifestazione, mentre la fiducia consiste nella effettività del contratto, valido ed efficace, che costituisce a carico del fiduciario l’obbligo di provvedere al ritra¬sferimento al fiduciante.
Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con il negozio fiduciario si opera il trasferimento della titolarità di un diritto dal fiduciante al fiduciario o l’acquisto da terzi di un diritto da parte del fiduciario stesso con danaro fornito dal fiduciante, il cui esercizio viene discipli¬nato da un’intesa interna, con la quale l’interposto si obbliga a comportarsi in una maniera determinata. Il nego¬zio fiduciario si realizza mediante il collegamento dei due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno e obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a trasferire, in tutto o in parte, la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o a un terzo. Il negozio fiduciario che inerisca al trasferimento di beni immobili deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale della sua validità, ai sensi dell’ art. 1350 c.c., forma che assolutamente non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo tale dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori della sola ed eccezionale ipotesi di perdita incolpevole del documento. Ciò posto, nel caso di specie, relativo all’accertamento dell’esistenza di un negozio fiduciario tra le parti in causa con conseguente trasferimento del 50% delle quote di proprietà dell’immobile acquistato in favore dell’appellante, il Tribunale, difettando il requisito della forma scritta ad substantiam, definitivamente pronunciando, rigetta la domanda di parte attrice.
Cass. civ. Sez. III, 17 maggio 2010, n. 11974 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale. Accertare la natura, l’entità, le modalità e le conseguenze del colle¬gamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2010, n. 11314 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’acquisto di una quota di società di persone operato dal fiduciante non produce effetti reali immediati nel pa¬trimonio del fiduciario: infatti il negozio fiduciario si qualifica come una combinazione di due fattispecie nego¬ziali collegate, l’una costituita da un negozio reale traslativo, a carattere esterno, realmente voluto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altra (il vero e proprio pactum fiduciae) avente carattere interno ed effetti meramente obbligatori, diretta a modificare il risultato finale del negozio esterno mediante l’obbligo assunto dal fiduciario di ritrasferire al fiduciante il bene o il diritto che ha formato oggetto dell’acquisto.
Il “pactum fiduciae” avente ad oggetto la cessione di quota di società di persone con patrimonio immobiliare non richiede la forma scritta, non comportando essa anche un trasferimento, dal cedente al cessionario, dei diritti im¬mobiliari, che restano viceversa nella titolarità della società, che non è essa stessa parte del negozio di cessione.
Trib. Roma Sez. X, 29 aprile 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il pactum fiduciae con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato richiede, allorché immobili, la forma scritta ad sub¬stantiam atteso che essa è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 c.c., prescrive la stessa firma del contratto definitivo.
Trib. Gallarate, 5 febbraio 2010 (Contratti, 2010, 4, 375)
A norma dell’art. 2901, comma 3, c.c., non sono soggetti a revoca i c.d. atti dovuti ovvero gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione, ed in particolare, i contratti conclusi in esecuzione di un preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto. E ciò perché la stipulazione del negozio definitivo non è che l’esecuzione doverosa di un “pactum de contraendo”, validamente posto in essere – “sine fraude” – cui il promissario non potrebbe unilate¬ralmente sottrarsi.
Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 2009, n. 8127 (Contratti, 2009, 8-9, 761 nota di SCARPA)
Qualora un soggetto acconsenta, su richiesta di un altro, ad intestarsi un conto corrente in via fiduciaria, cioè con l’intesa che le somme che su di esso transitino sono di pertinenza dell’altro soggetto, che costui avrà in concreto la gestione del conto e che esso sarà, però, utilizzato per lo svolgimento di un’attività lecita di detto soggetto, l’intestatario del conto (fiduciario) è tenuto, per il fatto stesso di apparire verso i terzi come intestatario del conto ed a maggior ragione per il fatto di non averne la concreta gestione, ad esercitare la necessaria vigilanza sul rispetto da parte di quel soggetto della finalizzazione dell’utilizzo del conto corrente esclusivamente all’esercizio della detta attività, conforme agli accordi presi. Ne consegue che, qualora l’intestatario ometta di esercitare tale vigilanza, disinteressandosi completamente della gestione del conto (astenendosi, come nella specie, dal con-trollare gli estratti conto e rimettendoli senza leggerli all’altro soggetto, firmando assegni in bianco che venivano riempiti dal medesimo e non preoccupandosi neppure di conoscere quale fosse l’importo accreditato), e l’altro soggetto utilizzi il conto corrente per realizzare un illecito in danno di terzi, l’intestatario del conto corrente può rispondere sul piano causale a titolo di imprudenza e negligenza, ai sensi dell’art. 2043 c.c., del danno cagionato ai terzi per effetto dell’illecito.
Nell’ambito del negozio fiduciario il soggetto che assume nei confronti dei terzi la titolarità di una posizione giu¬ridica (nella specie, intestazione di un conto corrente), non è esonerato dal controllo verso l’altro contraente del factum fiduciae affinché lo svolgimento del rapporto sia costantemente mantenuto entro i limiti del regolamento negoziale giusta le motivazioni che hanno dato luogo alla stipulazione del patto.
Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero trasferimento in favore del fiduciario. Tuttavia, l’efficacia del detto trasferimento può essere limitata dagli obblighi pattiziamente stabiliti. Quindi deve ritenersi valido il negozio in cui si afferma che l’acquisto di un immobile da parte di un fratello è fatto anche quale fiduciario dell’al¬tro, nel caso in cui l’effettivo trasferimento debba effettuarsi oltre il temine decennale del divieto di alienazione previsto in materia di edilizia popolare.
L’intestazione fiduciaria di un bene determina sin da subito un vero trasferimento in favore del fiduciario, limita¬to però dagli obblighi stabiliti tra le parti, compreso per primo quello del trasferimento al fiduciante. Il negozio fiduciario, infatti, rientra nella categoria dei negozi indiretti con cui un certo contratto viene posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico e corrispondente in sostanza alla funzione di un altro negozio.
Trib. Bari Sez. IV, 17 dicembre 2008 (Trust, 2009, 6, 652)
Il negozio fiduciario costituisce una figura negoziale atipica retta dal principio della libertà delle forme. Non es¬sendo richiesta la forma scritta né “ad substantiam né ad probationem” la sussistenza del “pactum fiduciae” può essere provata con qualsiasi mezzo, anche con prova testimoniale.
Il trasferimento di quote societarie in favore del fiduciante che ne abbia fatto richiesta può essere ordinato ex art. 2932 c.c. a fronte del rifiuto del fiduciario di provvedervi.
Cass. civ. Sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022 (Corriere Giur., 2009, 2, 215 nota di GALLUZZO)
Violazioni dell’incarico fiduciario da parte del “trustee” – quali la cattiva gestione dei beni oggetto di trust, atti di gestione perfezionati in conflitto d’interessi, omesso rendiconto, depauperamento del patrimonio destinato – costituiscono presupposti sufficienti all’accoglimento della domanda di revoca del “trustee” infedele.
Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2008, n. 9970 (Nuova Giur. Civ., 2008, 11, 1, 1352 nota di MARTONE)
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione (co¬siddetti atti dovuti) e, quindi, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un “pactum de contrahendo” validamente posto in essere (“sine fraude”) cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione (cosiddetti atti dovuti) e, quindi, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un “pactum de contrahendo” validamente posto in essere (“sine fraude”) cui il promissario non potrebbe unilateralmente sot¬trarsi. (Nella specie la S.C., in applicazione del riportato principio, ha confermato la sentenza impugnata di riget¬to della domanda ex art. 2901 cod. civ. proposta in relazione ad un contratto di vendita di un immobile stipulato in esecuzione di un precedente contratto preliminare, evidenziando che la verifica della sussistenza dell’”eventus damni” va compiuta con riferimento alla stipulazione definitiva mentre il presupposto soggettivo del “consilium fraudis” va valutato con riferimento al contratto preliminare).
Cass. civ. Sez. III, 18 marzo 2008, n. 7282 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Giusta quanto assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, si osserva – infatti – che la frode fiscale, diretta ad eludere le norme tributarie trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio (Cass. 5 no¬vembre 1999, n. 12327; Cass. 24 ottobre 1981, n. 5571).
Proprio con specifico riguardo alla materia locatizia, del resto, in molteplici occasioni questa Corte ha enunciato il principio secondo cui la violazione della normativa fiscale non incide sulla validità o efficacia di un contratto, ma ha rilievo esclusivamente tributario (cfr., ad esempio, Cass. 22 luglio 2004, n. 13621, resa in una fattispecie anteriore all’approvazione dello statuto del contribuente e della L. n. 431 del 1998, in cui per motivi fiscali erano stati redatti due originali del contratto di locazione recanti importi diversi).
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2007, n. 16992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, la prova per testimoni del “pactum fiduciae” è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e ss. cod. civ. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente ine¬rente al tipo di contratto stipulato, ma senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento; qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento
Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2006, n. 5457 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’azione di simulazione del contratto per interposizione fittizia di persona e quella diretta all’accertamento dell’in¬terposizione reale sono fondate su situazioni di fatto del tutto distinte, hanno finalità e presupposti diversi, “peti¬tum” e “causa petendi” difformi, tema di indagine e di decisione distinti. Infatti, nella prima si ha una simulazione soggettiva e l’interposto (nella specie, in una compravendita di bene immobile) figura soltanto come acquirente, mentre gli effetti del negozio (trasferimento della proprietà) si producono a favore dell’interponente; nella se¬conda, invece, non esiste simulazione, in quanto l’interposto, d’accordo con l’interponente, contratta con il terzo in nome proprio ed acquista effettivamente i diritti nascenti dal contratto, salvo l’obbligo, derivante dai rapporti interni, di ritrasferire i diritti, in tal modo acquistati, all’interponente. Ne consegue che ai fini della prova scritta dell’interposizione reale, non è necessario che la controdichiarazione scritta sia sottoscritta anche dal terzo.
App. Napoli Sez. III, 17 febbraio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente vo¬luto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o ad un terzo.
Trib. Modena, 16 dicembre 2005 (Obbl. e Contr., 2006, 6, 560 nota di SCHIAVONE)
Il carattere fiduciario della titolarità di un diritto non può costituire il fondamento di una domanda di accerta¬mento della proprietà esclusiva del fiduciante, in quanto l’intestazione del fiduciario è reale. Può invece fondare l’azione di carattere obbligatorio mirante ad ottenere il ritrasferimento del diritto.
Trib. Genova, 13 ottobre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario, quando inerisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad sub¬stantiam, quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo essa dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso contratto.
Trib. Genova Sez. IV, 20 giugno 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fidu¬ciante o ad un terzo.
Trib. Genova, 23 maggio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cessione di azioni tra l’intestatario fiduciario e un terzo, avvenuta con l’intento comune alle due parti di ren¬dere possibile al fiduciario di sottrarsi al proprio obbligo di trasferimento a favore del fiduciante, va dichiarata inefficace nei confronti del fiduciante, mentre resta accertato l’obbligo in capo al fiduciario di trasferimento delle dette azioni, siccome conseguente all’accertamento della intestazione fiduciaria da cui tale obbligo consegue.
Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tenuto conto che il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere ester¬no, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo, l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nel caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza conve¬nuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario. (Nella specie, è stata negata la natura fiduciaria dell’intestazione a favore della moglie del ricorrente delle quote societarie alla medesima cedute dalla madre di quest’ultimo, essendo stata esclusa l’esistenza di un “pactum fiduciae” fra la cessionaria e il marito, che era risultato peraltro estraneo al negozio di cessione).
Cass. civ. Sez. II, 13 ottobre 2004, n. 20198 (Contratti, 2005, 5, 437 nota di VALENTINI)
La possibilità di attribuire efficacia costitutiva ad una dichiarazione ricognitiva dell’altrui diritto dominicale su un bene immobile (nella specie, contenuta in un contratto di compravendita di altro immobile) presuppone che anche la causa della dichiarazione risulti dall’atto, atteso che, trattandosi di un bene immobile per il cui trasferi¬mento è necessaria la forma scritta “ad substantiam”, tutti gli elementi essenziali del negozio debbono risultare per iscritto.
Cass. civ. Sez. II, 1 aprile 2003, n. 4886 (Corriere Giur., 2003, 8, 1041 nota di MARICONDA)
Il negozio fiduciario di natura traslativa si articola in due distinti ma collegati negozi, dei quali, il primo, avente carattere esterno, realmente voluto dalle parti ed efficace verso i terzi; l’altro, interno ed a contenuto obbligato¬rio, volto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire al fiduciante o ad un terzo il bene o il diritto acquistato col negozio reale.
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente vo¬luto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diret¬to a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o a un terzo. La Corte, nel formulare il surrichiamato principio, ha confermato la correttezza della pronuncia di merito, la quale aveva ritenuto l’esistenza di un negozio fiduciario nella scrittura privata con la quale l’acquirente di un bene immobile, riconoscendo la natura fiduciaria dell’intestazione e – conseguentemente – la relativa pro¬prietà a favore di un terzo, aveva contestualmente assunto l’obbligo di trasferirgli il diritto.
Trib. Milano, 19 novembre 2001 (Giur. It., 2002, 1438 nota di FIORIO)
Deve ritenersi ammissibile il contratto fiduciario, riconducibile alla “fiducia germanistica”, con cui un fiduciante attribuisca ad una società fiduciaria la legittimazione all’esercizio dei diritti inerenti le quote di s.r.l. ma non la titolarità delle quote.
Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2001, n. 14375 (Contratti, 2002, 2, 186)
Il diritto del fiduciante alla restituzione dei beni intestati al fiduciario si prescrive con il decorso dell’ordinario termine decennale, che decorre, in difetto di una diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fidu¬ciario, avutane richiesta, abbia rifiutato il trasferimento del bene.
Trib. Roma, 30 maggio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario è una categoria non espressamente disciplinata dalla legge, e pur tuttavia tutelata dalla legge in base ai principi dell’autonomia contrattuale, che si realizza mediante il collegamento tra due negozi, uno di carattere esterno, realmente voluto (a differenza del contratto assolutamente o relativamente simulato) e spiegante i suoi effetti nei confronti dei terzi – comportante il trasferimento di un diritto in capo ad un soggetto ( fiduciario ) e l’altro, di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato del negozio esterno, comportante l’obbligo per il fiduciario di trasferire il diritto attribuitogli con negozio esterno all’altra parte del negozio interno (fiduciante).
Cass. civ. Sez. II, 13 aprile 2001, n. 5565 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio, fiduciario quando inerisce al trasferimento di beni immobili deve rivestire la forma scritta “ad sub¬stantiam” quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Detta forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo detta dichiarazione essere utilizzata nè come elemento integrante il contratto, nè come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori dell’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del documento (art. 2725, comma 2, c.c., in relazione all’art. 2724 n. 3 c.c.).
Cass. civ. Sez. II, 19 luglio 2000, n. 9489 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato, richiede, allorché riguardi beni immobili, la forma scritta “ad substantiam” atteso che essa è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 c.c. prescrive la stessa forma del contratto definitivo.
Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1898 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice, nel procedere all’identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all’individuazio¬ne della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione “in concreto” della causa, quale elemento es¬senziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l’interprete, della generale conformità a legge dell’attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell’art. 1343 c.c. (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l’ordinamento giuridico) (Nell’enunciare il principio di diritto in questione la Corte ha annullatio la sentenza impugnata per avere omesso di accertare la conformità di un siffatto contratto ai parametri di liceità e meritevolezza previsti dalle citate disposizioni normative).
Cass. civ. Sez. II, 5 febbraio 2000, n. 1289 (Giur. It., 2000, 2289 nota di FORCHINO)
Il “pactum fiduciae” può configurarsi in relazione a situazioni giuridiche soggettive di natura reale o personale, assumendo rilievo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene o il diritto acquistato al fiduciante o a terzi. è, pertanto, ravvisabile nell’ipotesi in cui il ritrasferimento al fiduciante concerna i diritti derivanti al fiduciario dal contratto preliminare di compravendita immobiliare già stipulato con terzi.
Trib. Cagliari, 10 dicembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto fiduciario, ove si consideri che il “pactum fiduciae”, oltre che per la dissociazione tra titolarità ed inte¬resse, si caratterizza soprattutto per l’obbligo del compimento di attività giuridica per conto del fiduciante, deve essere ricondotto alla fattispecie tipica del mandato senza rappresentanza.
La categoria del negozio fiduciario – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende sia l’accordo con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, ed eventualmente lo ritrasferisca a lui stesso o ad un terzo (cd. fiducia dinamica), sia l’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cd. fiducia statica).
La categoria del negozio fiduciario – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende sia l’accordo con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, ed eventualmente lo ritrasferisca a lui stesso o ad un terzo (cd. fiducia dinamica), sia l’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cd. fiducia statica).
Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1999, n. 13261 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di intestazione fiduciaria di azioni, ed in base al principio secondo cui, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, prevale “l’effettiva” proprietà del fiduciante rispetto alla titolarità “formale” del fiduciario , non può considerarsi affetta da nullità la specifica convenzione con la quale – all’interno del pactum fiduciae – il fiduciante si obblighi a tenere indenne il fiduciario dalle imposizioni fiscali gravanti su quest’ultimo in conseguenza dell’in¬testazione dei titoli azionari, non integrando tale traslazione dell’obbligazione tributaria gli estremi del pagamen¬to di imposta da parte di soggetto diverso dal materiale percettore del corrispondente reddito.
Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 1995, n. 1086 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, relativo a beni immobili, la designazione da parte del fiduciante della persona a favore della quale deve essere fiduciante il bene, in virtù dell’obbligo assunto dal fiduciario di modificare la si¬tuazione giuridica a lui facente capo, deve rivestire ad substantiam la forma scritta (art. 1350 n. 1 e 1351 c.c.), non bastando a tal fine la prova presuntiva. Tale designazione, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, deve risultare chiaramente dalla scrittura documentale.
Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 1994, n. 8616 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’azione di simulazione del contratto per interposizione fittizia di persona e quella diretta all’accertamento dell’in¬terposizione reale sono fondate su situazioni di fatto del tutto distinte, hanno finalità e presupposti diversi, peti¬tum e causa petendi difformi, tema di indagine e di decisione distinti. Infatti, nella prima si ha una simulazione soggettiva e l’interposto (nella specie, in una compravendita di bene immobile) figura soltanto come acquirente, mentre gli effetti del negozio (trasferimento della proprietà) si producono a favore dell’interponente; nella se¬conda, invece, non esiste simulazione, in quanto l’interposto, d’accordo con l’interponente, contratta con il terzo in nome proprio ed acquista effettivamente i diritti nascenti dal contratto, salvo l’obbligo, derivante dai rapporti interni, di ritrasferire i diritti, in tal modo acquistati, all’interponente. Ne consegue che l’intervenuto giudicato su una precedente azione di simulazione del contratto per interposizione fittizia di persona non preclude la propo¬sizione di una nuova domanda fondata sulla interposizione reale e che la proposizione dell’una non interrompe il termine di prescrizione dell’altra.
Cass. civ. Sez. I, 28 settembre 1994, n. 7899 (Nuova Giur. Civ., 1995, I, 959 nota di GIAMPAOLINO)
Integra una fattispecie di negozio fiduciario stipulato mediante interposizione reale di persona, e non già di simulazione relativa per interposizione fittizia, l’accordo con il quale due o più persone convengono di dare vita ad una società di capitali il cui capitale sociale sia stato conferito effettivamente da uno solo di essi, mentre gli altri sono solo apparentemente e fiduciariamente intestatari di azioni o quote sociali ed hanno assunto l’obbligo di trasferire dette azioni o quote a chi ne ha somministrato i relativi mezzi economici; pertanto, a tale negozio non si applicano le limitazioni di prova previste dal c.c., qualora non venga in considerazione il trasferimento di diritti per i quali la legge richieda l’atto scritto “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993, n. 6024 (Corriere Giur., 1993, 855 nota di CARBONE)
Il negozio fiduciario (categoria non disciplinata legislativamente, ma elaborata dalla giurisprudenza e dalla dot¬trina e nella quale possono essere compresi alcuni contratti atipici) è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamento tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
Il patto di fiducia che prevede l’obbligo del fiduciario di modificare la situazione giuridica a lui facente capo, a favore del fiduciante o di un altro soggetto da quest’ultimo designato, è soggetto, qualora riguardi beni immobili, alla forma scritta “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 3 maggio 1993, n. 5113 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il patto con il quale si conviene che uno dei contraenti acquisti un fondo in proprietà comune e trasferisca agli altri contraenti la quota ad essi rispettivamente spettante non può essere qualificato come negozio fiduciario di tipo traslativo, che è stipulato tra l’alienante e l’acquirente in vista di uno scopo pratico ulteriore rispetto a quello proprio della alienazione, né come una situazione di c.d. fiducia di tipo statico, che si innesta in una situazione giuridica preesistente in testa alla persona che, con il pactum fiduciae, accetta di dirottarla dal suo naturale esito, ma deve essere ricondotto alla figura giuridica del mandato senza rappresentanza ed, avendo per oggetto un bene immobile, deve essere stipulato per iscritto.
Trib. Napoli, 16 gennaio 1993 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fiducia comprende sia il negozio fiduciario, in cui il fiduciante trasferisce al fiduciario il diritto reale con il pat¬to meramente obbligatorio e interno che l’acquirente ne faccia un uso determinato nell’interesse dell’alienante e/o lo ritrasferisca poi a quest’ultimo o ad un terzo (c.d. fiducia dinamica), sia la c.d. fiducia statica, in cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, almeno in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscere quest’ultimo come proprietario o comproprietario del bene acquistato. Mentre, nel primo caso, l’originaria proprietà del fiduciante consente, se si considera l’alienazione fiduciaria come investitura della mera legittimazione formale relativa al bene, di continuare a riconoscere la titolarità effettiva in capo al fiducian¬te stesso, al contrario, nel secondo caso, l’acquisto del fiduciante non può che trovare la sua fonte nel “pactum fiduciae”; pertanto, relativamente al trasferimento di beni immobili, e almeno in questa specifica situazione, il “pactum fiduciae” deve rivestire forma scritta “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché il negozio fiduciario, nella parte contenente il pactum fiduciae, non è trascrivibile, in considerazione della sua natura obbligatoria, nulla impedisce al fiduciario di trasferire, in sua violazione, il diritto cedutogli ad un terzo, il cui acquisto è pienamente valido ed efficace anche nei confronti del fiduciante.
Il negozio fiduciario, sia quando venga preceduto da un atto di trasferimento del diritto del fiduciante al fiduciario (cosiddetta fiducia dinamica) sia quando non lo sia, per essere il fiduciario già titolare del diritto che si obblighi a trasferire all’altro contraente o al terzo (cosiddetta fiducia statica), è sempre un atto realmente dovuto, con la conseguenza che ad esso non sono estensibili le norme che prevedono l’inopponibilità del negozio simulato ai creditori del titolare apparente.
App. Bologna, 14 giugno 1991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La stipulazione di un patto fiduciario avente ad oggetto il trasferimento di un immobile deve essere effettuata con il rispetto della forma scritta ad substantiam; la prova di tale negozio fiduciario non può essere data per testimoni (ad eccezione dell’ipotesi consacrata nel n. 3 dall’art. 2724 c.c.), né mediante giuramento e nemmeno mediante confessione, cui tende essenzialmente l’interrogatorio formale.
Trib. Chiavari, 30 aprile 1991 (Nuova Giur. Civ., 1992, I, 415 nota di GAGGERO)
La prova dell’esistenza di un negozio fiduciario, relativo a beni immobili, ascrivibile alla categoria dell’interpo¬sizione reale di persona (tanto nell’ipotesi della fiducia statica che dinamica), può essere (tra le parti) soltanto documentale e non anche per testi, in applicazione dell’art. 2725 c. c.
Lo schema del negozio fiduciario si colloca interamente nell’ambito delle ipotesi dell’interposizione reale di per¬sona, sia esso di tipo traslativo ovvero caratterizzato dalla cosiddetta.
Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1988, n. 5663 (Corriere Giur., 1988, 1268 nota di CATALANO)
Il negozio fiduciario (categoria non disciplinata legislativamente, ma elaborata dalla giurisprudenza e dalla dot¬trina e nella quale possono essere compresi alcuni contratti atipici) è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamento tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
Deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo che prevede l’obbligo del fiduciario di trasferire beni immobili al fiduciante o ad altro soggetto, da quest’ultimo designato.
Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 1985, n. 5958 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il divieto di alienazione, posto a carico dell’acquirente in forza di pactum fiduciae, spiega effetti meramente inter¬ni (art. 1379 c. c.); l’inosservanza di tale divieto, pertanto, non interferisce sulla validità del contratto con il quale il fiduciario abbia trasferito il bene ad un terzo, indipendentemente dalla buona o mala fede di quest’ultimo, salvo restando il diritto del fiduciante di essere risarcito del danno derivantegli dall’inadempimento di quel patto.
Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 1985, n. 560 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo di beni immobili dal fiduciario al fiduciante in esecuzione del pactum fiduciae, ma non anche quest’ultimo.
Cass. civ. Sez. II, 7 agosto 1982, n. 4438 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente vo¬luto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o ad un terzo (nella specie: il supremo collegio, enunciando il surriportato principio, ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto l’esistenza di un negozio fiduciario, senza accertare l’esistenza del collegamento tra i due negozi, dei quali quello di carattere interno era risultato posteriore all’altro).
Negli schemi del pactum fiduciae rientra, oltre il negozio fiduciario di tipo traslativo, anche la cosiddetta fiducia statica i cui estremi sono rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo scopo del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giuridica di cui si tratta.
Cass. civ. Sez. II, 17 febbraio 1961, n. 339 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In base al principio dell’autonomia contrattuale, il negozio fiduciario è riconosciuto dalla legge quale contratto innominato, in quanto si proponga di realizzare interessi leciti. Invece esso deve essere dichiarato nullo al pari di ogni altro negozio, che adempia alla stessa funzione se, è diretto ad eludere la legge, ponendo in essere un risultato vietato e sanzionato da nullità.

Va tutelato il diritto del minore a conservare i legami affettivi anche con soggetti non consanguinei

A seguito della sentenza non definitiva 1165/13, depositata il 13-8-2013 che ha pronunciato ex art. 709 bis c.p.c. la separazione personale dei coniugi Tizio e Caia, la presente causa, che doveva proseguire per la indagine circa le condizioni accessorie di separazione, in particolare circa le relazioni genitoriali, con ordinanza 14-5-2015 è stata sospesa ex art. 295 c.p.c sino al definitivo esito del giudizio di disconoscimento di paternità nel frattempo promosso dal curatore speciale della figlia minore Sempronia; detto giudizio si concludeva con la sentenza 115/16 Trib. Como (divenuta definitiva) che dichiarava non essere Sempronia figlia biologica di Tizio, disponendo però che fosse suo interesse mantenere il cognome Tizio; indi la causa di separazione veniva riassunta in data 20-12-2016 su iniziativa della resistente Caia; in detta fase la attività istruttoria si compendiava nello aggiornamento delle indagini peritali, informative dei Servizi Sociali del Comune di Como (cui era stata affidata la minore sin dalla fase presidenziale con ordinanza 30-11-2012) e produzioni documentali; indi a seguito di scambio di memorie le parti su invito dell’ufficio precisavano le conclusioni all’udienza del 12-12-2018, sicchè la causa veniva rimessa al Collegio per la decisione definitiva ex art. 275 cpc.
Ciò premesso in fatto circa gli eventi più salienti del processo, devesi rilevare che il contrasto tra le parti verte esclusivamente (in assenza di altre domande) sullo affidamento della piccola Sempronia, posto che in sede di precisazione delle conclusioni il ricorrente, qualificandosi come “genitore sociale” della minore ha chiesto, a conferma dei vigenti provvedimenti provvisori, lo affidamento della stessa ai Servizi Sociali territoriali con collocamento presso di sé, mentre la resistente ne richiede lo affidamento in via esclusiva a sé medesima con collocamento presso la residenza materna, pur sotto il “monitoraggio” dei Servizi suddetti.
Poiché Sempronia non è, in senso biologico, figlia di ambedue i coniugi separati, ma della sola madre, devesi preliminarmente verificare se dette contrastanti domande possano e debbano essere esaminate nella presente sede ovvero da parte del giudice investito del procedimento di separazione (ciò non avviene infatti, nella generalità dei casi, con riguardo ai figli di uno solo dei coniugi separandi o divorziandi, ovvero quelli nati da precedenti unioni, le cui vicende non vengono regolate dal giudice del conflitto coniugale, pur potendo rilevare ad altri fini, per esempio ai fini della indagine circa le condizioni reddituali del loro genitore); ad avviso del collegio a tale quesito devesi rispondere positivamente posto che, per i motivi tutti di seguito esposti, questo giudice è chiamato, nello interesse della minore, ex art. 333 cc ad emettere i provvedimenti opportuni, atti ad impedire conseguenze pregiudizievoli per la minore; per tali provvedimenti, giusto il disposto dello art. 38 disp att cc che regola il riparto di competenza tra giudice ordinario e giudice minorile, ove sia in corso tra le stesse parti giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dello art. 316 cc, la competenza spetta al giudice ordinario, per tutta la durata del processo, dovendo ovviamente individuarsi il giudice competente, nello ambito della autorità giudiziaria ordinaria, proprio nel giudice di quel particolare processo in corso; non v’è poi dubbio che i coniugi Tizio e Caia costituiscano “le stesse parti” secondo la nozione di cui alla norma citata, posto che, pur non essendo entrambi genitori della minore sotto il profilo biologico, essi sono senz’altro i due soggetti processuali che nel giudizio di separazione si trovano in contrasto circa lo affidamento ed il collocamento di una minore che ha fatto parte del loro nucleo familiare.
Ciò premesso circa la competenza di questo giudice, ad avviso del collegio la minore deve essere tutelata ex art. 333 cc dalle conseguenti pregiudizievoli, per la sua crescita, del conflitto coniugale, che rischia di allontanare la bambina, una volta disgregato il nucleo familiare, dalla figura paterna (tale è la immagine del sig. Tizio che ella ha interiorizzato) che tuttora rappresenta il riferimento affettivo e esistenziale per lei più rassicurante; i comportamenti tenuti dalla madre nel corso del presente processo e la di lei fragilità psichica giustificano infatti il timore che ella, una volta affidataria esclusiva e collocataria della minore, possa reiterare le condotte evitanti e destabilizzanti già attuate e/o tentate, e quindi sottrarre la bambina al suo genitore “sociale” che sinora ne è stato anche il collocatario, vuoi per risentimento personale verso lo stesso (già destinatario di plurime, ed infondate, denunce penali di Caia) vuoi per perseguire sue personali percorsi professionali e relazioni sentimentali all’estero (va ricordato che col suo primo atto difensivo, ovvero la comparsa di costituzione 13-11-2012 nella fase presidenziale, la convenuta, rivelando che Sempronia non era figlia di Tizio, ne chiedeva lo affido esclusivo, esplicitando la intenzione di condurla seco all’estero, nel suo paese di origine, e deducendo che il padre biologico della bambina non era interessato a riconoscerla né a assumersi la responsabilità della paternità); entrambe le consulenze tecniche d’ufficio esperite nel presente giudizio hanno posto in luce le carenze della resistente, in quanto affetta da grave disturbo della personalità di tipo misto, con tratti istrionici, ed emotivamente instabile, criticità che rappresentano seria limitazione allo assolvimento della responsabilità genitoriale, tanto è vero che, nella osservazione della interazione on la minore, è stata constatata la tendenza alla inversione dei ruoli, nonché la difficoltà sul piano organizzativo e della funzione normativa; per contro in capo al ricorrente sono state individuate adeguate risorse per assolvere alle responsabilità genitoriali, e un accresciuto equilibrio fra la dimensione affettiva e la funzione normativa, valutazioni sulla cui base la consulente suggeriva nello interesse della minore lo affidamento ai Servizi Sociali con collocazione presso Tizio (vedasi relazioni dr.ssa XX 10-3-2015 e 1-12-2017); la oggettività ed attendibilità di tali conclusioni del consulente d’ufficio è poi suffragata dal fatto che esse venissero integralmente condivise dal consulente di parte Caia (vedasi nota di osservazioni dr. ZZ 10-11-2017 allegata alla relazione peritale 1-12-2017), pur escludendosi da parte del ctp che il disturbo accertato a carico della periziata fosse assimilabile ad una patologia psicotica o allucinatoria, o comunque mettesse a rischio la incolumità della minore; del resto anche le relazioni peritali di parte prodotte dalla convenuta nel presente giudizio, ed elaborate da altri professionisti, comunque basate su rilievi e colloqui clinici svolti fuori dal contradditorio delle parti, danno atto delle difficoltà relazionali della madre : quella a firma dr. BB prodotta all’udienza 13-5-2015 riferisce di un disturbo dello adattamento suscettibile di compromissione significativa del funzionamento in ambito sociale o altre importanti aree, quella a firma dr. CC prodotta alla udienza 12-12-2018, non rinnegando le precedenti valutazioni di forte emotività e disturbo istrionico di personalità, segnala che la signora sta beneficiando della presa in carico psico-terapeutica attualmente in corso e quindi può prendersi cura, in determinati momenti (che potrebbero anche essere ampliati), della bambina, il che ovviamente non significa che ella possa farsi carico, in via prevalente, dei bisogni tutti di Sempronia, fra i quali risulta preminente, per la sua equilibrata crescita, proprio quello di salvaguardare il legame con l’altra figura genitoriale; a detti fini va poi rilevato che la “condizione di ansia generalizzata, con aspetti depressivi, secondaria ad una situazione di stress cronico relativo ai problemi adattativi della paziente”, siccome definita da tale ultimo professionista, non depone certo in senso favorevole circa la capacità della convenuta di preservare il legame della figlia con il suo ex coniuge, posto che proprio dette problematiche di esasperata emotività ed instabilità umorale la inducono a vedere in Tizio il suo “nemico”, ovvero la causa del suo malessere, e l’hanno portata nel recente passato a denunciarlo infondatamente per violenze e vessazioni (di cui non ha mai dato prova, né offerto la prova, nel presente giudizio) nonché, nel periodo in cui era temporaneamente collocataria della figlia (e provvisoriamente coabitante con Tizio per ragioni di convenienza logistica), a porre in atto le condotte destabilizzanti per lo equilibrio della bambina (trasferimento della figlia in luogo ignoto in ora notturna) confermate dall’ente affidatario e segnalate nella ordinanza del G.I 29-5-2014
Com’è noto, il ruolo peculiare del genitore “sociale” è stato esaminato dalla dottrina e dalla giurisprudenza in modo particolare a partire dalla sentenza della Corte costituzionale 225/2016, pronuncia colla quale la Corte escludeva la sussistenza di un vuoto normativo (ravvisato dal giudice remittente in riferimento allo art. 337 ter cc) con riguardo allo intervento del giudice a tutela del diritto del figlio minore a conservare rapporti significativi con persone diverse da genitori o comunque a lui non legati da vincoli parentali; il giudice delle leggi, infatti, sul presupposto che la condotta del genitore finalizzata alla lesione del rapporto significativo intrattenuto dal minore con soggetti non consanguinei sia da considerare “comunque pregiudizievole al figlio”, sì da consentire al giudice ex art. 333 cc di adottare “i provvedimenti convenienti ” nel caso concreto, ha affermato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale in proposito sollevata dal Tribunale di Palermo; il caso sottoposto allo esame di detto giudice riguardava la relazione affettiva intrattenuta da due bambine, già inserite in un nucleo familiare omosessuale, con l’ex compagna della loro madre biologica, relazione reputata degna di ricevere tutela, atteso lo interesse dei minori alla stabilità dei legami affettivi con le persone con cui hanno vissuto ed alla costituzione di uno stato giuridico corrispondente al rapporto di fatto consolidato nel tempo;
a questa pronuncia che sostanzialmente legittima il ruolo del genitore sociale ai fini delle decisioni circa affidamento e collocamento del minore, hanno fatto seguito plurimi interventi della giurisprudenza di merito con riguardo a fattispecie di coppie omosessuali, quindi alla tematica della c.d omogenitorialità ; vedasi in particolare la ordinanza 23-12-2017 della Corte di appello di Trento che, dovendo pronunciarsi circa la validità di un provvedimento straniero che stabiliva la sussistenza di un legame genitoriale tra due minori ed il loro padre non genetico, ha ritenuto di escludere che nel nostro ordinamento persista un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico, valorizzando per contro la rilevanza assunta a livello normativo dal concetto di responsabilità genitoriale, che si manifesta nella consapevole decisione di allevare ed educare il nato, quale si esprime nella fattispecie della adozione e della procreazione assistita con fecondazione eterologa.
Non è questa ovviamente la sede per affrontare il delicato problema del rapporto tra filiazione e omo-genitorialità, ma non v’è dubbio che analoga esigenza di tutela del legame affettivo del minore con le figure adulte di riferimento si ponga anche in situazioni che nulla hanno a che vedere con la omosessualità di uno o entrambi i partners, ma si radichino nella disgregazione del nucleo familiare, tanto è vero che anche in dottrina è riflettuto sul tema della tutela della genitorialità sociale nelle famiglie c.d ricomposte ; nel caso di specie, ad avviso del Collegio il ricorrente Tizio ha a sua volta pieno titolo per rivendicare il ruolo di genitore sociale, con la conseguenza, per gli stessi motivi posti a base della decisione della Consulta, della necessità di tutelare il legame da lui positivamente instaurato con la piccola Julia, legame consolidato nel tempo che ha per così dire compensato le carenze dell’altro genitore, assicurando alla minore (collocata presso di lui sin dal 29-5-2014) benessere psicologico e serenità nel suo percorso di crescita; né costituisce valore di rilevanza costituzionale assoluta la preminenza della verità biologica rispetto allo status di figlio (cfr. Cass. 5653/12)
Del resto non risulta che il preteso ( ovvero indicato da Caia) padre biologico, pare residente in Russia, abbia riconosciuto la minore, una volta divenuto definitivo il disconoscimento della paternità di Tizio, dal che discende che quest’ultimo ben potrebbe adottarla ex art. 44 1°co lett. B, legge 184/1983, in quanto tuttora coniugato (benché separato ) con la di lei madre; lo status di separazione (persistendo il vincolo coniugale, che viene a cessare solo col divorzio) non è invero ostativo a tale particolare procedura adottiva, nella quale assume preminente rilevanza la positiva relazione instaurata tra il minore e il soggetto richiedente l’adozione (cfr. Cass. 21651/11).
Quanto alla posizione della resistente, che si propone come affidataria esclusiva della minore, allo accoglimento di tale istanza ostano non solo le sue (incolpevoli) fragilità psichiche, ma anche le sue carenze sul piano del riconoscimento dell’altrui ruolo genitoriale, ruolo che ella ha inteso financo annullare attivando strumentalmente il “disvelamento” della non paternità biologica di Tizio; la idoneità genitoriale va infatti valutata anche con riferimento alla capacità di preservare al figlio la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa genitoriale (cfr. Cass. 6919/2016), capacità che nel caso di specie non può essere riconosciuta in capo a Caia
Non vi è quindi ragione di discostarsi dai vigenti provvedimenti provvisori che, a seguito di adeguata istruttoria, sul presupposto del ruolo di genitore sociale assunto dal ricorrente e della necessità di prevenire condotte materne pregiudizievoli del suo legame con la bambina, ne hanno disposto lo affidamento ai Servizi con collocazione presso di lui; va inoltre confermato all’ente affidatario lo incarico di regolamentare la sua frequentazione con la madre, frequentazione che nel corso del tempo ha risentito delle altalenanti condizioni di equilibrio psichico di Caia (la quale nonostante le indicazioni peritali non ha mai accettato la presa in carico presso il CPS, valutata come necessaria per acquistare maggiore consapevolezza e contatto con la realtà anche in funzione del suo ruolo materno, con le prevedibili conseguenze circa la “tenuta” dei suoi percorsi di cura privati); attualmente la bambina incontra la madre almeno due pomeriggi alla settimana, con assistenza educativa domiciliare, e dal luglio 2018 pernotta dalla madre una volta al mese nel fine settimana; tali momenti di incontro, condividendosi le indicazioni dei Servizi, previo monitoraggio circa la ricaduta sul benessere della bambina ben possono essere ampliati, con la previsione del pernottamento a settimane alterne e di giornate “libere”.
Restano tuttora valide, alla luce dei rilevi di cui alla relazione 4-12-2018 dell’ente affidatario, le prescrizioni indicate dal consulente d’ufficio, nella prospettiva della ricomposizione di sane relazioni familiari, circa i percorsi di cura e/o sostegno psicologico per tutti i membri del nucleo, per Caia per le ragioni di cui infra, per Tizio con lo obbiettivo di rendersi consapevole della sua ambivalenza rispetto alla madre ed evitare di rimandarne alla figlia una immagine svalutante, per Sempronia onde aiutarla ad affrontare le difficoltà legate alle fragilità materne e alla paternità non biologica di colui che riconosce come genitore.
Circa i profili economici del contenzioso, attese le rispettive situazioni reddituali ed abitative dei coniugi, siccome documentate in atti, tenuto conto in particolare della esiguità e incertezza dei redditi materni (in sede di precisazione delle conclusioni la convenuta deduce e documenta sporadiche attività di lavoro autonomo, il che è compatibile con le sue condizioni personali) devesi realisticamente porre integralmente a carico del ricorrente il mantenimento “ordinario” della minore, ripartendosi fra le parti al 50% le spese di cura, istruzione ed educazione di cui al protocollo di questo Tribunale.
Attesa la parziale reciproca soccombenza delle parti devesi disporre la integrale compensazione delle spese di lite fra le stesse, mentre le spese di ctu vengono poste a carico di entrambe in pari misura.

PQM
Il Tribunale di Como, pronunciando definitivamente nel procedimento di separazione promosso da Tizio nei confronti di Caia,
affida la minore Sempronia al Servizio Tutela Minori del Comune di Como, con collocazione prevalente presso Tizio;
incarica l’ente affidatario di monitorare il nucleo familiare, regolamentare gli incontri madre -figlia con le modalità e finalità indicate in parte motiva, nonché fornire alla minore adeguato supporto educativo domiciliare e psico-terapeutico;
prescrive a Tizio ed a Caia di impegnarsi rispettivamente nel percorso di supporto alla genitorialità e nella presa in carico psico-terapeutica per le finalità di cui in motivazione;
pone a carico di Tizio il mantenimento diretto della minore e a carico di ciascuna delle parti il 50% delle spese di cura, istruzione ed educazione di cui al protocollo di questo Tribunale;
compensa le spese di lite e pone a carico di entrambe le parti in parti uguali le spese tutte di ctu.
Si comunichi al Servizio Tutela Minori del Comune di Como.
Cosi deciso in Como in camera di consiglio, addì 13-3-2019
Il Presidente relatore estensore
dott.ssa Donatella Montanari

Tutela cautelare in via d’urgenza contro gli abusi familiari.

TRIBUNALE ORDINARIO di VERONA
SEZIONE FAMIGLIA E INTERDIZIONI-INABILITAZIONI CIVILE
DECRETO
Il Giudice dott.ssa Raffaella Marzocca,
nella procedura n. v.g. 2713/2019, promossa da
XY, assistita dall’avv. B. LANZA e dall’avv.
M. DE BONA;
contro
XX,
letto il ricorso depositato ed esaminata la documentazione allegata,
visti gli artt. 342 bis e ss. cc e 736 bis cpc
ha pronunciato il seguente
DECRETO
Rilevato che nel ricorso presentato si richiede che a XX sia ordinato di cessare nella propria condotta pregiudizievole aggressiva, vessatoria e intimidatoria nei confronti di XY, di allontanarsi dalla casa coniugale di proprietà della ricorrente sita in Castelletto di Brenzone, Via ____, e di non frequentare i luoghi abitualmente frequentati dall’istante, oltre che di stabilire un contributo al mantenimento della moglie da porsi a carico del medesimo;
rilevato che dalle puntuali allegazioni svolte e dalla documentazione depositata la condotta del coniuge risulta essere causa di grave pregiudizio all’integrità psichica della ricorrente e ciò anche in relazione alle risultanze della relazione medica depositata;
ritenuto che, anche a seguito del provvisorio allontanamento della ricorrente dalla casa coniugale per cercare di trovare un ambiente accogliente, siano comunque sussistenti tutti i presupposti per l’emissione degli ordini di protezione richiesti;
ritenuto di dover pronunciare il decreto inaudita altera parte poiché dalle puntuali allegazioni e dalla documentazione depositata risulta un quadro di condotte vessatorie, potenzialmente lesive dell’integrità psichica, piuttosto preoccupante che, oltre al fatto della precarietà abitativa della stessa ricorrente, fa ritenere sussistente l’urgenza di provvedere;
ritenuto che, in attesa di ogni ulteriore accertamento ed approfondimento, sia quindi necessario ordinare a XX di cessare le proprie condotte pregiudizievoli nei confronti di XY, di allontanarsi dalla casa coniugale di proprietà della ricorrente sita in Castelletto di Brenzone, Via ______, per un periodo di 12 mesi e di non frequentare i luoghi abitualmente frequentati dall’istante, al fine di evitare il ripetersi di situazioni pregiudizievoli per la XY medesima;
ritenuto, altresì, necessario, disporre l’audizione dei sommari informatori indicati in ricorso, autorizzando sin d’ora parte resistente a individuare e far comparire parimenti due sommari informatori per l’udienza che viene fissata per la conferma modifica o revoca del provvedimento; ritenuto che sul mantenimento richiesto possa rinviarsi la decisione all’udienza fissata;
P.Q.M.
Ordina a XX:
– di cessare la condotta pregiudizievole nei confronti di XY,
– di allontanarsi dalla casa coniugale di proprietà della ricorrente sita in Castelletto di Brenzone, Via _____, per un periodo di 12 mesi;
– di non frequentare i luoghi abitualmente frequentati dall’istante.
Assegna a parte ricorrente termine fino al 16 maggio per notificare a XX il ricorso ed il presente decreto, anche a mezzo Carabinieri.
Fissa davanti a sé l’udienza del 23 maggio 2019 alle ore 11.30 per la comparizione delle parti,l’audizione dei tre sommari informatori indicati da parte ricorrente e di due sommari informatori eventualmente indicati da parte resistente e per la conferma, modifica o revoca del presente decreto. Assegna a parte resistente termine fino al 22 maggio 2019 per il deposito della costituzione in giudizio nella quale indicherà anche i sommari informatori che chiede siano sentiti e con la quale depositerà le ultime due dichiarazioni dei redditi ed ogni documentazione patrimoniale rilevante, ferma la possibilità di deposito all’udienza della predetta costituzione e documentazione laddove, stante i tempi ristretti, il resistente non riesca a depositarla nel termine indicato.
Riserva all’udienza fissata la decisione sulle istanze di contribuzione al mantenimento.
Verona, 08/05/2019

Sono legittimi i figli nati con procreazione medicalmente assistita anche quando la fecondazione è avvenuta post mortem utilizzando il seme crioconservato del padre, deceduto prima della formazione dell’embrione, che in vita abbia prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso, non successivamente revocato, all’accesso a tali tecniche ed autorizzato la moglie o la convivente al detto utilizzo dopo la propria morte

Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 2019, n. 13000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 14873/2018 r.g. proposto da:
R.C., (cod. fisc. (OMISSIS)), in proprio e quale esercente la responsabilità genitoriale sulla figlia minorenne L., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Aurora Notarianni, con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via Q. Maiorana n. 9, presso lo Studio Fazzari;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore;
– intimato –
avverso il decreto della CORTE DI APPELLO DI ANCONA, depositato il 12/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/2019 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso chiedendo: in via preliminare, la rimessione del giudizio alle Sezioni Unite; in subordine, rigettarsi il ricorso, altresì dichiarandosi l’insussistenza dei presupposti per sollevare le questioni di costituzionalità prospettate dalla R.;
udita, per la ricorrente, l’Avv. Aurora Notarianni, che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso, altrimenti associandosi alla richiesta di rimessione alle Sezioni Unite.

Svolgimento del processo
1. Condecreto del 19 luglio 2017, il Tribunale di Ancona respinse il ricorsoD.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 95 promosso da R.C. – in proprio e nell’interesse della figlia minore L., nata il (OMISSIS) – e diretto ad ottenere, previa dichiarazione di illegittimità del rifiuto oppostole dall’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) alla registrazione del cognome paterno nella formazione dell’atto di nascita della bambina, l’ordine all’ufficiale predetto di provvedere alla rettifica di tale atto con la indicazione della paternità di G.A., deceduto il (OMISSIS), e del cognome paterno.
1.1. In particolare, premettendo che R.L. era nata in Italia, a seguito di tecniche di fecondazione assistista cui si era sottoposta la madre all’estero dopo il decesso del marito, il quale aveva a tanto precedentemente acconsentito, e che l’oggetto del giudizio non era stabilire se G.A. fosse il padre biologico della bambina, ma accertare se fosse legittimo, o meno, il diniego dell’ufficiale di stato civile di iscrivere la paternità della minore nell’atto di nascita come richiesto dalla ricorrente, ed altresì riepilogate sia la funzione dell’atto di nascita che le disposizioni del codice civile applicabili ai fini della sua corretta formazione, quel tribunale: i) affermò che l’ufficiale predetto era tenuto a formare l’atto sulla base delle dichiarazioni delle parti, essendogli precluse indagini ed accertamenti in ordine alle dichiarazioni ed alla paternità, affidate, invece, esclusivamente all’autorità giudiziaria. Ritenne, pertanto, affatto legittimo il rifiuto del primo di iscrivere nell’atto la paternità biologica della bambina sulla base della dichiarazione della sola madre, non essendo ammissibile e consentito allo stesso un’indagine sulla rilevanza probatoria della documentazione relativa alla procreazione medicalmente assistita allegata alla richiesta di formazione dell’atto di nascita, trattandosi di attività di valutazione delle prove della paternità e di accertamento dello status esulante dai suoi compiti istituzionali; ii) rilevò che la diversa impostazione seguita dalla R. non fosse coerente conl’art. 241 c.c., che ammette la prova della filiazione con ogni mezzo, ma solo nell’ambito di un giudizio, e che i diritti della minore fossero comunque preservati, perchè l’atto di nascita era stato formato e la madre avrebbe potuto utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità e ad ottenere l’attribuzione del cognome paterno, sicchè nemmeno era ravvisabile alcun contrasto con la giurisprudenza, anche comunitaria, da lei invocata, afferente l’attribuzione dello status come strumento di tutela della identità dell’individuo e del diritto al rispetto della vita familiare ex art. 8 della CEDU; iii) opinò che il rifiuto opposto dal comune non contrastasse con laL. n. 40 del 2004,art.8, regolante lo status dei figli nati con le tecniche di procreazione medicalmente assistita, prediligendo l’opzione ermeneutica secondo cui la predetta disposizione non avesse innovato rispetto alla disciplina relativa allo status di figlio naturale riconosciuto, con la conseguenza che sarebbe stato sempre necessario il riconoscimento da parte di entrambi i genitori e, ove questo non fosse stato possibile, non si sarebbe potuto prescindere dall’esperimento di una azione di stato exart. 269 c.c..
1.2. Il reclamo proposto dalla R., in proprio e nell’interesse della figlia L., avverso questo provvedimento è stato respinto dalla Corte di appello di Ancona, la quale, condecreto del 12 marzo 2018: a) ha disatteso l’assunto difensivo della reclamante secondo cui il descritto operato dell’ufficiale di stato civile sarebbe stato illegittimo perché in contrasto con le disposizioni previste dallaL. n. 40 del 2004. Quest’ultima, invero, non era applicabile nella concreta fattispecie – anzi, espressamente la vietava atteso che, se, da un lato, era incontestato che l’accesso alle tecniche fosse avvenuto quando i coniugi erano viventi, dall’altro, era altrettanto pacifico, perché riferito dalla stessa R., che l’intervento di fecondazione fosse stato successivo al decesso di suo marito. Correttamente, dunque, l’ufficiale di stato civile aveva applicato, ai fini della formazione dell’atto di nascita, le disposizioni generali dettate dal codice civile, richiamate dal tribunale. Al contrario, la tesi della R., secondo cui lo status che l’ufficiale di stato civile avrebbe illegittimamente omesso di indicare doveva desumersi dalla dichiarazione della madre integrata dal consenso del padre tanto alla procreazione medicalmente assistita che alla fecondazione post mortem e derivare direttamente dallaL. n. 40 del 2004,art.8, avrebbe comportato sia la valutazione in merito al contenuto della documentazione esibita a sostegno della richiesta di formazione dell’atto di nascita, sia l’interpretazione delle disposizioni della legge predetta, onde estenderla anche a fattispecie ivi non espressamente previste (anzi, addirittura, – come si è detto – vietate): attività, entrambe, esulanti dall’esercizio dei poteri attribuiti al menzionato ufficiale nella formazione di quell’atto; b) ha affermato che, pure ammettendo che il riconoscimento del rapporto di filiazione tra la bambina nata ed il defunto padre sia solo l’effetto prodotto dalla applicazione della legge spagnola e non comporti la legittimazione alla pratica della fecondazione post mortem, un siffatto riconoscimento, in ogni caso, proprio perché implicante una valutazione in ordine alla validità ed efficacia di alcuni documenti ed alla loro rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dello status, non poteva essere effettuato dall’ufficiale di stato civile, il quale, pertanto, legittimamente aveva applicato le regole generali del codice civile (artt. 231-232), che escludono l’operatività della presunzione di concepimento oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo matrimoniale (situazione verificatasi nel caso in esame, in cui G.A. era deceduto il (OMISSIS) e la bambina era nata il (OMISSIS)) e precludono l’iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre; c) ha considerato tutelati l’interesse ed i diritti della minore sia mediante l’atto di nascita, comunque formato, sia tramite gli altri strumenti processuali, forniti dall’ordinamento, che permettono di far constatare la paternità e di ottenere l’attribuzione del cognome paterno, con conseguente insussistenza di qualsivoglia contrasto con la giurisprudenza comunitaria; d) ha ritenuto, infine, non ravvisabili i presupposti per sollevare le questioni di costituzionalitàdell’art. 232 c.c.e dellaL. n. 40 del 2004,artt.5,12e8, in ragione del fatto che la mancata previsione della fecondazione assistita post mortem, dalla quale traevano origine i diversi profili di illegittimità costituzionale dedotti, era ricollegabile ad una scelta del legislatore che appariva giustificata dalla esigenza di garantire al nascituro il diritto al benessere psicofisico del medesimo attraverso il suo inserimento e la sua permanenza in un nucleo familiare ove fossero presenti entrambe le figure genitoriali.
2. Contro questo decreto, ricorre per cassazione la R., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minorenne L., affidandosi a quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria exart. 378 c.p.c., mentre il Comune di (OMISSIS) è rimasto solo intimato.
Motivi della decisione
1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:
I) “Violazione e falsa applicazione di legge exart. 111 Cost.eart. 360 c.p.c., comma 4, con riferimento al n. 3, in relazione alD.P.R. 3 novembre 2000, n. 396,artt.29e30”, per avere la corte distrettuale erroneamente ritenuto che l’ufficiale di stato civile avesse un potere discrezionale e/o valutativo quanto alla veridicità della dichiarazione della R. afferente la paternità della suddetta minore;
II) “Violazione e falsa applicazione di legge exart. 111 Cost.eart. 360 c.p.c., comma 4, con riferimento al n. 3, in relazione allaL. 19 febbraio 2004, n. 40,artt.8,5e12”, laddove la medesima corte aveva ritenuto inapplicabile laL. n. 40 del 2004,art.8, che attribuisce lo status di figlio nato nel matrimonio a quello nato a seguito delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, anche perché, sotto diverso profilo, nessun contrasto con l’ordine pubblico interno è ipotizzabile quanto alla fecondazione post mortem, tecnica praticata in Stati diversi dall’Italia. Non pertinente, inoltre, doveva considerarsi il richiamo effettuato dalla corte dorica al divieto legislativo di una siffatta fecondazione derivante dall’art. 5, che indica i requisiti soggettivi necessari per accedere alla procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti, anche, più semplicemente, P.M.A.), e art. 12, comma 2, che sancisce i divieti di applicazione delle tecniche di detta procreazione e le sanzioni per la loro inosservanza, della legge citata, posto che il trattamento cui la ricorrente si era sottoposta dopo la morte del marito era avvenuto in Spagna, la cui legislazione non prevede, entro l’anno dal decesso, alcun divieto di fecondazione. Dunque, una volta avvenuta la fecondazione post mortem nel rispetto delle forme e dei termini previsti dalla legge spagnola, la circostanza che il suddetto art. 12 vieti nello Stato italiano tale tipo di fecondazione non poteva essere sufficiente a configurare come contrari all’ordine pubblico gli atti successivi al ricorso a quella tecnica procreativa, quali l’attribuzione della paternità e del cognome nell’atto di nascita;
III) “Violazione e falsa applicazione di legge exart. 111 Cost.eart. 360 c.p.c., comma 4, con riferimento al n. 3, in relazione all’art. 232 c.c.”, perché il decreto impugnato aveva considerato applicabile, nella specie,l’art. 232 c.c., dettato dal codice civile in tema di procreazione naturale biologica, e non la disciplina contenuta nellaL. n. 40 del 2004,art.8relativamente allo stato giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A.;
IV) “Violazione e falsa applicazione di legge exart. 111 Cost.eart. 360 c.p.c., comma 4, con riferimento al n. 3, in relazione agli artt. 3, 30 e 31 Cost.,artt. 10 e 117 Cost.ed artt. 8 e 14 CEDU, art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, 3 dellaL. 27 maggio 1991, n. 176, di ratifica della Convenzione di New York”, perché la decisione impugnata si rivelava contraria ai principi costituzionali, eurounitari ed internazionali sulla tutela dei fanciulli e sul prevalente interesse del minore.
1.1. La R. ripropone, infine, in via subordinata, le eccezioni di incostituzionalitàdell’art. 232 c.c.(nella parte in cui non prevede la presunzione di concepimento durante il matrimonio anche per i figli nati con il ricorso alle tecniche di P.M.A. post mortem), dellaL. n. 40 del 2004,artt.5e12(laddove non prevedono, per un tempo ragionevole di almeno un anno dal decesso, la fecondazione assistita post mortem), nonché dell’art. 8 della medesima legge (nella parte in cui non riconosce lo status di figlio nato nel matrimonio e riconosciuto dalla coppia che ha espresso il consenso per le tecniche di P.M.A. a seguito di fecondazione post mortem), con riferimento agliart. 3 Cost.,art. 30 Cost., comma 1, eart. 31 Cost., comma 2, artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali, e 3 della Convenzione di New York, per interposizione, dell’art. 117 Cost., comma 1.
2. Nell’udienza di discussione, il Procuratore Generale ha chiesto, in via preliminare, la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte, in considerazione della particolare rilevanza della questione giuridica e della vicenda umana ad essa sottesa, che investe la tematica del procedimento di PAR (postmortem assisted reproduction) e lo stato giuridico del figlio nato “postumo”.
2.1. In proposito, va ribadito che, come già osservato dalla giurisprudenza di legittimità (con orientamento consolidato e qui condiviso. Cfr., ex aliis, Cass. n. 14878 del 2017; Cass. n. 19599 del 2016; Cass. n. 12962 del 2016; Cass. n. 8016 del 2012; Cass. n. 359 del 2003), l’istanza volta all’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, che non è soggetto ad obbligo di motivazione, altresì precisandosi che la funzione nomofilattica è attribuita anche alle sezioni semplici di questa Corte (come, del resto, agevolmente emerge anchedall’art. 375 c.p.c., u.c., nel testo, qui applicabile ratione temporis).
2.2. Fermo restando quanto appena detto, può in ogni caso osservarsi che la Corte di cassazione ha pronunciato a sezione semplice su numerose questioni variamente collegate a temi socialmente e/o eticamente sensibili, in tema sia di “direttive di fine vita” (cfr. Cass. n. 21748 del 2007), sia di limiti al riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive (cfr. Cass. n. 4184 del 2012 e Cass. n. 2004 del 2015), sia di adozione da parte della persona singola (cfr. Cass. n. 6078 del 2006 e Cass. n. 3572 del 2011), sia di surrogazione di maternità nella forma della gestazione affidata a terzi (cfr. Cass. n. 24001 del 2014), sia di adozione in casi particolari,L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d), (cfr. Cass. n. 12962 del 2016), sia di trascrizione, nei registri dello stato civile italiano, di un atto di nascita estero recante l’indicazione di una doppia maternità (cfr. Cass. n. 19599 del 2016), sia di rettificazione di atto di nascita indicante due genitori dello stesso sesso (cfr. Cass. n. 14878 del 2017). Deve, pertanto, ritenersi che non tutte le questioni riguardanti diritti individuali o relazionali di più recente emersione ed attualità sono, per ciò solo, qualificabili come “di massima di particolare importanza” nell’accezione di cuiall’art. 374 c.p.c., comma 2.
3. Rileva, poi, pregiudizialmente, il Collegio che l’odierno ricorso exart. 111 Cost.è sicuramente ammissibile, ancorché proposto contro un decreto reso dalla corte di appello, su reclamo, in materia di volontaria giurisdizione.
3.1. Invero, per costante giurisprudenza, ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, il termine “sentenza” non va inteso nel significato proprio di provvedimento emesso nelle forme e sui presupposti di cui agliartt. 132 e 279 c.p.c., ma deve interpretarsi estensivamente, così da ricomprendervi tutti i provvedimenti giurisdizionali, anche se emessi sotto forma di ordinanza o decreto, ove essi siano decisori, incidenti su diritti soggettivi e con piena attitudine a produrre effetti definitivi di diritto sostanziale e processuale (cfr., ex multis, Cass. n. 212 del 2019, in motivazione; Cass. n. 14878 del 2017; Cass., SU n. 27073 del 2016, in motivazione; Cass. n. 11218 del 2013; Cass., SU, n. 9042 del 2008; Cass. n. 184 del 2003).
3.1.1. Nel caso di specie, è indubbia l’incidenza su diritti soggettivi (attinenti allo status delle persone ed alla loro identità personale), così come il carattere decisorio e definitivo del decreto della corte di appello, contro cui non è previsto alcun rimedio se non il presente ricorso.
4. Ancora in via pregiudiziale, si evince dagli atti che la R. ha notificato l’odierno ricorso al Comune di (OMISSIS), parte nella precedente fase di reclamo, benché ivi non costituito, ed alla Procura Generale presso la Corte di cassazione. Non ha effettuato analogo adempimento, invece, nei confronti della Procura Generale presso la Corte di appello di Ancona, pur avendo quest’ultima partecipato a quella fase, ivi chiedendo il rigetto della impugnazione della reclamante (come emerge dalla pagina 8 del decreto oggi impugnato).
4.1. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 3556 del 2017, hanno affermato che, con riferimento al ricorso per cassazione proposto da una parte e non notificato al Pubblico Ministero presso il giudice a quo in un procedimento in cui è previsto l’intervento dello stesso, la mancanza di notifica – che non costituisce motivo di inammissibilità, improcedibilità o nullità del ricorso – neppure rende necessaria l’integrazione del contraddittorio tutte le volte che, non avendo questi il potere di promuovere il procedimento, le sue funzioni si identificano con quelle svolte dal procuratore generale presso il giudice ad quem e sono assicurate dalla partecipazione di quest’ultimo al giudizio di impugnazione; mentre, la suddetta integrazione è necessaria nelle sole controversie in cui il Pubblico Ministero è titolare del potere di impugnazione, trattandosi di cause che avrebbe potuto promuovere o per le quali il potere di impugnazione è previsto dall’art. 72 c.p.c. (cfr., in senso analogo, anche Cass., SU, n. 9743 del 2008).
4.2. Orbene, con specifico riferimento al procedimentoD.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 95, comma 1, e art. 96 (concretamente intrapreso dalla R. impugnando il già descritto rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile alla sua richiesta di registrazione del cognome paterno nell’atto di nascita della figlia minorenne L.), sebbene il comma 2 del citato art. 95 espressamente preveda che “il Procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1”, sicché nessun dubbio sussiste circa il fatto che, nella specie, il Pubblico Ministero sarebbe stato titolare del relativo potere di azione, e, conseguentemente, alla stregua del combinato dispostodell’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 1, eart. 72 c.p.c., comma 1, di quello impugnarne la relativa decisione, l’omessa notifica dell’odierno ricorso della R. alla Procura Generale presso la Corte di appello di Ancona non determina, comunque, alcuna invalidità, nè la necessità di adozione di provvedimenti di natura interinale. Deve, infatti, trovare applicazione il consolidato principio secondo cui, nei casi di intervento obbligatorio del Pubblico Ministero, l’omessa notifica del ricorso per cassazione al Procuratore Generale presso la Corte d’appello non è causa di inammissibilità allorquando il provvedimento impugnato abbia accolto, come nella specie, le richieste di quel Procuratore. Infatti, la notifica del ricorso è finalizzata a consentire l’esercizio dell’impugnazione e, siccome l’interesse ad impugnare – in ragione del quale avrebbe dovuto farsi luogo ad integrazione del contraddittorio – è costituito dalla soccombenza, l’omissione non comporta alcuna conseguenza nei confronti di tale organo, le cui conclusioni siano state interamente accolte dalla corte territoriale (come accaduto nella vicenda processuale in esame), mentre il controllo sulla legittimità della decisione di quest’ultima è assicurato dall’intervento del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione (cfr., ex multis, Cass. n. 11211 del 2014; Cass. n. 5953 del 2008; Cass. n. 18513 del 2003).
5. Venendo, dunque, ai motivi di ricorso, è opportuno anteporre al loro scrutinio alcune brevi considerazioni circa la natura e l’ambito oggettivo del procedimento disciplinato dalD.P.R. n. 396 del 2000(Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dellaL. 15 maggio 1997, n. 127,art.2, comma 12), agli artt. 95 e 96, dovendosi qui solo ricordare che il menzionato D.P.R. ha integralmente sostituito il precedenteR.D. 9 luglio 1939, n. 1238, recante l’ordinamento dello stato civile, i cui artt. da 165 a 178 già disciplinavano, in modo analogo, il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile.
5.1. L’art. 95 predetto dispone che “Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1. L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”; il successivo art. 96, invece, sancisce che “il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto compatibili, gliartt. 737 c.p.c.e segg. nonché, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione,l’art. 455 c.c.”.
5.2. Questa Corte, sebbene con riferimento al precedente (ma affatto simile) procedimento di rettificazione di cui all’abrogatoR.D. n. 1238 del 1939, ebbe ripetutamente a ritenere (cfr. Cass. n. 4922 del 1978; Cass. n. 7530 del 1986) che “…l’oggetto del procedimento di rettificazione suddetto non è limitato alla correzione degli errori materiali. Lo si deduce dall’art. 165, secondo cui il Pubblico Ministero può, in ogni tempo, promuovere d’ufficio le rettificazioni richieste dall’interesse pubblico e quelle che riguardano errori materiali di scrittura, distinguendosi così dalla correzione di meri errori materiali le altre rettificazioni che il Pubblico Ministero promuove, se involgono un interesse pubblico, e che, ai sensi dell’art. 167, sono promosse dalla parte interessata, quando tale interesse non sia in gioco. Se ne ha, inoltre, confermadall’art. 454 c.c.(anch’esso abrogato dalD.P.R. n. 396 del 2000. Ndr), che applica il procedimento di rettificazione a casi che restano manifestamente fuori dell’ambito della mera correzione degli errori materiali, quali quelli consistenti nella formazione di atti che siano stati omessi o smarriti o distrutti…” (cfr. Cass. n. 7530 del 1986).
5.2.1. Nella ricerca dei limiti dell’azione di rettificazione, si precisò che essa “non investe, in sé, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e quale risulta dall’atto dello stato civile. Il non verificarsi di tale corrispondenza può dipendere da un errore materiale o da un qualsiasi vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto, sia esso dovuto al dolo dell’Ufficiale che lo redige o ad un suo errore, anche se scusabile in quanto imputabile ad uno dei soggetti chiamati dalla legge a fornire gli elementi per la compilazione dell’atto. Non interessa, cioè, ai fini dell’ammissibilità del procedimento di rettificazione, la causa che ha determinato la difformità tra la realtà del fatto e la riproduzione che ne è contenuta nell’atto, non essendo dubitabile che i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…” (cfr. Cass. n. 7530 del 1986, in motivazione).
5.2.2. Si chiarì, infine, che il descritto procedimento non potesse ammettersi allorquando a fondamento della domanda di rettificazione fosse stata, in realtà, dedotta una controversia di “stato” (cfr. Cass. n. 2776 del 1996).
5.3. I medesimi principi sono poi stati ribaditi da Cass. n. 21094 del 2009, con specifico riferimento al procedimento di cui alD.P.R. n. 396 del 2000,artt.95 e ss., e questo Collegio li condivide integralmente, sicché lo scrutinio degli odierni motivi di ricorso dovrà svolgersi alla loro stregua, sebbene con questa ulteriore precisazione.
5.3.1. Una volta sancito che il procedimento in esame è volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e come, invece, risulta dall’atto dello stato civile, per un vizio comunque e da chiunque originato nel procedimento di formazione dell’atto stesso, in quanto la funzione degli atti dello stato civile è proprio quella di attestare la veridicità dei fatti menzionati nei relativi registri, ciò che effettivamente rileva non è – o, almeno, non lo è in via primaria – quale sia la tipologia di sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile, certamente non equiparabile a quello dell’autorità giudiziaria in un’azione di stato, ma quale sia l’ambito della cognizione del giudice che, in un panorama complesso quale quello attuale della genitorialità, sempre più percorso dalla scomposizione del processo generativo per effetto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, si trovi ad affrontare il ricorso contro il diniego di rettificazione opposto dall’ufficiale predetto.
5.3.2. Ad un siffatto interrogativo, questo Collegio ritiene di dover rispondere che il giudice investito della dedotta illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita – il cui procedimento si configura non come giudizio di costituzione diretta di uno status filiationis bensì di verifica della corrispondenza alla verità di una richiesta attestazione – dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a questo limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitegli dalla parte. Una simile conclusione, del resto, è pienamente coerente con la previsione delD.P.R. n. 396 del 2000,art.96, che, come si è già visto, consente al tribunale, seppure senza particolari formalità, di “…assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile…”, altresì obbligandolo, prima di provvedere, a sentire il Procuratore della Repubblica e gli interessati…” ed a “richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare…”.
5.3.3. In altri termini, il giudice del merito, proprio perché investito esclusivamente della corrispondenza alla verità del complesso di elementi fattuali documentati dalla parte richiedente, non ha limitazioni per decidere: ove valorizzerà questi ultimi e la coerenza del percorso ivi descritto, riconoscerà il diritto di completare l’atto di nascita e la fondatezza dell’azione di rettifica; diversamente, se riterrà che si debbano adattare parametri di accertamento della genitorialità fondati su presunzioni in relazione ad un processo generativo che non prevede la possibilità di sequenziarne il percorso, allora riterrà corretto il rifiuto dell’ufficiale dello stato civile che su questo paradigma probatorio ha fondato la sua decisione.
6. Venendo, dunque, ai motivi di ricorso, il primo di essi, che ascrive alla corte distrettuale di avere erroneamente ritenuto che l’ufficiale di stato civile avesse un potere discrezionale e/o valutativo quanto alla veridicità della dichiarazione della R. afferente la paternità della suddetta minore, non merita accoglimento.
6.1. Osserva, infatti, il Collegio, quanto alle dichiarazioni che si fanno dinanzi all’ufficiale dello stato civile, che alcune di queste hanno la funzione esclusiva di dare pubblica notizia di eventi, come la nascita e la morte, che hanno rilevanza per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati. Da tali eventi, come documentati nei registri dello stato civile, possono derivare, per effetto di normative particolari, estranee alla disciplina che regola le iscrizioni di dette dichiarazioni, diritti e doveri (diritto alla vita, ad essere educato e mantenuto, o, diversamente, diritto alla successione nel defunto, etc.).
6.1.1. In queste ipotesi, grava sul menzionato ufficiale l’obbligo di ricevere quanto riferito dal dichiarante e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che a lui competa di stabilire se gli eventi riportati possano essere compatibili con l’ordinamento italiano e se per questo abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Spetterà al giudice pronunciarsi su tali questioni ove su di esse sorga controversia.
6.2. Diversamente, altre dichiarazioni, pure rese dinanzi al medesimo ufficiale, sono, di per sé stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono: si pensi, ad esempio, alle dichiarazioni di riconoscimento di filiazione nata fuori del matrimonio (già filiazione naturale) o a quelle che si esprimono in relazione alla cittadinanza italiana.
6.2.1. In questi casi, proprio per la immediatezza della produzione di effetti derivanti dalla dichiarazione compiuta, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverla ove la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr.D.P.R. n. 396 del 2000,art.7).
6.3. Tanto premesso, deve, allora, considerarsi che, allorquando, il 22 febbraio 2017, dichiarò la nascita della figlia L. (avvenuta a Fermo il precedente 14 febbraio) presso l’ufficio di stato civile del Comune di (OMISSIS), contestualmente domandando che, nella redazione del corrispondente atto, ne fosse indicata la paternità del defunto G.A., attribuendone alla stessa il cognome, la R. rese, sostanzialmente, due diverse – benché contemporanee – dichiarazioni: una riguardante l’evento nascita,D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 30; l’altra afferente l’indicazione (anche) della paternità della neonata, da lei attribuita – giusta la documentazione attestante la tecnica di P.M.A., cui si era sottoposta in Spagna, e per effetto della quale era derivata la predetta nascita – al suo coniuge, G.A., deceduto fin dal (OMISSIS) ma che, prima della sua morte, aveva acconsentito all’accesso alla P.M.A. da parte della moglie, altresì autorizzandola ad utilizzare, post mortem, il suo seme crioconservato.
6.3.1. E’ chiaro, quindi, che, alla stregua di quanto si è precedentemente opinato, solo relativamente alla prima di tali dichiarazioni l’ufficiale di stato civile, nel redigere il corrispondente atto ex art. 29 del D.P.R. predetto, nulla avrebbe potuto obbiettare alla dichiarante, non spettando a lui di stabilire se l’evento riferitogli potesse essere compatibile con l’ordinamento italiano e se per questo avesse rilevanza e fosse produttivo di diritti e doveri.
6.3.2. Circa la seconda, invece, ingenerando essa stessa effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale poteva/doveva rifiutare di riceverla ove – come poi effettivamente avvenuto – l’avesse ritenuta in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000,art.7).
6.3.3. Non sussiste, pertanto, la denunciata violazione delD.P.R. n. 396 del 2000,artt.29e30, come qui prospettata dalla ricorrente, dovendosi, piuttosto valutare, attraverso l’esame degli ulteriori motivi di impugnazione da lei oggi formulati, se il rifiuto oppostole dall’ufficiale di anagrafe abbia determinato, o meno, una discrasia fra la realtà dalla prima complessivamente dichiarata e la sua riproduzione nell’atto di nascita come redatto da quell’ufficiale: vale a dire tra il fatto, quale era stato nella realtà (o quale avrebbe dovuto essere nell’esatta applicazione della legge) e come, invece, risultava dall’atto dello stato civile.
7. Muovendo, allora, da questa prospettiva di indagine, il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono suscettibili di esame congiunto, perché chiaramente connessi, rivelandosi, peraltro, fondati per le ragioni di seguito esposte.
7.1. Giova premettere, in punto di fatto, che la R. ha così ricostruito l’iter del complessivo percorso che aveva portato alla nascita della figlia L.: i) i coniugi G. – R., a causa di alcune difficoltà riscontrate nel concepimento di un figlio, avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso il 31 marzo 2015; ii) il G., proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo procedere all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con dichiarazione sottoscritta in data 8 settembre 2015, e, consapevole della sua fine imminente, aveva anche autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; iii) per realizzare il comune desiderio di procreazione, l’odierna ricorrente, dopo la morte del marito avvenuta il (OMISSIS), si era sottoposta al trattamento di fecondazione assistita (FIV) in (OMISSIS), presso il (OMISSIS), dando, poi, alla luce, in Italia (presso l’azienda ospedaliera (OMISSIS)), il (OMISSIS), la piccola L..
7.1.1. Si è trattato, dunque, di una nascita derivata da una tecnica di P.M.A. (fecondazione omologa) eseguita post mortem, benché acconsentita da entrambi i coniugi anteriormente al decesso del G., il quale, poco prima di morire, nel ribadire il proprio consenso, aveva altresì autorizzato, al suddetto fine, l’utilizzo del proprio seme crioconservato.
7.2. Dopo la nascita della figlia, la R., il 22 febbraio 2017, aveva reso la corrispondente dichiarazione all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) (quello di sua residenza), allegando documentazione a corredo dei fatti di cui si è appena detto: ciò nonostante, quell’ufficiale aveva rifiutato di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto G.A. e, conseguentemente, attribuire alla piccola L. il cognome paterno, come dichiarato e richiesto dalla madre, ritenendo tale dichiarazione contraria all’ordinamento giuridico vigente.
7.2.1. Oggi, quindi, non si controverte sulla trascrivibilià, in Italia, di un atto di nascita redatto in uno dei Paesi che consentono tecniche di fecondazione artificiale come quella di cui si è concretamente avvalsa la R., bensì, esclusivamente, della possibilità, o meno, di rettificare, nei sensi invocati dalla odierna ricorrente, un atto di nascita già formato sul territorio nazionale.
7.3. E’, altresì, opportuno sottolineare che, in questa sede, nemmeno viene specificamente in rilievo il tema della liceità, o meno, secondo la legislazione italiana (cfr.L. n. 40 del 2004), della tecnica di P.M.A. predetta (fecondazione omologa post mortem), ma, giusta quanto si è già chiarito circa l’ambito operativo del procedimentoD.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, esclusivamente, quello della corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale suddetto e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto: cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e come risulta dall’atto dello stato civile, senza che rilevino le ragioni di una eventuale insussistenza di una tale corrispondenza, posto che “i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…” (cfr. Cass. n. 7530 del 1986, in motivazione).
7.3.1. In altri termini, le conclusioni che pure potrebbero desumersi dalla complessiva disciplina di cui allaL. n. 40 del 2004(come attualmente risultante dopo gli interventi su di essa della Corte costituzionale. Cfr. Corte Cost., sent. n. 151 del 2009; Corte Cost., sent. n. 162 del 2014; Corte Cost., sent. n. 96 del 2015; Corte Cost., sent. n. 229 del 2015) in ordine alla illegittimità, o meno, della pratica, in Italia, di una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta, in Spagna (ove è consentita dalla corrispondente disciplina, entro l’anno dal decesso di chi abbia precedentemente autorizzato l’utilizzo del proprio seme crioconservato), la R., devono necessariamente arrestarsi di fronte al fatto che, una volta verificatasi la nascita per effetto di una tale pratica, occorre stabilire, ai già riportati fini che qui specificamente interessano, se debbano trovare esclusiva applicazione i meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231 e 233 c.c. in relazione alla prova della paternità o se sia necessario anche tener conto della disciplina dellaL. n. 40 del 2004circa il rilievo determinante del consenso al processo generativo mediante P.M.A. 7.3.2. Un siffatto accertamento, peraltro, deve ponderare plurimi fattori, quali: a) il rilievo attribuito dalla società odierna a bisogni che un tempo erano ignoti, non prevedibili ed ancora non (o parzialmente) regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale; b) il costante dialogo tra le Corti supreme degli Stati Europei ed extraeuropei, con i quali si condividano i principi assiologici dei diritti fondamentali della persona, nonché quello con la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha determinato la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica; c) il considerare le tecniche di P.M.A. come un metodo alternativo al concepimento naturale, oppure alla stregua di un trattamento sanitario volto a sopperire una problematica di natura medica che colpisce uno, o entrambi, i componenti della coppia.
7.3.2.1. Tutto questo comporta, invero, che la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare, che, addirittura, mediante l’applicazione delle tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell’unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall’importante ruolo della “responsabilità” genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una “funzione” genitoriale.
7.3.3. In un tale scenario, nel quale la genitorialità spesso può anche scindersi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, è necessario comprendere se i divieti di genitorialità pure evincibili dal nostro ordinamento possano fungere da “controlimite” alla tutela dei diritti di chi è nato, oppure se occorra superare i confini della tradizione ed accettare, regolandoli, i nuovi percorsi della genitorialità stessa.
7.4. Orbene, è noto che, ove la madre, che abbia fatto la dichiarazione di nascita, non sia più coniugata per essere stato annullato o sciolto il suo matrimonio (come accaduto nella specie, per effetto della morte del marito della odierna ricorrente avvenuta il (OMISSIS), data pacificamente anteriore addirittura all’avvenuta sua sottoposizione al trattamento di P.M.A.) o per esserne stati dichiarati cessati gli effetti civili, la corrispondenza del fatto reale (paternità dell’ex coniuge della madre ovvero di altra persona) con quello riprodotto nell’atto dello stato civile dipende dall’operare, o meno, della presunzione stabilitadall’art. 232 c.c..Secondo tale norma, si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non siano trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio (comma 1), ma la presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronunzia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi siano stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione, di annullamento o di divorzio (comma 2).
7.4.1. Pertanto, alla luce di tale disciplina, affinché vi sia corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di anagrafe e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, occorre che operi la presunzione di legge, perché, se questa (indipendentemente dal verificarsi delle condizioni indicate nell’art. 232 c.c., comma 1) si rivela inapplicabile, in quanto ricorra una delle fattispecie di cui al comma 2 della citata norma, l’atto dello stato civile, che attribuisca al figlio il cognome dell’ex coniuge della madre, è difforme dalla situazione quale è secondo la previsione codicistica.
7.5. E’ altrettanto indiscutibile che, ai sensi del vigente art. 250 c.c., comma 1, il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto nei modi previstidall’art. 254 c.c., dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento, potendo detto riconoscimento avvenire tanto congiuntamente che disgiuntamente. L’art. 254 c.c., comma 1, a sua volta, specifica che il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è fatto nell’atto di nascita, oppure con un’apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al concepimento, davanti ad un ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo.
7.5.1. La corrispondenza tra il fatto riprodotto nell’atto dello stato civile (nascita del figlio fuori dal matrimonio e suo riconoscimento da parte dei genitori o di uno solo di essi) e la situazione reale secondo le appena riportate disposizioni codicistiche, postula, allora che, innanzi all’ufficiale di stato civile, la corrispondente dichiarazione di riconoscimento sia fatta nei modi previstidall’art. 254 c.c., altrimenti l’atto dello stato civile, che attribuisca al figlio il cognome di quello dei genitori che non abbia così proceduto, è difforme dalla situazione quale è secondo la previsione del codice civile, essendo, anche in questo caso, affetto da un vizio che ne ha alterato il procedimento di formazione.
7.6. Quanto, invece, alla disciplina, in materia di filiazione, di cui allaL. n. 40 del 2004, va, innanzitutto, rimarcato il suo art. 8, il quale (nel testo, qui applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche apportategli dalD.Lgs. n. 154 del 2013), sotto la rubrica “stato giuridico del nato”, sancisce che “I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6”.
7.6.1. Merita, però, di essere ricordato, ai fini che in questa sede specificamente interessano, anche l’art. 9 (Divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre), a tenore del quale, dopo gli interventi sullo stesso della Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014 (che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 3, limitatamente alle parole “in violazione del divieto di cui all’art. 4, comma 3”), “Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previstidall’art. 235 c.c., comma 1, nn. 1) e 2), né l’impugnazione di cuiall’art. 263 c.c..La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del regolamento di cui alD.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto nè essere titolare di obblighi”.
7.7. Investono, invece, più specificamente le fasi dell’accesso alle tecniche di PMA ed alla loro applicazione, entrambe, però, anteriori alla nascita, sicché prive di effettivo rilievo nell’odierno giudizio (nel quale, è opportuno ribadirlo, non si controverte sulla illiceità, o meno, dell’accesso o della pratica, in Italia, in relazione ad una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta, in Spagna, – ove è consentita dalla corrispondente disciplina nei limiti temporali predetti – la R., bensì, unicamente, della disciplina in tema di filiazione da applicarsi al nato sul territorio nazionale per effetto di una tale – illecita o lecita che sia – pratica), le disposizioni che la medesima legge contiene agli artt. 4 (quanto all’accesso alle tecniche di PMA), 5 (circa i requisiti soggettivi per accedere a tali tecniche), 6 (in tema di consenso informato), 12 (recante i divieti per gli specifici comportamenti ivi descritti e le sanzioni per l’inosservanza di alcune previsioni della legge).
7.7.1. E’ chiaro, infatti, che qualsivoglia considerazione riguardante la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A. in precedenza specificamente richiamata, oltre che, eventualmente, delle condotte di coloro che ne consentono l’accesso o l’applicazione, non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. In altre parole, la circostanza che si sia fatto ricorso all’estero a P.M.A. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse dal nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso, come, peraltro, affermato, con chiarezza, della Corte EDU nelle due sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11), oltre che sancito anche dalla Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 347 del 1998, che (ancor prima del sopravvenire dellaL. n. 40 del 2004) sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso. Già in quella sede ci si preoccupò “…di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato (…), non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagliartt. 30 e 31 Cost., ma ancor prima – in baseall’art. 2 Cost.- ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare…” (cfr. C. Cost. n. 347 del 1998). Sostanzialmente nel medesimo senso, del resto, si è già esplicitamente pronunciata anche questa Suprema Corte nella fondamentale sentenza n. 19599 del 30 settembre 2016 (benché resa in vicenda affatto diversa da quella oggi in esame), secondo cui “le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dallaL. n. 40 del 2004imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato”, di ciò essendosi mostrato consapevole lo stesso legislatore, il quale, all’art. 9, comma 1, ha previsto che, in caso di ricorso a tecniche (allora vietate) di procreazione medicalmente assistita addirittura di tipo eterologo (nel caso di specie, invece, si è in presenza, pacificamente, di una fecondazione omologa, sebbene post mortem), il coniuge o convivente consenziente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità, né impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità (cfr., sostanzialmente nel medesimo senso, anche la successiva Cass. n. 14878 del 2017).
7.8. Tornando, dunque, al problema interpretativo dei rapporti, ai delimitati fini che in questa sede specificamente interessano, tra la normativa del codice civile e quella contenuta nellaL. n. 40 del 2004(in particolare ai suoi artt. 8 e 9), occorre praticamente verificare se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico, in ragione della peculiarità propria della tecnica de qua, o si inserisca in quest’ultimo che regola la filiazione da procreazione naturale attraverso la previsione di specifiche eccezioni. Dalla soluzione di tale questione, infatti, deriva l’applicabilità, o meno, alla filiazione da P.M.A. dei principi e criteri attributivi dello status del nato da procreazione naturale, e, poiché lo status risulta in ultima analisi dall’atto di nascita, dalla soluzione della medesima questione discendono anche le regole da seguire nella formazione di tale documento, al fine di verificare se, nel caso in esame, sussista, o meno, corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto.
7.8.1. Nella giurisprudenza di legittimità finora intervenuta, non si rinvengono precedenti riconducibili, specificamente, proprio alla fattispecie, oggi in esame, di fecondazione omologa effettuata (peraltro in un Paese dove ciò è consentito in un ambito temporale risultato rispettato) quando il marito (ma altrettanto dovrebbe dirsi ove si trattasse solo di convivente), che abbia già prestato, congiuntamente alla moglie (o alla convivente) e prima del proprio decesso, il consenso alle tecniche di P.M.A., lo abbia reiterato in modo sostanzialmente coerente con quanto richiesto dallaL. n. 40 del 2004,art.6.
7.8.2. E’, altresì, di tutta evidenza che, di fronte alle pratiche di P.M.A., risulta assai problematico comporre, in modo equilibrato e coerente, le esigenze contrapposte della certezza e stabilità dello stato di filiazione e della sua corrispondenza con la verità, sicché non stupisce la varietà delle possibili soluzioni ipotizzate, in proposito, dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito. Tanto è la logica conseguenza del fatto che, ormai, figlio è non solo chi nasce da un atto naturale di concepimento ma anche colui che venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa, quest’ultima nella misura in cui è oggi consentita dallaL. n. 40 del 2004a seguito dei già descritti ripetuti interventi della Corte costituzionale), o colui che sia tale per effetto di adozione: ciò dimostra che i confini una volta ritenuti invalicabili del principio tradizionale della legittimità della filiazione sono ormai ampiamente in discussione. In base agli artt. 2 e 30 Cost., del resto, il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 6963 del 2018; Cass., SU, n. 1946 del 2017; Cass. n. 15024 del 2016).
7.8.2.1. Orbene, secondo una prima opinione, che muove dall’assunto che la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico, lo status di figlio del nato da P.M.A. non deriverebbe dalle regole applicabili alla generazione biologica naturale, diverse a seconda che il figlio sia nato nel matrimonio o fuori di esso, poiché, invece, detto status verrebbe attribuito direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A., indipendentemente dal fatto che i genitori siano, o meno, sposati, sicché il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale (che non risulti revocato fino al momento della fecondazione dell’ovulo. Cfr.L. n. 40 del 2004,art.6, comma 3) avrebbe un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla nozione di “consenso informato” al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.
7.8.2.2. Per chi ritiene, viceversa, che al nato da P.M.A. si applichino i medesimi principi in tema di filiazione naturale, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull’attribuzione dello status del figlio, ma avrebbe solo la funzione di consentire al figlio di identificare il proprio genitore grazie all’assenso da lui prestato alla P.M.A..
7.8.3. Un siffatto dilemma interpretativo produce i suoi effetti anche sullo status del figlio nel caso di fecondazione medicalmente assistita post mortem, dovendosi, peraltro, rimarcare che rientrano, in questo particolare contesto, ipotesi affatto diverse tra loro, quali: il prelievo del seme dal cadavere dell’uomo; l’inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato dal partner prima del decesso (concretamente avvenuta nella fattispecie in esame); infine, l’impianto, nel corpo della donna, dell’embrione formatosi quando entrambi i componenti la coppia erano in vita.
7.8.3.1. LaL. n. 40 del 2004,art.5, nel riservare l’accesso alla procreazione a coppie i cui membri siano “entrambi viventi”, sembra escludere che possa ricorrervi una donna vedova, sotto pena di sanzioni amministrative (art. 12, della medesima legge), e tanto, come pure si è autorevolmente sostenuto, allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna. La norma, tuttavia, non precisa in quale momento del complesso procedimento fecondativo sia richiesta la presenza in vita di entrambi i membri della coppia, sicché spetta all’interprete, alla luce dei principi sottesi alla disciplina in materia, stabilire se debbano considerarsi illecite, o meno, tutte e tre le diverse ipotesi precedentemente prospettate, ed a tal fine non potrebbe prescindersi da quanto sancito dal successivo art. 6, comma 1, – a tenore del quale, per le finalità indicate dal comma 3 del medesimo articolo (afferente il consenso informato dei soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita), “prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata i soggetti di cui all’art. 5…” – che, almeno prima facie, sembra postulare l’esistenza in vita dei menzionati soggetti appunto in ogni fase di applicazione della tecnica prescelta.
7.8.3.2. Un siffatto problema, però, come si è già ripetutamente detto, non può assumere rilievo primario, atteso che nel presente giudizio, alla stregua di quanto si è chiarito circa l’ambito operativo del procedimento D.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, occorre accertare esclusivamente la corrispondenza fra la realtà di un fatto come complessivamente dichiarato dalla R. all’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, dovendo le conclusioni pure desumibili dalla complessiva disciplina di cui allaL. n. 40 del 2004in ordine alla illegittimità, o meno, della pratica, in Italia, di una tecnica di fecondazione omologa post mortem come quella cui si era sottoposta (affatto lecitamente secondo la lex loci), in Spagna, la ricorrente, necessariamente arrestarsi di fronte al fatto che, una volta verificatasi la nascita, non ci si può sottrarre all’individuazione della disciplina da applicarsi in materia di filiazione. Tanto per la evidente ragione che, in ogni caso, il nostro ordinamento non può disinteressarsi dei correlativi diritti del soggetto venuto al mondo a seguito di una procreazione medicalmente assistita post mortem eventualmente effettuata dal cittadino italiano in un Paese ove tale pratica è ammessa ed avvenuta nel pieno rispetto dei limiti temporali di sua esecuzione prevista dalla corrispondente disciplina.
7.8.4. Si pone, allora, la necessità di individuare, nel silenzio del legislatore, lo status del figlio in tal modo venuto al mondo. Infatti, a differenza di quanto previsto per la procreazione eterologa (inderogabilmente vietata nel disegno originario dellaL. n. 40 del 2004, ma alla quale oggi possono accedere, invece, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, le “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” per le quali è stata accertata e certificata una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità per uno o per entrambi i partner), nel caso di procreazione post mortem la nuova normativa non detta una disciplina dedicata alla fattispecie (in ipotesi) vietata, sicchè occorre chiedersi se possa applicarsi laL. n. 40 del 2004,art.8, sullo status giuridico del nato, anche quando il figlio sia nato (come nella specie) oltre i trecento giorni dalla morte del padre. Le opinioni espresse sono varie.
7.8.4.1. Coloro i quali assumono che, anche in caso di procreazione medicalmente assistita, troverebbero applicazione i principi generali stabiliti nel codice civile in tema di filiazione naturale, si dividono tra chi sostiene che la nascita di un figlio da fecondazione artificiale omologa post mortem avvenuta in un periodo che non consente più l’operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio può solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, con la conseguenza che un riconoscimento preventivo del marito mentre era ancora in vita sarebbe privo di effetti, e chi, invece, ritiene che la suddetta situazione non costituirebbe un ostacolo alla operatività della presunzione di paternità tutte le volte in cui possa essere provato, ai sensidell’art. 234 c.c., il concepimento in costanza di matrimonio. Tale requisito, attraverso una interpretazione estensiva della norma, dovrebbe considerarsi soddisfatto dimostrando che la fecondazione dell’ovulo (cioè, la creazione dell’embrione) sia avvenuta durante il matrimonio, purché la moglie non sia passata a nuove nozze. Quest’ultima tesi, però, oltre a fondarsi su una interpretazione del “concepimento” sensibilmente distante rispetto alla sua accezione tradizionale, che lo identifica con il momento nel quale l’ovulo fecondato attecchisce nell’utero materno, finisce con il distinguere immotivatamente la situazione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione medicalmente assistita che sia stata eseguita, essendo possibile congelare e conservare a lungo non solo l’embrione ma anche il liquido seminale e potendosi, pertanto, ipotizzare che la stessa fecondazione dell’ovulo avvenga, come peraltro accaduto nel caso in esame, solo dopo la morte del marito.
7.8.4.2. La diversa impostazione secondo la quale, nella fattispecie in esame, si potrebbe applicare laL. n. 40 del 2004,art.8, sullo status giuridico del nato, muove, invece, dal rilievo che il legislatore non ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita” ed ha, anzi, espressamente contemplato la sua applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, in relazione alla quale l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità presuppongono che, anche in simili casi, il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio.
7.8.4.3. Ne consegue che, ove si sia proceduto, nonostante il tenore letterale dellaL. n. 40 del 2004,art.5e art.6, comma 1, dopo la morte del marito ed acquisito il suo univoco consenso in vita, alla formazione di embrioni con il seme crioconservato dello stesso e gli ovociti della moglie ed al loro impianto, dovrebbe prevalere la tutela legislativa del nato da fecondazione omologa, posto che il sicuro legame genetico consentirebbe comunque l’instaurazione del rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori genetici, anche ove volesse ritenersi violato il quadro normativo derivanti dalle disposizioni relative all’accesso alla P.M.A. nel nostro ordinamento interno.
7.8.5. Fermo quanto precede, rileva innanzitutto il Collegio che, per quanto concerne il nato da P.M.A. di tipo eterologo, laL. n. 40 del 2004,art.9, comma 1, stabilisce che il marito o il convivente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità purché il suo consenso sia ricavabile da “atti concludenti”. Proprio l’effettuato riferimento della norma ad “atti concludenti”, da cui deve desumersi il consenso alla tecnica della procreazione eterologa (lecita, oggi, nei predetti limiti di cui a Corte Cost. n. 162 del 2014), costituisce, allora, un argomento significativo per ritenere, fondatamente, che questi stessi “atti concludenti” siano idonei a maggior ragione a dimostrare il consenso alle pratiche lecite di procreazione assistita omologa, essendo innegabile che la genitorialità di cui al citato art. 8 spetti alla coppia, coniugata o convivente, che abbia voluto congiuntamente accedere alla tipologia di P.M.A. consentita anche nel nostro ordinamento.
7.8.5.1. LaL. n. 40 del 2004,art.8esprime, poi, l’assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A.. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa.
7.8.6. Ribadito, allora, che non si controverte, in questa sede, della illiceità, o meno, di una siffatta tecnica di P.M.A., ma, alla stregua di quanto si è già chiarito circa l’ambito operativo del procedimentoD.P.R. n. 396 del 2000, ex artt. 95 e 96, esclusivamente della corrispondenza fra la realtà di un fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di stato civile e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, opina questa Corte che sia possibile l’applicazione della disciplina dellaL. n. 40 del 2004,art.8(anche) alla specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui oggi si discute, apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il/la nato/a allorquando il marito (o il convivente) sia morto dopo avere prestato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (nella specie, peraltro, pacificamente ribadito solo pochi giorni prima del decesso) ai sensi dell’art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell’embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato (di cui, prima del decesso, abbia, altresì, autorizzato l’utilizzazione) sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale. In tal caso, benché manchi il requisito della esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell’ovulo, deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita, il/la figlio/a possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità.
7.8.6.1. L’appena riferita scelta interpretativa si fonda sulla rilevanza che assume la discendenza biologica, della quale la parte odierna ricorrente ha specificamente dedotto di aver fornito ampia prova, tra l’uomo che ha comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, altresì autorizzando l’utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato, e prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento (se lecitamente, o meno, non interessa nella concreta fattispecie, non potendosi riflettere sul nato eventuali responsabilità dei genitori e/o dei medici che hanno assecondato i loro progetto) e la nascita. Proprio perché le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, si rivelano inapplicabili, in materia, quei principi, dettati nel codice civile (artt. 232 e 234 c.c., ma si veda anchel’art. 462 c.c., comma 2), basati su un sistema di presunzioni tramite le quali si cerca di stabilire quella certezza.
7.8.6.2. Alla predetta soluzione, peraltro, nemmeno sembra di assoluto ostacolo l’assunto secondo cui l’ordinamento deve proteggere l’infanzia garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali, nel chiaro intento positivo di considerare prevalente la tutela del nascituro rispetto al diritto alla genitorialità. Al contrario, si può comunque osservare che la limitazione della donna, nella specifica situazione in cui era venuta a trovarsi l’odierna ricorrente, all’accesso alla tecnica cui ella si era poi sottoposta non è funzionale a far prevalere l’interesse del nascituro a venire al mondo in una famiglia che possa garantire l’esistenza e l’educazione, perché l’alternativa è il non nascere affatto; parimenti, l’affermazione che nascere e crescere con un solo genitore integri una condizione esistenziale negativa non sembra potersi enfatizzare al punto tale da preferire la non vita. Al contrario, l’interesse del nato, nella specie, è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bi-genitoriale, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, le già richiamate Cass. n. 6963 del 2018; Cass., SU, n. 1946 del 2017; Cass. n. 15024 del 2016).
7.8.6.3. In uno scenario, nel quale, come si è detto in precedenza, la genitorialità spesso va staccandosi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, è, allora, necessario porsi in un’altra prospettiva, dove il rapporto familiare non si pone più in termini convenzionali, in cui nuove ipotesi di relazioni intersoggettive calzano la scena della famiglia, che non può più essere solo quella che il codice civile ha previsto nel 1942. Il fenomeno dell’emersione di diverse relazioni intersoggettive nelle relazioni affettive è, del resto, in progressiva evoluzione, così da richiedere una tutela sistematica (e non più occasionale) dei fenomeni prima sconosciuti o ritenuti minoritari, imponendo soluzioni capaci di emanciparsi da quei modelli tradizionali che rischiano, ormai, di rivelarsi inadeguati rispetto ai primi.
7.8.7. Ciò posto, la fattispecie qui esaminata presuppone, oltre alla morte del marito (o del convivente), che vi sia stato il consenso dello stesso (o del convivente) al momento di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e che tale consenso non solo sia certamente persistito fino al suo decesso, ma, prima di tale momento ultimo, sia stato anche da lui arricchito dall’espressa autorizzazione all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato: in presenza di una siffatta ipotesi, l’interpretazione preferibile è, dunque, quella secondo la quale la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configura un sistema alternativo, speciale, e non possono, di conseguenza, trovare applicazione i meccanismi di prova presuntiva del codice civile riferibili alla generazione biologica naturale.
7.8.8. Manca, del resto, qualsivoglia dato normativo che induca a ritenere che nella procreazione medicalmente assistita debbano applicarsi tali presunzioni in materia di procreazione biologica naturale se non espressamente derogati dallaL. n. 40 del 2004,artt.8e9. Invero, gli argomenti, di tipo testuale, pure svolti a sostegno di quest’ultima tesi non persuadono.
7.8.8.1. Si è, in primo luogo, osservato che il contenuto del comma 2 dell’art. 9, che pone il divieto dell’anonimato materno nella fecondazione medicalmente assistita, sembra presuppore l’astratta applicabilità alla procreazione medicalmente assistita dei principi stabiliti in tema di filiazione biologica naturale. Inoltre, sempre secondo tale tesi, la disposizione contenuta nell’art. 9, comma 3, secondo cui, in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato, assume effettiva portata normativa soltanto se intesa quale deroga alla ordinaria disciplina della filiazione naturale, mentre avrebbe una mera portata esplicativa nel caso opposto.
7.8.8.2. Nondimeno, il divieto di anonimato materno, lungi dal presupporre l’operatività dei principi generali, ben può costituire espressione proprio delle differenze esistenti tra procreazione naturale e procreazione medicalmente assistita con riferimento alla determinazione dello status del nato, poiché in quest’ultimo caso il consenso dato alla pratica della procreazione medicalmente assistita determinerebbe una “responsabilità” riguardo alla filiazione, tale da escludere la stessa facoltà per la donna di non essere nominata. D’altronde, risulta affatto condivisibile e tutt’altro che illogico, il rilievo che, in un’ottica di tutela del nato, al consenso prestato dai genitori per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore abbia riconnesso anche il riconoscimento del nato e che tale ipotesi sia stata, dunque, differenziata da quella di procreazione naturale, anche sotto il profilo delle possibili conseguenze. Ciò emerge in maniera evidente nella fecondazione eterologa, ove l’interesse del minore costituisce un vero e proprio limite al principio della verità biologica, tanto che il legislatore, per perseguire tale interesse, ha attribuito precipuo rilievo al consenso prestato dai coniugi o conviventi al ricorso a tecniche di procreazione assistita, ma risulta confermato anche in caso di fecondazione omologa post mortem, con riferimento alla quale, non essendo in alcun caso ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, coincidendo quest’ultimo con il diritto del minore alla propria identità, il consenso prestato dai coniugi o conviventi appare elemento qualificante la disciplina in materia di accertamento della filiazione in funzione di una effettiva tutela della personalità del minore. Viceversa, proprio riguardo alla procreazione medicalmente assistita post mortem, le regole generali non appaiono congrue, in quanto si versa in presenza di un evento in cui si può avere la certezza che la fecondazione è avvenuta dopo la morte del soggetto che ha espresso il consenso e, ciononostante, si è altrettanto sicuri che ricorra con quello stesso soggetto quel rapporto di consanguineità che si pone a fondamento del sistema generale della filiazione.
7.8.9. Appare, pertanto, decisamente preferibile, di fronte ad un dato testuale sostanzialmente neutro, interpretare la norma in funzione della effettività della tutela del diritto della persona umana alla propria identità, la quale, come sottolineato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (nelle due, già menzionate, sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia, del 26 giugno 2014, ric. n. 65192/11, e Labassee c. Francia, del 26 giugno 2014, ric, n. 65941/11), comprende l’identificazione del proprio status di figlio di determinati genitori.
7.9. Alla stregua delle superiori considerazioni, nella concreta fattispecie oggi in esame occorre, allora, applicare la disciplina contenuta nella menzionataL. n. 40 del 2004,art.8, senza poter fare riferimento alla presunzione stabilitadall’art. 232 c.c., che, di per sé, non può costituire ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione omologa eseguita post mortem dello status di figlio del marito deceduto, anche se la nascita sia avvenuta dopo il decorso del termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio conseguente alla sua morte. Naturalmente, per potere affermare che L. sia figlia del marito deceduto della ricorrente, deve esistere il presupposto fondamentale previsto dal suddettoL. n. 40 del 2004,art.8, vale a dire il consenso espresso congiuntamente dai coniugi al ricorso alle tecniche di P.M.A., secondo quanto stabilito dall’art. 6 della medesima legge, e mantenuto fermo dal marito fino alla data della sua morte. D’altra parte, non tutti i requisiti del consenso indicati dalla norma appaiono necessari ai fini dell’attribuzione dello status filiationis, come si desume implicitamente dal disposto dell’art. 9, a norma del quale è sufficiente che il consenso sia ricavabile da atti concludenti. In definitiva, quindi, benché la mancanza dei requisiti del consenso stabiliti dallaL. n. 40 del 2004,art.6non permetta di accedere alle pratiche di procreazione medicalmente assistita, laddove la procreazione comunque avvenga, lo status filiationis va determinato verificando solamente se effettivamente il coniuge o il convivente abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita anche solo mediante atti concludenti, e se tale consenso, integrato da quello riguardante anche la possibilità di utilizzo del proprio seme post mortem, sia effettivamente persistito fino al momento ultimo (nella specie, quello della morte del marito della odierna ricorrente) entro il quale lo stesso poteva essere revocato, non ravvisandosi valide ragioni per ritenere, al contrario, che il consenso peculiarmente espresso per un atto da compiersi dopo la morte perda efficacia al verificarsi di detto evento.
7.10. Nella fattispecie in esame, la R. ha dedotto che: i) con il coniuge G.A., avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso il 31 marzo 2015; ii) il G., proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo far ricorso all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con dichiarazione sottoscritta in data 8 settembre 2015, e, consapevole della sua fine imminente, aveva autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; iii) per realizzare il comune desiderio di procreazione, l’odierna ricorrente, dopo la morte del marito avvenuta il (OMISSIS), si era sottoposta, al trattamento di fecondazione assistita (FIV) in Spagna, dando, poi, alla luce, in Italia, il (OMISSIS), la piccola L..
7.10.1. Pertanto, alla stregua dellaL. n. 40 del 2004,art.8, come in precedenza interpretato, il fatto storico della nascita, così avvenuta, di quella bambina, ne avrebbe dovuto comportare, ove adeguatamente documentate le circostanze suddette, la formazione del corrispondente atto dello stato civile con la indicazione della paternità di G.A. e del cognome paterno. Non si tratta, quindi, di attribuire alla figlia nata dalla R. uno stato diverso da quello che, secondo la previsione legale, le competerebbe (ciò, invero, dovrebbe formare oggetto di un’azione di stato), ma soltanto di rettificare un atto compilato non correttamente, così da renderlo corrispondente alla situazione reale prodotta dalla medesima previsione legale (L. n. 40 del 2004,art.8), alla stregua della quale l’atto stesso doveva essere formato.
7.11. Ne consegue la erroneità tanto dell’affermazione della Corte di appello di Ancona secondo cui il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di iscrivere nell’atto di nascita di cui si discute la paternità della bambina sulla base delle dichiarazioni della sola madre era stato “legittimo sia perché non è consentita al medesimo una indagine sulla rilevanza probatoria della documentazione relativa alla procreazione medicalmente assistita allegata alla richiesta di formazione dell’atto di nascita (come riprodotta nel presente procedimento dalla ricorrente-reclamante) sia perchè, nel silenzio del legislatore con riferimento allo specifico caso della fecondazione post mortem (di cui si discute), trovano applicazione le regole generali del codice civile (artt. 231 e 232 c.c..) che escludono l’operatività della presunzione oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo (situazione verificatasi nel caso in esame in cui G.A. è deceduto il 29.9.2015 e la bambina è nata il 14.2.2017) e precludono la iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre…”; quanto dell’aver omesso, la medesima corte, di verificare, alla stregua della documentazione sottoposta anche al suo esame, la possibilità di rettificare un atto dello stato civile non corretto, così da renderlo corrispondente alla situazione reale prodotta dalla medesima previsione legale alla stregua della quale l’atto stesso doveva essere formato.
7.11.1. Posto, infatti, che, come si è già chiarito nei p. 5.3.2. e 5.3.3., il giudice investito della dedotta illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita – il cui procedimento si configura non come giudizio di costituzione diretta di uno status filiationis bensì di verifica della corrispondenza alla verità di una richiesta attestazione – dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica, potendo, così, a questo limitato fine, attivare tutte le risorse istruttorie fornitegli dalla parte, la corte dorica, proprio perché investita esclusivamente della corrispondenza alla verità del complesso di elementi fattuali documentati dalla parte reclamante, non aveva limitazioni per decidere, accogliendo, o meno, l’istanza di rettifica di quest’ultima a seconda della adeguatezza, o non, della documentazione dalla stessa allegata a dimostrare la coerenza del percorso ivi descritto.
8. Pertanto, respintone il primo motivo, il ricorso proposto dalla R., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minorenne L., va accolto in relazione agli ulteriori secondo, terzo e quarto motivo, con rinvio, anche per il regolamento delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, la quale riesaminerà la controversia alla stregua dei seguenti principi di diritto:
a) “Le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile, se dirette, esclusivamente, a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono al menzionato ufficiale di riceverle e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Diversamente, qualora, tali dichiarazioni siano, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverle ove le ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico”;
b) “Il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile, disciplinato dalD.P.R. 3 novembre 2000, n. 396,art.96, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall’atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel procedimento di formazione di esso. In tale procedimento, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte”;
c) “LaL. 19 febbraio 2004, n. 40,art.8, recante lo status giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo avere prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre”.
10. Le conclusioni fin qui esposte assorbono, evidentemente, ogni altra considerazione in ordine alle questioni di costituzionalità prospettate dalla ricorrente.
11. Va, disposta, infine, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accogliendone il secondo, il terzo ed il quarto. Cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione, per il relativo nuovo esame alla stregua dei principi tutti dettati in motivazione, e per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2019

Sono dovute dal padre le somme per attività ricreative sostenute dalla madre nell’interesse del figlio anche se non concordate ma solo a lui comunicate.

Tribunale di Verona, sentenza del 4 giugno 2019 n.1309
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di VERONA
Prima sezione Civile
II Tribunale di Verona, prima sezione civile, in composizione monocratica, in persona del Giudice Unico,
dott.sa Lara Ghermandi,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo iscritta al n. r.g. 9194/2016
promossa da:
XY (C.F. ),
rappresentato e difeso dagli avv.ti M.B. del Foro di Udine e G. F. del Foro di Verona, giusta procura a margine
dell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo ed elettivamente domiciliato presso lo studio della
seconda in Verona.
ATTORE OPPONENTE
CONTRO
XX (C.F. ),
rappresentata e difesa dagli avv.ti B.M. L. e A.C. come da mandato agli atti del fascicolo telematico ed
elettivamente domiciliata presso il loro studio in Verona.
CONVENUTA OPPOSTA
CONCLUSIONI:
Il Procuratore di parte opponente chiede e conclude:
NEL MERITO: ogni diversa domanda e/o eccezione rigettate, per le causali esposte in narrativa dell’atto di
citazione in opposizione a decreto ingiuntivo
a) accertarsi e dichiararsi l’avvenuto pagamento di € 2.913,00, di cui € 2.314,60 in data 05.09.16 ed €
598,40 in data 22.09.16;
b) accertarsi e dichiararsi la mancata condivisione tra i genitori della scelta di far frequentare la scuola
privata e conseguentemente dichiararsi l’inammissibilità della domanda svolta dalla signora XX e
diretta ad ottenere il pagamento di € 7.813,00, pari al 50% delle rette scolastiche e del costo della
divisa scolastica;
c) accertarsi e dichiararsi, per i motivi esposti in narrativa, l’inammissibilità delle domande relative – alla
spesa di € 2.630,37, pari al 50% dei costi per lo sci; – alla spesa di € 220,00 pari al 50% dei costi per le
lezioni di nuoto presso lo Sporting Club Capri; – alla spesa di € 2.683,48, pari al 50% del costo del
Summer Camp Edimburgo, per violazione del provvedimento della Corte d’Appello di Venezia, da
interpretarsi ai sensi dell’insegnamento della Suprema Corte (Cass 16175/15, Cass. 2127/2016, cass.
4182/16, cass. 12013/16); accertarsi e dichiararsi, per le ragioni indicate in narrativa, l’inammissibilità
della domanda relativa alla spesa di € 430,00, pari al 50% del costo della mensa scolastica in quanto
rientrante nel mantenimento ordinario e non costituente spese straordinaria. Conseguentemente
dichiararsi inammissibili le domande relative alla richiesta di rimborso di € 5.963,85 quindi,
complessivamente per i punti b) e c) € 13.776,85.
d) in ogni caso, per le causali di cui sopra, revocarsi il decreto ingiuntivo n. 2315/2016.
Atteso che, come confessato dalla stessa controparte nella propria comparsa di costituzione d.d 22.12.2016 il signor XYa ha pagato la somma di € 2.913,00 e di € 17.231,78 in esito alla procedura esecutiva presso terzi
promossa dalla signora XX, condannare quest’ultima alla restituzione al signor XY della somma di €
17.231,78 con gli interessi moratori dal 1 dicembre 2016 al saldo.
Spese di lite rifuse.
Il procuratore di parte opposta chiede e conclude:
In via preliminare
Respingersi la richiesta di sospensione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto per le
ragioni esposte in narrativa.
Nel merito, in via principale
1. Accertarsi e dichiararsi il credito di XX nei confronti di XY per mancato rimborso del 50% delle voci
di spesa accessoria per il figlio, nella misura indicata nel decreto ingiuntivo opposto € 16.689,85 oltre
alle spese della procedura monitoria
2. Darsi atto che, successivamente la notifica di atto di precetto, XY ha pagato la minor somma di €
2.913,00 e che la restante parte dovuta è stata erogata dal terzo ad esito della procedura esecutiva n.
1394/2016 RE Tribunale di Udine, unitamente alle spese della procedura monitoria, delle spese per
precetto nonché alle spese della procedura esecutiva liquidate dal Giudice dell’esecuzione.
3. Respingersi tutte le conclusioni contenute nell’atto di citazione avversario siccome infondate in fatto
ed in diritto
4. Per l’effetto degli accertamenti di cui sopra, confermarsi il decreto provvisoriamente esecutivo n.
2315/2016 del 9 giugno 2016, n. 4921/2016 R.G., Repert. N. 3263/2016 del 9 giugno 2016 emesso dal
Tribunale di Verona in data 9 giugno 2016, munito di formula esecutiva in data 13 giugno 2016 e
notificato unitamente ad atto di precetto, in data 19 luglio 2016, con avviso immessa giacenza del 22
luglio 2016, non ritirato entro 10 giorni.
5. Dichiararsi che, conseguentemente, XX nulla dovrà restituire ad XY, in forza del decreto ingiuntivo
opposto.
In ogni caso
Spese e compensi di lite della presente procedura integralmente rifusi, oltre 15% rimb. forf. spese generali
IVA e CPA come per legge.
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
XY ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 2315/2016, emesso dal Tribunale di Verona su
ricorso di XX, con il quale gli era stato ingiunto l’immediato pagamento della somma di euro 16.689,85 a
titolo di rimborso del 50% delle spese straordinarie sostenute dalla ricorrente a favore del figlio minore ZZ.
A fondamento della proposta opposizione forniva parte opponente la propria interpretazione del titolo azionato
dalla XX in sede monitoria – decreto della Corte d’Appello di Venezia, sezione Minori, in data 15.06.2012 –
lamentando di non avere mai prestato il proprio consenso all’iscrizione del figlio minore alla scuola privata,
facendo presente di avere già saldato la quota a proprio carico per la pratica di un’attività sportiva del figlio,
eccependo l’inammissibilità delle altre spese richieste alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte di
Cassazione e contestandone l’eccessiva onerosità rispetto alle proprie condizioni economiche.
Chiedeva quindi, previa sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, che fosse
dichiarata l’inammissibilità delle domande relative alle diverse voci di spesa e che fosse in ogni caso revocato
il decreto ingiuntivo opposto, con condanna della XX alla rifusione delle spese di lite.
Si costituiva in giudizio XX, evidenziando che il decreto della Corte d’Appello di Venezia Sezione Minori, nel
quale trovava titolo fra le parti la ripartizione delle spese straordinarie e accessorie, espressamente escludeva
l’obbligo di previa concertazione, ritenendo pertanto inconferente la giurisprudenza invocata dall’opponente;
contestava quindi sia in fatto che in diritto quanto dedotto da XY nel proprio atto di opposizione, chiedendo la
conferma del decreto ingiuntivo opposto.
Alla prima udienza di comparizione parti il procuratore di parte opponente, avendo raggiunto il suo scopo la
procedura esecutiva presso terzi incardinata dalla XX in forza del decreto provvisoriamente esecutivo,
rinunciava all’istanza di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, chiedendo la restituzione della
somma in caso di accoglimento dell’opposizione.
Alla medesima udienza entrambi i procuratori delle parti chiedevano la fissazione di udienza di precisazione
delle conclusioni.
Rimasti senza esito i successivi tentativi di composizione stragiudiziale della vertenza, la causa viene ora in
decisione sulle conclusioni di cui in epigrafe.
Risulta dirimente osservare come, nella specie, la regolamentazione del riparto fra i genitori qui in causa delle
spese straordinarie ed accessorie da sostenere per il figlio ZZ, i cui conteggi non risultano contestati, trovi
titolo nel decreto della Corte d’Appello di Venezia, Sezione Minori, in data 15 giugno 2012; decreto che, in
parziale riforma di quello precedentemente pronunciato dal Tribunale per i Minorenni di Venezia in data
30.12.2011, così testualmente dispone: “(…) va modificata, altresì, la previsione che le spese straordinarie,
mediche e scolastiche, per il figlio che il resistente è tenuto a rimborsare per la metà debbano essere
concordate, trattandosi di disposizione che facilmente può prestarsi ad eludere detto obbligo di contribuzione,
e tra tali spese vanno comprese anche quelle sportive e ricreative (tassa di iscrizione, corredo e materiale per
tale attività, gite scolastiche), che eccedono anch’esse le normali spese di mantenimento sostenute per il
minore;
queste spese andranno rimborsate secondo le modalità precisate nel dispositivo; (…).
Il titolo giudiziale invocato dalla XX a fondamento delle pretese azionate con il decreto ingiuntivo opposto
esclude dunque testualmente la necessità del previo accordo paterno al sostenimento delle spese accessorie
chieste in sede monitoria, trattandosi di spese mediche, scolastiche, sportive e ricreative che indubbiamente
rientrano fra quelle contemplate dal predetto decreto della Corte d’Appello Sezione Minori. Dalla lettura del
decreto emerge invero chiaramente come l’obbligo di rimborso paterno debba intendersi riferito alle spese
mediche, scolastiche, sportive e ricreative da sostenere per il figlio nel loro complesso, ivi compresi tassa di
iscrizione, corredo e materiale per tale attività, gite scolastiche.
Stante il tenore del titolo – che non risulta essere stato oggetto di ricorso per Cassazione, né di successiva
modifica, sicché non può essere qui messo in discussione – non può quindi trovare applicazione nella
fattispecie la giurispudenza della Suprema Corte di Cassazione invocata dall’opponente.
Parimenti irrilevante risulta poi il richiamo al Protocollo Famiglia in uso presso il Tribunale di Verona,
peraltro nemmeno adottato all’epoca della pronuncia del decreto della Corte d’Appello Sezione Minori
invocato dall’opposta.
Deve in ogni caso evidenziarsi che le spese per cui la XX ha chiesto il contributo paterno risultano tutte
sostenute nell’interesse del figlio minore.
Quanto alle spese relative ai costi della scuola privata – relativamente ai quali parte opposta ha depositato
fatture con timbro di avvenuto pagamento – è incontestato in atti che XY già precedentemente frequentasse il
medesimo istituto. Può dunque indubbiamente ravvisarsi l’interesse del minore alla continuità scolastica e alla
conservazione dei rapporti amicali e del contesto relazionale ivi sviluppato, in merito al quale
l’opponente non ha del resto formulato alcun rilievo specifico.
Si osservi comunque che dalla corrispondenza mail prodotta in atti (v: doc. 6 opp.te) risulta che la XX
sottopose ripetutamente all’XY la questione dell’iscrizione scolastica alle scuole medie (v: mail in data 23
aprile 2012, 22 giugno 2012, 10 luglio 2012, 27 settembre 2012, 7 ottobre 2012, 9 ottobre 2012, 8 febbraio
2013, 17 febbraio 2013), comunicazioni alle quali l’opponente risulta avere dapprima risposto di ritenere
prematura la questione e di preferire la scuola pubblica come per gli altri figli (v: mail in data 23 aprile 2012
doc. 8 opp.te), palesando poi la propria contestazione a tutte le scelte materne (v: mail 28.10.2012, doc. 9).
Non risulta tuttavia che l’opponente abbia mai avanzato proposte alternative, né motivato la posizione assunta
con riferimento allo specifico interesse del figlio minore.
Deve dunque dirsi ammissibile la richiesta della XX di concorso paterno alle spese scolastiche sostenute per la
scuola privata del figlio minore, ivi compreso il costo delle divise e della mensa. Quanto a quest’ultima voce
di spesa, deve invero considerarsi che trattasi di esborso che, pur se destinato a soddisfare esigenze alimentari
del figlio, è strettamente correlato alla frequentazione scolastica, viene determinato dalla scuola, non è
modificabile dalla famiglia (che potrebbe al più escludere il minore dalla mensa, isolandolo in tal modo dai
compagni) e, in quanto collegato all’erogazione di un servizio, non può ritenersi sovrapponibile all’ordinaria
spesa di un pasto consumato a domicilio.
Non v’è poi ragione di dubitare della conformità all’interesse del minore delle spese per attività sportive –
anche se praticate in luoghi e periodi di vacanza (come del resto usualmente avviene per lo sci) – spese che
dalla corrispondenza mail prodotta dall’opposta risultano comunque essere state preannunciate all’opponente.
Merita peraltro osservare come risulti incontestato in atti che il minore praticasse tennis a livello agonistico,
sicché ben può ritenersi che fosse per lui necessaria una continuità nella pratica di tale sport anche nei periodi
di vacanza.
Non risulta poi documentalmente supportata l’allegazione dell’opponente secondo la quale dette attività
avrebbero avuto costi esorbitanti rispetto alla media, a nulla di per sé rilevando il luogo di vacanza prescelto.
Di evidente interesse e utilità formativa per il minore risulta poi il costo del soggiorno studio di tre settimane
ad Edimbugo, rispetto al quale non consta che l’opponente abbia avanzato proposte alternative.
L’XY non ha poi provato – e sarebbe stato suo onere farlo – l’insostenibilità economica delle spese di cui la
XX ha chiesto il rimborso pro quota.
Si deve infatti osservare che XY, che risulta incontestatamente svolgere attività imprenditoriale ed essere
titolare di partecipazioni societarie (v: doc. 17 opp.ta), ha dichiarato, per l’anno d’imposta 2012, un reddito
complessivo di €60.535,00 (v: P.F. 2013 – doc. 3 opp.te ), per l’anno d’imposta 2013, un reddito complessivo
di €93.437,00 (v: P.F. 2014 – doc. 2 opp.te) e per l’anno d’imposta 2014, un reddito complessivo di €96.725,00
(v: P.F. 2015 – doc. 1 opp.te), sicché si registra un significativo incremento reddituale rispetto all’anno di
pronuncia del decreto della Corte d’Appello di Venezia, quando l’opponente già era chiamato al mantenimento
della moglie e della figlia PP (v: doc. 4, opp.te, da cui risulta che il contributo al mantenimento della figlia e
della moglie venne concordato dall’opponente con ricorso per separazione consensuale depositato nel 2010,
quando egli già era gravato di un esborso mensile di €2.450,00 per il figlio ZZ, importo al tempo comprensivo
delle spese scolastiche, parascolastiche e ludiche).
Va poi evidenziato che XY risulta proprietario di un consistente patrimonio immobiliare (dalla dichiarazione
dei redditi PF 2015 – v: doc. 1 opp.te – risultano 16 cespiti in piena proprietà, parte dei quali locati).
Non può infine essere recepita la prospettazione dell’opponente secondo la quale l’importo delle spese
straordinarie da ritenersi rimborsabili dovrebbe essere parametrato all’importo dell’assegno di mantenimento
del figlio, dovendosi al contrario osservare che le spese straordinarie, in quanto non prevedibili a priori e
quelle accessorie, proprio per la loro accessorietà e/o occasionalità, risultano del tutto autonome rispetto
all’importo del mantenimento ordinario e sfuggono ad ogni parametro di preventiva proporzionalità rispetto al
contributo al mantenimento ordinario.
In ragione di quanto esposto non possono dunque trovare accoglimento i motivi di doglianza sui quali si fonda
l’opposizione in esame, che deve, quindi, essere respinta, con integrale conferma del decreto ingiuntivo
opposto.
Le spese di lite, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, istanza ed eccezione disattesa o assorbita,
RIGETTA
l’opposizione e per l’effetto conferma integralmente il decreto ingiuntivo opposto, dando atto
dell’incontestato integrale pagamento della somma ingiunta, a seguito di spontaneo versamento della somma
di €2.913,00 nonché, per il residuo, a seguito di procedura esecutiva presso terzi.
CONDANNA
l’opponente XY alla rifusione delle spese di lite in favore dell’opposta XX, spese che liquida in €3.235,00 per
compenso, oltre rimborso forfetario spese generali al 15%, IVA e CPA come per legge.
Verona, 3 giugno 2019
Il Giudice
Dott.sa Lara Ghermandi

Serve una valutazione complessiva, anche diacronica, della posizione economica degli ex coniugi.

Corte d’Appello di Napoli, 10 gennaio 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Napoli, sezione famiglia e persona, così composta:
DOTT. ALESSANDRO COCCHIARA PRESIDENTE
DOTT. ANTONIO DI MARCO CONSIGLIERE
DOTT. GEREMIA CASABURI CONSIGLIERE REL.
riunito in camera di consiglio, ha pronunziato la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile iscritta al n. 1357/2018 del ruolo generale degli affari
contenziosi, avente ad
OGGETTO: APPELLO avverso sentenza di divorzio
e vertente
TRA
(omissis) n. a Napoli il (omissis)
elettivamente domiciliato in Napoli alla via (omissis) presso gli avv.ti P.
L.A., N. Grassi, che lo rappresentano e difendono
APPELLANTE
E
(omissis) n. a Napoli il (omissis)
elettivamente domiciliata in Napoli alla via (omissis) presso gli avv.ti R.
Sgobbo e F. Krogh che la rappresentano e difendono
APPELLATA
NONCHE’
il P.G. presso la Corte d’Appello di Napoli
INTERVENTORE EX LEGE
CONCLUSIONI
Le parti hanno concluso come in atti
IN FATTO ED IN DIRITTO
§ 1. Il Tribunale di Napoli con sentenza del 6 febbraio 2018, n. 1305/18, ha provveduto sulle
domande accessorie al divorzio tra le parti indicate in epigrafe (già pronunciato con sentenza
n. 7269/14 del 29 aprile – 15 maggio 2014), riconoscendo all’ex moglie l’assegno divorzile di
euro 1300,00 mensili.
Il Tribunale, richiama sì i criteri enunciati da Cass. 10 maggio 2017, n. 11504, ma afferma che
il giudice deve comunque tener conto dei bisogni concreti del coniuge richiedente, «a partire
dalla dignità dell’alloggio, vagamente e indirettamente riconducibili alla passata condivisione
con il convenuto di abitudini di vita sontuosa».
Nella specie, continua il Tribunale, operano considerazioni di equità, che rendono non decisive
le circostanze, pur emerse, della titolarità, da parte dell’ex moglie, di una pensione di
insegnante, il cui importo è però inferiore agli euro 1100,00 mensili del canone di locazione
della casa da lei abitata, «della possibilità di risparmio che le ha assicurato la munificenza
dell’attore, che .. ha menato vanto di avere nel tempo assunto su di sé tutti gli oneri economici
relativi non solo alla convenuta, ma anche alle tre figlie di lei…, dell’appartenenza della
convenuta a famiglia di professionisti, della confessata capacità di lei di essere in credito di
riconoscenza verso le proprie figlie per passate disposizioni liberali nei loro confronti aventi
causa da vendita nell’anno 2003 di immobile in precedenza acquistato per successione
ereditaria».
A ciò si contrappone – tenuto anche conto della durata del matrimonio – l’elevata disponibilità
economica dell’ex marito, peraltro ormai anziano (la cui attività forense è ormai in fase
terminale), e che legittimamente aspira a tutelare i suoi tre figli, «a preferenza di chi, per
effetto del divorzio, è qualificabile persona oramai estranea»; resta però fermo che egli ha
esercitato la professione di avvocato ad altissimo livello, sicché «il capitale di cui egli ha in atto
la disponibilità è di consistenza tale da consentirgli di vivere una vecchiaia particolarmente
comoda».
Conclude la sentenza: «i segni di distinzione della convenuta nell’ambiente sociale impressi dal
diffuso benessere dell’epoca matrimoniale devono reggere all’urto con lo scioglimento del
vincolo matrimoniale, nella parte in cui possono impedire avvilente mortificazione alla
persona.. Se anche è vero che riduttivamente la convenuta ostenta di fronte ai giudici
condizione miserevole di insegnante in pensione, è però anche vero che la stessa, dalla perdita
del legame con il convenuto patisce pesante turbamento nella posizione socio-economica, e
questo turbamento, proprio perché è del tipo idoneo a procurare avvilimento della persona, va
contenuto con quanto è strettamente necessario per alleviarlo. Non basta che la convenuta
non sia del tutto priva del necessario per vivere, perché il rilevante divario degli elementi di cui
si compone il patrimonio suo e quello dell’attore è sufficiente a rendere il soccorso nei termini
minimi in cui è necessario a tutelare la dignità di colei che a suo tempo fu riconosciuta una
propria pari. Lo scioglimento del vincolo.. non impedisce di ravvisare nella specie
disuguaglianza di entità tale da introdurre il rimedio equitativo».
Da qui – nella prospettiva di un «intervento riequilibratore» – il riconoscimento dell’assegno
nella misura sopra riportata.
Da qui però anche l’appello dell’ex marito, condannato oltretutto alle spese del giudizio, il quale
chiedeva, in riforma della sentenza in oggetto, rigettarsi la domanda di assegno divorzile o, in
subordine, ridursi l’importo dell’assegno a non oltre euro 400,00 mensili.
L’appello è incentrato sulla pretesa violazione, da parte del Tribunale, dei criteri per la
determinazione dell’assegno divorzile individuati da cass. 11504/17 cit., definito “epocale
mutamento di interpretazione giurisprudenziale”; nella specie l’appellata sarebbe appunto
economicamente autosufficiente.
Si è costituita l’ex moglie, che ha chiesto il rigetto dell’appello, reiterando in subordine le
richieste istruttorie (prova per testi, indagini di PT) non ammesse in primo grado.
La Corte, all’udienza del 6 giugno 2018, su richiesta delle parti, ha differito la trattazione della
causa a quella del 3 ottobre 2018, tanto perché non era stata ancora depositata la pronuncia
delle Sezioni Unite della Cassazione relativa ai criteri di determinazione dell’assegno divorzile.
Il riferimento è, evidentemente, a Cass. 11 luglio 2018, n. 18287.
Le parti hanno depositato memorie integrative che tengono conto di tale fondamentale arresto.
La Corte, pertanto, all’esito della richiamata udienza del 3 ottobre 2018, si è riservata la
decisione.
§ 2. La corretta definizione della controversia richiede una premessa in diritto, pur sintetica
( ex art. 16- bis , comma 9- octies , d.l. n. 179/2012, conv. in l. 221/2012, nonché ex art. 3 Cod.
proc. amm.), sui criteri di determinazione dell’assegno divorzile, di cui all’art. 5, 6° comma, l.
div. n. 898/1970 (nel testo novellato dalla l. 74/87).
D’altronde è ormai fin troppo noto, in ambito forense come in quello accademico, che
l’interpretazione di tale disposizione data dalla giurisprudenza di legittimità, dopo circa un
trentennio, è stata “rivoluzionata” da Cass. 11504/17, seguita da altre pronunce della S.C. ma
anche dei giudici di merito.
A sua volta però tale nuovo orientamento – incentrato sul principio di autoresponsabilità degli
ex coniugi, e sul riconoscimento dell’assegno solo al richiedente non autosufficiente
economicamente (prescindendo del tutto dal tenore di vita tenuto nel corso della vita
matrimoniale) – è stato superato, può ragionevolmente affermarsi in via definitiva, da Cass.
SSUU 18287/18 (sicché l’ancora recente revirement del 2017 è stato molto meno epocale di
quanto confidato dall’appellante).
La giurisprudenza di merito ha infatti già prestato ampia decisione a tale autorevolissimo
arresto; possono richiamarsi, tra le pronunce più complete in argomento, Trib. Roma 11
ottobre 2018 e Trib. Civitavecchia 14 settembre 2018, Foro it., 2018, I, 3724, nonché App.
Palermo 26 novembre 2018 e Trib. Pavia 17 luglio 2018, id . fasc. 1/2019 (infra saranno
richiamati ulteriori provvedimenti, anche inediti).
Questa Corte presta a sua volta piena e convinta adesione alla statuizione delle SSUU, di cui –
del resto – aveva già ampiamente anticipato gli snodi argomentativi e i criteri adottati, in
evidente contrasto con Cass. 11504/17 cit., cfr. App. Napoli 22 febbraio 2018, id., 2018, I,
1386 (cui questa Corte si è adeguata con pronunce successive, così superando una iniziale e
solo parziale adesione ai canoni di cui alla pronuncia della S.C. del 2017).
Cass. 18287/18 è certo una pronuncia complessa, “di principio”, come si addice alle SSUU che
– abbandonando (felicemente) l’impostazione ideologicamente individualista (quanto
agiuridica), fatta propria dalla pronuncia del 2017 – ha vigorosamente riaffermato, anche nella
fase successiva allo scioglimento del vincolo, i principi di solidarietà fondati sui canoni
costituzionali offerti dagli artt. 2 e 29 Cost.; si è così realizzato – come osservato in dottrina –
un giusto equilibrio tra libertà e responsabilità, ovvero tra autodeterminazione e solidarietà
postconiugale; d’altra parte l’assegno divorzile costituisce il solo istituto cui affidato, nostro
ordinamento, dal punto di vista economico, il passaggio, per i coniugi, dalla vita comune a
quella definitivamente separata.
Il contenuto decisorio può essere sintetizzato nei termini che seguono:
«Posto che l’assegno divorzile svolge una funzione non solo assistenziale, ma in pari misura
anche perequativa e compensativa, continuando ad operare i principi di eguaglianza e di
solidarietà di cui agli art. 2 e 29 cost., e che il diritto al riguardo del richiedente va accertato
unitariamente, senza una rigida contrapposizione tra la fase attributiva (an debeatur) e quella
determinativa (quantum debeatur), il giudice: a) procede, anche a mezzo dell’esercizio dei
poteri ufficiosi, alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti; b)
qualora ne risulti l’inadeguatezza dei mezzi del richiedente, o comunque l’impossibilità di
procurarseli per ragioni obiettive, deve accertarne rigorosamente le cause, alla stregua dei
parametri indicati dall’art. 5, 6° comma, prima parte, l. 898/70, e in particolare se quella
sperequazione sia o meno la conseguenza del contributo fornito dal richiedente medesimo alla
conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due,
con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all’età dello stesso
e alla durata del matrimonio; c) quantifica l’assegno senza rapportarlo né al pregresso tenore
di vita familiare, né al parametro della autosufficienza economica, ma in misura tale da
garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato»
(massima non ufficiale)
Questa Corte reputa che, alla stregua di tale pronuncia, e sviluppandone coerentemente gli
snodi decisionali centrali, costituisca ormai diritto vivente:
a) – l’abbandono della concezione bifasica del procedimento di determinazione dell’assegno
divorzile, fondata sulla distinzione tra criteri attributivi e criteri determinativi
b) l’abbandono di ogni automatismo nella determinazione dell’assegno, e quindi il superamento
sia del criterio dell’autosufficienza economica (di cui alla pronuncia del 2017) sia di quello della
conservazione (pur se solo tendenziale) del pregresso tenore di vita (di cui alla giurisprudenza
fino al 2017);
– il recupero della funzione composita – assistenziale e perequativa – compensativa –
dell’assegno, con superamento quindi della concezione fondata sulla funzione solo assistenziale
dell’assegno medesimo (comune a tutta la giurisprudenza precedente); l’ottica perequativa –
compensativa, beninteso, è quella prevalente, in quanto in linea con il principio costituzionale
di pari dignità tra i coniugi:
– l’equiordinazione, ma solo tendenziale e in astratto, di tutti i criteri previsti dall’art. 5, 6°
comma l. div., senza distinzione tra an e quantum del diritto all’assegno; beninteso, però, in
concreto, con riferimento alla specifica fattispecie scrutinata, i criteri in oggetto non devono
avere sempre e comunque la stessa importanza; infatti il giudice ben potrebbe riconoscere
prevalenza ad uno o ad alcuni di essi rispetto agli altri, appunto tenendo conto delle peculiarità
della vicenda sottoposta alla sua cognizione; la richiamata prevalenza della funzione
perequativa – compensativa, del resto, si risolve nella prevalenza della c.d. causa concreta,
anche con riferimento al giudizio sul diritto all’assegno;
– la particolare rilevanza del fattore “tempo”, inteso come durata della vita matrimoniale ma
anche (evidentemente in relazione all’età) come “tempo” che gli ex coniugi hanno davanti a sé,
una volta finito il matrimonio: è evidente che se il richiedente è ancora giovane ha, appunto
sotto il profilo temporale, una maggiore possibilità di realizzazione professionale autonoma
(sicché l’esigenza di un assegno divorzile si affievolisce); se invece l’età è avanzata, e il tempo
che resta è, verosimilmente, ridotto, le conclusioni non possono essere che diverse;
– la concretizzazione del parametro normativo dell’ “adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi”, da
contestualizzare con riferimento alla concreta vicenda coniugale; si tratta di parametro di
grandissimo peso, in quanto, qualora i mezzi del richiedente non siano inadeguati, vale a dire
qualora non vi sia una significativa sperequazione tra la posizione economica degli ex coniugi,
l’assegno va tout court negato; in altri termini, fermo il carattere unitario del giudizio, l’esame
del giudice deve pur sempre prendere le mosse dall’esistenza della disparità attuale tra i redditi
e i patrimoni degli ex coniugi e proseguire nella direzione della compensazione e della
perequazione delle condizioni economiche;
– la necessità conseguente di un accertamento rigoroso del nesso di causalità tra scelte
endofamiliari e situazione dell’avente diritto al momento dello scioglimento del vincolo
coniugale, nonché di una prognosi futura che tenga conto delle condizioni del richiedente
l’assegno (come detto l’età, ma anche la salute, ecc.) e della durata del matrimonio (fattore,
quest’ultimo, di grandissimo rilievo). Si tratta evidentemente di fattore di rilevanza decisiva;
Beninteso, non pochi profili, specie “attuativi”, restano in ombra, sicché vi è ampio spazio (e
anzi necessità) per ulteriori interventi della giurisprudenza, in primo luogo di legittimità.
§ 3. Questa Corte, tenendo ovviamente presenti le peculiarità del caso concreto, e dei motivi
di appello oltre che delle difese della appellata, reputa allora necessario sviluppare e mettere a
fuoco taluni ulteriori profili che discendono della pronuncia delle SSUU.
Tanto, pertanto, senza alcuna pretesa di organicità e completezza.
§ 3. Il primo profilo da approfondire – quello forse più innovativo della pronuncia delle SSUU –
attiene alla necessità del rigoroso accertamento del nesso causale tra l’accertata sperequazione
tra i mezzi economici di cui ciascuna parte disponga e il «contributo fornito dal richiedente
medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di
ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione
all’età dello stesso e alla durata del matrimonio» (cfr. sub b) la massima sopra riportata).
Infatti «l’assegno divorzile non è diretto ad assicurare al coniuge economicamente più debole
l’agiatezza goduta nel corso della vita matrimoniale, ma a compensare l’investimento compiuto
nel progetto matrimoniale medesimo, così almeno tendenzialmente perequandosi i disagi
economici discendenti dal divorzio», così icasticamente Trib. Civitavecchia 14 settembre 2018
cit.
Tale accertamento, come detto rigoroso, costituisce una precisa ricaduta di quella funzione
perequativa – compensativa dell’assegno di cui si è già segnalata la centralità, nella
prospettiva dell’intervento delle SSUU: per dirla con la migliore dottrina, l’assegno – in tale
prospettiva – va riconosciuto alla parte che non dispone di mezzi adeguati in conseguenza alle
comuni determinazioni assunte nella condizione della vita familiare, e che pertanto va
parametrato in funzione delle caratteristiche e della distribuzione dei ruoli endofamiliari, in
proporzione alla durata, all’intensità e alla rilevanza del contributo fornito dal richiedente
medesimo.
Si tratta, non a caso, di uno dei profili più e meglio approfonditi dalla giurisprudenza di merito
successiva all’intervento delle SSUU.
L’esistenza e l’entità, qualitativa e quantitativa, di tali contribuzioni, se si preferisce di tali
sacrifici, può incidere in maniera significativa, se non decisiva, non solo sull’importo
dell’assegno, ma tout court sul suo stesso riconoscimento (o diniego).
Tanto a meno che non si voglia attribuire, con parte della giurisprudenza di merito (ma vi sono
anche riscontri dottrinali, che muovono proprio dalla pronuncia delle SSUU) autonoma
rilevanza alla sola funzione assistenziale, qualora non vi sia in concreto spazio per quella
perequativa – compensativa.
In tal caso però l’assegno potrà essere riconosciuto all’ex coniuge, che si trovi in condizioni di
marcato dislivello reddituale/patrimoniale rispetto all’altro, che non disponga, obiettivamente,
di risorse tale da consentirgli l’autosufficienza economica, da intendersi come esistenza libera e
dignitosa (la valutazione dell’autosufficienza, in tal caso, dovrebbe comunque non essere
ancorata a criteri rigidi e predefiniti, bensì, al di là di ogni automatismo, ad indici variabili e
relativi, collegati alle situazioni concrete, dovendosi in particolare valutare la posizione del
coniuge richiedente, quanto alle sue condizioni di vita, anche pregresse, alla sua età, ai suoi
progetti e alle sue condizioni di salute).
§ 4. Si pongono, evidentemente, rilevanti questioni probatorie, anche con riferimento al riparto
del relativo onere.
Già la dottrina ha chiarito che la pronuncia delle SSUU ha certo esaltato i poteri inquisitori del
giudice (ampiamente fondati sull’art. 9 l. div.); tuttavia proprio l’esigenza di un rigoroso
accertamento del nesso causale tra il divario economico tra le parti, accertato o allegato, e le
scelte operate dalla famiglia, e il sacrificio delle aspettative professionali o reddituali, tenuto
conto della durata del matrimonio, rende centrale il tema dell’onere della prova; quelli
richiamati sono dati e parametri certo non surrogabili da un impulso inquisitorio, che non
potranno che essere dimostrati dalla parte che ha interesse ad ottenere l’assegno.
In concreto vi è però anche spazio per le presunzioni e per la c.d. non contestazione.
Di particolare rilevanza, per le intersezioni tra i profili sostanziali e quelli processuali appena
richiamati (ma anche con riferimento al parametro delle ragioni della decisione), è Trib. Roma
7
11 ottobre 2018 cit.: «L’assegno divorzile, che va determinato alla stregua dei parametri
indicati da Cass. SSUU 18287/2018, va attribuito al coniuge economicamente più debole, nella
specie la moglie, dovendosi presumere, in ragione della riscontrata disparità reddituale e
patrimoniale – benché il marito si sia ampiamente sottratto all’obbligo di esibire la
documentazione relativa – , che ella, nel corso della vita matrimoniale durata circa quattordici
anni, abbia contribuito alla realizzazione professionale dell’uomo, cui era stata anche
addebitata la separazione».
Cfr anche Trib. Civitavecchia 14 settembre 2018 cit., che ha confermato, anche alla stregua dei
“nuovi” criteri l’assegno divorzile già disposto in favore della moglie, tenuto conto che questa
«in età ormai avanzata, si è dedicata alla cura della famiglia e delle figlie, ormai adulte, nel
corso della convivenza ultratrentennale, sacrificando le proprie prospettive professionali, sicché
attualmente ella dispone di un modesto reddito, come insegnante, e di un ridotto patrimonio
immobiliare, mentre il marito ha potuto affermarsi nel mondo del lavoro, ed è attualmente un
medico chirurgo dalla elevata redditività».
La giurisprudenza del tutto condivisibilmente, ha invece negato l’assegno divorzile (anche a
fronte di matrimoni di durata considerevole), allorché il coniuge richiedente non ha fornito
apporti significativi alla conduzione della vita familiare e in genere al benessere familiare.
Cfr. così App. Palermo 26 novembre 2018 che, ai sensi dell’art. 9 l. div., e applicando i criteri
di Cass. 18287/2018, ha revocato l’assegno già riconosciuto all’ex moglie, tra l’altro e
soprattutto tenendo conto «che ella (certo anche in ragione della brevissima durata del
matrimonio, sciolto per inconsumazione) non aveva apportato alcun contributo
all’implementazione del patrimonio familiare e del marito, né aveva sacrificato aspettative
professionali e reddituali»
Di rilievo anche Trib. Torino sentenza 9 novembre 2018, n. r.g. 7169/2016; Pres. CASTELLANI,
Est. DE MAGISTRIS, M.G. c. C.S., inedita che ha sì riconosciuto alla moglie un assegno
divorzile, ma di importo ridotto (tenendo conto della non breve durata del matrimonio, è della
rilevante sperequazione dei mezzi tra le parti), in funzione solo assistenziale (la moglie è ormai
anziana e priva di reddito); di contro il Tribunale ha ritenuto non operante la funzione
perequativa-compensativa, in quanto il contributo dato dalla moglie «nella formazione del
patrimonio familiare è stato trascurabile .. durante il matrimonio il mantenimento della
famiglia, che conduceva una vita assai agiata, gravava interamente sulle finanze del sig. M. La
sig.ra C.. ha ripetutamente sottolineato che il benessere familiare era da ricondurre alla
ricchezza della famiglia M.; ha altresì riconosciuto che il proprio patrimonio è conseguenza
delle intestazioni, o cointestazioni, di immobili dovute ad atti di liberalità del sig. M. il quale
aveva acconsentito alla intestazione alla moglie di immobili successivamente venduti dopo la
separazione».
In termini cfr. Trib. Bergamo, sentenza 13 settembre 2018, n.r.g. 7147/2015; Pres. CARLI,
Est. MARRAPODI; A.R. c. G.A.R., inedita, che ha negato l’assegno divorzile all’ex moglie (di per
sé benestante), pur se il marito dispone di una posizione economica ben più favorevole, in
quanto la donna neppure aveva dedotto di «aver contribuito con il proprio lavoro, anche
casalingo, alla formazione del patrimonio mobiliare ed immobiliare dell’ex marito; la mera
doglianza di disporre di una “ridotta capacità di autonomia patrimoniale” in raffronto a quella
dell’ex coniuge, e la richiesta di un assegno finalizzata esclusivamente a garantire alla
convenuta un introito pari a quello dell’ex marito ora che è definitivamente cessato il vincolo
coniugale, esorbita la ratio dell’assegno divorzile.. Se è vero che l’assegno divorzile non riveste
soltanto una funzione strettamente assistenziale, è anche vero che l’assegno svolge una
funzione equilibratrice, perequativa e compensativa solo se, e quando, la disparità economicopatrimoniale
dei coniugi trova la propria causa nelle “comuni determinazioni assunte dalle parti
nella conduzione della vita familiare” ovvero nel ruolo e nel contributo fornito dal coniuge
economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e personale dell’altro
coniuge… L’assenza di specifiche allegazioni della parte sul punto induce il Collegio ad
escludere che il chiesto assegno divorzile possa assumere, nella fattispecie, una funzione
compensativa; … non sono emersi elementi tali da far ritenere che parte attrice o parte
convenuta abbiano subito un sacrificio personale nell’arco della vita matrimoniale, dipendente
da scelte comunemente assunte.. diversamente argomentando, l’attribuzione di un assegno
con funzione esclusivamente correttiva e riequilibratrice della situazione economica degli ex
coniugi condurrebbe verso l’attribuzione di un vantaggio “indebito” in favore del richiedente
l’assegno, ovvero di un vantaggio superiore rispetto alle sue concrete esigenze e rispetto al
sacrificio patito in dipendenza del ruolo assunto all’intero della famiglia. Il riconoscimento
dell’assegno divorzile in siffatte ipotesi condurrebbe verso la creazione di vere e proprie
“rendite di posizione” disancorate da una reale esigenze assistenziale ovvero dal
riconoscimento del contributo fornito dall’ex coniuge nella formazione del patrimonio comune o
personale dell’altro, così frustrando la ratio dell’istituto giuridico. In definitiva, ogni qual volta
la disparità reddituale e patrimoniale degli ex coniugi deriva da cause “esterne” alla famiglia,
ovvero da cause non dipendenti e correlate a scelte endofamiliari, non vi è spazio per il
riconoscimento di un assegno divorzile con funzione esclusivamente riequilibratrice»
§ 4 b. Il profilo qui in esame, quello delle contribuzioni e del nesso causale nella prospettiva
sopra richiamata, involge anche le questioni (forse lasciate in ombra dalle SSUU) della
rilevanza sia delle contribuzioni effettuate, nel corso della vita matrimoniale, dal coniuge cui è
poi chiesto l’assegno in favore dell’altro (futuro richiedente), sia delle contribuzioni date e
ricevute con la cessazione stessa della unione coniugale.
E’ evidente infatti che la funzione perequativa-compensativa potrà ritenersi già assolta, in tutto
o in parte (con ovvie conseguenze sulla determinazione del quantum ma anche dell’an
dell’assegno divorzile) qualora, nel corso della vita matrimoniale, il coniuge economicamente
più forte abbia già provveduto a “compensare” l’altro dei sacrifici subiti e delle attività svolte
nell’interesse della famiglia; tale “compensazione” che ha ovviamente anche una funzione
perequativa, può essere espletate nelle forme più varie, ma – di norma – assumono grande
rilevanza le elargizioni in danaro, le donazioni, lo stesso contributo economico dato in generale
al benessere della famiglia (nell’ambito, beninteso, del reciproco dovere di collaborazione
anche materiale, ex art. 143 c.c.).
Pari rilevanza, evidentemente, hanno le contribuzioni funzionali alla cessazione della
convivenza o funzionali a queste ultime, e in generale il riassetto della posizione economica
delle parti successiva già alla separazione; si pensi già alle conseguenze dello scioglimento
della eventuale comunione legale tra i coniugi.
Qualora non si tenesse conto – nella determinazione dell’assegno divorzile – di tutte tali
elargizioni, in effetti, vi è il concreto rischio di determinare ingiustificate locupletazioni.
Si pensi, ad esempio, alla vicenda di cui ad App. Milano 16 novembre 2017, id . 2017, I, 3732
(su cui consta si pronuncerà nei prossimi mesi la S.C.); tale pronuncia ha negato alla ex moglie
l’assegno divorzile, già riconosciuto in primo grado per l’importo di un milione e
quattrocentomila euro mensili, ciò in applicazione di Cass. 11504/17.
Infatti vi era sì una sicura sperequazione economica tra le parti – l’ex marito è definito uno
degli uomini più ricchi del mondo, ma la moglie godeva di sicura autosufficienza economica in
quanto la stessa dispone di un cospicuo patrimonio, immobiliare e mobiliare, valutato in
diverse decine di milioni di euro, con conseguente possibilità e capacità di investimento.
E’ agevole osservare – beninteso in astratto, e in base al mero esame della pronuncia – che, a
rigore, all’ex moglie l’assegno divorzile ben potrebbe essere negato anche alla stregua della
pronuncia delle SSUU; infatti è stato proprio il marito a costituire integralmente quel
rilevantissimo patrimonio di cui la donna tuttora dispone (ed è stato anche onerato di un
rilevantissimo assegno di mantenimento nel corso della separazione), sicché ben potrebbe
affermarsi che la funzione perequativa-compensativa (che certo non è senza limiti, anche
temporali) sia stata già (in tutto o in parte) realizzata: né ovviamente potrebbe esservi spazio
per un assegno meramente assistenziale (la donna è sicuramente autosufficiente, quale che sia
la portata che voglia attribuirsi a tale nozione peraltro extranormativa).
La giurisprudenza di merito, successivamente all’arresto delle SSUU, ha tenuto conto del
riequilibrio già intervenuto tra le parti, e più in generale della esigenza di una valutazione
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complessiva, anche diacronica, della posizione economica degli ex coniugi, come del resto
segnalato anche dalla dottrina.
Così Trib. Pavia 17 luglio 2018 ha negato l’assegno divorzile all’ex moglie, tra l’altro (cfr anche
infra), in quanto le parti già «in sede di separazione, già avevano proceduto alla divisione del
patrimonio comune con attribuzioni che avevano tenuto conto dell’apporto dato alla moglie al
marito e alla famiglia»
Cfr anche App. Catania, sentenza 20 settembre 2018, Pres. FRANCOLA, Est. RUSSO, n. r.g.
1448/2017, S.S. c. C.C.O. che ha confermato (nella prospettiva solo assistenziale cui si è fatto
cenno) l’assegno divorzile alla moglie, negando rilevanza alla funzione perequativacompensativa
sul presupposto che la ricchezza familiare era già stata divisa tra i coniugi
all’epoca della separazione (la moglie aveva prelevato la metà dei risparmi familiari (circa
140.000.000 di lire) ed ha ricevuto uno dei due appartamenti di cui si componeva lo stabile di
proprietà comune); ne segue che la moglie «ha chiuso la sua esperienza di convivenza
matrimoniale con uno svantaggio, dato dal mancato tempestivo inserimento nel mondo del
lavoro, ma con dei beni patrimoniali congrui. Una volta che il coniuge è stato dotato, al
momento della separazione del conseguente scioglimento della comunione legale, di un
patrimonio che rappresenta la metà della ricchezza familiare, può applicarsi quel principio di
autoresponsabilità, più volte richiamato anche dalla Suprema Corte, in virtù del quale si può e
si deve pretendere che il coniuge faccia un impiego utile dei mezzi che ha a disposizione, al
fine di rendersi indipendente … non può valorizzarsi che la perequazione delle risorse
economiche è già in parte avvenuta con la divisione che le parti hanno fatto dei beni comuni,
ed in particolare degli immobili in comunione legale e del denaro sul conto corrente
cointestato»
L’assegno è stato riconosciuto sul rilievo che il matrimonio è durato circa trenta anni e che la
moglie, ormai quasi settantenne, percepisce solo un modestissimo assegno sociale, mentre il
marito percepisce una congrua pensione IMPS.
§ 5. Cass. 18287/18 dà rilevanza nell’ambito degli accertamenti demandati al giudice, anche al
giudizio prognostico ex ante, che ben può definirsi “contro fattuale” (ma il termine non è nella
sentenza delle SSUU) sulle aspettative lavorative sacrificate dal coniuge richiedente l’assegno
in ragione del matrimonio (il giudizio appunto va condotto “come se” il matrimonio non ci fosse
stato).
Questa Corte condivide, sul punto, Trib. Pavia 17 luglio 2018 cit., secondo cui
«L’assegno divorzile va determinato alla stregua dei parametri indicati da Cass. SSUU
18287/2018, anche alla stregua di un giudizio prognostico “controfattuale”, come se il
matrimonio non ci fosse stato, sulle aspettative sacrificate dal richiedente rispetto alla
situazione che si crea con il divorzio, tanto alla stregua di fatti rientranti nella comune
esperienza e delle presunzioni semplici, tenendo conto, in particolare: a) del tipo di modello
familiare in concreto voluto e posto in atto dalla coppia b) della circostanza che l’assegno
divorzile non può comunque ovviare alle sperequazioni che esistono nel mercato del lavoro,
atteso che, diversamente, si favorirebbero scelte matrimoniali basate sulla convenienza
economica» (massima non ufficiale).
Nella specie tale giudizio non è favorevole alla moglie richiedente l’assegno che, laureata in
scienze politiche, rinunciò a lavorare come giornalista, seguendo il marito nelle diverse città
dove questi si era trasferito per lavoro, conseguendo poi brillantissimi risultati, anche
economici.
Secondo il Tribunale, infatti, che ricorre a dati di comune esperienza, la donna, se anche
avesse lavorato come giornalista, al termine della carriera non si sarebbe trovata in una
situazione patrimoniale migliore di quella reale, attuale (tenuto conto che, al di fuori delle
“grandi firme” i redditi dei giornalisti non sono particolarmente elevati).
§ 6. Infine vi è la questione delle “ragioni della decisione”, uno dei parametri espressamente
previsti dall’art. 5, 6° comma l. div. cit.; nella specie le parti hanno fatto ampiamente
riferimento alle vicende matrimoniali, e alle rispettive “responsabilità”, che hanno poi portato
alla separazione giudiziale, con sentenza di cui si dirà.
Quello delle ragioni della decisione è certo criterio vago, raramente applicato dalla
giurisprudenza, che comunque ne ha dato letture ambigue quanto contrastanti, cfr. 12 febbraio
2013, n. 3398; 17 dicembre 2012, n. 23202; 27 dicembre 2011, n. 28892.
Questa Corte reputa con la migliore dottrina, successiva alla pronuncia delle SSUU, che tale
criterio, a non volerlo ritenere recessivo, con riferimento alla determinazione (quantum e ormai
anche an) dell’assegno divorzile, trovi spazio – incidendo sulla causa petendi – essenzialmente
con riferimento alla fattispecie, normativamente previste, pur se statisticamente poco
frequenti, di divorzio diretto, vale a dire non preceduta da un periodo di separazione legale (l.
div. art. 3, 1° comma, sub 1), nonché 2° comma, sub 2 a), c-g): l’ipotesi più nota è forse il
divorzio per inconsumazione. Non interessa, in questa sede, stabilire l’operatività di quel
parametro in tali fattispecie.
Di contro, per le fattispecie di gran lunga più comuni di divorzio preceduto da un periodo di
separazione legale (l. div., art. 3, 2° comma, sub 2, c.d. divorzio indiretto) le ragioni della
decisione giocano un ruolo sicuramente meno significativo.
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Fermo infatti che non può tenersi conto delle vicende successive alla separazione (rectius,
all’insorgere della intollerabilità della convivenza, che è alla base della separazione, art. 151
c.c.) cfr. App. Napoli 2.11.2012, id ., 2013, I, 2034, le condotte anteriori, tenute nel corso della
vita matrimoniale, possono essere valutate, quali “ragioni della decisione”: a) se, in quanto
integranti violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, siano alla base di una pronuncia di
addebito della separazione, abbiano cioè costituito motivi di addebito b) se tali motivi siano
anche le cause che ostano alla ricostituzione della comunione tra i coniugi, ex art. 1 l. div.,
giustificando, quindi, la pronuncia di divorzio.
L’operatività in concreto di tale criterio nel divorzio indiretto qui non interessa (resta fermo,
beninteso, quale che sia il coniuge cui la separazione sia stata addebitata, che l’assegno possa
essere riconosciuto solo a quello che disponga di redditi inadeguati), cfr infra per il caso di
Di contro questa Corte reputa che il criterio in oggetto non abbia spazio, nel divorzio indiretto,
qualora la domanda di addebito non sia stata formulata o, se proposta, sia stata abbandonata
ed il giudice non abbia pronunciato sulla stessa ovvero, e soprattutto (come nel caso di specie)
sia stata proposta e rigettata.
Infatti, in tali casi, la sentenza – destinata a passare in giudicato – pronuncia la separazione
previo accertamento che la stessa è conseguenza soltanto dell’impossibilità della prosecuzione
della convivenza, senza che tale evento sia stato provocato dalla violazione dei doveri coniugali
da parte di uno o di entrambi i coniugi.
Evidentemente tale assetto non muta nel caso di pregressa separazione consensuale, frutto di
un accordo dei coniugi, che sottende la sicura rinuncia alla volontà di far accertare che
l’impossibilità di proseguire la convivenza coniugale sia conseguenza della violazione di doveri
coniugali da parte di uno o di entrambi i coniugi.
Ne segue l’impossibilità giuridica di far valere quelle condotte come “ragioni della decisione”,
nel giudizio sulla determinazione dell’assegno divorzile.
Ciò è evidente proprio allorché la domanda di addebito (con riferimento alle condotte in
questione) sia stata rigettata, ma il ragionamento non muta – beninteso – in caso di mancata
proposizione della domanda stessa: il giudicato, è appena il caso di ricordarlo, copre il dedotto
e il deducibile (qui non interessa la diversa questione della autonoma proponibilità della
domanda risarcitoria per illecito endofamiliare).
§ 7. E’ appena il caso di segnalare, infine, che nella specie, nonostante il doppio revirement
giurisprudenziale, il diritto di difesa delle parti non è stato violato, né del resto ciò è stato
lamentato: l’appellante e l’appellato, come detto, hanno depositato delle memorie difensive
integrative, che tengono conto dei nuovi insegnamenti giurisprudenziali (ciò è di particolare
rilievo per l’appellante, atteso che l’atto introduttivo era strutturato in funzione di una richiesta
corretta applicazione di Cass. 11504/17, pronuncia a suo dire disattesa dal Tribunale); non vi
sono state – né d’altronde vi sarebbe stato spazio – per ulteriori richieste (ex. di remissione in
termini).
Resta però indubbio – ma è anomalia riferibile proprio al doppio revirement cui si faceva
cenno- che la Corte, giudice di appello, in una certa misura si trova a sostituirsi al giudice di
primo grado, la cui decisione è irreparabilmente superata (né sfugge d’altronde, nella specie,
che il Tribunale non correttamente aveva riconosciuto carattere sostanzialmente equitativo alla
propria statuizione).
La causa, pertanto, può essere decisa: e si tratta di decisione non disagevole, alla stregua di
quanto premesso in diritto.
§ 8. Il matrimonio tra le parti ha avuto, indubbiamente, una lunga durata, oltre 25 anni.
Risulta infatti contratto l’8 aprile 1984, mentre l’ordinanza presidenziale del giudizio di
separazione è del 15- 19 maggio 2009; la separazione è stata poi pronunciata con sentenza
non definitiva (sul solo status) n. 4813/2010 del 9 febbraio – 28 aprile 2010; la sentenza
definitiva sulle questioni accessorie (rigetto delle domande di addebito, e riconoscimento alla
moglie di un assegno di mantenimento, nell’importo di euro 1200,00 mensili) è la n.
1367/2017 del 14 ottobre 2016 – 7 febbraio 2017, passata in giudicato.
La sentenza non definitiva di divorzio (sul solo status) è, come accennato, la n. 7269/14 del 29
aprile – 15 maggio 2014 (si noti però che vi è stata una prima sentenza di inammissibilità, na
n. 6131/2013 del 13 maggio 2013, perché la domanda era stata proposta prima del decorso
del triennio, ratione temporis richiesto dalla legge).
Deve poi riconoscersi – alla stregua dell’amplissimo (anzi eccessivo) materiale probatorio
documentale in atti – che vi è sicuramente una rilevante sperequazione tra la posizione
economica degli ex coniugi: si tratta, come detto, del primo accertamento cui il giudice è
tenuto.
La Corte deve rimarcare che entrambi, certo comprensibilmente, ma (specie il marito) al di là
addirittura di canoni di comune prudenza processuale (tenuto conto delle acquisizioni
processuali) hanno tentato, ma inutilmente, di ridimensionare la propria posizione economica.
Qui di seguito si offrirà una ricostruzione sintetica di quanto risulta provato.
Particolare rilevanza, in particolare, deve riconoscersi all’accertamento della posizione
economica delle parti compiuto dalla ancora recente sentenza definitiva di separazione, n.
1367/17, incontrovertibile perché vi è giudicato; ferma infatti la differenza, ormai abissale, dei
presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento nella separazione (ex art. 156
c.c.) e di quelli per il riconoscimento dell’assegno divorzile, è costante e ancora attuale
insegnamento giurisprudenziale che «l’assetto economico relativo alla separazione può
rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili
elementi di valutazione relativi .. alle condizioni economiche dei coniugi», così ex plurimis
Cass. 15 maggio 2013, n. 11686.
§ 8. Può partirsi dall’appellante, l’ex marito, tenuto al versamento dell’assegno.
Questi – ed è dato che addirittura rientra nel “notorio” di questa Corte, sezione specializzata in
materia di famiglia – è stato sicuramente uno dei più noti e prestigiosi avvocati napoletani di
diritto di famiglia, dalla clientela ampia quanto illustre, tanto che il suo nome appare di
frequente nei repertori giurisprudenziali (cfr. ex plurimis, Cass. 24 dicembre 2013, n. 28655).
Certo, e come rilevato anche dal Tribunale, l’attività professionale dell’appellante è ormai nella
fase conclusiva (pur se l’appellata ha documentato che tuttora controparte patrocina un
numero consistente di cause, anche presso questa Corte; non può poi escludersi lo
svolgimento di attività di consulenza, cfr anche la sentenza di separazione cit.): egli, infatti, n.
nel 1934, è ormai estremamente anziano (egli non è più avvocato rotale)
Quel che però davvero interessa (come pure riconosciuto dal Tribunale) è che l’appellante,
evidentemente grazie ad una tanto intensa e lunga vita professionale, dispone tuttora di una
posizione economica esclusiva e di altissimo livello; la sentenza di separazione cit. rimarca che
egli «ha avuto elevatissima capacità di risparmio e accumulo».
Ne segue che le sue dichiarazioni reddituali (la documentazione esibita è del resto molto
parziale) sono del tutto inattendibili, senza che occorrano indagini di PT, o addirittura l’invocata
Ctu contabile (come correttamente osservato dall’appellata, ancora nei primi anni dello scorso
decennio, allorché era ancora nel pieno dell’attività professionale, l’appellante dichiarava redditi
per circa euro 27.000,00 lordi annui).
Il riferimento è in primo luogo all’eccezionale patrimonio immobiliare dell’appellante, pur se
alcuni di tali cespiti sono intestati ai figli dell’appellante; la sentenza di separazione, al
riguardo, ha però osservato che «i figli non avevano alcuna disponibilità di spesa» (si tratta di
valutazione mai contestata, anche in questa sede: l’appellante pertanto non nega affatto di
aver effettuato tutti gli acquisti immobiliari in oggetto con proprio danaro; neanche è dedotto
se e quale attività abbiano svolto e svolgano i tre figli in questione, al cui mantenimento
tuttora – apprezzabilmente, beninteso – tuttora provvede il padre).
E’ sufficiente il riferimento alla grande abitazione familiare alla via (omissis) con terrazza
panoramica, alla prestigiosissima villa La Fiorada in Capri (indicata, in una pubblicazione
specialistica, come una delle abitazioni più esclusive dell’isola), l’appartamento in Napoli alla
centralissima Riviera di Chiaia (dove l’appellante attualmente vive con il figlio, che ne è il
formale intestatario), la lussuosa villa a Seefeld, in Tirolo (intestata ad una figlia).
E’ inoltre documentato l’acquisto di ulteriori cespiti immobiliari a Napoli, nella pure
centralissima via (omissis) (dove ha anche sede lo studio professionale dell’appellante) ed
ancora a Milano e a Roma.
L’appellata richiama e documenta anche la vendita, per importi assolutamente significativi, di
ulteriori cespiti immobiliari, appartamenti a Napoli, terreni a Salerno.
Non vi è comunque necessità quanto alla posizione dell’appellante, di ulteriori approfondimenti
(ad es. con riferimento agli investimenti e alle disponibilità in danaro); come si dirà infatti,
l’esatta determinazione del suo patrimonio (sicuramente superiore a quello della ex moglie, va
ribadito non ha rilievo dirimente.
§ 8 c. Occorre quindi procedere alla ricostruzione della posizione economica della ex moglie,
l’appellata, che – lo si è accennato (ed è stato rimarcato anche dal Tribunale) – si presenta
come pressoché nullatenente, e ampiamente dipendente dagli aiuti spontanei dei congiunti.
La situazione effettiva – ferma la sperequazione rispetto alla posizione economica dell’ex
marito – è molto diversa.
L’appellante, ormai ultrasettantenne, è insegnante in pensione; dichiara di percepire euro
900,00 mensili, ma la sentenza di separazione fa riferimento ad una pensione di poco più di
1100,00 mensili.
A suo dire, comunque, la pensione che percepisce è inferiore al canone di locazione per
l’appartamento dove abita in Napoli, nella centrale via (omissis), pari ad euro 1000,00 mensili
oltre oneri condominiali.
Si tratta però di circostanza che, se pure fosse vera, nuocerebbe grandemente alla
prospettazione dell’appellata.
E’ infatti del tutto irragionevole, secondo canoni di comune esperienza, che la stessa utilizza
totalmente la pensione (neanche sufficiente) per il solo pagamento del canone di locazione
(per un appartamento, si noti, di sicuro prestigio almeno per la collocazione); è di contro del
tutto verosimile che ella – in realtà – disponga di altri e più cospicui introiti, per tutte le
esigenze della vita quotidiana (trattandosi poi di persona ormai abituata, dopo una lunga vita
matrimoniale, ad un elevato tenore di vita); né poi vi è reale prova dei (fantomatici) prestiti
che le elargirebbero stabilmente i facoltosi quanto generosi congiunti (tenuto poi conto che se
davvero ella potesse far conto su tali stabili emolumenti, per quanto non dovuti, si tratterebbe
circostanza comunque oggetto di valutazione ai fini dell’accertamento della inadeguatezza dei
mezzi, fermo che le decisioni in materia sono allo stato degli atti).
L’appellata ha inoltre venduto, nel 2003, un residence in Roma, alla via (omissis), per euro
172.000,00 (l’appellante assume che il corrispettivo ricevuto fu in realtà di molto superiore, ma
non ne offre alcuna prova), somma utilizzata (a suo dire) per ristrutturare le abitazioni delle
figlie.
Si tratta di circostanza non vicina nel tempo, ma di grande interesse, perché attesta la sicura
disponibilità economica della appellata (che, pur al commendevole fine di aiutare le figlie, non
ha però esitato a privarsi di un importo comunque notevole, il che certo stride con l’immagine
di quasi nullatenente che ella vuole accreditarsi in questa sede).
L’appellata lamenta inoltre che l’ex marito nel 2008, sostanzialmente abusando, a sua
insaputa, di una procura che ella gli aveva rilasciato, ha posto in essere una rinuncia abdicativa
del suo diritto di abitazione su un appartamento in Napoli alla via (omissis); si tratta di vicenda
oggetto, a quanto consta, di contenzioso tra le parti, e su cui certo questa Corte non può
pronunciarsi.
Ella inoltre – si tratta di circostanza ampiamente dibattuta tra le parti nel giudizio di
separazione (ma non riproposta in questa sede) non chiese l’assegno divorzile al primo marito
ma ciò, a suo dire, del previsto e prossimo matrimonio con l’odierno appellante.
E’ di particolare interesse, ad ulteriore conferma delle sicure disponibilità economica
dell’appellante, ben oltre la modesta pensione (anche a voler prescindere dalla capacità
professionale cui fa riferimento l’appellante, secondo cui l’ex moglie, allorché era già in
pensione, ha svolto altre attività retribuiti), quanto accertato dalla sentenza di separazione più
volte richiamata: «i periodici accrediti di somme rilevanti su c.c. della resistente sono
ragionevolmente da ricondurre alle rendite degli investimenti finanziari (e non alla pretesa
restituzione di prestiti)».
Anche su tale accertamento, come accennato, si è formato il giudicato, e d’altronde l’appellata,
anche in questa sede, si guarda bene di mettere in discussione specificamente quanto sopra,
pur se continua a dolersi di vivere grazie ai richiamati aiuti familiari (ben poco compatibili, del
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resto, con gli importi frequentemente “restituiti” da terzi, in genere congiunti, alla appellata, di
importo rilevante, cui appunto allude la sentenza).
Possono condividersi, allora, le deduzioni al riguardo dell’appellante, fondate del resto sulla
documentazione in atti specificamente richiamata; pertanto non solo l’appellata, del tutto
verosimilmente, dispone di c/c ulteriori rispetto a quello dichiarato ma comunque, solo nel
2014, ha incassato (evidentemente a titolo di interessi su investimenti finanziari) oltre euro
20.000,00 e nel 2015 oltre euro 19.000,00.
Può allora concludersi che l’appellata, a sua volta, dispone di una buona posizione economica,
pur se di opaca determinazione nella sua effettiva portata, comunque corrispondente allo
status sociale medio borghese consolidato negli anni, che le garantisce l’autosufficienza
economica, in misura tutt’altro che limitata al mero sostentamento.
§ 9. Quanto sopra accertato avrebbe certo garantito alla appellata il riconoscimento di un
assegno divorzile, alla stregua degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti fino al 2017 (e
incentrati, come detto, sulla tendenziale conservazione del tenore di vita); di contro
quell’assegno avrebbe dovuto esserle negato, alla stregua almeno dei criteri introdotti da Cass.
11504/17, e pur interpretando elasticamente la nozione di autosufficienza: la sentenza di
primo grado, in effetti, ha sicuramente mal applicato quei parametri, solo in apparenza
richiamati, come dedotto in appello, avendo riconosciuto l’assegno divorzile, dichiaratamente
(quanto illegittimamente) solo equitativamente.
Si è però detto che il diritto all’assegno divorzile va ormai accertato, anche in questo grado di
giudizio, alla stregua dei ben diversi e innovativi parametri di cui all’arresto delle SSUU del
2018.
L’appellata reputa – ma alla stregua di una lettura affrettata quanto superficiale di tale
pronuncia – che ora avrebbe diritto all’assegno in oggetto, tenuto conto di fattori
oggettivamente esistenti, quali la fortissima sperequazione economica tra i coniugi, la lunga
durata del matrimonio, la stessa età avanzata della ex moglie.
§ 10 a. La Corte reputa però che debba giungersi a conclusioni opposte.
L’accento va posto, in primo luogo, sulla funzione perequativa – compensativa dell’assegno,
come detto centrale nell’architettura dell’arresto più volte richiamato.
Ebbene nella specie, in concreto, l’assegno non potrebbe svolgere tale funzione sicché, se
riconosciuto, determinerebbe solo una ingiustificata locupletazione per l’ex moglie.
L’appellata, certo, pone l’accento sulla sperequazione patrimoniale tra la posizione sua e quella
di controparte, sperequazione che questa Corte ha già riconosciuto.
Può inoltre ritenersi che i mezzi di cui l’appellata dispone siano inadeguati (e certo tali sono, in
relazione alla posizione del marito; né poi ella – ormai pensionata – può ragionevolmente
colmare quella sperequazione con il frutto del proprio lavoro o con altre fonti di guadagno).
Il punto è però che – ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile – le SSUU richiedono che
il giudice deve accertare rigorosamente le cause di quella inadeguatezza, «alla stregua dei
parametri indicati dall’art. 5, 6° comma, prima parte, l. 898/70, e in particolare se quella
sperequazione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei
due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all’età dello
stesso e alla durata del matrimonio», come sopra già riportato.
L’onere probatorio incombe, come pure detto, sul richiedente l’assegno.
Cfr quanto ante dedotto al riguardo in diritto.
Nella specie non solo tale prova non è stata data, ma – di contro – sussistono incontrovertibili
elementi che consentono di escludere in radice la sussistenza dei presupposti – quali individuati
dalle SSUU – per il riconoscimento dell’assegno divorzile.
Il matrimonio tra le parti, certo, ha avuto lunga durata, lo si è già rimarcato; ma è stato
contratto quanto entrambi erano già avanti negli anni: il marito cinquantenne, la moglie quasi
quarantenne. Entrambi venivano da precedenti relazioni matrimoniali, da cui erano nati –
all’uno e all’altro, dei figli (è appena il caso di ricordare che le parti non hanno figli comuni).
Quel che interessa è che entrambi – nell’intraprendere la nuova vita matrimoniale – già
avevano maturato le proprie scelte professionali, e la loro posizione patrimoniale si era già
formata e consolidata; il marito già era un affermato avvocato, la moglie era, e rimase fino al
pensionamento, un insegnante.
Pertanto, è in primo luogo, non è favorevole all’appellata il giudizio prognostico ex ante,
ampiamente ricostruito nella premessa in diritto: il matrimonio non ha peggiorato, in alcun
modo, le prospettive lavorative e reddituali dell’appellata.
Quest’ultima (cfr comparsa di costituzione, p. 20) lamenta solo che il marito, nel lontano 1986,
la indusse ad abbandonare una non meglio precisata collaborazione con la società “Sport e
cultura” (allorché, si noti, ella era ancora dipendente pubblico), per collaborare presso il suo
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studio (cfr infra); si tratta però solo di vaga e fumosa illazione, senza alcun riscontro concreto
(cfr infra sulla richiesta istruttoria al riguardo).
Né ella, e si tratta di profilo dirimente, ha provato di aver contributo significativamente, in
qualche modo, alla vita della famiglia, nei termini indicati in precedenza in diritto.
Questo in primo luogo con riferimento alla vita familiare; l’appellata deduce, ma non prova, di
aver collaborato per dieci anni (quali?) con il marito, presso il suo studio professionale,
correggendo la forma lessicale degli atti per la Sacra Rota, addirittura anche redigendone le
minute.
Si tratta di circostanza che, se pure provata, non concernerebbe tanto i rapporti familiari
quanto – eventualmente – quelli lavorativi; in ogni caso, comunque, al di là delle contestazioni
dell’appellante, quanto è dedotto è ben poco credibile; il prestigioso studio dell’appellante non
richiedeva certo l’apporto (pur limitato) della moglie del titolare; né va poi trascurato che
l’appellante ha documentato di esercita più come avvocato rotale almeno dal 1992 (cfr il
decreto di sospensione del Vicariato di Roma del 31 marzo 1992 in atti), costituisce poi mera
illazione che egli avrebbe continuato, quasi “al nero” ad interessarsi di cause rotali.
§ 10 b. Vi è di più.
L’appellata non solo non ha contribuito, nei termini che qui interessano, alla vita matrimoniale,
ma ne ha tratto anche sicuro vantaggio; ancora in comparsa di costituzione, p. 18 riconosce
che il marito aveva generosamente contribuito a tutte le sue esigenze e bisogni; l’appellante
anzi – senza che sul punto vi sia contestazione – ricorda di aver provveduto anche alle
esigenze delle figlie della ex moglie, in costanza di vita coniugale.
Ne risulta allora smentita una ulteriore (e ovviamente non provata) affermazione dell’appellata,
cfr pg 19 della comparsa secondo cui ella ha dato un significativo contributo personale ed
economico alla conduzione della vita familiare, «essendosi dedicata .. con assoluta dedizione al
marito e ai figli di quest’ultimo, destinando interamente al ménage familiare tutti i suoi
guadagni lavorativi (tanto che essa oggi è priva di risparmi..)»; in realtà è ben più verosimile
che ella abbia utilizzato tali guadagni per gli investimenti cui si è fatto cenno.
La verità, quale emerge dagli atti di causa, è che – nel corso della lunga vita matrimoniale –
l’appellata ha goduto di un altissimo (e non certo negato, cfr pag. 6 comparsa di costituzione)
tenore di vita grazie alle costanti contribuzioni del marito di cui deve tenersi conto (anche in tal
caso non a suo favore), secondo quanto sopra ricostruito in diritto.
L’appellata inoltre lamenta, in comparsa di costituzione, l’assurda gelosia del marito, le scenate
subite, le «accuse ignobili quanto assolutamente ingiustificate, accompagnate da
atteggiamenti aggressivi ed iracondi, e sottopendola così ad una esasperante tortura
psicologica»; l’appellata ricorda anche che le accuse rivoltele (in particolare quella di adulterio,
addirittura con un domestico) sono state disattese dalla sentenza definitiva di separazione, che
ha rigettato la domanda di addebito nei suoi confronti.
Il riferimento (invero non esplicitato) è del tutto verosimilmente al parametro (come detto
ormai rilevante anche con riferimento all’an dell’assegno) delle ragioni della decisione.
La condotta non corretta del marito, se davvero posta in essere (e certo ve ne è traccia nella
sentenza di separazione cit.) non è comunque rilevante ai fini dell’assegno divorzile, secondo
quanto indicato nei paragrafi iniziali.
Infatti la sentenza di separazione n. 1367/17 non ha rigettato solo la domanda di addebito alla
moglie, ma anche quella riconvenzionale di addebito al marito proposta dall’odierna appellata,
in particolare il Tribunale rileva che i coniugi, allorché il marito andava propalando notizie non
corrette sulla moglie, si erano ormai allontanati, e non condividevano più nulla.
In ogni caso l’assegno non potrebbe essere comunque riconosciuto solo in ragione delle offese
rivolte dal marito alla moglie in quanto, in tal caso, assumerebbe una funzione – che non trova
riscontro nella pronuncia delle SSUU, e soprattutto nel tenore della legge – solo sanzionatoria risarcitoria.
L’assegno no potrebbe essere riconosciuto neppure in funzione solo assistenziale, prescindendo
quindi dalla funzione perequativo – compensativa, nella specie inoperante.
Tale riconoscimento, seppure configurabile in diritto (secondo un discutibile orientamento
giurisprudenziale e dottrinale sopra richiamato) non potrebbe infatti aver luogo nel caso di
specie.
L’appellata, infatti, e come ampiamente detto, dispone di sicura autosufficienza economica, per
quanto deteriore sia la sua posizione rispetto a quella del marito; l’assegno, allora,
assumerebbe allora quel carattere locupletatorio stigmatizzato proprio dalle SSUU.
§ 11. Non vi è poi spazio per l’ammissione dei mezzi istruttori già articolati in primo grado,
disattesi dal primo giudice e richiesti in comparsa dall’appellata.
Al riguardo, infatti, quest’ultima avrebbe dovuto proporre appello incidentale, si tratta
comunque, lo si osserva per completezza, di richiesta del tutto generica: l’appellata neppure ha dedotto di averla reiterata specificamente in sede di precisazione delle conclusioni (in ogni
caso, sempre per completezza, deve ribadirsi la superfluità, e talora l’inammissibilità, di tale
richieste; in particolare, quanto alla memoria ex art. 183, 6° comma c.p.c., 2° termine, del 4
marzo 2015, i capi di prova per testi articolati concernono ampiamente il tenore di vita
condotto dai coniugi in costanza di matrimonio e la posizione economica del marito, di cui si è
ampiamente detto: il tenore di vita è poi ormai irrilevante; del tutto generici poi i capi relativi
alla pretesa e remota collaborazione della donna con una società di Milano, della cui redditività
per l’odierna appellata nulla è detto; i capi articolati nella 3° comparsa sono assorbiti dalla
mancata ammissione della prova richiesta dall’odierno appellante).
§ 12. Pertanto l’appello va accolto, con conseguente revoca, non sussistendone i presupposti
di legge, dell’assegno divorzile in favore della appellata, con decorrenza dalla pubblicazione
della sentenza appellata.
Ricorrono però gravi motivi, tenuto conto della sostanziale novità delle questioni dibattute (in
ordine alle quali, in ristretto arco di tempo, la giurisprudenza ha reiteratamente mutato
orientamento) per l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
La corte, definitivamente pronunciando, accoglie l’appello di (omissis) e, per
l’effetto, revoca l’assegno divorzile in favore di (omissis) con decorrenza dalla
pubblicazione della sentenza di primo grado; compensa le spese del doppio grado di
giudizio.
Così deciso in Napoli, in camera di consiglio, il 3 ottobre 2018

Non si annulla il matrimonio celebrato regolarmente fra le parti anche se solo per finzione televisiva.

Tribunale di Pavia, sent. 4 aprile 2019
Motivi in fatto ed in diritto della decisione
Con ricorso depositato in data 20 gennaio 2019 i sig.ri W. M. e S. S. chiedevano che
venisse pronunciato l’annullamento del loro matrimonio con condanna del Sindaco di
R., quale Ufficiale celebrante, alla refusione delle spese di lite.
Premettevano le parti di avere partecipato, nell’estate del 2016, ai provini di un
programma televisivo denominato “Matrimonio a prima vista 2” che prevedeva che i
partecipanti – tre coppie di estranei- senza essersi in precedenza conosciuti,
contraessero matrimonio valido a tutti gli effetti; deducevano gli attori che, essendo
stati selezionati quali partecipanti, in data 26.10.2016 la sig.ra M. e in data 3.1.2016 il
sig. S. sottoscrivevano un contratto con la società “N.P.” con la quale si impegnavano,
tra le altre cose, ad essere ripresi nelle 24 ore giornaliere della vita quotidiana prima,
durante e dopo il giorno del matrimonio, la cui data sarebbe stata successivamente
indicata dal produttore; deducevano le parti che il programma prevedeva un periodo
di registrazione dal 29.9.2016 al 31.12.2016 e un vincolo contrattuale delle stesse
sino al 30.9.2017 e che, sottoscrivendo il suddetto contratto, gli esponenti si
obbligavano per tutta la durata del programma a non abbandonarlo, pena il
risarcimento del danno economico e di immagine per la produzione, il cui ammontare
non veniva quantificato; deducevano, inoltre, gli attori che in caso di divulgazione di
notizie relative al programma, tramite social network o mezzi di comunicazione
diversi, senza autorizzazione della produzione le stesse avrebbero dovuto pagare una
penale quantificata in Euro 100.000,00; che il contratto prevedeva, inoltre, la
possibilità per i due coniugi, terminato il periodo di registrazione, di procedere ad una
separazione consensuale entro 6 mesi dalla celebrazione del matrimonio e al
successivo ricorso congiunto, con spese interamente a carico della produzione; che il
sig. S., prima della sottoscrizione del contratto aveva espresso alla produzione le
proprie perplessità in virtù del contenuto troppo vincolante del contratto soprattutto
nelle parte in cui erano previste penali e l’obbligo di risarcire il danno in caso di
abbandono del programma ma che la produzione provvedeva a rassicurarlo
garantendogli una totale assistenza e disponibilità in caso di difficoltà legate ad ogni
fase della realizzazione; che, pertanto, in vista della celebrazione del matrimonio la
produzione imponeva alle parti di trasferire la residenza nel Comune di R. di modo che
le pubblicazioni non avvenissero nei luoghi di residenza di provenienza al fine di
evitare che i futuri coniugi assumessero informazioni l’uno sull’altra prima della
celebrazione; che il matrimonio veniva celebrato dal Sindaco di R., dott. A. M., in data
21.11.2016 presso la “LC”, sita in (omissis…) alla presenza degli ospiti e degli sposi
nonché dei testimoni; che, successivamente al termine del periodo delle riprese, gli
esponenti di comune accordo decidevano di procedere alla separazione consensuale e
ne davano comunicazione alla produzione la quale consigliava loro di procedere alla
separazione mediante domanda all’Ufficio di Stato civile del Comune di residenza ex L.
55/2015; che, tuttavia, la sig.ra M., recatasi al primo appuntamento presso il Comune
di Abbiategrasso, scopriva che l’atto di matrimonio recava quale data di celebrazione
quella del 30.11.2016, dieci giorni dopo l’effettiva data di celebrazione, e che il luogo
di celebrazione riportato nell’atto era la casa comunale di R. e non il Comune di
Milano; che, pertanto, l’ufficiale di Stato civile presso il Comune di Abbiategrasso
rilevava che l’atto di matrimonio fosse viziato e che non avrebbe potuto procedere con
la separazione; che, inoltre, lo stesso funzionario del Comune evidenziava la rilevanza
penale delle dichiarazioni mendaci rese in atto pubblico dal pubblico Ufficiale
celebrante il quale non aveva mai ricevuto dispensa e pertanto non poteva celebrare
al di fuori del proprio Comune; che gli attori chiedevano ripetutamente spiegazioni in
merito alla società di produzione la quale non forniva alcuna soluzione; che appariva
evidente che l’atto di matrimonio risultava viziato sia in punto di formazione e
contenuto per violazione degli artt. 96 e 107 c.c. e 50 ord. st. civ. che per quanto
concerne il vizio di volontà in quanto le parti sapevano di dover sborsare somme a
titolo di risarcimento nel caso in cui non avessero contratto il matrimonio.
***
Quanto al primo profilo di doglianza, relativo alla violazione degli artt. 96 e 107 c.c. e
50 ord. st. civ. va premesso che, ai sensi dell’art. 106 c.c. “il matrimonio deve essere
celebrato pubblicamente nella casa comunale davanti all’ufficiale dello stato civile al
quale fu fatta la richiesta di pubblicazione”; dalla norma, pertanto, si traggono due
regole in merito alla competenza: l’ufficiale competente a compiere l’atto è quello che
ha ricevuto la richiesta di pubblicazioni e il luogo competente è il Comune nella sua
casa comunale. Orbene, l’ufficiale dello stato civile, il quale celebri un matrimonio per
cui non era competente è sanzionato in via amministrativa con somma da Euro 30,00
a Euro 206,00 (art. 137 c.c.). Del pari, agendo lo stesso, non come rappresentante
dell’amministrazione civile, bensì in qualità di rappresentante dello Stato nel caso di
controversia giurisdizionale legittimato passivo non è il Comune bensì lo Stato (Cass.
N. 2039/1959 e Cass n. 3415/1977). Va, inoltre, richiamato quanto disposto dall’art.
113 c.c. che ritiene, in ogni caso, valido il matrimonio celebrato davanti ad un
apparente ufficiale di Stato civile “a meno che entrambi gli sposi, al momento della
celebrazione, abbiano saputo che detta persona non aveva tale qualità”, norma che
tutela il legittimo affidamento delle parti e non pregiudica la validità del vincolo anche
nei casi, come quello di specie, in cui l’investitura dell’Ufficiale di Stato civile manchi
del tutto o sia viziata geneticamente. A chiusura del sistema di norme volte a
regolamentare il matrimonio, inteso come atto, si pone poi l’art. 131 c.c. secondo cui “
il possesso di stato, conforme all’atto di celebrazione del matrimonio, sana ogni difetto
di forma”, laddove per possesso di stato si indica un elemento fattuale che, pur non
sostituendosi all’atto matrimoniale, ha la funzione di rimuovere irregolarità formali
sanando la celebrazione matrimoniale la quale è da considerarsi definitivamente
valida.
Alla luce degli elementi evidenziati deve, pertanto, ritenersi che i vizi formali invocati
non possano di per sé determinare l’invalidità del matrimonio risolvendosi in mere
irregolarità che potranno, al più, comportare l’applicazione di una sanzione
amministrativa per l’Ufficiale civile celebrante come disposto dall’art. 138 c.c. e che, in
ogni caso, non possano precludere alle parti il diritto di sciogliere il vincolo
matrimoniale nelle diverse forme riconosciute dalla legge e, dunque, anche mediante
la procedura di cui all’art. 12 L. 162/2014 davanti all’ufficiale di Stato civile del
Comune di residenza.
Quanto, invece, al diverso profilo invocato e relativo al vizio della volontà va premesso
in punto di diritto che il Codice civile contempla tassative ipotesi di invalidità del
vincolo matrimoniale, talune delle quali determinano la sua nullità assoluta, altre la
sua annullabilità, a seconda della loro maggiore o minore gravità.
Il matrimonio civile è, pertanto, invalido qualora esso sia stato celebrato in presenza
di:
Impedimenti (artt. 84-89 c.c.) – Si configurano allorquando il matrimonio sia stato
celebrato in violazione di taluno dei requisiti espressamente richiesti per la sua
celebrazione.
Violenza (art. 122 c.c.) – Si configura quando il consenso al matrimonio sia stato
estorto con violenza, cioè tramite minaccia di un male ingiusto e notevole (anche
proveniente da un terzo), in modo da coartare la volontà di una persona; ovvero sia
stato determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli
sposi. Errore (art. 122 c.c.) – Si configura quando il consenso al matrimonio sia stato
dato per effetto di errore sull’identità fisica dell’altro coniuge oppure di errore
essenziale circa determinate qualità personali di questi, nel senso che il coniuge
caduto in errore non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente
conosciute. Precisamente, l’errore deve riguardare taluna delle seguenti tassative
circostanze: a) l’esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o di una
deviazione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale; b) l’esistenza
di una sentenza di condanna per delitto non colposo alla reclusione non inferiore a
cinque anni, salvo il caso di intervenuta riabilitazione prima della celebrazione del
matrimonio; c) la dichiarazione di delinquenza abituale o professionale; d) la
condanna dell’altro coniuge per delitti concernenti la prostituzione ad una pena non
inferiore a due anni; e) lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto
caduto in errore, purché vi sia stato disconoscimento ai sensi dell’art. 233 cod. civ., se
la gravidanza è stata portata a termine. In sede giudiziaria, l’azione finalizzata ad
ottenere l’annullamento del matrimonio non può essere proposta se vi sia stata
coabitazione per un anno dopo che sia stato scoperto l’errore.
Simulazione (art. 123 c.c.) – Si configura quando gli sposi abbiano convenuto tra di
loro di non instaurare alcuna comunione di vita coniugale e, pertanto, di non
adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti discendenti dal matrimonio,
considerando lo stesso soltanto come uno strumento per conseguire determinate
utilità di carattere accessorio. Dalla simulazione va distinta la “riserva mentale”, che si
configura allorquando taluno dei coniugi, pur esprimendo esteriormente il proprio
consenso nuziale, avanzi nella sua sfera interiore qualche riserva in ordine al
matrimonio. Tale circostanza non influenza tuttavia la validità del consenso espresso e
non ha, quindi, alcuna rilevanza giuridica per l’ordinamento italiano, per il quale
assume valore solo la volontà dichiarata (diversamente da quanto avviene
nell’ordinamento canonico, che attribuisce valore alla volontà e non alla
dichiarazione).
Va premesso che la volontà dei nubendi costituisce certamente il centro motore della
vicenda matrimoniale; ciò è confermato dal disposto dell’art. 108 c.c. secondo cui la
dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e moglie non può
essere sottoposta né a termine né a condizione per cui, laddove invece il matrimonio
sia celebrato, la condizione e il termine si hanno come non apposti.
Oltre, poi, ad essere un atto puro il matrimonio è anche atto incoercibile, di qui il
divieto di ogni patto che mira a far nascere un obbligo a contrarre matrimonio come si
evince dalla disciplina codicistica in tema di promessa di matrimonio (art. 79 c.c.), la
quale, in ogni caso, non obbliga a contrarlo né ad eseguire ciò che si fosse convenuto
per il caso di non adempimento. Il carattere non vincolante della promessa fatta dagli
sponsali è, difatti, collegato al fondamentale principio della libertà matrimoniale
secondo il noto brocardo antiquitus placuit libera matrimonia esse. Il diritto di sposarsi
configura, difatti, un diritto fondamentale della persona riconosciuto sia a livello
sovranazionale (artt. 12 e 16 della dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del
1948, artt. 8 e 12 CEDU e artt. 7 e 9 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione
Europea proclamata a Nizza il 7.12.2000), sia a livello costituzionale (artt. 2 e 29
Cost.). Pertanto, il vincolo matrimoniale deve rimanere una libera scelta
autoresponsabile sottraendosi ad ogni forma di condizionamento anche indiretto
(Corte cost. n. 1/ 1992; n. 450/1991, n. 189/1991).
Tanto premesso, nel caso di specie, la domanda proposta è infondata e non merita di
essere accolta per le ragioni che si vengono ad esporre.
I ricorrenti hanno agito al fine di ottenere la declaratoria di nullità del matrimonio tra
loro contratto adducendo che la scelta del vincolo sia dipesa dalla violenza morale
altrui, o comunque, dalla prospettazione di un timore di eccezionale gravita, l’uno o
l’altro subiti nel grado e nelle forme a cui l’art. 122 c.c. riconduce la declaratoria di
invalidità; le due ipotesi previste dalla norma concorrono entrambe ad un unico
risultato rilevante ai fini della valutazione di nullità, e cioè la diversione della volontà
del soggetto, che viene privato della possibilità di autodeterminarsi. Tuttavia, mentre
in caso di violenza il presupposto che vizia il consenso è un’azione altrui direttamente
destinata a incidere sulla volontà del nubendo, il timore riguarda l’atteggiamento
psicologico della persona che avverte una condizione esterna, come irrimediabilmente
incidente sulle sue scelte.
Pertanto, contrariamente alla disciplina dei contratti, riguardo ai quali non è
riconosciuto affatto il timore-vizio (ex art. 1437 c.c.), il timore è invece rilevante ai fini
della nullità del matrimonio ma ciò solo in ragione della sua intensità, richiedendosi
che esso sia di una gravità eccezionale.
Orbene, gli attori hanno addotto come contenuto della violenza altrui ovvero come
espressione del loro timore, la minaccia rappresentata dalle somme eventualmente
dovute a titolo risarcitorio alla casa di produzione nel caso in cui, a seguito della
sottoscrizione del contratto, non avessero contratto matrimonio (v. punto n. 4 del doc.
n. 4).
Al riguardo va, tuttavia, preliminarmente rilevato che il principio dell’onere della prova
imponeva agli attori di produrre in giudizio copia del contratto da loro sottoscritto con
la società “N.P.”, produttrice del programma televisivo, risultando agli atti, invece, una
copia fotostatica dello stesso del tutto priva di sottoscrizione.
In ogni caso, pur volendo prescindere da questo aspetto, da quanto emerso dagli atti
e dalle prospettazioni delle parti non può dirsi provato che le stesse siano addivenute
a contrarre il vincolo per effetto di un consenso viziato, in quanto non pienamente
libero perché prestato nel timore rappresentato dalle conseguenze economiche
derivanti dall’eventuale revoca di esso.
Ed invero, dagli atti emerge come lo stesso sig. S. avesse espresso alla produzione le
proprie perplessità in virtù del contenuto troppo vincolante del contratto, soprattutto
nella parte in cui erano previste penali e l’obbligo di risarcire il danno in caso di
abbandono del programma, ma che la produzione provvedeva a rassicurarlo
garantendogli una totale assistenza e disponibilità in caso di difficoltà legate ad ogni
fase della realizzazione, assicurandogli, dunque, la possibilità di sciogliere il vincolo in
qualunque tempo senza sostenere alcuna spesa.
In altri termini, dagli atti di causa non è emerso che le parti avessero subito la riferita
pressione psicologica e che, pertanto, si siano a causa di ciò determinate a contrarre il
vincolo matrimoniale.
Nell’atto di citazione e nelle dichiarazioni rese all’udienza, difatti, gli attori riferiscono
che “al termine del periodo delle riprese gli esponenti, che sin dall’inizio avevano
mostrato evidenti divergenze caratteriali, di comune accordo, decidevano di procedere
alla separazione consensuale e ne davano comunicazione alla produzione, la quale
faceva firmare un documento in cui conferivano mandato ai legali per la procedura” (v.
pag. 3 ricorso). Pertanto, il presente giudizio veniva instaurato solo dopo il rifiuto
manifestato dall’ufficiale civile del Comune di Abbiategrasso di procedere con la
separazione in ragione delle irregolarità riscontrate e, dunque, della riferita
impossibilità di procedere con una separazione consensuale.
In altri termini, ciò che le parti hanno voluto è stato esattamente contrarre il vincolo
(rectius partecipare al programma) certamente rassicurate dalla prospettata
possibilità di procedere, gratuitamente e senza particolari difficoltà, all’eventuale
successivo scioglimento del matrimonio.
Al riguardo va precisato, difatti, che per la legge elemento essenziale per far nascere il
vincolo non è il dato volontaristico riferito alla sfera intima e personale, non rientrando
tra le cause di invalidità matrimoniali l’eventuale riserva mentale, bensì l’aspetto
esteriore rappresentato dall’esistenza di una volontà negoziale valida manifestata
tramite le dichiarazioni dei coniugi di contrarre il matrimonio. Volontà che nel caso di
specie è stata manifestata come attestato dall’Ufficiale civile celebrante e
rappresentato nelle registrazioni prodotte (doc. n. 6).
Del resto, lo stesso contratto sottoscritto dalle parti con la Società al punto 5
evidenziava la consapevolezza e la conseguente accettazione da parte dei contraenti
che il matrimonio sarebbe stato “pienamente valido a tutti gli effetti e che dal
suddetto matrimonio conseguono tutti i diritti e gli obblighi di cui agli artt. 143, 147,
148 c.c.” (doc. n. 4).
L’insieme di tali considerazioni milita, pertanto, per il rigetto della domanda.
Quanto alle spese di lite le stesse restano a carico dei ricorrenti non essendo, del
resto, parte processuale nel presente giudizio l’Ufficiale civile celebrante.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando così provvede:
Rigetta la domanda.
Dichiara non ripetibili le spese di lite.

Non è incostituzionale la previsione della scelta dell’ads con poteri in ambito sanitario anche in assenza di d.a.t.

SENTENZA N. 144
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancrlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana
SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio
BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n.
219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), promosso
dal Tribunale ordinario di Pavia, nel procedimento relativo a G. A., in qualità di amministratore di
sostegno di A. T., con ordinanza del 24 marzo 2018, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 2018 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’Unione Giuristi Cattolici
Italiani – Unione locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici italiani di Pavia “Beato Contardo
Ferrini”;
udito nella camera di consiglio del 20 marzo 2019 il Giudice relatore Franco Modugno.
Ritenuto in fatto
1.– Il giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia, con ordinanza del 24 marzo 2018, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di
consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui stabilisce che
l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza
esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (d’ora in avanti:
DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al
mantenimento in vita dell’amministrato.
1.1.– Il giudice rimettente premette che, in favore di A. T., è stato già nominato, sin dall’ottobre
2008, un amministratore di sostegno, cui allo stato non è attribuita né l’assistenza necessaria, né la
rappresentanza esclusiva in ambito sanitario. La relazione clinica del 21 febbraio 2018, tuttavia, ha
certificato che A. T. risulta attualmente «in stato vegetativo in esiti di stato di male epilettico in
paziente affetto da ritardo mentale grave da sofferenza cerebrale perinatale in sindrome disformica
[recte: dismorfica]» nonché «portatore di PEG». Il giudice a quo rileva che, pertanto, si rende
necessario integrare il decreto di nomina, ai sensi dell’art. 407, comma 4, del codice civile, ai fini
dell’individuazione dei poteri in ambito sanitario; in particolare – preso atto delle condizioni di
salute, anche personalmente verificate – «si profila come indispensabile l’attribuzione della
rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, non residuando alcuna capacità in capo
all’amministrato».
Ciò premesso, il giudice tutelare osserva che, entrato in vigore l’art. 3, commi 4 e 5, della legge n.
219 del 2017, è quest’ultimo articolo a disciplinare «le modalità di conferimento, all’amministratore
di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario». Ne conseguirebbe che
l’attribuzione all’amministratore di sostegno di detti poteri (nella specie, sotto forma di
rappresentanza esclusiva) «ricomprende necessariamente il potere di rifiuto delle cure, ancorché si
tratti di cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato»; l’amministratore di sostegno,
pertanto, avrebbe «il potere di decidere della vita e della morte dell’amministrato» senza che tale
potere possa essere «sindacato dall’autorità giudiziaria».
Il giudice rimettente riferisce, dunque, che è chiamato a fare applicazione del censurato art. 3,
comma 5, dovendo decidere sull’attribuzione all’amministratore di sostegno di A. T. della
rappresentanza esclusiva in ambito sanitario.
1.2.– Ai fini del giudizio sulla rilevanza, il giudice a quo reputa «logicamente preliminare» l’esegesi
dell’art. 3, comma 5, della legge n. 219 del 2017, osservando, in particolare, che l’espressione
«rifiuto delle cure», in considerazione della locuzione «in assenza delle disposizioni anticipate di
trattamento», non può non concernere anche i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita;
altrimenti detto, il rifiuto delle cure può interessare «tutti i trattamenti sanitari astrattamente oggetto
delle DAT».
Per escludere tale opzione ermeneutica – prosegue il giudice rimettente – potrebbe ipoteticamente
farsi leva sull’espressione «cure proposte», sostenendo che i trattamenti necessari al mantenimento
in vita non possano essere inquadrati in termini di cure, di talché il rifiuto non potrebbe riguardarli.
Si tratterebbe, tuttavia, di un’interpretazione incompatibile sia con la ratio legis, volta a valorizzare
la libertà di autodeterminazione anche nell’ipotesi di trattamenti sanitari di fine vita, sia «con
l’acquisizione, tra i diritti inviolabili ex art. 2 Cost., di un diritto a decidere sui trattamenti di fine
vita»: in quanto tale, essa appare al giudice rimettente non praticabile.
Lo stato d’incapacità, per altro verso, non potrebbe di per sé escludere il diritto a decidere sui
trattamenti necessari al mantenimento in vita, poiché ciò determinerebbe la violazione degli artt. 2,
3 [recte: 13] e 32 Cost. L’incapace è, infatti, persona e «nessuna limitazione o disconoscimento dei
suoi diritti si prospetterebbe come lecita»: deve pertanto essergli riconosciuto, e ricevere tutela, il
diritto all’autodeterminazione e al rifiuto delle cure, potendo la condizione d’incapacità influire
soltanto sulle modalità di esercizio del diritto.
Una volta appurata la possibilità che siano rifiutati anche i trattamenti necessari al mantenimento in
vita, il giudice rimettente rileva che l’art. 3, comma 5, della legge n. 219 del 2017 prevede
espressamente che, in caso di opposizione del medico all’interruzione delle cure, è possibile
l’intervento del giudice tutelare, mentre deve ritenersi, a contrario, che detto intervento non sia
possibile nel caso in cui il medico non si opponga.
1.3.– Il giudice tutelare precisa, poi, che la circostanza che il procedimento abbia natura di
volontaria giurisdizione non esclude la possibilità di sollevare questione di legittimità
costituzionale. In tal senso deporrebbe la giurisprudenza costituzionale: vengono richiamate le
sentenze n. 258 del 2017, n. 121 del 1974 e, in particolare, la n. 129 del 1957.
1.4.– Nell’argomentare in punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente esordisce
ricordando che «[l]a libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della
morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche)
extra-giuridiche, quindi squisitamente soggettive» (Corte di cassazione, sezione prima civile,
ordinanza 3 marzo-20 aprile 2005, n. 8291). Ciò implica che in tale ambito vengono in rilievo
«valutazioni personalissime», indissolubilmente legate al soggetto interessato e alle sue
convinzioni, insuscettibili d’essere vagliate oggettivamente o in base al parametro del best interest
(adottato invece dalla House of Lords inglese, decisione del 4 febbraio 1993, Airedale NHS Trust v.
Bland).
La dichiarazione di rifiuto delle cure è costituita di due momenti essenziali: quello concernente la
formazione dell’intimo convincimento, intrasferibile in capo a terzi, e quello rappresentato dalla
manifestazione di volontà, cedibile invece ad altri. E poiché l’amministratore di sostegno non è
investito di un potere incondizionato di disporre della salute della persona incapace (Corte di
cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748), ne consegue che il rifiuto delle cure
che egli manifesti deve essere la rappresentazione della volontà dell’interessato e dei suoi
orientamenti esistenziali: l’amministratore non deve decidere né «al posto dell’incapace, né per
l’incapace», perché il diritto personalissimo a rifiutare le cure è «la logica simmetria d[e]lla
indisponibilità altrui e dell’intrasferibilità del diritto alla vita».
Il giudice a quo osserva, pertanto, che, affinché la decisione sul rifiuto delle cure sia espressione
dell’interessato e non di chi lo rappresenta, questa deve risultare dalle DAT o, in assenza di queste,
deve ricorrersi alla ricostruzione della volontà dell’incapace, per mezzo di «una pluralità di indici
sintomatici, di elementi presuntivi, mediante l’audizione di conoscenti dell’interessato o strumenti
di altra natura», in modo da assicurare che la «scelta in questione non sia espressione del giudizio
sulla qualità della vita proprio del rappresentante» (è novamente richiamata Cass., n. 21748 del
2007).
Secondo il rimettente, si tratterebbe di un processo di ricerca serio e complesso, il quale renderebbe
«imprescindibile» l’intervento di un soggetto terzo e imparziale quale è il giudice, teso a tutelare il
«carattere personalissimo e [la] speculare indisponibilità altrui del diritto di rifiuto delle cure e del
diritto alla vita». Se si consentisse all’amministratore di sostegno di ricostruire autonomamente la
volontà dell’interessato, «si sentenzierebbe il concreto annichilimento della natura personalissima
del diritto a decidere sulla propria vita», poiché si configurerebbe «surrettiziamente» il potere
dell’amministratore di assumere la propria volontà a fondamento del rifiuto delle cure.
Conseguentemente, sarebbe incostituzionale l’attribuzione all’amministratore di sostegno,
determinata dalle disposizioni censurate, «di un potere di natura potenzialmente incondizionata e
assoluta attinente la vita e la morte, di un dominio ipoteticamente totale, di un’autentica facoltà di
etero-determinazione».
L’«insanabile contrasto» sarebbe, innanzitutto, con gli artt. 2, 13 e 32 Cost. Il diritto a rifiutare le
cure troverebbe fondamento in tali norme costituzionali e dovrebbe considerarsi inviolabile, con la
conseguenza che sarebbe negata ad altri la possibilità di violarlo; il suo essere diritto
«intrinsecamente correlato al singolo interessato» escluderebbe che il momento della formazione
della volontà possa essere delegato a terzi, pena un suo inesorabile disconoscimento. Le modalità
d’esercizio di rifiuto delle cure previste dalle disposizioni censurate sarebbero, pertanto,
«radicalmente inidonee a salvaguardare compiutamente la natura eminentemente soggettiva del
diritto in questione», negandone l’essenza personalissima e determinandone la violazione.
Non varrebbe a superare il vulnus la possibilità d’intervento del giudice, in caso di rifiuto opposto
dal medico all’interruzione dei trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita
dell’interessato: si tratterebbe innegabilmente di un intervento giudiziale «meramente ipotetico ed
accidentale», subordinato all’eventuale esistenza di un dissidio tra rappresentante e medico. Né,
ancora, potrebbe opporsi che, a ben vedere, le norme censurate attribuiscono la valutazione finale
circa il rifiuto delle cure al medico, il quale potrebbe effettuare un controllo sulle determinazioni
dell’amministratore di sostegno: si tratterebbe, infatti, pur sempre di una valutazione medica
«imperniata su canoni obiettivi di “appropriatezza” e “necessità”», che disconoscono la natura
personalissima e soggettiva del diritto di rifiutare le cure, non avendo il medico, d’altra parte, la
possibilità di ricostruire la volontà dell’interessato e di accertare la conformità a quest’ultima della
decisione del rappresentante.
Le norme censurate sarebbero, inoltre, in contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto manifestamente
irragionevoli. La loro applicazione, infatti, determinerebbe «un’incoerenza di ingiustificabile
significanza all’interno dell’architettura di sistema delineata dall’istituto dell’amministrazione di
sostegno»: ciò perché, se ai sensi dell’art. 411 cod. civ. è necessaria l’autorizzazione del giudice
tutelare per il compimento degli atti indicati agli artt. 374 e 375 cod. civ., attinenti alla sfera
patrimoniale, sarebbe irrazionale non prevedere analoga autorizzazione per manifestare il rifiuto
delle cure, «sintesi ed espressione dei diritti alla vita, alla salute, alla dignità e
all’autodeterminazione della persona», in quanto in tal modo l’ordinamento appresterebbe a
interessi d’ordine patrimoniale una salvaguardia superiore a quella riconosciuta ai richiamati diritti
fondamentali. Inoltre, a conferma dell’incongruenza interna al sistema dell’amministrazione di
sostegno, il giudice a quo osserva come la giurisprudenza (è richiamato il decreto del Tribunale
ordinario di Cagliari, 15 giugno 2010) riconosca la necessità dell’autorizzazione del giudice tutelare
perché il rappresentante avanzi la domanda di separazione, atto personalissimo, mentre le
disposizioni censurate non prevedono l’intervento giudiziale per autorizzare l’atto personalissimo
del rifiuto delle cure, «coinvolgente valori egualmente rilevanti e dalle implicazioni certamente
superiori».
Quale ulteriore profilo di irragionevolezza, il rimettente osserva che, se la legge n. 219 del 2017 è
tutta fondata «sull’intento di valorizzare ed accordare centralità alle manifestazioni di volontà dei
singoli», tanto da prevedere formalità e procedure per la loro espressione, non si comprende perché
venga meno «la più elementare attenzione» per tale elemento volontaristico, non prevedendosi,
quando si tratti di soggetti incapaci, meccanismo alcuno di tutela o controllo.
1.5.– Il giudice tutelare di Pavia, infine, chiede alla Corte – ove venissero accolte le questioni di
legittimità costituzionale – di dichiarare l’illegittimità costituzionale in via conseguenziale, ai sensi
dell’art. 27, secondo periodo, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), delle disposizioni impugnate anche nella parte in cui
prevedono che il rappresentante legale della persona interdetta oppure inabilitata, in assenza delle
DAT, o il rappresentante legale del minore possano rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice
tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.
2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o,
comunque sia, non fondate.
2.1.– L’interveniente rileva, innanzitutto, che il giudice a quo – oltre a non avere mosso censure in
relazione a ciascuno dei parametri costituzionali evocati, il che costituirebbe autonoma ragione
d’inammissibilità per difetto di motivazione – non ha argomentato circa l’impossibilità di
interpretare le disposizioni censurate in senso conforme a Costituzione, come invece richiesto dalla
giurisprudenza costituzionale «univoca e ormai consolidata». Interpretazione conforme a
Costituzione che, a suo avviso, sarebbe invece possibile.
Succintamente ricostruita la recente disciplina in materia di consenso informato e di DAT, il
Presidente del Consiglio dei ministri rileva che i diritti ivi riconosciuti devono essere garantiti anche
a chi non è più in grado di opporre il rifiuto alle cure ma che, quando ne era capace, aveva
chiaramente manifestato volontà in tale senso. In tale prospettiva, si pone in evidenza che gli artt.
357 e 424 cod. civ. individuano nel tutore il soggetto interlocutore dei medici con riferimento ai
trattamenti sanitari, mentre gli artt. 404 e seguenti cod. civ. sanciscono il potere di cura del disabile
anche in capo all’amministratore di sostegno, secondo i poteri conferitigli con il decreto di nomina:
al diritto di ogni persona di «manifestare validamente la propria volontà in merito all’accettazione o
al rifiuto dei possibili trattamenti sanitari» conseguirebbe l’obbligo per il rappresentante legale di
dare corso a tale volontà.
Si tratterebbe di approdi che trovano conferma, oltre che nel diritto internazionale (si richiama l’art.
6 della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità
dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sui Diritti
dell’Uomo e la biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata e resa esecutiva con la legge
28 marzo 2001, n. 145, di seguito: Convenzione di Oviedo), nella giurisprudenza della Corte di
cassazione (oltre alla già richiamata sentenza n. 21748 del 2007, sono citate Corte di cassazione,
terza sezione civile, sentenza 15 gennaio 1997, n. 364, e sentenza 25 novembre 1994, n. 10014). In
particolare, la giurisprudenza di legittimità avrebbe precisato che il tutore deve agire nell’esclusivo
interesse dell’incapace, ricostruendone la volontà «tenendo conto dei desideri da lui espressi prima
della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di
vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose,
culturali e filosofiche» (Cass., n. 21748 del 2007, citata).
Una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate dovrebbe, pertanto, portare a
ritenere che, essendo il diritto alla salute un diritto personalissimo, la rappresentanza legale «non
trasferisce sul tutore e sull’amministratore di sostegno un potere incondizionato di disporre della
salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza». D’altra parte, l’art. 3, comma 4,
della legge n. 219 del 2017 espressamente prevede che l’amministratore di sostegno deve tenere
conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere,
quando la nomina comprenda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito
sanitario: circostanza, questa, che implicherebbe un vaglio specifico da parte del giudice.
Molteplici sarebbero, pertanto, gli elementi che depongono per una possibile interpretazione
conforme delle disposizioni censurate o, comunque sia, per l’infondatezza delle questioni di
legittimità costituzionale: l’obbligo per il rappresentante, nel rifiutare le cure, di agire nell’interesse
dell’incapace, ricostruendone la volontà; la valutazione del medico, in base alle sue competenze,
sulla natura necessaria e appropriata delle cure; l’intervento del giudice in caso di opposizione del
medico e su ricorso di qualsiasi soggetto interessato laddove l’amministratore di sostegno non abbia
tenuto nella dovuta considerazione la volontà del beneficiario.
2.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri reputa, poi, inammissibile, o altrimenti infondata, la
richiesta del giudice a quo di estendere in via conseguenziale la dichiarazione d’illegittimità
costituzionale ad altre norme parimente poste dalle disposizioni censurate.
Osserva l’interveniente che questa Corte, con la sentenza n. 138 del 2009, ha affermato che l’art.
27, seconda parte, della legge n. 87 del 1953 non sottrae il rimettente dall’onere di motivare in
ordine alle ragioni «che lo inducono a sospettare dell’esistenza dell’illegittimità costituzionale» di
ciascuna delle disposizioni legislative che viene a censurare: onere cui l’odierno rimettente non
avrebbe adempiuto.
3.– Hanno depositato un comune atto di intervento nel giudizio le associazioni Unione Giuristi
Cattolici Italiani – Unione Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato Contardo
Ferrini”, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano accolte.
3.1.– In punto di legittimazione all’intervento, la difesa delle associazioni afferma che, in
considerazione degli scopi sociali, sarebbe evidente il concreto interesse delle intervenienti «a
portare il proprio contributo e ad interloquire» dinanzi a questa Corte. Il «prevalente interesse etico»
sottostante le questioni di legittimità costituzionale dovrebbe consentire una più larga
partecipazione di associazioni «espressioni della società civile» nel giudizio costituzionale, a
maggior ragione in considerazione del «carattere giusnaturalistico delle moderne costituzioni
occidentali», le quali, compresa la Costituzione italiana, rimanderebbero a un ordinamento che
«precede» quello della legge statale e che «trova il suo più solido e profondo fondamento
nell’ordine naturale delle cose, vale a dire nel diritto naturale».
3.2.– Nel merito, le intervenienti osservano come, in base alla giurisprudenza di legittimità e a
quanto disposto nella Convenzione di Oviedo, dovrebbe escludersi la possibilità di sacrificare la
salute o il bene supremo della vita di persona incapace di dare consenso, «in assenza di eventi
ineluttabili quali una malattia che non possa essere contrastata se non incorrendo nell’accanimento
terapeutico». La disposizione censurata, pertanto, favorirebbe «gli abusi, con rifiuto delle cure e
conseguente soppressione di pazienti incapaci» per interessi che possono essere i più diversi,
estranei al best interest del malato.
3.3.– Ripercorsi i dubbi, condivisi, di legittimità costituzionale del giudice a quo, le intervenienti
osservano che l’«inadeguatezza» della normativa censurata persisterebbe anche nel caso in cui
questa Corte ritenesse possibile l’interruzione delle cure solo una volta ricostruita, per opera del
giudice tutelare, la volontà dell’incapace: sarebbe evidente, infatti, «il carattere di fictio iuris di una
tale metodologia», irrispettosa della «reale e ipoteticamente diversa volontà che il paziente potrebbe
esprimere attualmente, da sé, se ne fosse in grado».
A parere delle intervenienti, infatti, un valido consenso o rifiuto delle cure «non può insorgere
anteriormente al verificarsi del quadro patologico rispetto al quale si pone la necessità di dare
l’informativa». Il problema della valutazione della persistenza del rifiuto delle cure, dunque,
esisterebbe e permarrebbe, secondo questa prospettiva, anche in caso di DAT «proprio per la
naturale volatilità della volontà delle persone rispetto ai fatti ed alle stagioni della vita»: funzione
del giudice tutelare, pertanto, dovrebbe essere, in ogni caso, quella di autorizzare terapie che non
costituiscano accanimento terapeutico e che salvaguardino, in ossequio al principio di precauzione, i
beni della salute e della vita.
3.4.– La difesa delle intervenienti dà altresì conto di una nota dell’associazione di Pavia, che ritiene
utile riportare nella «esatta consistenza testuale», nella quale vengono delineati ulteriori aspetti di
illegittimità costituzionale.
Si afferma, in particolare, che la possibilità per l’amministratore di sostegno, anche se in presenza di
DAT, di rifiutare o interrompere l’alimentazione, l’idratazione o la ventilazione artificiale sarebbe
in contrasto con la dignità umana (art. 2 Cost.), con il diritto alla salute (perché l’art. 32 Cost. si
riferisce ai trattamenti sanitari ed è dibattuta la possibilità di ricomprendervi gli anzidetti
trattamenti), con l’art. 3 Cost. (perché la legge n. 219 del 2017 equipara irragionevolmente terapie
mediche e trattamenti di mero sostegno vitale). L’art. 3, comma 4, della legge n. 219 del 2017, poi,
sarebbe costituzionalmente illegittimo perché, consentendo all’amministratore di sostegno di dover
solo tenere conto della volontà del soggetto amministrato in relazione al suo grado di capacità di
intendere e di volere, lederebbe il diritto personalissimo alla vita e alla salute che solo il titolare può
esercitare (art. 2 Cost.) ed equiparerebbe irragionevolmente chi è totalmente incapace e chi, anche
solo parzialmente, può invece manifestare la propria volontà (artt. 3 e 32 Cost.). Sono rappresentati,
infine, vizi di costituzionalità ritenuti ancora più radicali, dubitandosi della legittimità costituzionale
della privazione di trattamenti sanitari salvavita, siano o no presenti le DAT.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia ha
sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di
consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui stabilisce che
l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza
esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (d’ora in avanti:
DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al
mantenimento in vita dell’amministrato.
Secondo il giudice rimettente, le norme censurate si porrebbero in contrasto, innanzitutto, con gli
artt. 2, 13 e 32 Cost., in quanto sarebbe necessario che, in assenza delle DAT, la volontà di
esercitare il diritto inviolabile e personalissimo di rifiutare le cure, che troverebbe fondamento in
tali norme costituzionali, sia ricostruita in modo da salvaguardare la natura soggettiva del diritto
medesimo: salvaguardia che sarebbe garantita solo con l’intervento di un soggetto terzo e
imparziale quale è il giudice.
Le disposizioni censurate, poi, si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto plurimi profili.
Innanzitutto, poiché nell’amministrazione di sostegno, ai sensi dell’art. 411 del codice civile, è
necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare per il compimento degli atti, attinenti alla sfera
patrimoniale, indicati agli artt. 374 e 375 del medesimo codice, sarebbe irragionevole che analoga
autorizzazione non sia prevista per il rifiuto delle cure, «sintesi ed espressione dei diritti alla vita,
alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona». In secondo luogo, dal momento che
secondo la giurisprudenza è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare perché il rappresentante
avanzi la domanda di separazione coniugale, sarebbe costituzionalmente illegittimo che non sia
invece previsto l’intervento giudiziale per autorizzare il rifiuto delle cure, del pari atto
personalissimo «coinvolgente valori egualmente rilevanti e dalle implicazioni certamente
superiori». Infine, sarebbe irragionevole che, se si tratta di soggetti incapaci, non venga apprestata
«la più elementare attenzione» per la loro volontà, non prevedendosi meccanismo alcuno di tutela o
controllo, quando invece la legge n. 219 del 2017 è tutta fondata «sull’intento di valorizzare ed
accordare centralità all[e] manifestazioni di volontà dei singoli», tanto da prevedere formalità e
procedure per la loro espressione.
2.– Deve essere preliminarmente dichiarato inammissibile l’intervento delle associazioni Unione
Giuristi Cattolici Italiani – Unione Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato
Contardo Ferrini”.
2.1.– Al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale possono partecipare, secondo quanto
previsto dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), e dall’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale, le parti del giudizio a quo e, secondo che sia censurata una norma di legge statale o
di legge regionale, il Presidente del Consiglio dei ministri o il Presidente della Giunta regionale. Il
richiamato art. 4 delle Norme integrative prevede, altresì, la possibilità di derogare a tale regola,
ferma restando la competenza di questa Corte a giudicare sull’ammissibilità degli interventi di altri
soggetti: secondo la costante giurisprudenza, tali interventi sono ammissibili, senza venire in
contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità, soltanto quando i terzi siano
«titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura» (ex plurimis, sentenze n. 98 e n. 13 del 2019, n. 217, e n. 180 del 2018; nello stesso senso,
sentenza n. 213 del 2018).
Nel caso di specie le associazioni intervenienti – le quali hanno, altresì, dedotto questioni di
legittimità costituzionale ulteriori rispetto all’ordinanza di rimessione, per ciò solo inammissibili –
non possono essere considerate titolari di un tale interesse qualificato, posto che l’odierno giudizio
di legittimità costituzionale non è destinato a produrre, nei loro confronti, effetti immediati, neppure
indiretti. Esse, infatti, non vantano una posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata dalla
decisione di questa Corte sulle norme oggetto di censura, ma soltanto un generico interesse
connesso al perseguimento dei loro scopi statutari.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale, perché il rimettente non avrebbe prospettato «specifiche censure con
riguardo a ciascun parametro costituzionale richiamato», con conseguente difetto di motivazione.
3.1.– L’eccezione è palesemente destituita di fondamento.
Il giudice rimettente, evocando a parametro congiuntamente gli artt. 2, 13 e 32 Cost., ha in tutta
evidenza ritenuto che l’addizione richiesta a questa Corte sarebbe imposta dal combinato disposto
di tali norme costituzionali. Del resto, non solo la giurisprudenza di questa Corte ha già riconosciuto
che il principio del consenso informato trova fondamento proprio nelle norme costituzionali ora in
discorso (sentenza n. 438 del 2008 e ordinanza n. 207 del 2018), ma è la stessa legge n. 219 del
2017 a definirsi funzionale alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e
all’autodeterminazione della persona, nel rispetto, tra gli altri, dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32
Cost.
Autonomamente e adeguatamente motivate, poi, sono le censure in riferimento all’art. 3 Cost.
4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale anche sotto un ulteriore profilo: il giudice rimettente non avrebbe
«argomentato in ordine all’impossibilità di dare alle disposizioni impugnate un’interpretazione
conforme a Costituzione».
4.1.– L’eccezione non è fondata.
Il giudice tutelare di Pavia si è diffuso ampiamente sull’interpretazione delle disposizioni censurate,
soffermandosi in particolare sul significato da attribuire alla locuzione «rifiuto delle cure», la quale
ricomprenderebbe, alla luce della ratio legis e del diritto costituzionale all’autodeterminazione,
anche il rifiuto delle cure necessarie al mantenimento in vita; non solo, il giudice a quo ha
espressamente escluso di poter interpretare detta locuzione come non comprensiva del rifiuto di tali
cure. L’iter argomentativo della ordinanza di rimessione si fonda, dunque, su una seria e
approfondita attività ermeneutica concernente la disposizione censurata, conclusasi con
un’attribuzione a quest’ultima di un significato normativo che al giudice rimettente appare in
contrasto con gli evocati parametri costituzionali.
Il giudice a quo, dunque, ha implicitamente escluso, all’esito dell’attività interpretativa posta in
essere, di poter ricavare dalle disposizioni oggetto di censura norme conformi a Costituzione. Se,
poi, l’esito dell’attività esegetica del giudice rimettente sia condivisibile, o no, è profilo che attiene
al merito, e non più all’ammissibilità, delle questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis,
sentenze n. 78 e n. 12 del 2019, n. 132 e n. 15 del 2018, n. 69, n. 53 e n. 42 del 2017, n. 221 del
2015).
5.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate.
Il giudice tutelare rimettente (legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale: da
ultimo, sentenza n. 258 del 2017) impernia i dubbi di costituzionalità sul seguente assunto: in
ragione di quanto previsto dalle disposizioni censurate, l’amministratore di sostegno, al quale, in
assenza delle DAT, sia stata affidata la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, ha per ciò solo,
sempre e comunque, anche il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza
del beneficiario, senza che il giudice tutelare possa diversamente decidere e senza bisogno di
un’autorizzazione di quest’ultimo per manifestare al medico il rifiuto delle cure.
Si tratta di un presupposto interpretativo erroneo.
5.1.– Deve innanzitutto osservarsi che la legge n. 219 del 2017, come si evince sin dal suo titolo, dà
attuazione al principio del consenso informato nell’ambito della «relazione di cura e di fiducia tra
paziente e medico» (art. 1, comma 2).
Per quanto qui rileva, il principio – previsto da plurime norme internazionali pattizie, oltre che
dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e da diverse leggi nazionali che disciplinano
specifiche attività mediche – ha fondamento costituzionale negli artt. 2, 13 e 32 Cost. e svolge la
«funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello
alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il
diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso
terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative» (sentenza n. 438
del 2008; nello stesso senso, sentenza n. 253 del 2009 e ordinanza n. 207 del 2018). In attuazione
delle norme costituzionali, la legge n. 219 del 2017, pertanto, dopo aver sancito che «nessun
trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della
persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 1, comma 1),
promuove e valorizza la relazione di cura e fiducia tra medico e paziente che proprio sul consenso
informato deve basarsi (art. 1, comma 2), esplicita le informazioni che il paziente ha diritto di
ricevere (art. 1, comma 3), stabilisce le modalità di espressione del consenso e del rifiuto di
qualsivoglia trattamento sanitario, anche (ma non solo) necessario alla sopravvivenza (art. 1, commi
4 e 5), prevede l’obbligo per il medico di rispettare la volontà espressa dal paziente (art. 1, comma
6).
La legge n. 219 del 2017 ha poi introdotto, ovviamente in correlazione al diritto
all’autodeterminazione in ambito terapeutico, l’istituto delle DAT, prevedendo che ogni persona
maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di
determinarsi, possa esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il
consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti
sanitari, a tale scopo indicando un «fiduciario», che faccia le sue veci e la rappresenti nelle relazioni
con il medico e con le strutture sanitarie (art. 4, comma 1). Il medico è tenuto al rispetto delle DAT
(che devono essere redatte secondo quanto disposto dall’art. 4, comma 6), potendo egli
disattenderle, in accordo con il fiduciario, soltanto «qualora esse appaiano palesemente incongrue o
non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non
prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle
condizioni di vita» (art. 4, comma 5).
5.1.1.– L’art. 3 della legge n. 219 del 2017 reca la disciplina – concernente tanto il consenso
informato quanto le DAT – applicabile nel caso in cui il paziente sia non una persona (pienamente)
capace di agire (art. 1, comma 5), ma una persona minore di età, interdetta, inabilitata o beneficiaria
di amministrazione di sostegno.
Le norme oggetto del presente giudizio di costituzionalità regolano, in particolare, quest’ultimo
caso, stabilendo, da un lato, che, quando la nomina dell’amministratore di sostegno prevede
l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, «il consenso informato è
espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo
conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere»
(art. 3, comma 4); dall’altro, che, qualora non vi siano DAT, se l’amministratore di sostegno rifiuta
le cure e il medico le reputa invece appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice
tutelare, su ricorso dei soggetti legittimati a proporlo (art. 3, comma 5). Le norme censurate,
dunque, sono volte a disciplinare casi particolari di espressione o di rifiuto del consenso informato,
anche – ma non soltanto – laddove questo riguardi trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza.
Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice rimettente, però, esse non hanno disciplinato «le
modalità di conferimento, all’amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in
ambito sanitario», le quali, invece, restano regolate dagli artt. 404 e seguenti cod. civ., come
introdotti dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6 (Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile
del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388,
414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione,
nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali). Le norme oggetto dell’odierno
sindacato di questa Corte, altrimenti detto, non disciplinano l’istituto dell’amministrazione di
sostegno, ma regolano il caso in cui essa sia stata disposta per proteggere una persona che è
sottoposta, o potrebbe essere sottoposta, a trattamenti sanitari e che, pertanto, deve esprimere o no il
consenso informato a detti trattamenti.
L’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017 deve essere condotta, pertanto, alla
luce dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, richiamato dalle norme censurate: segnatamente,
è in base alla disciplina codicistica che devono essere individuati i poteri spettanti al giudice tutelare
al momento della nomina dell’amministratore di sostegno, i quali non sono affatto contemplati dalla
richiamata legge n. 219 del 2017.
5.2.– Questa Corte, già all’indomani della legge n. 6 del 2004, rilevò che «l’ambito dei poteri
dell’amministratore [è] puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto» (sentenze n.
51 del 2010 e n. 440 del 2005), secondo quanto previsto dal giudice tutelare nel provvedimento di
nomina, che deve contenere, tra le altre indicazioni, quelle concernenti l’oggetto dell’incarico e gli
atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario
(art. 405, quinto comma, numero 3, cod. civ.), nonché la periodicità con cui l’amministratore di
sostegno deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del
beneficiario (art. 405, quinto comma, numero 6, cod. civ.).
Più di recente, anche sulla scia dell’interpretazione e dell’applicazione dell’amministrazione di
sostegno da parte della giurisprudenza di legittimità, questa Corte ha osservato che tale istituto «si
presenta come uno strumento volto a proteggere senza mortificare la persona affetta da una
disabilità, che può essere di qualunque tipo e gravità (Corte di cassazione, sezione prima civile,
sentenza 27 settembre 2017, n. 22602)» (sentenza n. 114 del 2019). Esso consente al giudice
tutelare «di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, in
modo tale da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile a fronte del minor sacrificio
della sua capacità di autodeterminazione (in questo senso, Corte di cassazione, sezione prima civile,
sentenze 11 maggio 2017, n. 11536; 26 ottobre 2011, n. 22332; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12
giugno 2006, n. 13584; ma si veda anche Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11
settembre 2015, n. 17962)» (sentenza n. 114 del 2019).
L’amministrazione di sostegno è, insomma, un istituto duttile, che, proprio in ragione di ciò, può
essere plasmato dal giudice sulle necessità del beneficiario, anche grazie all’agilità della relativa
procedura applicativa (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 settembre 2015, n.
17962; 26 ottobre 2011, n. 22332; 1° marzo 2010, n. 4866; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12
giugno 2006, n. 13584). Con il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, difatti, il giudice
tutelare «si limita, in via di principio, a individuare gli atti in relazione ai quali ne ritiene necessario
l’intervento» (sentenza n. 114 del 2019), perché è chiamato ad affidargli, nell’interesse del
beneficiario, i necessari strumenti di sostegno con riferimento alle sole categorie di atti al cui
compimento quest’ultimo sia ritenuto inidoneo (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza
29 novembre 2006, n. 25366).
Attribuendo al giudice tutelare il compito di modellare l’amministrazione di sostegno in relazione
allo stato personale e alle condizioni di vita del beneficiario, il legislatore ha inteso limitare «nella
minore misura possibile» (sentenza n. 440 del 2005) la capacità di agire della persona disabile: il
che marca nettamente la differenza con i tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, la
cui applicazione attribuisce al soggetto uno status di incapacità, più o meno estesa, connessa a
rigide conseguenze legislativamente predeterminate. Il maggior rispetto dell’autonomia e della
dignità della persona disabile assicurata dall’amministrazione di sostegno è alla base di quelle
recenti decisioni, anche di questa Corte, che hanno escluso si estendano a tali soggetti – in ragione
d’una generalizzata applicazione, in via analogica, delle limitazioni dettate per l’interdetto o
l’inabilitato – i divieti di contrarre matrimonio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza
11 maggio 2017, n. 11536) o di donare (sentenza n. 114 del 2019; Corte di cassazione, sezione
prima civile, ordinanza 21 maggio 2018, n. 12460): il beneficiario di amministrazione di sostegno
può sì essere privato della capacità di porre in essere tali atti personalissimi, quando ciò risponda
alla tutela di suoi interessi, ma sempre che ciò sia espressamente disposto dal giudice tutelare – nel
provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno o anche in una sua successiva revisione
– con esplicita clausola ai sensi dell’art. 411, quarto comma, cod. civ.
È fuor di dubbio, infine, che possa ricorrersi all’amministrazione di sostegno anche laddove
sussistano soltanto esigenze di «cura della persona» – come d’altra parte recitano gli artt. 405,
quarto comma, e 408, primo comma, cod. civ. – in quanto esso non è istituto finalizzato
esclusivamente ad assicurare tutela agli interessi patrimoniali del beneficiario, ma è volto, più in
generale, a soddisfarne i «bisogni» e le «aspirazioni» (art. 410, primo comma, cod. civ.), così
garantendo adeguata protezione alle persone fragili, in relazione alle effettive esigenze di ciascuna
(Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza 26 luglio 2018, n. 19866; sul ricorso
all’amministrazione di sostegno per l’esercizio di scelte connesse al diritto alla salute, anche Corte
di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 15 maggio 2019, n. 12998).
5.3.– La ricostruzione del quadro normativo concernente l’amministrazione di sostegno, anche alla
luce degli approdi della giurisprudenza di questa Corte e della Corte di cassazione, rivela l’erroneità
del presupposto interpretativo su cui si fondano le questioni di legittimità costituzionale proposte
dal giudice tutelare di Pavia.
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, le norme censurate non attribuiscono ex
lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario
anche il potere di esprimere o no il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale.
Nella logica del sistema dell’amministrazione di sostegno è il giudice tutelare che, con il decreto di
nomina, individua l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in
nome e per conto del beneficiario. Spetta al giudice, pertanto, il compito di individuare e
circoscrivere i poteri dell’amministratore, anche in ambito sanitario, nell’ottica di apprestare misure
volte a garantire la migliore tutela della salute del beneficiario, tenendone pur sempre in conto la
volontà, come espressamente prevede l’art. 3, comma 4, della legge n. 219 del 2017. Tali misure di
tutela, peraltro, non possono non essere dettate in base alle circostanze del caso di specie e, dunque,
alla luce delle concrete condizioni di salute del beneficiario, dovendo il giudice tutelare affidare
all’amministratore di sostegno poteri volti a prendersi cura del disabile, più o meno ampi in
considerazione dello stato di salute in cui, al momento del conferimento dei poteri, questi versa. La
specifica valutazione del quadro clinico della persona, nell’ottica dell’attribuzione
all’amministratore di poteri in ambito sanitario, tanto più deve essere effettuata allorché, in ragione
della patologia riscontrata, potrebbe manifestarsi l’esigenza di prestare il consenso o il diniego a
trattamenti sanitari di sostegno vitale: in tali casi, infatti, viene a incidersi profondamente su «diritti
soggettivi personalissimi» (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 7 giugno 2017, n.
14158; più di recente, anche Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 15 maggio 2019,
n. 12998), sicché la decisione del giudice circa il conferimento o no del potere di rifiutare tali cure
non può non essere presa alla luce delle circostanze concrete, con riguardo allo stato di salute del
disabile in quel dato momento considerato.
La ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, pertanto, richiede al giudice tutelare di
modellare, anche in ambito sanitario, i poteri dell’amministratore sulle necessità concrete del
beneficiario, stabilendone volta a volta l’estensione nel solo interesse del disabile. L’adattamento
dell’amministrazione di sostegno alle esigenze di ciascun beneficiario è, poi, ulteriormente garantito
dalla possibilità di modificare i poteri conferiti all’amministratore anche in un momento successivo
alla nomina, tenendo conto, ove mutassero le condizioni di salute, delle sopravvenute esigenze del
disabile: il giudice tutelare, infatti, deve essere periodicamente aggiornato dall’amministratore circa
le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario (art. 405, quinto comma, numero 6, cod.
civ.), può modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte nel decreto di nomina (art.
407, quarto comma, cod. civ.), può essere chiamato a prendere gli opportuni provvedimenti – su
ricorso del beneficiario, del pubblico ministero o degli altri soggetti di cui all’art. 406 cod. civ. – in
caso di contrasto, di scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza dell’amministratore nel perseguire
l’interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste della persona disabile (art. 410, secondo comma,
cod. civ.).
5.3.1.– L’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, tenuto conto dei principi che
conformano l’amministrazione di sostegno, porta allora conclusivamente a negare che il
conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e
necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Le
norme censurate si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto
anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina –
laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali
da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno
vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo
richieda.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l’intervento delle associazioni Unione Giuristi Cattolici Italiani – Unione
Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato Contardo Ferrini”;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge
22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di
trattamento), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, dal giudice tutelare
del Tribunale ordinario di Pavia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo
2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA

Nel caso di elevata conflittualità, il giudice può ordinare alla coppia un percorso di sostegno alla genitorialità allo scopo di preservare la salute dei figli minori

Cass. civ. Sez. VI – 1, 6 maggio 2019, n. 11842
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22199-2017 proposto da:
V.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. PISANELLI 4, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE GIGLI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
L.A.;
– intimato –
avverso il decreto n. R.G. 1460/2015 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositato il 28/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 02/04/2019 dal Consigliere Relatore Dott. NAZZICONE LOREDANA.
Svolgimento del processo
– che la Corte d’appello di Trieste con decreto del 28 febbraio 2017 ha respinto i reclami, principale ed incidentale, proposti contro la decisione resa in primo grado dal Tribunale della stessa città, nel procedimento promosso ex art. 337 quinquies c.c. da L.A., con la quale fu disposto l’affidamento condiviso della figlia minore ad entrambi i coniugi, il diritto del padre di vedere la figlia tre pomeriggi settimana, la riduzione dell’assegno di mantenimento versato in favore della minore; la corte territoriale ha altresì disposto, da un lato, che il consultorio familiare territorialmente competente attivi un percorso di sostegno per la minore e di supporto alla genitorialità di ambo le parti, e, dall’altro lato, che il Servizio Sociale di Trieste monitori il nucleo familiare;
– che avverso il decreto è stato proposto ricorso, sulla base di cinque motivi, da V.A., illustrato da memoria;
– che non svolge difese l’intimato.
Motivi della decisione
– che i motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1) nullità del procedimento e della sentenza, per violazione degliartt. 39 e 739 c.p.c., essendo stato dal padre proposto il procedimento exart. 337-quinquies c.c., volto alla revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e del contributo, in pendenza dei termini per proporre reclamo avverso altro provvedimento, reso ai sensidell’art. 337-ter c.c., avente medesimo oggetto;
2) violazione degliartt. 2, 13, 32, 111 Cost.edell’art. 337-ter c.c., avendo la corte territoriale condizionato le parti ad effettuare un percorso psicoterapeutico di coppia volto a supportare la genitorialità di entrambi, ledendo, dunque, il loro diritto di autodeterminazione;
3) vizio di motivazione circa la mancata ammissione dei mezzi istruttori decisivi ritualmente richiesti;
4) violazione o falsa applicazionedell’art. 337-ter c.c., non avendo il giudice di merito adeguatamente tenuto in considerazione, nella determinazione circa l’affido della minore, gli inadeguati comportamenti genitoriali tenuti dal padre; nonché, circa la quantificazione dell’assegno di mantenimento, le reali risorse economiche di cui quest’ultimo dispone;
5) violazione o falsa applicazione degliartt. 91 e 112 c.p.c., avendo la Corte del merito condannato l’odierna ricorrente al pagamento di due terzi delle spese processuali in favore della controparte, sebbene anche il ricorso incidentale proposto da quest’ultima fosse stato integralmente respinto;
– che il primo motivo è manifestamente infondato poiché, come rilevato dai giudici del merito, le sopravvenute circostanze – idonee a fondare una domanda di adeguamento delle statuizioni assunte in ordine al mantenimento del minore, al suo affidamento, alla sua collocazione e al regime delle visite del genitore non collocatario – fondano il diritto della parte di instaurare nuovo e distinto giudizio, ancorché siano ancora pendenti i termini per proporre reclamo avverso il decreto, reso nel procedimento exart. 337-ter c.c., di cui si chieda la modifica;
– che inoltre l’assunto della pendenza del termine per proporre reclamo avverso il provvedimento reso nel primo giudizio n. r.g. 1460/15 non tiene conto che la pronuncia sul secondo ricorso è avvenuta dopo lo spirare del termine medesimo, onde certo non ne deriva la nullità dalla ricorrente lamentata;
– che il secondo motivo è manifestamente infondato, posto che la Corte del merito si è limitata a ritenere opportuno che i genitori provvedano ad una mediazione familiare, per superare le difficoltà riscontrate, disponendo che il consultorio “prenda in carico il nucleo familiare e predisponga un percorso di sostegno psicologico della minore e di supporto alla genitorialità di entrambe le parti”: e ciò, a tutela del pieno interesse della minore, che lo specifico compito affidato al giudice in simili situazioni;
– che non giova in contrario il richiamo, da parte del ricorrente, a precedente di questa Corte (Cass. 1 luglio 2015, n. 13506): ed invero, in detta vicenda era stato prescritto, come risulta dal testo della decisione, l’obbligo dei “genitori di sottoporsi ad un percorso psicoterapeutico individuale”, non analogo al caso di specie;
– che, del resto, è stato già ritenuto da questa Corte, in meritoall’art. 155 c.c.ed in tema di provvedimenti riguardo ai figli nella separazione personale dei coniugi, che sia permesso “al giudice di fissare le modalità della loro presenza presso ciascun genitore e di adottare ogni altro provvedimento ad essi relativo, attenendosi al criterio fondamentale rappresentato dal superiore interesse della prole, che assume rilievo sistematico centrale nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondatosull’art. 30 Cost..L’esercizio in concreto di tale potere, dunque, deve costituire espressione di conveniente protezione (art. 31 Cost., comma 2) del preminente diritto dei figli alla salute e ad una crescita serena ed equilibrata e può assumere anche profili contenitivi dei rubricati diritti e libertà fondamentali individuali, ove le relative esteriorizzazioni determinino conseguenze pregiudizievoli per la prole che vi presenzi, compromettendone la salute psicofisica e lo sviluppo”; e, come aggiunge tale decisione, “tali conseguenze, infatti, oltre a legittimare le previste limitazioni ai richiamati diritti e libertà fondamentali contemplati in testi sovranazionali, implicano in ambito nazionale il non consentito superamento dei limiti di compatibilità con i pari diritti e libertà altrui e con i concorrenti doveri di genitore fissatinell’art. 30 Cost., comma 1, enell’art. 147 c.c.” (Cass. 12 giugno 2012, n. 9546);
– che tali principi sono stati più volte confermati (Cass. 24 maggio 2018, n. 12954; Cass. 4 novembre 2013, n. 24683);
– che, del resto, dellaL. 4 maggio 1983, n. 184,art.12, comma 4, sull’adozione autorizza prescrizioni penetranti ai “genitori ed ai parenti”, per assicurare l’assistenza al minore, proprio quale c.d. sostegno alla genitorialità, al fine di rimediare alle situazioni di probabile abbandono ed anzi superare le medesime: ciò palesando la piena compatibilità di tali disposizioni con il rispetto dell’altrui diritto soggettivo genitoriale, in questa materia subordinato al preminente interesse del minore;
– che, pertanto, l’indicazione contenuta nel decreto impugnato risulta ineccepibilmente aderente al dettato normativo, avendo i giudici d’appello assunto a parametro di riferimento l’interesse preminente del minore, interesse che, all’esito dell’insindacabile valutazione discrezionale delle risultanze istruttorie, sorretta da puntuale ed adeguato riscontro argomentativo, hanno ritenuto a rischio di pregiudizio per la conflittualità genitoriale, sulla quale è possibile positivamente incidere, prevenendo altri gravi danni al minore;
– che il terzo motivo è manifestamente infondato poiché, come chiarito in numerose occasioni da questa Corte, “in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento (…), nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni” (Cass. 13485/2017);
– che, nel caso di specie, il giudice d’appello, non solo ha espressamente qualificato come irrilevante, al fine del provvedere, l’ammissione di molte delle istanze istruttorie avanzate, ma anche definito alcune di esse (ed è questo il caso della richiesta dell’espletamento di una CTU psico-pedagogica sulla persona del padre) come non supportate da giustificazioni;
– che il quarto motivo è inammissibile, essendo volto esclusivamente ad un riesame del merito in questa sede precluso, facendo esso valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, a “proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, ma tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionale valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice” (Cass. 18039/2012);
– che, infatti, l’accertamento circa le effettive capacità economiche e genitoriali del padre non può che costituire apprezzamento esclusivamente rimesso al giudice di merito;
– che il quinto motivo è manifestamente infondato, avendo questa Corte da tempo chiarito che “il rigetto tanto dell’appello principale quanto di quello incidentale non obbliga il giudice a disporre la compensazione totale o parziale delle spese processuali, il cui regolamento, fuori della ipotesi di violazione del principio di soccombenza per essere stata condannata la parte totalmente vittoriosa, è rimesso, anche per quanto riguarda la loro compensazione, al potere discrezionale del giudice di merita” (Cass. 18173/2008): mentre, nella specie, comunque vi è stato l’addebito solo parziale delle spese del grado;
– che, conclusivamente, il ricorso deve essere respinto;
– che non deve statuirsi sulle spese del giudizio di legittimità, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater, inserito dalla 1. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento, dispone omettersi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 2 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2019