Il reo affetto da malattia mentale sopravvenuta potrà scontare la pena residua anche fuori dal carcere.

Corte Costituzionale 20 febbraio 2019 n. 99
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario
Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS,
Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni
AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
promosso dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, nel procedimento penale a carico di N. M., con
ordinanza del 22 marzo 2018, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 febbraio 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 marzo 2018, la Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con
legge 4 agosto 1955, n. 848, dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella
parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle
ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena».
L’ordinanza di rimessione espone che, nel caso sottoposto al giudice rimettente, un detenuto condannato
per concorso in rapina aggravata aveva fatto ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di
Roma che non aveva accolto la sua richiesta di differimento della pena per grave infermità ai sensi dell’art.
147 del codice penale, in quanto applicabile solo ai casi di grave infermità fisica, mentre nel caso di specie il
detenuto risultava affetto da «grave disturbo misto di personalità, con predominante organizzazione border
line in fase di scompenso psicopatologico», accertato in seguito a gravi comportamenti autolesionistici. Al
momento in cui il Tribunale di sorveglianza si pronunciava, la pena residua da espiare era di sei anni,
quattro mesi e ventuno giorni. L’ordinanza di rimessione riferisce che si tratta di una patologia grave e
radicata nel tempo, per la quale la detenzione determina un trattamento contrario al senso di umanità.
2.– Dopo avere precisato, in via preliminare, che anche la fase del giudizio di legittimità risulta idonea
alla proposizione dell’incidente di costituzionalità, la Corte rimettente conferma il proprio costante
orientamento, fatto proprio anche dal provvedimento del Tribunale di sorveglianza, secondo cui il detenuto
portatore di infermità esclusivamente di tipo psichico sopravvenuta alla condanna non può accedere né agli
istituti del differimento obbligatorio o facoltativo della pena previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen., né alla
detenzione domiciliare cosiddetta “in deroga” di cui alla disposizione censurata, posto che nel testo di tale
disposizione vengono richiamate esclusivamente le condizioni di infermità fisica di cui agli artt. 146 e 147
cod. pen., e non anche quelle relative alla infermità psichica sopravvenuta evocate nel testo dell’art. 148 cod.
pen. Pertanto, solo in presenza di ricadute della patologia psichica sul complessivo assetto funzionale
dell’individuo risulta possibile attivare le garanzie previste dagli artt. 146 e 147 cod. pen.
3.– La Corte rimettente si interroga sull’applicabilità dell’art. 148 cod. pen. o di altre forme alternative
alla detenzione in carcere, per i casi di infermità psichica sopravvenuta alla condanna; in particolare
considera la misura alternativa della detenzione domiciliare “in deroga”.
3.1.– La Corte di cassazione ritiene che «[n]ell’attuale momento storico è da ritenersi che la
disposizione di legge di cui all’art. 148 cod. pen. sia inapplicabile per effetto di abrogazione implicita
derivante dal contenuto degli interventi legislativi succedutisi tra il 2012 e il 2014», che hanno previsto la
chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e che, nel creare le residenze per l’esecuzione delle
misure di sicurezza (REMS), operanti su base regionale, non hanno previsto che esse subentrassero nelle
funzioni accessorie di cui all’art. 148 cod. pen. già svolte dagli OPG, dato che le vigenti disposizioni di
legge indicano le REMS come luoghi di esecuzione delle sole misure di sicurezza (provvisorie o definitive).
Né rileverebbe, in contrario, la previsione dell’art. 16, comma 1, lettera d) [recte: art. 1, comma 16, lettera
d], della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e
all’ordinamento penitenziario), ove si prevede l’assegnazione alle REMS anche dei soggetti portatori di
infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione, in ipotesi di inadeguatezza dei trattamenti praticati in
ambito penitenziario, «trattandosi, per l’appunto, di delega non ancora tradotta in una o più disposizioni
concretamente applicabili».
L’impossibilità di ritenere che le REMS siano succedute nelle funzioni in precedenza svolte dagli OPG
in base all’art. 148 cod. pen. sarebbe del resto confermata dal fatto che il processo di superamento degli
OPG è stato accompagnato dalla realizzazione, all’interno degli istituti penitenziari ordinari, di «apposite
sezioni denominate “articolazioni per la tutela della salute mentale”» e dedicate all’accoglienza dei detenuti
appartenenti a specifiche categorie giuridiche in precedenza ospitati negli OPG per le necessarie cure e
assistenza psichiatriche.
Secondo il giudice rimettente, dunque, il sistema normativo attuale tratterebbe in modo differente il
soggetto portatore di un’infermità psichica tale da escludere la capacità di intendere o di volere al momento
della commissione del fatto – il quale, lì dove si riscontri pericolosità sociale, viene sottoposto al trattamento
riabilitativo presso le REMS, strutture ad esclusiva gestione sanitaria – rispetto al soggetto in esecuzione di
pena portatore di patologia psichica sopravvenuta, che resta detenuto e ove possibile è allocato presso una
delle articolazioni per la tutela della salute mentale poste all’interno del circuito penitenziario. Si tratterebbe
di due categorie soggettive indubbiamente non pienamente assimilabili, ove si consideri il rapporto tra
patologia e imputabilità (si richiama la sentenza n. 111 del 1996); tuttavia, osserva il giudice a quo, «la
condizione vissuta dai secondi è del tutto assimilabile, quantomeno sul piano delle prevalenti necessità
terapeutiche, a quella dei non imputabili». L’assenza di alternative alla detenzione per i condannati affetti da
grave patologia psichica determinerebbe un dubbio di legittimità, sufficiente ad attivare l’incidente di
costituzionalità.
3.2.– La Corte di cassazione afferma che allo stato attuale della normativa non sussistono alternative alla
detenzione carceraria per una persona nelle condizioni in cui versa il ricorrente, e cioè per un soggetto in
esecuzione pena con residuo superiore a quattro anni (o per reato ricompreso nella elencazione di cui all’art.
4-bis ordin. penit.) affetto da patologia psichica sopravvenuta, «stante da un lato la impossibilità di
usufruire, per assenza dei presupposti di accessibilità, della detenzione domiciliare ordinaria (art. 47-ter,
comma 1 ord. pen.), dall’altro la già segnalata impossibilità di accedere, per il criterio della interpretazione
letterale, alla detenzione domiciliare “in deroga” di cui all’art. 47-ter, comma 1 ord. pen.», posto che la
disposizione permette l’applicazione di tale misura nei casi in cui potrebbe essere disposto il rinvio
obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 cod. pen., i quali a loro
volta si riferiscono alla grave infermità fisica e non a quella psichica.
Né sarebbe possibile estendere la detenzione domiciliare “in deroga” di cui alla disposizione censurata
anche alla grave infermità psichica in forza di un’interpretazione conforme a Costituzione dell’attuale
sistema normativo; a ciò osterebbero sia il dato testuale sia l’intenzione del legislatore.
L’assetto normativo attuale, in definitiva, impedirebbe al condannato affetto da grave infermità psichica
sopravvenuta, qualora il residuo di pena sia superiore a quattro anni o si trovi in espiazione per reato
ostativo, di accedere sia all’istituto del differimento della pena (artt. 146 e 147 cod. pen.), sia al ricovero in
OPG di cui all’art. 148 cod. pen., sia alla collocazione nelle REMS, sia alla detenzione domiciliare “in
deroga”. Inoltre, la situazione del detenuto portatore di questo tipo di infermità sarebbe caratterizzata da
aspetti di manifesto regresso trattamentale dato che, da una parte, l’ingresso nelle articolazioni per la salute
mentale non è oggi frutto di una decisione giurisdizionale, come invece era in passato per il collocamento in
OPG, bensì di una decisione dell’amministrazione, la cui discrezionalità tra l’altro è condizionata da fattori
non dominabili quali il sovraffollamento delle strutture; e, dall’altra parte, l’idoneità del trattamento
praticabile all’interno di tali articolazioni non è previamente verificato in sede giurisdizionale da parte della
magistratura di sorveglianza.
In particolare, proprio l’impossibilità di accedere alla misura alternativa della detenzione domiciliare “in
deroga” di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. si porrebbe in contrasto con numerosi principi sia
costituzionali sia convenzionali, sicché si imporrebbe la necessità di rivalutare i contenuti di precedenti
decisioni costituzionali sul tema, in particolare si richiama la sentenza n. 111 del 1996 di questa Corte.
4.– Quanto ai parametri costituzionali interni, la Corte di cassazione denuncia la violazione degli artt. 2,
3, 27 e 32 Cost.
Dalla giurisprudenza costituzionale, infatti, si ricaverebbero alcune linee-guida sul sistema
dell’esecuzione penale il quale, per essere costituzionalmente compatibile, dovrebbe offrire: «a) opportunità
giurisdizionali di verifica in concreto della condizione patologica; b) strumenti giuridici di contemperamento
dei valori coinvolti che siano tali da consentire la sospensione della esecuzione o la modifica migliorativa
delle condizioni del singolo, lì dove le ricadute della patologia finiscano con l’esporre il bene primario della
salute individuale a compromissione, sì da concretizzare – in ipotesi di mantenimento della condizione
detentiva – un trattamento contrario al senso di umanità (art. 27, comma 3 Cost.) o inumano o degradante
(con potenziale violazione dell’art. 3 Convenzione Edu)» (si citano, con ampi richiami testuali, le sentenze
n. 438 del 1995, n. 70 del 1994 e n. 313 del 1990).
Le opportunità di contemperamento dei valori in gioco, e la stessa giurisdizionalità piena
dell’intervento, sarebbero invece compromesse da un assetto normativo come quello attuale, che vede come
unica risposta il mantenimento della condizione detentiva del soggetto affetto da infermità psichica
sopravvenuta e l’affidamento al servizio sanitario reso in ambito penitenziario.
In particolare, anche a fronte della avvenuta constatazione di inadeguatezza di simile trattamento, non
risulterebbe consentita – allo stato – né la sospensione dell’esecuzione, né l’approdo alla detenzione
domiciliare “in deroga” nei casi in cui non risulti applicabile quella ordinaria.
Alla luce dei mutamenti del quadro normativo, pertanto, assumerebbe nuovo significato il monito al
legislatore rivolto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111 del 1996, in cui la Corte, posta di fronte
al dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 148 cod. pen., pur condividendo il «non soddisfacente
trattamento riservato all’infermità psichica grave sopravvenuta, specie quando è incompatibile con l’unico
tipo di struttura custodiale oggi prevista», aveva ritenuto che spettasse al legislatore individuare una
«equilibrata soluzione», tale da garantire anche a quei condannati la cura della salute mentale senza che
fosse eluso il trattamento penale. Negli anni successivi tale invito sembra essere stato accolto dal legislatore
«solo in minima parte» con l’introduzione dell’art. 47-ter, comma 1, lettera c, ordin. penit., disposizione che
tuttavia incontra limiti di applicabilità correlati alla natura del reato e all’entità del residuo di pena, e sarebbe
rimasto comunque «eluso in riferimento alla condizione di quei soggetti affetti da patologia psichica
sopravvenuta, non ammissibili alla detenzione domiciliare ordinaria (per i limiti di applicabilità della
disposizione) né a quella in deroga».
5.– Quanto ai profili di contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 3 CEDU, il
giudice a quo, dopo avere ricordato la giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra ordinamento
interno e ordinamento internazionale, ritiene di dovere sollevare questione di costituzionalità, dato che
«l’unica disposizione interna che potrebbe offrire – in caso di patologia psichica sopravvenuta – l’accesso
alla composizione del conflitto in chiave di tutela delle garanzie fondamentali (art. 47-ter, comma 1-ter,
ordin. penit.) non risulta interpretabile in senso costituzionalmente e convenzionalmente orientato». La
protrazione della detenzione del soggetto affetto da grave infermità psichica sembrerebbe infatti
concretizzare, oltre che un trattamento contrario al senso di umanità, vietato dall’art. 27 Cost., anche una
violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti previsto dall’art. 3 CEDU, in un contesto
normativo come quello italiano che ha di recente elevato (si richiamano gli artt. 35-bis e 35-ter ordin. penit.)
tale divieto a regola fondante del sistema di tutela dei diritti delle persone detenute.
L’ordinanza di rimessione provvede a ricostruire gli orientamenti della giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo attraverso il richiamo puntuale di numerose pronunce, da cui emerge
univocamente che il divieto della tortura o delle pene o di trattamenti inumani o degradanti, di cui all’art. 3
CEDU, ha carattere assoluto. Nella giurisprudenza del giudice europeo tale divieto configurerebbe un
obbligo positivo per lo Stato e non ammetterebbe alcuna deroga, neppure nel caso di pericolo pubblico che
minaccia la vita della nazione. In ogni caso in cui la protrazione del trattamento detentivo, per la particolare
gravità della patologia riscontrata, per la inadeguatezza delle cure prestate o per la assenza delle condizioni
materiali idonee risulti contraria al senso di umanità e rischi di dar luogo a un trattamento degradante,
sarebbe «preciso dovere della autorità giurisdizionale provvedere alla interruzione della carcerazione», posto
che la esecuzione della pena inframuraria sarebbe recessiva rispetto all’obbligo dello Stato di garantire che
le condizioni dei reclusi non si traducano in trattamenti inumani o degradanti. Nella giurisprudenza di
Strasburgo, l’obbligo di interruzione della detenzione non conforme all’art. 3 CEDU sarebbe ancora più
pressante proprio nel delicato settore del diritto alla salute del soggetto recluso. Così, la mancanza di cure
mediche adeguate e, più in generale, la detenzione di una persona malata in condizioni non adeguate,
potrebbe in linea di principio costituire un trattamento contrario all’art. 3 CEDU. In particolare, la Corte di
Strasburgo avrebbe in più occasioni affermato la necessità di fornire adeguata tutela a soggetti reclusi
portatori di accentuata vulnerabilità in quanto affetti da patologia psichica, affermando che anche
l’allocazione in reparto psichiatrico carcerario può dar luogo a trattamento degradante quando le terapie non
risultino appropriate e la detenzione si prolunghi per un periodo di tempo significativo.
6.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile a causa della
pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del condannato, che escluderebbe l’asserito
carattere «a rime obbligate» dell’intervento sollecitato dalla Corte di cassazione (sono citate, in particolare,
l’ordinanza n. 318 e la sentenza n. 279 del 2013).
La questione sarebbe anche infondata sia perché già ora, secondo la giurisprudenza di legittimità,
l’infermità psichica che sfoci in grave infermità fisica rende possibile il differimento della pena e la
detenzione domiciliare “in deroga”, sia perché una infermità psichica che non sfociasse in grave infermità
fisica porrebbe «tematiche, inerenti il relativo accertamento, caratterizzate da indubbie peculiarità, che
escludono la possibilità di una piena equiparazione e legittimano un differente trattamento in sede di
esecuzione della pena». Inoltre, l’attuale sistema delle articolazioni per la salute mentale all’interno del
circuito penitenziario, fondato sull’art. 65 ordin. penit., consentirebbe «un equo bilanciamento tra la
posizione del reo e le esigenze di sicurezza sociale».
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato d’ufficio questione di legittimità
costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non
prevede l’applicazione della detenzione domiciliare “in deroga” anche nell’ipotesi di grave infermità
psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, per contrasto con gli artt. 2, 3, 27, 32 e 117, primo
comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il giudizio principale riguarda un detenuto con pena residua superiore a quattro anni, affetto da una
grave «infermità psichica sopravvenuta» ai sensi dell’art. 148 del codice penale, intendendosi per tale,
secondo la giurisprudenza consolidata, una malattia mentale che, pur cronica o preesistente al reato, non sia
stata considerata influente sulla capacità di intendere e di volere nel corso del giudizio penale dal quale è
scaturita la condanna definitiva, oppure sia stata accertata o sia effettivamente insorta durante la detenzione.
Secondo il giudice a quo, a un detenuto che si trovi nelle condizioni del ricorrente l’assetto normativo
attuale non offrirebbe forme di esecuzione della pena alternative alla detenzione in carcere, ma solo la
possibilità di essere assistito presso una delle «Articolazioni per la tutela della salute mentale»
eventualmente costituite all’interno del circuito penitenziario sulla base dell’art. 65 ordin. penit.
L’impossibilità di disporre il collocamento del detenuto fuori del carcere in un caso come quello di specie
determinerebbe, in riferimento ai parametri costituzionali interni, un trattamento contrario al senso di
umanità e lesivo del diritto inviolabile alla salute del detenuto (artt. 2, 27, terzo comma, e 32 Cost.) e, in
riferimento al parametro convenzionale, un trattamento inumano e degradante (art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 3 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo). Sarebbe inoltre violato anche l’art. 3 Cost. per disparità di trattamento rispetto alla
situazione delle persone portatrici di un’infermità psichica tale da escludere la capacità di intendere o di
volere al momento del fatto, là dove si riscontri pericolosità sociale, per le quali l’ordinamento prevede un
trattamento riabilitativo all’esterno del carcere presso le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza
(REMS). Si ravviserebbe una disparità di trattamento altresì rispetto alle persone condannate con un analogo
residuo di pena, ma affette da grave infermità fisica, le quali possono accedere tanto al rinvio facoltativo
dell’esecuzione della pena di cui all’art. 147 cod. pen., quanto alla detenzione domiciliare di cui alla
disposizione censurata.
2.– Deve preliminarmente essere respinta l’eccezione di inammissibilità formulata dal Presidente del
Consiglio dei ministri, basata sulla asserita mancanza di rimedi a “rime obbligate”, idonei a sanare i vizi di
illegittimità costituzionale prospettati dalla Corte rimettente.
2.1.– Nella giurisprudenza più recente, questa Corte ha ripetutamente affermato che, di fronte alla
violazione di diritti costituzionali, non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di
legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al
rispetto della Costituzione.
Proprio in materia penale, questa Corte ha più volte esaminato nel merito le questioni portate al suo
esame qualora fossero ravvisabili nell’ordinamento soluzioni già esistenti, ancorché non costituzionalmente
obbligate, idonee a «porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato», ferma restando la facoltà del
legislatore di intervenire con scelte diverse (così la sentenza n. 222 del 2018; ma si veda anche,
analogamente, in un ambito vicino a quello qui considerato, la sentenza n. 41 del 2018, nonché la sentenza
n. 236 del 2016). L’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta perciò condizionata non
tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza
nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto
normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (sentenze n. 40 del 2019 e n. 233 del 2018).
Occorre, infatti, evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità
costituzionale specie negli ambiti, come quello penale, in cui è più impellente l’esigenza di assicurare una
tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore. Ciò vale tanto più in un’ipotesi
come quella di cui la Corte è ora chiamata a occuparsi, nella quale viene in rilievo l’effettività delle garanzie
costituzionali di persone che non solo si trovano in uno stato di privazione della libertà personale, ma sono
anche gravemente malate e, dunque, versano in una condizione di duplice vulnerabilità.
2.2.– Nel caso di specie, il giudice rimettente ritiene che l’ordinamento non offra, allo stato,
un’alternativa all’esecuzione della pena in carcere per i detenuti che soffrono di gravi infermità psichiche
sopravvenute alla commissione del reato che si trovino nella situazione del detenuto ricorrente. Ciò, a causa
di una evoluzione dell’ordinamento che ha nei fatti svuotato di ogni contenuto l’art. 148 cod. pen., dedicato
proprio ai casi di «[i]nfermità psichica sopravvenuta al condannato», come recita la rubrica dello stesso. Per
i gravi malati psichici, la reclusione costituirebbe una modalità di esecuzione della pena contraria al senso di
umanità e perciò lesiva degli artt. 2, 27, terzo comma, e 32 Cost., oltre che dell’art. 3 CEDU che vieta i
trattamenti inumani o degradanti e, quindi, dell’art. 117, primo comma, Cost.
La Corte rimettente ha individuato nell’istituto della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma
1-ter, ordin. penit. una risposta già presente nell’ordinamento per i detenuti affetti da gravi infermità fisiche,
la quale, per le modalità con cui può essere articolata, risulta costituzionalmente adeguata e idonea a porre
rimedio alle denunciate violazioni, in quanto permetterebbe anche ai malati psichici di espiare la pena fuori
dal carcere in condizioni che consentano di contemperare le esigenze della tutela della salute con quelle
della sicurezza. Si tratta della detenzione domiciliare “umanitaria” o “in deroga”, così denominata perché
può essere disposta anche nei confronti di detenuti che debbano ancora scontare una pena residua superiore
ai quattro anni (come nel caso di specie), limite previsto dall’art. 47-ter, comma 1, ordin. penit. quale
requisito generale per poter beneficiare, invece, della detenzione domiciliare “ordinaria”.
2.3.– Il giudice rimettente chiede di estendere la detenzione domiciliare “in deroga”, di cui al censurato
art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., anche ai detenuti che soffrono di patologie psichiatriche talmente
gravi da rendere l’espiazione della pena in carcere un trattamento sanzionatorio contrario al senso di
umanità, oltre che lesivo del diritto alla salute; ciò senza che possa essere di ostacolo l’entità della pena
residua da scontare.
Così configurata, alla luce dei principi sopra enunciati, la questione supera il vaglio di ammissibilità.
3.– Nel merito la questione è fondata.
L’ordinanza di rimessione muove dalla premessa che, allo stato attuale, un detenuto affetto da grave
infermità psichica sopravvenuta con un residuo di pena superiore ai quattro anni, come la parte del giudizio
a quo, non avrebbe accesso ad alcuna forma di esecuzione della pena alternativa alla detenzione in carcere.
La ricostruzione dell’assetto normativo vigente compiuta dalla Corte di cassazione è senz’altro da
condividere.
3.1.– È vero innanzitutto che l’art. 148, primo comma, cod. pen., dedicato appunto ai casi di «[i]nfermità
psichica sopravvenuta al condannato», è oggi divenuto inapplicabile, perché superato da riforme legislative
che, pur senza disporne espressamente l’abrogazione, l’hanno completamente svuotato di contenuto
precettivo. La richiamata disposizione codicistica, infatti, prevede che il giudice possa disporre la
sospensione o il differimento della pena e il contestuale ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, in
casa di cura e di custodia ovvero, in determinate ipotesi, in un ospedale psichiatrico civile, nei casi di
infermità psichica sopravvenuta dopo la condanna che siano di gravità tale da impedire l’esecuzione della
pena in carcere.
L’art. 148 cod. pen. riflette un approccio alla malattia mentale tipico dell’epoca in cui fu scritto, basato
sull’internamento. In tale orizzonte culturale, i detenuti malati psichici potevano essere allontanati dal
carcere per le difficoltà che la convivenza con altri detenuti, in un ambiente ristretto, poteva (e può)
generare, con lo scopo di essere reclusi altrove, insieme ad altre persone similmente malate e senza
prospettive di rientro nella vita sociale. Tale disposizione non è mai stata formalmente abrogata, ma tutti gli
istituti a cui essa rinvia sono scomparsi in virtù di riforme legislative che riflettono un cambiamento di
paradigma culturale e scientifico nel trattamento della salute mentale, che può riassumersi nel passaggio
dalla mera custodia alla terapia (ad esempio, in tal senso, il parere del Comitato nazionale per la bioetica,
«Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere», del 22 marzo 2019).
Sulla base delle mutate premesse culturali che orientano la tutela della salute mentale, gli ospedali
psichiatrici civili sono stati chiusi oltre quaranta anni fa dalla nota legge Basaglia (legge 13 maggio 1978, n.
180, recante «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori»). Quanto agli ospedali psichiatrici
giudiziari (OPG) e alle case di cura e custodia, essi hanno dimostrato la loro inidoneità a garantire la salute
mentale di chi ivi era ricoverato (sentenza n. 186 del 2015) e sono perciò stati espunti dall’ordinamento
giuridico a far data dal 31 marzo 2015, a seguito di un lungo itinerario legislativo, avviato dall’art. 5 del
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008 (Modalità e criteri per il trasferimento al
Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle
attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria); proseguito con l’art. 3-ter del
decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva
determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012,
n. 9; continuato con l’art. 1, comma 1, lettera a, del decreto-legge 25 marzo 2013, n. 24 (Disposizioni
urgenti in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 2013, n. 57, e terminato
con l’art. 1 del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli
ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 30 maggio 2014, n. 81.
Conclusosi l’iter normativo, l’effettiva chiusura degli ultimi OPG è avvenuta solo grazie all’opera del
commissario unico nominato dal Governo a tale scopo, che ha perfezionato la definitiva dismissione di tali
istituzioni nel 2017.
Chiusi gli ospedali psichiatrici civili e giudiziari, non può più farsi riferimento all’art. 148 cod. pen.,
vale a dire l’unica disposizione dedicata alla condizione dei detenuti affetti da gravi patologie psichiche
sopravvenute.
3.2.– Nel frattempo, il legislatore ha istituito le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza
(REMS), su base regionale e a esclusiva gestione sanitaria. Tali strutture non sono però destinate ad
accogliere i condannati in cui la malattia psichica si manifesti successivamente. Per queste persone
l’ordinamento non offre alternative al carcere, ove è possibile soltanto che siano istituite apposite «sezioni
speciali» per i soggetti affetti da infermità o minorazioni fisiche o psichiche, secondo quanto disposto
dall’art. 65 ordin. penit.
Il lungo e faticoso processo riformatore che ha dato vita al fondamentale risultato della chiusura degli
OPG non è stato completato con previsioni adeguate alla situazione dei detenuti con gravi malattie psichiche
sopravvenute. È rimasta, infatti incompiuta quella parte della delega disposta dalla legge 23 giugno 2017, n.
103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), relativa ai
detenuti malati psichici, volta a garantire loro adeguati trattamenti terapeutici e riabilitativi anche attraverso
misure alternative alla detenzione, oltre che attraverso la creazione di nuove strutture sanitarie interne al
carcere. L’istituzione delle REMS introdotte dalla riforma non è di rimedio alla lacuna che si è venuta a
creare in seguito alla chiusura degli OPG. Come correttamente osserva la Corte di cassazione rimettente, le
REMS non sono istituzioni volte a sostituire i vecchi ospedali psichiatrici sotto altra veste e denominazione.
Mentre i vecchi OPG erano destinati a ospitare tutti i malati psichiatrici gravi in qualsiasi modo venuti a
contatto con la giurisdizione penale e, dunque, anche i condannati con infermità psichica “sopravvenuta”
alla condanna, al contrario le REMS, così come chiaramente indica la loro stessa denominazione, hanno
come unici destinatari i malati psichiatrici che sono stati ritenuti non imputabili in sede di giudizio penale o
che, condannati per delitto non colposo a una pena diminuita per cagione di infermità psichica, sono stati
sottoposti a una misura di sicurezza (art. 3-ter, comma 2, del d.l. n. 211 del 2011, introdotto dalla legge di
conversione n. 9 del 2012 e successivamente attuato con decreto del Ministro della salute adottato di
concerto con il Ministro della giustizia 1° ottobre 2012, recante «Requisiti strutturali, tecnologici e
organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di
sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia»).
Il chiaro dettato normativo attualmente vigente non può essere integrato in via interpretativa neppure
considerando quel passaggio della citata legge di delega nel quale ambiguamente si prevede la «destinazione
alle REMS prioritariamente dei soggetti per i quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al
momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale, nonché dei soggetti
per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a
misure di sicurezza provvisorie e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche,
qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i
trattamenti terapeutico-riabilitativi» (art. 1, comma 16, lettera d, della legge n. 103 del 2017). Si tratta infatti
di una delle previsioni della delega a cui non è stata data attuazione.
3.3.– Rimasto incompiuto il complesso disegno riformatore, oggi il tessuto normativo presenta serie
carenze che gravano, tra l’altro, proprio sulla condizione dei detenuti affetti da infermità psichica
sopravvenuta, i quali non hanno accesso né alle REMS né ad altre misure alternative al carcere, qualora
abbiano un residuo di pena superiore a quattro anni, come il detenuto ricorrente.
I detenuti che si trovino in condizioni simili a quelle della parte nel giudizio a quo non possono avere
accesso alla detenzione domiciliare “ordinaria” di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettera c, ordin. penit.,
prevista per tutti i detenuti con una pena residua inferiore a quattro anni e che siano gravemente malati,
indipendentemente dal tipo di patologia – fisica o psichica – di cui soffrono.
Neppure può essere loro applicato l’istituto del rinvio obbligatorio della esecuzione della pena di cui
all’art. 146, primo comma, numero 3), cod. pen., perché la grave patologia psichica non integra il
presupposto ivi previsto della malattia grave, in fase così avanzata da essere refrattaria alle terapie.
Inoltre, i malati psichici non possono nemmeno beneficiare del rinvio facoltativo dell’esecuzione della
pena di cui all’art. 147, primo comma, numero 2), cod. pen., perché questa previsione riguarda solo i casi di
«grave infermità fisica».
Quest’ultima disposizione non lascia margini per una diversa interpretazione, tale da renderla
applicabile anche al detenuto che soffra di una patologia psichica. Ostano a tale interpretazione tanto il dato
testuale, quanto l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale le sole
patologie psichiatriche che possono consentire al giudice di disporre il rinvio facoltativo dell’esecuzione
della pena sono quelle da cui discendono anche gravi ricadute di tipo fisico (tra le numerosissime pronunce
in questo senso Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 11 maggio-30 agosto 2016, n. 35826 e
28 gennaio-16 settembre 2015, n. 37615).
In breve, poiché il rinvio obbligatorio o facoltativo di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen. riguarda solo le
persone affette da grave infermità fisica, come si è visto poco sopra, ne consegue che i malati psichici non
possono giovarsi neppure della detenzione domiciliare “umanitaria” o “in deroga”, di cui al censurato art.
47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., che a tali disposizioni rinvia nel definire il suo ambito di applicazione.
4.– La mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per i detenuti affetti da grave malattia psichica
sopravvenuta viola i principi costituzionali invocati nell’ordinanza di rimessione.
4.1.– La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di
ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi
come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è
tenuto ad apprestare un identico grado di tutela (tra le molte, sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n.
251 del 2008, n. 359 del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167 del 1999), anche con adeguati mezzi per garantirne
l’effettività.
Occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi
proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i
detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una
vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale.
Come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (tra le altre, Corte
EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e Corte
EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105), in taluni casi
mantenere in condizione di detenzione una persona affetta da grave malattia mentale assurge a vero e
proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell’art. 3 CEDU, ovvero a trattamento contrario
al senso di umanità, secondo le espressioni usate dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana.
4.2.– Se è vero che la tutela della salute mentale dei detenuti richiede interventi complessi e integrati,
che muovano anzitutto da un potenziamento delle strutture sanitarie in carcere, è vero altresì che occorre che
l’ordinamento preveda anche percorsi terapeutici esterni, almeno per i casi di accertata incompatibilità con
l’ambiente carcerario. Per questi casi gravi, l’ordinamento deve prevedere misure alternative alla detenzione
carceraria, che il giudice possa disporre caso per caso, momento per momento, modulando il percorso
penitenziario tenendo conto e della tutela della salute dei malati psichici e della pericolosità del condannato,
di modo che non siano sacrificate le esigenze della sicurezza collettiva.
Per le ragioni sopra esposte, questa Corte ritiene in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt.
2, 3, 27, terzo comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l’assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce
al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di
tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza
talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo a un supplemento di pena
contrario al senso di umanità.
4.3.– Questa Corte, con una sentenza risalente, preso atto dell’insoddisfacente trattamento riservato
all’infermità psichica grave, sopravvenuta alla condanna, ha richiamato il legislatore a «trovare una
equilibrata soluzione» che garantisca ai condannati affetti da patologie psichiche «la cura della salute
mentale – tutelata dall’art. 32 della Costituzione – senza che sia eluso il trattamento penale» (sentenza n. 111
del 1996). A distanza di tanti anni, tale richiamo è rimasto inascoltato.
Pur consapevole che incombe sul legislatore il dovere di portare a termine nel modo migliore la già
avviata riforma dell’ordinamento penitenziario nell’ambito della salute mentale, con la previsione di
apposite strutture interne ed esterne al carcere, questa Corte non può esimersi dall’intervenire per rimediare
alla violazione dei principi costituzionali denunciata dal giudice rimettente, di modo che sia da subito
ripristinato un adeguato bilanciamento tra le esigenze della sicurezza della collettività e la necessità di
garantire il diritto alla salute dei detenuti (art. 32 Cost.) e di assicurare che nessun condannato sia mai
costretto a scontare la pena in condizioni contrarie al senso di umanità (art. 27, terzo comma, Cost.), meno
che mai un detenuto malato.
Pertanto, deve essere accolta la questione di legittimità costituzionale prospettata dal giudice rimettente
e dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., nella parte in cui non
consente che la detenzione domiciliare “umanitaria” sia disposta anche nelle ipotesi di grave infermità
psichica sopravvenuta.
5.– La misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria” o “in deroga”, individuata dal
giudice rimettente si presta, allo stato attuale, a colmare le carenze sopra individuate.
L’istituto della detenzione domiciliare è una misura che può essere modellata dal giudice in modo tale
da salvaguardare il fondamentale diritto alla salute del detenuto, qualora esso sia incompatibile con la
permanenza in carcere e, contemporaneamente, le esigenze di difesa della collettività che deve essere
protetta dalla potenziale pericolosità di chi è affetto da alcuni tipi di patologia psichiatrica.
5.1.– Introdotta dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario
e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), la detenzione domiciliare è stata nel corso
del tempo ampliata quanto all’ambito di applicazione e parzialmente ridisegnata nelle sue finalità, tanto da
interventi del legislatore quanto da pronunce di questa Corte. Essa risponde sempre, tuttavia, secondo la
giurisprudenza costituzionale, a una «logica unitaria e indivisibile» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del
2009).
Per quanto qui rileva, questa Corte ha riconosciuto che la detenzione domiciliare costituisce «“non una
misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione o, se si vuole, una modalità di
esecuzione della pena”», sottolineando come essa sia sempre accompagnata da «prescrizioni limitative della
libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (ordinanza n.
327 del 1989). Per questo motivo, tra l’altro, essa differisce completamente dalla semplice scarcerazione del
detenuto che consegue al rinvio dell’esecuzione della pena disposto sulla base degli artt. 146 e 147 cod. pen.
Il dato normativo, in effetti, non lascia alcun dubbio in proposito.
L’art. 47-ter, comma 4, ordin. penit. prevede che il «tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione
domiciliare, ne fissa le modalità secondo quanto stabilito dall’articolo 284 del codice di procedura penale»,
il quale a sua volta statuisce che, con «il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il giudice
prescrive all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero
da un luogo pubblico di cura o di assistenza ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta» (comma 1).
Pertanto, la detenzione domiciliare non significa riduttivamente un ritorno a casa o tanto meno un
ritorno alla libertà; certamente essa comporta l’uscita dal carcere, ma è pur sempre accompagnata da severe
limitazioni della libertà personale, dato che il giudice, nel disporla, stabilisce le condizioni e le modalità di
svolgimento e individua il luogo di detenzione, che può essere anche diverso dalla propria abitazione, se più
adeguato a contemperare le esigenze di tutela della salute del malato, quella della sicurezza e quelle della
persona offesa dal reato (art. 284, comma 1-bis, cod. proc. pen.). Di fondamentale rilievo è la possibilità che
la detenzione domiciliare possa svolgersi, oltre che «nella propria abitazione o in altro luogo di privata
dimora», anche in «luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza», come prevede l’art. 284 cod. proc.
pen. e come ribadisce anche il comma 1 del medesimo art. 47-ter ordin. penit.
Inoltre, occorre sottolineare che il detenuto in regime di detenzione domiciliare non si può allontanare
dal luogo a cui è assegnato, salvo specifiche autorizzazioni da parte del giudice (art. 284, comma 3, cod.
proc. pen.), il quale può anche imporgli limiti o divieti alla facoltà di comunicare con persone diverse da
quelle che con lui coabitano o che lo assistono (art. 284, comma 2, cod. proc. pen.). In ogni caso, il pubblico
ministero o la polizia giudiziaria, anche di propria iniziativa, possono controllare in ogni momento
l’osservanza delle prescrizioni imposte (art. 284, comma 4, cod. proc. pen.). L’art. 47-ter, comma 4, ordin.
penit. aggiunge poi che il tribunale di sorveglianza «[d]etermina e impartisce altresì le disposizioni per gli
interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di
sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare».
5.2.– L’introduzione nell’ordinamento penitenziario della disposizione relativa alla detenzione
domiciliare “umanitaria” o “in deroga” di cui al censurato art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. si deve alla
più recente legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla
legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni).
Tale disposizione stabilisce che quando «potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo
della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale», il tribunale di sorveglianza,
anche se la pena supera il limite di quattro anni di cui all’art. 47-ter, comma 1, ordin. penit., «può disporre la
applicazione della detenzione domiciliare». Come si è detto, in virtù dei richiami agli artt. 146 e 147 cod.
pen., la detenzione domiciliare “in deroga” è oggi preclusa ai malati psichici.
Questa Corte ha già esplicitato che la ragione che ha spinto il legislatore a introdurre la detenzione
domiciliare “in deroga” è offrire una «alternativa rispetto al differimento dell’esecuzione della pena», «nella
prospettiva di creare uno strumento intermedio e più duttile tra il mantenimento della detenzione in carcere e
la piena liberazione del condannato (conseguente al rinvio): permettendo così di tener conto della eventuale
pericolosità sociale residua di quest’ultimo e della connessa necessità di contemperamento delle istanze di
tutela del condannato medesimo con quelle di salvaguardia della sicurezza pubblica» (ordinanza n. 255 del
2005).
Anche la giurisprudenza di legittimità sottolinea che la norma sulla detenzione domiciliare “in deroga”,
della cui legittimità costituzionale ora si discute, persegue proprio «la finalità di colmare una lacuna della
previgente normativa», che «imponeva un’alternativa secca tra carcerazione e libertà senza vincoli», da un
lato, obbedendo «all’esigenza di effettività dell’espiazione della pena e del necessario controllo cui vanno
sottoposti i soggetti pericolosi» e, dall’altro, mirando a una esecuzione della pena «mediante forme
compatibili con il senso di umanità» (così, tra le molte, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza
5 aprile-16 settembre 2016, n. 38680).
5.3.– In definitiva, la detenzione domiciliare è uno strumento capace di offrire sollievo ai malati più
gravi, per i quali la permanenza in carcere provoca un tale livello di sofferenza da ferire il senso di umanità;
al tempo stesso, essa può essere configurata in modo variabile, con un dosaggio ponderato delle limitazioni,
degli obblighi e delle autorizzazioni secondo le esigenze del caso: grazie a una attenta individuazione del
luogo di detenzione, possono perseguirsi finalità terapeutiche e di protezione, senza trascurare le esigenze
dei suoi familiari e assicurando, al tempo stesso, la sicurezza della collettività.
La varietà dei quadri clinici e delle condizioni sociali e familiari dei detenuti affetti da malattie
psichiche esige da parte del giudice un’attenta valutazione caso per caso e momento per momento della
singola situazione. A lui spetterà verificare, anche in base alle strutture e ai servizi di cura offerti all’interno
del carcere, alle esigenze di salvaguardia degli altri detenuti e di tutto il personale che opera negli istituti
penitenziari, se il condannato affetto da grave malattia psichica sia in condizioni di rimanere in carcere o
debba essere destinato a un luogo esterno, ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., fermo restando
che ciò non può accadere se il giudice ritiene prevalenti, nel singolo caso, le esigenze della sicurezza
pubblica.
In conclusione, è opportuno sottolineare che, anche alla luce della più recente giurisprudenza di
legittimità, la detenzione domiciliare “umanitaria” offre al giudice una possibilità da attivare quando le
condizioni lo consentano, sulla base di una complessiva valutazione a cui non può rimanere estraneo «il
giudizio di pericolosità ostativa a trattamenti extra-murari, opportunamente rinnovato e attualizzato in
parallelo alla evoluzione della condizione sanitaria e personale del detenuto» (Corte di cassazione, sezione
prima penale, sentenza 28 novembre 2018-4 marzo 2019, n. 9410).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di
sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai
limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 aprile 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA