In caso di pensionamento dell’obbligato e di cessazione del divario dei redditi tra le parti, l’assegno di divorzio viene meno

Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2019, n. 6386
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2688/2017 proposto da:
M.M.E., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli avvocati De Nittis Donata, Angioni Nicola, giusta procura in calce al ricorso e sull’atto di costituzione;
– ricorrente –
contro
A.P., elettivamente domiciliato in Roma, Via di San Basilio n. 61, presso lo Studio Proff.ri Avvocati Di Giovanni-Picozza, rappresentato e difeso dagli avvocati Di Giovanni Pietro Maria, Mulazzani Luca, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 08/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/2018 dal cons. IOFRIDA GIULIA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Angioni Nicola che ha chiesto l’accoglimento;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato Di Giovanni Pietro Maria che ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Bologna, con decreto n. 224/2016, pronunciato in un giudizio promosso, ex art. 9, L.div., da A.P. nei confronti di M.M.E., al fine di sentire disporre la cessazione dell’obbligo del medesimo di corresponsione all’ex coniuge di un assegno divorzile nella misura di iniziali Euro 700,00 mensili, rivalutati al 2015, in circa Euro 880,00 mensili, per effetto dell’intervenuto pensionamento del ricorrente, ha accolto il reclamo proposto dall’ A. avverso il decreto del Tribunale di Rimini, che aveva soltanto ridotto l’assegno divorzile ad Euro 580 mensili, con decorrenza dalla domanda, ferma la rivalutazione monetaria.
La Corte territoriale ha, invece, disposto la cessazione, dalla domanda, dell’obbligo dell’ A. di corresponsione alla M. dell’assegno divorzile, attesa la sua natura e funzione, non perequativa, come l’assegno di mantenimento in sede di separazione, ma assistenziale, essendo esso diretto “a conservare tendenzialmente al coniuge, da sé incapace, il tenore di vita effettivo o potenziale, dell’epoca della convivenza”. La Corte d’appello ha, quindi, dato rilevo, da un lato, alla dimostrata riduzione della situazione reddituale dell’obbligato, passato da un reddito “da lavoro pari ad Euro 52.000,00/53.400,00” a quello attuale, da pensione, pari a circa Euro 2.900,00 netti mensili, essendo rimaste mere allegazioni della M. “la titolarità in capo a A.P. di tre pensioni, di cui due dello Stato italiano e una della Repubblica di San Marino, la titolarità di un patrimonio immobiliare “ingente” per successione dalla deceduta madre; la compartecipazione ai costi per la costruzione dell’attuale abitazione coniugale”, essendo stata dimostrata l’alienazione di altro immobile, in comproprietà dell’ A. con la di lui sorella, nonché “avendo formato oggetto di specifica e documentata contestazione” la titolarità di quota di società anonima per azioni di San Marino, cosicché il tenore di vita del medesimo (evidenziato attraverso il possesso di autovetture di pregio, viaggi di piacere, etc…) si spiegava con la capacità di spesa e di risparmio dedotti dall’ A., e, dall’altro lato, al fatto che la M. risultava, invece, percepire, per gli anni dal 2012 al 2015, un reddito netto mensile “nell’ordine, di circa Euro 3.320, 3374, 2742 e 2659”.
Avverso il suddetto decreto, M.M.E. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti di A.P. (che resiste con controricorso).
Con ordinanza interlocutoria del 13/04/2018 della Sesta Sezione di questa Corte, il procedimento è stato rinviato alla pubblica udienza in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite della Corte sulla questione relativa ai presupposti dell’assegno divorzile. Entrambe le parti hanno depositato memorie, ma in data 10/12/2018, fuori del termine di legge.
Motivi della decisione
1. La ricorrente lamenta,: 1) con il primo motivo, sia l’omesso esame, exart. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo oggetto di discussione, rappresentato dalla situazione reddituale e patrimoniale dell’ A. (inclusa la sua partecipazione “a società anonime”) e dalle mutate condizioni di reddito della M. (che aveva visto venir meno il reddito da locazione di due immobili), sia la nullità della sentenza, exart. 360 c.p.c., n. 4, per motivazione apparente e/o inesistente; 2) con il secondo motivo, sia la violazione exart. 360 c.p.c., n. 3,dell’art. 116 c.p.c., sia l’omesso esame, exart. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo rappresentato dalla mancata produzione, da parte dell’ A., delle dichiarazioni dei redditi relative all’anno 2015 ovvero l’anno del pensionamento del medesimo; 3) con il terzo motivo, la violazione, exart. 360 c.p.c., n. 3,dell’art. 2909 c.c., in relazione al giudicato sostanziale formatosi con la sentenza n. 1056/2006 della Corte d’appello di Bologna, avendo, nella decisione qui impugnata, la Corte territoriale preso in considerazione non tanto circostanze sopravvenute, quanto situazioni che erano già state considerate nella decisione del 2006, quali il patrimonio immobiliare acquistato dalla M. con la successione ereditaria, resa nel procedimento volto alla determinazione dell’assegno dovuto all’esito della pronuncia di cessazione degli effetti civile del matrimonio, il patrimonio mobiliare dell’ A.; 4) con il quarto motivo, la falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. “5”, dell’art. 9, L.div., per erronea applicazione dei parametri su cui fondare la richiesta di modifica dell’assegno divorzile, non avendo la Corte d’appello operato la necessaria verifica in ordine all’eventuale maturata “indipendenza” dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno, ed omessa valutazione delle circostanze di fatto esistenti, quali ad es. il miglioramento della situazione personale economica dell’ A., conseguente alla creazione di un nuovo nucleo familiare, con persona agiata e benestante ed autonoma economicamente; come considerazione riassuntiva, la ricorrente denuncia il “radicale stravolgimento delle norme e dei principi di diritto, con sostanziale denegata giustizia”.
2. Preliminarmente, va respinta l’istanza della ricorrente di rimessione in termini in relazione al deposito tardivo della memoria, exart. 378 c.p.c..
La memoria risulta invero spedita, a mezzo posta, il 4 dicembre 2018, ma è pervenuta in cancelleria il 10/12/2018, oltre il termine di legge. Ora, va ribadito chel’art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5, a norma del quale il deposito del ricorso e del controricorso, nei casi in cui sono spediti a mezzo posta, si ha per avvenuto nel giorno della spedizione, non è applicabile per analogia al deposito della memoria, poiché quest’ultimo termine è diretto esclusivamente ad assicurare al giudice ed alle altre parti la possibilità di prendere cognizione dell’atto con il congruo anticipo, rispetto all’udienza di discussione, ritenuto necessario dal legislatore (Cass.7704/2016; Cass. 19988/2017, con specifico riguardo all’inoperatività del c.d. processo telematico per il giudizio di legittimità).
3. Tanto premesso, la prima censura è infondata.
Anzitutto, la sentenza non risulta affetta da vizio di motivazione del tutto illogica ed incoerente. Questa Corte, a Sezioni Unite, ha di recente chiarito (SS.UU. 22232 del 03/11/2016) che “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (nella specie la S.C. ha ritenuto tale una motivazione caratterizzata da considerazioni affatto incongrue rispetto alle questioni prospettate, utilizzabili, al più, come materiale di base per altre successive argomentazioni, invece mancate, idonee a sorreggere la decisione)”.
Nella fattispecie de qua, invero, la Corte d’appello. ha espresso, in modo sintetico ma comunque esaustivo, le ragioni giuridiche poste a fondamento della propria decisione, non potendo conseguentemente prospettarsi, sotto tale profilo, alcun vizio comportante la nullità della pronuncia medesima.
Né risulta sussistere il vizio di omesso esame, exart. 360 c.p.c., n. 5, di fatti storici decisivi.
Occorre premettere che la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (così, da ultimo, Cass. 4 luglio 2017, n. 16467) e dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 2 agosto 2016, n. 16056; Cass. 21 luglio 2010, n. 17097).
Ora, il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento, con la conseguenza che la denunzia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa (Cass. 25756/2014; Cass.19150/2016; Cass. 16812/2018).
Nella specie, da un lato, la Corte d’appello ha valutato la circostanza relativa alla partecipazione dell’ A. in società anonime, ritenendola non dimostrata, a fronte di “specifica e documentata contestazione”, mentre, quanto alla incidenza dell’allegato peggioramento delle condizioni di reddito della M. (che aveva visto venir meno il reddito da locazione di due immobili), la doglianza difetta di specificità, non spiegando le ragioni per le quali tale dato, asseritamente non vagliato dal giudice di merito, avrebbe avuto valore decisivo.
4. Anche la seconda censura è infondata.
Quanto al vizio di violazione di legge.L’art. 116 c.p.c., prescrive che il giudice deve valutare le prove secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti. La sua violazione è concepibile solo se il giudice di merito valuta una determinata prova, ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria, ovvero se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando detta norma (cfr. Cass. 8082/2017; Cass. 13960 /2014; Cass., 20119/ 2009).
La doglianza invece tende solo a sollecitare una rivalutazione dei documenti prodotti, esaminati dal giudice di merito.
Questa Corte ha poi osservato (Cass. 13592/2006; Cass. 18196/2015; Cass.) che “le dichiarazioni dei redditi dell’obbligato hanno una funzione tipicamente fiscale, sicché nelle controversie relative a rapporti estranei al sistema tributario (nella specie, concernenti l’attribuzione o la quantificazione dell’assegno di mantenimento) non hanno valore vincolante per il giudice, il quale, nella sua valutazione discrezionale, può fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie” (in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto insindacabile la valutazione del giudice della separazione personale tra coniugi, il cui convincimento si era fondato, ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento, sull’alto tenore di vita ed il rilevante potere di acquisto dimostrato dal coniuge onerato).
Neppure ricorre il vizio motivazionale, nei limiti dell’attuale formulazionedell’art. 360 c.p.c., n. 5.
5. Il terzo motivo è, del pari, infondato.
Invero, in riferimento al giudicato formatosi sulle condizioni economiche del divorzio, questa Corte ha osservato che, “ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.9, (così come modificato dallaL. n. 436 del 1978,art.2, e dallaL. n. 74 del 1987,art.13), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile” (Cass. 2953/2017; Cass. 17320/2005).
Ora, nella specie, la Corte d’appello ha ritenuto che fossero intervenute le sopravvenienze legittimanti la revisione delle condizioni economiche tra gli ex coniugi, per effetto del sopravvenuto pensionamento dell’ A., il che risulta conforme al disposto normativo.
6. Anche il quarto motivo è infondato.
Viene censurato, al di là della rubrica (ove si fa riferimento ad un vizio exart. 360 c.p.c., n. 5), un vizio di violazione dell’art. 9 L.div..
Ora, questa Corte, a Sezioni Unite, con la recente sentenza n. 18287/2018, ha chiarito, con riferimento ai dati normativi già esistenti, che: 1) “il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto”; 2) “all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”; 3) “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”.
La Corte d’appello ha ritenuto integrati i presupposti per la cessazione dell’obbligo dell’ A. di corrispondere un assegno, avente natura essenzialmente assistenziale, di mantenimento all’ex coniuge M., essendo sopravvenuta una riduzione della capacità reddituale del coniuge obbligato, conseguente al suo pensionamento (Cass. 8754/2011; Cass. 17030/2014), e risultando la M. del tutto autosufficiente economicamente, in quanto titolare di reddito medio di Euro 3.000,00 mensili, con eliminazione del divario che in passato aveva giustificato l’attribuzione alla stessa dell’assegno divorzile.
Ora, in relazione all’ulteriore funzione dell’assegno perequativo-compensativa, quale enucleata dalle Sezioni Unite nel recente arresto, nel motivo di ricorso la ricorrente nulla deduce ed allega, in merito alla necessità di “raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, diritto”; 2) “all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”; 3) “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”.
La Corte d’appello ha ritenuto integrati i presupposti per la cessazione dell’obbligo dell’ A. di corrispondere un assegno, avente natura essenzialmente assistenziale, di mantenimento all’ex coniuge M., essendo sopravvenuta una riduzione della capacità reddituale del coniuge obbligato, conseguente al suo pensionamento (Cass. 8754/2011; Cass. 17030/2014), e risultando la M. del tutto autosufficiente economicamente, in quanto titolare di reddito medio di Euro 3.000,00 mensili, con eliminazione del divario che in passato aveva giustificato l’attribuzione alla stessa dell’assegno divorzile.
Ora, in relazione all’ulteriore funzione dell’assegno perequativo-compensativa, quale enucleata dalle Sezioni Unite nel recente arresto, nel motivo di ricorso la ricorrente nulla deduce ed allega, in merito alla necessità di “raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”, non essendo spiegato neppure quale sia stata il contributo dato alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale dell’ex coniuge.
7. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese del presente giudizio di legittimità, in considerazione del recente intervento delle Sezioni Unite nella materia, vanno integralmente compensate tra le parti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO E DIVORZIO

Di Gianfranco Dosi
I La ratio dell’articolo 12-bis della legge sul divorzio
L’articolo 12-bis della legge sul divorzio (legge 1° dicembre 1970, n. 898) inserito dall’articolo 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74, prevede che “il coniuge nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non pas¬sato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza”. “Tale percentuale – chiarisce poi il secondo comma – è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
Mentre non sono comprensibili i motivi della fissazione al 40% della percentuale di trattamento di fine rapporto (e non ad altre percentuali), è condivisa l’opinione secondo cui il legislatore ha inse¬rito questa disposizione a titolo di riconoscimento solidaristico all’ex coniuge di una entità econo¬mica maturata nel corso del rapporto di lavoro durante il matrimonio e che al coniuge percipiente viene corrisposta al termine dell’attività lavorativa.
Alla base della disposizione normativa si rinvengono sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che la disposizione stessa presuppone la spettanza dell’assegno divorzile, sia, soprattutto, criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune. La finalità è quella di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato. Invero, se l’indennità di fine rapporto di lavoro corrisponde ad una quota del trattamento economico maturata in costanza del matrimonio, è logico che il coniuge, il quale durante il matrimonio abbia contribuito alla formazione di tale trattamento, sia legittimato a fruirne per una quota parte.
Questi spunti ricostruttivi della ratio della norma compaiono in tutte le principali decisioni di legit¬timità in argomento (Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 marzo 2018, n. 7239; Cass. Civ. Sez. VI, I, 2 22 maggio 2017, n. 12882; Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 settembre 2016, n. 17883; Cass. civ. Sez. I, 7 marzo 2006, n. 4867; Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2005, n. 28874; Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 2005, n. 19046; Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2005, n. 285; Cass., sez. I, 25 giugno 2003, n. 10075).
Poiché profili solidaristici sono anche presenti nel corso del matrimonio e nella vita da separati, ci si potrebbe legittimamente chiedere come mai il diritto ad una quota percentuale del trattamento di fine rapporto non sia stato previsto dal legislatore anche per il corso della vita matrimoniale e per il periodo della separazione. L’unica risposta ragionevole è che il legislatore ha voluto salva¬guardare l’ex coniuge non percipiente nel momento di maggior disagio economico coincidente con la condizione di divorziato (collegando strettamente, appunto, il diritto alla quota di TFR al diritto all’assegno divorzile) mentre per la vita matrimoniale anche da separati già esistono nel diritto di famiglia forme di compartecipazione di un coniuge ai redditi dell’altro (il diritto all’assistenza materiale, i regimi patrimoniali, la comunione de residuo, l’assegno di separazione, la possibilità di richiedere la modifica delle condizioni economiche della separazione).
II La domanda di divorzio come momento a partire dal quale sorge il diritto alla quota di indennità di fine rapporto percepito dall’altro coniuge
Strettamente collegato all’individuazione della ratio della disposizione è il problema dell’interpre¬tazione del testo della norma nella parte in cui e, come si è sopra visto, prevede espressamente che il diritto di un coniuge alla percentuale di TFR percepito dall’altro coniuge è riconosciuto “anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza”. Ci si è chiesti quale sia il significato di questa disposizione.
All’indomani della riforma del 1987 che introdusse nella legge sul divorzio l’articolo 12-bis due decisioni della Cassazione sostennero – dando una interpretazione letterale – che “il diritto di un coniuge ad una quota del trattamento di fine rapporto lavorativo percepito dall’altro coniuge, può essere attribuito pure nel caso in cui l’indennità sia maturata “prima di detta sentenza”, senza altro limite che non fosse quello della maturazione in un momento anteriore all’entrata in vigore della legge n.74 del 1987 ” (Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1995 n. 7249; Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1993 n 6047).
Fu una successiva sentenza a precisare meglio questo orientamento chiarendo che “Il dispo¬sto dell’articolo 12-bis della legge sul divorzio – nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze, il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge “anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio” – va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l’indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare dopo la proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio – in tal senso dovendosi intendere l’espressione “anche prima della sentenza di divorzio” e non anche quando essa sia maturata e sia stata percepita in data anteriore alla domanda di divorzio, eventualmente in pendenza del precedente giudizio di separazione” (Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 1999, n. 5553).
Nella motivazione della sentenza – che si occupava di una vicenda in cui l’indennità attribuita era stata percepita in pendenza del giudizio di separazione – si affermava autorevolmente che tutte le disposizioni di carattere patrimoniale, non esclusa quella di cui all’art. 12-bis, contenute nella legge sul divorzio sono dirette a regolare i rapporti fra gli ex coniugi per il periodo successivo allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, prendendo in considerazione la situazione esistente al momento della pronuncia di divorzio. Per il periodo di separazione operano le disposizioni contenute nell’articolo 156 del codice civile, nonché, in caso di successione, quelle di cui all’articolo 548, mentre, per il periodo di costanza di matrimonio, i rapporti sono regolati dalle disposizioni che regolano il regime del rapporto di coniugio. Tra i coniugi separati, giudizialmente o consensualmente, nonché tra i coniugi prima della pronuncia di separazione, operano rispetti¬vamente, quindi, i regimi patrimoniali propri di tali istituti, che non prevedono in alcun modo la partecipazione diretta di un coniuge all’indennità di fine rapporto percepito dall’altro. Gli incre¬menti patrimoniali, realizzati in precedenza, in tanto rilevano in quanto sussistano al momento della pronuncia: ciò, del resto, trova applicazione in tema di scioglimento della comunione legale – ove su questa base sia regolato il regime patrimoniale della famiglia – parlandosi in proposito di comunione de residuo.
Si deve considerare – si legge nella sentenza – che il tribunale, in base all’articolo 4, comma 10, della legge sul divorzio, può disporre che l’obbligo di corrispondere l’assegno produca effetti fin dal momento della domanda. Il legislatore della riforma del 1987 ha previsto, quindi, una pos¬sibile anticipazione degli effetti del divorzio al momento della domanda, con riguardo agli effetti patrimoniali. Ciò consente di interpretare l’articolo 12-bis nel senso che il diritto alla quota del TFR (trattamento di fine rapporto) sorge anche se l’indennità matura prima della sentenza di divorzio, ma la maturazione deve avvenire in un momento in cui tale sentenza può produrre i suoi effetti e cioè quanto meno dal momento della proposizione della domanda, con la conseguenza che se l’indennità è maturata anteriormente a tale momento, la stessa non dà diritto ad alcuna quota, perché vengono in rilievo i diversi principi che regolano i rapporti economici tra coniugi.
A questa decisione si è conformata da allora tutta la giurisprudenza successiva (Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 marzo 2018, n. 7239; Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14129; Cass. civ. Sez. I, 23 ottobre 2001, n. 12995; Cass. civ. Sez. I, 18 marzo 2003, n. 3962; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2003, n. 19309; Cass. civ. Sez. I, 18 dicembre 2003, n. 19427; Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2004, n. 14459; Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 2005, n. 19046; Cass. civ. Sez. I, 10 novembre 2006, n. 24057; Cass. civ. Sez. I, 16 dicembre 2010, n. 25520; Cass. civ. Sez. I, 06/06/2011, n. 12175).
L’interpretazione è stata fatta propria anche da tutta la giurisprudenza di merito (Tribunale Ge¬nova Sez. IV, 25 agosto 2017; Corte d’Appello Lecce, 19 ottobre 2015; Tribunale Bari, 28 luglio 2014; App. Roma, 5 ottobre 2011, Trib. Ivrea, 6 maggio 2010; Trib. Cassino, 19 febbraio 2010; Trib. Roma, Sez. I, 20 febbraio 2009; Trib. Novara, 8 ottobre 2008; App. Roma, 9 aprile 2008; Trib. Monza, Sez. IV, 16 ottobre 2007; Trib. Monza, Sez. IV, 8 maggio 2007; App. Napoli, Sez. I, 27 febbraio 2007; Trib. Perugia, 13 febbraio 2007; Trib. Monza, Sez. IV, 1 dicembre 2005; App. Napoli, 22 dicembre 2003; Trib. Napoli, 17 febbraio 2003).
La costituzionalità dell’articolo 12-bis della legge sul divorzio è stata confermata dalla Corte Costitu¬zionale fin da subito (Corte cost., 24 gennaio 1991, n. 23 dichiarò infondato il dubbio di illegit¬timità costituzionale della disposizione nella parte in cui attribuisce al divorziato una percentuale in misura fissa dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, rapportandola alla durata legale del matrimonio) mentre altre successive pronun¬ce hanno più volte dichiarato inammissibili identiche questioni di costituzionalità sollevate (Corte cost. 1 luglio 1993, n. 300; Corte cost. 26 maggio 1994, n. 199; Corte cost. 23 dicembre 1997, n. 437; Corte cost. 19 novembre 2002, n. 463).
III Che si intende per “indennità di fine rapporto”?
a) La tesi restrittiva della giurisprudenza
Secondo la tesi restrittiva seguita dalla giurisprudenza meno recente la quota di indennità di fine rapporto spettante, ai sensi della normativa sul divorzio, al coniuge titolare di assegno divorzile e non passato a nuove nozze, riguarderebbe unicamente quell’indennità comunque denominata, che, maturando alla cessazione del rapporto lavorativo, è determinata in proporzione alla durata del rapporto stesso ed all’entità della retribuzione corrisposta: non spetterebbe pertanto al coniu¬ge divorziato una parte di altri eventuali importi erogati, in occasione del venir meno del rapporto lavorativo, all’ex coniuge ad altro titolo come per esempio l’incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza (Cass. civ. Sez. I, 17 aprile 1997, n. 3294).
Quindi l’indennità di fine rapporto comprende, secondo questo primo orientamento, tutti i tratta¬menti di fine rapporto – derivanti sia da lavoro subordinato, sia da lavoro parasubordinato – co¬munque denominati, che siano configurabili come quota differita della retribuzione, condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2003, n. 19309). Si deve aver riguardo, quindi, a quella parte della retribuzione, destinata al sostegno del nucleo durante la convivenza dei coniugi, percepita in forma differita e non può pertanto estendersi ad istituti di diversa natura, preminentemente previdenziale ed assi¬curativa, aventi origine in regimi professionali di natura privata, come l’indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai (Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2003, n. 5720).
Pertanto, il diritto alla quota della indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, previsto dall’art. 12 bis della l. n. 898 del 1970 a favore del coniuge divorziato che sia titolare di assegno e che non sia passato a nuove nozze, sussiste con riferimento agli emolumenti collegati alla ces¬sazione di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che si correlino al lavoro dell’ex coniuge (Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 settembre 2016, n. 17883 che, in relazione all’indennità spettante all’agente generale di un’agenzia di assicurazioni, ha ritenuto che tale diritto spetta uni¬camente ove l’attività dell’agente si risolva in una prestazione di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale e non sia svolta attraverso una struttura organizzata, anche a livello embrionale, con ampi margini di autonomia, riguardo alla scelta dei tempi e dei modi di esercizio, e con assunzione di rischio a proprio carico).
b) I dubbi sull’inclusione dell’incentivo all’esodo nell’espressione “indennità di fine rapporto”
Nel 2013 due sentenze della Sezione Tributaria della Cassazione hanno ritenuto che le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente (cosiddetti incentivi all’esodo) non hanno natura liberale né eccezionale, ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sol¬lecitare e rimunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto (Cass. civ. Sez. V, 31 maggio 2013, n. 13777 e Cass. civ. Sez. V, 24 luglio 2013, n. 17986 secondo cui la causa di siffatte prestazioni, pertanto, presupponendo una pattuizione, esclude che dette somme possano essere esentate dall’imposta, quali “sussidi occasionali” che, a differenza degli incentivi programmati, sono concessi estempora¬neamente e graziosamente, in coincidenza con rilevanti esigenze personali e familiari del lavorato¬re; tali somme, pertanto, saranno assoggettate alla tassazione separata di cui all’art. 16, comma primo, lettera a), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non rientrando nell’esenzione di cui all’art. 48, comma secondo, del medesimo D.P.R.).
A seguito di queste precisazioni Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 luglio 2016, n. 14171 ha chiarito – richiamando le due precedenti sentenze della sezione tributaria – che in caso di divorzio, sono assoggettate alla disciplina di cui all’art. 12 bis della legge sul divorzio le somme corrisposte dal datore di lavoro come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente (cosiddetti incentivi all’e¬sodo), atteso che dette somme non hanno natura liberale né eccezionale ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto.
Di contrario avviso, però, è stata una successiva sentenza del Tribunale di Milano secondo cui il diritto dell’ex coniuge a una quota del TFR percepito dall’altro, ai sensi dell’art. 12-bis della legge sul divorzio, non compete con riguardo a quelle somme che siano erogate a titolo di incentivo all’esodo (Tribunale Milano, 18 maggio 2017 dove si afferma che l’incentivo all’esodo ha natura sostanzialmente risarcitoria: erogato nell’ambito di una trattativa tra lavoratore e datore di lavoro finalizzata allo scioglimento del rapporto di lavoro, che mira a sostituire mancati guadagni futuri e che a differenza del TFR, non è costituito da somme accantonate durante il pregresso periodo lavorativo “coincidente con il matrimonio”, bensì va a sostituire un (mancato) reddito lavorativo futuro, ed al momento della sua erogazione in alcun modo è “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
IV Il concetto di durata del matrimonio nell’art. 12-bis della legge sul divorzio
Si è detto che l’articolo 12-bis della legge sul divorzio prevede al secondo comma che l’indennità a cui ha diritto l’ex coniuge titolare di assegno non passato a nuove nozze è pari al quaranta per cen¬to dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro “è coinciso con il matrimonio”.
Con questa espressione si intende la “durata legale” del matrimonio (dalle nozze al giudicato sullo status).
Su questo aspetto la giurisprudenza non ha mai avuto dubbi ed ha sempre sostenuto che ai sensi dell’articolo 12-bis della legge sul divorzio ai fini della determinazione della quota dell’indennità di fine rapporto spettante all’ex coniuge, il legislatore si è ancorato ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile quale la durata legale del matrimonio, anziché ad un elemento incerto e precario come la cessazione della convivenza, la quale non implica in modo automatico il totale venire meno della comunione di vita tra i coniugi, escludendo, pertanto, anche qualsiasi rilevanza della convivenza di fatto che abbia preceduto le nuove nozze del coniuge divorziato titolare del trattamento di fine rapporto (Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2012, n. 1348; Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2012, n. 1348; Cass. civ. Sez. I, 7 marzo 2006, n. 4867; Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2007, n. 15299; implicitamente anche Cass. civ. Sez. I, 3 settembre 1997, n. 8477).
Un’altra decisione (Cass., sez. I, 25 giugno 2003, n. 10075) ha richiamato l’attenzione sulla circostanza che nella concreta disciplina delle misure in favore del coniuge più debole previste dalla legge sul divorzio la durata del matrimonio costituisce parametro di rilievo centrale e corri¬sponde ad un criterio generale inteso non solo ad assicurare la certezza dei rapporti, ma anche, e soprattutto, a valorizzare la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio, anco¬rando il periodo di riferimento ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza.
In senso analogo anche la giurisprudenza di merito. Per esempio App. Catania, 17 maggio 2005 secondo cui la quota di TFR è rapportabile non agli anni di effettiva convivenza, bensì alla durata legale del rapporto matrimoniale in quanto il rapporto matrimoniale, non viene meno con la cessa¬zione della convivenza e con l’instaurarsi dello stato di separazione di fatto o legale, ma permane fino alla cessazione degli effetti civili.
V Che significa che l’ex coniuge deve essere titolare dell’assegno divorzile?
La formula usata dal legislatore nell’art. 12-bis, è analoga a quella usata dall’articolo 9, il quale subordina il diritto alla pensione di reversibilità, ovvero ad una quota di essa, alla circostanza che il coniuge superstite divorziato sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5 della medesima legge, cioè “all’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale”.
Ne discende, per ragioni d’ordine logico-sistematico (non potendosi dare, nell’ambito del me¬desimo testo legislativo e senza alcuna ragione, una diversa interpretazione a norme di uguale tenore), che il sorgere del diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto non presuppone la mera titolarità in astratto di un assegno di divorzio (cioè la possibilità di beneficiarne) e neppure la per¬cezione, in concreto, di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, ma presuppone che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 citato ovvero successivamente quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione (Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2008, n. 21002).
Analogamente Trib. Milano Sez. X, 22 luglio 2011 che ha precisato che il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto da parte del’ex coniuge presuppone che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio. L’orientamento era stato già precisato da Trib. Milano Sez. IX 18 giugno 2009 secondo cui il sorgere del diritto del coniuge divorziato a percepire una quota dell’indennità di fine rapporto non presuppone la mera debenza in astratto di un assegno divorzile ma presuppone che l’indennità di fine rapporto sia percepita dopo che una sentenza abbia liquida¬to un assegno ex articolo 5 della n. 898/70 ovvero dopo la proposizione del giudizio nel quale sia stato successivamente liquidato l’assegno di divorzio. L’orientamento è del tutto ragionevole anche se bisogna osservare che la disposizione di cui all’ar¬ticolo 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263 (“Le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 9 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, si interpretano nel senso che per titolarità dell’assegno ai sensi dell’articolo 5 deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’as¬segno medesimo da parte del tribunale ai sensi del predetto articolo 5 della citata legge n. 898 del 1970”) sono state espressamente – e incomprensibilmente – previste solo per la norma sulla pensione di reversibilità (appunto l’articolo 9 della legge sul divorzio) e non anche per l’articolo 12-bis della medesima legge. Evidentemente il legislatore ha ritenuto di doversi più preoccupare del carico per il sistema previdenziale pensionistico del dubbio interpretativo che in giurisprudenza si era creato sul significato dell’espressione contenuta nell’articolo 9.
VI Quando è esigibile la quota di indennità di fine rapporto?
Ancorché il diritto all’attribuzione sorga dopo la domanda di divorzio esso sarà esigibile solo dopo la decisione passata in giudicato sull’assegno, essendo l’assegno divorzile il presupposto per l’at¬tribuzione (Cass. civ. Sez. I, 6 giugno 2011, n. 12175).
Pertanto il diritto riconosciuto dall’articolo 12-bis della legge sul divorzio e diretto ad ottenere la quota dell’indennità di fine rapporto diviene attuale e, dunque, azionabile in giudizio, nel momento in cui sorge per l’ex coniuge, con la cessazione del rapporto di lavoro, il diritto al relativo trattamento, sempre che il richiedente sia, allora, titolare di assegno di divorzio e non sia passato a nuove nozze (App. Roma, 17 dicembre 2008).
Secondo Trib. Milano, 19 marzo 2014 è inammissibile la domanda di riconoscimento del diritto alla quota di tale indennità prima che l’altro coniuge abbia maturato, con la cessazione del rappor¬to di lavoro, il diritto alla relativa percezione.
Molto opportunamente è stato anche detto, quindi, che la sussistenza delle condizioni previste dal¬la legge va verificata al momento in cui matura per l’altro ex coniuge il diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto stesso, con la conseguenza che il diritto ad una quota di esso non sorge, ad esempio, a favore dell’ex coniuge passato a nuove nozze o che non sia più titolare di assegno di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 10 febbraio 2004, n. 2466).
VII Come avviene il computo dell’indennità dovuta?
La giurisprudenza non ha mi preso posizione sul tema del perché il legislatore abbia fissato al 40% (e non ad una diversa quota) la percentuale dell’indennità di fine rapporto alla quale ha diritto l’ex coniuge titolare di assegno divorzile e non passato a nuove nozze.
Viceversa una decisione della Cassazione ha chiarito molto bene in che modo deve avvenire il cal¬colo della quota di indennità dovuta all’ex coniuge (Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2007, n. 15299).
La base su cui calcolare la percentuale ex art.12-bis primo comma della legge n.898 del 1970 è costituita dall’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. Ne deriva, in base al coordinamento tra il primo ed il secondo comma dell’ar¬ticolo citato, che l’indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40 per cento, (percentuale pre¬vista dal comma 2), dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro coincise con il rapporto matrimoniale; risultato che si ottiene dividendo l’indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltipli¬cando il risultato per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40 per cento su tale importo.
VIII Il problema se la quota di indennità possa essere richiesta nel giudizio di divorzio
Alla domanda se la quota dell’indennità di fine rapporto possa essere chiesta nel giudizio di di¬vorzio la giurisprudenza ha risposto in modo incerto, ma la giurisprudenza più recente appare largamente favorevole.
In passato la giurisprudenza si era dichiarata contraria al cumulo facendo notare che il presupposto per l’attribuzione della quota di fine rapporto è costituito dal giudicato sull’assegno divorzile e che quindi la condanna dovrebbe essere una specie di condanna condizionata al giudicato (Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 secondo cui non vi sarebbe spazio per una sentenza di condan¬na condizionata prima che l’altro coniuge abbia maturato, con la cessazione del rapporto di lavoro, il diritto alla relativa percezione, atteso che la titolarità in concreto dell’assegno post-matrimoniale e il mancato passaggio a nuove nozze rappresentano, non semplici condizioni di erogabilità del benefi¬cio in relazione ad un diritto già sorto, ma veri e propri elementi costitutivi, l’uno in positivo e l’altro in negativo, del diritto alla detta percentuale, i quali devono sussistere e vanno accertati allorché, con la cessazione del rapporto di lavoro dell’”ex” coniuge, quel diritto si attualizza).
Si era anche in precedenza dichiarata contraria Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719 ritenendo inammissibile, per difetto di interesse, nell’ambito del giudizio di divorzio la domanda proposta da un coniuge contro l’altro diretta a ottenere una pronuncia – di mero accertamento – dichiarativa dell’esistenza e della titolarità del diritto a una quota dell’indennità di fine rapporto allorché questi cesserà la propria attività lavorativa, atteso che in caso di azione di accertamento l’interesse ad agire sussiste unicamente qualora vi sia l’esigenza di rimuovere una oggettiva e pre¬giudizievole situazione di incertezza dipendente da atti o fatti concreti e non da mere supposizioni.
Più di recente si sono, invece, pronunciate in senso favorevole Cass. civ. Sez. I, 14 novembre 2008, n. 27233 e Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5654 in quanto l’evidente connessione tra la domanda di attribuzione di una quota di TFR, fondata sull’ articolo 12-bis della legge sul divorzio e la domanda di assegno divorzile, il cui riconoscimento condiziona l’accoglimento della prima domanda, giustifica la proposizione di questa nell’ambito del procedimento di divorzio, risul¬tando contrario al principio di economia processuale esigere che, nel caso di liquidazione dell’in¬dennità di fine rapporto durante detto procedimento, la domanda di attribuzione di una sua quota sia proposta attraverso l’instaurazione di un giudizio separato tra le medesime parti; pertanto, diventando il relativo diritto attuale, quindi azionabile, nel momento in cui, cessato il rapporto di lavoro dell’ex coniuge, questi percepisce detta indennità, deve considerarsi ammissibile la doman¬da anche nel corso della causa di divorzio.
Analogamente ha deciso il tribunale di Milano (Trib. Milano Sez. IX, 2 febbraio 2010).
Il cumulo tra domanda per l’attribuzione del TFR e domanda sull’assegno è stato anche ammesso nel procedimento di revisione delle condizioni di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3924).
IX È possibile per l’ex coniuge agire direttamente nei confronti del terzo erogatore dell’indennità?
A questa domanda il tribunale di Torino ha dato risposta positiva sostenendo che “se è pur vero che l’articolo 12-bis non prevede espressamente, per l’adempimento in executivis dell’obbligo di corri-spondere la quota d’indennità di fine rapporto, le stesse opportunità concesse all’avente diritto, a determinate condizioni, nei confronti dei terzi debitori dell’obbligato, per l’adempimento degli oneri relativi al mantenimento dei figli (articolo 148, co. 2, c.c.), al mantenimento ed agli alimenti per il coniuge separato (articolo 156, co. 6, c.c.), all’assegno di divorzio ed al contributo per il manteni¬mento dei figli in regime di divorzio dei genitori è pur vero che l’azione diretta nei confronti dell’ex datore di lavoro del ex coniuge, che peraltro non è esclusa dalla lettera dell’art. 12-bis, risponde alla ratio della legge sul divorzio volta a tutelare il coniuge più debole” (Trib. Torino Sez. lavoro, 29 ottobre 2009).
D’altro lato la stessa Corte costituzionale (Corte cost. 6 luglio 2001, n. 237) dopo aver dichia¬rato non fondato – in riferimento all’articolo 3 della Costituzione – il dubbio di illegittimità costitu¬zionale dell’articolo 12-bis nella parte in cui non prevede che il coniuge, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di divorzio, possa ottenere direttamente dal datore di lavoro dell’ex coniuge la quota dell’indennità di fine rapporto prevista nella stessa disposizione, ha poi espressamente dichiarato la manifesta infondatezza della medesima questione sostenendo che “da un lato, le concrete modalità di attribuzione della provvidenza economica non sono coperte dalla garanzia costituzionale e rappresentano una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore; e dall’altro, il giudice rimettente, non sussistendo allo stato un diritto vivente in argomento, ben avrebbe potuto fornire una lettura diversa della norma impugnata”.
Quindi la Corte costituzionale lascia intravedere una opzione interpretativa che consentirebbe uno spazio di azione esecutiva nei confronti direttamente del terzo erogatore della indennità.
X Che succede se il coniuge percettore dell’indennità ha goduto di anticipazioni del TFR?
L’articolo 2120 del codice civile (modificato dalla legge 29 maggio 1982, n. 297) consente al la¬voratore a certe condizioni, tipicamente individuate, di chiedere e ottenere anticipazioni del TFR fino al 70% del trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del lavoro al momento della richiesta.
Ove queste anticipazioni siano state godute è evidente che l’indennità che verrà percepita alla cessazione del lavoro sarà inferiore a quella spettante ove le anticipazioni non vi fossero state.
Ebbene, l’articolo 12-bis della legge sul divorzio non prende in considerazione questa ipotesi (no¬nostante che sia stato inserito nella legge sul divorzio nel 1987 e quindi dopo le modifiche intro¬dotte all’articolo 2120 del codice civile) ma parla di “indennità percepita all’atto della cessazione del rapporto di lavoro” lasciando intendere che il diritto dell’ex coniuge possa essere preteso nei confronti dell’indennità “percepita” effettivamente e non quella che “sarebbe stata percepita” ove non vi fossero state le anticipazioni.
Favorevole a questa soluzione è la giurisprudenza.
Così per esempio Cass. civ. Sez. VI, 29 ottobre 2013, n. 24421 e Cass. civ. Sez. I, 18 dicembre 2003, n. 19427 hanno affermato che deve essere cassata la pronuncia del giudice del merito che, ai fini della quantificazione di tale quota, abbiano preso in considerazione l’intera indennità percepita, senza dare alcun rilievo al momento in cui erano state versate varie antici¬pazioni, atteso che l’anticipo, una volta accordato dal datore di lavoro e riscosso dal lavoratore, entra nel suo patrimonio e non può essere revocato, così determinandosi la definitiva acquisizione del relativo diritto. Analogamente ha deciso App. Napoli, 27 luglio 2004 affermando che la percentuale dell’inden¬nità va computata non sull’indennità totale percepita, ma sulla sola porzione di essa maturata a seguito degli specifici accantonamenti realizzati durante il matrimonio, con esclusione quindi della parte accantonata dopo la sentenza di divorzio.
XI L’articolo 12-bis della legge sul divorzio si applica anche in caso di morte del coniuge lavoratore?
È pacifica in giurisprudenza l’applicabilità dell’articolo 12-bis della legge sul divorzio anche in caso di morte dell’ex coniuge lavoratore.
Ai sensi dell’art. 12 bis legge divorzio, l’ex-coniuge titolare di assegno ai sensi dell’art. 5 legge cit. ha diritto, se non passato a nuove nozze, a una percentuale dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge, non rilevando che la stessa maturi per morte di questi o per altra causa (Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 2000, n. 12426; Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2005, n. 285) e quindi “a seguito della morte del divorziato che abbia contratto un nuovo matrimonio, l’ex coniuge (titolare dell’assegno divorzile) ha diritto, in concorso con il coniuge superstite, non solo ad una quota della pensione di reversibilità, ma anche a una quota della indennità di fine rapporto” (Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2000, n. 1222; Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2008, n. 23880).
XII Che succede se l’ex coniuge utilizza il TFR per la previdenza integrativa?
La normativa previdenziale complementare introdotta in Italia nel 1993 (decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124) prevedeva la possibilità di erogazione di prestazioni pensionistiche ulteriori e complementari rispetto al sistema obbligatorio pubblico, mediante l’istituzione di Fondi pensione gestiti da enti appositi e finanziati da contributi volontari di natura previdenziale versati al fondo dagli iscritti i quali potevano anche dirottare nel Fondo, tutto o parte del loro TFR.
Per i dipendenti privati il sistema della previdenza complementare ha avuto poi una fortunata rifor¬ma con la legge 243/2004 e con il successivo decreto legislativo 252/2005 che dal 2007 prevede che i lavoratori devono scegliere se far confluire tutto il loro TFR maturando, nel fondo pensione complementare (con scelta irrevocabile) o lasciarlo in azienda (con scelta sempre revocabile) per l’acquisizione del trattamento di fine rapporto con le modalità tradizionali.
In relazione a questo meccanismo ci si deve chiedere se l’accantonamento del TFR in un fondo pensione possa successivamente all’attribuzione pensionistica o al momento dell’eventuale riscat¬to determinare per l’ex coniuge il diritto ad una percentuale di tale trattamento (ex art. 12-bis legge divorzio), posto che quel trattamento è stato realizzato anche con accantonamenti del TFR.
A questa domanda ha dato risposta affermativa una recente giurisprudenza.
In particolare Cass. Civ. Sez. VI, I, 22 maggio 2017, n. 12882 dopo aver premesso che il di¬ritto all’attribuzione di una quota della indennità di fine rapporto che sia stata percepita dall’altro coniuge, previsto nell’art. 12-bis della legge sul divorzio a favore del coniuge divorziato che sia titolare di assegno e che non sia passato a nuove nozze, sussiste con riferimento agli emolumenti collegati alla cessazione di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che si correlino al lavoro dell’ex coniuge, ha precisato che le quote di fondi previdenziali derivanti dall’accantonamento di parte della retribuzione non sarebbero assimilabili a prestazioni corrisposte in dipendenza di un contratto di assicurazione sulla vita o di capitalizzazione, e non sono quindi qualificabili, neppure in via analogica, come redditi di capitale (e qui la sentenza richiama i principi analoghi già affermati da Cass. civ. Sez. V, 2 aprile 2007, n. 8200 e Cass. civ. Sez. V, 24 febbraio 2010, n. 4425) ma, “in quanto destinate, secondo le intenzioni, ad essere corrisposte dopo la cessazione del rapporto di lavoro, trovano in quest’ultimo la loro fonte giustificatrice, ed essendo volte a compensare la perdita di redditi futuri hanno natura di retribuzione differita e funzione previdenziale, tale da giustificare l’applicazione in via analogica del regime fiscale previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 16, 18 e 48, per il T.F.R. e le altre indennità ad esso equiparabili”.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 marzo 2018, n. 7239 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’espressione, contenuta nella L. 10 dicembre 1970, n. 898, art. 12-bis, secondo cui il coniuge ha diritto alla quota del trattamento di fine rapporto anche se questo “viene a maturare dopo la sentenza” implica che tale diritto deve ritenersi attribuibile anche ove il trattamento di fine rapporto sia maturato prima della sentenza di divorzio, ma dopo la proposizione della relativa domanda, quando invero ancora non possono esservi soggetti titolari dell’assegno divorzile, divenendo essi tali dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio ovvero di quella, ancora successiva, che lo abbia liquidato; infatti, poichè la “ratio” della norma è quella di correlare il diritto alla quota di indennità, non ancora percepita dal coniuge cui essa spetti, all’assegno divorzile, che in astratto sorge, ove spettante, contestualmente alla domanda di divorzio, ancorchè di regola venga costituito e divenga esigibile solo con il passaggio in giudicato della sentenza che lo liquidi, ne derivi che, indipendentemente dalla decorrenza dell’assegno di divorzio, ove l’indennità sia percepita dall’avente diritto dopo la domanda di divorzio, al definitivo riconoscimento giudiziario della concreta spettanza dell’assegno è riconnessa l’attribuzione del diritto alla quota di T.F.R. (Nel caso di specie la Corte d’appello ha correttamente applicato la norma, l’art. 12-bis, oggetto di censura, avendo individuato nella data di cessazione del rapporto di lavoro, a seguito di licen¬ziamento, quella nella quale è sorto il diritto del D.Q. al TFR ed avendo negato, conformemente all’orientamento di codesta Corte sopra richiamato, il diritto per l’odierna ricorrente a riceverne una quota, quale ex coniuge, essendo stato proposto il ricorso per la cessazione degli effetti civili del matrimonio in un arco cronologico suc¬cessivo alla maturazione del diritto dl TRF in capo al marito).
L’art. 12-bis della l. n. 898 del 1970 – nella parte in cui stabilisce, in favore del coniuge titolare dell’assegno divorzile, il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, “anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza”, deve essere interpretato nel senso che tale diritto può sorgere anche prima della sentenza di divorzio, ma dopo la proposizione della relativa domanda, coerentemente con la natura costi¬tutiva della sentenza sullo “status” e con la possibilità, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 898 del 1970, di stabilire la retroattività degli effetti patrimoniali della sentenza a partire dalla data della domanda.
Tribunale Genova Sez. IV, 25 agosto 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione di cui all’art. 12 bis della legge n. 898 del 1970 (Divorzio), nella parte in cui attribuisce al coniu¬ge, non passato a nuove nozze, cui sia stato riconosciuto l’assegno divorzile, il diritto ad una quota dell’inden¬nità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza, deve essere interpretata nel senso che il diritto alla quota sorge quando l’indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio e, quindi, anche prima della sentenza di divorzio, ma non già prima della domanda.
Cass. Civ. Sez. VI, I, 22 maggio 2017, n. 12882 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’attribuzione di una quota della indennità di fine rapporto che sia stata percepita dall’altro coniuge, che è previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, a favore del coniuge divorziato che sia titolare di assegno e che non sia passato a nuove nozze, sussiste con riferimento agli emolumenti collegati alla cessazione di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che si correlino al lavoro dell’ex coniuge. In materia di quote di fondi previdenziali derivanti dall’accantonamento di parte della retribuzione vanno anche ricordate le sentenze (Cass. civ. sez. 5, n. 4425 del 24 febbraio 2010 e Cass. civ. sez. 5, n. 8200 del 2 aprile 2007) secondo cui “le quote del Fondo di previdenza aziendale dell’Isveimer corrisposte agli iscritti, ai sensi del D.L. 24 settembre 1996, n. 497, art. 4, convertito in L. 19 novembre 1996, n. 588, a seguito della messa in liquidazione del pre¬detto ente, non sono assimilabili a prestazioni corrisposte in dipendenza di un contratto di assicurazione sulla vita o di capitalizzazione, e non sono quindi qualificabili, neppure in via analogica, come redditi di capitale” e, “in quanto destinate, secondo le intenzioni, ad essere corrisposte dopo la cessazione del rapporto di lavoro, trovano in quest’ultimo la loro fonte giustificatrice, ed essendo volte a compensare la perdita di redditi futuri hanno natu¬ra di retribuzione differita e funzione previdenziale, tale da giustificare l’applicazione in via analogica del regime fiscale previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 16, 18 e 48, per il T.F.R. e le altre indennità ad esso equiparabili”.
Tribunale Milano, 18 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto dell’ex coniuge a una quota del TFR dell’ex congiunto, ai sensi dell’art. 12-bis della L. n. 898/1970, non compete con riguardo a quelle somme che siano erogate a titolo di incentivo all’esodo. Questo istituto, infatti, ha natura sostanzialmente risarcitoria: erogato nell’ambito di una trattativa tra lavoratore e datore di lavoro finalizzata allo scioglimento del rapporto di lavoro, mira a sostituire mancati guadagni futuri (lucro cessante). A differenza del TFR, dunque, l’incentivo all’esodo non è costituito da somme accantonate durante il pregresso periodo lavorativo “coincidente con il matrimonio”, bensì va a sostituire un (mancato) reddito lavorativo futuro, ed al momento della sua erogazione in alcun modo è “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 settembre 2016, n. 17883 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto ad una quota della indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, previsto dall’art. 12 bis della l. n. 898 del 1970 a favore del coniuge divorziato che sia titolare di assegno e che non sia passato a nuove nozze, sussiste con riferimento agli emolumenti collegati alla cessazione di un rapporto di lavoro subordinato o parasu¬bordinato che si correlino al lavoro dell’ex coniuge, sicché, nel caso di indennità spettante all’agente generale di un’agenzia di assicurazioni, tale diritto spetta unicamente ove l’attività dell’agente si risolva in una prestazione di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale e non sia svolta attraverso una struttura orga¬nizzata, anche a livello embrionale, con ampi margini di autonomia, riguardo alla scelta dei tempi e dei modi di esercizio, e con assunzione di rischio a proprio carico.
La legge n. 898 del 1970, art. 12 bis, nel riconoscere al coniuge divorziato titolare di assegno che non sia pas¬sato a nuove nozze il diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, mira a realizzare una forma di partecipazione, sia pure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finchè il matrimonio è durato, ovvero ad imporre la ripartizio¬ne tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, in tal modo soddisfacendo esigenze di natura non solo assistenziale (evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’assegno di divorzio), ma anche compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico fornito dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune: si è pertanto escluso che con la locuzione inden¬nità di fine rapporto il legislatore abbia inteso riferirsi specificamente all’istituto previsto dallo art. 2120 c.c., per i lavoratori subordinati privati, osservandosi che la norma in esame non menziona neppure il rapporto di lavoro subordinato, e concludendosi che essa rinvia ad una nozione più generica, comprensiva anche degli emolumenti collegati alla cessazione di rapporti di lavoro parasubordinato, tra i quali va inclusa l’indennità dovuta in caso di risoluzione del rapporto di agenzia (cfr. Cass., Sez. 130 dicembre 2005, n. 28874).
Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 luglio 2016, n. 14171 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di divorzio, sono assoggettate alla disciplina di cui all’art. 12 bis della l. n. 898 del 1970 le somme cor-risposte dal datore di lavoro come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente (cd. incentivi all’esodo), atteso che dette somme non hanno natura liberale né eccezionale ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto.
Le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come incentivo alle di¬missioni anticipate del dipendente (cosiddetti “incentivi all’esodo”) non hanno natura liberale né eccezionale, ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto. (Nel caso di specie, nessuna specifica ragione era stata addotta dal ricorrente a sostegno del ricorso se non quella di non aver ritenuto fondata la sua tesi interpretativa secondo cui il contributo all’acquisto dell’immobile in favore dell’ex moglie e dei figli avrebbe dovuto esentarlo dal versare la quota di pertinenza dell’ex coniuge dell’incentivo all’esodo percepito dal datore di lavoro).
Corte d’Appello Lecce, 19 ottobre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione, l’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970, attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile, che non sia passato a nuove nozze, il diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto dell’altro coniuge. Per la liquidazione di tale quota occorre avere riguardo a quanto percepito da quest’ultimo, per detta causale, solo dopo l’instaurazione del giudizio divorzile, escludendosi, quindi, eventuali somme riscosse durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale.
Tribunale Bari, 28 luglio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di diritto della (ex) moglie a una quota del trattamento di fine rapporto del (l’ex) marito, ai sensi dell’art. 12-bis della legge n. 898/1970, il diritto alla quota del TFR viene costituito e diviene esigibile solo con il passaggio in giudicato della sentenza che liquidi l’assegno di divorzio; da ciò consegue, quindi, che, anche in¬dipendentemente dalla decorrenza dell’assegno di divorzio, ove l’indennità sia percepita dall’avente diritto dopo la domanda di divorzio, l’attribuzione del diritto alla quota di T.F.R. dovrà pur sempre essere subordinata al defi¬nitivo riconoscimento giudiziario della concreta spettanza dell’assegno. Detto in altri termini, l’art. 12-bis citato condiziona il diritto alla percentuale del trattamento di fine rapporto in questione al diritto all’assegno di divorzio e quindi, prima che tale diritto sia accertato con sentenza passata in giudicato, la domanda di attribuzione di detta percentuale non può essere accolta.
Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14129 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di divorzio, l’art. 12 bis della legge 10 dicembre 1970, n. 898 – secondo il quale il coniuge nei cui con¬fronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno divorzile, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza – va interpretato nel senso che il diritto alla predetta quota sorge anche se l’indennità spettante all’altro coniuge sia maturata nel corso della procedura di divorzio.
Trib. Milano, 19 marzo 2014 (Famiglia e Diritto, 2014, 7, 710)
In tema di conseguenze patrimoniali dello scioglimento del matrimonio, con riferimento alla percentuale dell’in¬dennità di fine rapporto, di cui all’art. 12 bis legge divorzio, è inammissibile la domanda di riconoscimento del diritto alla quota di tale indennità prima che l’altro coniuge abbia maturato, con la cessazione del rapporto di lavoro, il diritto alla relativa percezione.
Cass. civ. Sez. VI, 29 ottobre 2013, n. 24421 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 12 bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898, laddove attribuisce al coniuge titolare dell’assegno di cui al precedente art. 5, che non sia passato a nuove nozze, il diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto dell’altro coniuge, va interpretato nel senso che per la liquidazione di tale quota occorre avere riguardo a quanto percepito da quest’ultimo, per detta causale, dopo l’instaurazione del giudizio divorzile, escludendosi, quindi, eventuali anticipazioni riscosse durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale, essendo le stes¬se definitivamente entrate nell’esclusiva disponibilità dell’avente diritto.
La quota del trattamento di fine rapporto dell’altro coniuge, riconosciuta dall’art. 12 bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898, a quello titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze, deve liquidarsi sulla base di quanto dal primo riscosso, per tale causale, al netto delle imposte, altrimenti trovandosi lo stesso a doverla corrispondere in relazione ad un importo da lui non percepito siccome gravato dal carico fiscale.
Cass. civ. Sez. V, 24 luglio 2013, n. 17986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come incentivo alle di¬missioni anticipate del dipendente (cosiddetti incentivi all’esodo) non hanno natura liberale né eccezionale, ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sollecitare e rimunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto. La cau¬sa di siffatte prestazioni, pertanto, presupponendo una pattuizione, esclude che dette somme possano essere esentate dall’imposta, quali “sussidi occasionali” che, a differenza degli incentivi programmati, sono concessi estemporaneamente e graziosamente, in coincidenza con rilevanti esigenze personali e familiari del lavoratore. Tali somme, pertanto, saranno assoggettate alla tassazione separata di cui all’art. 16, comma primo, lettera a), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non rientrando nell’esenzione di cui all’art. 48, comma secondo, del medesimo d.P.R.
Cass. civ. Sez. V, 31 maggio 2013, n. 13777 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di IRPEF le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente, costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo prede¬terminate al fine di rimunerare il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto, in funzione del ristoro di un lucro cessante; le stesse sono assoggettate alla tassazione separata alla stregua delle “altre inden¬nità e somme” di cui all’art. 16, primo comma, lettera a), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo “ratione temporis” vigente), percepite “una tantum” in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro; inoltre, ai sensi del successivo art. 17, secondo comma, l’aliquota applicabile alla base imponibile, determinata unicamente in relazione all’ammontare netto delle dette indennità, è sempre quella calcolata in sede di tassazione del trat¬tamento di fine rapporto, a prescindere dalla circostanza che le stesse siano erogate dal datore di lavoro oppure da soggetti diversi da quest’ultimo. (Cassa con rinvio, Comm. Trib. Reg. Venezia, 15/03/2006)
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5654 (Famiglia e Diritto, 2012, 12, 1114 nota di NUNIN)
L’evidente connessione tra la domanda di attribuzione di una quota del trattamento di fine rapporto e quella di assegno divorzile giustifica la proposizione della prima nell’ambito del procedimento di divorzio, risultando contrario al principio di economia processuale esigere che, nel caso di liquidazione dell’indennità, la domanda di attribuzione della quota debba proporsi mediante un giudizio autonomo tra le stesse parti.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda di revisione dell’assegno di divorzio e quella riconvenzionale di riconoscimento di una quota di t.f.r. sono oggettivamente connesse ai sensi dell’art. 36 cod. proc. civ., perché il diritto all’assegno, di cui si discute nel giudizio di revisione, è il presupposto di entrambe, non rilevando, inoltre, se il diritto alla quota del t.f.r. maturi successivamente alla sentenza di divorzio; pertanto, l’art. 40 cod. proc. civ. ne consente il cumulo nello stesso processo, sebbene si tratti di azioni di per sé soggette a riti diversi.
Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2012, n. 1348 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La quota di TFR spettante al coniuge divorziato, ai sensi dell’art. 12 legge n. 898/1970, va calcolata tenendo conto unicamente del criterio della durata del matrimonio. (Nella specie, la Corte ha infatti precisato che è irri¬levante il periodo della convive
Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2012, n. 1348 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della determinazione della quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74), all’ex coniuge, il legislatore si è ancorato ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad un elemento incerto e precario come la cessazione della convivenza, la quale non implica in modo automatico il totale venire meno della comunione di vita tra i coniugi, escludendo, pertanto, anche qualsiasi rilevanza della convivenza di fatto che abbia preceduto le nuove nozze del coniuge divorziato titolare del trattamento di fine rapporto.
App. Roma, 5 ottobre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 12-bis della legge 898 del 1970 va interpretato nel senso che il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge sorge solo quando l’indennità sia maturata al momento o dopo la pro¬posizione della domanda di divorzio e, quindi, anche prima della sentenza di divorzio, implicando ogni diversa interpretazione profili di incostituzionalità della norma.
Trib. Milano, Sez. IX, 22 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto da parte del’ex coniuge non presuppone la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio e neppure la percezione, in concreto, di un assegno di mantenimento, frutto di convenzioni ed accordi tra le parti, richiedendo, invece, che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 6 giugno 2011, n. 12175 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’espressione, contenuta nell’articolo 12-bis della legge 1° dicembre 1970, n. 898, secondo cui il coniuge ha di¬ritto alla quota del trattamento di fine rapporto anche se questo “viene a maturare dopo la sentenza” implica che tale diritto deve ritenersi attribuibile anche ove il trattamento di fine rapporto sia maturato prima della sentenza di divorzio, ma dopo la proposizione della relativa domanda, quando invero ancora non possono esservi soggetti titolari dell’assegno divorzile, divenendo essi tali dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio ovvero di quella, ancora successiva, che lo abbia liquidato. Poiché la “ratio” della norma è quella di correlare il diritto alla quota di indennità, non ancora percepita dal coniuge cui essa spetti, all’assegno divorzile, che in astratto sorge, ove spettante, contestualmente alla domanda di divorzio, ancorché di regola venga costituito e divenga esigibile solo con il passaggio in giudicato della sentenza che lo liquidi, ne deriva che, indipendentemente dalla decorrenza dell’assegno di divorzio, ove l’ indennità sia percepita dall’avente diritto dopo la domanda di divor¬zio, al definitivo riconoscimento giudiziario della concreta spettanza dell’assegno è riconnessa l’attribuzione del diritto alla quota di T.F.R.
Cass. civ. Sez. I, 16 dicembre 2010, n. 25520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto dell’articolo 12-bis della legge 898/70 – nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge “anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio” – va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l’ indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa – in tal senso dovendosi intendere l’espressione “anche prima della sentenza di divorzio”, implicando ogni diversa interpreta¬zione indiscutibili profili di incostituzionalità della norma in parola.
Trib. Ivrea, 6 maggio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto dell’articolo 12-bis della legge 898/70 – nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro co¬niuge “anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio” – va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l’ indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa – in tal senso dovendosi intendere l’espressione “anche prima della sentenza di divorzio”, implicando ogni diversa interpreta¬zione indiscutibili profili di incostituzionalità della norma in parola.
Trib. Cassino, 19 febbraio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, è fondata e meritevole di pregio, la domanda in forza della quale il coniuge titolare dell’as¬segno divorzile e che non sia passato a nuove nozze, avanza al fine di veder riconosciuto il proprio diritto alla corresponsione di una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge . Siffatto diritto, riconosciuto ai sensi dell’articolo 12-bis della legge 898/1970, sussiste ogni qualvolta la predetta indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio.
Cass. civ. Sez. V, 24 febbraio 2010, n. 4425 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di IRPEF, le quote del Fondo di previdenza aziendale dell’Isveimer corrisposte agli iscritti, ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge 24 settembre 1996, n. 497, convertito in legge 19 novembre 1996, n. 588, a seguito della messa in liquidazione del predetto ente, non sono assimilabili a prestazioni corrisposte in dipen¬denza di un contratto di assicurazione sulla vita o di capitalizzazione, e non sono quindi qualificabili, neppure in via analogica, come redditi di capitale; esse non hanno nemmeno natura risarcitoria, non essendo volte a compensare gli aventi diritto del sacrificio loro imposto o della perdita del trattamento integrativo (il cui ri¬storo, peraltro, sarebbe risultato comunque assoggettabile a tassazione, ai sensi dell’art. 6, comma secondo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), ma ad estinguere immediatamente i loro crediti a costi ridotti; esse, in quanto destinate, secondo le intenzioni, ad essere corrisposte dopo la cessazione del rapporto di lavoro, trova¬no in quest’ultimo la loro fonte giustificatrice, ed essendo volte a compensare la perdita di redditi futuri hanno natura di retribuzione differita e funzione previdenziale, tale da giustificare l’applicazione in via analogica del regime fiscale previsto dagli artt. 16, 18 e 48del d.P.R. n. 917 del 1986 per il trattamento di fine rapporto e le altre indennità ad esso equiparabili.
Trib. Milano Sez. IX, 2 febbraio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’evidente connessione tra la domanda di attribuzione di una quota di TFR, fondata sull’ar¬ticolo 12-bis della legge 898/1970 e la domanda di assegno divorzile, il cui riconoscimento condiziona l’acco¬glimento della prima domanda, giustifica la proposizione di questa nell’ambito del procedimento di divorzio, risultando contrario al principio di economia processuale esigere che, nel caso di liquidazione dell’indennità di fine rapporto durante detto procedimento, la domanda di attribuzione di una sua quota sia proposta attraverso l’instaurazione di un giudizio separato tra le medesime parti: pertanto, diventando il relativo diritto attuale, quin¬di azionabile, nel momento in cui, cessato il rapporto di lavoro dell’ex coniuge, questi percepisce detta indennità, deve considerarsi tempestiva e non lesiva del diritto al contraddittorio la formulazione della predetta domanda nelle note di replica di cui il giudice istruttore abbia consentito il deposito, fissando un’udienza successiva dove controparte abbia avuto la possibilità di contraddire.
Trib. Torino Sez. lavoro, 29 ottobre 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Se è pur vero che l’articolo 12-bis della legge 898/70 non prevede espressamente, per l’adempimento in executi¬vis dell’obbligo di corrispondere la quota d’indennità di fine rapporto le stesse opportunità concesse all’avente di¬ritto, a determinate condizioni, nei confronti dei terzi debitori dell’obbligato, per l’adempimento degli oneri relativi al mantenimento dei figli (articolo 148, comma 2, codice civile), al mantenimento ed agli alimenti per il coniuge separato (articolo 156, comma 6, codice civile), all’assegno di divorzio ed al contributo per il mantenimento dei figli in regime di divorzio dei genitori (articolo 8 comma 3 legge 898/70, novellato dalla legge n. 74/1987, è pur vero che l’azione diretta nei confronti dell’ex datore di lavoro del ex coniuge, che peraltro non è esclusa dalla lettera dell’art. 12-bis, risponde alla ratio della legge sul divorzio volta a tutelare il coniuge più debole.
Trib. Milano, Sez. IX, 18 giugno 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il sorgere del diritto del coniuge divorziato a percepire una quota dell’indennità di fine rapporto non presuppone la mera debenza in astratto di un assegno divorzile ma presuppone che l’indennità di fine rapporto sia percepita dopo che una sentenza abbia liquidato un assegno ex articolo 5 della n. 898/70 ovvero dopo la proposizione del giudizio nel quale sia stato successivamente liquidato l’assegno di divorzio.
App. Roma, 25 febbraio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio trova fondamentale presupposto per la sua attribuzione nell’esigenza di porre rimedio, in base ad un superiore principio solidaristico, allo stato di disagio economico in cui venga a trovarsi la parte più debole in dipendenza dello scioglimento del vincolo matrimoniale. Il diritto del coniuge titolare di assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze ad una quota dell’ indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge spetta ogni qualvolta tale indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio, infatti, il tenore letterale dell’espressione “anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza” usata dal legislatore nella formulazione dell’art. 12-bis della legge n. 898/70 rende evidente che la previsione di tale ultima ipotesi rappresenta un ampliamento rispetto all’evenienza tipica in cui l’indennità maturi prima di tale momento e quindi all’epoca di proposizione della domanda di divorzio (o successivamente), con la sola eccezione per il caso in cui il beneficio in questione sia maturato prima di detta domanda.
Trib. Roma, Sez. I, 20 febbraio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898, prevede che il diritto del coniuge alla quota d’ indennità del trattamento di fine rapporto sorge quando la stessa indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda giudiziale, quindi anche prima della sentenza di divorzio, implicando ogni diversa interpretazione profili di incostituzionalità della norma.
Cass. civ. Sez. I, 14 novembre 2008, n. 27233 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’evidente connessione tra la domanda di attribuzione di una quota di TFR, fondata sull’ art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970 n. 898, e la domanda di assegno divorzile, il cui riconoscimento condiziona l’accoglimento della prima domanda, giustifica la proposizione di questa nell’ambito del procedimento di divorzio, risultando contrario al principio di economia processuale esigere che, nel caso di liquidazione dell’indennità di fine rapporto durante detto procedimento, la domanda di attribuzione di una sua quota sia proposta attraverso l’instaurazione di un giudizio separato tra le medesime parti; pertanto, diventando il relativo diritto attuale, quindi azionabile, nel momento in cui, cessato il rapporto di lavoro dell’ex coniuge , questi percepisce detta indennità, deve considerarsi tempestiva e non lesiva del diritto al contraddittorio la formulazione della predetta domanda nelle note di replica di cui il giudice istruttore abbia consentito il deposito, fissando un’udienza succes¬siva dove controparte abbia avuto la possibilità di contraddire.
App. Roma, 17 dicembre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto riconosciuto dall’art. 12-bis della legge n. 898/70 e diretto ad ottenere la quota dell’indennità di fine rapporto diviene attuale e, dunque, azionabile in giudizio, nel momento in cui sorge per l’ex coniuge con la ces¬sazione del rapporto di lavoro, il diritto al relativo trattamento, sempre che il richiedente sia, allora, titolare di assegno di divorzio e non sia passato a nuove nozze.
Trib. Novara, 8 ottobre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Secondo un orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto sorge solo se l’indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa e non quando essa sia maturata e sia stata percepita in data anteriore.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2008, n. 23880 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di scioglimento del rapporto di lavoro a causa di morte del dipendente, ai fini della ripartizione della indennità di fine rapporto tra coniuge divorziato e coniuge superstite del defunto, aventi entrambi i requisiti per la relativa attribuzione, va applicato il criterio della durata dei rispettivi matrimoni, di cui all’art. 9, terzo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 13 della legge 1 marzo 1987, n. 74, riferito alla quota legale di spettanza del coniuge superstite, come previamente determinata, anche eventualmente in ragione del concorso con altri superstiti aventi diritto sul medesimo emolumento.
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2008, n. 21002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, la formula usata dal legislatore nell’art. 12 bis, aggiunto alla legge 1 dicembre 1970, n. 898 dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74, per attribuire al coniuge il diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto è analoga a quella usata dal precedente articolo 9, il quale subordina il diritto alla pensione di reversibilità, ovvero ad una quota di essa, alla circostanza che il coniuge superstite divorziato sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5 della medesima legge, cioè “all’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale” (art. 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263); ne discende, da ragioni d’ordine logico-sistematico, non potendosi dare, nell’ambito del medesimo testo legislativo e senza alcuna ragione, una diversa interpretazione a norme di uguale tenore, che il sorgere del diritto alla quota dell’ indennità di fine rapporto non presuppone la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio e neppure la percezione, in concreto, di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, ma presuppone che l’assegno sia stato li¬quidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 citato ovvero successivamente quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell’art. 9 citato.
App. Roma, 9 aprile 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto del coniuge titolare di assegno divorzile, che non sia passato a nuove nozze, ad una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, spetta ogni qualvolta tale indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio. Del resto, il tenore letterale dell’espressione “anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza” usata dal legislatore rende evidente che la previsione di tale ultima ipotesi rappresenta un ampliamento rispetto alla evenienza tipica in cui l’indennità maturi prima di tale momento, e quindi all’epoca di proposizione della domanda di divorzio o successivamente, mentre resta ferma l’insussistenza del diritto alla quota in questione quando il TFR sia maturato prima di quest’ultima domanda.
Trib. Monza, Sez. IV, 16 ottobre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto del coniuge titolare dell’assegno divorzile, che non sia passato a nuove nozze, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto lavorativo, sorge soltanto se l’indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa e non anche quando essa sia maturata e sia stata percepita in data anteriore. In tale ipotesi la riscossione dell’indennità può solo incidere sulla situazione economi¬ca del coniuge obbligato e determinare eventualmente una variazione dell’entità dell’assegno di mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2007, n. 15299 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di determinazione della quota di indennità di buonuscita, cui ha diritto il coniuge, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, se non passato a nuove nozze, la base su cui calcolare la percentuale ex art.12 “bis” primo comma della legge n.898 del 1970 è costituita dall’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. Ne deriva, in base al coordinamento tra il primo ed il secondo comma dell’articolo citato, che l’indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40 per cento, (percentuale prevista dal comma 2), dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro coincise con il rap¬porto matrimoniale; risultato che si ottiene dividendo l’indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40 per cento su tale importo.
Trib. Monza, Sez. IV, 8 maggio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve disattendersi la richiesta di attribuzione di una parte della indennità di fine rapporto erogata all’ex coniu¬ge, atteso che il diritto del coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze ad una percentuale della indennità di fine rapporto sorge solo quando la stessa venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa e non anche quando sia maturata o percepita, come nella specie, in data anteriore.
Cass. Civ. Sez. V, 2 aprile 2007, n. 8200
In tema di IRPEF, le quote del Fondo di previdenza aziendale dell’Isveimer corrisposte agli iscritti, ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge 24 settembre 1996, n. 497, convertito in legge 19 novembre 1996, n. 588, a seguito della messa in liquidazione del predetto ente, non sono assimilabili a prestazioni corrisposte in dipendenza di un contratto di assicurazione sulla vita o di capitalizzazione, e non sono quindi qualificabili, neppure in via ana¬logica, come redditi di capitale; esse non hanno nemmeno natura risarcitoria, non essendo volte a compensare gli aventi diritto del sacrificio loro imposto o della perdita del trattamento integrativo (il cui ristoro, peraltro, sarebbe risultato comunque assoggettabile a tassazione, ai sensi dell’art. 6, comma secondo, del d.P.R. 22 di¬cembre 1986, n. 917), ma ad estinguere immediatamente i loro crediti a costi ridotti; esse, in quanto destinate, secondo le intenzioni, ad essere corrisposte dopo la cessazione del rapporto di lavoro, trovano in quest’ultimo la loro fonte giustificatrice, ed essendo volte a compensare la perdita di redditi futuri hanno natura di retribuzione differita e funzione previdenziale, tale da giustificare l’applicazione in via analogica del regime fiscale previsto dagli artt. 16, 18 e 48del d.P.R. n. 917 del 1986 per il trattamento di fine rapporto e le altre indennità ad esso equiparabili.
App. Napoli, Sez. I, 27 febbraio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’art. 12 bis della L. 1 dicembre 1970, n. 898 che attribuisce al coniuge cui sia stato ricono¬sciuto l’assegno ex art. 5 della stessa legge e non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, deve essere interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge se l’ indennità sia già maturata alla data di proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o maturi successivamente ad essa, e, quindi, anche prima della sentenza di divorzio.
Trib. Perugia, 13 febbraio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto, previsto dall’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970 in favore del coniuge titolare di assegno divorzile, alla quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, non sorge ove l’indennità sia maturata e percepita dopo la pronuncia di separazione e di determinazione dell’assegno ed anteriormente alla proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio; in tal caso, la riscossione dell’in¬dennità di fine rapporto da parte del coniuge separato può solo incidere sulla situazione economica del coniuge obbligato e legittimare una modifica delle condizioni della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 10 novembre 2006, n. 24057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, a norma dell’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970, che attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota della indennità di fine rapporto dell’altro coniuge, tale diritto spetta ogni qualvolta la indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio.
Trib. Novara, 3 ottobre 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto del coniuge divorziato ad una parte dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, prevista dall’art. 12-bis della legge n. 898/1970, costituisce uno degli effetti patrimoniali del divorzio e richiede, quali presupposti per il suo riconoscimento, che il richiedente non sia passato a nuove nozze e che gli sia riconosciuto un assegno divorziale. Alla base di tale disposizione normativa, con cui si provvede alla ripartizione di un’en¬tità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio grazie anche al contributo dell’altro coniuge, si rinvengono sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che la disposizione stessa presuppone la spettanza dell’assegno divorziale, sia, soprattutto, criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quelle comune. Tale contributo, inoltre, deve essere valutato con riferimento all’intera durata del matrimonio, in quanto esso non cessa col venir meno della convivenza e con l’instaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale che sia, posto che la cessazione della convivenza non comporta automaticamente il totale venir meno della comunione materiale e spirituale di vita fra i coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
con riferimento alla percentuale dell’indennità di fine rapporto, di cui all’art. 12-bis l. div., non v’è spazio per una sentenza di condanna condizionata prima che l’altro “ex” coniuge abbia maturato, con la cessazione del rapporto di lavoro, il diritto alla relativa percezione, atteso che la titolarità in concreto dell’assegno post-matrimoniale e il mancato passaggio a nuove nozze rappresentano, non semplici condizioni di erogabilità del beneficio in relazione ad un diritto già sorto, ma veri e propri elementi costitutivi (l’uno in positivo e l’altro in negativo) del diritto alla detta percentuale, i quali devono sussistere e vanno accertati allorché, con la cessazione del rapporto di lavoro dell’”ex” coniuge, quel diritto si attualizza.
Cass. civ. Sez. I, 7 marzo 2006, n. 4867 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della determinazione della quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74), all’ex coniuge, il legisla¬tore si è ancorato ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad un elemento incerto e precario come la cessazione della convivenza, escludendo, pertanto, anche qualsiasi rilevanza della convivenza di fatto che abbia preceduto le nuove nozze del coniuge divorziato titolare del tratta¬mento di fine rapporto.
L’articolo 12-bis della legge sul divorzio si inserisce nel plesso normativo concernente la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra divorziati, con la previsione della spettanza all’ex coniuge, nell’ambito dei principi soli¬daristici cui si ispira anche la disposizione relativa alla corresponsione allo stesso di una quota della pensione di reversibilità, di una quota parte del trattamento di fine rapporto dovuto all’altro ex coniuge, subordinatamente alla condizione positiva della sussistenza del suo diritto all’assegno divorale ed a quella negativa del mancato passaggio a nuove nozze. Alla base di tale disposizione normativa, con la quale si provvede alla ripartizione di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio grazie anche al contributo de¬terminante dell’altro coniuge, si rinvengono sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che la disposizione stessa presuppone la spettanza dell’assegno divorale, sia, soprattutto, criteri di carattere compensativo, rappor¬tati al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune. Invero, se l’indennità di fine rapporto di lavoro corrisponde ad una quota del trattamento eco¬nomico maturata in costanza di questo, è logico che il coniuge, il quale durante il matrimonio abbia contribuito alla formazione di tale trattamento, sia per questa parte legittimato a fruirne. Infatti l’indennità di fine rapporto assolve anche nei confronti di tale coniuge, per il periodo di coincidenza tra i rapporti di matrimonio e di lavoro, la funzione latamente previdenziale che le è propria.
Non può pertanto dubitarsi della natura patrimoniale dell’obbligo dell’ex coniuge di corrispondere all’altro ex coniuge la quota, spettantegli per legge, del trattamento di fine rapporto percepita all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, con la conseguenza che, in caso di morte del coniuge tenuto alla prestazione, detto obbligo, qualora rimasto inadempiuto, rientra nell’asse ereditario, gravando sugli eredi del de cuius.
Quanto alla determinazione della quota di indennità di fine rapporto spettante all’ex coniuge, le considerazioni che precedono inducono a ritenere che il contributo da questo fornito alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune debba esser valutato con riferimento all’intera durata del matri¬monio, in quanto esso non cessa col venir meno della convivenza e con l’instaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale.
Invero, la cessazione della convivenza non comporta immediatamente e automaticamente il totale venir meno della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 7 marzo 2006, n. 4867 (Famiglia e Diritto, 2007, 2, 151 nota di PITTALIS)
E’ lo stesso legislatore che, nel rapportare la quota di trattamento di fine rapporto spettante all’ex coniuge agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio, ha ritenuto opportuno ancorarsi ad un dato giu¬ridicamente certo e irreversibile quale la durata del matrimonio, senza possibilità di ricorso a criteri correttivi, piuttosto che ad un elemento incerto e precario come la cessazione della convivenza, escludendo in tal modo anche qualsiasi rilevanza in tale fattispecie, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, della convivenza di fatto che abbia eventualmente preceduto le nuove nozze del coniuge divorziato, titolare del trattamento di fine rapporto.
Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2005, n. 28874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 12 bis della legge n. 898 del 1970, nel riconoscere all’ex coniuge (non passato a nuove nozze e titolare di assegno divorzile) una quota dell’”indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazio¬ne del rapporto di lavoro”, pari al “ quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”, non menziona esplicitamente il rapporto di lavoro subordinato ma usa una locuzione più generica “rapporto di lavoro” che ben si attaglia ai rapporti di lavoro parasubordinato, quale, nella specie, quello di agenzia.
Essendo la ratio dell’art. 12-bis comunemente individuata nel fine di attuare una partecipazione, seppure posti¬cipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’asse¬gno di divorzio ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall’ ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, non vi è ragione per escludere dall’ambito di applicazione della disposizione le indennità spettanti all’agente di assicurazione, alla cessazione del rapporto di agenzia.
Trib. Monza, Sez. IV, 1 dicembre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Solo nel momento in cui sopravviene il divorzio sorge l’obbligo di corrispondere all’ex coniuge una quota del trattamento di fine rapporto alle condizioni stabilite dall’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898: tuttavia, tale obbligo, ed il correlativo diritto dell’ex coniuge alla quota di tale indennità, sorge unicamente con riferimen¬to all’indennità maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio, mentre per il periodo precedente continua ad operare il principio della piena disponibilità da parte del destinatario di tale attribuzione patrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 2005, n. 19046 (Guida al Diritto, 2005, 44, 63)
Il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge, anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio, richiamato dall’articolo 12-bis della legge 898 del 1970, va interpretato nel senso che tale diritto sorge soltanto se il trattamento spettante all’altro coniuge sia maturato successivamente alla proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio, e quindi anche prima della sentenza di di¬vorzio, e non anche se esso sia maturato e sia stato percepito in data anteriore, come in pendenza del giudizio di separazione, potendo in tal caso la riscossione dell’indennità incidere solo sulla situazione economica del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno ovvero legittimare una modifica delle condizioni di separazione. Nell’ipotesi in cui l’indennità sia maturata in costanza di matrimonio, la stessa deve ritenersi normalmente utilizzata per i bisogni della famiglia, e nella parte in cui residua al momento della separazione costituisce elemento idoneo a determinare le condizioni economiche del coniuge obbligato e a incidere sulla quantificazione dell’assegno, mentre se matura in pendenza del giudizio di separazione resta operante il principio di piena disponibilità delle attribuzioni patrimoniali da parte del destinatario, nel rispetto delle norme generali fissate dall’ordinamento, salva la necessità di valutazione di tale attribuzione in sede di assetto economico della separazione.
pp. Catania, 17 maggio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sola circostanza che uno dei coniugi ha diritto all’assegno divorzile conferma la condizione di essere il coniuge economicamente più debole e, quindi, creditore della quota di indennità di fine rapporto riconosciutogli con la sentenza appellata, secondo la quota fissata dalla legge; peraltro, la quota di TFR è rapportabile non agli anni di effettiva convivenza, bensì alla durata legale del rapporto matrimoniale in quanto esso rapporto, non viene meno con la cessazione della convivenza e con l’instaurarsi dello stato di separazione di fatto o legale, ma permane fino alla cessazione degli effetti civili.
Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2005, n. 285 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970, introdotto dall’art. 16 della legge n. 74 del 1987, a norma del quale l’ex coniuge titolare di assegno ai sensi dell’art. 5 della citata legge n. 898 ha diritto, se non passato a nuove nozze, a una percentuale dell’indennità di fine rapporto “percepita” dall’altro coniuge “all’atto della cessazione del rap¬porto di lavoro”, trova applicazione anche nella ipotesi di decesso dell’obbligato in costanza di rapporto, in quanto essa riguarda tutti i casi in cui il t.f.r. sia comunque spettante al lavoratore, anche se non ancora percepito, senza che rilevi in contrario la circostanza che l’art. 2122 cod. civ. non indichi, tra gli aventi diritto alla indennità di fine rapporto (coniuge, figli, e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado), l’ex coniuge. Ed infatti, la citata disposizione codicistica, anteriore alla entrata in vigore della legge sul divorzio, si limita a disciplinare l’attribuzione del t.f.r. in caso di morte del lavoratore, mentre l’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970 si inserisce nel plesso normativo concernente la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra divorziati, con la previsione della spettanza all’ex coniuge, nell’ambito dei principi soli¬daristici cui si ispira anche la disposizione relativa alla corresponsione allo stesso di una quota della pensione di reversibilità, di una quota parte del t.f.r. dovuto all’altro ex coniuge, subordinatamente alla condizione positiva della sussistenza del suo diritto all’assegno divorzile ed a quella negativa del mancato passaggio a nuove nozze. Ne consegue la irragionevolezza di una opzione ermeneutica che escluda il diritto dell’ex coniuge ad una quota della indennità per il servizio già prestato, maturata dall’altro coniuge, per effetto di una circostanza accidentale, quale il decesso di quest’ultimo in costanza del rapporto di lavoro.
Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2004, n. 14459 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto, previsto dall’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970 in favore del coniuge titolare di assegno divorzile, alla quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, non sorge ove l’indennità sia maturata e percepita dopo la pronuncia di separazione e di determinazione dell’assegno ed anteriormente alla proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio; in tal caso, la riscossione dell’in¬dennità di fine rapporto da parte del coniuge separato può solo incidere sulla situazione economica del coniuge obbligato e legittimare una modifica delle condizioni della separazione.
Gli incrementi patrimoniali realizzati precedentemente alla pronuncia di divorzio in tanto rilevano, in quanto sussistono al momento della pronuncia; ne consegue, pertanto, che se l’indennità relativa al trattamento di fine rapporto è maturata in costanza di matrimonio, la stessa è stata già utilizzata per i bisogni della famiglia e, nella parte in cui residua al momento della separazione concorre a determinare le condizioni economiche del coniuge obbligato e incide sulla quantificazione dell’assegno di cui all’articolo 156 del codice civile; mentre, se matura in costanza di giudizio di separazione, colui il quale la riceve può egualmente liberamente disporne, salva la ne¬cessità della valutazione al fine della determinazione delle sue condizioni economiche. Ove, invece, maturi dopo la pronuncia di separazione e di determinazione dell’assegno, essa può solo incidere sulla situazione economica del coniuge obbligato e legittimare una modifica delle condizioni della separazione ai sensi dell’articolo 710 del codice di procedura civile.
App. Napoli, 27 luglio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
All’ex coniuge divorziato beneficiario di assegno divorzile e non risposato spetta una percentuale dell’indennità di fine rapporto, pari al 40%, spettante all’altro ex coniuge, da computarsi non sull’indennità totale percepita, ma sulla sola porzione di essa maturata a seguito degli specifici accantonamenti realizzati durante il matrimonio, con esclusione quindi della parte accantonata dopo la sentenza di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719 (Guida al Diritto, 2004, 19, 50)
Nell’ambito del giudizio di divorzio è inammissibile, per difetto di interesse, la domanda proposta da un coniuge contro l’altro e diretta a ottenere una pronuncia – di mero accertamento – dichiarativa dell’esistenza e della tito¬larità del diritto a una quota dell’indennità di fine rapporto allorché questi cesserà la propria attività lavorativa, atteso che in caso di azione di accertamento l’interesse ad agire sussiste unicamente qualora vi sia l’esigenza di rimuovere una oggettiva e pregiudizievole situazione di incertezza dipendente da atti o fatti concreti e non da mere supposizioni.
Cass. civ. Sez. I, 10 febbraio 2004, n. 2466 (Arch. Civ., 2004, 1469)
Ai fini del riconoscimento della quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74), all’ex coniuge, la sussistenza delle condizioni previste dalla legge va verificata al momento in cui matura per l’altro ex coniuge il diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto stesso, con la conseguenza che il diritto ad una quota di esso non sorge, ad esempio, a favore dell’ex coniuge passato a nuove nozze o che non sia più titolare di assegno di divorzio.
App. Napoli, 22 dicembre 2003 (Guida al Diritto, 2004, 14, 64)
Il disposto dell’articolo 12-bis della legge 1° dicembre 1970 n. 898 – introdotto dall’articolo 16 della legge 6 mar¬zo 1987 n. 74 – nella parte in cui attribuisce al coniuge, al quale è stato riconosciuto l’assegno ex articolo 5 della stessa legge e che non sia passato a nuove nozze, il diritto a una quota dell’indennità di fine rapporto, anche nel caso in cui tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio, deve essere interpretato, nel rispetto delle intenzioni del legislatore, nel senso che il diritto alla quota sorge solo qualora l’indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda e quindi anche prima della sentenza di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 18 dicembre 2003, n. 19427 (Guida al Diritto, 2004, 7, 69)
L’articolo 12-bis della legge n. 898 del 1970 (introdotto dall’articolo 16 della legge n. 74 del 1987) nella parte in cui attribuisce al coniuge cui è stato riconosciuto l’assegno di divorzio il diritto a una quota dell’indennità di fine rapporto, anche nel caso in cui tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio, deve essere interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge al momento o dopo la proposizione della domanda e, quindi, anche prima della sentenza di divorzio. Deriva da quanto precede, pertanto, che ove la domanda introduttiva del giudizio di divorzio risulti proposta nel 1990 e che l’indennità in questione è matura nel 1993, anteriormente alla sentenza di divorzio, correttamente il giudice del merito attribuisce, all’altro coniuge il diritto al godimento di una quota di tale indennità.
In tema di attribuzione, al coniuge cui è stato riconosciuto un assegno di divorzio, del diritto a una quota dell’in¬dennità di fine rapporto percepita dall’altro, deve essere cassata la pronuncia del giudice del merito che ai fini della quantificazione di tale quota abbia preso in considerazione la durata del rapporto di lavoro, la corrispon¬dente durata del rapporto matrimoniale nonché l’intera indennità percepita, senza dare alcun rilievo al momento in cui erano state versate varie anticipazioni (momento nella specie pacificamente anteriore, per due di esse, all’entrata in vigore della legge n. 74 del 1987), atteso che l’anticipo, una volta accordato dal datore di lavoro e riscosso dal lavoratore, entra nel suo patrimonio e non può essere revocato, così determinandosi la definitiva acquisizione del relativo diritto, su cui non può incidere l’eventuale mutamento della legislazione in materia.
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2003, n. 19309 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di attribuzione di una quota dell’indennità di fine rapporto al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze (art. 12-bis della legge n. 898 del 1970), la locuzione indennità di fine rapporto comprende tutti i trattamenti di fine rapporto – derivanti sia da lavoro subordinato, sia da lavoro parasubordinato – comunque denominati, che siano configurabili come quota differita della retribuzione, condizionata sospensiva¬mente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro; pertanto, l’indennità premio di servizio erogata dall’I.N.A.D.E.L. (al quale è subentrato l’I.N.P.D.A.P.) prevista dall’art. 2 della legge n. 152 del 1968, per i di¬pendenti degli enti locali, già configurata dalla giurisprudenza costituzionale come sostanzialmente equivalente, nella struttura normativa e nella finalità, alla indennità di buonuscita stabilita per i dipendenti statali (sentenze n. 46 del 1983, n. 110 del 1981, n. 115 del 1979), e completamente equiparata a quest’ultima a seguito delle modifiche introdotte dagli artt. 6 e 7 della legge n. 29 del 1979 e art. 22 del D.L. n. 359 del 1987, convertito nella legge n. 440 del 1987, deve essere compresa tra le indennità di fine rapporto previste dall’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970, in quanto costituisce una parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corre¬sponsione è differita alla data di cessazione del rapporto,
In materia di attribuzione di una quota dell’indennità di fine rapporto al coniuge titolare dell’assegno divorale che non sia passato a nuove nozze, l’art. 12 bis, legge n. 898 del 1970, nella parte in cui disciplina il relativo diritto, va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge se l’indennità spettante all’altro coniuge sia già maturata alla data di proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o maturi successivamente ad essa, in coerenza con la natura costitutiva della sentenza di divorzio e con la possibilità, ai sensi dell’art. 4, decimo comma, legge n. 898 del 1970, di stabilire la retroattività degli effetti patrimoniali della sentenza di cessione degli effetti civili del matrimonio a far data dalla domanda.
Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 2003, n. 10075 (Famiglia e Diritto, 2004, 267 nota di PACIA DEPINGUENTE)
La disposizione dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1 dicembre 1970 – che regola il diritto del coniuge avente diritto all’assegno di divorzio (e non passato a nuove nozze) di conseguire una quota del trattamento di fine rapporto spettante all’altro coniuge – individua come parametro per la determinazione di detta percentuale la durata del matrimonio e non già quella della effettiva convivenza, valorizzando, con intento la cui piena ragionevolezza è stata riconosciuta anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 23 del 1991), il contributo che il coniuge più debole normalmente continua a fornire durante il periodo di separazione, soprattutto nel caso in cui sia affidatario di figli minori, e nel contempo ancorando il periodo di riferimento ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2003, n. 5720 (Famiglia e Diritto, 2003, 5, 435 nota di GIULIANO)
La quota “dell’indennità di fine rapporto” spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74), al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze ha riguardo a quella parte della retribuzione, destinata al sostegno del nucleo durante la convivenza dei coniugi, percepita in forma differita. Tale previsione, riferita alla retribuzione in senso tecnico, tipica del rapporto di lavoro subordinato, pubblico o privato che sia, non può pertanto essere estesa ad istituti di diversa natura, preminentemente previdenziale ed assicurativa, aventi origine in regimi professionali di natura privata, come l’indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai, accomunata agli altri trattamenti di fine rapporto solo dalla scadenza al momento della cessazione dell’attività. È pertanto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970 al riguardo sollevata in riferi¬mento all’art. 3 Cost., in quanto a situazioni di fatto diverse ben può il legislatore attribuire regimi diversi, ed in riferimento all’art. 38 Cost., il cui ambito attiene ai compiti dello Stato verso i più deboli e non impone oneri ai coniugi in quanto tali; né è configurabile violazione dell’art. 29 Cost., non venendo in rilievo il principio di parità nel matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 18 marzo 2003, n. 3962 (Guida al Diritto, 2003, 18, 50)
II diritto a una quota del trattamento di fine rapporto, attribuito al coniuge divorziato ai sensi e nei limiti di cui all’articolo 12-bis della legge n. 898 del 1970, sussiste alla duplice condizione temporale che tale indennità ma¬turi contemporaneamente o successivamente alla domanda introduttiva del giudizio di divorzio e comunque dopo l’entrata in vigore della legge n. 1987 del 1974.
Trib. Napoli, 17 febbraio 2003 (Giur. It., 2003, 2286)
Il diritto del coniuge ad una quota della indennità di fine rapporto percepito dall’altro coniuge sorge anche prima della sentenza di divorzio solo qualora l’indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio. Corte cost. 19 novembre 2002, n. 463 (Giur. Costit., 2002, f. 6)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale. dell’art. 12 bis comma 1 l. dicembre 1970 n. 898, introdotto dall’art. 16 l. 6 marzo 1987 n. 74, censurato, in riferimento agli 3, 29 comma 2 e 38 com¬ma 1 cost., nella parte in cui prevede – secondo l’orientamento giurisprudenziale assunto come diritto vivente – il diritto del coniuge non passato a nuove nozze e titolare di assegno divorzile ad una quota del trattamento di fine rapporto percepito dall’altro coniuge solo qualora detto trattamento non sia maturato prima della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio, in quanto, premesso che lo scioglimento del matrimonio ha caratteristiche ed esigenze di regolamentazione diverse da quelle che informano la disciplina dei rapporti patri¬moniali tra coniugi durante la fase della separazione personale, l’estensione al coniuge separato della misura pa¬trimoniale anzidetta comporterebbe l’emissione di una pronuncia di tipo additivo volta ad introdurre, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, un istituto diverso da quello cui si riferiscono le proposte censure, con evidente indebita intromissione nella discrezionalità del legislatore.
Corte cost. 6 luglio 2001, n. 237 (Giust. Civ., 2002, I, 20)
Non è fondata – in riferimento all’art. 3 cost.- la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis l. 6 marzo 1987 n. 74, nel testo introdotto dall’art. 16 l. 6 marzo 1987 n. 74, nella parte in cui non prevede che il coniuge, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, possa ottenere (se non passato a nuove nozze ed in quanto titolare di assegno divorzile) direttamente dal datore di lavoro dell’ex coniuge la quota dell’indennità di fine rapporto prevista nella stessa disposizione.
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis l. 1 dicembre 1970 n. 898, nel testo introdotto dall’art. 16 l. 6 marzo 1987 n. 74, nella parte in cui non consente che il coniuge titolare di assegno divorzile, possa ottenere direttamente dal datore di lavoro dell’ex coniuge la quota dell’indennità di fine rapporto prevista nella stessa disposizione. Infatti, da un lato, le concrete modalità di attribuzione della provvidenza economica non sono coperte dalla garanzia costituzionale e rappresentano una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore; e dall’altro, il giudice rimettente, non sussistendo allo stato un diritto vivente in argomento, ben avrebbe potuto fornire una lettura diversa della norma impugnata.
Cass. civ. Sez. I, 23 ottobre 2001, n. 12995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto dell’art. 12 bis della L. n. 898/70 – nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell’assegno di-vorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge “anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio” – va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l’indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa – in tal senso doven¬dosi intendere l’espressione “anche prima della sentenza di divorzio”, implicando ogni diversa interpretazione indiscutibili profili di incostituzionalità della norma in parola – e non anche quando essa sia maturata e sia stata percepita in data anteriore, in pendenza del precedente giudizio di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 2000, n. 12426 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 12 bis legge divorzio, l’ex-coniuge titolare di assegno ai sensi dell’art. 5 legge cit. ha diritto, se non passato a nuove nozze, a una percentuale dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge, non rilevando che la stessa maturi per morte di questi o per altra causa.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2000, n. 1222 (Giust. Civ., 2001, I, 508)
A seguito della morte del divorziato che abbia contratto un nuovo matrimonio, l’ex coniuge (titolare dell’assegno di cui all’art. 5 l. 1 dicembre 1970 n. 898) ha diritto, in concorso con il coniuge superstite, non solo ad una quota della pensione di reversibilità, ma anche a una quota della indennità di fine rapporto.
Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 1999, n. 5553 (Giur. It., 2000, 2060 nota di CONTE)
Il disposto dell’art. 12 bis l. n. 898 del 1970 – nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divor¬zile che non sia passato a nuove nozze, il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge “anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio” – va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l’indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare al momento della pro¬posizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa – in tal senso dovendosi intendere l’espressione “anche prima della sentenza di divorzio”, implicando ogni diversa interpretazione possibili profili di incostituzionalità della norma in parola -, e non anche quando essa sia maturata e sia stata percepita in data anteriore, eventualmente in pendenza del precedente giudizio di separazione.
Corte cost. 23 dicembre 1997, n. 437 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis l. 1 dicembre 1970 n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), sollevata con riferimento agli art. 3, 29, e 38 cost.
Cass. civ. Sez. I, 3 settembre 1997, n. 8477 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il criterio della durata del matrimonio, pur costituendo il parametro legale previsto dall’art. 9 della l. n. 898 del 1970 (come modificato dall’art. 13 della l. n. 74 del 1987) per la determinazione della quota di pensione spettan¬te all’ex coniuge, per il che – conseguentemente – devesi, in primo luogo, fare riferimento ad esso e non a quello delle possibili convivenze di fatto, ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge divorziato ed il coniuge superstite, non esclude certamente – nella mancanza, nella norma, di qualsiasi espresso richiamo al “rapporto matrimoniale” operato invece dal successivo art. 12 bis, comma 2, in tema di ripartizione dell’indennità di fine rapporto – la possibilità di utilizzare, ove congrui, ulteriori elementi di adattamento alle peculiarità del caso concreto. Da ciò consegue che deve ritenersi possibile discostarsi da un rigido criterio basato unicamente sulla durata del matrimonio – comprendente, in quanto tale, anche il periodo successivo alla separazione fino alla sentenza di divorzio – allorché sia notevole lo scarto fra matrimonio e convivenza effettiva, ed a tale scarto corrisponda una concomitante convivenza more uxorio della nuova coppia.
Cass. civ. Sez. I, 17 aprile 1997, n. 3294 (Dir. Famiglia, 1998, 46)
La quota di indennità di fine rapporto spettante, ai sensi della normativa sul divorzio, al coniuge titolare di as¬segno divorzile e non passato a nuove nozze, riguarda unicamente quell’indennità comunque denominata, che, maturando alla cessazione del rapporto lavorativo, è determinata in proporzione alla durata del rapporto stesso ed all’entità della retribuzione corrisposta: non spetta pertanto al coniuge divorziato una parte di altri eventuali importi erogati, in occasione del venir meno del rapporto lavorativo, all’ex coniuge ad altro titolo (nella specie, a titolo di incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza).
Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1995, n. 7249 (Giur. It., 1996, I,1, 626)
In tema di divorzio, il diritto di un coniuge ad una quota del trattamento di fine rapporto lavorativo percepito dall’altro coniuge, ai sensi dell’art. 12-bis della l. 1 dicembre 1970 n. 898, introdotto dall’art. 16 della l. 6 marzo 1987 n. 74, può essere attribuito con lo stesso provvedimento attributivo dell’assegno di divorzio, atteso che, se il diritto alla quota permane “anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza” di divorzio, secondo il tenore letterale dell’art. 12-bis, tale diritto deve conseguentemente riconoscersi pure nel caso in cui l’indennità sia maturata prima di detta sentenza, quando ovviamente al coniuge non è stato ancora attribuito in modo de¬finitivo (con sentenza passata in giudicato) l’assegno divorzile.
Il coniuge titolare dell’assegno di divorzio, nel caso in cui il coniuge obbligato abbia conseguito un anticipo del trattamento di fine rapporto lavorativo prima dell’entrata in vigore della legge n. 74 del 1987, non ha diritto di percepire una quota del detto anticipo, stante la definitiva acquisizione del relativo diritto da parte di quest’ulti¬mo su cui non può incidere un’eventuale mutamento della legislazione in materia.
Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1995, n. 7249 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge titolare dell’assegno di divorzio non ha diritto di conseguire una quota dell’anticipo del trattamento di fine rapporto (lavorativo) spettante all’altro coniuge, ai sensi dell’art. 12 bis legge n. 898 del 1970, quando il coniuge obbligato (al versamento dell’assegno), pur avendo cessato il proprio rapporto lavorativo dopo l’entrata in vigore della legge n. 74 cit., abbia percepito un anticipo sull’indennità prima di tale data: l’anticipo predetto, invero, previsto dall’art. 2120 c.c., nel testo riformulato dall’art. 1 della l. 29 maggio 1982 n. 297, una volta che sia stato accordato dal datore di lavoro e sia stato riscosso dal lavoratore, entra nel suo patrimonio e non può più essere revocato, determinando la definitiva acquisizione del relativo diritto, su cui non può incidere un eventuale mutamento della legislazione in materia.
Corte cost., 26 maggio 1994, n. 199 (Giur. Costit., 1994, 1732)
È inammissibile la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 cost., dell’art. 12 bis l. 1 di-cembre 1970 n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), introdotto dall’art. 16 l. 6 marzo 1987 n. 74 (nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio) nella parte in cui esclude dal diritto a fruire della percentuale sull’indennità di fine rapporto l’ex coniuge che non sia titolare di assegno di divorzio.
Corte cost. 1 luglio 1993, n. 300 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis, l. 1° dicembre 1970, n. 898, aggiunto dall’art. 16, l. 6 marzo 1987, n. 74, nella parte in cui attribuisce al divorziato una percentuale in misura fissa dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, non rapportandola alla sola durata della convivenza, in riferimento agli articoli 3 e 38 della costituzione.
Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1993, n. 6047 (Dir. Famiglia, 1994, 853)
La norma dell’art. 12 bis della legge di divorzio – che regola il diritto del coniuge titolare di un assegno di divor¬zio e non passato a nuove nozze, di conseguire una quota del trattamento di fine rapporto lavorativo percepito dall’altro coniuge – non è applicabile qualora il coniuge obbligato all’assegno abbia maturato il diritto alla inden¬nità prima dell’entrata in vigore della legge stessa, poiché il principio dell’applicabilità della norma sostanziale sopravvenuta ai giudizi pendenti non può comportare il travolgimento del limite del rispetto dei diritti quesiti e dei rapporti esauriti sotto il vigore della normativa precedente.
Corte cost. 24 gennaio 1991, n. 23 (Foro It., 1991, I, 3006 nota di QUADRI)
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis, l. 1° dicembre 1970, n. 898, aggiunto dall’art. 16, l. 6 marzo 1987, n. 74, nella parte in cui attribuisce al divorziato una percentuale in misura fissa dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, non rapportandola alla sola durata della convivenza, in riferimento agli articoli 3 e 38 della costituzione.
Il legislatore, nell’attribuire all’ex coniuge titolare di assegno divorzile una quota (40%) dell’indennità di fine rapporto di lavoro percepita dall’altro ex coniuge, si è ispirato sia ai criteri assistenzialistici evidenziati dal fatto che essa presuppone la spettanza dell’assegno divorzile; sia, e soprattutto, a criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall’ex-coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune. A motivo della valorizzazione di tale criterio sta la considerazione della particolare condizione della donna, che deve assumere su di sé oneri rilevanti in ordine all’assolvimento di compiti di natura domestica e familiare in sostituzione o in aggiunta al lavoro extradomestico, e del pregiudizio che ne consegue rispetto a prospettive di autonomia economica e di affermazione professionale. Conseguentemente il contributo dato dall’ex coniuge alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune va va¬lutato in riferimento all’intera durata del matrimonio, in quanto esso non cessa col venir meno della convivenza e con l’istaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale, ciò specie nel caso in cui il coniuge più debole sia quello cui sono affidati i figli. Pertanto è ragionevole che il legislatore abbia preferito ancorarsi ad un dato giu¬ridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza.
In caso di convivenza breve (o brevissima) seguita da un lungo periodo di separazione, come la giurisprudenza esclude che l’assegno divorzile possa consistere in una rendita di carattere puramente parassitario, così è ve¬rosimile che in tali situazioni venga a mancare il previsto presupposto (quello appunto della spettanza dell’as¬segno divorzile) per l’attribuzione della percentuale di indennità di fine rapporto di lavoro percepita dall’altro ex coniuge.

Revoca dell’ammissione al patrocinio: rimessi gli atti alle Sezioni Unite

Cassazione civile sez. II , 22 gennaio 2019, n. 1664. Pres. San Giorgio. Rel. Scarpa.

FATTO E DIRITTO
1. Q.B. ha proposto ricorso per cassazione articolato in sei motivi avverso la sentenza del Tribunale di Napoli n. 12390/2017 depositata il 21.12.2017, la quale, in riforma della sentenza del Giudice di pace di Napoli, ha respinto la domanda avanzata dal medesimo Q. nei confronti della Fondiaria Sai S.p.A. (oggi UnipolSai Assicurazioni S.p.A.), per il pagamento di una somma a titolo di competenze professionali relative all’incarico di perito assicurativo svolto per conto della società in riferimento ad un sinistro stradale.
Il ricorrente ha depositato il decreto di ammissione provvisoria al patrocinio a spese dello Stato deliberato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli.
Resiste con controricorso UnipolSai Assicurazioni S.p.a., che eccepisce l’inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1.
Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Carmelo Sgroi, ha depositato le sue conclusioni scritte, ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c., chiedendo il rigetto del ricorso e la revoca dell’ammissione provvisoria al patrocinio a spese dello Stato, ovvero, in via gradata, la rimessione della causa alle Sezioni Unite per la composizione del contrasto di giurisprudenza in ordine alla competenza della Corte di Cassazione a provvedere su detta revoca.
Le parti non hanno depositato le loro memorie nel termine non superiore a dieci giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio, di cui all’art. 380-bis 1 c.p.c..
2. Contro la sentenza resa in primo grado dal Giudice di Pace, la UnipolSai Assicurazioni s.p.a. propose appello, deducendo la litispendenza, la continenza e la connessione, nonchè la necessità di riunione dei molteplici analoghi giudizi proposti dal Q., ovvero ancora l’improponibilità della domanda in ragione dell’indebito frazionamento di un credito unitario, e comunque l’infondatezza della pretesa.
Dopo aver escluso che la mancata riunione di cause potesse essere oggetto di motivo di gravame, il Tribunale di Napoli accolse l’appello, considerando come: risultavano incardinati tra le stesse parti, o presso lo stesso Tribunale, centinaia di giudizi; l’appellante aveva dedotto che il rapporto con il Q. si era protratto per oltre dieci anni e che per tale periodo erano sempre state emesse fatture di analogo importo, dandosi luogo ad un rapporto di collaborazione professionale continuativa, regolato da un accordo-quadro accettato ed osservato da ciascuna delle parti nel corso degli anni, con retribuzioni corrisposte in misura uniforme indipendentemente dal concreto contenuto della singola prestazione; il Q. non aveva in alcun modo prospettato l’esistenza di elementi tali da evidenziare un proprio interesse, meritevole di essere tutelato, a disarticolare in una pluralità di azioni giudiziali la sua pretesa creditoria, facente capo, piuttosto, ad un medesimo rapporto di durata tra le parti e fondata sul medesimo fatto costitutivo; doveva quindi ritenersi sussistente un “frazionamento del credito”, sanzionabile con la improponibilità della domanda; la pretesa del Q. risultava in ogni caso da rigettare anche nel merito, avendo le parti raggiunto un accordo tacito sulla misura del compenso, pari a circa Euro 40,00 per ciascuno dei numerosi incarichi conferiti.
3.1. Il primo motivo di ricorso di Q.B. denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 274 c.p.c., per non aver considerato il Tribunale l’orientamento giurisprudenziale sull’ammissibilità della riunione dei procedimenti relativi a cause connesse, anche nel giudizio di legittimità (si richiama Cass. n. 22631/2011).
3.2. Il secondo motivo di ricorso di Q.B. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. e dell’art. 111 Cost. in quanto i periti assicurativi, a fronte della natura economica della loro prestazione, esercitata in modo stabile e con struttura organizzativa indipendente dalla impresa assicurativa committente, rientrerebbero nella nozione funzionale di impresa delineata dalla giurisprudenza comunitaria; nè deporrebbe in senso contrario l’esistenza tra le parti di un mandato continuativo, che, ad ogni modo, non eviterebbe che il perito assuma in proprio il rischio imprenditoriale derivante dall’attività peritale svolta.
3.3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione della L. 4 dicembre 2017, n. 2, art. 19 quaterdecies, che ha modificato la L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 13 bis, relativamente all’equo compenso per le prestazioni professionali degli avvocati.
3.4.Il quarto motivo di ricorso lamenta “l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, oggetto di discussione tra le parti e avente carattere decisivo”. Il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che il Q. avesse accettato, per facta concludentia, un’offerta di compenso molto inferiore a quello previsto dalle tariffe professionali, essendo tale circostanza già oggetto di espressa contestazione in giudizio, ed ora comunque smentita attraverso la presentazione, in forza dell’art. 372 c.p.c., della documentazione IES dell’anno 2010, dalla quale si evincerebbe che il ricorrente percepiva importi differenti per i vari incarichi affidatigli e mai pari ad Euro 40,00.
3.5.Con il quinto motivo di ricorso si denuncia la violazione del giudicato implicito delle sentenze n. 18808/2016, n. 18809/2016 e n. 18810/2016 di Codesta Corte.
3.6. Con il sesto motivo di ricorso si lamenta l’erronea interpretazione dei principi nomofilattici espressi dalle Sezioni Unite nelle pronunce del 15.11.2007, n. 23726 e del 13.02.2017, n. 4090.
4. Infine, stante il contrasto rilevato tra le sentenze n. 18808/2016, 18809/2016 e 18810/2016 – in cui la Suprema Corte si è pronunciata nel senso di negare l’unitarietà dell’obbligazione accogliendo i ricorsi del Q. – e le successive pronunce – in cui il Supremo collegio ha rigettato i ricorsi proposti dallo stesso -, il ricorrente chiede che il ricorso sia trattato in udienza pubblica innanzi alle Sezioni Unite.
5. In via preliminare, deve affermarsi che non sussistono le ragioni, stabilite dall’art. 374 c.p.c., per la rimessione della causa alle sezioni unite per quanto auspicato dal ricorrente. La questione di diritto su cui si incentra il ricorso è stata, piuttosto, di recente già decisa in senso uniforme in tutte le ordinanze rese da questa Corte tra le medesime parti all’esito delle adunanze ex art. 380 bis.1 c.p.c. del 18 ottobre 2017, del 22 marzo 2018 e del 18 giugno 2018, peraltro condividendo il principio di diritto enunciato da Cass. Sez. U, 16/02/2017, n. 4090.
Neppure si rende opportuna la trattazione in pubblica udienza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2.
6. Tuttavia, nelle conclusioni scritte del 30 novembre 2018, depositate dal pubblico ministero per tutti i ricorsi proposti da Q.B. nei confronti della UnipolSai Assicurazioni S.p.A., fissati per l’adunanza camerale dell’il gennaio 2019, è stato rilevato come, nelle ordinanze rese all’esito dell’adunanza del 22 marzo 2018, questa Corte abbia respinto la conclusione, formulata dal medesimo ufficio del pubblico ministero, volta alla revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, argomentando dal difetto del presupposto della mala fede o colpa grave, così tuttavia dando per scontata la propria competenza a decidere in ordine alla revoca in oggetto.
Viceversa, nelle ordinanze rese tra le stesse parti all’esito della successiva adunanza del 18 giugno 2018, questa Corte ha espresso il diverso convincimento, così massimato:
“In tema di patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, la competenza a provvedere sulla revoca per il giudizio di cassazione spetta al giudice di rinvio ovvero a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato, similmente a quanto avviene nei procedimenti penali e con riguardo alla liquidazione degli onorari e delle spese del difensore in cassazione, ai sensi rispettivamente del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 112, comma 3, e art. 83, comma 2. Tale revoca, avendo efficacia retroattiva nelle ipotesi previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, commi 2 e 3, ripristina l’obbligo della parte assistita in giudizio di sopportare personalmente le spese della sua difesa e determina, perciò, le conseguenti restituzioni sulla base di accertamenti di fatto che esulano dai poteri cognitori della Corte di cassazione” (Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 23972 del 02/10/2018 – Rv. 650634 – 01).
6.1.In motivazione, l’ordinanza n. 23972 del 02/10/2018, come altre pronunciate all’esito dell’adunanza del 18 giugno 2018, affermava:
“Non deve qui provvedersi sull’istanza di revoca dell’ammissione provvisoria al patrocinio a spese dello Stato avanzata dal Pubblico Ministero. Il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) indica quali siano i presupposti legittimanti la revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio, specificando, peraltro, che se l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, la revoca ha effetto retroattivo. L’art. 112, comma 3, del T.U. Spese, nell’ambito delle disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel processo penale, chiarisce, a proposito della revoca del decreto di ammissione, che “competente a provvedere è il magistrato che procede al momento della scadenza dei termini suddetti ovvero al momento in cui la comunicazione è effettuata o, se procede la Corte di cassazione, il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato”. Un’identica esplicita previsione di competenza in ordine alla revoca non è stabilita per i processi civili davanti alla Corte di cassazione. Peraltro, l’art. 83, comma 2, T. U. Spese, per il giudizio di cassazione, affida anche la liquidazione dell’onorario e delle spese spettanti al difensore al giudice di rinvio, ovvero a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato. Deve quindi ritenersi che competente a provvedere sulla revoca dell’ammissione al patrocinio per il giudizio di cassazione, come nella specie provvisoriamente disposta dal consiglio dell’ordine degli avvocati, sia comunque il giudice di rinvio, ovvero quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato. Avendo, peraltro, efficacia retroattiva, nelle ipotesi indicate dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, commi 2 e 3, il provvedimento di revoca ripristina l’obbligo della parte assistita in giudizio di sopportare personalmente le spese della sua difesa (Cass. Sez. 1, 05/03/2010, n. 5364), e determina perciò le conseguenti restituzioni sulla base di accertamenti di fatto esulanti dai poteri cognitori della Corte di cassazione”.
6.2. Le conclusioni scritte del 30 novembre 2018, depositate dal pubblico ministero, citano l’opposta interpretazione, invero solo implicitamente prescelta nella motivazione di Cass. Sez. 3, Sentenza n. 17037 del 28/06/2018, allorchè la Corte, preso atto che il competente Consiglio dell’Ordine non aveva rilevato la totale mancanza del requisito della “non manifesta infondatezza delle ragioni” del richiedente”, dispose essa stessa la revoca della ammissione al patrocinio a Spese dello Stato.
Anche Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 26060 del 17/10/2018, dopo aver rilevato che la ricorrente risultava ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ha proceduto alla revoca dell’ammissione per manifesta infondatezza della pretesa e per colpa grave nel promovimento del giudizio, “con effetto retroattivo e con quanto ne consegue in tema di obbligo di pagamento del doppio contributo unificato”.
6.3. Al contrario, va però evidenziato come, ad esempio, Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 5535 del 08/03/2018, affermava in modo esplicito:
“il potere di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, attribuito dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136 al giudice davanti al quale si procede, in base alla ricostruzione sistematica di cui si è dato fin qui conto (e che sostanzialmente qualifica la revoca come espressione, in senso negativo, del medesimo potere di liquidazione dei compensi spettanti al difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio), deve ritenersi riservato al giudice di ciascun grado del giudizio di merito, in relazione alla (sola) fase processuale svoltasi davanti a lui, mentre, per quanto attiene al giudizio di legittimità, va riconosciuto in capo al giudice di merito cui spetta il potere di liquidazione dei relativi compensi ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 83 (cfr., per l’individuazione di tale giudice, Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 11028 del 13/05/2009, Rv. 608343 – 01; Sez. 1, Ordinanza n. 23007 del 12/11/2010, Rv. 614529 – 01). Si tratta comunque di un potere diverso rispetto a quello di decidere la controversia tra le parti, e per tale motivo esso va di regola esercitato con autonomo decreto, la cui natura è quella di un provvedimento non decisorio e non definitivo in relazione al merito della suddetta controversia, rispetto alla quale risulta del tutto estraneo, sia per quanto attiene all’oggetto, sia per quanto attiene alle parti del procedimento”.
6.4. Le conclusioni scritte del 30 novembre 2018 del pubblico ministero ritengono non pertinente il richiamo all’art. 112, comma 3, del T.U. Spese, in quanto del tutto diverse sono le fasi ed i presupposti dell’ammissione al patrocinio nel processo penale e nel processo civile, e conseguentemente diverse sono le ipotesi della revoca, che nel solo processo civile può avvenire altresì “per ragioni di merito”, e cioè se l’azione o l’impugnazione sia stata esercitata con mala fede o colpa grave. A dire del pubblico ministero, solo il giudice della fase e del grado, e quindi anche la Corte di Cassazione ove si proceda innanzi ad essa, può valutare la manifesta infondatezza della domanda o dell’impugnazione, e non certo poi il giudice di merito del grado precedente, il quale abbia pronunciato la sentenza passata in giudicato, pur essendo chiamato dalla legge a liquidare il compenso al difensore della parte ammessa al patrocinio.
6.4.1. Questa considerazione sembra partire, quindi, dall’assunto della necessaria identificazione del giudice che valuta se il soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave ai fini della responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., col giudice che, invece, valuta se l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave ai fini della revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Al contrario, può osservarsi come la decisione sulla responsabilità aggravata nello svolgimento dell’attività processuale spetta certamente alla competenza funzionale e inderogabile del giudice cui parimenti spetta di conoscere il merito della causa, e perciò va esercitata nel provvedimento che determina l’esito della lite da cui si pretenda di dedurre la medesima responsabilità; viceversa, la revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio, ove mai l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, non va adottata con la sentenza che definisce il giudizio sulla domanda di merito, ma necessariamente con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, restando tale decreto soggetto al rimedio dell’opposizione ex art. 170 dello stesso d.P.R., nell’ambito di distinto procedimento che non coinvolge le altre parti del processo “principale”, e piuttosto intercorre unicamente tra colui che aveva chiesto l’ammissione al patrocinio e l’Amministrazione statale (cfr. Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 29228 del 06/12/2017; Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 3028 del 08/02/2018).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in mancanza di espressa previsione normativa, il mezzo di impugnazione avverso il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nei giudizi civili è, infatti, proprio l’opposizione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170, al presidente del tribunale o della corte d’appello ai quali appartiene il magistrato che ha emesso il decreto di revoca, avendo tale opposizione, nel contesto del testo unico in tema di spese di giustizia, natura di rimedio di carattere generale (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13807 del 23/06/2011 Rv. 618348 – 01). Ai fini della decisione sulla questione in esame, meritano quindi considerazione altresì le esigenze sistematiche di ragionevolezza solitamente ravvisate in giurisprudenza sull’indeclinabile presupposto della inesperibilità dello strumento impugnatorio dell’opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170, con riguardo a provvedimenti pronunciati da collegi della Corte di Cassazione (ad esempio, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23009 del 09/12/2004 Rv. 578688 – 01; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16986 del 25/07/2006 Rv. 591172 – 01). Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21610 del 04/09/2018, Rv. 650471 – 01, ha inoltre precisato proprio come “il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, comma 2, in materia di revoca del provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio, nel disporre che con decreto il magistrato revoca la suddetta ammissione nell’ipotesi in cui venga accertato che l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave, disancora il giudizio sul merito dell’azione giudiziaria proposta da quello della fondatezza del decreto di revoca, che deve basarsi esclusivamente sul dolo o colpa grave nell’agire in giudizio, e non sull’infondatezza dell’azione nel merito”.
Nel delineare il quadro normativo, va ora altresì considerato l’art. 130-bis, comma 1, del T.U. Spese, inserito dal D.L. n. 113 del 2018, art. 15, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. n. 132 del 2018, norma che preclude al giudice competente per la liquidazione di riconoscere alcun compenso al difensore della parte ammessa al patrocinio allorchè l’impugnazione sia dichiarata inammissibile.
6.5.Le conclusioni del pubblico ministero rappresentano altresì l’ulteriore negativa conseguenza correlata alla eventuale esclusione della competenza della Corte di Cassazione sulla revoca dell’ammissione, in quanto ciò comporterebbe una generalizzata “disapplicazione di fatto”, in favore del soccombente ammesso al patrocinio, dell’obbligo di versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
6.5.1. Anche a tale conclusione si potrebbe replicare come, ad avviso di Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 26907 del 24/10/2018, (Rv. 651141 – 01), “… il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che pone a carico del ricorrente rimasto soccombente l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non impone al giudice di dichiarare, oltre alla ricorrenza di un caso di infondatezza, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, anche se la parte, in dipendenza di tale esito, sia in concreto tenuta al versamento del contributo, essendo tale accertamento rimesso all’amministrazione giudiziaria e, quindi, al funzionario di cancelleria”. Di tal che, afferma in motivazione la Sentenza n. 26907 del 24/10/2018, “… tanto nei casi di esenzione dal contributo, quanto nei casi di prenotazione a debito, il giudice deve comunque attestare se ha adottato una pronuncia di inammissibilità o improcedibilità o di “respingimento integrale”, competendo poi esclusivamente all’Amministrazione valutare se nonostante l’attestato tenore della pronuncia, che evidenzia il presupposto giurisdizionale dell’esito del processo di impugnazione legittimante in astratto la debenza del doppio contributo, in concreto la doppia contribuzione spetti. Di modo che se l’Amministrazione constati l’esenzione o la prenotazione a debito (come nel caso di patrocinio a spese dello Stato), le ulteriori deliberazioni competono esclusivamente ad essa e contro di esse la reazione della parte dovrà estrinsecarsi con i mezzi di tutela contro l’eventuale illegittima pretesa di riscossione e ciò senza che l’attestazione del giudice civile possa leggersi come di debenza della doppia contribuzione, atteso che essa non ha tale oggetto”.
Già Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014 (Rv. 630551 – 01) osservava che, nella previsione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, “l’obbligo del pagamento del contributo aggiuntivo sorge ipso iure, per il solo fatto del formale rilevamento della sussistenza dei suoi presupposti, al momento stesso del deposito del provvedimento di definizione dell’impugnazione: sicché da quello stesso momento è attivabile pure il procedimento per la relativa riscossione. In questo contesto, tale rilevamento non può quindi costituire un capo del provvedimento di definizione dell’impugnazione dotato di contenuto condannatorio, nè di contenuto declaratorio: a tanto ostando anzitutto la mancanza di un rapporto processuale con il soggetto titolare del relativo potere impositivo tributario, che non è neppure parte in causa, e quindi irrimediabilmente la carenza di domanda di chicchessia o di controversia sul punto e comunque discendendo il rilevamento da un obbligo imposto dalla legge al giudice che definisce il giudizio. Deve allora ritenersi che la lettera della disposizione conferisca al giudice dell’impugnazione il solo potere-dovere di rilevare la sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, cioè che l’impugnazione sia stata rigettata integralmente, ovvero dichiarata inammissibile o improcedibile. Pertanto, non può e non deve il giudice che definisce l’impugnazione operare valutazioni o declaratorie di sorta, visto che la sussistenza o meno di quei presupposti è un fatto insuscettibile di diversa estimazione e che il rilevamento di quelli non è legato in alcun modo alla condanna alle spese, ma è reso oggetto di una mera presa d’atto; ed il capo del provvedimento con una tale presa d’atto costituisce solo il presupposto per l’insorgenza dell’obbligo di pagamento in capo al soccombente”.
6.5.2. Ciò significherebbe che, spettando al giudice dell’impugnazione (ovvero, nella specie, alla stessa Corte di Cassazione), nel pronunciare il provvedimento che la definisce, di dare atto – senza ulteriori valutazioni decisorie – della sola astratta sussistenza dei presupposti (rigetto integrale, ovvero inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte del soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non sarebbe in alcun modo pregiudicato il potere del magistrato competente per la revoca dell’ammissione provvisoria al patrocinio, ove risulti l’insussistenza dei presupposti per l’ammissione ovvero ove l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, di riconoscere retroattivamente (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, comma 3) l’obbligo della parte che abbia subito la revoca a versare all’erario le spese prenotate a debito in forza del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 131.
6.5.3. Come già osservava l’ordinanza n. 23972 del 02/10/2018, la competenza in ordine ai recuperi ed alle restituzioni discendenti dall’efficacia retroattiva della revoca dell’ammissione al patrocinio coinvolge, del resto, la necessità di compiere accertamenti di fatto in ordine a documenti e circostanze normalmente esulanti dai limitati poteri cognitori della Corte di Cassazione.
6.6.Stante, comunque, la difformità (quanto meno implicita), segnalata dal pubblico ministero, delle decisioni in punto di competenza a provvedere sulla revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nei giudizi civili su cui procede la Corte di Cassazione, e rilevata pure la particolare importanza della questione di massima, il Collegio ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
P.Q.M.
La Corte dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2019.

Il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza è un comportamento colposo del danneggiato

Cass. Civ., sez. III, ordinanza 30 gennaio 2019 n. 2531 (Pres. Frasca, rel. Moscarini)

Il comportamento colpevole del danneggiato non può in ogni caso valere ad interrompere il nesso causale tra la condotta del conducente del veicolo e la produzione del danno ne’ vale ad integrare un valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili. Può esservi, al più, concorso di colpa fra le parti, con riduzione percentuale del risarcimento del danno, ma non certo esclusione totale di responsabilità in capo al conducente del veicolo e del relativo obbligo risarcitorio. La circostanza che vi sia una concausa nella produzione dell’evento di danno non esclude la concorrenza delle cause nella produzione del medesimo, ne’ consente di ritenere interrotto legittimamente il nesso causale tra la condotta del conducente e il danno. In materia di sinistro stradale, il conducente é responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero, sicché la causazione del danno da mancato utilizzo è imputabile sia a lui che al passeggero.

RILEVATO che:
(…), danneggiata quale terza trasportata in un incidente stradale occorso in (…), convenne davanti al Tribunale di Catanzaro, con atto di citazione del ….2004, la (…) S.p.A., (…), proprietario dell’autovettura danneggiante e (…), conducente, per sentir accertare la responsabilita’ della (…) nell’incidente e la condanna dei convenuti al pagamento della somma di Euro 25.800,00 a titolo di risarcimento danni patrimoniali e non patrimoniali. La (…) si costitui’ in giudizio contestando la domanda e affermando che le lesioni si erano verificate per la determinante ed esclusiva responsabilita’ dell’attrice che, al momento del sinistro, non indossava le cinture di sicurezza.
Il Tribunale di Cosenza, con sentenza del 1/2/2012, accolse la domanda e condanno’ i convenuti al pagamento, in favore della (…), della somma di Euro 7.721,00 a titolo di danno biologico oltre interessi compensativi sulla somma devalutata dal di’ del sinistro e rivalutata fino alla data di pubblicazione della sentenza, oltre interessi legali e al pagamento della somma di Euro 16.385,30 a titolo di danno patrimoniale futuro, oltre interessi, previa detrazione della somma di Euro 4.500 gia’ corrisposta a titolo di acconto.
La (…), succeduta alla (…), propose appello denunziando la violazione dell’articolo 111 Cost., articoli 132 e 161 c.p.c. per essere la sentenza carente di motivazione; per erronea valutazione delle prove testimoniali e della consulenza tecnica d’ufficio e per erronea ed eccessiva quantificazione del danno.
La Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza del 6/6/2016 n. 923, a seguito di nuova CTU, per quel che ancora rileva in questa sede, ha rigettato il primo motivo, ritenendo che la sentenza avesse soddisfatto, sia pur in modo sommario, il requisito della sufficiente esposizione del fatto; ha rivalutato le prove, ritenendo che la (…) aveva sbandato non solo per aver perso il controllo del mezzo ma anche a causa della ghiaia presente sul fondo stradale; ha preso atto delle risultanze della consulenza tecnica, secondo le quali vi era incompatibilita’ tra le lesioni riportate dalla danneggiata e l’uso delle cinture di sicurezza e, ritenuto tale comportamento rilevante ai sensi dell’articolo 2056 c.c. e articolo 1227 c.c., comma 2, in accoglimento del secondo motivo di appello, ha ridotto proporzionalmente il risarcimento, in ragione dell’entita’ del contributo causale della danneggiata alla produzione del danno, stimato nella misura del 30%, ed ha escluso il danno patrimoniale derivante dalla terapia ortodontica e protesica, riconducibile all’esclusivo comportamento della medesima. In parziale riforma della sentenza di primo grado a Corte territoriale ha riconosciuto, a titolo di danno biologico, la somma di Euro 5.404,70 gia’ ridotta del 30% e comprensiva del danno morale, oltre interessi compensativi sulla somma devalutata e poi rivalutata per un totale, alla data del 10/2/2012, di Euro 6.418,90 con detrazione dell’acconto, per una somma residua di Euro 166,85, oltre interessi compensativi sulla somma rivalutata, per un totale di Euro 242,02 oltre interessi legali fino al saldo. Ha compensato tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Avverso quest’ultima sentenza (…) propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Nessuno resiste al ricorso.

Ragioni della decisione

1.Con il primo motivo (nullita’ della sentenza per violazione dell’articolo 112 c.p.c. – vizio di ultrapetizione (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4)) censura la sentenza con riguardo alla modifica dell’importo riconosciuto a titolo di danno biologico, in assenza di espresse conclusioni dell’appellato in tale senso. La sentenza avrebbe errato e sarebbe pertanto viziata da ultrapetizione perche’ la domanda dell’appellato era rivolta solo a rettificare l’importo dovuto a titolo di danno patrimoniale, mentre il Giudice e’ intervenuto sul quantum del danno non patrimoniale (biologico e morale), riducendone l’importo. Peraltro, a conferma dell’assunto della ricorrente, si porrebbe il capo di sentenza d’appello che, con riguardo al terzo motivo di appello, relativo al danno morale liquidato in sentenza, aveva evidenziato l’omissione, nelle conclusioni, della riforma della sentenza di primo grado sul punto.
1.1 Il motivo e’ privo di fondamento, perche’ da’ una lettura del tutto non giustificata delle conclusioni riportate nella sentenza. E’ sufficiente rilevare che in prima battuta risulta chiesta la dichiarazione di nullita’ della sentenza, che evidentemente, non poteva che riguardare anche il profilo relativo al danno biologico. In ogni caso, il motivo avrebbe dovuto dimostrare, con opportuni riferimenti al tenore dell’appello, che le argomentazioni giustificavano la lettura fatta dalla ricorrente quanto alle conclusioni, evidentemente equivoche.
2. Con il secondo motivo (violazione o falsa applicazione degli articoli 1227, 2043, 2054, 2055 e 2056 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3)) la ricorrente censura il capo di sentenza che ha escluso il nesso di causalita’ tra il comportamento del conducente ed il danno patrimoniale occorso alla danneggiata, consistente nelle lesioni riportate e nella necessita’ di sottoporsi ad una terapia ortodontica e protesica. La sentenza avrebbe errato nell’escludere il nesso causale tra la condotta della conducente e la produzione del danno e nel non rilevare che, pur in presenza di una riduzione del risarcimento dovuto al concorso di colpa del danneggiato, restava fermo il nesso causale tra la condotta del conducente ed il danno, come pure l’elemento soggettivo della colpa, intesa quale omissione di diligenza e prudenza.
2.1 Il motivo e’ fondato. Il comportamento colpevole del danneggiato non puo’ in ogni caso valere ad interrompere il nesso causale tra la condotta del conducente del veicolo e la produzione del danno ne’ vale ad integrare un valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili. Puo’ esservi, al piu’, concorso di colpa fra le parti, con riduzione percentuale del risarcimento del danno, ma non certo esclusione totale di responsabilita’ in capo al conducente del veicolo e del relativo obbligo risarcitorio. La circostanza che vi sia una concausa nella produzione dell’evento di danno non esclude la concorrenza delle cause nella produzione del medesimo, ne’ consente di ritenere interrotto legittimamente il nesso causale tra la condotta del conducente e il danno. Ne consegue, pertanto, che la sentenza avrebbe dovuto limitarsi a ridurre proporzionalmente il quantum risarcitorio piuttosto che escludere il nesso di causalita’.
La corte territoriale non ha considerato che il conducente e’ responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero, sicche’ la causazione del danno da mancato utilizzo e’ imputabile sia a lui che al passeggero. Si veda, al riguardo, Cass. n. 18177 del 2007: “In materia di responsabilita’ civile, in caso di mancata adozione delle cinture di sicurezza da parte di un passeggero, poi deceduto, di un veicolo coinvolto in un incidente stradale, verificandosi un’ipotesi di cooperazione nel fatto colposo, cioe’ di cooperazione nell’azione produttiva dell’evento, e’ legittima la riduzione proporzionale del risarcimento del danno in favore dei congiunti della vittima”.
Cio’ risponde, peraltro, alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, qualora la messa in circolazione di un veicolo in condizioni di insicurezza e’ ricollegabile oltre che all’azione o all’omissione del conducente, il quale deve controllare, prima di iniziare o proseguire la marcia, che questa avvenga in conformita’ delle normali norme di prudenza e sicurezza anche al fatto del trasportato, che ha accettato i rischi della circolazione, si verifica un’ipotesi di cooperazione colposa dei predetti nella condotta causativa dell’evento dannoso. Pertanto, in caso di danni al trasportato medesimo, sebbene la condotta di quest’ultimo non sia idonea di per se’ ad escludere la responsabilita’ del conducente, ne’ a costituire valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili, essa puo’ costituire nondimeno un contributo colposo alla verificazione del danno, la cui quantificazione in misura percentuale e’ rimessa all’accertamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimita’ se correttamente motivato (Cass., 3, n. 4993 dell’11/3/2004; Cass., 3, n. 10526 del 13/5/2011; Cass., 3, n. 6481 del 14/3/2017). Accertamento che nella specie non e’ stato in alcun modo espresso e che anzi, se lo fosse stato, per evidenti ragioni di coerenza, avrebbe dovuto estrinsecarsi nel riconoscimento di una percentuale di responsabilita’ della danneggiata per la causazione del danno patrimoniale necessariamente similare a quella stessa per il danno alla persona, cioe’ del 30%.
La sentenza in esame, che ha escluso del tutto il nesso causale, non e’ pertanto conforme alla citata giurisprudenza e merita sul punto di essere cassata con rinvio, affinche’ il giudice del merito, in luogo di escludere il danno patrimoniale, lo riconosca e lo quantifichi, riducendo per simmetria l’importo del medesimo di una percentuale del 30%, pari a quella relativa al concorso di colpa della danneggiata nella produzione del danno alla persona.
3. Con il terzo motivo (omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti (articolo 360 c.p.c., n. 5)) la ricorrente censura la sentenza nella parte in cui non avrebbe considerato il fatto, non contestato tra le parti, che l’autovettura colpita da incidente fosse sprovvista di airbag, nonostante cio’ avesse costituito argomento di discussione tra le parti: la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare tale elemento, concentrando la sua attenzione esclusivamente sul mancato allaccio della cintura di sicurezza.
3.1 Il motivo e’ inammissibile in primo luogo per difetto di specificita’, atteso che non si evidenzia se l’airbag doveva esser presente sul veicolo ed eventualmente era stato rimosso e, prima ancora, se e dove la relativa questione era stata prospettata. Sotto tale profilo il motivo pone una questione nuova, il che rende il motivo ulteriormente inammissibile in sede di legittimita’.
4. Con il quarto motivo (violazione o falsa applicazione dell’articolo 2727 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3)) censura la sentenza nella parte in cui avrebbe svolto un ragionamento presuntivo circa la compatibilita’ delle lesioni riportate dall’appellato con l’uso delle cinture di sicurezza mentre la difesa della (…) aveva eccepito in ordine all’adeguatezza delle cinture.
4.1 Il motivo resta a questo punto assorbito in ragione dello scrutinio precedente.
5. Con il quinto motivo (violazione o falsa applicazione degli articoli 1281, 1282 e 1284 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3)) si censura la sentenza nella parte in cui non avrebbe considerato la rivalutazione monetaria sulla somma residua da corrispondere alla (…).
5.1. Il motivo e’ palesemente privo di fondamento, atteso che la sentenza ha correttamente applicato la decisione delle Sezioni Unite di cui a Cass., Sez. Un, n. 1712 del 1995, su un importo prima rivalutato.
6. Conclusivamente la Corte accoglie il secondo motivo del ricorso e, rigettati o assorbiti gli altri, cassa in relazione e rinvia alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, rigettati o assorbiti gli altri come in motivazione, cassa la sentenza in relazione e rinvia alla Corte d’Appello di Catanzaro, in diversa composizione anche per le spese del giudizio di cassazione.

Il divario economico rilevante tra le parti non è sufficiente per il riconoscimento dell’assegno divorzile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI TREVISO
SEZIONE PRIMA CIVILE
Il Tribunale, nella persona dei magistrati:
dott.ssa Daniela Ronzani – Presidente
dott. Alberto Barbazza – Giudice rel.
dott.ssa Alessandra Pesci – Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel procedimento R.G. n. 9978/2017 per lo scioglimento del matrimonio promosso
da
MAURO,
rappresentato e difeso dall’avv.ti Andrea Bertoni e Lucia Fantato, per mandato a margine del ricorso introduttivo, con domicilio eletto presso lo studio dello stesso in Pederobba (TV);
– RICORRENTE –
contro
ANA MARIA,
rappresentata e difesa dall’avv. Patrizia Massa, per mandato in calce alla comparsa di costituzione e risposta ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima in Treviso;
– RESISTENTE –
e con l’intervento del
PUBBLICO MINISTERO,
– INTERVENTORE EX LEGE –

Conclusioni delle parti
Per parte ricorrente:
Come da memoria integrativa: “Voglia l’Ill.mo Tribunale, disattesa ogni diversa e ulteriore istanza,
– pronunciare lo scioglimento del matrimonio dei coniugi Mauro e De Ana Maria, ordinando le conseguenti annotazioni all’ufficiale di stato civile, un tanto con immediata sentenza parziale sullo status.
– escludere l’obbligo di somministrare qualsivoglia assegno da parte di un coniuge a favore dell’altro a partire dalla data di deposito del ricorso introduttivo.
Competenze e spese di lite rifusi, oltre spese generali e accessori di legge (4% Cassa Avvocati e 22% iva su imponibili)”.
Per parte resistente:
Come da memoria integrativa. Nel Merito: Dichiararsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato in data 13.12.2007 ordinandosi la trascrizione della stessa presso il competente Ufficio dello Stato Civile;
Respingersi ogni e qualsivoglia domanda ex adverso formulata dal ricorrente per i motivi tutti di cui in narrativa;
Disporsi l’obbligo in capo al Sig. di versare un assegno divorzile alla Sig. ra Anamaria pari ad € 1.900,00 mensile o quella maggior o minor somma che sarà ritenuta di giustizia con rivalutazione Istat;
In via istruttoria: Riservata ogni istanza eccezione e produzione nei termini.
Con vittoria di spese, diritti ed onorari”.
Per il Pubblico Ministero:
Dichiararsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto in Pederobba il 9 novembre 2007, alle condizioni ritenute di giustizia”.
CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI
DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
ex art. 132, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ.
Con ricorso depositato in data 20 dicembre 2017 Mauro esponeva di aver contratto matrimonio con Ana Maria in data 13 dicembre 2007 in Venezuela, scegliendo il regime patrimoniale della separazione dei beni, ed evidenziava che dall’unione non era nato alcun figlio.
In seguito all’instaurazione del presente procedimento per lo scioglimento del matrimonio, all’udienza del 3 giugno 2018 il Presidente f.f. confermava le condizioni previste in sede di separazione, concernenti l’obbligo per di corrispondere € 1.500,00 mensili alla moglie.
Il ricorrente riferiva di essere lavoratore dipendente di una ditta italiana in Argentina, con stipendio di circa 4.600,00 € mensili per tredici mensilità. Dichiarava di non avere alcuna spesa per l’alloggio, messo gratuitamente a disposizione dall’azienda, e di essere proprietario di un immobile in Italia, acquistato prima del matrimonio, per il quale corrisponde ancora oggi un mutuo di circa € 1.000,00 mensili.
Quanto alla moglie, egli riferiva che la stessa viveva in Italia ed era laureata in commercio estero. Specificava inoltre che si era dimessa volontariamente dall’azienda per cui lavorava e, successivamente, anche da altra attività lavorativa reperitale dal marito stesso, quale segretaria nella stessa azienda datrice di lavoro del ricorrente.
Chiedeva dunque pronunciarsi lo scioglimento del matrimonio e l’accertamento di non dover corrispondere nulla a titolo di assegno divorzile nei confronti della moglie.
Con comparsa di costituzione e risposta si costituiva Ana Maria, la quale deduceva di essere giunta in Italia per seguire il marito, lasciando il proprio lavoro e la propria famiglia. Dichiarava di vivere in locazione, pagando un canone di € 550,00 mensili e di aver lasciato il lavoro dopo il matrimonio, d’accordo con il marito.
Specificava di averlo successivamente seguito in una diversa località e di essersi licenziata dall’impiego come segretaria, scelta condivisa con il in quanto non riusciva a vedere il marito e le mansioni assegnatele non erano soddisfacenti.
Deduceva di essersi poi trasferita in Italia, sempre d’accordo con il marito, e di non essere riuscita a reperire alcuna attività lavorativa, nonostante l’invio di numerosi curricula, in quanto non conosceva bene la lingua. Specificava, inoltre, di aver frequentato un corso di italiano per stranieri e che era sempre stato il marito a chiederle di seguirlo nei suoi spostamenti, dicendo che la avrebbe mantenuta lui.
La resistente aderiva alla richiesta di pronuncia dello scioglimento del matrimonio, ma si opponeva a quella relativa alla corresponsione dell’assegno di mantenimento.
Lamentando, infatti, un’evidente maggiore capacità economica del chiedeva disporsi a suo favore un assegno di € 1.900,00 mensili, con rivalutazione monetaria annuale ex lege in base agli indici ISTAT.
All’udienza del 20 settembre 2018 avanti al Giudice Istruttore comparivano le parti, le quali rinunciavano alla concessione di termini ex art. 183, comma VI, cod. proc. civ. e precisavano le conclusioni. Il Giudice mandava la causa al Pubblico Ministero e si riservava di riferire al Collegio, concedendo termini ex art. 190 cod. proc. civ.
La domanda di accertamento negativo relativamente alla sussistenza dell’obbligo al versamento di assegno divorzile formulata dal è fondata e va accolta per le ragioni che seguono.
1. Giurisdizione e legge applicabile
Va innanzitutto rilevato che il matrimonio tra le parti è stato celebrato in Venezuela.
Ai sensi dell’art. 3 Regolamento CE n. 2201/2003 (c.d. Bruxelles II bis) sussiste la giurisdizione italiana, stante la residenza abituale in Italia della convenuta.
Quanto alla legge applicabile alla presente controversia, dato atto che deve ritenersi siano utilizzabili, ratione temporis, i criteri di collegamento individuati dal Regolamento UE n. 1259/2010 del Consiglio del 20 dicembre 2010 (in quanto applicabile ex art. 18 ai procedimenti avviati a partire dal 21 giugno 2012), va individuata nella legge italiana, ex art. 8 Regolamento UE n. 1259/2010 (Cosiddetto Roma III), essendo stata adita l’autorità giudiziaria italiana.
2. La disciplina normativa di cui all’art. 5, legge 1 dicembre 1970, n. 898
2.1 Il diritto al riconoscimento di un assegno divorzile è previsto dalla legge 1 dicembre 1970, n. 898 la quale, all’art. 5, comma sesto, dispone: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
L’interpretazione di tale disposizione deve essere rivisitata in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite 11 luglio 2018, n.18287, con la quale la Suprema Corte ha cercato di offrire alcune chiavi di volta ai giudici di merito per la determinazione e quantificazione dell’assegno divorzile, a fronte del variegato panorama giurisprudenziale formatosi successivamente al revirement compiuto dalla prima sezione della Corte di Cassazione nel maggio 2017 con la sentenza n. 11504, chiarendo che non deve ritenersi sussistente alcuna scissione tra “an debeatur” e “quantum debeatur”, come invece ritenuto per orientamento consolidato sin dalle Sezioni Unite del 29 novembre 1990 n. 11490.
Per maggiore chiarezza espositiva devono essere ripercorsi le fasi salienti dell’iter giurisprudenziale.
2.2.1 In un primo momento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 2008 del 1974) avevano attribuito all’istituto dell’assegno divorzile una natura composita, al contempo assistenziale, risarcitoria e compensativa.
In seguito alla riforma introdotta dalla l. n. 74 del 1987, si è ritenuto dovesse essere effettuato un giudizio bifasico, stabilendo in primo luogo se sussistesse o meno un diritto all’assegno e solo successivamente quantificandone l’ammontare. L’an veniva individuato nella sussistenza di mezzi adeguati, e dunque slegato da parametri legali, mentre il quantum era parametrato in base ai criteri indicati nel modificato art 5 l. div.
2.2.2 Si è successivamente affermata in giurisprudenza una funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno, fondata, quanto alla fase di accertamento del diritto all’assegno divorzile, sul criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (il cui apice si è registrato in Cass. civ., Sez. Unite, sent. 29 novembre 1990, n. 11490), parametro tuttavia privo di un riferimento legislativo, costruito sul presupposto dell’ “inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati a un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio” (fra le altre, cfr. Cassazione civile, sentenza 21 ottobre 2013, n. 23797).
Tale criterio andava desunto “dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali” (in questo senso, anche Cassazione civile, sentenza 9 giugno 2015, n. 11870; Cassazione civile, sentenza 12 luglio 2007, n. 15610; Cassazione civile, sentenza 28 febbraio 2007, n. 4764): l’inadeguatezza dei mezzi era quindi intesa come insufficienza delle sostanze e dei redditi del richiedente ad assicurargli la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.
2.2.3 La circostanza che il tenore di vita non trovasse un suo riferimento nel dato legislativo aveva portato alla rimessione della questione alla Corte costituzionale, con ordinanza del 22 maggio 2013 da parte del Tribunale di Firenze. Infatti ci si era chiesti se l’interpretazione fornita dal diritto vivente di un assegno volto a garantire al coniuge più debole economicamente il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio fosse compatibile con la Costituzione. Con sentenza n. 11 del 2015 la Corte ha dichiarato la questione non fondata, stabilendo che il tenore di vita dovesse essere tenuto in considerazione in astratto quale tetto massimo della misura dell’assegno, suggerendo inoltre una concezione unitaria del giudizio tra an debeatur e quantum debeatur.
2.2.4 L’interpretazione dell’articolo 5, comma sesto, l. div. è stata profondamente modificata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 10 maggio 2017, n. 11504, poi confermata dalla sentenza 22 giugno 2017, n. 15481.
La Suprema Corte ha ritenuto in tale arresto giurisprudenziale che la presenza di mezzi adeguati o la possibilità di procurarseli comporti la negazione del diritto all’assegno divorzile. Poiché con il divorzio si attua uno scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale, si sarebbe dovuto accertare il raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente, al quale non doveva essere riconosciuto il diritto se economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo.
La Corte di Cassazione, pertanto, aveva confermato la finalità assistenziale dell’assegno, evidenziando però la necessità di sostituire il parametro del tenore di vita matrimoniale con quello dell’autosufficienza economica. Va rilevato, però, che anche tale criterio non trova appiglio in alcun specifico riferimento legislativo, al pari del tenore di vita.
2.2.5 Successivamente alla pronuncia del maggio 2017, si sono registrate diverse tesi in dottrina e giurisprudenza. In particolare, le Corti di merito hanno evidenziato i problemi legati al parametro dell’autosufficienza economica e alla necessità di valutarla in concreto, richiamando, ad esempio, quali criteri la capacità di sostenere le spese essenziali di vita, l’ammontare degli introiti che consente di accedere al patrocinio a spese dello Stato, il reddito medio percepito nella zona in cui vive il richiedente (si vedano, ad esempio, Trib. Milano, sez. IX, ordinanza 22 maggio 2017). Ancora, si è fatto riferimento alla necessità che il richiedente provi di essersi attivato per reperire un’occupazione lavorativa consona all’esperienza professionale maturata e al titolo di studi conseguito o di essere nell’impossibilità, per impedimento fisico o altro, di svolgere qualsivoglia attività lavorativa (Trib. Roma, sez. I, sent. 23 giugno 2017).
Altra parte della giurisprudenza si era invece discostata dal nuovo orientamento, continuando ancora a fare riferimento al precedente parametro del tenore di vita (cfr. Tribunale di Udine, sentenza 10 maggio 2017, che ha evidenziato che i concetti di “mezzi adeguati” e “indipendenza economica” non trovano riscontro nel tessuto normativo, oltre ad essere labili e forieri di divergenti interpretazioni).
2.3 A fronte di tali contrasti, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite non da parte di una Sezione semplice, ma da parte del Primo Presidente della Suprema Corte, il quale ha ravvisato nel contrasto una questione di massima di particolare importanza ex art. 374, comma secondo, cod. proc. civ.
Con la pronuncia del 2018, le Sezioni Unite hanno specificatamente affermato che l’art. 5, comma 6, l. div., è una norma autosufficiente, non essendo necessario ricercare i criteri per valutare l’adeguatezza dei mezzi all’esterno della stessa.
Pertanto, non sussiste alcuna distinzione tra la fase dell’an e del quantum debeatur, essendo necessario “abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dell’art. 5, comma 6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento”. Di conseguenza, i vari criteri indicati nella norma devono essere tenuti in considerazione dal Giudice in posizione equiordinata.
In relazione alla natura giuridica dell’assegno divorzile, la Suprema Corte, superando la tesi della funzione eminentemente assistenziale posta dalle Sezioni Unite del 1990 a fondamento del loro pensiero, ha specificato che allo stesso “deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa”.
A tal proposito, va ricordato che alla sentenza del 2018 sono state mosse delle censure, soprattutto da parte della dottrina, in quanto le Sezioni Unite avrebbero dettato dei principi di diritto in parte motiva poi non specificamente ripresi nel dispositivo, ingenerando confusione tra le diverse funzioni dell’assegno.
2.6 Al fine di individuare, pertanto, quale sia l’indicazione nomofilattica fornita dalla Corte per affrontare in modo uniforme le controversie al vaglio della giurisprudenza di merito, va dato rilievo alla circostanza che la pronuncia delle Sezioni Unite pone una particolare attenzione al metodo comparatistico, al fine di analizzare il quadro della legislazione degli altri paesi europei “in considerazione della natura dei diritti in gioco e della composizione del principio solidaristico ad essi sottesi”; solo il metodo comparato, infatti, con l’analisi delle varie soluzioni offerte in diversi ordinamenti al medesimo problema, permette di individuare le “soluzioni migliori” per il tempo ed il luogo in questione. Inoltre, tale metodo può essere utilmente impiegato anche nell’interpretazione di norme di diritto nazionale nella misura in cui sorgano dubbi sull’interpretazione delle stesse o si riscontrino specifiche lacune di un ordinamento giuridico che devono essere colmate dal giudice e per le quali il procedimento puramente letterale o logico non sia sufficiente. In tali casi, come nel presente in cui è dubbio quale debba intendersi la natura giuridica prevalente dell’istituto analizzato fra le tre evidenziate dalla Suprema Corte, va tenuto presente che l’odierno legislatore sempre più frequentemente si adegua a modelli e soluzioni comparate ed il metodo comparatistico diviene quindi fondamentale nell’analisi della ratio legis della disposizione.
2.6.1 Per ciò che concerne la Francia, l’art. 270, comma secondo, Code civil, stabilisce che uno dei coniugi può essere obbligato a versare all’altro una prestazione di carattere forfettario di natura compensatoria, di regola versata in un’unica soluzione (capital). Solo in via eccezionale, quando l’obbligato non sia in grado di adempiere con una singola dazione, il Giudice può disporre una dilazione periodica, ma per un arco temporale massimo.
Solo per specifica motivazione del giudicante e in via del tutto residuale, è prevista la possibilità di corresponsione di una rendita vitalizia (rente à vie) in casi residuali quali, ad esempio, l’incapacità del coniuge di provvedere autonomamente ai bisogni primari di vita.
Con la riforma del 2000, è stata inoltre stabilita la possibilità di riconoscere una prestazione mista fra rendita vitalizia e corresponsione in via capitale, confermando tuttavia che l’orientamento seguito dal legislatore francese è quello di non riconoscere assegni divorzili a tempo indeterminato, ma di consentire, da un lato, ai coniugi di mantenersi autonomamente o di reinserirsi nel mondo del lavoro e, dall’altro, di configurare tale dazione come una compensazione dei sacrifici sopportati da uno dei due in costanza di matrimonio.
2.6.2 Anche nell’ordinamento tedesco è centrale il principio di auto-responsabilità, ai sensi dei paragrafi 1569 e 1577 BGB e soltanto quando una delle parti non sia in grado di provvedere alle proprie esigenze di vita può essere richiesto il versamento di un assegno. Ciò accade, ad esempio, quando uno dei coniugi non riesca a reperire un’occupazione lavorativa per ragioni di età, malattia o infermità oppure ancora il diritto sussiste per almeno tre anni dopo la nascita di un figlio.
Regola fondamentale, pertanto, in Germania è quella degli incrementi patrimoniali, sulla base del modello di comunione differita dei paesi del Nord Europa. Soggiacendo a tale regola, qualora le parti non abbiano previsto diversamente, i coniugi non avranno un patrimonio comune e allo scioglimento del matrimonio sarà dunque suddiviso l’incremento patrimoniale prodotto da entrambi in costanza dell’unione, con il versamento di un conguaglio, parametrato in conseguenza.
2.6.3 Dalla breve analisi comparata svolta, pertanto, emerge come regola generale quella dell’autosufficienza di ciascun coniuge al termine del rapporto matrimoniale e della limitazione dell’assegno ad un periodo circoscritto, aspetto riscontrabile anche nei principi redatti dalla Commission on European Family Law (CEFL). Un assegno periodico vitalizio, invece, viene riconosciuto solo in via eccezionale e la corresponsione è inoltre parametrata ad accadimenti particolari.
2.6.4 Corollario di tale tesi è che la funzione assistenziale dell’assegno divorzile, basata sull’aspetto solidaristico letto alla luce dell’art. 2 Cost., non può e non deve essere considerata come equiparata agli altri aspetti perequativo – compensativi.
Così è ad esempio in Germania dove, come brevemente accennato sopra, l’assegno divorzile nei limitati casi in cui viene disposto va parametrato, sotto l’aspetto del quantum, agli incrementi patrimoniali che durante il matrimonio il soggetto avrebbe potuto conseguire e ai quali ha invece rinunciato per favorire lo sviluppo professionale e quindi reddituale del coniuge, con la conseguenza che in base a tale regola, la ricchezza viene redistribuita mediante il conguaglio dei rispettivi incrementi economici.
Con la precisazione, tuttavia, che tali analisi si scontrano necessariamente con la realtà economico–sociale e con la funzione di welfare dello Stato di riferimento: laddove, infatti, in quest’ultimo vi sia un modello di welfare forte, vi sarà una minor necessità della corresponsione di un assegno essendo garantita l’erogazione di prestazioni sociali e sussistendo maggiori possibilità per il soggetto di reinserirsi grazie a tale supporto nel mercato del lavoro, con l’effetto che tali prestazioni statali sostituiscono la funzione dell’assegno divorzile, rendendo superflua la corresponsione di somme da parte dell’altro coniuge allorché si abbracci una funzione compensativa dell’istituto.
In Italia, ove viceversa il sistema del welfare e del reinserimento lavorativo è molto ridotto, la corresponsione di un assegno divorzile, stante la presenza di ammortizzatori sociali, deve essere valorizzata anche quale strumento che consente al coniuge meno abbiente una vita dignitosa sino all’instaurarsi di una nuova situazione lavorativa.
In conclusione, sulla scorta di tali dati, deve ritenersi abbia maggior rilevanza quanto affermato dalla Suprema Corte in parte motiva, offrendo prevalenza alla natura perequativo-compensativa dell’assegno divorzile.
2.6.5 Non va tuttavia dimenticato, diversamente da quanto indicato, che la pronuncia della Suprema Corte attribuisce valore anche alla funzione assistenziale, fondata sull’art. 29 Cost., al fine di fornire, al contempo, protezione alla dignità della persona, evitando la creazione di ingiustificate rendite di posizione.
Se, di conseguenza, il fondamento dell’assegno non deve essere più riscontrato, come accadeva prima del 2017, nel principio di solidarietà ex art. 2 Cost., tuttavia tale funzione deve comunque trovare spazio in particolari situazioni di disagio.
2.7 La sentenza del 2018 ha certamente il merito di restituire dignità e importanza al vissuto della coppia nel matrimonio, dando rilievo al principio di solidarietà post-coniugale e senza che il divorzio possa azzerare il passato, come confermato anche da altre disposizioni, quali la previsione di una assegno a carico eredità o la ripartizione della quota del trattamento di fine rapporto.
Tuttavia, il principale problema che si palesa agli interpreti è relativo al passaggio motivazionale nel quale la Corte evidenzia che: “la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativocompensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economicopatrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall’assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro”.
Pertanto ed a tal fine, il principio di autoresponsabilità e di autodeterminazione deve essere coniugato con il principio di solidarietà in concreto, ponendolo a fondamento della spettanza dell’assegno e la pronuncia del 2018 delle Sezioni Unite, se è ben vero che offre delle indicazioni teoriche e degli spunti al giudice di merito per risolvere le situazioni poste al suo vaglio, non fornisce strumenti certi, in particolare in relazione all’iter da seguire.
2.8 Poste tali premesse sulla natura giuridica e sulla funzione dell’istituto, ed in base alle indicazioni fornite dalle recenti Sezioni Unite della Suprema Corte, il Collegio ritiene che il Giudice, per stabilire se attribuire o meno l’assegno, debba dunque verificare in primo luogo se sussista un divario rilevante nella situazione economica delle parti, eventualmente esercitando proprio in questa fase i poteri ufficiosi richiamati nella sentenza.
2.8.1 Se tale divario non emerge, non potrà essere riconosciuto alcun diritto al percepimento di un contributo economico da parte del richiedente.
2.8.2 Nel caso contrario, però, non per ciò solo vi sarà diritto ad un assegno divorzile: in presenza di un divario rilevante nella situazione economica delle parti, infatti, si deve innanzitutto comprendere quale sia la causa del divario stesso.
Infatti, solo qualora lo squilibrio sia conseguenza anche dei sacrifici effettuati dal richiedente, il diritto alla corresponsione dell’assegno vi sarà.
Viceversa, qualora nessuno dei coniugi si sia sacrificato a tal fine (solo a titolo di esempio, nel caso in cui matrimonio abbia avuto durata molto breve, non siano nati figli e non vi sono state rinunce delle parti allo sviluppo della propria professionalità per favorire la crescita della famiglia), non vi sarà spazio per il riconoscimento di un assegno divorzile.
In conclusione, dall’attenzione centrale fornita della Suprema Corte nella fase di determinazione dell’assegno al parametro perequativo-compensativo, deve necessariamente ritenersi che vi sarà un diritto all’assegno e che, sotto il profilo del quantum, sarà riconosciuto in misura proporzionalmente sempre maggiore, nel caso di esistenza di un rilevante divario economico – patrimoniale fra i coniugi formatosi anche come conseguenza della circostanza che uno di essi si è sacrificato per la famiglia e per consentire al compagno di sviluppare il patrimonio familiare.
L’assegno, viceversa, non vi sarà, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale fra i coniugi, qualora non vi sia stato alcun sacrificio di uno di essi per la formazione del patrimonio comune nel periodo dell’unione matrimoniale. Se, infatti, deve essere attribuita rilevanza centrale alla funzione compensativa, la quale mira a compensare i sacrifici fatti dai coniugi nel matrimonio, allora non vi può essere spazio per l’attribuzione dell’assegno quando i sacrifici non siano stati effettuati.
2.8.3 Avendo però l’assegno natura composita, è proprio in tale circostanza che deve essere recuperata la funzione assistenziale dell’istituto, riconoscendo al coniuge un assegno divorzile nel solo caso in cui non abbia mezzi adeguati per vivere e non sia in grado di procurarseli (per ragioni di età, salute, situazioni personali o sociali); tuttavia, sotto il profilo del quantum, in tale eventualità l’assegno dovrà essere ricondotto ad un importo sostanzialmente “alimentare”, ossia tale da garantire le esigenze minime di vita della persona.
Assume così nuova rilevanza, la funzione solidaristica dell’istituto, la quale riesce a garantire il rispetto dell’art. 2 Cost. senza, però, che attraverso il ricorso ad essa possano formarsi dei redditi di posizione. Pertanto, nel solo caso in cui venga riconosciuto l’assegno divorzile – sotto il profilo dell’an – in considerazione della funzione assistenziale (ossia sulla base di un duplice presupposto: il primo, alternativo, o dell’assenza di divario patrimoniale o della presenza di divario ma non generato anche dai sacrifici e dalle rinunce del coniuge debole, il secondo dell’assenza di mezzi adeguati per vivere e dell’incapacità del coniuge di procurarseli), la misura dell’assegno dovrà essere parametrata, sotto il profilo del quantum, a quel tantundem che consenta al richiedente di mantenersi per il tempo necessario a reinserirsi nel mondo del lavoro, senza far rivivere parametri para legislativi quali quello del “tenore di vita”.
Alla luce della funzione compensativa, dell’esistenza di un divario economico fra i coniugi e delle ragioni che hanno condotto alla formazione dello stesso, vanno poi valutati tutti gli altri parametri di cui all’art. 5, comma sesto, l. div., fra i quali posizione centrale assume la durata del matrimonio.
2.9 In tal modo, l’istituto così riletto sarà in grado di adattarsi sia alle situazioni più risalenti in cui il modello familiare tipico vedeva soltanto il marito svolgere un’attività lavorativa, mentre la moglie si occupava della famiglia, sia di adeguarsi ai mutamenti storico-sociali della struttura familiare moderna, riscontrandosi oggi sempre più casi nei quali entrambi i coniugi svolgono una professione; come è stato correttamente rilevato da Tribunale di Pavia (sent. 17 luglio 2018) la situazione sociale penalizzante per le donne, rispetto agli uomini, sia nella ricerca del lavoro, sia nelle prospettive di carriera, sia in molti casi nel livello retributivo pur a parità di mansioni, va tenuta in considerazione al solo fine di valutare in concreto se un soggetto possa, dopo il divorzio, reinserirsi nel mondo del lavoro, ma non può essere posta a base della decisione sull’assegno divorzile dando ingresso ad una “locupletazione ingiustificata” basata sul criterio del tenore della vita matrimoniale, superando la funzione compensativa dell’assegno “posto che quest’ultimo non servirebbe a ristorare la parte che, sulla base delle scelte della coppia, ha sacrificato le proprie ambizioni personali di realizzazione lavorativa, ma attribuirebbe invece alla parte medesima un vantaggio superiore a tale sacrificio.”.
3. L’applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nel caso concreto
3.1 Va in primo luogo rilevato che la separazione tra i coniugi è ancora pendente, ma è già passata in giudicato la sentenza parziale sullo status, pronunciata il 26 settembre 2017 e la comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale risale al 17 dicembre 2015 (cfr. docc. 5, 6 e 7 parte ricorrente). Pertanto, deve essere dichiarato lo scioglimento del matrimonio poiché la separazione personale fra i coniugi si è protratta per il periodo di tempo previsto ex art. 3, numero 2), lett. b) legge 1 dicembre 1970 n. 898 ed è pacifico che la comunione materiale e spirituale fra gli stessi non può più essere ricostituita.
3.2 Relativamente alla domanda della resistente di attribuzione alla stessa di un assegno divorzile, i principi indicati dalle Sezioni Unite devono essere applicati in concreto al caso di specie, giungendo ad affermare che non sussiste alcun diritto all’assegno divorzile a favore di Ana Maria per le ragioni che seguono.
Quanto alla situazione della resistente, si rileva che la stessa ha 35 anni, non è contestato sia laureata in commercio estero e attualmente non ha alcun impiego lavorativo.
Per ciò che concerne il possesso di redditi di qualsiasi specie, dal modello Persone Fisiche 2018 risulta che nell’annualità 2017 la Benitez abbia percepito come unica entrata l’assegno di mantenimento da parte del marito, per la somma complessiva di circa € 15.000,00 netti l’anno (circa € 1.100,00 netti mensili).
La resistente risiede in Italia in locazione (come risulta dalla dichiarazione dei redditi 2018), ma non fornisce alcuna documentazione attestante l’ammontare del canone pagato mensilmente.
Il matrimonio tra le parti risale al 13 dicembre 2007, mentre sentenza parziale di separazione è stata pronunciata il 26 settembre 2017. Il rapporto coniugale è, dunque, durato circa dieci anni e dal matrimonio non è nato alcun figlio.
3.3 Quanto al egli è lavoratore a tempo indeterminato e percepisce uno stipendio di circa € 3.100,00 netti mensili (cfr. Modello UNICO 2018). Non corrisponde un canone di locazione per l’alloggio in cui vive ed è proprietario di un immobile in Italia.
3.4 La Benitez fonda la sua domanda di corresponsione di un assegno su vari elementi.
In primo luogo, asserisce di aver sempre seguito il marito nei suoi trasferimenti lavorativi, di comune accordo con lo stesso, e che, sempre per scelta condivisa, si sarebbe dimessa dalle occupazioni lavorative prima presso UPS e poi come segretaria. Specifica poi di essersi trasferita in Italia e di non essere riuscita a reperire alcuna attività, nonostante l’invio di numerosi curricula.
3.5 Guardando al solo aspetto patrimoniale, è pacifica la consistenza di un rilevante divario nella situazione economica delle parti. Come, però, si è già avuto modo di evidenziare, ciò non è sufficiente per riconoscere il diritto ad un assegno, essendo necessario indagare sulla causa del divario stesso.
A tal fine, deve innanzitutto rilevarsi che seppur la decisione della resistente di seguire il marito, in costanza di matrimonio, sia riconducibile ad una scelta comune tra i coniugi, non vi è prova che sia stata condivisa anche la decisione della stessa di dimettersi dalle attività lavorative in cui era impiegata (aspetto su cui diverse sono, infatti, le ricostruzioni delle parti).
Quanto alla situazione personale della resistente, la Benitez ha un’età che le consente di reinserirsi nel mondo del lavoro e possiede un titolo di studio facilmente spendibile, a cui si aggiunge anche la conoscenza dello spagnolo quale lingua madre.
Inoltre, essendosi trasferita in Italia nel 2014, appare poco verosimile la circostanza da lei allegata che ai colloqui lavorativi venga scartata perché non in grado di parlare bene la lingua (cfr. dichiarazioni rese in sede di udienza presidenziale il 5 aprile 2018).
Il solo invio di curricula non è sufficiente a provare l’impossibilità di reperire un impiego e, in relazione a ciò, si rileva che la documentazione depositata dalla ricorrente risale tutta al 2018, successiva al deposito del ricorso di divorzio (soltanto un curriculum è stato inviato nel 2014).
Allo stesso modo, gli asseriti problemi di salute non sono in alcun modo provati dalla resistente, che ha rinunciato ai termini ex art. 183 cod. proc. civ.
Pertanto, deve ritenersi che la Benitez possa reinserirsi nel mercato del lavoro ed è ravvisabile una sua inerzia colpevole nel reperire un’occupazione, considerato anche l’assunzione volontaria del rischio da parte sua di trasferirsi in Italia, nonostante l’asserita assenza di legami.
Oltre a tali aspetti, non sono nati figli dalla coppia e il matrimonio ha avuto una durata di circa dieci anni, ma soprattutto non vi è stato alcun apprezzabile sacrificio della Benitez durante la vita coniugale che abbia contributi alla formazione o all’aumento del patrimonio del ricorrente.
Pertanto, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale, non essendovi stato alcun sacrificio, non vi è alcun diritto ad un assegno divorzile, che nel caso di specie comporterebbe una sostanziale rendita di posizione, per le ragioni sopra esposte.
4. Spese
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo ai sensi del D.M. 55/2014.
P.Q.M.
Il Tribunale in composizione collegiale, definitivamente pronunciando, rigettata ogni diversa e contraria istanza, così provvede:
– Dichiara lo scioglimento del matrimonio contratto il 9 novembre 2007 in Venezuela da Mauro, nato in Germania il 4 settembre 1974 e Ana Maria, nata in Venezuela il 7 ottobre 1983, trascritto al n. 2, Parte II, Serie C, Ufficio 1, Anno 2010 del registro degli atti di matrimonio del Comune di Pederobba;
– Rigetta la domanda della resistente di versamento alla stessa di un importo a titolo di assegno divorzile;
– Liquida le spese di lite nella complessiva somma di € 4.000,00 oltre spese generali, IVA e C.p., e condanna la resistente al pagamento delle stesse in favore di Mauro

Così deciso nella camera di consiglio del 8 gennaio 2019.

I potenziali incrementi di reddito dell’obbligato rilevano ai fini della rideterminazione del contributo al mantenimento dei figli

Cass. civ. Sez. VI – 1, 25 febbraio 2019, n. 5449
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso 18101-2018 proposto da:
T.S., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI GRACCHI 187, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO MAGNANO SAN LIO, rappresentato e difeso da se medesimo;
– ricorrente –
contro
F.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 40, presso lo studio dell’avvocato MARIA PAOLA CIMINO, rappresentata e difesa dall’avvocato DARIO MARIA DOLEI;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 3420/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 07/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 05/02/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LOREDANA NAZZICONE.
Svolgimento del processo
– che è proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania, la quale – per quanto ancora rileva – ha respinto l’impugnazione contro la decisione del tribunale, che ha determinato nella somma di complessivi Euro 1.000,00 mensili l’assegno da corrispondere per il mantenimento dei figli di coppia non coniugata;
– che la corte del merito ha al riguardo argomentato nel senso che le dichiarazioni dei redditi presentate dal ricorrente, avvocato soprattutto amministrativista, sono di provenienza unilaterale e vanno valutate con ragionevole prudenza, mentre il tribunale ha comunque correttamente determinato, alla stregua delle dette dichiarazioni, la media reddituale netta degli ultimi anni; che detti introiti sono suscettibili di modifica, onde ogni diversa decisione potrà essere assunta all’eventuale mutamento dei presupposti reddituali, essendo i provvedimenti patrimoniali in materia sempre adottati rebus sic stantibus; che deve tenersi conto sia dell’immobile in proprietà del ricorrente, sia dell’onere di mantenimento di un precedente figlio, sia del principio di proporzionalità dei redditi dei due genitori;
– che l’intimata si difende con controricorso;
– che il ricorrente ha depositato la memoria.
Motivi della decisione
– che il primo motivo censura la violazione e la falsa applicazione degliartt. 24 e 111 Cost., perché la corte del merito ha affermato la scarsa attendibilità delle dichiarazioni dei redditi, di provenienza unilaterale, dimostrando anche un pensiero precostituito nei confronti dei liberi professionisti avvocati;
– che il motivo è manifestamente inammissibile, posto che al riguardo la corte territoriale espone una duplice rullo decidendi, avendo dapprima compiuto l’affermazione di cui il ricorrente si duole e, poi, comunque tenuto a fondamento della propria decisione proprio quelle dichiarazioni dei redditi: ed il secondo rilievo, non risulta in alcun modo contestato dal ricorrente, il quale difetta pertanto d’interesse ad impugnare il primo: noto essendo come, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l’annullamento della sentenza (cfr., ex multis, Cass. 20 marzo 2018, n. 6908; Cass. 27 luglio 2017, n. 18641; Cass. 21 giugno 2017, n. 15350; Cass. 18 aprile 2017, n. 9752);
– che il secondo motivo deduce la violazione degliartt. 337-ter e 2597 c.c.,dell’art. 115 c.p.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, oltre ad omesso esame di fatto decisivo, avendo la corte territoriale affermato di avere considerato gli oneri deducibili e di doversi detrarre le imposte, ma senza operare davvero detta operazione, né avendo valutato il peso dell’assegno corrisposto per il mantenimento dell’altro figlio, le risultanze dei dati probatori e la proporzione dei rispettivi redditi: ma egli ha disponibilità di non più di Euro 1.200,00 mensili, come è palesato dal licenziamento della segretaria e dal costo della locazione dello studio, al contrario godendo la controparte di un ingente patrimonio immobiliare;
– che il predetto motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato;
– che, invero, il giudice del merito, nel confermare la misura dell’assegno di mantenimento per i figli minori, ha valutato proprio gli elementi, di cui il ricorrente lamenta l’omesso esame, nel perseguimento dell’interesse dei minori stessi: invero, la corte territoriale ha operato riferimento alla “media reddituale netta” dei suoi redditi, aggiungendo che gli introiti professionali sono suscettibili di incremento; inoltre, ha tenuto conto dell’obbligo di mantenimento di altro figlio ed ha comparato i redditi delle parti: in tal modo restando coerente a tutti i principi che regolano la materia (ivi compresi quelli richiamati dal ricorrente i memoria, di cui alla recente Cass. 14 gennaio 2019, n. 651);
– che, nel censurare la predetta disciplina disposta dal giudice del merito, la difesa del ricorrente in sostanza si limita ad insistere sulla rilevanza di circostanze già prese in considerazione dalla corte territoriale, riproponendo le questioni sollevate in quella sede, e dimostrando quindi di voler sollecitare un nuovo apprezzamento dei fatti, non consentito in questa sede, non spettando alla S.C. il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica della decisione impugnata, nonché la sussistenza di una motivazione, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, modificato dalD.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dallaL. 7 agosto 2012, n. 134;
– che, a fronte di c.d. doppia conforme, la censura ai sensi di tale disposizione non è del resto proponibile;
– che il terzo motivo lamenta la violazione o la falsa applicazionedell’art. 89 c.p.c., perché non è stata accolta la propria istanza di cancellazione delle espressioni offensive, contenuta negli scritti della comparsa di costituzione in appello di controparte, in cui si afferma che egli sottrarrebbe somme al fisco rinviando gli incassi e conservando il denaro in luoghi improbabili;
– che il motivo è inammissibile, essendo già stato chiarito, da un lato, come il provvedimento di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute nella sentenza impugnata ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa, al quale è anzi estraneo e, pertanto, non è suscettibile d’impugnazione con ricorso per cassazione (Cass. 16 gennaio 2009, n. 1018), dovendo del resto ribadirsi come l’apprezzamento circa l’effettivo rapporto tra queste e l’oggetto della causa è rimesso alla valutazione del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 27 giugno 2011, n. 14112);
– che le spese seguono la soccombenza;
– che, trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione ilD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater, inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.800,00, oltre ad Euro 100,00 per esborsi, alle spese forfetarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori di legge.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2019

È ribadita la violazione dell’art. 570 bis c.p. (che fa riferimento alla qualità di coniuge) anche nel caso di inadempimento degli obblighi patrimoniali nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio

Cass. pen. Sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 8297
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
G.N., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/04/2018 della CORTE APPELLO di FIRENZE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO CAPOZZI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. TAMPIERI Luca, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Firenze, a seguito di gravame interposto dall’imputato G.N. avverso la sentenza emessa in data 24.3.2016 dal locale Tribunale, in parziale riforma della decisione ha rideterminato la pena inflitta all’imputato riconosciuto colpevole del reato di cui allaL. n. 54 del 2006,art.3, ed al quale è stata revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena concessogli con sentenza emessa dal G.I.P. del Tribunale di Ravenna in data 2.3.2009.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato che, a mezzo del difensore, deduce:
2.1. Violazionedell’art. 2 c.p., commi 2 e 4, e art. 570 bis c.p.. Secondo il ricorrente, l’entrata in vigore delD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, alla data del 6.4.2018 ha comportato l’abrogazione delle norme -L. n. 898 del 1970,art.12 sexies, e L. n. 54 del 2003, art. 3 – in forza delle quali lo stesso ricorrente è stato incriminato. La relativa condotta non può essere ricompresa nella fattispecie di cui all’art. 570 bis c.p., che fa riferimento alla qualità di coniuge. Pertanto, il nuovo quadro normativo esclude dalla tutela penale le vicende riconducibili a coppie di conviventi more uxorio ed ai loro figli – anche tenendo conto che l’estensione della qualità di coniuge ex art. 574 ter c.p., riguarda le coppie parti di un’unione civile.
2.2. Vizio cumulativo della motivazione e violazione degliartt. 163, 164 e 168 c.p., in relazione al diniego della sospensione condizionale della pena ed alla revoca delle precedente sospensione condizionale.
La Corte non ha tenuto conto della rideterminazione della pena inflitta con la sentenza passata in giudicato ad opera del Giudice dell’esecuzione con provvedimento del 5.1.2017, a seguito della quale il cumulo delle due pene non supera il limite dei due anni di reclusione.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato in relazione al secondo motivo proposto.
2. Il primo motivo è infondato.
3. Come stabilito da questa Corte il delitto previsto dall’art. 570 bis c.p., introdotto dalD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, è configurabile anche in caso di violazione degli obblighi di natura patrimoniale stabiliti nei confronti di figli minori nati da genitori non legati da vincolo formale di matrimonio (Sez. 6, n. 55744 del 24/10/2018, n.m.; Sez. 6, n. 56080 del 17/10/2018, n.m.).
Invero, è stata affermata la perdurante validità dell’orientamento di legittimità alla stregua del quale si è ritenuto che, in tema di reati contro la famiglia, è configurabile il reato di cui allaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3, anche in caso di omesso versamento, da parte di un genitore, dell’assegno periodico disposto dall’autorità giudiziaria in favore dei figli nati fuori dal matrimonio (Sez. 6, n. 14731 del 22/02/2018, S, Rv. 272805; Sez. 6, n. 12393 del 31/01/2018, P, Rv. 272518; Sez. 6, n. 25267 del 06/04/2017, S. Rv. 270030). Ciò alla luce della interpretazione sistematica della disciplina sul tema delle unioni civili e della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli, introdotta dallaL. 20 maggio 2016, n. 76, e dalD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha inserito l’art. 337 bis c.c., e, quindi, di una rilettura dellaL. n. 54 del 2006,art.4, comma 2, tutt’ora in vigore, in base al quale le disposizioni introdotte da tale legge si applicano anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati e, pertanto, agli inadempimenti degli obblighi fissati dal tribunale dei minori nei loro confronti.
Tale assetto non risulta superato dalla novella introdotta con l’art. 570 bis c.p., in esecuzione della delega conferita con laL. n. 103 del 2017, di natura meramente compilativa che autorizzava la traslazione delle figure criminose già esistenti nel corpus del codice, senza contemplare alcuna modifica sostanziale delle stesse. Del resto, è stato osservato dalla richiamata sentenza n.18701/2018 che la esegesi letterale dell’art. 570 bis c.p., tra la posizione dei figli nati da genitori conviventi, rispetto alla prole nata in costanza di matrimonio, si pone in netta antitesi con la piena equiparazione realizzata nell’ambito del diritto civile (art. 337 bis c.c. e ss.). Sistema in cui gli obblighi dei genitori, nascendo dal rapporto di filiazione, non subiscono alcuna modifica a seconda che sia o meno intervenuto il matrimonio, in conformità, del resto, alla previsionedell’art. 30 Cost., comma 3.
In tale contesto, normativo attuale e di successione di disposizioni – secondo il condivisibile richiamato orientamento – si deve affermare che l’unica interpretazione sistematicamente coerente e costituzionalmente compatibile e orientata, è quella dell’applicazione dell’art. 570 bis c.p. – che si limita a spostare la previsione della sanzione penale all’interno del codice penale – anche alla violazione degli obblighi di natura economica che riguardano i figli nati fuori del matrimonio.
4. Il secondo motivo è fondato in relazione alla disposta revoca della sospensione condizionale della pena stabilita con la sentenza emessa dal GIP del Tribunale di Ravenna in data 2.3.2009 ed alla mancata concessione per la condanna di cui trattasi per il superamento del limite dei due anni previstodall’art. 163 c.p..
Risulta, invero, essere stata omessa la considerazione del provvedimento del Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Ravenna in data 8.5.2017 con il quale è stata rideterminata la pena inflitta dalla predetta sentenza (di anni uno e mesi dieci di reclusione oltre la multa), individuandola in quella di mesi dieci e gg. venti di reclusione oltre la multa, che pertanto fa rientrare il cumulo delle pene nel limite di anni due di reclusione fissatodall’art. 163 c.p., dovendosi – quindi rivalutare la questione in ordine al beneficio della pena sospesa, sia in relazione alla revoca di quella precedentemente concessa, che alla concessione per la condanna di cui trattasi.
5. Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al punto relativo alla sospensione condizionale della pena con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Firenze per nuovo giudizio. Nel resto il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al punto relativo alla sospensione condizionale della pena e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’ appello di Firenze. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2019

È possibile esperire l’azione di arricchimento senza causa anche nell’ambito della convivenza more uxorio

Cass. civ. sez. VI – 3, 15 febbraio 2019, n. 4659
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18448-2017 proposto da:
C.V., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MAINETTI, rappresentato e difeso dall’avvocato LORELLA DIDERO;
– ricorrente –
contro
P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARLO FELICE 103, presso lo studio dell’avvocato GIAN LUCA CORLEONE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCIANA MARIA FRACCHIA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 92/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 17/01/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 08/11/2018 dal Consigliere Dott. SESTINI DANILO.
Svolgimento del processo
che:
P.M. convenne in giudizio l’ex convivente more uxorio C.V. chiedendo che, ai sensidell’art. 2041 c.c., fosse condannato a corrisponderle la metà del valore di un immobile intestato al solo convenuto, che era stato costruito col rilevante contributo economico dell’attrice, o al pagamento di altra somma pari agli importi investiti dalla P. nella costruzione dell’immobile;
il Tribunale di Ivrea accolse la domanda per l’importo di 80.000,00 Euro e condannò il C. al pagamento di tale somma;
in parziale accoglimento del gravame di quest’ultimo, la Corte di Appello di Torino ha ridotto la somma dovuta a 25.000,00 Euro e, rigettato l’appello incidentale della P., ha condannato il C. al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio;
ha proposto ricorso per cassazione il C., affidandosi a tre motivi illustrati da memoria; ha resistito l’intimata con controricorso.
Motivi della decisione
che:
col primo motivo, articolato in due sotto-motivi, il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazionedell’art. 2041 c.c., exart. 360 c.p.c., n. 3, “e/o omessa o insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5”: il C. afferma (sub IA) la “inapplicabilità tout courtdell’art. 2041 c.c.in ambito di convivenza more uxorio”,- dovendosi ricondurre gli esborsi effettuati in corso di convivenza all’adempimento di doveri morali e sociali exart. 2034 c.c., e sostiene (sub IB) che la Corte ha “errato nel valutare solo l’aspetto economico”, senza considerare che i supposti trasferimenti di somme non erano privi di causa, in quanto effettuati dalla P. “nell’ottica di contribuire alla ristrutturazione della “casa coniugale””, anche al fine di provvedere alle necessità abitative del figlio allora minorenne;
premessa l’inammissibilità della censura formulata in termini di “omessa o insufficiente motivazione” (ai sensi del vecchio testodell’art. 360 c.p.c., n. 5), il primo sotto-motivo è inammissibile ex art 360 bis c.p.c., in quanto la decisione è conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità (da cui non v’è ragione di discostarsi), secondo cui è “possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza” (Cass. n. 11330/2009; cfr. anche Cass. n. 1277/2014 e Cass. n. 14732/2018); il secondo sotto-motivo è parimenti inammissibile perché mira a conseguire una diversa valutazione di merito circa il fatto che gli esborsi travalicassero, nello specifico, i limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto al mero adempimento di un’obbligazione naturale; tanto più perché il difetto di una giusta causa non va inteso – come parrebbe proporre il ricorrente- quale assenza di una ragione che abbia determinato la locupletazione in favore dell’arricchito, ma quale carenza di una ragione che consenta a quest’ultimo di trattenere quanto ricevuto;
il secondo motivo (che denuncia nuovamente la violazione o falsa applicazionedell’art. 2041 c.c.e l’omesso o erroneo esame di un fatto decisivo) è anch’esso inammissibile in quanto non contiene alcuna specifica censura in iure, limitandosi a contestare l’apprezzamento delle prove da parte della Corte e a sollecitare una lettura di segno opposto, e non individua specificamente alcun fatto effettivamente decisivo di cui la sentenza abbia omesso l’esame;
il terzo motivo (in punto di violazione degliartt. 91 e 92 c.p.c.) censura la sentenza per avere condannato il C. al pagamento delle spese del grado di appello, nonostante il parziale accoglimento dell’appello principale e il rigetto dell’impugnazione incidentale;
il motivo è infondato in quanto la Corte si è attenuta al criterio della soccombenza, sulla base dell’esito complessivo della lite (cfr. Cass. 11423/2016), che ha visto accogliere seppure parzialmente- la domanda della P., e non è censurabile in sede di legittimità la scelta del giudice di merito di non avvalersi della facoltà di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite;
al rigetto del ricorso consegue la condanna del C. al pagamento delle spese del presente giudizio;
sussistono le condizioni per l’applicazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 2.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 8 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2019

Divorzio con facoltà del marito di ripudiare la moglie

Cassazione civile, sez. I, 1 marzo 2019, n. 6161. Presidente Bisogni. Relatore Iofrida.

Premesso che:
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 7464/2016, pronunciata in un giudizio promosso, nel 2015, da E.A.K. , cittadina giordana ed italiana, al fine di sentire ordinare la cancellazione della trascrizione, nei registri dello stato civile italiano, dell’aprile 2013, della sentenza non definitiva del 29/7/2012, emessa dal Tribunale Sciaraitico di Nablus Occidentale (Palestina), in sua assenza, di scioglimento del matrimonio sciaraitico celebrato, nel 1992, in (*), con Z.F. , pure cittadino giordano ed italiano (unione dalla quale erano nati due figli), avendo quest’ultimo esercitato il c.d. ripudio unilaterale, ha statuito che la sentenza del Tribunale palestinese del luglio 2012, non definitiva, come pure la successiva sentenza definitiva, del novembre 2012 (con la quale il Tribunale di Nablus rilasciava il nulla osta al F. per un nuovo matrimonio, essendo decorso il periodo di tempo legale senza ricostituzione della pregressa unione), non hanno i requisiti di legge per il riconoscimento in Italia della loro efficacia, con ordine all’Ufficiale di Stato civile di procedere alla cancellazione della trascrizione a margine dell’atto di matrimonio;
– in particolare, la Corte d’appello, ritenuta la giurisdizione del Tribunale palestinese a conoscere la causa di divorzio, stante la celebrazione del matrimonio in (*), ha ravvisato una violazione della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. g), non avendo il giudice straniero effettuato alcun accertamento sul venir meno in concreto della comunione di vita dei coniugi, e dell’art. 64, lett. b, della stessa legge, stante la lesione del diritto di difesa, in quanto “il procedimento giudiziale in questione è basato unicamente sulla manifestazione di volontà del marito, senza che lo stesso debba addurre motivazione…, senza possibilità di opposizione da parte della moglie, senza alcun contraddittorio reale (non essendo la mera notizia del procedimento avuta dalla ricorrente utile in tal senso) e senza che per la moglie sia previsto analogo diritto (ripudio senza motivazione)”; l’affermazione dello Z. , in ordine al consenso della moglie, costituiva una mera asserzione, non risultando la verbalizzazione, nel procedimento in questione, di una dichiarazione del coniuge dal quale potesse evincersi un tale consenso, mentre altri comportamenti della moglie, successivi alla sentenza non definitiva di divorzio (in particolare, l’essere la stessa rientrata in Italia ed avere la stessa prelevato, dal conto corrente del marito importo, che le spettava a titolo di restituzione della dote) dimostravano solo la consapevolezza della irrevocabilità, in base alla legge islamica, del ripudio;
– avverso la suddetta sentenza, Z.F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti di E.A.K. (che resiste con controricorso);
– il ricorso è stato rimesso dalla sezione Sesta – Prima alla Sezione Semplice ed è stato chiamato all’udienza pubblica del 14 dicembre 2018;
– il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso, ritenendo che non sarebbe stata efficacemente censurata la statuizione in ordine alla contrarietà all’ordine pubblico della pronuncia straniera sia per la mancanza dell’accertamento giudiziale sulla cessazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi sia per la lesione del diritto di difesa della moglie (resa edotta del procedimento solo dopo che il marito aveva ottenuto la pronuncia, sia pure non definitiva, di divorzio sulla base della mera registrazione della sua volontà di ripudio del coniuge);
– il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del combinato disposto di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 67, comma 1, art. 14, comma 1, e art. 64, lett. g), per omessa indagine, da parte del giudice nazionale, sulla sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della sentenza straniera ed omesso accertamento della portata della legge straniera applicabile, non avendo la Corte d’appello compiuto un accertamento, avvalendosi dei mezzi previsti dalla L. n. 218 del 1995, artt. 14 e 15, per la conoscenza della legge straniera, sulle modalità di svolgimento del processo di divorzio dinanzi al Tribunale di Nablus, e risultando comunque, dal certificato rilasciato nel dicembre 2014 dal Tribunale sciaraitico di Nablus, prodotto in giudizio, che, a seguito della richiesta del Z.F. (il talaq pronunciato: “mia moglie è divorziata da me”), era stata “richiamata la sposa”, al fine dunque di vagliare l’effettivo venire meno dell’unione materiale e spirituale dei coniugi, e che il talaq del marito, sulla base del quale è stata pronunciata la sentenza non definitiva di divorzio, è revocabile e comporta gli stessi effetti della separazione personale dei coniugi nel mondo occidentale, permanendo il matrimonio palestinese e rimanendone sospesi gli effetti per un periodo di tre mesi, al fine di assicurare l’eventuale riconciliazione tra i coniugi; 2) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del combinato disposto di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 67, comma 1, art. 14, comma 1, e art. 64, lett. b), sempre per omessa indagine relativa alla sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della sentenza straniera ed omesso accertamento della portata della legge straniera applicabile, non avendo la Corte d’appello rilevato che, come da documentazione prodotta, la K. aveva partecipato al giudizio dinanzi al Tribunale, essendosi presentata dinanzi al Tribunale palestinese, accompagnata dalla di lei madre; 3) con il terzo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della legge straniera, sostanziale e processuale, applicata dal Tribunale palestinese, avendo la Corte d’appello trascurato di rilevare che, in base all’attuale normativa straniera, vi è parificazione del diritto di agire e resistere in giudizio per marito e moglie, il divorzio è preceduto dall’esperimento di un tentativo di conciliazione e viene pronunciato solo all’esito dell’accertamento circa l’effettivo venir meno dell’unione materiale spirituale tra i coniugi;
– in particolare, il ricorrente, nel dedurre la violazione di legge, anche con riferimento all’art. 14, della legge di diritto internazionale privato, n. 218/1995, richiama “la L. n. 3 del 2011, vigente in (*)” (senza tuttavia allegarne il testo), assumendo che vi è stato, nell’ordinamento straniero, un superamento del vecchio istituto del ripudio islamico del marito, unilaterale e stragiudiziale, e che, a seguito del talaq pronunciato dal marito (“Mia moglie è divorziata da me”), l’attuale procedura di divorzio palestinese, applicabile alla fattispecie, comporta, ai fini della pronuncia definitiva di divorzio, la verifica, ad opera di organo giurisdizionale, dell’effettivo venir meno della comunione materiale e spirituale tra i coniugi, previo rituale contraddittorio tra le parti, all’esito di un periodo temporale di tre mesi senza riconciliazione, e consente altresì alla moglie di agire e resistere in giudizio, per la tutela dei suoi diritti, essendovi oggi (e nel 2012) “una totale parificazione… del marito e della moglie, in applicazione del principio di eguaglianza tra i generi”;
– risulta, dalla documentazione prodotta, sin dal giudizio di merito (in lingua araba, con traduzione in italiano, con visto di conformità dell’assistente amministrativo del consolato Generale d’Italia, Gerusalemme), che: a) il Z.F. , persona avente cittadinanza giordana ed italiana, alla fine di luglio 2012, è comparso dinanzi al Tribunale Sciaraitico di Nablus (Palestina), perché venisse “registrato il divorzio di primo grado” dalla moglie E.A.K. , del pari cittadina giordana ed italiana, la cui unione era stata celebrata, con rito sciaraitico, in (*), nel 1992; b) il divorzio è consistito nella registrazione, effettuata in data 29/7/2012, di una domanda formulata dal marito alla presenza di due testimoni; c) a seguito di successiva informativa alla moglie, la stessa si sarebbe presentata, l’1/8/2012, accompagnata dalla madre, e le sarebbe stata personalmente notificata la richiesta del marito; d) quindi decorsi tre mesi, il divorzio è divenuto definitivo ed è stato rilasciato, nel novembre 2012, dal medesimo Tribunale Sciaraitico il nulla osta a nuovo matrimonio;

Ritenuto che:
– quanto al riconoscimento del provvedimento straniero nel nostro ordinamento italiano, la L. n. 218 del 1995, art. 64 ss., disciplinano la materia, contemplando il filtro, all’ingresso nel nostro ordinamento, rappresentato dal controllo del rispetto dell’ordine pubblico (in particolare: art. 64 (Riconoscimento di sentenze straniere): “La sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento quando: a) il giudice che l’ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano; b) l’atto introduttivo del giudizio è stato portato a conoscenza del convenuto in conformità a quanto previsto dalla legge del luogo dove si è svolto il processo e non sono stati violati i diritti essenziali della difesa; c) le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo dove si è svolto il processo o la contumacia è stata dichiarata in conformità a tale legge: d) essa è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata; e) essa non è contraria ad altra sentenza pronunziata da un giudice italiano passata in giudicato; f) non pende un processo davanti a un giudice italiano per il medesimo oggetto e fra le stesse parti, che abbia avuto inizio prima del processo straniero; g) le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico”; art. 65 (Riconoscimento di provvedimenti stranieri): “1. Hanno effetto in Italia i provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone nonché all’esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità quando essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della presente legge o producono effetti nell’ordinamento di quello Stato, anche se pronunciati da autorità di altro Stato, purché non siano contrari all’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa”);
– va anche evidenziato che la Corte di Giustizia, con una pronuncia del 20 dicembre 2017, resa nel procedimento Soha Sahyouni contro Raja Mamisch (una coppia con doppia cittadinanza sia siriana che tedesca), ha affrontato un caso che riguardava una dichiarazione unilaterale di divorzio resa davanti a un tribunale religioso di uno Stato terzo ed il suo riconoscimento nell’ordinamento tedesco; la Corte di Giustizia soffermandosi sul tema generale dei cd. divorzi privati ossia di quelle ipotesi di scioglimento del matrimonio non derivanti da pronunce emesse da una autorità pubblica, ha affermato che “alla luce della definizione della nozione di divorzio di cui al regolamento n. 2201/2003, risulta dagli obiettivi perseguiti dal regolamento n. 1259/2010 che esso ricomprende unicamente i divorzi pronunciati da un’autorità giurisdizionale statale, da un’autorità pubblica o con il suo controllo”, con la conseguenza che le pronunzie rese dai tribunali religiosi restano escluse dalla sfera di applicazione delle norme Europee di conflitto;
– in ordine all’operatività della L. n. 218 del 1995, artt. 14 e 15, questa Corte ha chiarito che “relativamente alle fattispecie interamente regolate dalla L. n. 218 del 1995, art. 14, l’obbligo del giudice di ricercare, d’ufficio, le fonti del diritto va riferito anche alle norme giuridiche degli ordinamenti stranieri, per la cui individuazione è possibile ricorrere a qualsiasi mezzo, anche informale e valorizzando il ruolo attivo delle parti, come strumento utile per l’acquisizione della normativa volta a disciplinare il caso concreto, senza che, pertanto, sussista, in capo alla parte che la invochi, alcun onere di indicazione né di allegazione documentale della legge straniera ritenuta applicabile” (Cass. 27365/2016);
– nella specie, dunque, alla luce di quanto allegato dal ricorrente, sin dal giudizio di merito, e tenuto conto della L. n. 218 del 1995, art. 14, risulta opportuno, ai fini del necessario vaglio del riconoscimento nel nostro ordinamento degli effetti del divorzio ottenuto all’estero dal coniuge straniero e quindi al fine di vagliare l’effettiva contrarietà all’ordine pubblico internazionale del provvedimento di divorzio reso dal Tribunale sciaraitico palestinese, affermata dalla Corte d’appello nella sentenza qui impugnata e contestata, anche in questa sede, dal sig. Z.F. , acquisire informativa, tramite il Ministero della Giustizia, sulla legge processuale straniera (palestinese) applicabile al divorzio per cui è causa, di cui occorre tener conto nel presente giudizio di legittimità, dato che la relativa conoscenza attiene al giudizio riservato a questo giudice di legittimità;
-ritenuto, in particolare, necessario richiedere al Ministero competente il testo, corredato da debita traduzione in lingua italiana, della legge palestinese “n. 3/2011”, indicata dal ricorrente nel presente giudizio, o di altra legge vigente in Palestina al 2012, disciplinante il divorzio tra i coniugi, con specifico riguardo ai profili relativi: a) alla natura giurisdizionale o non del Tribunale Sciaraitico e all’efficacia delle sue pronunce nell’ordinamento giuridico palestinese; b) ai presupposti del ripudio ad opera del marito; c) alla sussistenza di corrispondente facoltà di ripudio per la moglie; d) alla garanzia del rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa nel procedimento; e) all’oggetto dell’accertamento riservato al Tribunale Sciaraitico e allo spazio riservato nel procedimento alla verifica di una possibilità di riconciliazione dei coniugi;
– risulta altresì opportuno richiedere contestualmente, atteso il rilievo nomofilattico della questione oggetto del presente giudizio, una relazione di studio all’Ufficio del Massimario, per acquisire un quadro sistematico dei contributi offerti, sul tema, dalla giurisprudenza, anche euro-unitaria e della Corte Europea dei diritti dell’uomo, e dalla dottrina nonché per acquisire informazioni rilevanti sulla giurisprudenza dei paesi in cui si è posta la questione del riconoscimento del talaq o di istituti analoghi.

P.Q.M.
La Corte rinvia la causa a Nuovo Ruolo in pubblica udienza, disponendo l’acquisizione, tramite il Ministero della Giustizia, di informativa sulla legge processuale straniera (palestinese) applicabile al divorzio per cui è causa e quindi in relazione al testo, corredato da debita traduzione in lingua italiana, della legge palestinese “n. 3/2011”, indicata dal ricorrente nel presente giudizio, o di altra legge vigente in Palestina al 2012, disciplinante il divorzio tra i coniugi, con specifico riguardo ai profili relativi:
a) alla natura giurisdizionale o non del Tribunale Sciaraitico;
b) ai presupposti del ripudio ad opera del marito;
c) alla sussistenza di corrispondente facoltà di ripudio per la moglie;
d) alla garanzia del rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa nel procedimento;
e) all’oggetto dell’accertamento riservato al Tribunale Sciaraitico; si richiede altresì all’Ufficio del Massimario di questa Corte Suprema di Cassazione una relazione sullo stato della dottrina e della giurisprudenza, nazionale Europea e comparata, sul tema del riconoscimento, nell’ordinamento nazionale, degli effetti di un provvedimento, giurisdizionale e non, di divorzio ottenuto da uno dei coniugi dinanzi ad un Tribunale civile o religioso straniero in base all’istituto del talaq o ad altri istituti analoghi.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omessi i riferimenti ai nominativi o ad altri dati identificativi delle parti.

Ai fini del riconoscimento e determinazione dell’assegno di divorzio bisogna fare riferimento alla recente sentenza delle SSUU n. 18287 dell’11 luglio 2018

Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2019, n. 5975
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9935/2014 proposto da:
C.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via Ugo Bartolomei n. 23, presso lo studio dell’avvocato Saraceni Stefania, rappresentato e difeso dall’avvocato Alimena Eliseo Alfonso, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Co.Do., elettivamente domiciliata in Roma, Via Cassiodoro n. 1/A, presso lo studio dell’avvocato Annecchino Marco, rappresentata e difesa dall’avvocato Scarselli Giuliano, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1993/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 24/12/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/12/2018 dal cons. TRICOMI LAURA.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
RITENUTO CHE:
Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 1702/2013, dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto il 29 ottobre 1994 da C.S. e Co.Do.. Per quanto interessa, determinava in Euro 100,00 mensili l’assegno divorzile spettante alla Co. con decorrenza dal mese di settembre 2010.
La Corte di appello di Napoli ha parzialmente accolto l’appello del C., fissando la decorrenza dell’assegno divorzile dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado, ovvero dal 21/5/2013 e respinto tutti gli altri motivi dell’appello principale, oltre che integralmente l’appello incidentale.
C. ricorre per cassazione con tre mezzi; Co. replica con controricorso corredato da memoria.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensidell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1, c.p.c..
CONSIDERATO CHE:
1. Il ricorrente lamenta con i tre motivi di ricorso la violazione e erronea e/o falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, sotto i seguenti diversi profili: 1) per avere la Corte di appello motivato solo sulla quantificazione dell’assegno divorzile, senza illustrare il requisito necessario per il riconoscimento dell’assegno e cioè la circostanza che il coniuge non avesse mezzi adeguati o non potesse procurarseli per ragioni oggettive o si fossero deteriorate le sue condizioni economiche; 2) per avere ritenuto irrilevante l’obbligo di mantenimento del figlio naturale; 3) per non avere rilevato il mancato assolvimento dell’onere della prova circa la ricorrenza dei requisiti necessari per il riconoscimento gravante sull’istante l’assegno.
2. Il primo ed il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente per connessione e vanno respinti perché infondati.
Le Sez. U., con la recente sentenza n. 18287 dell’11/07/2018, hanno avuto modo di puntualizzare, in tema di assegno divorzile, che:
– La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi;
– All’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate;
– Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
La Corte di appello si è attenuta a questi principi, giacché superando, sul piano motivazionale, la statuizione di primo grado prevalentemente centrata sul criterio del tenore di vita – ha valorizzato la complessa natura dell’assegno divorzile, connotato da una funzione assistenziale e volto ad un riequilibrio della situazione patrimoniale dei coniugi alla luce della evoluzione della situazione reddituale dei coniugi, rispetto a quella dell’epoca della separazione, e ne ha dato conto attraverso una puntuale ricostruzione ed una articolata valutazione delle emergenze probatorie conseguenti all’assolvimento degli oneri probatori delle parti.
3. Il secondo motivo è anch’esso infondato, poiché la Corte territoriale, diversamente da quanto sostiene il ricorrente, ha affermato che “non può non tenersi conto del suo obbligo di mantenimento del figlio nato dalla nuova convivenza” (fol. 2 della sent. imp.), così chiarendo che ha inteso tenerne conto.
4. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità si compensano in ragione del mutamento della giurisprudenza di legittimità rispetto a questioni dirimenti.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater.

P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– Compensa le spese del giudizio di legittimità tra le parti;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52;
– Dà atto, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2019