L’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione delle norme tributarie non si trasmette agli eredi

Cass. civ. Sez. V, 6 marzo 2019, n. 6500
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1133-2025 proposto da:
P.S., F.G., F.L., F.A., FO.AN., F.M.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell’avvocato PAOLO MEREU, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato FEDERICO CLEMEAZI;
– ricorrenti –
contro
ROMA CAPITALE, elettivamente domiciliato in ROMA V. DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO ROSSI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO CIAVARELLA;
– controricorrenti –
e contro
ROMA CAPITALE DIPARTIMENTO RISORSE ECONOMICHE DIREZIONE GESTIONE PROCEDIMENTI ENTRATE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 3273/2014 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 16/05/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24/01/2019 dal Consigliere Dott. RITA RUSSO.
Svolgimento del processo
CHE:
1.- I soggetti indicati in epigrafe, agendo dichiaratamente nella qualità di eredi di F.M., hanno impugnato la sentenza della CTR di Roma depositata in data 16 maggio 2014, non notificata, relativa a due avvisi di accertamento ICI per l’anno 2005 e 2006.
2. F.M., ricevuti detti avvisi di accertamento, li ha impugnati sostenendo che il proprio terreno non può considerarsi edificabile solo perché inserito come tale nel PRG di Roma, in assenza di approvazione del piano particolareggiato. Il ricorso è stato respinto sia in primo che in secondo grado.
3.- I dichiarati eredi ricorrono per cassazione, affidandosi a due motivi, uno in rito e l’altro nel merito. In ricorso si specifica che F.M., nato a (OMISSIS) è deceduto “nelle more” del giudizio di appello e che la moglie ed i figli dell’originario ricorrente propongono ricorso per cassazione deducendo in primis la nullità del procedimento di appello per omesso avviso della udienza di trattazione con conseguente violazione del principio del contraddittorio e nel merito deducendo la violazione di legge per mancato esame di un motivo di appello.
4. Roma Capitale si costituisce con controricorso e preliminarmente eccepisce il difetto di prova della legittimazione ad agire in giudizio da parte dei ricorrenti.
5.- I ricorrenti depositano ai sensidell’art. 372 c.p.c., una memoria con allegati documenti volti a dimostrare la qualità di eredi di F.M., nonché memoria exart. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
CHE:
6.- Preliminarmente, si esamina la eccezione di difetto di legittimazione proposta da Roma Capitale.
6.1- Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, in tema di legittimazione attiva incombe alla parte che ricorre per cassazione, nella qualità di erede della persona che fece parte del giudizio di merito, l’onere di dimostrare, per mezzo delle produzioni documentali consentitedall’art. 372 c.p.c., il decesso della parte originaria e la propria qualità di erede; in difetto, il ricorso dev’essere dichiarato inammissibile per mancanza di prova della legittimazione ad impugnare, nessun rilievo assumendo la mancata contestazione di tale legittimazione ad opera della controparte, trattandosi di questione rilevabile d’ufficio (Cass. 10/05/2018, n. 11276; Cass. 27/01/2011, n. 1943; 29/01/2013, n. 2046; v. anche Cass. 02/03/2016 n. 4116 e Cass. ord., 21/06/2017, n. 15414).
Inoltre, le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che colui che, assumendo di essere erede di una delle parti originarie del giudizio, intervenga in un giudizio civile pendente tra altre persone, ovvero lo riassuma a seguito di interruzione, o proponga impugnazione, deve fornire la prova, ai sensidell’art. 2697 c.c., oltre che del decesso della parte originaria, anche della sua qualità di erede di quest’ultima; a tale riguardo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui delD.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445,artt.46e47, non costituisce di per sé prova idonea di tale qualità, esaurendo i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, dovendo tuttavia il giudice, ove la stessa sia prodotta, adeguatamente valutare, anche ai sensi della nuova formulazionedell’art. 115 c.p.c., come novellato dallaL. 18 giugno 2009, n. 69,art.45, comma 14, in conformità al principio di non contestazione, il comportamento in concreto assunto dalla parte nei cui confronti la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà viene fatta valere, con riferimento alla verifica della contestazione o meno della predetta qualità di erede e, nell’ipotesi affermativa, al grado di specificità di tale contestazione, strettamente correlato e proporzionato al livello di specificità del contenuto della dichiarazione sostitutiva suddetta (Cass., sez. un., 29/05/2014, n. 12065).
7.- A fronte della eccezione sollevata dalla controparte, i ricorrenti hanno depositato in data 11 gennaio 2019: certificato di morte di F.M.; certificato di matrimonio tra P.S. e F.M.; stato di famiglia P.S.; dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà eredi F.; denuncia di successione; atto di costituzione degli eredi nel giudizio 1486/13 e sentenza 450/14/15 emessa dalla CTR di Roma nei confronti degli eredi. L’elenco dei predetti documenti è stato notificato alla controparte. I documenti sono stati tempestivamente depositati, in data antecedente alla adunanza camerale, e posti a disposizione della parte mediante la notificazione, e, nel merito, sono idonei, letti unitariamente, a provare la qualità di eredi dei ricorrenti e quindi di soggetti legittimati al ricorso per cassazione (Cass. civ. sez. 1, 5.6.1984 n. 3366; Cass. civ. sez. lav. 21.3.2006 n. 6238; Cass. civ. sez. 3, 14.10.1997, n. 10022). L’eccezione è pertanto da respingere.
8.- Con il primo motivo di ricorso gli eredi F. deducono la violazione di legge ai sensi delD.Lgs. n. 546 del 1992,artt.31e61, con nullità della sentenza impugnata per violazione del principio del contraddittorio, in quanto F.M. non ha avuto notizia alcuna della udienza di trattazione. I ricorrenti evidenziano che controparte non si è premunita di dimostrare l’avvenuta notifica della udienza di trattazione né risulta in atti il fascicolo d’ufficio della CTR di Roma. A fronte di ciò parte controcorrente si limita ad una generica censura di inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza, non esplicitata se non con formule di stile ed ad una altrettanto generica censura di inammissibilità del ricorso per avere la CTR deciso in conformità alla giurisprudenza della Suprema Corte.
7.1. Il motivo è fondato, perché effettivamente non risulta avviso della udienza, ma ciò non comporta, come sostengono i ricorrenti, la restituzione al giudice di appello. È già stato affermato da questa Corte che nel processo tributario la comunicazione della data di udienza adempie alla funzione di garantire il contraddittorio e pertanto la trattazione dell’appello in pubblica udienza senza avviso alla parte costituisce una nullità che travolge anche la sentenza successiva, ma non comporta la restituzione al giudice di merito, se non sono necessari accertamenti di fatto e debba essere decisa una questione di mero diritto (Cass. sez. 5, 31.10.2018 n. 27837). Nella fattispecie la questione di merito può essere decisa senza alcun accertamento in fatto.
8.- Con il secondo motivo gli eredi F. lamentano la violazione di legge per mancata corrispondenza tra il chiesto e pronunciato con conseguente nullità della sentenza impugnata per avere omesso la CTR di valutare il motivo di ricorso inerente il metodo di accertamento utilizzato e quello inerente le sanzioni.
Lamentano in particolare l’errore commesso dall’ente impositore per avere considerato il terreno come area edificabile e per avere applicato retroattivamente i valori contenuti in una perizia di stima dell’anno 2008. Il contribuente sostiene che doveva tenersi conto del fatto che la perizia era stata redatta ad altri fini (scontare l’imposta sostituiva sulla futura vendita dell’immobile) e che vi è differenza tra il valore concreto dell’aera nel 2005/2006 e nel 2008 poiché nelle more è stato adottato il piano particolareggiato. I contribuenti rammentano che l’imposta deve essere liquidata sulla base del valore venale in commercio tenendo con “di quanto sia prossima l’utilizzabilità a scopo edificatorio del suolo” (Cass. s.u. 25506/2006). Lamentano inoltre la applicazione delle sanzioni.
8.1.- Date queste argomentazioni, e considerata la fondatezza della eccezione di nullità nei limiti sopra precisati, non viene qui in rilievo la presunta violazionedell’art. 112 c.p.c., che si ha solo quando l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, e non una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione (Cass. n. 25761/2014). Si tratta piuttosto di valutare la fondatezza della censura relativa ai criteri utilizzati dall’ente impositore per determinare la base imponibile. Deve osservarsi che la contestazione principale della parte riguarda la avvenuta valutazione dell’aera in questione come edificabile, e si deduce che a tale fine non basta l’inserimento in PRG, essendo necessario anche l’inserimento nel piano particolareggiato. A questa argomentazione principale si aggiunge che appare illogico valutare il terreno per l’anno di imposta 2005/2006 facendo riferimento ad una perizia del 2008, poichè nelle more è intervenuto il piano particolareggiato e quindi è aumentato il valore del terreno stesso.
Deve qui richiamarsi l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità espresso sin dalla sentenza a sezioni unite n. 25506/2006, (fondato sulle norme di interpretazione autentica delD.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504,art.2, comma 1, lett. b)in virtù del quale un’area, ai fini dell’applicazione dell’ICI, è da considerarsi fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall’approvazione della regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo; ciò determina quella che può considerarsi una vera e propria “impennata” di valore rilevante ai fini fiscali (cfr. Cass. s.u. n. 25506/2006 cit.; Cass. sez. 5 n. 4952/2018). Inoltre si deve osservare che in concreto il valore venale del bene è stato determinato seguendo i criteri di cui alD.Lgs. n. 504 del 1992,art.5, anche tenendo conto del valore indicato in una perizia giurata di stima del 26.06.2008 presentata dal contribuente, applicando un coefficiente di attualizzazione che ha consentito di riparametrare il valore all’annualità oggetto di accertamento. Questa Corte ha già affermato che ai fini ICI il valore imponibile può essere desunto da una perizia giurata di stima anche se prodotta ad altri fini, purché facendo applicazione dei criteri indicati dalD.Lgs. n. 504 del 1992,art.5(Cass. 4093/2015). La censura è quindi infondata.
8.2. E’ invece fondata la censura con riferimento alle sanzioni applicate. E’ già stato affermato da questa Corte che le sanzioni pecuniarie amministrative previste per la violazione delle norme tributarie hanno carattere afflittivo, onde devono inquadrarsi nella categoria dell’illecito amministrativo di natura punitiva, disciplinato dallaL. 24 novembre 1981, n. 689, essendo commisurate alla gravità della violazione ed alla personalità del trasgressore, con la conseguenza che ad esse si applica il principio generale sancito dallaL. n. 689 del 1981,art.7, secondo cui l’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione non si trasmette agli eredi (Cass. civ. sez. 5., 28/05/2008, n. 13894; Cass. civ. sez. 5 15.10.2018, n. 25644). L’originario ricorso del contribuente merita quindi accoglimento limitatamente alle sanzioni, non dovute.
Le spese dell’intero giudizio considerando la parziale reciproca soccombenza, si compensano per intero tra le parti.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso e, nei limiti di cui in motivazione, anche il secondo, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito accoglie l’originario ricorso del contribuente limitatamente alle sanzioni che dichiara non dovute. Compensa le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2019

L’amministratore di sostegno può rappresentare il beneficiario convenuto nel giudizio di revisione dell’assegno di divorzio; l’assegno di divorzio non viene ridotto se il beneficiario percepisce un’indennità di accompagnamento

Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2019, n. 6518
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 7770/2017 proposto da:
S.A., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Cordone Paolo, giusta procura a margine del ricorso;
-ricorrente –
contro
H.K., in persona dell’amministratrice di sostegno N.C., elettivamente domiciliata in Roma, Via Nazionale n. 204, presso lo studio dell’avvocato Bozza Alessandro, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositato il 19/01/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/2018 dal cons. IOFRIDA GIULIA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione del primo motivo;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato Cardone Paolo che ha chiesto l’accoglimento;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato Bozza Venturi Alessandro che ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano, con decreto del 19/01/2017, pronunciato in un giudizio promosso,L. n. 898 del 1970, ex art. 9 (legge divorzio), da S.A., al fine di ottenere la revisione delle condizioni di divorzio, fissate in sentenza del 1986, già modificate con un decreto del 2002, contemplanti l’obbligo per lo stesso di corresponsione all’ex coniuge H.K. (soggetta ad amministrazione di sostegno) di un assegno mensile di Euro 769,97, a fronte del peggioramento della propria condizione economica (a seguito di pensionamento) e del miglioramento di quella della beneficiaria dell’assegno, ha respinto il reclamo del S., confermando il decreto del Tribunale, che aveva respinto il ricorso.
In particolare, la Corte d’appello ha ritenuto, da un lato, indimostrato il peggioramento delle condizioni economiche del S., rispetto al 2002, allorché era stato determinato l’assegno divorzile, essendosi lo stesso limitato ad allegare, senza documentare, di avere consumato tutto il proprio patrimonio mobiliare, e, dall’altro lato, dimostrato che le condizioni di salute dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno erano peggiorate (stante l’invalidità ormai giunta al 100h), in difetto di prova di un miglioramento delle sue condizioni economiche e di istanze istruttorie (anche di ordine di esibizione) avanzate dal S..
Avverso il suddetto decreto, S.A. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti di H.K., in persona dell’amministratrice di sostegno Avv.to N.C., (che resiste con controricorso).
Con ordinanza interlocutoria n. 15729/2018 del 14/06/2018 della Sesta Sezione civ. di questa Corte, il ricorso è stato rimesso alla Pubblica Udienza in Sezione semplice, presentando esso un possibile rilievo nomofilattico. Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, la nullità del decreto della Corte d’appello (e del decreto del Tribunale), rilevando che la H., sebbene sottoposta ad amministrazione di sostegno, era dotata di piena capacità processuale di stare in giudizio, essendovi necessità dell’autorizzazione del giudice tutelare solo per promuovere giudizi (nella specie tale autorizzazione era intervenuta, sia in primo grado che nella fase di reclamo, avendo la H. partecipato al giudizio in persona dell’amministratore di sostegno, avv.to N., che aveva anche svolto le sue difese). Tuttavia era mancata una valida instaurazione del rapporto processuale, essendosi la H. costituita in giudizio in persona del suo amministratore di sostegno, avv.to N., cui non era stata conferita alcuna procura dall’amministrata, con conseguente sottrazione del diritto personalissimo dell’amministrata di nominare un proprio difensore di fiducia.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta poi l’omissione, da parte della Corte d’appello (e del Tribunale prima) della necessaria integrazione probatoria, rilevando che egli aveva sollecitato il giudice a richiedere d’ufficio sommarie informazioni a terzi (quali l’INPS) sulla situazione pensionistica della beneficiaria dell’assegno.
3. La prima censura è infondata. In primo luogo, i vizi dell’attività del giudice che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato error in procedendo, con consequenziale onere dell’impugnante di indicare il danno concreto arrecatogli dall’invocata nullità processuale (tra le altre, Cass. n. 15676/2014), altrimenti essendo il ricorso inammissibile.
4. Nella specie, il ricorrente deduce che vi sarebbe stato un difetto di legittimazione processuale, riguardante la posizione della resistente-reclamata, ma non spiega quale sia il pregiudizio derivato dall’asserito vizio: quanto all’ex coniuge, soggetta ad amministrazione di sostegno, la stessa ha conseguito il mantenimento dell’assegno divorzile; quanto al ricorrente, non si comprende per quale ragione una dichiarazione di nullità della costituzione della H. avrebbe inciso favorevolmente sull’esito del giudizio di revisione delle condizioni di divorzio, cui i giudici di merito sono pervenuti in considerazione della mancata prova da parte del S. di un sopravvenuto mutamento delle condizioni di fatto che avevano determinato l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno divorzile.
5. In ogni caso, l’amministratore di sostegno ha partecipato al giudizio di primo e secondo grado, in rappresentanza dell’amministrata, giusta specifica autorizzazione del giudice tutelare, avendo l’Avv.to N. richiesto di essere autorizzato a costituirsi nel giudizio di revisione dell’assegno divorzile, per suo nome, conto ed interesse, e quindi a svolgere altresì la funzione di difensore (rinunciando alla richiesta di compenso).
6. Il vizio dedotto di legittimazione processuale non sussiste. Il procedimento disciplinato dagliartt. 404 c.c.e ss. è un procedimento in cui si tratta della capacità di agire della persona, sia pure non in maniera assoluta e generale come nel giudizio d’interdizione. Con il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, il giudice tutelare decide, infatti, se vi siano atti, e quali essi siano, che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (art. 405 c.c., comma 4, n. 3), attribuendo all’amministratore il potere rappresentativo degli interessi del beneficiario, in quanto persona che non è capace di gestirli autonomamente. Trattasi di un istituto duttile, che va calibrato sull’interesse dell’assistito. La rappresentanza sostanziale conferita all’amministratore di sostegno assume rilievo nel processo, nel senso che l’amministratore di sostegno ha anche, in virtù del dispostodell’art. 75 c.p.c., comma 2, il potere processuale, funzionale alla tutela delle situazioni sostanziali per le quali gli è stato conferito il potere rappresentativo. In relazione agli atti che l’amministratore di sostegno è autorizzato a compiere in nome e per conto del beneficiario, quest’ultimo non può stare in giudizio se non rappresentato dall’amministratore. Nel caso in cui l’incarico di amministratore di sostegno sia stato conferito ad un avvocato, questi potrà essere autorizzato a stare in giudizio personalmente ai sensidell’art. 86 c.p.c..
7. Peraltro, nella specie, non si verteva in ambito di diritti personalissimi, essendo oggetto del contendere la revisione delle condizioni economiche della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Ai sensidell’art. 411 c.c., all’amministratore di sostegno si applicano, in quanto compatibile, la disposizione di cuiall’art. 374 c.c., n. 5, che prevede che il tutore non possa, senza autorizzazione del giudice tutelare, promuovere giudizi. Tale previsione è, con orientamento consolidato, intesa come non operante nelle ipotesi di difesa passiva all’altrui iniziativa giudiziaria, in vista della conservazione dell’interesse del rappresentato (Cass. 1417/1975; Cass. 1707/1981; Cass. 722/1989; Cass. 7068/2009; Cass. 19499/2015).
8. Nella specie, l’amministratore di sostegno (che, nel presente giudizio di legittimità, si è costituito con il ministero di altro difensore cui ha conferito procura, in calce al controricorso, nella qualità di amministratore di sostegno) si è comunque fatto rilasciare, prima di costituirsi in giudizio, per resistere all’altrui pretesa, l’autorizzazione dal giudice tutelare (così era concepita l’istanza: “il sottoscritto Avv.to N.C., amministratore di sostegno della signora…, chiede di essere autorizzata nell’interesse dell’amministrata a costituirsi, a suo nome, conto ed interesse, e quindi ad essere nominata difensore dell’amministrata nel sopraindicato procedimento di modifica delle condizioni di divorzio rubricato al N. ro Rg…. avanti al Tribunale di Milano, depositando la comparsa di costituzione e risposta con relativi documenti ed ogni altro atto difensivo. L’avv.to N.C. rinuncia a richiedere all’amministrata il pagamento delle spese legali per la difesa della stessa nel suddetto procedimento di modifica delle condizioni di divorzio”; seguiva l’autorizzazione del giudice tutelare del seguente tenore: “autorizza parte richiedente a compiere le operazioni indicate in ricorso, da intendersi qui integralmente trascritte, sotto la sua personale responsabilità, con rispetto delle condizioni indicate in ricorso in punto di pagamento delle spese legali (cfr. pag. 2)”).
9. La seconda censura è inammissibile. Si denuncia, invero, una violazione di legge per avere omesso la Corte territoriale di assumere informazioni da organismi terzi, come I’Inps, circa la situazione pensionistica della controparte.
10. Il motivo è inammissibile, risolvendosi in una implicita e generica richiesta di rivisitazione del giudizio di fatto compiuto dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto che il quadro probatorio dimostrava che le condizioni economiche dell’ex coniuge beneficiario non erano migliorate, alla luce di quanto dichiarato dall’amministratore di sostegno (in particolare, in merito al fatto che l’amministrata, oltre all’assegno divorzile, percepiva solo un’indennità di accompagnamento di Euro 490,00 mensili); né il ricorrente deduce che ciò non corrispondesse al vero.
11. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.000,00, a titolo di compensi, oltre 200,00 per esborsi, rimborso forfetario spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Il danno per mancato rilascio dell’immobile dopo la diffida non può essere considerato in re ipsa

Cassazione civile, sez. III, 25 Maggio 2018, n. 13071. Est. Chiara Graziosi.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. depositato in data 8 marzo 2012, F.A. conveniva davanti al Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava dei Tirreni, la coniuge separata T.R. per ottenerne la condanna al rilascio di un immobile di sua proprietà che egli adduceva di averle concesso nel novembre 2010 in comodato con lo scopo di controllo sul loro figlio minorenne G., e di cui, venuto meno tale scopo per essersi il figlio trasferito a (*) ed essere divenuto maggiorenne, aveva già chiesto più volte il rilascio, anche con una diffida notificatale il 5 gennaio 2012; ne chiedeva pure la condanna a pagargli le spese di gestione dell’immobile dal novembre 2010 al suo rilascio, a risarcirgli il danno figurativo per il mancato godimento dell’immobile stesso e a rifondergli le spese legali sostenute.
Non essendosi costituita la T., con ordinanza del 13 luglio 2012 il Tribunale la condannava al rilascio dell’immobile, alle spese gestionali da novembre 2010 al rilascio, al risarcimento del danno da mancato godimento e alla corresponsione delle spese legali.
Avendo proposto appello la T. con atto di citazione notificato il 7 settembre 2012, in cui eccepiva la nullità della in jus vocatio per violazione del termine di legge e contestava poi nel merito le pretese di controparte, ed essendosi quest’ultima costituita resistendo, la Corte d’appello di Salerno, con sentenza del 22 ottobre-5 novembre 2015, ha accolto l’eccezione dichiarando nullità della in jus vocatio e del conseguente giudizio di primo grado e deciso nel merito condannando la T. al rilascio dell’immobile, al pagamento di una parte delle spese gestionali e al risarcimento del danno da mancato godimento dell’immobile stesso.
2. Ha presentato ricorso la T. sulla base di nove motivi, illustrati, poi, anche con memoria. Si è difeso il F. con controricorso.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è parzialmente fondato.
3.1.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in relazione agli artt. 702 ter e 112 c.p.c. per omesso rilievo di inammissibilità e/o improcedibilità del giudizio di primo grado ex art. 702 bis c.p.c., cui avrebbe dovuto applicarsi il rito speciale ex art. 447 bis c.p.c..
Osserva la ricorrente che l’art. 447 bis indica come rito per le controversie relative al comodato immobiliare quello locatizio, onde il rito sommario di cui all’art. 702 bis c.p.c. non è applicabile a tali cause; pertanto il giudice d’appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile o improcedibile la domanda del F. perchè proposta secondo il rito sommario.
3.1.2 A prescindere dal rilievo che l’applicazione del rito sommario nel primo grado (si noti che espressamente l’art. 702 bis c.p.c. individua l’ambito di applicazione del rito sommario “nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica”) non è stato oggetto di doglianza nell’atto d’appello, deve osservarsi che la corte territoriale ha dichiarato nullo il giudizio di primo grado, come richiesto dalla appellante, e ha giudicato nel merito secondo il rito con cui la stessa T. aveva proposto il gravame, ovvero non con il rito locatizio, bensì con il rito ordinario.
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che l’omesso mutamento del rito, anche in sede d’appello, dal locatizio/lavoristico all’ordinario e viceversa non comporta di per sè nullità della sentenza e quindi non rileva se non viene denunciata una concreta ed apprezzabile lesione difensiva subita in conseguenza di tale rito (cfr. Cass. sez. 3, 27 gennaio 2015 n. 1448; Cass. sez. 3, 18 luglio 2008 n. 19942; Cass. sez. 3, 13 maggio 2008 n. 11903; Cass. sez. 3, 9 ottobre 1998 n. 10030). A ben guardare, in effetti, quel che incide non è l’erroneità del rito nel senso di applicazione oltre l’ambito di controversie cui è dedicato essendo il rito di per sè una struttura processuale conformata dal legislatore, che ovviamente non può introdurvi comunque caratteristiche costituzionalmente illegittime -, bensì le concrete lesioni dei diritti processuali della parte che, specificamente, si siano verificate nell’applicazione del rito, pur di per sè non erronea, e quindi discendenti, in ultima analisi, dal contenuto della regiudicanda – rispetto alla quale, appunto, è previsto un rito diverso – che talora, per le sue intrinseche peculiarità, influisce sulle modalità del diritto di azione e, in generale, del diritto di difesa con cui si deve trattarla (proprio questo generando, logicamente, la varietà dei riti). Nulla di simile è stato qui addotto dalla ricorrente, per cui il motivo è infondato.
3.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sull’eccezione di inesistenza/tardività della notifica del ricorso ex art. 702 c.p.c. alla T..
Nella sua qualità di appellante, l’attuale ricorrente aveva eccepito omesso rilievo da parte del giudice di prime cure della inesistenza e, in subordine, dalla tardiva notificazione del ricorso ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., motivando la doglianza in base alla tardività della notifica in primis per il mancato rispetto dei termini ex art. 702 bis e in subordine per mancato rispetto del termine concesso nel decreto che aveva fissato l’udienza; su questo vi sarebbe omessa pronuncia, con vulnus conseguentemente subito dalla T., perchè, se fosse stato riscontrato il vizio della notifica, il giudizio avrebbe dovuto essere rimesso ai sensi dell’art. 354 c.p.c. al giudice di primo grado.
Questo motivo non ha consistenza, perchè in realtà quel che lamenta non è un vizio della notifica in sè, bensì la tardività della notifica rispetto al termine entro cui avrebbe dovuto essere espletata; e ciò è rientrato nella censura dell’atto d’appello accolta dalla corte territoriale, che ha ritenuto nulla la in jus vocatio in riferimento proprio al mancato rispetto del termine non sanato (art. 164 c.p.c., comma 1), desumendone correttamente la nullità del giudizio di primo grado (si vedano in particolare le pagine 5-6 della motivazione della sentenza impugnata).
3.3 Il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denuncia nullità della sentenza in relazione all’art. 702 bis c.p.c., art. 354 c.p.c., u.c. e art. 162 c.p.c. per avere il giudice d’appello dichiarato la “nullità dell’atto di citazione” e deciso il merito “omettendo le attività istruttorie precluse” in primo grado alla T..
Lamenta la ricorrente che la corte territoriale non ha disposto la rinnovazione degli atti nulli, nè le ha consentito di svolgere le attività che le erano rimaste precluse in primo grado, in contrasto con l’art. 354 c.p.c., u.c. e art. 162 c.p.c.. La T. avrebbe dedotto nell’atto d’appello interrogatorio e prova testimoniale su una circostanza rilevante, e richiesto poli all’udienza del 10 gennaio 2013 la concessione di termini ex art. 183 c.p.c., comma 6; la corte territoriale avrebbe però dichiarato inammissibile la richiesta dei termini per formulare istanze istruttorie e non si sarebbe pronunciata sull’istanza già proposta nell’atto d’appello. Ammette la ricorrente che in primo grado non erano stati espletati atti istruttori, per cui non vi erano atti da rinnovare ex art. 354 c.p.c., u.c., ma insiste nel senso che avrebbero dovuto esserle concesse tutte le attività precluse a causa della nullità.
A parte che la istanza di concessione di termini ex art. 183 c.p.c. non risulta essere stata preservata nelle precisate conclusioni (che, come emerge dal ricorso stesso – pagine 8-9 furono solo quelle presenti nell’atto d’appello), non è comunque autosufficiente la censura, in quanto non indica su che cosa verteva il capitolato di cui avrebbe chiesto l’ammissione per prove orali nell’atto d’appello.
3.4 Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione sulla ritenuta inammissibilità della “domanda” di concessione di termini ex art. 183 c.p.c., comma 6.
Ancora si deduce che nell’atto d’appello si sarebbero chieste le prove orali – interrogatorio e testimonianza – in ordine ad “una circostanza di fatto decisiva” e che dal verbale dell’udienza del 10 gennaio 2013 risultano chiesti i termini ex art. 183 c.p.c., comma 6. Il giudice d’appello avrebbe dichiarato inammissibile la “domanda” di concessione di termini ex art. 183 c.p.c. senza motivarlo, per cui sarebbe incorso in un vizio di omessa motivazione.
Dallo stesso ricorso (e precisamente dalla premessa illustrativa dello svolgimento del processo, a pagina 9) emerge che con ordinanza del 18 febbraio 2013 la corte territoriale ritenne inammissibile la richiesta di concessione di termini ex art. 183 c.p.c., comma 6; e, come già si è rimarcato a proposito del precedente motivo, la richiesta non fu reiterata in sede di precisazione delle conclusioni, per cui – a prescindere dal fatto che si tratta di questione di diritto per cui non è applicabile l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – nessuna omessa motivazione al riguardo è configurabile nella sentenza impugnata.
Quanto poi alla decisività della prova non ammessa, si rimanda alla precedente constatazione della carenza di sufficiente specificità, ovvero di non autosufficienza, della censura.
3.5.1 Il quinto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione/falsa applicazione dell’art. 1809 c.c..
Il giudice d’appello, secondo la ricorrente, avrebbe correttamente inquadrato il contratto di cui è causa nella fattispecie del comodato di scopo, ma avrebbe poi errato ponendo come presupposto dell’applicabilità della sua disciplina la destinazione dell’immobile a casa familiare nel giudizio di separazione e facendo valere il fatto che in tale giudizio un altro immobile era stato invece assegnato alla T. come casa familiare.
3.5.2 Il motivo tenta di “schivare” quella che è stata la reale ratio decidendi della sentenza: la corte territoriale ha riconosciuto la sussistenza del diritto al rilascio dell’immobile in capo all’appellato per avere accertato che lo scopo connotante il comodato era la vigilanza del figlio minorenne delle parti, il quale nello stesso immobile risiedeva, prima del comodato con il padre. Gli argomenti relativi al comodato ad uso di casa familiare che la corte ha effettivamente – e pure impropriamente – miscelato con il suddetto fondamento della sua decisione non incidono; nè quest’ultimo fondamento viene inficiato nel presente motivo (v. motivazione della sentenza impugnata, pagine 8ss.: “Risulta pacifico che nel novembre del 2010 tra le attuali parti in causa si convenne di mettere a disposizione della T. l’appartamento de quo, allo scopo di garantire al figlio minore G. un controllo e una presenza genitoriale più costante di quella che avrebbe potuto assicurargli il padre, che all’epoca viveva con il figliolo in quella abitazione… Emerge, inoltre, dagli atti di causa che in data 8 settembre 2011 F.G., nato il (*), e quindi ormai quasi maggiorenne, ha ottenuto dal Liceo Classico Convitto Nazionale “(*)” il nulla osta per il trasferimento presso l’Istituto Paritario “(*)” di (*). Il 2 ottobre 2012 è stata avviata presso il Primo Municipio del Comune di Roma la pratica per l’iscrizione del ragazzo nella popolazione residente di quel Comune… E’ quindi evidente che dall’inizio dell’anno scolastico 2011/2012 il giovane F. abbia (sic) iniziato a frequentare il Liceo di (*), stabilendo in quella città la propria residenza. Ciò ha comportato il venir meno dello scopo per il quale l’appartamento in questione era stato concesso in comodato alla T.. Invero, l’allontanamento di G. dalla cittadina ove per ragioni legate all’ambiente e alle cattive frequentazioni del giovane si era imposta l’esigenza di un costante controllo del ragazzo da parte di uno dei genitori ha eliminato in radice la necessità che la madre dovesse continuare disporre dell’alloggio…ove ella si era un anno prima sistemata proprio al fine di assicurare tale controllo”).
3.6.1 Il sesto motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contraddittorietà motivazionale: il giudice d’appello avrebbe affermato che l’attore era gravato solo dall’onere di provare la consegna dell’immobile e il rifiuto della restituzione, laddove il convenuto avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di un titolo, mentre nel comodato di scopo spetterebbe al comodante dimostrare l’intervenuta cessazione dello scopo.
3.6.2 A parte che una mera contraddittorietà non rientra più come vizio motivazionale nel vigente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, se è vero che il giudice d’appello ha così formalmente ripartito l’onere della prova (a pagina 8 della motivazione), è peraltro dirimente il fatto che la corte rimarca l’ammissione da parte della T. che lo scopo del comodato era tenere sotto controllo il figlio allora minorenne, ricostruendo poi tutta la vicenda, incluso il trasferimento del figlio a (*), come dimostrazione della cessazione del siffatto scopo (si rimanda al passo trascritto a proposito del precedente motivo), concludendo il suo percorso di accertamento fattuale semplicemente affermando non provato che vi fosse un ulteriore scopo come aveva prospettato la T. (motivazione, pagina 10s.: “non può condividersi l’assunto della appellante, la quale sostiene che l’esigenza per la quale la casa le era stata concessa in comodato…sia attualmente ancora sussistente, per non avere il figlio ancora raggiunto la propria indipendenza economica e costituendo quella abitazione il centro degli interessi del ragazzo…il raggiungimento della maggiore età da parte di G., in una con il trasferimento dello stesso a (*), ha comportato il venire meno proprio di quell’esigenza di controllo assiduo e sistematico che aveva giustificato il trasferimento della donna presso il figlio, a nulla valendo, in contrario, il fatto che il giovane non abbia ancora raggiunto la piena indipendenza economica… Ne consegue che, essendo venuto meno lo scopo che aveva determinato la concessione in comodato del bene alla convenuta, l’occupazione è divenuta “sine titulo” e quest’ultima dovrà quindi immediatamente rilasciare l’immobile in favore dell’attore”).
3.7 Il settimo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo e omessa considerazione di elementi di prova su di esso vertenti: l’attuale ricorrente avrebbe documentalmente dimostrato tramite certificazione anagrafica il ritorno nell’immobile del figlio G. nel marzo 2014.
Il motivo è palesemente privo di consistenza, in quanto si impernia su un fatto del tutto irrilevante: che il figlio dei litigatores sarebbe ritornato nell’appartamento nel 2014, ovvero quando da tempo era cessato lo scopo connesso al comodato; scopo che certo non poteva con un tale rientro venire retroattivamente “recuperato”, tanto più che non poteva sussistere comunque, trattandosi ormai di persona maggiorenne e quindi non sottoponibile a vigilanza da parte dei genitori.
3.8 L’ottavo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione/falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., nonchè, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo e omessa considerazione di elementi di prova su di esso vertenti: l’appellante avrebbe addotto che controparte si era accollata delle spese della gestione dell’immobile, e su ciò non vi sarebbe stata contestazione, come poi dalla stessa appellante rilevato.
A tacer d’altro, il motivo è del tutto inconsistente, giacchè, lungi dalla non contestazione di un simile accollo, fin dall’avvio del giudizio il F. aveva proposto – e poi mai abbandonato una specifica domanda di restituzione delle spese gestionali; per di più, al riguardo le istanze istruttorie della T. erano risultate tardive, in quanto proposte nella comparsa conclusionale, come rileva espressamente la corte territoriale nella parte finale della pagina 11 della motivazione della sentenza impugnata.
3.9.1 Il nono motivo denuncia violazione/falsa applicazione di norme, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul fatto discusso e decisivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento agli artt. 2043 e 2056 c.c. in relazione agli artt. 1223, 1226 e 2697 c.c..
La doglianza, che presenta in realtà una natura riconducibile alla denuncia dell’error in iudicando, rimarca che il giudice d’appello avrebbe erroneamente ritenuto – in difformità con la giurisprudenza di questa Suprema Corte, inequivoca a partire dalle c.d. sentenze di San Martino – sussistente il danno in re ipsa, tale qualificando il danno che al F. sarebbe derivato dal mancato godimento dell’immobile, mentre avrebbe dovuto correttamente tenere in conto che il F. nulla avrebbe allegato nè tantomeno provato quanto all’utilizzazione dell’immobile.
Tale doglianza è fondata.
3.9.2 La corte territoriale, invero, afferma (motivazione, pagine 12-13), che, secondo il “consolidato orientamento” della giurisprudenza di legittimità, “in caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, il danno del proprietario usurpato è “in re ipsa” in quanto si rapporta al semplice fatto della perdita della disponibilità del bene da parte del “dominus” ed all’impossibilità per costui di conseguire l’utilità normalmente ricavabile di bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso; conseguentemente la determinazione del risarcimento ben può essere determinata dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, facendo riferimento al cosiddetto danno figurativo e, quindi, con riguardo al valore locativo del cespite abusivamente occupato”.
In effetti, questa impostazione, antecedente alle sentenze di San Martino (proprio come sintetizza la corte territoriale si era espressa Cass. sez. 3, 8 maggio 2006 n.10498), in molti arresti massimati è sopravvissuta, in modo tralatizio, al celebre intervento nomofilattico di S.U. 11 novembre 2008 n.26972 (v. Cass. sez. 3, 11 febbraio 2008 n. 3251, Cass. sez. 3, 10 febbraio 2011 n. 3223, Cass. sez. 3, 16 aprile 2013 n. 9137, Cass. sez. 2, 28 maggio 2014 n. 11992, Cass. sez. 2, 15 ottobre 2015 n. 20823, Cass. sez. 3, 9 agosto 2016 n. 16670; cfr. pure Cass. sez. 1, 7 marzo 2017 n. 5687). Sempre tra gli arresti massimati, dichiara invece espressamente la natura non qualificabile come in re ipsa del danno de quo Cass. sez. 3, 17 giugno 2013 n. 15111, che – richiamando pure un precedente anteriore alle sentenze di San Martino, Cass. sez. 3, 11 gennaio 2005 n. 378 – in motivazione così osserva:”…il danno da occupazione abusiva di immobile non può ritenersi sussistente “in re ipsa” e coincidente con l’evento, che è viceversa un elemento del fatto produttivo del danno, ma, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 cod. civ., trattasi pur sempre di un danno-conseguenza, sicchè il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto ad esempio locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo peraltro pur sempre avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti…L’impostazione del danno in re ipsa non è sostenibile. Ed invero sostenere ciò significa affermare la sussistenza di una presunzione in base alla quale, una volta verificatosi l’inadempimento, appartiene alla regolarità causale la realizzazione del danno patrimoniale oggetto della domanda risarcitoria, per cui la mancata conseguenza di tale pregiudizio debba ritenersi come eccezionale. Così operando si pone a carico del convenuto inadempiente l’onere della prova contraria all’esistenza del danno in questione, senza che esso sia stato provato dall’attore”.
Di recente, ha in qualche misura attinto da questo arresto Cass. sez. 6-3, ord. 15 dicembre 2016 n. 25898, che qualifica sì il danno in esame come danno in re ipsa, ma rileva che è tale “perchè inteso in senso descrittivo cioè di normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l’onere per l’attore quantomeno di allegare e anche di provare, con l’ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell’immobile l’avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il suo godimento diretto o la sua locazione”.
Poco prima di quest’ultima, Cass. sez. 3, 9 agosto 2016 n. 16670, già sopra citata, nella motivazione menziona l’esistenza dei due precedenti contrari all’orientamento cui aderisce qualificando il danno de quo come danno in re ipsa – ovvero Cass. sez. 3, 17 giugno 2013 n. 15111 e la più risalente Cass. sez. 3, 11 gennaio 2005 n. 378 -, affermando peraltro che essi “nella sostanza non si discostano da questa impostazione, benchè precisando che non di “danno in re ipsa” si tratta, ma di danno-conseguenza che va approvato dal danneggiato, il quale può al riguardo peraltro pur sempre avvalersi di presunzioni”. In effetti, come si è appena mostrato trascrivendo il passo motivazionale su cui si regge Cass. sez. 3, 17 giugno 2013 n. 15111, non emerge in quest’ultima una linea compatibile con quella maggioritaria, premurandosi anzi l’arresto a rimarcare come il danno in re ipsa non possa, nel caso in esame, sussistere in luogo del danno conseguenza, perchè altrimenti verrebbe a crearsi una presunzione che non solo esonera chi sarebbe danneggiato dall’onere probatorio (onere per il cui adempimento, qui come in ogni fattispecie per cui non sia prescritta una determinata forma ad probationem, chi lamenta il danno può avvalersi dello strumento della presunzione semplice), ma altresì impone al preteso danneggiante, per “sciogliersi” dall’avversa pretesa, di fornire una prova negativa (è il caso di riproporre il clou motivazionale della pronuncia: “L’impostazione del danno in re ipsa non è sostenibile. Ed invero sostenere ciò significa affermare la sussistenza di una presunzione in base alla quale, una volta verificatosi l’inadempimento, appartiene alla regolarità causale la realizzazione del danno…, per cui la mancata conseguenza di tale pregiudizio debba ritenersi come eccezionale. Così operando si pone a carico del convenuto inadempiente l’onere della prova contraria all’esistenza del danno in questione, senza che esso sia stato provato dall’attore”).
3.9.3 Non si può negare che, in generale, dopo lo “sbarramento” nomofilattico apparentemente definitivo opposto al danno in re ipsa dalle sentenze di San Martino profittando di un’occasione attinente al tirare le fila dell’evolutivo danno non patrimoniale (rispetto al quale, in effetti, talora l’esclusione assoluta è problematica) ma inequivocamente sul punto concernente anche il danno patrimoniale, l’identificazione dell’evento dannoso con il danno in senso proprio ovvero il compattamento del danno-evento con il danno-conseguenza – permane nell’orientamento giurisprudenziale per alcune fattispecie, sia patrimoniali sia non patrimoniali, tanto in riferimento al risarcimento di danni di fonte aquiliana quanto al risarcimento di danni derivanti da inadempimento contrattuale: la vis attractiva del danno in re ipsa non si è estinta (da ultimo cfr., p. es., Cass. sez. 3, ord. 29 settembre 2017 n. 22815; Cass. sez. 2, ord. 31 maggio 2017 n. 13792; Cass. sez. 2, 28 settembre 2016 n. 19215; Cass. sez. 1, 22 giugno 2016 n. 12954; Cass. sez. 2, 10 marzo 2016 n. 4713).
E il riconoscimento dell’istituto del danno in re Osa è stato formulato pure come regola generale, a proposito dei presupposti della liquidazione equitativa del danno: Cass. sez. 3, 8 gennaio 2016 n. 127 ha infatti affermato che tale species di liquidazione presuppone la prova dell’esistenza di danni risarcibili di cui sia impossibile o particolarmente difficile determinare il quantum, dovendo comunque la parte interessata provare l’an debeatur del diritto al risarcimento ove sia stato contestato o non debba “ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa” (conforme poi Cass. sez. 3, 17 ottobre 2016 n. 20889).
Viceversa, e praticamente in contemporaneità, altra giurisprudenza di sezioni semplici ha continuato nei più vari casi ad applicare i principi consolidati dalle sentenze di San Martino, escludendo la fattispecie del danno in re ipsa e intendendola in ultima analisi come integrante un illegittimo esonero dall’onere della prova (ex multis Cass. sez. 2, 22 settembre 2017 n. 22201; Cass. sez. 3, 13 ottobre 2016 n.20643; Cass. sez. 1, 23 dicembre 2015 n. 25921; Cass. sez. 3, 18 novembre 2014 n. 24474; Cass. sez. 6-3, ord. 5 settembre 2014 n. 18812, Cass. sez. 3, 3 luglio 2014 n. 15240; Cass. sez. 1, 3 giugno 2014 n. 12370; Cass. sez. 6 – 1, ord. 26 settembre 2013 n. 22100; Cass. sez. 6 – 1, ord. 24 settembre 2013 n. 21865; Cass. sez. 1, 10 settembre 2013 n. 20695).
3.9.4 Il celebre intervento di S.U. 11 novembre 2008 n. 26972, nella sua ampia motivazione, pur imperniata – logicamente – soprattutto sulla figura del danno non patrimoniale che qui non rileva, dichiara espressamente che il sistema della responsabilità aquiliana, situato nella bipolarità appunto tra il danno patrimoniale e il danno non patrimoniale, fornisce una struttura dell’illecito “articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza)”, e l’evento dannoso è rappresentato dalla “lesione dell’interesse protetto”. Pertanto quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, “che deve essere allegato e provato”; non è accettabile la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, ovvero come “danno-evento”, e parimenti da disattendere è la tesi che colloca il danno appunto in re ipsa, perchè così “snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”.
Non si può certo non riconoscere che questa scissione del danno dalla lesione al diritto deve valere, per non snaturare appunto in tal modo la funzione risarcitoria “di base”, anche nel caso in cui il fatto illecito che ha generato la lesione non è aquiliano. L’esclusione dell’accertamento effettivo del danno, che fonde invece quest’ultimo direttamente con la lesione del diritto, in ogni fattispecie quantomeno di danno patrimoniale conduce infatti a oltrepassare l’ambito del tradizionale danno compensativo/ripristinatorio per raggiungere un vero e proprio danno punitivo. Chiaro esempio è proprio il caso della occupazione senza titolo, in cui se il danno è in re ipsa chi ha occupato l’immobile a ben guardare viene “punito” per il suo illecito, essendo comunque obbligato a corrispondere a controparte – ovvero a prescindere da ogni accertamento al riguardo – l’importo del canone locatizio che l’immobile stesso avrebbe fruttato se fosse stato dal proprietario concesso in locazione o in affitto per tutta la durata del periodo di occupazione. Impostazione, questa del c.d. danno figurativo, che non può quindi accogliersi non solo in riferimento alle sentenze di San Martino, ma oramai anche in considerazione dell’ulteriore, recentissimo intervento nomofilattico di S.U. 5 luglio 2017 n. 16601, che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento ponendo però come limite l’espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost..
Le Sezioni Unite, in tale arresto, dopo uno specifico elenco di istituti con cui il legislatore ordinario negli ultimi anni ha introdotto nel sistema il danno punitivo così da superare “il carattere monofunzionale della responsabilità civile, avente la sola funzione di “restaurare la sfera patrimoniale” del soggetto leso”, rimarcano che ciò non significa che “questa curvatura deterrente/sanzionatoria consente ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati”, dato che “ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge”. E quel che viene affermato espressamente in riferimento all’accentuazione di un quantum, a fortiori, secondo l’evidenza logica, non può non valere parimenti per il riconoscimento, tramite una cognizione giurisdizionale meramente interpretativa e non fattualmente accertativa, di un an e di un quantum risarcitori di contenuto predeterminato, così come già avevano ben lasciato intendere le sentenze di San Martino nei passi sopra richiamati.
3.9.5 Ogni elemento sanzionatorio che venga a sostituire – in ultima analisi – quello risarcitorio non può, invero, derivare da volontà del giudicante, bensì esige riserva di legge. Nè può aggirarsi questo ostacolo organizzando interpretativamente una rigida presunzione a favore del proprietario dell’immobile, che prescinde completamente (e quindi lo esonera) dalle allegazioni di quest’ultimo: se è vero, infatti, che il danno, nei casi in cui è particolarmente evidente, può agevolmente dimostrarsi sulla base di presunzioni semplici (e qui si rinviene il – di per sè non negabile – “confine ambiguo” con il danno in re ipsa in cui si trovano talune fattispecie di danno-conseguenza), ciò non toglie che l’alleggerimento dell’onere probatorio non può includere l’esonero dalla allegazione dei fatti che attraverso l’adempimento di tale onere devono essere accertati. In tal modo, tra l’altro, si addentra la prospettazione attorea in un livello di genericità tale che il diritto alla difesa di controparte diviene, in pratica, non esercitabile, non risultando identificati gli specifici elementi in rapporto al cui diniego occorra esercitarlo. In ultima analisi, non può essere affidata ad una valutazione del giudice la necessità o meno della allegazione dei fatti in cui consisterebbe il danno, potendo così ritenerla necessità inesistente nelle fattispecie in cui questi sarebbero sempre gli stessi e quindi già di per sè saldamente presumibili – come, appunto, si prospetta nel risarcimento del danno da occupazione senza titolo: la perdita dei frutti civili dell’immobile – o al contrario “scegliendo” la necessità nelle fattispecie non parimenti predeterminate nelle conseguenze dell’evento lesivo. Proprio nella ipotesi di occupazione sine titulo risalta, d’altronde, che il risarcimento comunque del danno attraverso il canone locatizio per la durata dell’occupazione è un danno punitivo qualora non vi sia allegazione sulla intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto: sussiste nell’ordinamento, infatti, quale istituto economico-giuridico, ciò che dimostra ictu oculi che non sempre il proprietario mette a frutto il suo immobile, non traendone così per sua scelta alcun guadagno, ovvero il sopravvenire della usucapione in capo a soggetti diversi, appunto, dal proprietario dell’immobile.
Alla luce, pertanto, di quanto esposto in ordine anche alla natura punitiva che una presunzione probatoria fondata sull’esonero dell’obbligo allegatorio come quella in realtà sottesa (quantomeno nel danno patrimoniale) al concetto di danno in re ipsa giunge a conferire al risarcimento, illegittimamente in difetto di specifica norma in tal senso, non si può non aderire all’orientamento che ha escluso detta impostazione, che ora viene a sintonizzarsi pure all’intervento nomofilattico del 2017. Il nono motivo del ricorso merita quindi accoglimento, per cui la sentenza impugnata deve essere cassata nella parte in cui condanna la T. a risarcire controparte per l’asserito danno da mancato godimento del bene a partire dalla data di notifica dell’atto stragiudiziale di diffida al rilascio dell’immobile – 5 gennaio 2012 – sino al rilascio stesso, con rinvio ad altra sezione della corte territoriale che dovrà accertare, non sussistendo nella fattispecie alcun danno in re ipsa, se il proprietario dell’immobile ha allegato e provato il danno-conseguenza che potrebbe essergli derivato dalla occupazione senza titolo, come – si indica meramente per esempio dovendosi il giudice di merito rapportare alle effettive allegazioni compiute – la sua intenzione concreta di concederlo in locazione durante tale periodo, o l’avere sostenuto spese che altrimenti non avrebbe dovuto affrontare per risiedere egli stesso durante tale periodo in un altro immobile, o l’avere avuto concreta intenzione nel frattempo di venderlo.
Al giudice di rinvio, ai sensi dell’art. 285 c.p.c., comma 3, viene altresì rimessa la pronuncia sulle spese del presente grado.
P.Q.M.
Accoglie il nono motivo del ricorso, respinti gli altri, cassa per quanto di ragione e rinvia, anche per le spese del grado, alla Corte d’appello di Salerno.

Il compenso del difensore a carico dello Stato può essere liquidato in misura inferiore a quanto stabilito in sentenza e posto a carico del soccombente

Cass. civ. Sez. II, 18 marzo 2019, n. 7560
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 29134/2014 R.G. proposto da:
Avv. G.G., con domicilio eletto in Roma, Piazza Morgana, n. 29, presso lo studio dell’avv. Antonino Barletta;
– ricorrente –
contro
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro p.t.;
– intimato –
M.I., M.G., M.E., M.A., B.G..
– intimati –
avverso l’ordinanza del Presidente del Tribunale di Enna, depositata in data 11.7.2013.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 2&.9.2018 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso, chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
L’avv. G.G. ha difeso M.I., M.G., M.E. e M.A., ammessi al gratuito patrocinio, nel giudizio da essi intentato nei confronti di B.G., volto ad ottenere il risarcimento del danno da uccisione di un loro congiunto. Il Tribunale di Enna ha accolto la domanda, quantificando il risarcimento in Euro 12.500,00 per ciascuna parte, ed ha condannato B.G. al pagamento delle spese processuali in favore dell’erario, pari a complessivi Euro 10.000,00, di cui Euro 3500,00 per diritti ed Euro 6500,00 per onorari, oltre accessori di legge.
Con successivodecreto del 28.3.2013, il medesimo Tribunale ha, inoltre, liquidato i compensi in favore del ricorrente in Euro 3.113,75 per onorari ed Euro 666,55 per diritti, oltre accessori di legge. L’opposizioneD.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170, proposta dall’avv. G. è stata respinta dal Presidente del Tribunale di Enna, il quale ha sostenuto che il compenso liquidato a norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.82, non deve necessariamente corrispondere a quanto liquidato in sentenza a favore dell’erario, potendo il predetto difensore censurare solo l’errata applicazione delle disposizioni delD.P.R. n. 115 del 2002.
Ha inoltre ritenuto che l’importo riconosciuto al ricorrente fosse stato correttamente quantificato sulla base dell’ammontare del risarcimento liquidato in sentenza, di gran lunga inferiore a quello oggetto di domanda, rilevando che il giudizio era volto a determinare solo l’entità del danno (essendo già intervenuto il giudicato penale sull’an) e che non si era discusso di questioni di particolare complessità.
Per la cassazione dell’ordinanza presidenziale emessa in data 11.7.2013, l’avv. G. ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
Con ordinanza interlocutoria del 23.3.2018 la causa è stata rimessa alla pubblica udienza per la rilevanza nomofilattica delle questioni oggetto di ricorso.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo censura la violazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.82, art. 2041 c.c.,artt. 3 e 24 Cost., eart. 111 Cost., comma 7, in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché la violazionedell’art. 111 Cost., comma 7, e l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la pronuncia quantificato il compenso in favore del ricorrente in un importo inferiore a quello liquidato in sentenza a carico della parte soccombente, lamentando che il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi a detta liquidazione in applicazione dei parametri richiamati dalD.P.R. n. 115 del 2002,art.82, allo scopo di evitare che il ricorrente subisse un’evidente disparità di trattamento “in funzione del diverso destinatario del provvedimento”, e di evitare un indebito arricchimento dello Stato. Si assume, inoltre, che le spese liquidate con la sentenza di condanna erano già state ridotte del 50%, in virtù del parziale rigetto della domanda, per cui non erano ammissibili ulteriori riduzioni.
Il secondo motivo censura la violazionedell’art. 111 Cost., comma 7, per motivazione illogica e contraddittoria su fatti decisivi per il giudizio, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la Corte ritenuto che il difensore potesse agire solo in via ordinaria per ottenere un compenso pari all’importo delle spese posto a carico della parte soccombente, mentre che nel giudizio di opposizione potevano essere sollevate anche le questioni pertinenti alla congruità della liquidazione.
Il terzo motivo censura – letteralmente – la violazionedell’art. 111 Cost., comma 7, per motivazione illogica e contraddittoria su un punto decisivo per il giudizio, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver il giudice di merito trascurato la complessità delle questioni esaminate e l’impegno profuso dal difensore, non dando seguito alla richiesta di acquisizione dei fascicoli di parte, comprovanti l’intera l’attività svolta.
2. Il primo motivo è infondato per le ragioni che seguono.
A norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.82, comma 2, l’onorario e le spese spettanti al difensore sono liquidati dall’autorità giudiziaria con decreto di pagamento, osservando la tariffa professionale in modo che, in ogni caso, non risultino superiori ai valori medi delle tariffe vigenti relative ad onorari, diritti ed indennità, tenuto conto della natura dell’impegno professionale, in relazione all’incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della persona difesa.
Il successivo art. 130, contenente disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario, prescrive che gli importi spettanti al difensore, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte sono ridotti della metà.
Infine l’art. 133 prevede che il provvedimento che pone a carico della parte soccombente, non ammessa al patrocinio, la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa, deve disporre che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, la suddetta disciplina non lede il principio di parità di trattamento a causa del particolare criterio di remunerazione delle attività prestata in favore del non abbienti, poiché il sistema è caratterizzato da peculiari connotazioni pubblicistiche e la riduzione dei compensi ai sensi dell’art. 130 t.u.s.g. non impone al professionista un sacrificio tale da “risolvere il ragionevole legame tra l’onorario a lui spettante ed il relativo valore di mercato, trattandosi, semplicemente, di una – parzialmente diversa – modalità di determinazione del compenso giustificato dalla considerazione dell’interesse generale che il legislatore ha inteso perseguire, nell’ambito di una disciplina, mirante ad assicurare al non abbiente l’effettività del diritto di difesa in ogni stato e grado del processo, nella quale la liquidazione degli onorari professionali è suscettibile di restare a carico dell’erario” (cfr., testualmente, Corte Cost. 122/2016; Corte Cost. 270/2012).
La normativa è coerente – inoltre – con il margine di ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nel dettare le norme processuali, nel cui novero sono comprese anche quelle in materia di spese di giustizia (Corte Cost. 270/2012).
Quanto alla potenziale lesione del diritto di difesa per effetto “della più ridotta platea di professionisti disposta a difendere in sede civile le parti non abbienti (data la minore rimuneratività di tale attività)”, può al più prospettarsi, non un vizio di costituzionalità, ma “un mero inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla applicazione della disposizione” (Corte Cost. 270/2012).
2.1. Posta la legittimità delD.P.R. n. 115 del 2002,artt.82e130, ne consegue che, nel quantificare i compensi del difensore delle parti ammesse al gratuito patrocinio, non è in alcun caso consentito superare i limiti e le prescrizioni poste dalla suddetta normativa.
Pertanto, pur voler ammettere che il giudice sia tenuto a quantificare detto compenso in misura corrispondente all’importo delle spese processuali poste a carico della parte soccombente (Cass. 21611/2017; Cass. 1843167/2016; Cass. pen. 46537/2011; Corte Cost. 270/2012), resta però che il difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio non ha alcun titolo ad ottenere più di quanto risulti dalla corretta applicazione delle disposizioni del testo unico, potendo contestare solo sotto tali profili il decretoD.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 82.
Nel caso in cui detto decreto abbia riconosciuto somme superiori a quelle liquidate in sentenza ai sensidell’art. 91 c.p.c., legittimato a dolersi è esclusivamente la parte soccombente in giudizio, poiché “presupposto e finalità della rifusione delle spese di lite sono il rendere indenne la controparte delle spese effettivamente sostenute in ragione del processo, ma solo di quelle, esulando del tutto alcuna finalità “punitiva” del tipo di quella ora previstadall’art. 96 c.p.c., u.c., (cfr. Cass. pen. 46537/2011; Cass. 22017/2018).
2.2. La pronuncia non è incorsa nella violazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.130, poiché ha correttamente ridotto alla metà il compenso, come quantificato in base alla limitata complessità dell’attività svolta e delle questioni dibattute, sulla base delle somme liquidate in sentenza a titolo di risarcimento del danno, in applicazione delD.M. n. 127 del 2004,art. 6, comma 2, (applicabile ratione temporis), non essendo vincolato all’importo richiesto in domanda e non potendo comunque rilevare che le richieste avanzate dai danneggiati fossero state solo parzialmente accolte per escludere la riduzione di legge.
3. Il secondo motivo ed il terzo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili.
La pronuncia impugnata è stata depositata in data 11.3.2013 e ricade nella formulazionedell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dalD.L. n. 83 del 2012,art.54, comma 1, lett. b), convertito conL. n. 134 del 2012.
La norma contempla un vizio della decisione diverso e autonomo da quelli relativi alla motivazione, consistente nell’omesso esame di un dato accadimento oggettivo, risultante dagli atti processuali o dalla sentenza ed avente carattere decisivo.
Per effetto della portata sistematica delle novità introdotte dalD.L. n. 83 del 2012, il controllo sulla motivazione, censurabile quale violazionedell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, risulta circoscritto nei limiti di garanzia del minimo costituzionale ai sensidell’art. 111 Cost.e nei soli casi tipizzati dalla giurisprudenza di questa Corte, che non includono anche la contraddittorietà o insufficienza della motivazione stessa (Cass. 23940/2017; Cass. 21257/2014; Cass. 13928/2015; Cass. s.u. 8053/2014).
In ogni caso, il Presidente del tribunale ha dato conto delle ragioni della conferma del decreto di liquidazione, avendo chiarito che il giudizio civile verteva solo sul quantum del risarcimento, che non si era discusso di questioni di particolare difficoltà, che non era stato profuso un impegno di particolare onerosità e che il ricorrente non aveva prodotto, come era suo onere, gli atti difensivi.
È – parimenti – irrilevante accertare se la decisione impugnata sia incorsa nell’errore di aver ritenuto necessaria la proposizione, ad opera del ricorrente, di un’autonoma azione di cognizione per ottenere, a titolo di compenso, un importo pari a quello delle spese processuali poste a carico del soccombente, non potendone comunque derivare, per quanto osservato nell’esame del primo motivo di ricorso, la cassazione del provvedimento impugnato.
Rientrava infine nella discrezionalità del giudice di merito – ed è sottratta al sindacato di legittimità – la scelta di acquisire gli atti, i documenti e le informazioni necessari ai fini della decisione, come si evince dal tenore letterale delD.Lgs. n. 150 del 2011,art.15, comma 5.
Il ricorso è, quindi, respinto.
Nulla sulle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva. Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1- quater.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Sussistono,D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-bis, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2019

Danno non patrimoniale: la Cassazione enuncia i principi e le regole della liquidazione

Cassazione civile, sez. III, 27 Marzo 2018, n. 7513. Est. Rossetti.
omissis
Rilevato che:
(-) il (*) rimase ferito in conseguenza d’un sinistro stradale, avvenuto mentre era trasportato sul veicolo Iveco targato (*), di proprietà della ( *) s.r.l., condotto da ( *) ed assicurato contro i rischi della circolazione dalla società ( *) ;
(-) essendo il sinistro avvenuto durante uno spostamento compiuto in occasione di lavoro, l’Inail gli aveva erogato una rendita, ai sensi dell’art. 13 d. Igs. 23.2.2000 n. 38;
(-) la c*) gli aveva corrisposto somme inferiori al risarcimento dovutogli, avuto riguardo all’entità dei danni patiti.
Concluse pertanto chiedendo la condanna dei convenuti – ad eccezione dell’Inail, nei confronti del quale chiese una pronuncia di mero accertamento – al risarcimento dei danni patiti in conseguenza del sinistro e non ancora risarciti.
2. La (*) si costituì eccependo l’esistenza d’un concorso di colpa della vittima.
L’Inail si costituì ammettendo la costituzione della rendita.
Gli altri convenuti restarono contumaci.
3. Con sentenza n. 448 del 2012 il Tribunale di Frosinone accolse la domanda.
Con sentenza 18.6.2014 n. 4150 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il gravame della (*) , così provvide:
(-) rigettò la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, in tesi scaturito dalla riduzione del reddito lavorativo, ritenendola non provata;
(-) ritenne che il Tribunale, aumentando del 25% la misura standard del risarcimento del danno biologico, al fine di tenere conto della circostanza che la vittima avesse dovuto rinunciare, a causa dei postumi residuati all’infortunio, alla cura dell’orto e del vigneto cui era solito in precedenza attendere, avesse duplicato il risarcimento, e di conseguenza ridusse il risarcimento del danno biologico del 25%;
(-) ricalcolò il credito residuo dell’attore, previa rivalutazione degli acconti pagati dall’assicuratore.
4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da ‘issis’ (*” con ricorso fondato su undici motivi ed illustrato da memoria.
Ha resistito con controricorso la *
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 345.
Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello ha rigettato in toto la sua domanda di risarcimento del danno patrimoniale, nonostante la (*), nella comparsa conclusionale depositata in primo grado, avesse abbandonato l’originaria contestazione formulata a tal riguardo nella comparsa di risposta, e contestato solo la misura di tale danno, non la sua esistenza.
La (*) infatti – sostiene il ricorrente – nella comparsa conclusionale depositata nel primo grado di giudizio aveva ammesso che la vittima, a causa dell’infortunio, avesse perduto la speciale indennità che percepiva, come autotrasportatore, in occasione delle trasferte all’estero.
Di conseguenza – prosegue il ricorrente – la Corte d’appello ha violato l’art. 345 c.p.c., perché ha preso in esame una eccezione che era stata abbandonata in primo grado dalla (*), e che, di conseguenza, nel grado d’appello si sarebbe dovuta ritenere inammissibile perché nuova.
1.2. Il motivo è fondato.
Col proprio atto di citazione, (*) aveva dedotto che, a causa dell’infortunio, il suo reddito mensile si era ridotto da 2.995,45 a 1.160 euro mensili, ed aveva chiesto il risarcimento in misura corrispondente (così l’atto di citazione, pp. 9 e 10).
La (*), costituendosi nel giudizio di primo grado, non negò che il reddito della vittima si fosse ridotto, ma dedusse che la differenza tra il reddito percepito dalla vittima prima del sinistro e quello percepito dopo non fosse “significativa e sostanziale”; soggiunse comunque che nella stima del relativo danno si sarebbe dovuto tenere conto della “rendita notevole” che all’attore sarebbe stata erogata dall’Inail (così la comparsa di costituzione e risposta della (*) in primo grado, p.
3) Nella comparsa conclusionale, però, la (*) dedusse: “il danno patrimoniale [da lucro cessante] richiesto in euro 308.355,6 nell’atto introduttivo, è nettamente inferiore”.
Seguiva l’elenco dei redditi dichiarati dalla vittima negli anni dal 2001 al 2006, per come risultanti dalle dichiarazioni fiscali depositati agli atti, e da alcune buste-paga prodotte dall’attore.
Quindi, dopo avere discusso tali fonti di prova, la (*) concluse affermando: “la differenza sta negli importi lordi percepiti dal che presentano una diminuzione di 700 euro mensili (…). Riepilogando, all’attore spetta la somma di euro 54.618,20 per danno patrimoniale” ed aggiunse infine alcune considerazioni circa la necessità di detrarre dal risarcimento gli acconti già pagati dall’assicuratore del responsabile.
Vale la pena soggiungere che tali deduzioni non vennero svolte in via subordinata al rigetto dell’eccezione di inesistenza del danno. La (*) , i nfatti, nella comparsa conclusionale, non dedusse affatto “il danno non c’è, ma se ci fosse sarebbe pari ad euro “x”; al contrario, per quanto detto, si limitò ad affermare tout court che il danno dimostrato dall’attore andava liquidato nella misura indicata nella comparsa suddetta.
Dunque la (*), nella comparsa di risposta, non negò l’esistenza del danno patrimoniale (limitandosi a definirlo “non significativo”); ed in quella conclusionale espressamente l’ammise.
In tal modo tenne una condotta concludente, incompatibile con la volontà di negare l’esistenza del danno, che perciò doveva ritenersi non contestata.
1.3. Ciò posto in fatto, si rileva in diritto che le eccezioni tempestivamente sollevate in primo grado, se abbandonate, non possono essere riproposte in appello: l’eccezione abbandonata deve infatti ritenersi mai proposta, e se una eccezione non è sollevata in primo grado, non può essere ovviamente dedotta in grado di appello.
Il principio è pacifico e risalente nella giurisprudenza di questa Corte (in tal senso si veda già Sez. 1, Sentenza n. 2245 del 08/08/1963, in motivazione, secondo cui l’appellante ha l’onere di reiterare le eccezioni rimaste assorbite, “a meno che non siano state abbandonate in primo grado”).
La Corte d’appello, pertanto, non avrebbe dovuto ritenere non provata l’esistenza del danno, almeno nei limiti in cui esso era stato ammesso dalla società convenuta. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio su questo punto, affinché il giudice del rinvio provveda a liquidare ex novo il danno patrimoniale da lucro cessante, tenendo conto delle difese svolte dalla (*) nella propria comparsa conclusionale in primo grado.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., la nullità della sentenza per contraddittorietà insanabile della motivazione, ai sensi dell’art. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c..
Deduce che la Corte d’appello, nel ritenere indimostrata l’esistenza d’una contrazione dei redditi della vittima, ha fondato la propria valutazione sulle dichiarazioni fiscali da questa depositate.
Tuttavia le dichiarazioni fiscali non potevano dimostrare l’esistenza del danno, perché il reddito perduto dalla vittima (l’indennità di trasferta estera dovuta agli autotrasportatori) era un reddito esente dall’imposta, ai sensi dell’art. 51 d.p.r. 22.12.1986 n. 917, e come tale non doveva essere esposto nelle dichiarazioni fiscali.
2.2. La censura non è assorbita dall’accoglimento del primo motivo di ricorso, perché l’accoglimento di essa consentirebbe al ricorrente di ottenere in sede di rinvio una liquidazione del danno patrimoniale integrale, e non soltanto nei limiti degli importi non contestati dall’assicuratore.
2.3. Il motivo è tuttavia infondato, per più ragioni.
La prima è che una sentenza può dirsi “insanabilmente contraddittoria”, e per ciò nulla ai sensi dell’art. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c., quando non sia possibile coglierne il senso, e non quando abbia valutato le prove in modo diverso rispetto a quanto invocato dalle parti. E nel caso di specie il senso della sentenza è cristallino:
l’appellante, sostenne il giudice d’appello, non ha dimostrato di avere patito un danno da riduzione del reddito.
La seconda ragione è che in ogni caso quello denunciato dal ricorrente non sarebbe nemmeno un vizio logico, ma un vero e proprio errore di diritto, consistito nell’avere ignorato una norma fiscale: ma questo tipo di errore non è stato ritualmente denunciato dal ricorrente.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, n.
4, c.p.c., la “nullità del procedimento per omesso esame di documenti”.
Sostiene che la Corte d’appello ha trascurato di esaminare due buste-paga, attestanti le retribuzioni da lui percepite nei mesi di luglio ed ottobre del 2001, dalle quali risultava l’ammontare delle indennità di trasferta percepite prima del sinistro. Se le avesse esaminate, dagli importi ivi indicati la Corte d’appello avrebbe potuto ricavare la prova dell’esistenza del danno patrimoniale da lucro cessante e del suo ammontare.
3.2. Il motivo è inammissibile.
Denunciare l’omesso esame di documenti decisivi da parte del giudice di merito è un motivo di ricorso che, per usare le parole della legge, “si fonda” sui documenti del cui mancato esame il ricorrente si duole.
Quando il ricorso si fonda su documenti, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art.
366, comma primo, n. 6, c.p.c.).
“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:
(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;
(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;
(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).
Di questi tre oneri, il ricorrente ha assolto solo il terzo. Il ricorso, infatti, non riassume né trascrive il contenuto delle suddette buste paga; né indica con quale atto ed in quale fase processuale (atto di citazione, memorie ex art. 183 c.p.c., ordine di esibizione, ecc.) siano state prodotte.
Ciò impedisce di valutare la rilevanza e la decisività dei documenti che si assume non essere stati esaminati dalla Corte d’appello.
Vale la pena soggiungere che il ricorrente lamenta come, nella stima del danno, non si sia tenuto conto della perdita di una indennità di trasferta: ovvero un emolumento che, teoricamente, non ha funzione retributiva, ma di rimborso delle spese sostenute dall’autotrasportatore per provvedersi di vitto ed alloggio in occasione di trasferte all’estero.
Ne consegue che, a livello teorico, la suddetta indennità costituisce il rimborso d’una spesa per la produzione del reddito, e come tale non avrebbe mai dovuto entrare a far parte della stima del danno da lucro cessante.
Se, infatti, in conseguenza d’un danno alla salute il lavoratore perde il proprio reddito, nello stesso tempo risparmia le spese in precedenza sostenute per produrlo: ragion per cui è antico e risalente il principio secondo cui nella stima del danno da incapacità di lavoro deve porsi il reddito della vittima al netto delle spese e dei costi sostenuti per produrlo (da ultimo, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 10853 del 28/06/2012; ma per la sentenza capostipite si veda già Sez. 3, Sentenza n. 3619 del 28/10/1975).
Da ciò consegue che la sentenza impugnata mai potrebbe dirsi nulla per l’omesso esame di documenti, perché quei documenti non presentavano affatto, in mancanza di ulteriori precisazioni da parte del ricorrente, il carattere della decisività.
Questo motivo di ricorso, di conseguenza, deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 6, c.p.c..
3.3. Resta solo da aggiungere, ad evitare fraintendimenti della presente decisione, che il rigetto del motivo in esame non è in contraddizione con l’accoglimento del primo.
I fatti non contestati, infatti, devono essere ritenuti certi dal giudice, “senza nessuna possibilità di andare in contrario avviso” (così già Sez. U, Sentenza n. 761 del 23/01/2002, in motivazione).
Pertanto, nella misura in cui la (*) non ha contestato l’esistenza del credito attoreo per lucro cessante, l’esistenza del danno è divenuta incontestabile.
Per la parte eccedente tale soglia, resta intatto l’onere del ricorrente di allegazione e prova. Pertanto, per sostenere la nullità della sentenza per omesso esame di documenti decisivi, sarebbe stato suo preciso onere evidenziarne la decisività, e per evidenziarne la decisività avrebbe dovuto – oltre a riprodurne o riassumerne il contenuto spiegare per quali ragioni l’indennità perduta non costituiva un mero rimborso di spese, ma una vera e propria “voce” retributiva.
4. Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza, perché fondata su una motivazione apparente, nella parte in cui ha ritenuto non esservi prova che la vittima sia stata costretta, a causa delle lesioni patite in conseguenza del sinistro, a pensionarsi anticipatamente.
4.2. Il motivo è manifestamente inammissibile.
In primo luogo il ricorrente, non osservando la prescrizione di cui all’art. 366, comma primo, n. 6, c.p.c., non ha indicato nel ricorso in quale momento ed in quali termini abbia formulato la propria domanda di risarcimento del danno da anticipato pensionamento.
Né, del resto, avrebbe potuto farlo: (*) , infatti, nell’atto introduttivo del giudizio – lo si rileva ad abundantiam – non dedusse affatto di avere patito un danno da anticipato pensionamento, essendosi limitato a dedurre di avere patito unicamente una contrazione del proprio reddito da lavoro. La relativa domanda dunque non poteva essere proposta in grado di appello, e tanto meno in questa sede.
5. Il quinto motivo di ricorso.
5.1. Col quinto motivo il ricorrente lamenta, formalmente invocando il disposto dell’art. 360, n. 3, c.p.c., che la sentenza d’appello sarebbe nulla per insanabile contraddittorietà della motivazione.
Nella illustrazione del motivo è contenuta una censura così riassumibile:
(-) il Tribunale di Frosinone liquidò il danno non patrimoniale patito dalla vittima applicando le cc.dd. “tabelle milanesi”, vale a dire attraverso il criterio equitativo del punto variabile di invalidità;
(-) dopo avere individuato la misura standard del risarcimento in funzione dell’età della vittima e del grado di invalidità permanente suggerito dal consulente medico legale, il Tribunale aumentò tale valore del 25%, per tenere conto della circostanza – emersa dalla prova testimoniale – che la vittima a causa dei postumi patì “un grave e permanente danno dinamico-relazionale”, consistito nella forzosa rinuncia ad attività precedentemente praticate, tra le quali il Tribunale indicò la cura dell’orto e del vigneto;
(-) la Corte d’appello, tuttavia, accogliendo il gravame della società (*) ritenne che non spettasse alla vittima la maggiorazione del 25% accordatale dal Tribunale,
(-) questa decisione del giudice di secondo grado sarebbe, conclude il ricorrente, tanto nulla quanto contraddittoria:
(–) sarebbe nulla, perché non spiega le ragioni per le quali la Corte d’appello ha ritenuto di discostarsi dalla valutazione compiuta dal primo giudice;
(–) sarebbe contraddittoria, perché il consulente tecnico medico-legale nominato dal Tribunale, a conclusione della sua relazione, aveva affermato: “nella necessaria personalizzazione del danno, alla luce delle recenti interpretazioni giurisprudenziali, può affermarsi inoltre l’insorgenza di un grave e permanente danno dinamico relazionale, con grave impedimento alle attività ludico creative; e la Corte d’appello non ha spiegato perché si sia discostata da tale valutazione.
5.2. Il motivo è infondato.
Per quanto attiene la denunciata nullità della sentenza per violazione dell’obbligo di motivazione imposto dall’art. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c., essa è insussistente.
La Corte d’appello ha infatti spiegato, a p. 9, § 4.2, della propria sentenza, le ragioni per le quali ha ritenuto di accogliere l’appello proposto dalla ed espungere dalla stima del danno alla salute la maggiorazione del 25% della misura standard, accordata invece dal Tribunale.
La Corte d’appello ha motivato la propria decisione affermando che il criterio di liquidazione del danno alla salute adottato dal Tribunale “già prevede una quota di danno morale soggettivo nell’ambito del danno extrapatrimoniale”; e che “le esigenze di personalizzazione [del risarcimento del danno] devono muovere da circostanze diverse da quelle che sono diretta e naturale conseguenza del danno biologico”.
La Corte d’appello, in sostanza, ha ritenuto che la perduta possibilità di dedicarsi ad attività ricreative, ritenuta dal Tribunale idonea a giustificare un aumento della misura-base del risarcimento del danno non patrimoniale, fosse un pregiudizio già ristorato attraverso la liquidazione del valore tabellare standard; e che di conseguenza, il tribunale avesse liquidato due volte il medesimo pregiudizio, chiamandolo con due nomi diversi.
La motivazione, dunque, esiste.
5.3. Il quinto motivo di ricorso è parimenti infondato nella parte in cui lamenta la “contraddittorietà” insanabile della motivazione.
Come accennato, secondo il ricorrente tale contraddittorietà deriverebbe dal fatto che la Corte d’appello da un lato avrebbe accertato in fatto l’esistenza d’un “danno dinamico-relazionale”, e dall’altro ha negato che tale circostanza giustificasse l’incremento della misura standard del risarcimento del danno alla salute.
Tale vizio tuttavia non sussiste, sebbene la motivazione della sentenza d’appello meriti, su questo punto, un’integrazione ai sensi dell’art. 384, quarto comma, c.p.c..
5.4. Nel presente giudizio il giudice di primo grado ha:
(a) accertato in facto che la vittima dopo l’infortunio ed a causa dei postumi, quantificati dall’ausiliario nella misura del 38% della complessiva validità dell’individuo, smise “di frequentare gente, chiudendosi in casa”, oltre a rinunciare alle attività di cura della vigna e dell’orto;
(b) qualificato questo pregiudizio come “danno dinamicorelazionale”;
(c) ritenuto che esso imponesse un incremento del 25% della misura base del risarcimento del danno non patrimoniale, che sarebbe stata altrimenti liquidata.
5.5. Il giudice d’appello, invece, ha:
(a) non discusso in facto che la vittima avesse “smesso di frequentare gente, chiudendosi in casa”, oltre che rinunciato alle altre attività svolte nel tempo libero;
(b) qualificato anch’egli questo pregiudizio come “danno dinamicorelazionale”;
(c) ritenuto che tale pregiudizio fosse “compreso nel danno biologico”, e di conseguenza che la sua accertata esistenza non imponesse alcun incremento della misura base del risarcimento.
5.6. Per stabilire se la decisione d’appello sia effettivamente contraddittoria nella parte in cui ha da un lato accertato un pregiudizio d’un certo tipo (rinuncia alle frequentazioni ed alle attività del tempo libero), e dall’altro affermato essere il “danno dinamico-relazionale ricompreso nel danno biologico”, questa Corte ritiene doverosa una premessa sulla nomenclatura degli istituti e delle categorie giuridiche in subiecta materia.
Nella materia del danno non patrimoniale, infatti, la legge contiene pochissime e non esaustive definizioni; quelle coniate dalla giurisprudenza di merito e dalla prassi sono usate spesso in modo polisemico; quelle proposte dall’accademia obbediscono spesso agli intenti della dottrina che le propugna.
Accade così che lemmi identici vengano utilizzati dai litiganti per esprimere concetti diversi, ed all’opposto che espressioni diverse vengano utilizzate per esprimere il medesimo significato.
Questo stato di cose ingenera somma confusione, ed impedisce altresì qualsiasi seria dialettica, dal momento che ogni discussione scientifica è impossibile in assenza d’un lessico condiviso.
L’esigenza del rigore linguistico come metodo indefettibile nella ricostruzione degli istituti è stata già segnalata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorché hanno indicato, come precondizione necessaria per l’interpretazione della legge, la necessità di “sgombrare il campo di analisi da (…) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei “mantra” ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato (…), [che]resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonché la pigrizia esegetica” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).
Il vaglio del quinto motivo di ricorso esige dunque, preliminarmente, stabilire cosa debba rettamente intendersi per “danno dinamicorelazionale”; e, prima ancora, se esista in rerum natura un pregiudizio così definibile.
5.7. L’espressione “danno dinamico-relazionale” comparve per la prima volta nell’art. 13 del d. Igs. 23.2.2000 n. 38, il quale stabilì che oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro fosse l’indennizzo del danno biologico, e delegò il Ministro del lavoro ad approvare una “tabella delle menomazioni”, cioè delle percentuali di invalidità permanente, in base alla quale stimare il danno biologico indennizzabile dall’Inail.
Nel conferire al governo tale delega, il decreto stabilì che l’emananda tabella dovesse essere “comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali”.
Come dovesse intendersi tale espressione non era dubitabile: fino al 2000, infatti, l’Inail aveva indennizzato ai lavoratori infortunati la perdita della “attitudine al lavoro”, e l’aveva fatto in base ad una tabella, allegata al d.P.R. 30.6.1965 n. 1124, che teneva conto unicamente delle ripercussioni della menomazione sull’idoneità al lavoro.
Pertanto, nel sostituire l’oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (sostituendo l’incapacità lavorativa generica col danno biologico), il legislatore con tutta evidenza volle precisare che la nuova tabella, in base alla quale si sarebbe dovuto stabilire il grado di invalidità permanente, dovesse tenere conto non già delle ripercussioni della menomazione sull’abilità al lavoro, ma delle ripercussioni di essa sulla vita quotidiana della vittima, che il legislatore ritenne di definire come “aspetti dinamico-relazionali”.
5.7.1. L’espressione in esame ricomparve nell’art. 5 della I.
5.3.2001 n. 57, con la quale si intervenne sulla disciplina dei danni causati dalla circolazione dei veicoli.
Tale norma, dopo avere definito la nozione “danno biologico”, dettato il relativo criterio di risarcimento, e stabilito che la misura ivi prevista potesse essere aumentata del 20% per tenere conto “delle condizioni soggettive del danneggiato”, delegò il governo ad emanare una specifica tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità” (art. 5, comma 5, I. 57/2001).
Il governo vi provvide col d.m. 3.7.2003 (in Gazz. uff. 11.9.2003 n. 211).
Tale decreto, tuttora vigente, include un allegato, intitolato “Criteri applicativi”, nel quale si afferma che la commissione ministeriale incaricata di stilare la tabella delle menomazioni vi aveva provveduto assumendo a base del proprio lavoro la nozione di “danno biologico” desumibile sia dal d. Igs. 38/2000,sia dalla I. 57/2001: ovvero la menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, “la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato”.
Dunque anche in quel testo regolamentare con l’espressione “compromissione degli aspetti dinamico-relazionali” non si volle designare un danno a sé, ma la si usò puramente e semplicemente come perifrasi della nozione di “danno biologico”.
Nel medesimo decreto 3.7.2003, inoltre, nell’ulteriore “Allegato 1”, si soggiunge che “ove la menomazione incida in maniera apprezzabile su particolari aspetti dinamico-relazionali personali, lo specialista medico legale dovrà fornire motivate indicazioni aggiuntive che definiscano l’eventuale maggiore danno”.
Il senso combinato delle due affermazioni è chiaro: il danno biologico consiste in una “ordinaria” compromissione delle attività quotidiane (gli “aspetti dinamico-relazionali”); quando però esso, a causa della specificità del caso, ha compromesso non già attività quotidiane comuni a tutti, ma attività “particolari” (ovvero i “particolari aspetti dinamico-relazionali”), di questa perdita dovrebbe tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente.
Per la legge, dunque, l’espressione “danno dinamico-relazionale” non è altro che una perifrasi del concetto di “danno biologico”.
5.8. L’interpretazione appena esposta degli artt. 13 d. Igs. 38/2000 e 5 della I. 57/2001 (poi abrogato ed oggi confluito nell’art. 139 cod. ass.) è corroborata dalle indicazioni della medicina legale.
Il danno non patrimoniale derivante da una lesione della salute è per convenzione liquidato assumendo a base del calcolo il grado percentuale di “invalidità permanente”.
Il grado di invalidità permanente è determinato in base ad apposite tabelle predisposte con criteri medico-legali: talora imposte dalla legge e vincolanti (come nel caso dei danni derivanti da infortuni sul lavoro, da sinistri stradali o da colpa medica con esiti micropermanenti), talora lasciate alla libera scelta del giudicante.
La redazione d’una tabella delle invalidità (baréme) è un’opera complessa, che parte dalla statistica e perviene ad esprimere, con un numero percentuale, la sintesi di tutte le conseguenze ordinarie che una determinata menomazione deve presumersi riverberi sulle attività comuni ad ogni individuo.
E’ infatti autorevole e condiviso, in medicina legale, l’insegnamento secondo cui “non ha più ragion d’essere l’idea che il danno biologico abbia natura meramente statica”; che “per danno biologico deve intendersi non la semplice lesione all’integrità psicofisica in sé e per sé, ma piuttosto la conseguenza del pregiudizio stesso sul modo di essere della persona (…). Il danno biologico misurato percentualmente è pertanto la menomazione all’integrità psicofisica della persona la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti”.
In questo senso si espresse già quasi vent’anni fa (ma inascoltata) la Società Italiana di Medicina Legale, la quale in esito al Congresso nazionale tenuto nel 2001 definì il danno biologico espresso nella percentuale di invalidità permanente, come “la menomazione (…) all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti personali dinamico-relazionali (…), espressa in termini di percentuale della menomazione dell’integrità psicofisica, comprensiva della incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti”.
La conclusione è che, quando un baréme medico legale suggerisce per una certa menomazione un grado di invalidità – poniamo – del 50%, questa percentuale indica che l’invalido, a causa della menomazione, sarà teoricamente in grado di svolgere la metà delle ordinarie attività che una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età, sarebbe stata in grado di svolgere, come già ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 3, Sentenza n. 20630 del 13/10/2016; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
5.9. Da quanto esposto derivano tre conseguenze.
5.9.1. La prima è che deve essere rettamente inteso il senso del discorrere di “danni dinamico-relazionali” (ovvero, con formula più arcaica ma più nobile, “danni alla vita di relazione”), in presenza d’una lesione della salute.
La lesione della salute risarcibile in null’altro consiste, su quel medesimo piano, che nella compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane tutte, nessuna esclusa: dal fare, all’essere, all’apparire.
Non, dunque, che il danno alla salute “comprenda” pregiudizi dinamico-relazionali dovrà dirsi; ma piuttosto che il danno alla salute è un danno “dinamico-relazionale”. Se non avesse conseguenze “dinamico-relazionali”, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile.
5.9.2. La seconda conseguenza è che l’incidenza d’una menomazione permanente sulle quotidiane attività “dinamicorelazionali” della vittima non è affatto un danno diverso dal danno biologico.
Una lesione della salute può avere le conseguenze dannose più diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi:
– conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità:
– conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili.
Tanto le prime che le seconde conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale; la liquidazione delle prime tuttavia presuppone la mera dimostrazione dell’esistenza dell’invalidità; la liquidazione delle seconde esige la prova concreta dell’effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto.
Pertanto la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d’una lesione della salute, non esce dall’alternativa: o è una conseguenza “normale” del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora si terrà per pagata con la liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. “personalizzazione”: così già Sez. 3, Sentenza n. 17219 del 29.7.2014).
Dunque le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti “dinamico-relazionali”, che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale.
Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico.
Ma lo giustificano, si badi, non perché abbiano inciso, sic et simpliciter, su “aspetti dinamico-relazionali”: non rileva infatti quale aspetto della vita della vittima sia stato compromesso, ai fini della personalizzazione del risarcimento; rileva, invece, che quella/quelle conseguenza/e sia straordinaria e non ordinaria, perché solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (così già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 21939 del 21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
In applicazione di tali princìpi, questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze “specifiche ed eccezionali”, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
5.9.3. La terza conseguenza, di natura processuale, è che le circostanze di fatto che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale integrano un “fatto costitutivo” della pretesa, e devono essere allegate in modo circostanziato e provate dall’attore (ovviamente con ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l’allegazione del notorio, delle massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici, come già ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008), senza potersi, peraltro, risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
5.10. I princìpi sin qui esposti possono riassumersi, per maggior chiarezza, nel modo che segue:
1) l’ordinamento prevede e disciplina soltanto due categorie di danni: quello patrimoniale e quello non patrimoniale.
2) Il danno non patrimoniale (come quello patrimoniale) costituisce una categoria giuridicamente (anche se non fenomenologicamente) unitaria.
3) “Categoria unitaria” vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ad i medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 1226, 2056, 2059 c.c.).
4) Nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve, da un lato, prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell’illecito; e dall’altro evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici.
5) In sede istruttoria, il giudice deve procedere ad un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, dell’effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, opportunamente accertando in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio.
6) In presenza d’un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).
7) In presenza d’un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari.
Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.
8) In presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione).
9) Ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l’esistenza d’uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (come è confermato, oggi, dal testo degli artt. 138 e 139 cod. ass., così come modificati dall’art. all’articolo 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124, nella parte in cui, sotto l’unitaria definizione di “danno non patrimoniale”, distinguono il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello “morale”).
10) Il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell’uno come nell’altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria.
5.11. Alla luce dei princìpi che precedono si può ora tornare ad esaminare il quinto motivo del ricorso.
La Corte d’appello, come già detto, senza negare che la vittima a causa dell’infortunio abbia ridotto le proprie frequentazioni con altre persone, ha soggiunto che tale pregiudizio è “compreso” nel danno alla salute, e che di conseguenza nessun risarcimento aggiuntivo spettasse alla vittima, oltre la misura base prevista dalla tabella per una invalidità del 38°/0 ragguagliata all’età della vittima.
In ciò non vi è nulla di contraddittorio: precisato, infatti, che i pregiudizi relazionali rappresentano l’ubi consistam funzionale del danno alla salute, è coerente con i princìpi sopra esposti ritenere in facto, da un lato, che una certa conseguenza della menomazione sia comune a tutte le persone che quella menomazione patiscano, e, dall’altro, soggiungere in iure che quella menomazione non imponga di conseguenza alcuna personalizzazione del risarcimento.
Lo stabilire, poi, se tutte le persone che abbiano una invalidità permanente de 38% riducano o non riducano la propria vita di relazione costituisce un tipico apprezzamento di merito, che non può essere sindacato in questa sede e che comunque non è stato nemmeno censurato.
Né appare superfluo ricordare come questa Corte abbia già stabilito che la perduta o ridotta o modificata possibilità di intrattenere rapporti sociali in conseguenza di una invalidità permanente costituisce una delle “normali” conseguenze delle invalidità gravi, nel senso che qualunque persona affetta da una grave invalidità non può non risentirne sul piano dei rapporti sociali (in questo senso, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 21716 del 23/09/2013, Rv. 628100; Sez. 3, Sentenza n. 11950 del 16/05/2013, Rv. 626348; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 15414 del 13/07/2011, Rv. 619223; Sez. 3, Sentenza n. 24864 del 09/12/2010, Rv. 614875; Sez. L, Sentenza n. 25236 del 30/11/2009, Rv. 611026).
6. Il sesto motivo di ricorso.
6.1. Col sesto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 116, comma 7, d.p.r. 30.6.1965 n. 1124, e 13 d. Igs. 23.2.2000 n. 38.
Deduce che la Corte d’appello, allorché ha proceduto a detrarre dal credito risarcitorio il valore capitale della rendita costituita dall’Inail in favore di (*) , ha eseguito questa operazione in modo giuridicamente scorretto.
Sostiene che l’errore sarebbe consistito nell’avere rivalutato il valore capitale della rendita alla data decisione, in base all’indice di svalutazione monetaria legato al costo della vita calcolato dall’Istat. Le rendite pagate dall’Inail, infatti, sono soggette ad un meccanismo di rivalutazione diverso, prescritto dall’art. 116, comma 7, d.p.r. 30.6.1965 n. 1124.
Soggiunge, infine, che il valore capitale della rendita indicato dall’Inail nella propria comparsa di costituzione in primo grado (ovvero euro 117.864,73) era già rivalutato.
6.2. Il motivo è manifestamente infondato.
In primo luogo, nulla rileva se la legislazione sull’assicurazione sociale preveda un meccanismo ad hoc di rivalutazione delle rendite.
La Corte d’appello era chiamata infatti a stabilire quale fosse il danno civilistico patito dalla vittima, al netto dell’indennizzo percepito dall’assicuratore sociale. E tale danno differenziale va calcolato coi criteri civilistici: ovvero liquidando il danno in moneta attuale, e sottraendo da esso il valore capitale della rendita pagata dall’assicuratore sociale, espresso anch’esso in moneta attuale, non potendo compiersi alcun calcolo finanziario tra entità monetarie eterogenee.
In secondo luogo, il valore capitale della rendita venne indicato dall’Inail nella comparsa di costituzione depositata nel 2005: correttamente pertanto la Corte d’appello, dovendo calcolare il danno differenziale nove anni dopo, provvide a rivalutare quell’importo.
In terzo luogo, nulla rileva la circostanza (del resto puramente adombrata dal ricorrente, senza sviluppare il tema) che la rendita pagata dall’Inail possa, in futuro, ridursi o cessare.
Infatti, come già ritenuto da questa Corte (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22862 del 09/11/2016, in motivazione), delle due l’una:
(-) se la rendita pagata dall’Inail fosse ridotta prima che il diritto al risarcimento sia “quesito” (e dunque prima della sentenza definitiva, ovvero prima della transazione o dell’adempimento), ciò vorrebbe dire che le condizioni di salute dell’infortunato sono migliorate, ed anche di questo miglioramento si dovrà tenere conto nella monetizzazione del danno, con la conseguenza che la riduzione della rendita non comporta pregiudizi di sorta per la vittima;
(-) se la rendita pagata dall’Inail fosse ridotta dopo la sentenza definitiva o il pagamento, questo costituirebbe un post factum irrilevante, essendo sopravvenuto a situazione giuridica ormai esaurita.
7. Il settimo motivo di ricorso.
7.1. Col settimo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., la violazione del giudicato interno.
Deduce che il Tribunale liquidò la somma di euro 12.000 a titolo di risarcimento del danno consistente nelle spese di cura; che tale statuizione non era stata impugnata; che la Corte d’appello, liquidando ex novo il danno, ha defalcato dal credito complessivo il suddetto importo.
7.2. Il motivo è fondato.
Il Tribunale di Frosinone liquidò all’attore 12.000 euro a titolo di risarcimento del danno per spese mediche; la Corte d’appello ha liquidato ex novo il danno, ma ha trascurato, nel determinare l’importo finale, di conteggiare questi 12.000 euro, senza che alcuna delle parti avesse impugnato la relativa statuizione pronunciata la sentenza di primo grado.
8. I motivi dall’ottavo all’undicesimo.
8.1. Con i motivi dall’ottavo all’undicesimo compreso, il ricorrente censura, sotto vari profili, le statuizioni contenute nella sentenza d’appello inerenti le spese di lite.
Tutti e quattro questi motivi restano assorbiti dall’accoglimento del ricorso, dal momento che la regolazione delle spese dovrà essere nuovamente compiuta dal giudice di rinvio.
9. Le spese.
Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
Per questi motivi la Corte di cassazione:
(-) accoglie il primo ed il settimo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;
(-) rigetta il secondo, il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo di ricorso;
(-) dichiara assorbiti l’ottavo, il nono, il decimo e l’undicesimo motivo di ricorso.

Alla vedova separata con addebito senza il riconoscimento dell’assegno alimentare spetta la pensione di reversibilità

Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2019, n. 7464
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22383-2013 proposto da:
F.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI 140, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI LUCATTONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO MAMBELLI;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati LIDIA CARCAVALLO, ANTONELLA PATTERI, LUIGI CALIULO, SERGIO PREDEN;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 575/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 30/05/2013 R.G.N. 111/2011.
Svolgimento del processo
1.La Corte d’Appello ha confermato la sentenza del Tribunale di Forlì di rigetto della domanda di F.G. volta ad ottenere la pensione di reversibilità, quale coniuge separato senza diritto agli alimenti.
Secondo la Corte, poiché la F. non fruiva di erogazione di alimenti in capo all’ex coniuge ed in suo favore, non poteva rivendicare dopo il decesso di costui l’attivazione di un trattamento previdenziale a suo vantaggio, posto che la pensione di reversibilità non è solo la prosecuzione in favore di terzi del pregresso diritto a pensione dell’avente titolo, ma è la prosecuzione in favore di terzi aventi diritto.
2.Avverso la sentenza ricorre la F. che con un motivo di ricorso nel quale prospetta la violazione e falsa applicazione dellaL. 21 luglio 1965, n. 903,art.22, dellaL. n. 153 del 1969,art.24, in relazione agliartt. 3, 38 e 29 Cost.(in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3),atteso che, secondo la costante giurisprudenza, la pensione di reversibilità va riconosciuta non solo al coniuge in favore del quale il coniuge defunto era tenuto a corrispondere un assegno di mantenimento, ma a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 286 del 1987, anche al coniuge separato per colpa o con addebito, equiparato sotto ogni profilo al coniuge (separato o non) e in favore del quale opera la presunzione legale di vivenza carico del lavoratore al momento della morte, assolvendo il trattamento alla funzione di sostentamento in precedenza indirettamente assicurato dalla pensione in titolarità del coniuge defunto.
L’Inps ha rilasciato delega in calce al ricorso notificato.
La ricorrente ha depositato memoria exart. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
3. La ricorrente è vedova separata, senza il riconoscimento dell’assegno di mantenimento, di M.A. e la sentenza impugnata le ha negato la pensione di reversibilità in quanto non era titolare di detto assegno all’atto del decesso del coniuge.
4. Il ricorso è fondato. Questa Corte ha già più volte chiarito (cfr., ad es., Cass. 19 marzo 2009 n. 6684, n. 4555 del 25 febbraio 2009, n. 15516 del 16 ottobre 2003) che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 286 del 1987 – la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dellaL. 30 aprile 1969, n. 153,art.24e dellaL. 18 agosto 1962, n. 1357,art.23, comma 4, nella parte in cui escludono dalla erogazione della pensione di reversibilità il coniuge separato per colpa con sentenza passata in giudicato – tale pensione va riconosciuta al coniuge separato per colpa o con addebito, equiparato sotto ogni profilo al coniuge superstite (separato o non) e in favore del quale opera la presunzione legale di vivenza a carico del lavoratore al momento della morte.
5. In particolare è stato affermato che, dopo la riforma dell’istituto della separazione personale, introdotto dal novellatoart. 151 c.c.e la sentenza della Corte Cost. non sia più giustificabile il diniego, al coniuge cui fosse stata addebitata la separazione, di una tutela che assicuri la continuità dei mezzi di sostentamento che il defunto coniuge sarebbe stato tenuto a fornirgli.
6. La motivazione del giudice delle leggi, se conduce ad equiparare con sicurezza la separazione per colpa a quella con addebito, non autorizza l’interprete a ritenere che sia residuata una differenza di trattamento per il coniuge superstite separato in ragione del titolo della separazione. Se è possibile individuare contenuti precettivi ulteriori, essi riguardano esclusivamente il legislatore, autorizzato a disporre che il coniuge separato per colpa o con addebito abbia diritto alla reversibilità ovvero ad una quota, solo nella sussistenza di specifiche condizioni.
7. Invero, nonostante che la Corte costituzionale, nell’occasione indicata, e in altre successive (sent. nn. 1009 del 1988, 450 del 1989, 346 del 1993 e 284 del 1997), abbia giustificato le proprie pronunce anche con considerazioni legate alla necessità di assicurare la continuità dei mezzi di sostentamento che in caso di bisogno il defunto coniuge sarebbe stato tenuto a fornire all’altro coniuge separato per colpa o con addebito, il dispositivo della decisione dichiarativa dell’illegittimità costituzionale della norma esaminata non indica condizioni ulteriori, rispetto a quelle valevoli per il coniuge non separato per colpa, ai fini della fruizione della pensione. Ad ambedue le situazioni è quindi applicabile laL. 21 luglio 1965, n. 903,art.22, il quale non richiede (a differenza che per i figli di età superiore ai diciotto anni, per i genitori superstiti e per i fratelli e sorelle del defunto, etc), quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno, ma unicamente l’esistenza del rapporto coniugale col coniuge defunto pensionato o assicurato.
8. In definitiva, nella legge citata, la ratio della tutela previdenziale è rappresentata dall’intento di porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, senza che tale stato di bisogno divenga (anche per il coniuge separato per colpa o con addebito) concreto presupposto e condizione della tutela medesima.
9. Per le considerazioni che precedono, non essendosi la Corte territoriale attenuta alla regola indicata, desumibile dallaL. 21 luglio 1965, n. 903,art.22, quale risultante dalla dichiarazione di incostituzionalità della L. 30 aprile 1959, n. 153, art. 24, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, può procedersi alla decisione nel merito, con l’accoglimento della domanda proposta da F.G. nei confronti dell’INPS. Le spese seguono la soccombenza come da dispositivo. Deve precisarsi che la liquidazione viene effettuate in applicazione di quanto stabilito da questa Corte (cfr SU n 17405/2012, n 30529/2017) secondo cui “In tema di spese processuali, agli effetti delD.M. 20 luglio 2012, n. 140,art.41, il quale ha dato attuazione alD.L. 24 gennaio 2012, n. 1,art.9, comma 2, convertito inL. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l’accezione omnicomprensiva di “compenso” la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata”.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, pronunciando nel merito, accoglie la domanda originaria della F.; condanna l’Inps a pagare le spese processuali liquidate per l’appello in Euro 4.500,00 per compensi professionali ed Euro 100,00 per esborsi; per il giudizio di Tribunale in Euro 3.900,00 per compensi professionali ed Euro 100,00 per esborsi; per il presente giudizio in Euro 2.700,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge su tutti gli importi liquidati con distrazione a favore degli avv.ti antistatari.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 22 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2019

Al lavoratore assunto a tempo indeterminato da un’agenzia di somministrazione di lavoro spettano gli assegni per il nucleo familiare anche nel periodo di intervallo nel quale rimane in attesa di assegnazione

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2019, n. 6870
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5445-2013 proposto da:
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO;
– ricorrente –
contro
T.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO POMA, 2, presso lo studio dell’avvocato SILVIA ASSENNATO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMILIANO PUCCI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 557/2012 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 23/11/2012 R.G.N. 84/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/12/2018 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato VINCENZO STUMPO;
udito l’Avvocato SILVIA ASSENNATO.
Svolgimento del processo

Con sentenza n. 557/2012 la Corte d’Appello di Brescia rigettava il gravame dell’Inps avverso la sentenza che aveva accertato il diritto di T.B. a percepire gli assegni per il nucleo familiare (ANF) a partire dal mese di giugno 2009 per tutta l’effettiva durata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze di Lavorint Risorse S.p.A. agenzia di somministrazione di lavoro.
A fondamento della sentenza la Corte affermava che il lavoratore assunto a tempo indeterminato dalle agenzie di somministrazione di lavoro avesse diritto agli assegni per il nucleo familiare anche durante i periodi nei quali rimaneva in attesa di assegnazione percependo l’indennità di disponibilitàD.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 22, comma 3. Né in contrario poteva rilevare il precedente giurisprudenziale della Corte di Cassazione (sentenza n. 6155/2004), citato dallo stesso Inps (che si riferiva ad altra vicenda relativa alla mancanza di prestazione nel periodo compreso tra definitiva cessazione dell’attività produttiva e dichiarazione di fallimento), secondo cui gli assegni familiari devono essere negati quando la prestazione lavorativa manchi in conseguenza della insussistenza del sinallagma funzionale e del diritto alla retribuzione per difetto della corrispettività; posto che, invece, nel caso in esame, il sinallagma funzionale del rapporto di lavoro era in essere tra lavoratore e datore di lavoro; in quanto, da un lato, il lavoratore si obbligava a rimanere a disposizione della agenzia pronto per essere inviato a prestare la propria attività lavorativa presso l’impresa somministrata; e dall’altro, a fronte di tale obbligazione, l’agenzia si obbligava a corrispondere l’indennità di disponibilità, evidentemente al fine di garantirsi la pronta disponibilità di personale qualificato da inviare quanto prima presso l’utilizzatore. Sussistevano pertanto i presupposti per l’erogazione degli assegni familiari individuati anche dalla giurisprudenza della Cassazione.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Inps con un motivo al quale ha resistito con controricorso T.B.. Sono state depositate memorie exart. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1.- Con l’unico motivo di ricorso l’Inps deduce la violazione falsa applicazione del combinato disposto delD.L. n. 69 del 1988,art.2, commi 1 e 3, convertito nellaL. n. 153 del 1988,D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797,artt.1,12e59, con riferimento alD.Lgs. n. 276 del 2003,artt.20,22,23e25, atteso che in base alla normativa citata la corresponsione degli assegni familiari presuppone, secondo l’Inps, da una parte, lo svolgimento della prestazione dato che la misura di essi varia a secondo del lavoro effettivamente prestato; e dell’altra, presuppone il diritto alla retribuzione; salvo i casi eccezionali espressamente previsti dalla legge di diritto all’assegno per il nucleo familiare in assenza di effettiva prestazione lavorativa. Inoltre la previsione dell’art. 22 citato, secondo cui “l’indennità di disponibilità è esclusa dal computo di ogni istituto di legge e di contratto collettivo” riguardava anche l’assegno per il nucleo familiare, in quanto modulato sul reddito familiare (D.L. n. 69 del 1988,art.2conv. inL. n. 153 del 1988).
2.- Il ricorso dell’Inps è infondato, sulla scorta delle seguenti premesse.
2.1. Il contratto di somministrazione di lavoro, disciplinato per la prima volta dalD.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, emanato in attuazione dellalegge delega del 14 febbraio 2003, n. 30, ed attualmente regolato dalD.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81,artt.da 30 a 40, rappresenta il più recente approdo dei tentativi effettuati dal legislatore di regolare il fenomeno giuridico della dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro ed utilizzazione della prestazione.
Il contratto di somministrazione configura, infatti, un rapporto giuridico caratterizzato dalla presenza di tre soggetti: il somministratore o agenzia, il lavoratore e l’utilizzatore che concludono tra loro due distinti contratti. Il contratto di somministrazione è quello concluso tra l’agenzia e l’utilizzatore per l’invio di lavoratori presso l’utilizzatore che provvederà a dirigerli verso il pagamento di un corrispettivo. Tale contratto può essere a termine o a tempo indeterminato.
Diverso contratto è quello di lavoro somministrato, con cui il lavoratore si obbliga nei confronti della agenzia di somministrazione a lavorare alle condizioni previste dai contratti di somministrazione che essa stipulerà. Anche questo contratto può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato.
Non v’è dubbio che in base alla legge (ilD.Lgs. n. 276 del 2003,art.22, comma 1che viene qui in rilievo, ratione temporis) il rapporto di lavoro dipendente intercorre tra lavoratore ed agenzia che lo assume e lo retribuisce, mentre la prestazione viene in concreto resa a beneficio dell’utilizzatore.
Si verifica quindi la scissione tra titolarità del rapporto di lavoro ed esercizio dei poteri direttivi.
IlD.Lgs. n. 276 del 2003,art.22, comma 1, stabilisce, inoltre, che i rapporti di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro sono soggetti alla disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile ed alle leggi speciali.
2.2. Il dato legislativo è chiaro: il rapporto di lavoro intercorre tra lavoratore e somministratore, secondo quanto previsto dall’art. 22, commi 1 e 2 ed esso resta in vita anche quando il lavoratore non è inviato in missione ma rimane in attesa di assegnazione. La messa a disposizione di energie lavorative, obbligazione che contrassegna il lavorare alle dipendenze altrui, è presente anche nel periodo di attesa e si colloca nella fase preparatoria dell’adempimento. Rimane altresì la continuità giuridica, caratteristica della subordinazione, pur a fronte della discontinuità della prestazione. Ne deriva che negli intervalli di non lavoro, fra una missione e l’altra, quando il datore di lavoro somministrato non chiede al lavoratore di adempiere, si configura un obbligo a carico del datore i cui effetti sono disciplinati dalla stessa legge con la previsione, tra l’altro, del pagamento di un’indennità di disponibilità che ha natura retributiva e di corrispettivo dell’obbligazione della messa a disposizione del lavoratore.
2.3. IlD.Lgs. n. 276 del 2003,art.22, comma 3, prevede che se il prestatore di lavoro è assunto con contratto stipulato a tempo indeterminato, nel medesimo va stabilita la misura della indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie, corrisposta dal somministratore al lavoratore per i periodi nei quali il lavoratore stesso rimane in attesa di assegnazione.
Attraverso la previsione dell’indennità di disponibilità si materializza quindi la permanenza del legame funzionale tra somministratore e lavoratore, anche nei periodi tra una missione ed un’altra; sicché il lavoratore ha diritto di percepire un compenso che trova la sua giustificazione causale soltanto nella messa a disposizione delle sue attitudini lavorative in attesa di future utilizzazioni.
2.4. L’indennità di disponibilità (art. 22, comma 3 cit.) è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo (mensilità aggiuntive, ferie, festività, TFR ecc.) ed è soggetta a contribuzione e all’imposta sul reddito da lavoro dipendente.
2.5. Ai sensi del comma 1 dell’art. 25, i contributi su tale indennità sono versati dal somministratore per il loro effettivo ammontare, anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo. I contributi sono versati nell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti ed, in assenza di previsioni specifiche, va ritenuto che la stessa sia soggetta all’aliquota contributiva ordinaria, tra cui rientra anche una quota a titolo di CUAF, prevista per le aziende di somministrazione che, ai sensi dellaL. n. 88 del 1989,art.49, sono inquadrate nel settore del terziario e pertanto non rientrano tra le aziende destinatarie delle integrazioni salariali.
2.6. Il periodo in disponibilità non è indennizzabile con prestazioni di disoccupazione, ma viene considerato utile ai fini della maturazione di requisiti contributivi per misure di sostegno al reddito in caso di cessazione del rapporto di somministrazione; la predetta indennità, in quanto assoggettata a contribuzione, concorre poi alla formazione dell’anzianità contributiva utile ai fini del diritto e della misura della pensione, nonché della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per il calcolo della prestazione pensionistica.
2.7. Istituto analogo è l’indennità di disponibilità prevista per i lavoratori marittimi in regime di continuità (cd. C.R.L.), riservato dalla contrattazione collettiva ad una determinata percentuale dell’equipaggio, iscritto al turno particolare (cd. T.P.) presso le singole compagnie di navigazione, che abbia maturato un determinato periodo di servizio. Ai marittimi in continuità di rapporto di lavoro gli assegni familiari sono riconosciuti dall’Inps anche per i periodi retribuiti di “riposo a terra” susseguenti allo sbarco – nei quali vengono fruite le giornate di riposo non godute a bordo corrispondenti alle domeniche, ai sabati, alle festività ed alle ferie maturate durante l’imbarco – e nel successivo periodo, fino alla chiamata per l’imbarco o la comandata, in cui i marittimi stessi entrano “in disponibilità retribuita” (v. Circolare Inps n. 6242 del 18 novembre 1982, confermata dalla circolare n. 110 del 17 aprile 1992 che ha verificato la compatibilità della nuova disciplina sull’assegno per il nucleo familiare con la preesistente normativa in materia di assegni familiari).
2.8. Elemento caratterizzante della somministrazione a tempo indeterminato è quindi la permanenza del legame tra agenzia di somministrazione e lavoratore in somministrazione anche nei periodi di inutilizzazione tra un’assegnazione e l’altra.
La persistenza del vincolo si manifesta in concreto nel diritto del lavoratore somministrato a percepire dall’agenzia di somministrazione l’indennità di disponibilità pur in mancanza di prestazione lavorativa, fino alla successiva assegnazione, senza limiti di durata, con conseguente obbligo contributivo per il somministrante. Ma non solo.
3.- In tale periodo di vacatio il lavoratore continua ad essere soggetto ad obblighi di fedeltà e non concorrenza; inoltre assicura reperibilità e disponibilità ai fini dell’inizio tempestivo di una nuova missione. Il lavoratore assunto a scopo di staff leasing ha diritto alle stesse garanzie ed alle stesse tutele giuridiche riconosciute ad ogni altro lavoratore assunto a tempo indeterminato, a meno che la legge non stabilisca deroghe, ivi comprese quelle a presidio della stabilità del rapporto lavorativo; anche il lavoratore assunto a tempo indeterminato a scopo di somministrazione può essere licenziato dal somministratore solo se ricorrono i consueti presupposti di giusta causa e giustificato motivo (soggettivo e oggettivo).
Il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro non significa solo mantenimento di un supporto economico e delle tutele previste in caso di cessazione del rapporto, ma anche poter contare su un datore di lavoro professionalmente dedicato ad operare nel mercato del lavoro e direttamente interessato e motivato alla ricollocazione della persona, anche tramite la sua riqualificazione professionale, sia con risorse proprie sia con il supporto dal fondo di comparto (Formatemp), che viene alimentato dalla destinazione obbligatoria del 4% dei salari sviluppati da ogni rapporto in somministrazione, e quindi sempre con risorse private e non pubbliche.
Obblighi di formazione e di azioni concrete finalizzate alla ricollocazione inesistenti nei casi di cessazione di un rapporto a termine, o di sospensione o cessazione di un rapporto a tempo indeterminato, che consentono di affermare che nella somministrazione a tempo indeterminato la persistenza del sinallagma funzionale nella fase di disponibilità costituisce l’elemento causale qualificante e distintivo della tipologia contrattuale.
4. In base alle considerazioni fin qui svolte va dunque riaffermato che nella situazione di disponibilità il sinallagma funzionale del contratto è attivo; e che l’indennità di disponibilità percepita dal lavoratore ha natura retributiva e deve essere quindi conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza postidall’art. 36 Cost., anche in relazione alla dimensione familiare del lavoratore.
5. Per quanto attiene all’istituto dell’assegno al nucleo familiare (ANF), istituito dallaL. 13 maggio 1988, n. 153, di conversione e parzialmente modificativa delD.L. 13 marzo 1988, n. 69, va rilevato che si tratta di una prestazione economica a sostegno, anzitutto, del reddito delle famiglie dei lavoratori dipendenti o dei pensionati da lavoro dipendente, calcolata in relazione alla dimensione del nucleo familiare, alla sua tipologia, nonché del reddito complessivo prodotto al suo interno. L’istituto si ricollega a quello degli assegni familiari disciplinato con ilD.P.R. n. 797 del 1955(testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari), il quale, nonostante le svariate modificazioni apportate dalla successiva normativa che hanno portato sempre maggiori categorie (ivi compresi i lavoratori c.d. parasubordinati iscritti alla gestione separata) a usufruire della relativa tutela, risulta tutt’oggi il testo base di riferimento in materia.
5.1. La L. n. 89 del 1988 che ha riordinato la materia, e sancito il definitivo passaggio terminologico da “assegni familiari” ad “assegni per il nucleo familiare” (ANF), all’art. 2, comma 3, precisa infatti per gli aspetti non disciplinati direttamente dalle nuove disposizioni, restano in vigore le norme del T.U. 5.2. Con la riforma del 1988 l’istituto ha assunto un’impronta più spiccatamente assistenziale ed il parametro determinante per la sua concessione sono divenuti il reddito familiare e il numero dei componenti del nucleo familiare. Le modalità contributive e di erogazione sono rimaste pressoché immutate rispetto alla precedente normativa, tuttavia, l’utilizzo del requisito del reddito del nucleo familiare unitamente a quello del numero dei componenti, in luogo di quello della vivenza a carico, pongono come condizione legittimante la concessione dell’emolumento lo stato di bisogno del nucleo nel suo complesso che diviene quindi anche il destinatario della tutela.
5.3. Il fondamento costituzionale dell’istituto dell’assegno per il nucleo familiare va ricercato nel fruttuoso connubio degliartt. 31, 36 e 38 Cost.; sebbene l’art. 38 non faccia menzione della famiglia come nucleo degno di tutela, la sua inclusione può essere desunta accostando la previsione dell’art. 36 in merito al diritto del lavoratore ad una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
6.- Il riconoscimento degli ANF ai lavoratori somministrati anche nella fase di disponibilità risponde alle caratteristiche peculiari del lavoro somministrato a tempo indeterminato ed alla ratio dell’istituto degli assegni al nucleo familiare; oltre che, come si dirà, alla interpretazione sistematica ed evolutiva delle norme sugli assegni familiari coniate sul tradizionale modello del lavoro dipendente.
7.- Né in contrario può rilevare la sentenza citata dall’INPS (Cass. n. 6155/2004) la quale si riferisce a tutt’altro caso (relativo al periodo compreso fra la data di sospensione dell’attività produttiva per insolvenza del datore e quella di dichiarazione di fallimento dell’imprenditore), in cui il sinallagma negoziale non è sussistente e non sorge neppure alcun diritto alla retribuzione (mentre nel caso in esame il diritto sorge sotto forma di indennità di disponibilità).
8.- Neppure può valere la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare nella parte in cui richiama quella degli assegni familiari dettata dalD.P.R. n. 797 del 1955, la quale stabilisce all’art. 1 che gli assegni familiari previsti dal presente testo unico spettano ai capifamiglia che prestino lavoro retribuito alle dipendenze di altri nel territorio della Repubblica; mentre l’art. 12, comma 1 dispone che gli assegni sono dovuti qualunque sia il numero delle giornate prestate nei periodi fissati per la loro corresponsione; e l’art. 59 prevede la commisurazione dell’assegno alle giornate di lavoro prestate.
8.1. Ad avviso di questa Corte, la situazione del lavoratore somministrato in situazione di disponibilità deve essere parificata ai fini in discorso a quella dei “lavoratori che prestano lavoro retribuito alle dipendenze di altri”.
8.2. E’ infatti evidente che il dettato della risalente normativa (che fa riferimento alle giornate di prestazioni di lavoro alle dipendenze di altri) non possa essere inteso in senso letterale e debba essere invece coordinato e rapportato anche con l’istituto del lavoro somministrato, solo successivamente introdotto nell’ordinamento. Il dato testuale dell’art. 1, comma 1, secondo cui gli assegni spettano solo a coloro che “prestino lavoro retribuito alle dipendenze di altri”, se restrittivamente interpretato, non consentirebbe di attribuire la prestazione neanche durante il periodo di utilizzazione del lavoratore somministrato, per la carenza del requisito della prestazione di lavoro a favore del datore da cui è dipendente. Tale soluzione porrebbe inevitabili problemi di contrasto con il principio di parità di trattamento di cui alD.Lgs. n. 276 del 2003,art.23prima e delD.Lgs. n. 81 del 2015,art.35 dopo.
8.3. La sentenza della Corte di Cassazione Cass. n. 6155/2004, richiamata dell’Inps, conferma invece la correttezza di questa conclusione, poiché individua come presupposti necessari per l’erogazione degli assegni familiari l’esistenza in vita del sinallagma funzionale ed il corrispondente sorgere dell’obbligazione retributiva; presupposti che sono entrambi presenti nella fattispecie in esame posto che appunto il contratto esiste ed esiste anche lo scambio negoziale; in quanto a fronte della obbligazione del lavoratore di restare a disposizione del suo somministratore, questi gli corrisponde un’indennità di disponibilità che ha natura retributiva.
8.4. La fattispecie in oggetto non può essere considerata neppure un’eccezione paragonabile al caso della malattia, maternità, ferie ecc. ovvero a tutte le ipotesi in cui il rapporto di lavoro subisce una sospensione e la mora è perciò in capo al debitore che non matura il diritto alla retribuzione; ed è pertanto tale da necessitare di una specifica previsione al fine di garantirgli la corresponsione della prestazione in discorso.
8.5. Nemmeno può valere in senso contrario la previsione, richiamata nel ricorso dall’INPS, delD.Lgs. n. 276 del 2003,art.22, comma 3, in virtù del quale l’indennità di disponibilità è esclusa dal computo di ogni istituto di legge e di contratto collettivo, atteso che tale affermazione si riferisce evidentemente alla base di computo degli istituti retributivi derivanti dalla legge e dal contratto collettivo (mensilità aggiuntive, ferie, festività, TFR, ecc.) e non certamente al riconoscimento delle prestazioni previdenziali. Del resto la stessa previsione conferma, semmai, la natura retributiva dell’indennità di disponibilità, destinata per sua natura ad essere ricompresa nella base di computo di emolumenti retributivi, salvo appunto la specifica disciplina contraria dettata dalla legge.
8.6.- Per contro va ribadito che l’indennità di disponibilità è assoggettata a contribuzione secondo l’aliquota ordinaria (e ciò conferma la natura retributiva della prestazione); essendo dovuti i contributi ai sensi dell’art. 25, comma 1,D.Lgs. n. 276. Le giornate trascorse in situazione di disponibilità fungono da base di computo per determinare l’importo dei trattamenti previdenziali di malattia, di maternità, paternità, infortunio, congedi parentali, quando questi eventi protetti cadono all’interno dei periodi durante i quali il lavoratore sia in attesa di assegnazione; nonché per la disoccupazione ordinaria, a requisiti ridotti, la Naspi, o la Asdi, successivi ai periodi di disponibilità. Onde non si vede per quale motivo lo stesso periodo debba essere neutralizzato e non possa fungere da base di computo degli assegni familiari o dell’assegno per il nucleo familiare.
9.- Occorre dunque concludere che il diritto all’assegno per il nucleo familiare per il lavoratore che percepisce l’indennità di disponibilità derivi dalle regole generali richiamate dalla stessa disciplina normativa del lavoro somministrato e solo necessita di una interpretazione sistematica, che tenga conto della evoluzione della disciplina del lavoro subordinato; atteso che al momento della introduzione della provvidenza in discorso (D.L. n. 69 del 1988,D.P.R. n. 797 del 1955), non esisteva la fattispecie del lavoro somministrato essendo le norme sugli assegni familiari modellate in relazione al modello tradizionale del lavoro dipendente.
10. E’ pure evidente che anche per la indennità di disponibilità sussista la ratio protettiva previdenziale che è all’origine della prestazione volta a considerare ed a tutelare il nucleo familiare; si tratta infatti di prestazione garantita in favore del lavoratore in ragione dei suoi carichi di famiglia mediante una tutela specifica per il nucleo familiare, diretta, in attuazionedell’art. 31 e 36 Cost., a garantire un sufficiente reddito alle famiglie che ne siano complessivamente sprovviste. Non si intuirebbe invece la ragione dell’esclusione per un lavoratore che percepisce una modestissima indennità di poche centinaia di Euro pur restando alle dipendenze di un altro soggetto (il somministratore); e l’esclusione porrebbe perciò problemi di collisione con il principio di eguaglianza in relazioneall’art. 3 Cost., commi 1 e 2, tali da indurre ad una interpretazione adeguatrice del dato normativo, che adotti come elemento caratterizzante non la prestazione di lavoro dipendente, ma il sinallagma funzionale del rapporto in vista di una prestazione lavorativa. Sicché non sussiste alcun ostacolo ad applicare le norme del T.U. anche al lavoro somministrato laddove tale continuità permanga, sia che la stessa si esprima nello svolgimento di attività lavorativa presso terzi sia nella prestazione di disponibilità al somministratore.
In entrambi i casi non vi è infatti mai sospensione del rapporto ma, come innanzi visto, permanenza di obblighi reciproci, anche di natura economica, rispetto ai quali è agevole parametrare il diritto agli ANF, che andrà quindi riconosciuto nei periodi di utilizzazione in rapporto alla retribuzione e nei periodi di attesa in rapporto all’indennità di disponibilità.
Nel caso del lavoro somministrato non si tratterebbe di riconoscere l’ANF anche in assenza di rapporto, di prestazione e di retribuzione, ma di adattare i criteri di riconoscimento del diritto ad un modello contrattuale istituito successivamente all’entrata in vigore della legge regolativa, che prevede funzionalmente, pur perdurando il rapporto, la possibile alternanza tra prestazione lavorativa a favore di terzi utilizzatori, di cui non si è dipendenti, ed eventuali fasi di disponibilità, entrambe compensate dal somministratore, in misura e con criteri diversi ma comunque predeterminati.
11.- Da un punto di vista sistematico, non si può omettere di rilevare che costituirebbe una distorsione rispetto ai principi che regolano le assicurazioni sociali, desumibilidall’art. 38 Cost.e dagliartt. 2114, 2115 e 2116 c.c., sottoporre l’indennità di disponibilità ad obblighi contributivi e negare rispetto alla stessa le prestazioni assistenziali alimentate da tale contribuzione.
L’attribuzione degli ANF anche durante la disponibilità del lavoratore somministrato risulta inoltre coerente con l’analogo riconoscimento ai marittimi in CRL durante la fase inattiva e di disponibilità retributiva; in entrambi i casi si è in presenza di fattispecie particolari, il cui profilo causale si caratterizza per la necessaria presenza di una fase di attesa in cui manca la prestazione lavorativa effettiva ma permane il sinallagma funzionale e l’obbligo di disponibilità.
12. Non da ultimo a favore della soluzione positiva milita l’assenza di ostacoli di carattere operativo: l’indennità di disponibilità è come la retribuzione interamente sostenuta con risorse proprie del somministratore, è assoggettata a contribuzione, con obblighi sempre a carico del somministratore, e in quanto tale concorre alla formazione dell’anzianità contributiva utile ai fini del diritto e della misura della pensione, nonché della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per il calcolo della prestazione pensionistica. L’obbligazione contributiva costituisce garanzia di finanziamento e rende applicabile il meccanismo del versamento con il sistema del conguaglio tra Inps e agenzia di somministrazione. L’indennità di disponibilità è divisibile in quote orarie per cui è ad essa applicabile il meccanismo della riduzione di cui all’art. 59 del TU; l’ANF potrà essere agevolmente calcolato rispetto all’ammontare dell’indennità di disponibilità analogamente a come viene calcolato rispetto alla retribuzione.
13. Per le considerazioni fin qui esposte il ricorso dell’INPS deve essere rigettato, con condanna al pagamento delle spese liquidate in dispositivo e distrazione a favore degli avvocati antistatari.
14. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13, comma 1.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna l’INPS al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 3700,00, di cui Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed oneri accessori, spese da distrarsi in favore degli avvocati Silvia Assennato e Massimiliano Pucci antistatari. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2019

ORDINI DI PROTEZIONE

Di Gianfranco Dosi
Introduzione Il quadro normativo
Si deve alla legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari)1 l’in¬troduzione nel nostro ordinamento giuridico di specifici ordini di protezione contro gli abusi fami¬liari disciplinati sul versante civile dal nuovo titolo IX bis del primo libro del codice civile (articoli 342-bis e 342-ter c.c.) e sul versante penale dalla misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.), cui si è aggiunta, con il decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11 convertito con modificazioni dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, la misura cautelare autonoma del “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” (art. 282-ter c.p.p.).
L’art. 342-bis c.c. esplicita i presupposti per l’emissione degli ordini di protezione in ambito civile prevedendo (nel testo modificato dalla legge 6 novembre 2003, n. 3042) che “Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter”.
A sua volta l’art. 342-ter individua il contenuto degli ordini di protezione, la sua durata e le moda¬lità per la sua attuazione3.
Gli ordini di protezione in sede penale sono stati costruiti, invece, come “misure cautelari”, in particolare come misure di coercizione dell’imputato e al tempo stesso di protezione della persona offesa.
La legge 154/2001 aveva individuato l’unica misura nell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) a cui poi, come si è detto, una riforma del 2009, ha aggiunto il divieto di avvicina¬mento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p.). In connessione con la misura cautelare dell’allontanamento è anche prevista, analogamente a quanto avviene in ambito civile, la misura cautelare del pagamento periodico di un assegno.
Statisticamente le misure civili hanno incontrato nella prassi meno fortuna rispetto alle misure cautelari penali più largamente utilizzate, negli ultimi anni, per il contrasto alla violenza soprattut¬to di genere. Tra le tante ragioni della miglior fortuna delle misure penali certamente vi è l’aumen¬tata sensibilità, tempestività ed efficienza, rispetto al passato, del sistema penale a tutela delle vittime di abusi domestici.

Parte I Le misure civili
I I presupposti per l’emanazione da parte del giudice civile degli ordini di protezione
Come si è detto, l’art. 342-bis c.c. consente l’emanazione in ambito civile delle misure di prote¬zione previste nell’art. 342-ter c.c. quando “la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente”.
Originariamente il testo dell’art. 342-bis c.c. attribuiva competenza al giudice civile solo nei casi in cui la condotta violenta non costituisse anche reato procedibile d’ufficio, così distribuendo all’inter¬no di ambiti predeterminati la competenza tra il giudice civile e quello penale. L’art. 1 del decreto legge 6 novembre 2003, n. 304 ha abolito questa precisazione e di fatto quindi oggi la competen¬za del giudice civile costituisce una giurisdizione generale potendo portare all’emanazione di un ordine di protezione per ogni tipo di condotta. Si è creata, quindi, una sovrapposizione di compe¬tenze e di procedimenti (anche se, come si dirà, le misure penali subiscono il condizionamento dei presupposti specifici di applicazione delle misure cautelari mentre in ambito civile non sussistono condizionamenti analoghi) che potrebbero portare in alcuni casi anche a sovrapposizione di prov¬vedimenti.
La finalità della misura civilistica è, però, quella di reagire all’abuso familiare non nella prospettiva di una futura sanzione (come in ambito penale dove la misura cautelare si accompagna all’avvio di un procedimento penale) ma con un intervento che si esaurisce in una misura il più possibile rapida e in senso lato cautelare e preventiva che possa assicurare l’interruzione dell’abuso domestico e la riduzione dei rischi di reiterazione della violenza.
La natura in senso ampio cautelare e non sanzionatoria è stata affermata da Cass. civ. Sez. I, 5 gennaio 2005, n. 208; Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2007, n. 625; Trib. Bari 1 aprile 2008; Trib. Reggio Emilia, 10 maggio 2007; Trib. Padova, 31 maggio 2006; Trib. Terni, 26 settembre 2003; Trib. Bari, 18 luglio 2002; Trib. Napoli, 1 febbraio 2002 Trib. Bari, 11 dicembre 2001.
a) I presupposti oggettivi
Presupposto oggettivo dell’ordine di protezione civile è una condotta (commissiva4) che causa ad un’altra persona della famiglia “grave pregiudizio5 all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà”.
L’abuso familiare si connota quindi per queste semplici e ragionevoli caratteristiche oggettive. Deve trattarsi di una condotta che lede gravemente l’integrità fisica o morale o la libertà di un altro soggetto (non gli interessi patrimoniali). Nonostante la formulazione tutto sommato generica (con¬siderata la impossibilità di una elencazione tipica delle condotte), è chiaro dal testo della legge che non è sufficiente il pericolo di un pregiudizio, ma occorre che vi sia stato un grave pregiudizio (non un pregiudizio imminente o non attuale) ad uno dei tre beni giuridici indicati che sostanzialmente possono essere ricondotti alla lesione dei diritti della personalità. L’esclusione – stando al testo della norma – delle condotte che determinano solo un pericolo di pregiudizio costituisce certamente un limite della normativa dal momento che spesso proprio le condotte antecedenti, pur non causa di grave pregiudizio, possono essere considerate presagi del comportamento violento. Tuttavia bisogna prendere atto del testo abbastanza univoco della norma ed interpretarla in tal senso.
Certamente se la condotta integra gli estremi di un reato (minacce, percosse, lesioni gravi o gra¬vissime, mutilazioni, abbandono di incapaci; maltrattamenti, sequestro di persona, violenza priva¬ta) si è in presenza di una lesione dei diritti della persona tutelati dall’ordinamento che è possibile considerare in sé fonte di “grave pregiudizio”, a prescindere dal fatto che si tratti di reati per i quali il giudice penale possa emettere le misure cautelari previste negli articoli 282-bis e 282-ter c.p.p. che presuppongono, una pena edittale superiore nel massimo ai tre anni di reclusione (art. 280 c.p.p.). Il giudice civile ha quindi competenza di fatto esclusiva per gli abusi domestici costituenti reato con pena detentiva più bassa, come per esempio le percosse o le lesioni lievi, non potendo in questi casi il giudice penale emettere misure cautelari.
Secondo una decisione di merito (Trib. Trani, 17 gennaio 2004) non costituiscono comporta¬menti integranti grave pregiudizio le condotte scortesi, inurbane e irriguardose. L’ostilità, la fred¬dezza, la diffidenza di una persona verso un’altra per essere presupposto dell’ordine di protezione devono tradursi in condotte che causano grave pregiudizio, anche se isolate e non continuative. Hanno torto pertanto alcune isolate e lontane pronunce di merito (Trib. Trani, 12 ottobre 2001; Trib. Bari, 10 aprile 2004) che hanno ritenuto che soltanto le condotte abituali, e non quelle solate ed occasionali, possono essere poste a fondamento di una richiesta di un ordine di prote¬zione. Anche quindi condotte isolate, purché gravi, possono essere un presupposto dell’ordine di protezione (Trib. Palermo, 4 giugno 2001).
1. Il concetto di “integrità fisica” – come è stato ragionevolmente suggerito in dottrina – va con¬siderato come “integrità psicofisica”, essendo evidentemente impensabile che il legislatore abbia voluto escludere il danno all’integrità psichica. Si tratta di una semplice conseguenza del concetto unitario di salute a cui fa riferimento l’art. 32 della Costituzione. Spesso un referto medico po¬trebbe essere sufficiente per considerare esistente il danno all’integrità psicofisica della persona, ma non è escluso che la parte istante possa produrre altra documentazione specifica, come per esempio una consulenza medico legale più approfondita. Non sembra di dover escludere la possi¬bilità per il giudice di disporre anche una consulenza tecnica medico-legale, considerato che l’art. 336-bis c.p.c. – che disciplina il procedimento per l’emissione dell’ordine di protezione – prevede che “il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari” sebbene la norma individui poi solo specifiche “indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti”. Gli obiettivi di tutela della persona e di contrasto alla violenza, così come il rito camerale previsto, inducono a ritenere esistenti poteri ufficiosi del giudice tesi all’accertamento della verità materiale.
2. La lesione dell’”integrità” morale presuppone una condotta lesiva della dignità e della reputa¬zione di una persona. Si tratta di condotte che possono essere lesive del diritto al nome, del diritto
4 La grave trascuratezza e perfino la connivenza rispetto a condotte poste in essere da terze persone non appa¬iono riconducibili al tipo di condotta richiesto ai fini dell’emissione degli ordini di protezione.
5 L’espressione “grave pregiudizio” compare spesso nel primo libro del codice civile (per esempio art. 151, 330 c.c.).
all’immagine, del diritto alla riservatezza. In concreto ben difficilmente queste condotte potranno essere oggetto di un ordine di protezione dal momento che il pregiudizio grave potrebbe essere difficile da accertare. In giurisprudenza è stata, per esempio, negata la tutela per difetto di prova della lesione dell’integrità morale a condotte quali i pedinamenti, i controlli telefonici, l’uso di epi¬teti dispregiativi (Trib. Bari, 18 luglio 2002; Trib. Bari, 10 aprile 2004).
3. Il grave pregiudizio alla libertà può essere ricondotto a comportamenti contro la libertà persona¬le, la libertà di corrispondenza, la libertà di circolazione, la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di religione, la libertà legata alla sessualità. Tutte condotte a cui spesso può accompa¬gnarsi comunque anche il grave pregiudizio alla integrità psicofisica.
A differenza di quanto avviene in ambito penale, né l’imputabilità, né l’elemento soggettivo del dolo, costituiscono, stando al dato normativo, un presupposto della condotta richiesta per l’emis¬sione di un ordine di protezione in ambito civile (che potrebbe, quindi, essere richiesto e ottenuto di fronte a condotte messe in atto da persona affetta da disturbi psichici). Viceversa, certamente e ragionevolmente l’esistenza di una causa di giustificazione (si pensi alla legittima difesa), esclu¬dendo l’antigiuridicità della condotta, escludono anche l’emissione dell’ordine di protezione.
b) I presupposti soggettivi
Volendo ora individuare quali sono i soggetti (autori o vittime) che la legge prende in considera¬zione ai fini dell’applicazione della normativi in tema di ordini di protezione, occorre precisare che la condotta in relazione alla quale si può chiedere al giudice l’ordine di protezione è quella com¬messa da un qualsiasi componente della comunità familiare nei confronti di un altro componente della comunità familiare stessa (secondo l’art. 342-bis c.c. dal “coniuge” o da “altro convivente”, in danno “dell’altro coniuge o convivente” e secondo l’art. 5 della legge 154/2001 nei casi in cui “la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente”.
L’ambito della tutela apprestata dalla normativa introdotta con le legge 4 aprile 2001, n. 154, è quindi la comunità familiare. Sia quella che nasce del matrimonio sia quella che costituisce la fami¬glia di fatto. Questo è stato certamente l’intendimento chiaro del legislatore che, appunto, ha qua¬lificato la legge come insieme di norme di contrasto alla violenza “nelle relazioni familiari”. Questo dato che sostanzialmente fa riferimento al nucleo familiare di persone coabitanti, si desume anche molto chiaramente dalla principale misura che è quella dell’allontanamento “dalla casa familiare”.
So capisce anche che ogni tipo di coabitazione familiare è rilevante ai fini dell’applicabilità della disciplina. D’altro lato l’espressione “casa familiare” – che indica il luogo in cui le persone legate da relazioni familiari abitano insieme – è adoperata proprio con riferimento ai procedimenti che si occupano della separazione della coppia coniugale o dei conviventi di fatto (eterosessuali o omosessuali). Nessun dubbio circa l’applicabilità anche alle unioni civili regolamentate dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
Per l’individuazione dell’estensione del concerto di ”relazioni familiari” tutelabili con le misure di protezione fondamentale, come si è detto, è l’art. 5 della legge (Pericolo determinato da altri fami¬liari), dove si prevede che “Le norme di cui alla presente legge si applicano, in quanto compatibili, anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente”.
Si fa indubbiamente riferimento a tutti coloro che – oltre al coniuge o al convivente (anche se pro¬prietari dell’abitazione: Trib. La Spezia, 4 dicembre 2002) – compongono il nucleo familiare. Si pensi non solo ai figli (salvo quanto si dirà con riferimento ai figli minori) ma agli altri parenti o agli affini che vivono nel nucleo familiare (Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828).
In verità la clausola di compatibilità contenuta nella norma (“…si applicano, in quanto compatibi¬li…”) potrebbe consentire l’estensione della tutela al coniuge, al convivente, ai parenti e agli affini offerta dall’art. 342 ter c.c. anche oltre il vincolo di coabitazione, considerato che la misura dell’al¬lontanamento dalla casa familiare (comunque adottabile anche nel significato di “tenersi lontano dalla casa da cui ci si è allontanati”: Trib. Bologna, 25 maggio 2007, Tribunale Napoli, 19 dicembre 2007; Tribunale Padova, 31 maggio 2006 in un caso di conflittualità tra fratelli di cui uno si era già allontanato per timore dell’altro; Tribunale Bologna Sez. I, 22 marzo 2005) non è l’unica misura adottabile. Gli abusi familiari possono infatti continuare anche in seguito all’allontanamento da casa (spontaneo o forzato) dell’autore (Trib. Milano, 27 novembre 1992).
II Gli abusi familiari commessi da minori di età
Si è sopra detto che l’art. 5 della legge (Pericolo determinato da altri familiari) prevede l’applicabi¬lità delle norme sugli ordini di protezione, “in quanto compatibili, anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente…”.
Tuttavia se l’autore della condotta è un soggetto minorenne (si pensi all’adolescente in condizione di grave conflitto con i genitori) devono trovare applicazione – secondo la tesi che qui si sostie¬ne – non le norme della legge 154/2001 ma le norme specifiche previste per i minorenni in sede penale e civile.
Pertanto in sede penale troveranno applicazione le sole misure cautelari previste nel DPR 22 set¬tembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati mi¬norenni) per il principio di tassatività indicato nell’art. 19 del DPR medesimo6 e quindi le “prescri¬zioni”, la “permanenza in casa”, il collocamento in comunità” e la custodia cautelare”: E’ evidente che queste ultime due misure, ove adottabili in relazione ai limiti di pena edittale prevista dalla legge, presuppongono di fatto l’allontanamento da casa del minore. Di per sé non è però prevista l’applicabilità della misura cautelare dell’ordine di allontanamento da casa. Se il fatto è commesso da persona minore dei quattrodici anni troveranno applicazione le specifiche misure di sicurezza previste per i minorenni.
In sede civile non è previsto uno specifico procedimento di contrasto al comportamento del minore che causa grave pregiudizio ad un familiare. Non troverà applicazione quindi il procedimento previsto nell’art. 736-bis c.p.c. introdotto dalla legge 154/2001 (di contrario avviso Tribunale Modena, 30 maggio 2006). Sarà il tribunale per i minorenni che potrà intervenire ai sensi dell’art. 25 (compe¬tenza amministrativa) del R. Decreto 1404/1939 (istitutivo, appunto, del tribunale per i minorenni) a seguito del ricorso della vittima o del Pubblico ministero (allertato per esempio da una segnalazione dei servizi sociali). L’intervento – sostanzialmente civilistico deliberato in camera di consiglio – preve¬de il possibile affidamento del minore al servizio sociale, eventualmente con prescrizioni specifiche.
III Gli abusi familiari commessi contro persone minori di età
L’art. 5 della legge 154/2001 prevede che le disposizioni sugli ordini di protezione trovano appli¬cazione anche nei casi in cui l’abuso è commesso in danno di persona diversa dal genitore o dal convivente e quindi per esempio in danno del figlio.
Problemi si pongono, però, se il figlio vittima della condotta violenta in famiglia è un minore.
In tal caso, mentre sono certamente applicabili le misure cautelari penali nei confronti dell’autore del reato commesso nei confronti del figlio minore, è, invece, discutibile l’applicabilità delle misure civili previste nella legge.
Ci si deve chiedere, quindi, se fare applicazione della disciplina che il nostro ordinamento civilistico prevede in caso di abusi sui minori in famiglia (articoli 330 e seguenti del codice civile) oppure se ritenere possibile anche l’applicazione delle disposizioni civili della legge 154/2001.
Occorre considerare che le norme (art. 330, 333 c.c.) che prevedono l’intervento del tribunale per i minorenni a tutela dei minori vittime di abusi della responsabilità genitoriale7 sono azionabili (ad istanza dei genitori, dei parenti o del pubblico ministero) anche quando l’abuso non è direttamente riferibile alla condotta commissiva dei genitori ma alla loro condotta omissiva, cioè al fatto che i genitori non sono in grado o in condizioni di contrastarlo. Pertanto l’utilizzazione del procedimen¬to di volontaria giurisdizione previsto nell’art. 336 c.c.8 per le condotte indicate negli articoli 330 e 333 c.c., anziché quelle del procedimento di cui all’art. 736-bis c.p.c. introdotto dalla legge 154/2001, appare del tutto plausibile (attesa, peraltro, la competenza per materia esclusiva del tribunale per i minorenni in materia di abusi nei confronti dei minori secondo quanto prevede l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile).
E’ stata la legge 28 marzo 2001, n. 149 (di poco precedente alle legge 154/2001) ad additare questa soluzione allorché ha modificato gli ultimi commi dell’art. 333 c.c. (condotta del genitore pregiudizievole ai figli) e dell’art. 330 c.c. (Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli). Il testo vigente delle norme, dopo queste modifiche, prescrive che in caso, appunto, di condotte pre¬giudizievoli commesse in danno dei figli minori, il giudice può anche disporre “l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”. Per convivente si intende la persona che
6 L’art. 19 prescrive che “Nei confronti dell’imputato minorenne non possono essere applicate misure cautelari personali diverse da quelle previste nel presente capo”.
7 Art. 330 (Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli)
Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i do¬veri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.
In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.
Art. 333 (Condotta del genitore pregiudizievole ai figli)
Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allon¬tanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.
Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento.
8 Art. 336 (Procedimento)
I provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricorso dell’altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato.
Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero; dispone, inoltre, l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito.
In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d’ufficio, provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio.
Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore.
convive con il genitore del minore (more uxorio come nuovo partner o come coniuge nella fami¬glia ricomposta)9. L’ordine di allontanamento in tal caso è rivolto al genitore ovvero al convivente (more uxorio del genitore) che maltrattta o abusa del minore. Naturalmente l’allontanamento appare condizionato al fatto che in casa con il minore possa poi restare un altro componente del nucleo familiare.
Si deve considerare che prima di tali modifiche le due norme prevedevano irragionevolmente la possibilità per il giudice di disporre il solo “allontanamento del minore dalla residenza familiare”. La tutela del minore si realizzava, insomma, allontanandolo da casa!
In ogni caso, certamente il tribunale per i minorenni nell’esercizio del potere di individuare l’inter¬vento di protezione più adeguato per il minore, può senz’altro fare anche riferimento oltre che alla misura dell’allontanamento dell’adulto abusante, alle misure indicate nell’art. 342-ter c.c. ulteriori rispetto all’ordine di allontanamento dell’autore dell’abuso (Trib. Min. Milano, 20 giugno 2001 che ha ritenuto applicabili per analogia tutte le specifiche misure indicate nell’art. 342-ter c.c.).
Non è condivisibile la posizione assunta da Tribunale Piacenza, 23 ottobre 200810 che ha rite¬nuto sovrapponibili i due procedimenti affermando, in un caso di violenza assistita, la competenza del giudice civile monocratico ad ordinare al padre, a sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c., di versare periodicamente una somma per il mantenimento del figlio “atteso il difetto di coordina¬mento in proposito tra la disciplina degli artt. 342-bis e 342-ter c.c. (quali introdotti dalla legge n. 154/2001) e gli artt. 330 e 333 c.c., così come modificati dalla legge n. 149/2001. Altro giudice (Tribunale Reggio Emilia, 10 maggio 2007) ha comunque espresso una opinione contraria ritenendo le competenze del giudice civile concorrenti con quelle del tribunale per i minorenni.
La soluzione che qui si prospetta è quindi quella di considerare competente all’adozione di misure civili di protezione di un minore di età il tribunale per i minorenni (ai sensi delle norme di cui agli articoli 330 e 333 c.c. aventi come presupposto o la condotta commissiva o quella omissiva dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale) e non il giudice civile ordinario monocratico indicato nella legge 154/2001 (che presupporrebbe, comunque, che sia lo stesso minore, rappresentato dal genitore o da un curatore speciale, a richiedere la misura). Le misure di protezione che il tribunale per i minorenni potrà adottare saranno non solo quelle dell’allontanamento dell’adulto abusante (genitore o convivente di lui) o dell’allontanamento del minore, ma anche quelle previste nell’art. 342-ter c.c.(secondo quanto ritenuto da Trib. Min. Milano, 20 giugno 2001).
Il provvedimento definitivo che prescrive le misure in questione è reclamabile in corte d’appello secondo quanti previsto dalle disposizioni processuali del rito camerale.
IV Gli ordini di protezione previsti dall’art. 342-ter c.c.
L’art. 342-ter c.c. (nel testo, appunto, introdotto dalla legge 4 aprile 2001, n. 154) individua gli ordini di protezione possibili:
1. L’ordine di cessazione della condotta pregiudizievole. In verità si tratta di una misura che non appare autonoma e che dovrebbe essere considerata un presupposto implicito degli altri provve¬dimenti di protezione (così è stato per esempio interpretato da Trib. Palermo, 4 giugno 2001). In ogni caso, un po’ come nell’art. 709-ter c.p.c. avviene per l’ammonimento, non può dirsi che si tratti di una misura del tutto inutile.
2. L’ordine di allontanamento dalla casa familiare dell’autore della condotta.
Costituisce certamente la misura di protezione più significativa che può essere adottata anche se l’abitazione da cui un soggetto viene allontanato è di sua proprietà ed anche in caso di convivenza more uxorio. Ai fini dell’ordine di protezione è sufficiente che le parti abitino in comune l’immobile (Tribunale Prato, 8 giugno 2009).
La temporaneità dell’allontanamento incide solo in misura relativa sul titolo di proprietà del co¬niuge o del convivente che ne è stato allontanato. La possibilità di garantirsi una anticipazione della tutela derivante dall’eventuale successiva assegnazione della casa familiare al coniuge che ha richiesto e ottenuto l’allontanamento non può essere motivo per negare la tutela alla vittima dell’abuso ma semmai motivo per esaminare la sua istanza con maggiore prudenza.
Nel caso di abitazione di proprietà del coniuge allontanato non esiste una norma che preveda l’opponibilità dell’ordine di protezione ai terzi acquirenti, Né appare per analogia applicabile l’op¬ponibilità garantita in sede di assegnazione della casa familiare.
9 E’ stata prospettata anche la tesi che con l’espressione “convivente” la legge abbia inteso riferirsi alla persona che convive con il figlio. In altre parole la norma consentirebbe l’allontanamento del genitore o di chi comunque, autore dell’abuso, convive con il figlio. Di fatto però non pare che questa ricostruzione possa dirsi sostanzialmen¬te diversa da quella sopra prospettata dal momento che il “convivente” del genitore è certamente anche di fatto convivente con il figlio.
10 Tribunale Piacenza, 23 ottobre 2008. Nelle fattispecie di c.d. violenza assistita, ove la vittima diretta dei maltrattamenti è un genitore e i figli vengono loro malgrado costretti ad assistervi, sussiste una sovrapposizione di competenze tra il giudice civile, adito ai sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c. e dell’art. 736-bis c.p.c., e il tribunale per i minorenni. Tale sovrapposizione di competenze non preclude al giudice civile di pronunciare – in¬tervenuto decreto del tribunale per i minorenni che dispone, ai sensi degli artt. 333 e 336 c.c., l’allontanamento del genitore violento dalla casa familiare e l’affidamento del figlio minore – non solo l’ allontanamento dalla casa familiare del medesimo genitore, ma anche la cessazione della condotta pregiudizievole, quale contenuto essenziale dell’ordine di protezione di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c..
Ove la detenzione dell’immobile avvenga per un titolo diverso (comodato, locazione) non vi sono ragioni ostative a considerare per analogia quanto previsto in caso di assegnazione in sede di separazione e cioè a considerare l’ordine di protezione come evento che legittima la successione temporanea nel contratto di comodato o di locazione del beneficiario dell’ordine di protezione.
Logicamente l’ordine di protezione dell’allontanamento dalla casa coniugale presuppone che en¬trambi i coniugi vi abitino ancora insieme. Tuttavia Tribunale Napoli, 19 dicembre 2007, come si è detto, ha ritenuto ammissibile l’ordine di allontanamento anche se il coniuge colpevole si è già allontanato, sul presupposto che l’ordine confermerebbe comunque il divieto di far rientro in casa.
3. L’ordine di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
4. L’ordine di intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati.
5. L’ordine di pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto del provvedimento di allontanamento dell’autore dell’abuso, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Si tratta id una misura di protezione per certi versi “eversiva” soprattutto se adottata nei con¬fronti del convivente more uxorio autore della condotta violenta considerato che neanche nella legge 20 maggio 2016, n. 76 si prevedono forme di obbligatoria reciproca assistenza materiale tra conviventi, fatta salva l’ipotesi cui al comma 65 dell’unico articolo della legge dove si prevede un diritto di natura alimentare alla cessazione della convivenza, per il convivente che si trovi in stato di bisogno. Naturalmente il presupposto comune è costituito dal fatto che sia il coniuge che i con¬vivente vittima della condotta violenta, per poter beneficiare questo ordine di protezione di natura economica devono trovarsi, per effetto dell’allontanamento dell’altro, privi di mezzi adeguati.
Gli ordini di protezione esaminati esauriscono il novero dei provvedimenti possibili.
Va anche considerato che l’art. 342-bis c.c. prescrive che il giudice può pronunciare “uno o più dei provvedimenti di cui all’art. 342-ter” con ciò volendo intendere che i provvedimenti in questione possono certamente cumularsi nello stesso decreto ma non escludendo che possano anche essere pronunciati in diversi momenti e anche se l’allontanamento è stato già pronunciato in precedenza. In altre parole l’allontanamento dell’autore della condotta lesiva non esaurisce il potere del giudi¬ce di adottare su istanza di parte, ove necessario, altri tipi di ordini di protezione. Una conferma di quanto sopra si ha nel testo dell’art. 282 c.p.p. dove si prevede che “I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 [cioè le misure accessorie all’ordine di allontanamento] possono essere assunti anche successivamente al provvedimento di cui al comma 1 [cioè l’ordine di allontanamento], sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia”.
Come è stato osservato da diversi autori deve sempre sussistere un criterio di adeguatezza e cioè di proporzionalità tra la condotta tenuta dal soggetto, la gravità del pregiudizio inferto, la misura irrogata e la sua durata. Tutti profili sui quali si può esercitare certamente il potere di controllo del giudice del reclamo.
Una particolare attenzione dovrebbe essere riservata alla circostanza che l’ordine di protezione interessa i rapporti coniugali o tra i partner della coppia e non dovrebbe ostacolare la prosecuzione del rapporto tra ciascuno dei genitori e i figli comuni, tenendo naturalmente conto che l’ordine potrebbe essere stato adottato anche in relazione a condotte indirettamente lesive della serenità dei figli (cosiddetta violenza indiretta o assistita: Trib. Min. L’Aquila, 19 luglio 2002; Tribu¬nale Reggio Emilia, 10 maggio 2007). Si consideri che nel 2013 nell’art. 61 del codice penale concernente le circostanze aggravanti è stata inserita l’aggravante specifica (11-quinquies) dell’ “avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”.
V Il procedimento
La legge 154/2001 ha anche previsto un apposito procedimento camerale (ma di competenza del giudice monocratico), disciplinandolo nell’art. 736-bis del codice di procedura civile (intitolato inadeguatamente “Provvedimenti di adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari”).
La norma prevede che l’istanza per l’ordine di protezione si propone, anche dalla parte personal¬mente, con ricorso da depositare nella cancelleria tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante (competenza inderogabile per materia ex art. 28 c.p.c.), che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica. Si tratta di uno dei casi di deroga espressa alla regola in¬dicata nell’art. 50-bis c.p.c. di composizione collegiale nei procedimenti in camera di consiglio11.
11 Art. 50 bis c.p.c. (cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale). Ultimo comma: Il tribunale giudica altresì in composizione collegiale nei procedimenti in camera di consiglio disciplinati dagli articoli 737 e seguenti, salvo che sia altrimenti disposto.
Nel ricorso è evidente che l’istante dovrà indicare non solo i fatti e cioè la condotta violenta nei suoi confronti ma anche i provvedimenti richiesti.
Il ricorso deve essere presentato dalla parte che richiede per sé l’ordine di protezione. Come ha precisato Tribunale Milano, 18 marzo 2015 l’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. deve es¬sere richiesto direttamente dal titolare del diritto soggettivo leso, giusta la disposizione generale di cui all’art. 81 c.p.c. In particolare, il figlio maggiorenne non convivente, non può presentare istanza di protezione al fine di tutelare la condizione soggettiva della madre, oggetto di turbative e molestie da parte di terzi. In questo caso, il ricorso è inammissibile per difetto di legitimatio ad causam, rilevabile d’ufficio. In caso di persona sottoposta ad amministrazione di sostegno, l’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. può essere richiesto dall’amministratore previamente autorizzato dal giudice tutelare.
La parte che ha subìto la condotta pregiudizievole e che instaura il procedimento non ha, in linea teorica, l’obbligo di assistenza legale (potendo presentare il ricorso “anche personalmente”) ma nella prassi è assai difficile che l’accesso al tribunale venga effettuato senza un mandato al difen¬sore. Anche il convenuto in giudizio, cioè l’autore dell’abuso, in linea teorica potrebbe non essere assistito da un difensore, non essendo previsto neanche per lui l’obbligo della rappresentanza in giudizio da parte di un difensore. A tale proposito, però, si deve ricordare che l’art. 7 della legge 154/2001 – con l’evidente intento di non scoraggiare la proposizione del ricorso da parte della vittima – prevede che “tutti gli atti, i documenti e i provvedimenti relativi all’azione civile contro la violenza nelle relazioni familiari, nonché i procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti a ottene¬re la corresponsione dell’assegno di mantenimento previsto dal comma 3 dell’articolo 282-bis del codice di procedura penale e dal secondo comma dell’articolo 342-ter del codice civile, sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni altra tassa e imposta, dai diritti di notifica, di cancelleria e di copia nonché dall’obbligo della richiesta di registrazione, ai sensi dell’articolo 9, comma 8, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e successive modificazioni”.
Il presidente del tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso.
Per quanto non previsto dalla norma in questione si applicano al procedimento, in quanto compa¬tibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ne¬cessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo.
Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare imme-diatamente l’ordine di protezione (Trib. Reggio Emilia, 6 maggio 2002, ha motivato l’urgenza con il rischio del compimento di ulteriori condotte di abuso), fissando l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé [da tenersi] entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnan¬do all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. All’udienza il giudice conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione.
Come si vede il giudice può adottare un decreto di rigetto (in rito o nel merito) o di accoglimento nel merito, potendo anche provvedere sulle spese processuali (Trib. Barletta, 1 aprile 2008).
Il decreto in questione non è provvisoriamente esecutivo ma segue le regole dell’art. 741 c.p.c. ed acquista efficacia quando sono decorsi termini per il reclamo; se vi sono ragioni di urgenza il giudice stesso può, però, dichiararlo provvisoriamente esecutivo.
Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di protezione o rigetta il ricorso, ovvero con¬ferma, modifica o revoca l’ordine di protezione precedentemente adottato è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal secondo comma dell’articolo 739. Il reclamo non sospende l’esecutività dell’ordine di protezione. Il tribunale provvede in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con “decreto motivato non impugnabile”. Del collegio non fa parte il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.
Poiché il reclamo davanti al tribunale in composizione collegiale si conclude con un decreto moti¬vato “non impugnabile” ne deriva che non è neanche ricorribile per cassazione. In questo senso si è espressa peraltro da ultimo Cass. civ. Sez. VI – 1, 7 dicembre 2017, n. 29492, richiamando Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15482; Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23633, Cass. civ. Sez. I, 5 gennaio 2005, n. 208 e Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2007, n. 625. Il principio affermato è che in tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342-bis c.c., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736-bis c.p.c., introdotto dalla L. 4 aprile 2001, n. 154, art. 3, né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Resta ferma la possibilità di richiedere sempre al giudice monocratico competente, in base ai prin¬cipi del rito camerale (art. 742 c.p.c.), la modifica o la revoca del provvedimento.
La non ricorribilità per cassazione dei provvedimenti civili potrebbe essere anche una delle cause per le quale nella prassi si fa più frequentemente ricorso, come si è sopra detto, alle misure caute¬lari penali in quanto l’art. 311 c.p.p. prevede, invece, la ricorribilità per cassazione delle decisioni del tribunale penale in sede di riesame delle ordinanze che dispongono una misura cautelare co¬ercitiva.
L’art. 4 della legge prevede che il procedimento per l’adozione degli ordini di protezione non è soggetto alla sospensione feriale (art. 92 ordinamento giudiziario).
VI La durata e l’attuazione dell’ordine di protezione
L’ultima parte dell’art. 342-ter c.c. prevede che il giudice, con il medesimo decreto in cui adotta l’ordine di protezione e gli altri i provvedimenti deve stabilire la durata dell’ordine di protezione (che quindi ha natura temporanea), che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso e che non può essere superiore ad un anno12 e può essere prorogata, su istanza di parte (rivolta al giudice monocratico competente), soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario. Per esempio Trib. Taranto 1 dicembre 2001 ebbe a prorogare la misura dell’allontanamento fino all’udienza presidenziale di separazione che in base all’art. 8 della legge segna il termine oltre il quale le mi¬sure diventano di competenza del giudice della separazione.
Con il medesimo decreto il giudice determina anche le modalità di attuazione. Si tratta di una di¬sposizione opportuna dal momento che un rinvio alle norme sul processo esecutivo sarebbe stato del tutto fuori luogo. D’altro lato la tendenza in atto nel sistema processuale è quello di affidare l’attuazione dei provvedimenti allo stesso giudice che li ha disposti (come previsto per esempio nell’art. 669-duodecies o nell’art. 709-ter c.p.c.). Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.
VII La possibile concorrenza tra il procedimento civile e la misura cautelare penale dell’allontanamento
E’ possibile che vi sia concorrenza tra il procedimento ex art. 736-bis c.p.c. (azionato dalla vitti¬ma) e la misura cautelare dell’allontanamento adottata dal giudice penale su richiesta del pubblico ministero ai sensi dell’art. 282 c.p.p. e cioè nei casi in cui la pena edittale prevista per il reato per cui procede è superiore nel massimo a tre anni di reclusione (art. 280 c.p.p.) ovvero nei casi in cui si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente (casi in cui, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 282-bis c.p.p., la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 28), ferma sempre l’esistenza degli altri presupposti per l’emissione di una misura cautelare personale (art. 273 c.p.p.).
In dottrina si ritiene che il giudice civile, nel caso di sopravvenienza della misura cautelare penale debba rigettare la richiesta avanzata nel procedimento civile per sopravvenuta carenza di interesse ad agire dell’istante, ma la tesi non è condivisa da tutti. Ragionevolmente si dovrebbe ritenere che tra i due sistemi vi sia autonomia senza possibilità di reciproca influenza e che tuttavia al giudice civile (in primo grado o in sede di reclamo) dovrebbe riconoscersi il potere discrezionale di valutare l’esito del procedimento anche in relazione alla sopravvenuta misura cautelare penale.
VIII Il raccordo tra il procedimento per l’adozione degli ordini di protezione e il procedimento sul conflitto familiare
a) in caso di separazione e divorzio
Il problema del raccordo tra il procedimento per l’adozione degli ordini di protezione e il procedi¬mento di separazione (o divorzio) è risolto dall’art. 8 della legge 154/2001 dove si prevede che le misure di protezione civili e il relativo procedimento non trovano applicazione quando la condotta pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o nei confronti del quale è stata proposta do¬manda di separazione o di divorzio e nel relativo procedimento si è svolta l’udienza di comparizione dei coniugi davanti al presidente. In tal caso si applicano le disposizioni contenute nella normativa sulla separazione e sul divorzio e nei relativi procedimenti possono essere assunti provvedimenti aventi i contenuti indicati nell’articolo 342-ter del codice civile.
In ogni caso l’ordine di protezione adottato dal giudice civile nel procedimento sopra esaminato perde efficacia qualora sia successivamente pronunciata, nel procedimento di separazione perso¬nale o di divorzio promosso dal coniuge istante o nei suoi confronti, l’ordinanza contenente prov¬vedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente.
Il principio generale che l’art. 8 della legge 154/2001 ha introdotto è che quando l’abuso familiare è causato dalla condotta di un coniuge contro l’altro non può essere instaurato un procedimento civile ai sensi dell’art. 736 c.p.c. qualora nel giudizio di separazione sia stata tenuta l’udienza presidenziale.
Da questo principio – che attribuisce al giudice della separazione il potere di adottare egli stesso le misure di protezione indicate nell’art. 342-ter c.p.c. – ne discende anche l’altro che prevede la cessazione dell’efficacia dell’eventuale ordine di protezione adottato dal giudice civile qualora sia successivamente pronunciata, nel procedimento di separazione personale o di divorzio promosso
12 Il termine di durata era originariamente di sei mesi ma è stato portato ad un anno da una riforma del 2009.
dal coniuge istante o nei suoi confronti, l’ordinanza contenente provvedimenti temporanei ed ur¬genti assunti dal presidente.
L’art. 8 è considerata una disposizione del tutto ragionevole (in funzione anche dell’esigenza ge¬nerale di concentrazione delle tutele) considerato peraltro che in assenza del meccanismo indicato si rischierebbe una duplicazione di provvedimenti, peraltro ormai resi inutili dall’autorizzazione a vivere separati contenuta nell’ordinanza presidenziale.
Va precisato che mentre l’ordinanza presidenziale contenente l’ordine di protezione può essere reclamata ex art. 708, ultimo comma c.p.c., viceversa l’ordine di protezione successivamente eventualmente adottato dal giudice istruttore non è, secondo i principi generali, reclamabile (lo ha precisato Tribunale Bari Sez. I, 3 marzo 2009 dichiarando inammissibile il reclamo avverso l’ordine di protezione adottato dal giudice istruttore nel processo di separazione). Non è mai am¬messo comunque, in caso di separazione, il reclamo previsto nel quarto comma dell’art. 736-bis c.p.c. (Tribunale Catania, 11 novembre 2008).
b) In caso di procedimento per l’affidamento e il mantenimento di figli nati fuori dal matrimonio
Va ricordata una decisione significativa con cui la Corte di cassazione ha ritenuto competente all’emanazione di ordini di protezione anche il tribunale in composizione collegiale adito in ordine all’affidamento e al mantenimento di un figlio nato fuori dal matrimonio., nonostante che la vis actrativa sia stabilita (dall’art. 8 della legge 154/2001) soltanto in caso di separazione e divorzio.
Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15482 che ha enunciato il principio in base al quale in tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari, di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c., l’attribuzione della competenza al tribunale in composizione monocratica, stabilita dall’art. 736-bis, comma 1, c.p.c., non esclude l’attrazione al tribunale in composizione collegiale (nella specie chiamato a giudicare in ordine al conflitto familiare e all’affidamento di un figlio tra due ex conviventi more uxorio) del procedimento che sia stato già incardinato avanti ad esso, atteso che una diversa opzione ermeneutica, che faccia leva sul solo tenore letterale delle citate disposizioni, ne tradirebbe la “ratio”, che è quella di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele ed evitare, a garanzia del preminente interesse del minore che sia incolpevolmente coinvolto, o del coniuge debole che esiga una tutela urgente, il rischio di decisioni intempestive o contrastanti ed incompatibili con gli accertamenti resi da organi giudiziali diversi.
Il richiamo che viene proposto non è tanto all’art. 8 della legge 154/2001 quanto piuttosto alle regole contenute nell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. Infatti si legge nella sentenza che con riferimento all’assetto dei rapporti tra i genitori ed il figlio nato fuori dal matrimonio la Corte (Sez. 1, Sentenza nn. 23032 del 2009 e 6132 del 2015) ha già stabilito il principio di diritto secondo cui, “in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la legge n. 54 del 2006, dichiarando applicabili ai relativi procedimenti le regole da essa introdotte per quelli in materia di separazione e divorzio, esprime, per tale aspetto, un’evidente assimilazione della posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio, in tal modo conferendo una definitiva autonomia al procedimento previsto rispetto a quelli di cui agli artt. 330, 333 e 336 c.c., ed avvicinandolo a quelli in materia di separazione e divorzio con figli minori, senza che assuma alcun rilievo la forma del rito camerale, previsto, anche in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza.
Il principio in questione viene pronunciato ex art 363, co. 3, c.p.c. (ritenuto applicabile anche alle sezioni semplici) nonostante la circostanza che il ricorso (nella specie incidentale) venga poi dichiarato inammissibile
Occorre evitare – afferma la Corte – evitare la lettura delle disposizioni basate “sul solo tenore letterale della (..) disposizione” (nella specie, dell’art. 38 disp. att. c.c., comma 1, come modificato dalla L. n. 219 del 2012), in quanto essa “ne tradirebbe la ratio di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastanti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, resi da due organi giudiziali diversi”.
Nella previsione degli artt. 342-bis e 342-ter cod. civ. gli ordini di protezione contro gli abusi fa¬miliari sono attribuiti genericamente alla competenza del “giudice”, la cui specificazione viene data dalla specifica previsione processualistica di cui all’art. 736-bis codice di rito. Alla luce di tale ulti¬ma previsione, il provvedimento è adottato “in camera di consiglio” e, dall’organo adito, “in com¬posizione monocratica” (comma 1): secondo quanto stabilito dall’art. 50 bis c.p.c., comma 2, si tratta di una delle ipotesi applicative della riserva di giudizio monocratico, nonostante la disciplina fatta per rinvio all’art. 737 e ss.. Questo, ovviamente, quando la misura sia richiesta principaliter; ma quando la medesima sia domandata nell’ambito di un più ampio conflitto familiare teso a defi¬nire anche questioni che sono riservate alla competenza del giudice collegiale (come nella specie, dove – tra le parti – si è discusso anche dell’affidamento del figlio e di altro) allora sarebbe antie¬conomico ed irrazionale che il giudice collegiale non possa conoscere anche della richiesta misura di protezione, perché questa (ove accolta) non solo giova al coniuge vittima dell’azione violenta o persecutoria ma anche al figlio, che delle condotte antigiuridiche ancor più risente, in quanto privo degli strumenti di elaborazione dei comportamenti propri dell’altro genitore.
IX La sanzione penale per l’inosservanza dell’ordine civile di protezione
L’art. 6 della legge 154/2001 prescrive che “Chiunque elude l’ordine di protezione previsto dall’ar¬ticolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel proce¬dimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è punito con la pena stabilita dall’articolo 388, primo comma, del codice penale. Si applica altresì l’ultimo comma del medesimo articolo 388 del codice penale”.
La disposizione penale richiamata (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) costituisce un reato contro l’attività giudiziaria e la legge 154/2001 ne richiama solo il primo e l’ultimo comma anche se nel 2018 la disposizione è stata riformulata in modo da renderla più in¬tellegibile e autonoma.
Nel primo comma si prevede che “Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’auto¬rità giudiziaria stessa, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Come detto il D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21, ha poi riformulato l’art. 388 prevedendo al secondo comma che “La stessa pena si applica a chi elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342- ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero ancora l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero am¬ministrativo o contabile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito”.
L’ultimo comma dell’art. 388 c.p. prescrive che “Il colpevole è punito a querela della persona offesa”.

Parte II Le misure penali
______________________________________
I Le misure cautelari di protezione della vittima
Gli ordini di protezione previsti in ambito penale sono stati costruiti dal legislatore come “misure cautelari”, cioè come misure coercitive della libertà dell’imputato a carico del quale sussistono gra¬vi indizi di colpevolezza, adottabili in presenza dei presupposti previsti dalla legge, a cui è assegna¬ta una specifica funzione di protezione della vittima del reato. Per questo, trattandosi in sostanza di ordini di protezione, possono essere chiamate “misure cautelari di protezione della vittima”.
Le specifiche misure cautelari di protezione (di natura coercitiva) sono l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis. c.p.p. introdotto dalla legge 4 aprile 2001, n. 154 e in seguito parzialmente modificato13) e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p. introdotto dal decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11 convertito con modificazioni dalla legge 23
13 Art. 282-bis c.p.p. (Allontanamento dalla casa familiare)
1. Con il provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamen¬te la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede. L’eventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita.
2. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi con¬giunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
3. Il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prove di mezzi adeguati. Il giudice determina la misura dell’assegno tenendo conto delle circostanze e dei redditi dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del versamento. Può ordinare, se necessario, che l’assegno sia versato diret¬tamente al beneficiario da parte del datore di lavoro dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante. L’ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo.
4. I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti anche successivamente al provvedimento di cui al comma 1, sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia se è revocato o perde comunque efficacia il provvedimento di cui al comma 1. Il provvedimento di cui al comma 3, se a favore del coniuge o dei figli, perde efficacia, inoltre, qualora sopravvenga l’ordinanza prevista dall’articolo 708 del codice di procedura civile ovvero altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli.
5. Il provvedimento di cui al comma 3 può essere modificato se mutano le condizioni dell’obbligato o del bene¬ficiario, e viene revocato se la convivenza riprende.
6. Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 572, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate, 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-septies.1, 600-septies.2, 601, 602, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612, secondo comma, 612-bis, del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280, anche con le modalità di controllo previste all’articolo 275-bis.
aprile 2009, n. 3814) alle quali si aggiunge, come provvedimento legato alla sola misura dell’allonta-namento, ancorché adottabile anche successivamente, l’ordine di pagamento periodico di un assegno per le persone che, in relazione all’allontanamento dell’imputato rimangono priva di mezzi adeguati.
a) L’ordine di allontanamento
Con il provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro (ove già allontanatosi) e di non ac¬cedervi in seguito senza l’autorizzazione15.
La giurisprudenza ritiene legittima la misura dell’allontanamento dalla casa familiare nei confronti di chi, pur avendo abbandonato formalmente la casa, continua a sottoporre a “stalking” il coniuge in quanto la predetta misura cautelare non si rende inconciliabile con uno stato di fatto integrato dal già avvenuto abbandono della casa da parte del coniuge indagato atteso che la “ratio” del prov¬vedimento cautelare si esprime in uno spettro valutativo di più ampia portata, includente i rapporti e le relazioni interpersonali del soggetto passivo che trascende la mera quotidianità di vita e di abi¬tudini nel ristretto ambito delle sole mura domestiche della casa familiare (Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658). Il principio era stato in passato già affermato da Cass. pen. Sez. VI, 3 luglio 2008, n. 28958 e Cass. pen. Sez. VI, 29 marzo 2006, n. 18990 secondo cui la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare può essere applicata pur quando manchi la convivenza tra le parti e l’indagato abbia già abbandonato il domicilio domestico. D’altra parte, come ebbe ad affermare Tribunale Roma, 25 giugno 2002 la misura cautelare dell’allontana¬mento dalla casa familiare può essere applicata non solo per far cessare una convivenza a rischio, ma anche per impedire che riprenda, contro la volontà della persona offesa, una convivenza già temporaneamente cessata.
Il presupposto della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare non è, quindi, la condizione di “attuale” coabitazione dei coniugi, ma l’esistenza di una situazione in cui all’interno di una relazione familiare si manifestano condotte in grado di minacciare l’incolumità della per¬sona (Cass. pen. Sez. VI, 15 aprile 2010, n. 17788; Cass. pen. Sez. VI, 4 febbraio 2008, n. 25607).
Il principio appare del tutto condivisibile anche se in un caso specifico in cui una persona era stata accusata di atti persecutori nei confronti di un vicino di casa, la misura è stata ritenuta dalla giuri¬sprudenza illegittima perché “comminata nei confronti di soggetti estranei alla casa familiare” ma nella motivazione si chiarisce che l’operatività dell’art. 282 bis c.p.p. non può essere ammessa al di fuori dei “delitti commessi in ambito familiare” con ciò confermandosi il presupposto generale sopra richiamato (Cass. pen. Sez. V, 19 marzo 2014, n. 2717).
Dal canto suo, ed in contrasto con le decisioni sopra riferite, Uff. indagini preliminari Milano, 10 dicembre 2012 ha ritenuto la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare appli¬cabile per qualsiasi reato e non limitatamente ai reati commessi in ambito familiare o all’interno dell’abitazione familiare.
Trattandosi di misura cautelare è opportuno ricordare che l’ordine di allontanamento è misura meno invasiva della custodia in carcere. Giustamente lo ha ricordato Cass. pen. Sez. VI, 3 giu¬gno 2014, n. 36392 secondo cui in presenza di un grave quadro indiziario, la misura della custo¬dia cautelare in carcere non può essere giustificata quando esistono altre misure meno invasive ma ugualmente idonee, come l’allontanamento dalla casa familiare.
L’allontanamento dalla casa familiare non comporta, di per sé, il venir meno del diretto collega¬mento con il domicilio del destinatario della misura (Cass. pen. Sez. III, 22 settembre 2016, n. 5242 secondo cui sarebbe valida la notifica dell’avviso di deposito della sentenza all’imputato contumace effettuata, presso il domicilio dichiarato, a mani del familiare qualificatosi come convi¬vente della persona allontanata).
14 Art. 282-ter (Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa)
1. Con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all’imputato di non avvici¬narsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.
2. Qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, il giudice può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone.
3. Il giudice può, inoltre, vietare all’imputato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con le persone di cui ai commi 1 e 2.
4. Quando la frequentazione dei luoghi di cui ai commi 1 e 2 sia necessaria per motivi di lavoro ovvero per esi¬genze abitative, il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
15 E’ opportuno ricordare che l’allontanamento dalla casa familiare previsto dall’art. 282-bis c.p.p. non rientra tra le prescrizioni che il giudice può disporre nei confronti del minore, ai sensi degli articoli 19 e 20 del D.P.R. n. 448 del 1988, considerato che esse concernono le attività di studio e di lavoro o comunque altre attività utili all’educazione del minore e che l’art. 282-bis c.p.p., introdotto con la legge n. 154 del 2001 – che prevede at¬tività sostanzialmente diverse e preordinate alla tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti – non ha modificato la norma speciale che esclude che nei confronti dei minori possano essere applicate misure cautelari diverse da quelle previste nel capo II del D.P.R. n. 448 del 1988 (art. 19, comma prima, D.P.R. cit.) (Cass. pen. Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 20496).
b) L’ordine di non avvicinamento
Qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi con¬giunti, il giudice può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona.
L’ordine di non avvicinamento può essere contenuto nella stessa misura cautelare con cui si or¬dina l’allontanamento (art. 282-bis, co. 2 c.p.p.) ovvero disposta successivamente sempre come misura aggiuntiva e sempre che l’ordine di allontanamento non sia stato revocato o non abbia perso efficacia come misura cautelare (art. 282-bis, co. 4 c.p.p.), ovvero ancora – e questa è la novità introdotta nel 2009 – può costituire il contenuto di una autonoma misura cautelare (art. 282-ter c.p.p.); in tale ultimo caso con il provvedimento il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mante¬nere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa e, qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitual¬mente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone, potendo anche vietare all’imputato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con tali persone.
La giurisprudenza ha messo in evidenza che la misura cautelare del divieto di avvicinamento (come, peraltro, quella di allontanamento dalla casa familiare), si caratterizza, a differenza delle altre misure interamente predeterminate, per l’attribuzione al Giudice della cautela del compito, oltre che di verificare i presupposti applicativi ordinari, di riempire la misura di quelle prescrizioni essenziali per raggiungere l’obiettivo cautelare, ovvero per limitare le conseguenze della misura stessa. In tal senso, pertanto, avuto particolare riguardo al divieto di avvicinamento, il Giudice deve individuare i luoghi ai quali l’indagato non può avvicinarsi ed in presenza di ulteriori esigenze di tutela può prescrivere di non avvicinarsi ai luoghi frequentati dai parenti della persona offesa e addirittura indicare la distanza che l’indagato medesimo deve tenere da tali luoghi o da tali persone (Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26819).
c) L’ordine (accessorio) di pagamento periodico di un assegno
In analogia con quanto previsto in ambito civile il giudice, nella misura cautelare con cui prescrive l’allontanamento (art. 282-bis, co. 3 c.p.p.) o anche successivamente – e sempre che l’ordine di allontanamento non sia stato revocato o non abbia perso efficacia come misura cautelare (art. 282-bis, co. 4 c.p.p.) – può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno (ovvero ordina¬re al datore di lavoro dell’obbligato di provvedervi direttamente) a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare, rimangano prive di mezzi adeguati. Cass. pen. Sez. VI, 12 maggio 2009, n. 30736 ha confermato la prescrizione normativa secondo cui la misura del pagamento periodico di un assegno a favore dei conviventi di cui all’art. 282-bis, comma 3, c.p.p., può essere disposta unicamente in caso di applicazione dell’allontanamento dalla casa familiare.
L’ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo.
Il provvedimento in questione può essere modificato se mutano le condizioni dell’obbligato o del beneficiario, e viene revocato se la convivenza dovesse riprendere.
Sempre in analogia con quanto avviene sul versante degli ordini di protezione civili il provve¬dimento che dispone il pagamento periodo di un assegno a favore del coniuge o dei figli perde efficacia anche qualora sopravvenga l’ordinanza presidenziale prevista nell’articolo 708 del codice di procedura civile ovvero in altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli.
Come tuttavia ha ricordato Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2003, n. 264, una volta venuta meno la misura dell’allontanamento dalla casa familiare non possono perdere efficacia anche le misure patrimoniali che a seguito di quella misura si era reso necessario adottare. Di contrario avviso si è mostrata invece Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2003, n. 11361 secondo cui la misura patri¬moniale dell’ingiunzione del pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi ha carattere provvisorio ed è accessoria rispetto alla misura cautelare personale dell’allontana¬mento dalla casa familiare, venendo meno in caso di sentenza di condanna a pena detentiva condizionalmente sospesa. Ciò in applicazione del principio enunciato nell’art. 300 c.p.p. secondo cui le misure disposte in relazione a un determinato fatto perdono efficacia quando, in qualsiasi grado del processo, è pronunciata sentenza di condanna se la pena irrogata è dichiarata estinta ovvero condizionatamente sospesa.
II I presupposti per l’emanazione delle misure cautelari di protezione della vittima
Il primo presupposto – indicato nell’art. 280 c.p.p. 16 è collegato alla natura “coercitiva” delle misu¬
16 Art. 280 c.p.p. (Condizioni di applicabilità delle misure coercitive)
1. Salvo quanto disposto dai commi 2 e 3 del presente articolo e dall’art. 391, le misure previste in questo capo possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni.
2. La custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti
re cautelari in questione e consiste nel fatto che tali misure possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, fatto salvo quanto prescritto nel comma 6 dell’art. 282-ter c.p.p. (Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609- bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280)17.
Il secondo presupposto è ricavabile dall’art. 273 c.p.p. 18 che indica le condizioni generali di applica¬bilità delle misure cautelari e consiste nel fatto che a carico dell’imputato devono sussistere “gravi indizi di colpevolezza” di commissione di uno dei reati per i quali la misura cautelare viene disposta e naturalmente senza che la condotta dell’imputato appaia scriminata da una causa di giustifica¬zione ovvero senza che si profilino cause di non punibilità o di estinzione del reato o della pena.
L’ultimo presupposto attiene alla necessaria esistenza anche solo di una delle specifiche esigenze cautelari indicate nell’art. 274 c.p.p 19 e quindi specifiche ed inderogabili esigenze istruttorie ovve¬ro fuga o pericolo di fuga dell’imputato ovvero ancora il concreto e attuale pericolo di reiterazione della condotta da parte dell’imputato.
III Gli obblighi di comunicazione delle misure cautelari di protezione della vittima
La riforma del 2009 del sistema penale di contrasto alla violenza nelle relazioni familiari (decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11 convertito con modificazioni dalla legge 23 aprile 2009, n. 38) ha inserito nel codice di procedura penale l’art. 282-quater (intitolato “Obblighi di comunicazione”) nel quale si prevede, del tutto ragionevolmente, che “I provvedimenti di cui agli articoli 282-bis e 282-ter sono comunicati all’autorità di pubblica sicurezza competente, ai fini dell’eventuale adozio¬ne dei provvedimenti in materia di armi e munizioni. Essi sono altresì comunicati alla parte offesa e ai servizi socio-assistenziali del territorio. Quando l’imputato si sottopone positivamente ad un programma di prevenzione della violenza organizzato dai servizi socio-assistenziali del territorio, il responsabile del servizio ne dà comunicazione al pubblico ministero e al giudice ai fini della valu¬tazione ai sensi dell’articolo 299, comma 2”.
La previsione di questi obblighi di comunicazione è anche ribadita per il caso di revoca o sostituzio¬ne delle misure cautelari nell’art. 299 comma 2 c.p.p. (aggiunto dal decreto legge D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119) dove si prevede (con disposizione valida per tutte le misure cautelari) che “I provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 relativi alle misure previste dagli articoli 282-bis , 282-ter, 283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimen¬
di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni.
3. La disposizione di cui al comma 2 non si applica nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare.
17 Secondo Corte d’Appello Campobasso, 19 aprile 2013 le frasi minacciose pronunciate nel corso di litigi familiari e caratterizzate dalla vis polemica propria del particolare contesto, devono ritenersi idonee alla integra¬zione del delitto di minaccia grave ex art. 612, comma secondo, c.p., ogni qualvolta, accompagnate e precedute dal comportamento aggressivo e violento del prevenuto, siano capaci di produrre un turbamento psichico di notevole entità nella parte offesa, tanto da indurre la stessa a chiedere un provvedimento di allontanamento del soggetto dalla casa familiare.
18 Art. 273 c.p.p. (Condizioni generali di applicabilità delle misure)
1. Nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza.
1-bis. Nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli articoli 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1.
2. Nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giusti¬ficazione o di non punibilità o se sussiste una causa di estinzione del reato ovvero una causa di estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata.
19 Art. 274 (Esigenze cautelari)
1. Le misure cautelari sono disposte:
a) quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si pro¬cede, in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti;
b) quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione. Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede;
c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle inda¬gini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali é prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni. Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede.
ti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, devono essere immediatamente comunicati, a cura della polizia giudiziaria, ai servizi socio-assistenziali e al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa”).
IV La cumulabilità con altre misure cautelari
Gli ordini di protezione sono misure di contrasto alla violenza nelle relazioni familiari e quindi non è affatto escluso che la condotta violenta possa consistere anche in atti di violenza sessuale commessi contro minori. Situazione che non sfugge certamente al giudice penale, a differenza di quanto si è detto trattando degli ordini di protezione di competenza del giudice civile in relazione alle condotte violente contro minori di età.
Per tali situazioni il codice di procedura penale all’art. 288 prevede come possibile misura cautelare di natura interdittiva la “sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale”.20
In tal caso la misura cautelare dell’allontanamento o del divieto di avvicinamento potrà certamen¬te cumularsi con la misura cautelare appunto della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.
V L’aggravante penale del fatto commesso contro minori di età o in loro presenza
Nel trattare delle misure cautelari penali di protezione, non si può fare a meno di riferirsi anche alle aggravanti inserite dal legislatore nell’art. 61 del codice penale (Circostanze aggravanti comuni) a protezione delle vittime minori di età e a specificazione dell’aggravante comune dell’abuso di autorità e di relazioni domestiche.
Il riferimento è all’art. 61 n. 11-ter dove si prevede che costituisce un aggravante del reato “l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione” 21 e all’art. 61 n. 11-quinquies in cui si prevede l’aggravante dell’”avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà perso¬nale nonché nel delitto di cui all’art. 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza” 22
VI Il procedimento applicativo delle misure cautelari coercitive
Le misure cautelari sono disposte dal giudice delle indagini preliminari su richiesta del pubblico ministero, che presenta al giudice gli elementi su cui la richiesta si fonda (art. 291 c.p.p.).
In caso di necessità o urgenza il pubblico ministero può chiedere al giudice, nell’interesse della persona offesa, le misure patrimoniali provvisorie di cui all’articolo 282-bis. Il provvedimento perde efficacia qualora la misura cautelare sia successivamente revocata (art. 291, comma 2-bis c.p.p.).
Sulla richiesta del pubblico ministero il giudice provvede con ordinanza nella quale a pena di nullità deve essere contenuta, tra l’altro, la descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate nonché l’esposizione e la valutazione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta (art. 292 c.p.p.).
L’ordinanza è notificata all’imputato e successivamente depositata nella cancelleria del giudice che l’ha emessa insieme alla richiesta del pubblico ministero e agli atti da lui presentati. L’avviso del deposito è notificato al difensore che ha diritto di esame e di copia dei verbali (art. 293 c.p.p.).
L’interrogatorio della persona sottoposta alla misura cautelare dell’allontanamento deve avvenire non oltre dieci giorni dalla esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione. Mediante l’in¬terrogatorio il giudice valuta se permangono le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari ed eventualmente provvede alla revoca o alla sostituzione della misura disposta (art. 294 c.p.p.).
Entro dieci giorni dalla esecuzione o notificazione del provvedimento, l’imputato può proporre richiesta di riesame, anche nel merito, dell’ordinanza che dispone la misura coercitiva. La richie¬sta di riesame è presentata nella cancelleria del tribunale (del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l’ufficio del giudice che ha emesso l’ordinanza) che decide, in composizione collegiale con procedimento che si svolge in camera di consiglio. Entro dieci giorni dalla ricezione degli atti il tribunale, se non deve dichiarare l’inammissibilità della richiesta, annulla, riforma o conferma l’ordinanza oggetto del riesame decidendo anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza (art. 309 c.p.p.).
Se non vi è stata richiesta di riesame il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore possono sempre entro dieci giorni proporre appello contro l’ordinanza contenente la misura cautelare. Dell’appello è dato avviso all’autorità giudiziaria procedente che, entro il giorno successivo, tra¬smette al tribunale l’ordinanza appellata e gli atti su cui la stessa si fonda. Il procedimento davanti al tribunale si svolge in camera di consiglio. Il tribunale decide entro venti giorni dalla ricezione degli atti con ordinanza depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione.
Contro le decisioni emesse a seguito della richiesta di riesame ovvero a seguito dell’appello, il pub¬blico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura, l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione entro dieci giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell’av¬viso di deposito del provvedimento. Il ricorso può anche essere proposto direttamente contro l’ordinanza che ha emesso la misura cautelare coercitiva. Il ricorso è presentato nella cancelleria del giudice che ha emesso la decisione (ovvero del giudice che ha emesso la misura cautelare). Il giudice cura che sia dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente che, entro il giorno successivo, trasmette gli atti alla corte di cassazione la quale decide entro trenta giorni dalla rice¬zione degli atti (art. 311 c.p.p.).
VII Il potere della polizia giudiziaria di adozione delle misure cautelari in flagranza di reato
L’art. 384 c.p.p. 23 attribuisce agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria la facoltà di disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, l’allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti di cui all’art. 282-bis, comma 624 ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa.
Come ha ricordato Cass. pen. Sez. V, 6 febbraio 2018, n. 30114 affinché la polizia giudiziaria possa disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, l’allontanamento urgente dalla casa familiare (con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa), è necessario e nel contempo sufficiente che il soggetto sia colto in flagranza di uno dei reati di cui all’art. 282-bis, comma 6, c.p.p., ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa; in particolare, deve considerarsi integrato il requisito della fla¬granza nel caso in cui il soggetto profferisca frasi gravemente minacciose in guisa tale da essere la stesse sentite e riferite da un ufficiale di polizia giudiziaria, atteso che l’art. 282-bis, comma 6, include nel suo elenco il delitto di cui all’art. 612, co. 2, c.p., commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente.
VIII La revoca e la sostituzione delle misure
Secondo quanto previsto in via generale nell’art. 299 del codice di procedura penale, tutte le mi¬sure cautelari coercitive e interdittive sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità ovvero le esigenze cautelari.
Ugualmente quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non ap¬pare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con un’altra meno grave ovvero ne dispone l’applicazione con moda¬lità meno gravose.
I provvedimenti del giudice relativi alla revoca o alla sostituzione delle misure cautelari di pro¬tezione della vittima previste dagli articoli 282-bis , 282-ter, 283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, devono essere imme¬diatamente comunicati, a cura della polizia giudiziaria, ai servizi socio-assistenziali e al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa.
Il pubblico ministero e l’imputato richiedono la revoca o la sostituzione delle misure al giudice, il quale provvede con ordinanza entro cinque giorni dal deposito della richiesta.
La richiesta di revoca o di sostituzione delle misure cautelari di protezione della vittima previste dagli articoli 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona che non sia stata proposta in sede di interrogatorio di garanzia, deve essere contestualmente notificata, a cura della parte richiedente ed a pena di inam¬missibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa. Il difensore e la persona offesa possono, nei due giorni successivi alla notifica, presentare memorie in ordine alla richiesta di revoca o di sostituzione. Decorso il predetto termine il giudice provvede. Prima di provvedere deve sentire il pubblico ministero ma se nei due giorni successivi il pubblico ministero non esprime il proprio parere, il giudice può provvedere ugualmente.
Dopo la chiusura delle indagini preliminari, se l’imputato chiede la revoca o la sostituzione della misura con altra meno grave ovvero la sua applicazione con modalità meno gravose, il giudice, se la richiesta non è presentata in udienza, ne dà comunicazione al pubblico ministero, il quale, nei due giorni successivi, formula le proprie richieste. La richiesta di revoca o di sostituzione delle mi¬sure previste dagli articoli 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimenti di cui al comma 2-bis del presente articolo, deve essere contestualmente notificata, a cura della parte richiedente ed a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio.
IX Estinzione delle misure cautelari di protezione della vittima
Le misure disposte in relazione a un determinato fatto perdono immediatamente efficacia quando, per tale fatto e nei confronti della medesima persona, è disposta l’archiviazione ovvero è pronun¬ciata sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento. Ugualmente avviene quando, in qualsiasi grado del processo, è pronunciata sentenza di condanna se la pena irrogata è dichiarata estinta ovvero condizionatamente sospesa (art. 300 c.p.p.).
Naturalmente le misure coercitive perdono anche efficacia quando dall’inizio della loro esecuzione è decorso un periodo di tempo pari al doppio dei termini previsti dall’articolo 303 che indica, ap¬punto, i termini di durata massima della custodia cautelare (art. 308).

Appendice
Legge n. 154 del 4 Aprile 2001 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari)
Art. 1 (Misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare)
1. Dopo il comma 2 dell’articolo 291 del codice di procedura penale è aggiunto il seguente:
«2-bis. In caso di necessità o urgenza il pubblico ministero può chiedere al giudice, nell’interesse della persona offesa, le misure patrimoniali provvisorie di cui all’articolo 282-bis. Il provvedimento perde efficacia qualora la misura cautelare sia successivamente revocata».
2. Dopo l’articolo 282 del codice di procedura penale è inserito il seguente:
«Art. 282-bis – (Allontanamento dalla casa familiare). – 1. Con il provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede. L’e¬ventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita.
2. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
3. Il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati. Il giudice determina la misura dell’assegno tenendo conto delle circostanze e dei redditi dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del versamento. Può ordinare, se necessario, che l’assegno sia versato direttamente al beneficiario da parte del datore di lavoro dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante. L’ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo.
4. I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti anche successivamente al prov¬vedimento di cui al comma 1, sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia se è revocato o perde comunque efficacia il provvedimento di cui al comma 1. Il provvedimento di cui al comma 3, se a favore del coniuge o dei figli, perde efficacia, inoltre, qualora sopravvenga l’ordinanza prevista dall’articolo 708 del codice di procedura civile ovvero altro provvedimento del giudice civile in or¬dine ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli.
5. Il provvedimento di cui al comma 3 può essere modificato se mutano le condizioni dell’obbli¬gato o del beneficiario, e viene revocato se la convivenza riprende.
6. Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, commes¬so in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280».
Art. 2 (Ordini di protezione contro gli abusi familiari)
1. Dopo il titolo IX del libro primo del codice civile è inserito il seguente:
«Titolo IX-bis. ORDINI DI PROTEZIONE CONTRO GLI ABUSI FAMILIARI
Art. 342-bis (Ordini di protezione contro gli abusi familiari)
Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter.
Art. 342-ter (Contenuto degli ordini di protezione)
Con il decreto di cui all’articolo 342-bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in parti¬colare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il soste¬gno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata dell’ordine di protezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore ad un anno e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’uf¬ficiale sanitario».
Art. 3 (Disposizioni processuali)
1. Dopo il capo V del Titolo II del Libro quarto del codice di procedura civile è inserito il seguente:
«CAPO V-bis.
DEGLI ORDINI DI PROTEZIONE CONTRO GLI ABUSI FAMILIARI
Art. 736-bis.
(Provvedimenti di adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari).
Nei casi di cui all’articolo 342-bis del codice civile, l’istanza si propone, anche dalla parte perso¬nalmente, con ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante, che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica.
Il presidente del tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso. Il giudi¬ce, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato imme¬diatamente esecutivo.
Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare imme-diatamente l’ordine di protezione fissando l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. All’udienza il giudice conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione.
Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di protezione o rigetta il ricorso, ai sensi del se¬condo comma, ovvero conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione precedentemente adottato nel caso di cui al terzo comma, è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal secondo comma dell’articolo 739. Il reclamo non sospende l’esecutività dell’ordine di protezione. Il tribunale provvede in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile. Del collegio non fa parte il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Per quanto non previsto dal presente articolo, si applicano al procedimento, in quanto compa¬tibili, gli articoli 737 e seguenti».
Art. 4 (Trattazione nel periodo feriale dei magistrati)
1. Nell’articolo 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n.12, dopo le parole: «procedimenti cautelari,» sono inserite le seguenti: «per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari,».
Art. 5 (Pericolo determinato da altri familiari)
1. Le norme di cui alla presente legge si applicano, in quanto compatibili, anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente. In tal caso l’istanza è proposta dal componente del nucleo familiare in danno del quale è tenuta la condotta pregiudizievole.
Art. 6 (Sanzione penale)
1. Chiunque elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è punito con la pena stabilita dall’articolo 388, primo comma, del codice penale. Si applica altresì l’ultimo comma del medesimo articolo 388 del codice penale.
Art. 7 (Disposizioni fiscali)
1. Tutti gli atti, i documenti e i provvedimenti relativi all’azione civile contro la violenza nelle relazioni familiari, nonchè i procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti a ottenere la corre¬sponsione dell’assegno di mantenimento previsto dal comma 3 dell’articolo 282-bis del codice di procedura penale e dal secondo comma dell’articolo 342-ter del codice civile, sono esenti dall’im¬posta di bollo e da ogni altra tassa e imposta, dai diritti di notifica, di cancelleria e di copia nonché dall’obbligo della richiesta di registrazione, ai sensi dell’articolo 9, comma 8, della legge 23 dicem¬bre 1999, n. 488, e successive modificazioni.
Art. 8 (Ambito di applicazione)
1. Le disposizioni degli articoli 2 e 3 della presente legge non si applicano quando la condotta pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o nei confronti del quale è stata proposta domanda di separazione personale ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio se nel relativo procedimento si è svolta l’udienza di comparizione dei coniugi davanti al presidente prevista dall’articolo 706 del codice di procedura civile ovvero, rispettivamente, dall’ar¬ticolo 4 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni. In tal caso si applicano le disposizioni contenute, rispettivamente, negli articoli 706 e seguenti del codice di procedura civile e nella legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, e nei relativi procedimenti pos¬sono essere assunti provvedimenti aventi i contenuti indicati nell’articolo 342-ter del codice civile.
2. L’ordine di protezione adottato ai sensi degli articoli 2 e 3 perde efficacia qualora sia succes¬sivamente pronunciata, nel procedimento di separazione personale o di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio promosso dal coniuge istante o nei suoi confronti, l’ordinanza con¬tenente provvedimenti temporanei ed urgenti prevista, rispettivamente, dall’articolo 708 del codice di procedura civile e dall’articolo 4 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni.
Giurisprudenza
Cass. pen. Sez. V, 6 febbraio 2018, n. 30114 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché la polizia giudiziaria possa disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, l’allontanamento ur¬gente dalla casa familiare (con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa), è necessario e nel contempo sufficiente che il soggetto sia colto in flagranza di uno dei reati di cui all’art. 282-bis, comma 6, c.p.p., ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa; in particolare, deve considerarsi integrato il requisito della flagranza nel caso in cui il soggetto profferisca frasi gravemente minacciose in guisa tale da essere la stesse sentite e riferite da un ufficiale di polizia giudiziaria, atteso che l’art. 282-bis, comma 6, include nel suo elenco il delitto di cui all’art. 612, co. 2, c.p., commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 7 dicembre 2017, n. 29492 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342-bis c.c., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo, con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità, contenuta nell’art. 736-bis c.p.c., introdotto dall’art. 3 della l. n. 154 del 2001 – né con ricorso straordinario, ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15482 (Famiglia e Diritto, 2017, 12, 1069 nota di DANOVI)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari, di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c., l’attribuzione della competenza al tribunale in composizione monocratica, stabilita dall’art. 736-bis, comma 1, c.p.c., non esclude la “vis actrativa” del tribunale in composizione collegiale (nella specie chiamato a giudicare in ordine al conflitto familiare e all’affidamento di figli tra due ex conviventi more uxorio) che sia stato già incardinato avanti ad esso, atteso che una diversa opzione ermeneutica, che faccia leva sul solo tenore letterale delle citate disposizioni, ne tradirebbe la “ratio”, che è quella di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele ed evitare, a garanzia del preminente interesse del minore che sia incolpevolmente coinvolto, o del coniuge debole che esiga una tutela urgente, il rischio di decisioni intempestive o contrastanti ed incompatibili con gli accertamenti resi da organi giudiziali diversi.
Il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo, con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione nè con ricorso ordinario stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736 bis c.p.c., introdotto dalla L. 4 aprile 2001, n. 154, art. 3, (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari), né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Cass. pen. Sez. III, 22 settembre 2016, n. 5242 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È valida la notifica dell›avviso di deposito della sentenza all›imputato contumace effettuata, presso il domicilio dichiarato, a mani del familiare qualificatosi come convivente, a nulla rilevando che nel frattempo l›imputato sia stato sottoposto alla misura cautelare dell› allontanamento dalla casa familiare, in quanto l›applicazione di tale misura non comporta, di per sé, il venir meno del diretto collegamento con detto domicilio e la rescissione del rapporto di convivenza con i familiari che ivi si trovano, dovendosi quest›ultimo intendere come basato, più che sulla continuità della coabitazione, sulla persistenza dei vincoli che legano i membri di una stessa famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 17 settembre 2015, n. 17950 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il presupposto per l’applicazione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, di cui all’art. 282 bis cod. proc. pen., non è costituito dalla condizione di “attuale” coabitazione dei coniugi, bensì dall’esistenza di una situazione – che non deve necessariamente verificarsi all’interno della casa coniugale – per cui all’interno di una relazione familiare si manifestano condotte in grado di minacciare l’incolumità della persona. (Fattispecie in tema di maltrattamenti in famiglia).
Tribunale Milano, 18 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. deve essere richiesto direttamente dal titolare del diritto soggettivo leso, giusta la disposizione generale di cui all’art. 81 c.p.c. In particolare, il figlio maggiorenne non convivente, non può presentare istanza di protezione al fine di tutelare la condizione soggettiva della madre, oggetto di tur¬bative e molestie da parte di terzi. In questo caso, il ricorso è inammissibile per difetto di legitimatio ad causam, rilevabile d’ufficio. In caso di persona sottoposta ad amministrazione di sostegno, l’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c.può essere richiesto dall’amministratore previamente autorizzato dal giudice tutelare.
Cass. pen. Sez. VI, 3 giugno 2014, n. 36392 (Dir. Pen. e Processo, 2015, 9, 1156 nota di CIPRIANO)
In un procedimento per il reato di maltrattamenti in famiglia, anche in presenza di un grave quadro indiziario, la misura della custodia cautelare in carcere non può essere giustificata quando esistono altre misure meno invasive ma ugualmente idonee, come l’allontanamento dalla casa familiare. In ossequio ai principi generali di proporzionalità e adeguatezza delle misure coercitive, il giudice che disponga la misura e quello investito dell’i¬stanza di riesame sono tenuti a motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato con altre, meno invasive, misure coercitive.
Cass. pen. Sez. V, 19 marzo 2014, n. 27177 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È illegittima l›applicazione della misura cautelare dell›allontanamento a soggetti estranei alla casa familiare, in quanto l›estensione dell›operatività dell›art. 282 bis cod. proc. pen. al di fuori dei delitti commessi in ambi¬to familiare comporterebbe una violazione dei principi di stretta legalità e tassatività che governano la disciplina delle misure cautelari. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha censurato la decisione con cui il Tribunale del riesame, in riforma dell›ordinanza del Gip, ha applicato la misura cautelare di cui all›art. 282 bis cod. proc. pen. nei confronti dell›indagato accusato del delitto di atti persecutori nei confronti dei vicini).
Tribunale Firenze Sez. I, 5 marzo 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’inosservanza dell’ordine di allontanamento dalla casa familiare non costituisce condotta idonea ad integrare la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 650 c.p., poiché i provvedimenti caratteristici del giudice riguardano sempre un interesse particolare e non possono trovare sanzione nella menzionata norma, che ha come oggetto specifico della tutela penale l’interesse generale concernente la polizia di sicurezza. Ed invero, costituiscono una eccezione i casi in cui la inosservanza dei provvedimenti del Giudice è considerata come reato e sono quelli espressamente previsti da una norma penale, mentre, normalmente, i provvedimenti del Giudice sono eseguibili coattivamente o sono accompagnati da una sanzione particolare, di modo che non entrano nella sfera di appli¬cazione dell’art. 650 c.p..
Corte d’Appello Campobasso, 19 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le frasi minacciose pronunciate nel corso di litigi familiari e caratterizzate dalla vis polemica propria del particola¬re contesto, devono ritenersi idonee alla integrazione del delitto di minaccia grave ex art. 612, comma secondo, c.p., ogni qualvolta, accompagnate e precedute dal comportamento aggressivo e violento del prevenuto, siano capaci di produrre un turbamento psichico di notevole entità nella parte offesa, tanto da indurre la stessa a chiedere un provvedimento di allontanamento del soggetto dalla casa familiare.
Tribunale Milano, 17 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di famiglia prevede rimedi speciali, tipici e settoriali per porre rimedio a ciascuna delle possibili violazioni che uno dei partners dovesse porre in essere: garanzie per l’assegno di mantenimento (156 c.c.); provvedimenti atipici per le condotte aggressive (342-bis c.c.); sanzioni e risarcimento del danno (709-ter c.p.c.); modifica/re¬voca dei provvedimenti interinali (709, ult. comma, c.p.c.); ingiunzioni di pagamento in ragione delle condizioni di separazione o divorzio, costituenti titolo esecutivo; sequestro dei beni del coniuge allontanatosi (146 c.c.); presentazione della domanda di separazione o divorzio. In particolare, nel caso in cui uno dei coniugi ponga in essere condotte lesive della persona del congiunto, è dato ricorso agli ordini giudiziali ex art. 342-bis c.c., 736- bis c.p.c., nella cui sede sono anche ammesse statuizioni di tipo economico. Ne consegue che, in tutti questi casi, difetta la residualità richiesta dall’art. 700 c.p.c. per l’ammissibilità dello strumento cautelare.
Uff. indagini preliminari Milano, 10 dicembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, di cui all’art. 282-bis c.p.p., è applicabile per qual¬siasi reato e non limitatamente ai reati commessi in ambito familiare o all’interno dell’abitazione familiare. Tale soluzione, oltre ad essere confortata dalla collocazione sistematica dell’art. 282-bis c.p.p., risulta anche più favorevole al reo in termini di restrizione della libertà personale rispetto alla più gravosa misura cautelare che altrimenti dovrebbe essere applicata, vale a dire il divieto di dimora nel territorio di un determinato comune, ai sensi dell’art. 283 c.p.p..
Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26819 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La misura cautelare del divieto di avvicinamento, come quella di allontanamento dalla casa familiare, si carat¬terizza, a differenza delle altre misure interamente predeterminate, per l’attribuzione al Giudice della cautela del compito, oltre che di verificare i presupposti applicativi ordinari, di riempire la misura di quelle prescrizioni essenziali per raggiungere l’obiettivo cautelare, ovvero per limitare le conseguenze della misura stessa. In tal senso, pertanto, avuto particolare riguardo al divieto di avvicinamento, il Giudice deve individuare i luoghi ai quali l’indagato non può avvicinarsi ed in presenza di ulteriori esigenze di tutela può prescrivere di non avvicinar¬si ai luoghi frequentati dai parenti della persona offesa e addirittura indicare la distanza che l’indagato medesimo deve tenere da tali luoghi o da tali persone.
L’efficacia delle misure cautelari del divieto di avvicinamento e dell’allontanamento dalla casa familiare, funzio¬nali ad evitare il pericolo della reiterazione delle condotte illecite, è subordinata agli elementi con cui il Giudice le riempie di contenuti attraverso le prescrizioni che le norme gli consentono. Ne consegue che per tali misure appare necessaria la completa comprensione delle dinamiche alla base dell’illecito in relazione al quale sono adottate, nel senso che il Giudice è tenuto a modellare la misura in relazione alla situazione di fatto. Avuto parti¬colare riguardo alla misura di cui all’art. 282 ter c.p.p. assumono particolare rilievo le informazioni circa i luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa o dai suoi parenti, proprio in quanto funzionali al tipo di tutela che si tende ad assicurare attraverso l’allontanamento dell’autore del reato. Nell’ambito di tali luoghi, tuttavia, la norma prevede che vengano individuati luoghi determinati, poiché solo in tal modo il provvedimento assume una conformazione completa che ne consente non solo la esecuzione, ma anche il controllo in ordine all’intervenuta osservanza delle prescrizioni ivi contenute. La completezza e la specificità del provvedimento costituisce, altresì, una garanzia per un giusto contemperamento tra le esigenze di sicurezza incentrate sulla tutela della vittima ed il minor sacrificio della libertà di movimento della persona sottoposta alle indagini.
Cass. pen. Sez. VI, 15 aprile 2010, n. 17788 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il presupposto della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare di cui all’art. 282-bis cod. proc. pen., non è la condizione di “attuale” coabitazione dei coniugi, ma l’esistenza di una situazione – che non deve necessariamente verificarsi all’interno della casa coniugale – per cui all’interno di una relazione familiare si ma¬nifestano condotte in grado di minacciare l’incolumità della persona.
Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23633 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342-bis c.c., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo, con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità, contenuta nell’art. 736-bis c.p.c., introdotto dall’art. 3 della l. n. 154 del 2001 – né con ricorso straordinario, ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Tribunale Prato, 8 giugno 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi degli artt. 342 bis e 342 ter c.c. gli ordini di protezione contro gli abusi familiari possono essere adottati dal tribunale allorché le parti occupino (anche se in linea di mero fatto) lo stesso immobile, seppur senza formare un unico nucleo familiare; pertanto è irrilevante che sia controverso, tra le parti, se la codentenzione dell’alloggio abbia o meno un fondamento giuridico che la legittimi.
Cass. pen. Sez. VI, 12 maggio 2009, n. 30736 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La misura del pagamento periodico di un assegno a favore dei conviventi di cui all’art. 282-bis, comma 3, c.p.p., può essere disposta unicamente in caso di applicazione dell’allontanamento dalla casa familiare.
In tema di reati di maltrattamenti in famiglia, la misura patrimoniale del pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi prevista dall’art. 282 bis, comma terzo cod. proc. pen. è accessoria alla sola misura cautelare personale dell’allontanamento dalla casa familiare, non potendo pertanto essere applicata in relazione a misura personale di tipo diverso.
L’ingiunzione di pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi è accessoria della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare e non può essere, quindi, disposta in caso di applicazione di misure personali di tipo differente.
Tribunale Bari Sez. I, 3 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È inammissibile il reclamo avverso l’ordine di protezione adottato dal giudice istruttore nel processo di separazione.
Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È legittima la misura dell›allontanamento definitivo dalla casa familiare (ex art. 282 bis c.p.p.) nei confronti di chi, pur avendo abbandonato formalmente la casa, continua a sottoporre a «stalking» la coniuge. La predetta misura cautelare infatti non si rende inconciliabile con uno stato di fatto integrato dal già avvenuto abbandono della casa da parte del coniuge indagato atteso che la «ratio» del provvedimento cautelare si esprime in uno spettro valutativo di più ampia portata, includente i rapporti e le relazioni interpersonali del soggetto passivo che trascende la mera quotidianità di vita e di abitudini nel ristretto ambito delle sole mura domestiche del¬la casa familiare.
Tribunale Catania, 11 novembre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’articolo 8 della legge 154/2001, nel caso in cui penda giudizio di separazione personale fra i coniugi e sia stata celebrata l’udienza di comparizione dinanzi al presidente del tribunale, non sono applicabili gli articoli 342 bis e ter c.c. bensì le disposizioni contenute negli articoli 706 ss. c.p.c., con la conseguenza che saranno il presidente del tribunale – nell’ambito del potere di emanare i provvedimenti provvisori e urgenti nell’interesse del coniuge e della prole – ovvero il giudice istruttore ad adottare i provvedimenti aventi il contenuto degli ordini di protezione. Tali provvedimenti sono sempre revocabili e modificabili dal giudice istruttore e, in sede decisoria, dal Collegio, mentre avverso di essi non è possibile proporre reclamo ex artt. 736 bis ss. c.p.c.
Tribunale Piacenza, 23 ottobre 2008 (Foro Padano, 2010, 2, 431 nota di DANOVI GALIZIA)
Nelle fattispecie di c.d. violenza assistita, ove la vittima diretta dei maltrattamenti è un genitore e i figli vengono loro malgrado costretti ad assistervi, sussiste una sovrapposizione di competenze tra il giudice civile, adito ai sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c. e dell’art. 736-bis c.p.c., e il tribunale per i minorenni. Tale sovrapposizio¬ne di competenze non preclude al giudice civile di pronunciare – intervenuto decreto del tribunale per i minorenni che dispone, ai sensi degli artt. 333 e 336 c.c., l’allontanamento del genitore violento dalla casa familiare e l’affidamento del figlio minore – non solo l’ allontanamento dalla casa familiare del medesimo genitore, ma anche la cessazione della condotta pregiudizievole, quale contenuto essenziale dell’ordine di protezione di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c..
Cass. pen. Sez. VI, 3 luglio 2008, n. 28958 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare può essere applicata pur quando manchi la convi¬venza tra le parti e l’indagato abbia già abbandonato il domicilio domestico.
Tribunale Barletta, 1 aprile 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va accolto il ricorso per ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. quando la condotta di uno dei coniugi, autore di frequenti episodi di violenza fisica e morale, è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica e morale e alla libertà dell’altro coniuge: anche se talora accompagnato da misure a contenuto economico, l’ordine di cessazione della condotta e di allontanamento del coniuge violento dalla casa familiare non è riconducibile né ai provvedimenti cautelari atipici ex art. 700 c.p.c. né a quelli temporanei e urgenti emessi dal presidente del tribunale ex art. 708 c.p.c..
Cass. pen. Sez. VI, 4 febbraio 2008, n. 25607 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il presupposto della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare di cui all’art. 282-bis cod. proc. pen., non è la condizione di coabitazione “attuale” dei coniugi, ma l’esistenza di una situazione – che non deve necessariamente verificarsi all’interno della casa coniugale – per cui all’interno di una relazione familiare si ma¬nifestano condotte in grado di minacciare l’incolumità della persona.
Tribunale Napoli, 19 dicembre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È ammissibile la domanda volta a conseguire l’ordine di protezione nei confronti del coniuge separato, anche allorché sia cessata la convivenza.
Tribunale Bologna, 25 maggio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche in assenza di atti gravemente pregiudizievoli per l’integrità fisica del coniuge, va adottato l’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. e disposto l’allontanamento dalla casa familiare nei confronti del marito che con l’uso della violenza e più in generale con le modalità adottate nel rapportarsi al coniuge limiti la libertà personale della moglie.
Tribunale Reggio Emilia, 10 maggio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove sia in corso il procedimento previsto dall’art. 736-bis c.p.c. (adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari), l’istanza di una delle parti volta a regolare il diritto di visita al figlio minore (naturale), è inammissibile, spettando la competenza relativa all’affidamento dei figli naturali e alla disciplina del diritto di visita del genitore non affidatario al Tribunale dei Minorenni, in forza dell’art. 38 disp. att. c.c.. La provvisorietà dell’assegno periodico previsto a norma dell’art. 342-ter c.c. – la cui funzione ed efficacia è limitata alla durata dell’ordine di protezione o, comunque, al periodo di tempo anteriore all’eventuale provvedimento successivo emesso dal giudice competente, volto a garantire il diritto al mantenimento di soggetti bisognosi – si evince dal tenore testuale della predetta disposizione. La cognizione relativa alla domanda inerente alla contribuzione del genitore (non più convivente) al mantenimento della prole, ove proposta nel giudizio volto all’affidamento del naturale, deve ritenersi spettante al Tribunale dei Minorenni.
Nel procedimento di reclamo contro il decreto emesso ex art. 342-bis c.c. è inammissibile l’istanza con cui la parte reclamata chiede l’applicazione delle misure previste dall’art. 709-ter c.p.c. lamentando il mancato paga¬mento dell’assegno periodico disposto con l’ordine di protezione.
Va accolto il ricorso per ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. quando la condotta di uno dei conviventi, autore di un episodio di violenza fisica in danno dell’altro e alla presenza del figlio minore (il fatto, maturato in un conte¬sto di conflittualità dipendente dalla crisi del rapporto affettivo, era stato preceduto da un episodio di minacce), è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica e morale e alla libertà dell’altro convivente e pregiudica altresì lo sviluppo morale ed educativo del figlio (nella specie, un bambino di neppure tre anni, che aveva assistito in casa all’aggressione della madre ad opera del padre).
Cass. pen. Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 20496 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’allontanamento dalla casa familiare previsto dall’art. 282-bis c.p.p. non rientra tra le prescrizioni che il giu¬dice può disporre nei confronti del minore, ai sensi degli articoli 19 e 20 del D.P.R. n. 448 del 1988, considerato che esse concernono le attività di studio e di lavoro o comunque altre attività utili all’educazione del minore e che l’art. 282-bis c.p.p., introdotto con la legge n. 154 del 2001 – che prevede attività sostanzialmente diverse e preordinate alla tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti – non ha modificato la norma speciale che esclude che nei confronti dei minori possano essere applicate misure cautelari diverse da quelle previste nel capo II del D.P.R. n. 448 del 1988 (art. 19, comma prima, D.P.R. cit.).
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2007, n. 625 (Famiglia e Diritto, 2007, 6, 571 nota di PRESUTTI)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342 bis cod. civ., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare non è impugnabile per cassazione nè con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736 bis cod. proc. civ., introdotto dalla L. 4 aprile 2001, n. 154, art. 3 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) -, nè con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacchè detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività”. Infatti per l’ammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost. “non è sufficiente che il provvedimento abbia inciso su diritti soggettivi, ma occorre che esso abbia deciso una controversia su diritti soggettivi con attitudine al giudicato o quanto meno con attitudine “pro iudicato”. Il decreto di concessione dell’ordine di protezione contro gli abusi fa¬miliari non ha le indicate caratteristiche, posto che ha una durata temporanea, prorogabile solo per gravi motivi (art. 2, legge citata), perde di efficacia qualora nel procedimento personale di separazione personale dei coniugi, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio siano pronunziati i provvedimenti provvisori previ¬sti rispettivamente dall’art. 708 c.p.c. e dalla L. n. 898 del 1970, art. 4 ed è volto a tutelare non interessi indi¬viduali ma l’interesse sociale alla tranquillità delle famiglie. In ipotesi di diniego della invocata misura protettiva, nessuna norma preclude la reiterazione della istanza di adozione dei provvedimenti di cui all’art. 342 ter c.c..
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342-bis cod. civ., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736-bis cod. proc. civ., introdotto dall’art. 3 della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) -, né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Tribunale Padova, 31 maggio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Può ritenersi sussistente il requisito della convivenza, al fine di emettere l’ordine di allontanamento dall’abitazio¬ne familiare nel caso di conflittualità tra fratelli conviventi, pur quando vi sia stato l’allontanamento, provocato dal profondo timore di subire violenza fisica del congiunto, mantenendo peraltro nell’abitazione familiare il centro degli interessi materiali ed affettivi.
Tribunale Modena, 30 maggio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La reiterazione di atti di aggressività del figlio nei confronti dei genitori, idonea ad arrecare nel tempo una rilevante lesione a beni giuridici fondamentali quali la dignità delle persone, la serenità della vita familiare, la funzione di guida e di indirizzo che spetta ai genitori nei confronti dei figli, giustifica l’adozione di un ordine di protezione. Ne consegue che se non viene meno il dovere dei genitori di istruire, mantenere ed educare i figli, questi possono nondimeno essere allontanati dalla casa familiare qualora la loro condotta ingiustificatamente aggressiva e violenta, protrattasi nel tempo, sia idonea ad arrecare gravi danni ai genitori.
Cass. pen. Sez. VI, 29 marzo 2006, n. 18990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis cod. proc. pen.) è applicabile anche quando l’indagato abbia già abbandonato il domicilio domestico per intervenuta separazione coniugale.
Tribunale Messina, 24 settembre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La figlia maggiorenne che abbia posto in essere condotte reiterate consistenti in aggressioni fisiche e verbali nei confronti del padre convivente può essere destinataria dell’ordine di allontanamento dalla casa familiare ai sensi degli art. 342 bis e ter c.c. ma, ove il soggetto allontanato non abbia una propria autonomia economica, il giudice deve contestualmente disporre a carico del padre l’obbligo di pagamento di un assegno periodico ai sensi degli art. 148 e 342 ter, comma 2, c.c.
Tribunale Bologna Sez. I, 22 marzo 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le misure di tutela di cui agli artt. 342 bis e 342 ter c.c. possono essere accordate anche se non sussiste tra i due soggetti della coppia una situazione di convivenza, intesa quale perdurante coabitazione, al momento della proposizione della domanda. Integrano il presupposto del grave pregiudizio all’integrità fisica e morale, ai fini dell’art. 342 bis c.c., gli atteggiamenti intimidatori e violenti tenuti nei confronti del nucleo familiare.
Cass. civ. Sez. I, 5 gennaio 2005, n. 208 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di ordini di protezioni contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342 bis c.c., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736 bis c.p.c., introdotto dall’art. 3 della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) -, né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Tribunale Catania, 2 ottobre 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussistono i presupposti per l’applicazione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare quan¬do, in presenza di gravi indizi di colpevolezza per il reato di cui all’art. 572 c.p., ricorrono le esigenze cautelari, ed in particolare la reiteratamente manifestatasi inclinazione collerica dell’indagato trovi alimento nel permanere delle condizioni di conflittualità con la moglie e i parenti di lei, così da riaccendersi a ogni occasione de contatto.
Tribunale Reggio Emilia, 16 settembre 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contenuto dell’ordine di protezione emesso ai sensi dell’art. 342-ter c.c. non può riguardare la disciplina del diritto di visita dei figli da parte del genitore destinatario, trattandosi di materia riservata alla competenza inde¬rogabile del tribunale dei minorenni.
Tribunale Bari, 28 luglio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non può essere concesso l’ordine di allontanamento dalla casa familiare in presenza di una situazione di reci¬proca incomunicabilità ed intolleranza tra soggetti conviventi, di cui ciascuna delle parti imputa all’altra la re¬sponsabilità, quante volte i litigi, ancorché aspri nei toni, non siano stati aggravati da violenze fisiche o minacce in danno del ricorrente o non si siano tradotti in un vulnus alla dignità dell’individuo di entità non comune, vuoi per la particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, vuoi per le modalità «forti» dell’offesa arrecata, vuoi per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso.
Il presupposto dell’ordine di protezione non è la condotta in sé del convivente nei cui confronti si richiedono le misure di protezione, bensì l’esistenza di un pregiudizio grave all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà, patito da un familiare convivente, imputabile in termini causali alla condotta dell’altro (nel caso di specie, è stata negata la concessione della misura richiesta sul duplice presupposto della mancanza: a) di fatti violenti, dai quali siano derivate non insignificanti lesioni alla persona di uno dei soggetti protetti, ovvero di una situazione di con¬flittualità tale da poter prevedibilmente dare adito al rischio concreto ed attuale per uno dei familiari conviventi di subire violenze gravi dagli altri; b) di un “vulnus” alla dignità dell’individuo di entità non comune, in relazione alla particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, ovvero per le modalità forti dell’offesa arrecata e per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso).
Tribunale Catania Sez. I, 22 maggio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’adozione degli ordini di protezione da parte del giudice civile è divenuta ammissibile pur in presenza di pro¬spettazioni di fatti in astratto integranti gli estremi di reati perseguibili d’ufficio, essendo stato abrogato il limite previsto in origine. Qualora ricorra il presupposto del grave pregiudizio all’integrità fisica, il giudice civile può ordinare la cessazione della condotta pregiudizievole e l’immediato allontanamento dalla casa familiare del con¬vivente violento.
Tribunale Desio, 29 ottobre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il marito che si sia reso autore di insulti e aggressioni nei confronti della propria moglie, oltre che di aggressioni con arma da taglio nei confronti di una parente stretta di quest’ultima, deve essere allontanato dalla casa coniu¬gale con un provvedimento emesso inaudita altera parte.
Tribunale Bari, 29 maggio 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di condotte, da ambo i lati, gravemente pregiudizievoli e inosservanti degli obblighi gravanti sui coniugi ex art. 143 c. c., è inibito al giudice concedere l’ordine di protezione di cui all’art. 2 L. 4 aprile 2001 n. 134 (recante “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”), disposizione che mira a tutelare i soli soggetti deboli all’interno della conflittualità familiare; in assenza d’emissione della misura di protezione ‘non patrimo¬niale’ non può il giudice, che pur rilevi l’inadempimento dell’altro coniuge all’obbligo di mantenimento ex artt. 143-147 c. c., riconoscere il diritto alla percezione dell’assegno periodico, che è correlato ex art. 142-ter, co. 2°, c.c., con rapporto d’innegabile accessorietà, all’emissione della misura principale ‘non patrimoniale’ di cui al co. 1° stesso articolo.
Uff. indagini preliminari Pavia, 20 marzo 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare di cui all’art. 282-bis c.p.p. può essere disposta nei confronti dell’indagato del reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. per scongiurare, in pendenza di un procedimento di separazione personale che abbia acuito la tensione familiare, il pericolo di protrazione di episodi di violenza.
Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2003, n. 264 (Studium juris, 2003, 1115 nota di MARANDOLA)
Una volta venuta meno la misura dell’allontanamento dalla casa familiare non possono perdere efficacia anche le misure patrimoniali che a seguito di quella misura si era reso necessario adottare.
Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2003, n. 11361 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La misura patrimoniale dell’ingiunzione del pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi, le quali, per effetto della misura cautelare di allontanamento dalla casa familiare, rimangano prive di mezzi ade¬guati, eventualmente disposta dal giudice ex art. 282-bis c.p.p., ha carattere provvisorio ed è accessoria rispetto alla misura cautelare personale dell’allontanamento dalla casa familiare. In caso di sentenza di condanna a pena detentiva condizionalmente sospesa perdono efficacia sia la misura cautelare personale, sia quella patrimoniale.
Tribunale Genova, 7 gennaio 2003 (Famiglia e Diritto, 2004, 387 nota di CARRERA)
Il comportamento violento del padre nei confronti della madre, nonché la conseguente querela e ricorso per separazione presentati da questa, rendono opportuno ordinare, nell’interesse del minore, la cessazione della condotta violenta, disporre l’allontanamento dalla casa familiare e prescrivere il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla moglie e dai figli.
Tribunale Napoli, 18 dicembre 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La normativa introdotta dalla legge 4 aprile 2001, n. 154 per la repressione degli abusi familiari trova applica¬zione limitatamente alle ipotesi di abuso poste in essere da conviventi (nella specie è stata esclusa l’applicabilità della suddetta normativa in un caso di abuso posto in essere dai genitori di uno dei coniugi, non conviventi con questi ultimi).
Trib. Minorenni L’Aquila, 19 luglio 2002 (Famiglia e Diritto, 2003, 5, 482 nota di DOLCINI)
Non solo gli abusi o i maltrattamenti, commessi direttamente sulla persona del minore, ma anche quelli indiretti, perpetrati nei confronti di stretti congiunti a lui cari (quali la visione da parte del minore di ripetute aggressioni fisiche alla madre da parte del padre) integrano un vero e proprio abuso o maltrattamento del minore, tali da legittimare l’immediato allontanamento del marito e padre dalla casa familiare.
Tribunale Bari, 18 luglio 2002 (Famiglia e Diritto, 2002, 6, 623 nota di DE MARZO)
Per potersi configurare il “grave pregiudizio all’integrità morale” di un coniuge, che legittima il ricorso ex art. 342 bis c.c., deve verificarsi un “vulnus” alla dignità dell’individuo di entità non comune, o per la particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, o per le modalità – forti – dell’offesa arrecata, o per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso (nella specie, si è escluso che tale pregiudizio sia ravvisabile nel comportamento del marito che, nell’ambito di una crisi coniugale im¬provvisamente insorta da pochi mesi, non fornisce alla moglie il denaro occorrente per le esigenze primarie di quest’ultima e della famiglia, provvedendo però in prima persona al reperimento delle provviste domestiche e a talune spese mediche).
Solo la celebrazione dell’udienza di comparizione davanti al Presidente ex art. 706 c.p.c. o ex art. 4 l. n. 898 del 1970 preclude l’accoglimento del ricorso per La protezione contro gli abusi familiari. Ne deriva che, ove tale udienza non si sia tenuta, la domanda prevista dall’art. 342 bis c.c. è senz’altro ammissibile, nonostante la con¬temporanea o la previa proposizione del ricorso per separazione personale o per divorzio.
Tribunale Firenze, 15 luglio 2002 (Famiglia e Diritto, 2003, 3, 263 nota di DE MARZO
L’ordine di pagamento periodico di un assegno è accessorio al provvedimento di allontanamento dalla casa fa¬miliare.
II reclamo avverso il provvedimento con il quale venga concesso l’ordine di protezione contro gli abusi familiari introduce un giudizio avente natura di revisio prìorìs instantiae, con la conseguenza che è inammissibile la pro¬duzione di documenti nuovi e la richiesta di assunzione di prove costituende.
Laddove il richiedente l’ordine di protezione contro gli abusi familiari imposti la propria istanza come prodromica al giudizio di separazione, le spese del procedimento devono essere liquidate all’esito di quest’ultimo giudizio.
Tribunale Roma, 25 giugno 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare può essere applicata non solo per far cessare una convivenza a rischio, ma anche per impedire che riprenda, contro la volontà della persona offesa, una convivenza già temporaneamente cessata (applicazione in tema di maltrattamenti in famiglia).
Tribunale Napoli, 1 febbraio 2002 (Famiglia e Diritto, 2002, 5, 504 nota di FIGONE)
Non può essere accolto il ricorso ex art. 342 bis c.c., in difetto del presupposto della convivenza tra l’istante ed il soggetto cui viene addebitato il comportamento violento (nella specie, la ricorrente lamentava di essere stata costretta ad abbandonare la casa coniugale a fronte di intimidazioni dei genitori e dei fratelli del marito, non conviventi con la coppia).
Tribunale Bari, 20 dicembre 2001 (Famiglia e Diritto, 2002, 4, 397 nota di PETITTI)
Il ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto dopo il deposito del ricorso per separazione giudiziale ma prima della udien¬za presidenziale, volto ad ottenere un ordine di protezione familiare (nella specie allontanamento del coniuge violento) deve essere dichiarato inammissibile perché sussistente lo specifico rimedio offerto dalla l. n. 154 del 2001, ovvero il ricorso ex art. 342 bis c.c.
Pur non atteggiandosi il ricorso ex art. 342 bis c.c. ad azione cautelare in senso stretto, in difetto della impre¬scindibile strumentalità rispetto ad un successivo giudizio di merito, non prescritto nella l. n. 154 del 2001, esso è un mezzo sovrapponibile al ricorso ex art. 700 c.p.c.
Le violente aggressioni verbali e minacce di arrecare mali ingiusti ledono in modo attuale e concreto l’integrità morale e la libertà del convivente e sono tali da giustificare, in mancanza di fatti integranti reati perseguibili d’uf¬ficio, l’adozione da parte del giudice civile dei provvedimenti ex art. 342 ter c.c. (nella specie ordine di cessazione della condotta pregiudizievole ed allontanamento dalla casa familiare del convivente violento).
Tribunale Trani, 12 ottobre 2001 (Famiglia e Diritto, 2002, 4, 395 nota di PETITTI)
Il pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente deve essere causato dalla condotta pregiudizievole del coniuge o di altro convivente, ragionevolmente intendendosi con tale termine reiterate azioni ravvicinate nel tempo e consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati dalla l. n. 154 del 2001 in modo che ne sia gravemente e senza soluzioni di continuità temporale alterato il regime di condotta pregiudizie¬vole prevista dalla norma singoli episodi compiuti a distanza di considerevole tempo tra loro nei quali, peraltro, non sia ravvisabile la piena consapevolezza dell’autore (nella fattispecie l’autore della condotta era affetto da turbe psichiche e mentali). Costituisce dato assorbente, in virtù della riserva contenuta nell’art. 342 bis c.c., il verificarsi di episodi identificabili come reati perseguibili d’ufficio.
Tribunale Palermo, 4 giugno 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va allontanato dalla casa coniugale il marito che, con l’appoggio e la partecipazione attiva dei propri familiari, ha aggredito ed insultato la moglie, alla presenza, per di più, della figlia comune in tenerissima età; al medesimo va, altresì impartito il divieto di avvicinarsi all’abitazione dei familiari della moglie, e l’ordine di versare a quest’ulti¬ma, mensilmente, un assegno a titolo di contributo al mantenimento della minore.

Notifica della sentenza: gli effetti si producono anche per il notificante dalla data in cui la notifica viene eseguita al destinatario

Cassazione Sez. Un. Civili, 04 Marzo 2019, n. 6278. Est. Lombardo.
FATTI DI CAUSA
1. – B.F. esercitò l’azione di manutenzione nei confronti di M.F., proprietario di un fondo posto a confine con quello dell’attore, chiedendo che al convenuto fosse inibita la costruzione di un muro a distanza illegale dal confine e che venisse ordinata la demolizione delle opere già edificate.
Con sentenza n. 2694 del 2006, il Tribunale di Salerno, in parziale accoglimento della domanda attorea, condannò il convenuto a ridurre a un’altezza non superiore ai tre metri – come prescritto dall’art. 878 c.c. – il muro eretto a confine con la proprietà del ricorrente, nel tratto individuato dal C.T.U.
2. – L’attore notificò al convenuto la sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 285 c.p.c., ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione; e, successivamente, propose appello avverso detta decisione, lamentando che il Tribunale non aveva accolto la sua richiesta di ordinare anche la demolizione del terrapieno artificialmente creato dal M. sul proprio fondo a distanza non legale.
Costituendosi nel giudizio di appello, il M. eccepì, tra l’altro, la tardività dell’atto di gravame, in quanto notificato (in data 23/10/2006) oltre il termine di giorni trenta di cui all’art. 325 c.p.c., decorrente – a suo dire – dal 19/9/2006, data nella quale l’attore aveva consegnato all’ufficiale giudiziario la sentenza di primo grado ai fini della notifica ex art. 285 c.p.c..
3. – Con sentenza n. 512 del 2013, la Corte di Appello di Salerno rigettò l’eccezione di inammissibilità del gravame e accolse l’impugnazione, riformando la sentenza di primo grado nei termini sollecitati dall’appellante.
Per quanto rileva nel presente giudizio di legittimità, la Corte territoriale ritenne tempestivo l’appello dell’attore sul rilievo che il principio secondo il quale la notificazione della sentenza determina il decorso del termine breve per l’impugnazione anche per il notificante (c.d. efficacia bilaterale della notificazione della sentenza) deve essere inteso nel senso che la decorrenza del termine a carico del predetto inizia soltanto dal momento in cui la notificazione si è perfezionata nei riguardi del destinatario, non potendo in materia operare la regola della scissione soggettiva degli effetti della notificazione.
4. – Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso M.F. sulla base di un unico motivo.
Il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata e la violazione degli artt. 149, 170, 325 e 326 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto che il termine breve per l’impugnazione decorra per la parte notificante dal momento del perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario, piuttosto che dal momento della consegna della copia della sentenza all’ufficiale giudiziario notificatore. Tale conclusione si porrebbe in patente contrasto sia col principio per cui il termine decorre dal momento in cui si ha conoscenza legale del provvedimento da impugnare, sia col principio fissato dall’art. 149 c.p.c., secondo cui la notifica si perfeziona per il notificante con la consegna del plico all’ufficiale giudiziario.
Ha resistito con controricorso B.F..
5. – All’esito dell’udienza pubblica del 22 febbraio 2018, la Seconda Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 10507 del 3 maggio 2018, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto sincronico nella giurisprudenza di legittimità sulla questione di diritto sottoposta col ricorso.
In particolare, l’ordinanza interlocutoria ha sottolineato come, nella giurisprudenza della Corte, esistano due contrapposti orientamenti in ordine alla individuazione – per il notificante – del dies a quo del termine breve per impugnare:
– un primo orientamento, di cui è espressione la sentenza n. 883 del 2014, individua il dies a quo del termine breve nel momento in cui il notificante consegna all’ufficiale giudiziario la sentenza o l’atto di impugnazione da notificare, essendo detta consegna un fatto idoneo a provare in modo certo, e con data certa, la conoscenza della sentenza da parte dell’impugnante, in applicazione analogica del principio di cui all’art. 2704 c.c., comma 1, ultimo periodo;
– un secondo orientamento, nel quale si iscrive la sentenza n. 9258 del 2015, afferma invece che la bilateralità degli effetti della notifica della sentenza per il notificante e per il destinatario implica contestualità degli effetti e, quindi, decorrenza del termine breve dalla medesima data.
Secondo il Collegio rimettente, i due orientamenti sono insuscettibili di essere ricondotti ad unità e, in via di principio, entrambi sostenibili.
Il riferimento alla “notificazione” da parte dell’art. 326 c.p.c., ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, potrebbe essere correlato sia al principio della “presunzione di conoscenza” della sentenza che incombe su tutte le parti coinvolte nel procedimento di notifica, sia al principio, di creazione dottrinale, dell’effetto bilaterale della notifica che presuppone, invece, il completamento del procedimento di notificazione. Il Collegio rimettente chiede perciò alle Sezioni Unite di verificare quale dei due principi (quello della “presunzione di conoscenza” della sentenza da impugnare o quello della “bilateralità sincronica” degli effetti della notificazione della sentenza) garantisca meglio coerenza e razionalità del sistema normativo.
6. – Il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, che sulla questione la Corte pronunci a Sezioni Unite.
7. – Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Ragioni della decisione
1. – Le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere la seguente questione di diritto: se, in tema di notificazione della sentenza ai sensi dell’art. 326 c.p.c., il termine di impugnazione di cui al precedente art. 325 decorra, per il notificante, dalla data di consegna della sentenza all’ufficiale giudiziario ovvero dalla data di perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario.
Ai fini della soluzione di tale questione appare opportuno svolgere alcune essenziali premesse volte a illustrare l’attuale configurazione codicistica del termine “breve” per impugnare, sotto i profili ontologico e funzionale.
2. – Il codificatore processuale del 1940, accanto a talune fattispecie particolari in cui ha stabilito termini di impugnazione “mobili”, la cui decorrenza è ancorata a un momento non prestabilito (così per la revocazione straordinaria ai sensi dell’art. 395 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 6, e dell’art. 397 c.p.c.; nonchè per l’opposizione di terzo revocatoria di cui all’art. 404 c.p.c., comma 2) oppure alla data di comunicazione della sentenza (così per il regolamento di competenza ai sensi dell’art. 47 c.p.c., comma 2; e per l’impugnazione del pubblico ministero ai sensi dell’art. 72 c.p.c.), ha previsto poi in via generale, per tutte le altre impugnazioni, due termini per impugnare: un termine c.d. “breve” (artt. 325 e 326 c.p.c.), che costituisce eredità del codice previgente, la cui decorrenza è rimessa alla iniziativa delle parti; ed uno c.d. “lungo” (art. 327 c.p.c.), la cui decorrenza è invece indipendente dalla iniziativa dei contendenti.
La previsione di un termine di impugnazione indipendente dalla iniziativa delle parti costituisce espressione della visione pubblicistica del fenomeno processuale che ha ispirato il vigente codice; essa manifesta l’interesse dello Stato a non lasciare indefinitivamente pendenti le cause e ad assicurare – piuttosto – la sollecita formazione del giudicato e, con esso, la certezza dei rapporti giuridici.
Il termine lungo di impugnazione, previsto dall’art. 327 c.p.c., decorre dalla venuta ad esistenza giuridica della sentenza, che si ha con la sua pubblicazione mediante il deposito nella cancelleria (art. 133 c.p.c.), giacchè tale adempimento rende la sentenza conoscibile dalle parti, che ne hanno dunque conoscenza legale, essendo loro onere informarsi tempestivamente della decisione che le riguarda, mediante l’uso della ordinaria diligenza, dovuta in rebus suis.
Il termine lungo in questione (di durata annuale, secondo l’originario testo dell’art. 327 c.p.c.) decorre dalla pubblicazione della sentenza indipendentemente dal rispetto, da parte della cancelleria, degli obblighi di comunicazione alle parti (da ultimo, Cass., Sez. 5, 08/03/2017, n. 5946; v. anche Corte Cost., sent. n. 297 del 2008, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 327 c.p.c., comma 1, in riferimento all’art. 24 Cost.; nonchè Corte Cost., sent. n. 584 del 1990) e vale anche nei confronti delle parti contumaci, qualora non ricorrano le condizioni ostative di cui all’art. 327 c.p.c., comma 2, (Cass., Sez. Un., 05/02/1999, n. 26). Esso opera, peraltro, anche per le impugnazioni in cui il dies a quo venga fatto normalmente decorrere dalla comunicazione del provvedimento ove questa sia mancata (come avviene nei casi di regolamento di competenza, di appello ex art. 702 quater, avverso l’ordinanza decisoria che ha definito il procedimento sommario o di ricorso per cassazione per saltum nel caso di cui all’art. 348 ter c.p.c.).
L’esigenza pubblicistica di accelerazione della formazione del giudicato, posta a fondamento della previsione codicistica di un termine lungo di impugnazione automaticamente decorrente – nei confronti di tutte le parti – per il mero fatto della pubblicazione della sentenza, trova ora nuovo fondamento nel principio costituzionale della “ragionevole durata” del processo di cui all’art. 111 Cost. (come modificato dalla Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) ed è stata una delle ragioni ispiratrici della riforma del rito civile introdotta dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69. Questa, da un lato, ha modificato l’art. 327 c.p.c., dimidiando l’originario termine lungo annuale di impugnazione, e, dall’altro, ha previsto, in seno al “procedimento sommario di cognizione”, la decorrenza “officiosa” (svincolata, cioè, da un’attività notificatoria su impulso di parte) del termine breve per proporre appello (trenta giorni) dalla comunicazione a cura della cancelleria dell’ordinanza decisoria (art. 702 quater), che, ove non appellata entro detto termine, passa in giudicato. Con l’introduzione dell’art. 348-ter (ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con L. 7 agosto 2012, n. 134) è stata poi prevista anche la decorrenza officiosa del termine breve (sessanta giorni) per proporre ricorso per cassazione, dipendente – analogamente a quanto previsto dall’art. 702 quater, dalla comunicazione, a cura della cancelleria, dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’appello ai sensi del precedente art. 348 bis c.p.c..
3. – E tuttavia, accanto alla previsione di un termine lungo di impugnazione o, in talune ipotesi, di termini brevi decorrenti officiosamente, permane – nel sistema processuale – il tradizionale istituto, di natura privatistica, della notificazione della sentenza a cura della parte interessata, ai fini della decorrenza di un termine “breve” (artt. 325 e 326 c.p.c.).
Si tratta di un istituto che attribuisce alla parte un vero e proprio “diritto potestativo” di natura processuale, cui corrisponde una soggezione dell’altra parte.
Attraverso la notificazione della sentenza, infatti, la parte ha il potere di operare un mutamento della situazione giuridica dell’altra parte (che diviene soggetto passivo dell’attività processuale altrui), assoggettandola – secondo una sua scelta di convenienza – ad un termine di impugnazione più breve di quello altrimenti previsto.
In particolare, la parte ha il potere, mediante la notificazione della sentenza eseguita nelle forme prescritte dagli artt. 170 e 285 c.p.c., di circoscrivere, in funzione sollecitatoria e acceleratoria, l’esercizio del potere di impugnazione dell’altra parte (destinataria della notifica) entro il termine breve previsto dall’art. 325 c.p.c..
Tale accelerazione del termine per impugnare è condizionata al fatto che la notificazione della sentenza sia effettuata al “procuratore costituito” della controparte, secondo la previsione degli artt. 285 e 170 c.p.c.; ovverosia ad un soggetto professionalmente qualificato in grado di assumere, nel minor tempo concesso dall’art. 325 c.p.c., le più opportune decisioni in ordine all’eventuale esercizio del potere impugnazione. E ciò spiega perchè la giurisprudenza di questa Suprema Corte abbia assimilato, alla notifica della sentenza al procuratore costituito, la notifica della sentenza alla parte presso il procuratore costituito, ma non – invece – la notifica della sentenza eseguita alla parte personalmente, ritenendo tale ultima notifica inidonea a far decorrere il termine breve di impugnazione (Cass. 13/08/2015, n. 16804; Cass. 1/06/2010, n. 13428; Sez. L, 27/04/2010, n. 10026; Cass., Sez. L, 27/01/2001, n. 1152).
Vale la pena di osservare come la decorrenza del termine breve non sia correlata alla conoscenza legale della sentenza, già esistente per il mero fatto della sua pubblicazione, nè alla conoscenza effettiva della stessa, quale può essere derivata dalla comunicazione della sentenza da parte della cancelleria o dalla richiesta di copia effettuata dalla parte o dalla notificazione della sentenza ai fini esecutivi nei modi stabiliti dall’art. 479 c.p.c., (cfr. Cass., Sez. Un., 09/06/2006, n. 13431).
La decorrenza del termine breve, invece, è ricondotta dalla legge al sollecito indirizzato da una parte all’altra per una decisione rapida cioè entro il termine breve previsto dalla legge – in ordine all’eventuale esercizio del potere di impugnare; sollecito, come si è ricordato, veicolabile solo mediante il paradigma procedimentale tipico previsto dalla legge, quale unico modulo in grado di garantire il diritto di difesa ai fini impugnatori: la notificazione della sentenza al “procuratore costituito”, ai sensi degli artt. 285, 326 e 170 c.p.c., (Cass., Sez. Un. 13 giugno 2011, n. 12898).
Secondo la dottrina e la giurisprudenza, concordi sul punto, la notificazione della sentenza eseguita ai sensi dell’art. 285 c.p.c., ha “efficacia bilaterale”, nel senso che il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., decorre non solo nei confronti del destinatario della notificazione, ma anche nei confronti del notificante (ovviamente nel caso in cui sia soccombente su un capo della sentenza), il quale pertanto subisce gli effetti dell’attività sollecitatoria che ha imposto all’altra parte (Cass., Sez. Un., 19/11/2007, n. 23829; Sez. 2, 12/06/2007, n. 13732; da ultimo, Sez. 3, 06/03/2018, n. 5177).
4. – Svolte le superiori premesse sui profili ontologico e funzionale che, nell’attuale diritto positivo, connotano il termine “breve” per impugnare, può passarsi all’esame della questione di diritto, come sopra compendiata (paragrafo 1.), in relazione alla quale è stato invocato un intervento nomofilattico risolutivo da parte di queste Sezioni Unite.
In sostanza, viene chiesto a questo Consesso di stabilire se il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione – enucleato dalla giurisprudenza costituzionale e recepito dal legislatore – operi anche con riferimento alla notificazione della sentenza ai fini del decorso del termine breve di impugnazione; e se, quindi, la notifica della sentenza eseguita ex art. 285 c.p.c., abbia efficacia bilaterale “sincronica”, nel senso che il termine di impugnazione decorra da un unico momento sia per il notificante che per il destinatario della notifica, ovvero “diacronica”, nel senso che il termine di impugnazione decorra da momenti diversi.
Il Collegio ritiene che, nella soggetta materia, non possa trovare applicazione il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione e che vada di contro affermata l’efficacia bilaterale “sincronica” della notifica della sentenza e la “unicità” (o “comunanza”) del termine per impugnare, nel senso che quest’ultimo decorre per entrambe le parti dalla medesima data.
Diversi argomenti inducono a tale conclusione.
4.1. – In primo luogo, il tenore letterale della principale norma di riferimento.
Infatti, l’art. 326 c.p.c., comma 1, collega la decorrenza del termine breve di impugnazione alla “notificazione della sentenza”, ossia all’evento della notificazione considerato oggettivamente, senza distinguere tra la posizione del notificante e quella del destinatario della notifica.
In particolare, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, la citata disposizione normativa richiede che il procedimento notificatorio si sia perfezionato nel suo complesso (cfr. Cass., Sez. 3, 17/12/2004, n. 23501). E poichè il momento perfezionativo del procedimento in questione va individuato nella consegna dell’atto notificando al destinatario o a chi sia abilitato a riceverlo (cfr. Cass., Sez. Un., 19/04/2013, n. 9535; Sez. Un., 06/11/2014, n. 23675), prima del compimento di tale attività non si ha notificazione e, dunque, non può decorrere il termine per impugnare, neppure per il notificante.
4.2. – La decorrenza unica del termine di impugnazione – tanto per la parte che effettua la notifica della sentenza, quanto per quella che la riceve – trova poi ulteriore fondamento nella impossibilità di applicare, in questo particolare ambito della materia notificatoria, il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione enucleato dalla Corte costituzionale, che – com’è noto – con la sentenza n. 477 del 2002, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c., e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 4, comma 3, “nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anzichè a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario”.
Il giudice delle leggi ha infatti ritenuto palesemente irragionevole, oltre che lesiva del diritto di difesa, l’esposizione del notificante incolpevole al rischio di decadenze per gli eventuali ritardi dell’ufficiale giudiziario o per i possibili disservizi postali; conseguentemente, ha escluso che un effetto di decadenza possa discendere per il notificante dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile a soggetti da lui diversi (l’ufficiale giudiziario o l’agente postale) e, quindi, del tutto estranea alla sua sfera di disponibilità. Ha affermato, perciò, che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati, per quanto riguarda il notificante, al compimento delle sole attività a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario; restando fermo, per il destinatario, il principio del perfezionamento della notificazione solo alla data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento, con conseguente decorrenza solo da quella data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo.
Sebbene la pronuncia della Consulta fosse riferita espressamente soltanto alle notificazioni eseguite a mezzo posta ai sensi dell’art. 149 c.p.c., (disposizione sulla quale è poi intervenuto il legislatore con la L. 28 dicembre 2015, n. 263, aggiungendovi un comma che ha recepito il dettato della richiamata pronuncia), successivi interventi del giudice delle leggi hanno affermato la portata generale del suddetto principio e la sua applicazione ad ogni fattispecie di notificazione (cfr. Corte Cost., sent. n. 28 del 2004, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 139 e 148 c.p.c.; ord. n. 97 del 2004, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c.).
Orbene, l’introduzione, nel sistema processuale, del principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione ha trovato la sua ratio nella esigenza di tutelare il soggetto notificante e di sottrarlo al rischio di decadenze da facoltà processuali, a lui non imputabili. Il principio in parola, perciò, presuppone logicamente la previsione di un termine perentorio a carico del notificante per l’esercizio di poteri processuali e la necessità di evitare che egli possa incorrere in decadenza qualora, entro il detto termine, abbia posto in essere tutte le attività che gli competono (cfr. Cass., Sez. Un., 13/01/2005, n. 458; più recentemente, Sez. Un., 19/04/2013, n. 9535; Sez. Un., 06/11/2014, n. 23675).
Questa ratio non può evidentemente operare con riferimento alla notificazione della sentenza su iniziativa della parte. Infatti, nel momento in cui provvede alla notificazione della sentenza, allo scopo di far decorrere il termine breve di impugnazione, la parte non è soggetta al termine breve di impugnazione; vi sarà soggetta solo dopo che il procedimento di notificazione potrà dirsi perfezionato.
Il perfezionamento della notifica rileva, quindi, non già per verificare il rispetto di un termine perentorio pendente, ma per far decorrere un termine dapprima inesistente.
In altre parole, la notificazione della sentenza serve al notificante non per evitare decadenze processuali, ma per abbreviare il tempo della formazione del giudicato.
E allora, se si facesse operare il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, la parte notificante non solo non ne trarrebbe un effetto favorevole (nel senso che non eviterebbe alcuna decadenza), ma – addirittura – ne subirebbe un pregiudizio, perchè per essa il termine breve decorrerebbe e, di riflesso, maturerebbe prima rispetto a quanto in proposito previsto per il destinatario della notifica.
Evidente sarebbe il sovvertimento del principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione. Concepito a tutela e a favore del notificante, in quanto finalizzato a salvaguardarlo da decadenze incolpevoli, il principio in parola si trasformerebbe, per una sorta di bizzarra eterogenesi dei fini, in un congegno a svantaggio e a carico del notificante medesimo e inteso a creare nuove decadenze al di fuori dei casi previsti dalla legge.
E’ per tale ragione, d’altra parte, che questa Suprema Corte ha più volte affermato come debba escludersi che il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione possa comportare, per il notificante, l’anticipazione del dies a quo del termine di costituzione dell’attore, trattandosi di effetto a lui pregiudizievole (ex multis, Cass. Sez. 3, 29/01/2016, n. 1662; Cass., Sez. 1, 21/05/2007, n. 11783).
4.3. – Utili argomenti non possono poi trarsi dalla pronuncia di questa Corte, Sez. 3, 17/01/2014, n. 883, secondo cui il dies a quo del termine breve per impugnare decorrerebbe per il notificante dalla data in cui egli consegna l’atto (la sentenza o l’equipollente atto di impugnazione) all’ufficiale giudiziario, in quanto tale consegna costituirebbe – in applicazione analogica dell’art. 2704 c.c., comma 1, ultimo periodo, – un fatto che stabilisce in modo certo la conoscenza della sentenza.
Innanzitutto, come dinanzi detto, la decorrenza del termine breve di impugnazione trova la sua ragion d’essere non nell’acquisizione della conoscenza della sentenza, essendo quest’ultima già legalmente nota alle parti per il semplice fatto della sua pubblicazione, ma nel sollecito indirizzato da una parte all’altra per una più rapida decisione in ordine all’eventuale esercizio del potere di impugnare. Non può quindi farsi discendere dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario la conoscenza della sentenza, già legalmente nota alle parti.
Non sussistono, d’altra parte, i presupposti per procedere all’applicazione analogica dell’art. 2704 c.c., comma 1, ultimo periodo.
Manca, in primo luogo, la lacuna normativa che legittima il ricorso all’analogia, perchè la materia dei termini di impugnazione è compiutamente disciplinata dalle disposizioni codicistiche ed ogni possibile fattispecie trova in esse regolamentazione, anche grazie alla interpretazione logico-sistematica e a quella estensiva.
Difetta poi la eadem ratio legis necessaria a legittimare il ricorso alla analogia: l’art. 2704 c.c., opera, infatti, nel campo dei rapporti giuridici sostanziali e regola la materia della opponibilità ai terzi della data della scrittura privata non autenticata; mentre il decorso del termine per impugnare attiene al rapporto processuale e non riguarda i soggetti terzi, ma le parti del giudizio.
Peraltro, ove si aderisse alla tesi affermata dal citato arresto giurisprudenziale, si introdurrebbe una decadenza da un diritto processuale ricavata in via analogica, come tale di per sè incompatibile con il principio di tassatività che informa la disciplina dei termini perentori.
L’applicazione analogica dell’art. 2704 c.c., comma 1, ultimo periodo, non è quindi consentita in questa materia e non può costituire un argomento valido a sostegno della tesi secondo cui il termine breve di impugnazione decorrerebbe, per il notificante, dalla consegna della notificanda sentenza all’ufficiale giudiziario.
4.4. – Infine, va osservato come una diversificazione della decorrenza del termine breve per impugnare, tra notificante e destinatario della notificazione della sentenza, condurrebbe ad un assetto irrazionale del sistema delle impugnazioni.
L’unicità del decorso del termine di impugnazione tutela l’equilibrio e la parità processuale fra le parti; e garantisce, inoltre, la certezza dei rapporti giuridici, in quanto il giudicato si forma contemporaneamente nei confronti di tutte le parti.
Al contrario, la diversità del decorso del termine di impugnazione determinerebbe una sorta di disparità di trattamento nei confronti del notificante. Infatti, il notificante – ove parzialmente soccombente vedrebbe decorrere il proprio termine breve per impugnare prima della decorrenza del medesimo termine per il destinatario della notifica e prima ancora di avere la possibilità di verificare se tale notifica si sia perfezionata. Ne deriverebbe una grave disarmonia sistematica, priva di ragioni ordinamentali giustificative (così Cass., Sez. Un. 13 giugno 2011, n. 12898).
5. – In definitiva, per le ragioni di cui sopra, la Corte ritiene di dover enunciare, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, il seguente principio di diritto:
“In tema di notificazione della sentenza ai sensi dell’art. 326 c.p.c., il termine breve di impugnazione di cui al precedente art. 325, decorre, anche per il notificante, dalla data in cui la notifica viene eseguita nei confronti del destinatario, in quanto gli effetti del procedimento notificatorio, quale la decorrenza del termine predetto, vanno unitariamente ricollegati al suo perfezionamento e, proprio perchè interni al rapporto processuale, sono necessariamente comuni ai soggetti che ne sono parti”.
6. – Alla stregua dell’affermato principio di diritto, il ricorso va rigettato.
La complessità della questione giuridica sottoposta col ricorso giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
7. – Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto dopo il 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte del ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 6 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2019.

Valido l’affidamento condiviso di un minore anche quando entrambi i genitori sono cittadini stranieri.

Tribunale di Rimini. Decreto 2428 del 12 giugno 2018.
Sezione Volontaria Giurisdizione
Il Tribunale in composizione collegiale nelle persone dei magistrati:
dott. Francesca Miconi Presidente
dott. Antonio Stanislao Fiduccia Giudice
dott. Elisa Dai Checchi Giudice Relatore
nel procedimento promosso da:
RICORRENTE
contro
RESISTENTE
OSSERVA
Con ricorso depositato in data 09/02/2018, LESLIE ESTEFANIA JAIME si rivolgeva a questo Tribunale per ottenere l’affidamento esclusivo del figlio nato il 28.5.2017 dalla relazione sentimentale con il resistente; richiedeva, inoltre, la collocazione del minore presso di sé, nonché la regolamentazione del diritto di visita del padre e la previsione a carico di quest’ultimo di un contributo al mantenimento del figlio. In subordine chiedeva l’affidamento condiviso del minore a entrambi i genitori.
Esponeva di aver intrapreso una relazione more uxorio con imprenditore di origine austriaca, spesso presente in Italia anche per lavoro; rappresentava che, tanto nel corso della relazione sentimentale, quanto in seguito alla sua cessazione, in più occasioni, l’uomo aveva assunto comportamenti violenti nei suoi confronti; narrava, inoltre, di un episodio, nel quale il padre aveva tenuto un comportamento inadeguato anche nei confronti del minore il neonato necessitava di essere cambiato, avendo peraltro sporcato il sedile dell’auto paterna; così arrabbiato, prendeva a cambiarlo, appoggiandolo sul tettino dell’auto, spogliandolo all’aperto in pieno inverno.
Si costituiva contestando quanto ex adverso dedotto e chiedendo, l’affidamento condiviso del minore con collocazione presso la madre e la regolamentazione del proprio diritto di visita. Va preliminarmente osservato che, pur in presenza dell’elemento di estraneità rappresentato dall’essere entrambi i genitori cittadini stranieri – austriaco il padre ed ecuadoriana la madre – nel caso in esame trova applicazione la normativa dell’Unione Europea, stante la sussistenza di vincoli sufficientemente forti con il territorio italiano (si veda in termini la sentenza della Corte di Giustizia – Terza sezione – del 29 novembre 2007 – Causa C-68).
Orbene, nel caso di specie, l’applicazione dei criteri di collegamento di cui all’art. 8 del Regolamento dell’Unione n. 2201/2003 radica la competenza giurisdizionale esclusiva dell’autorità giudiziaria italiana, quale Stato membro nel cui territorio si trova la residenza abituale del minore alla data in cui l’Autorità giudiziaria italiana è stata adita, anche con la finalità di garantire la tutela del minore stesso.
Venendo al merito, ritiene il Collegio che nella specie non siano emersi elementi di incapacità o inadeguatezza genitoriale tali da giustificare una deroga al regime dell’affidamento condiviso privilegiato dal Legislatore, con esclusione delle sole ipotesi in cui la condivisione della responsabilità genitoriale in capo ad entrambi i genitori determini un concreto e specifico pregiudizio per il minore.
A fondamento della domanda, infatti, la ricorrente ha esposto atteggiamenti violenti del resistente, che tuttavia, allo stato, debbono ancora essere accertati, stante la pendenza tra le parti di reciproci procedimenti penali e che, comunque, non parrebbero aver avuto ricadute dirette sul minore, tali da legittimarne l’affidamento esclusivo alla madre.
Invero, per quanto più specificamente riguarda il figlio non sono stati neppure allegati specifici motivi di pregiudizio, tale non potendosi considerare il singolo episodio narrato in ricorso, nel quale il padre, seccato, avrebbe provveduto a cambiare in modo maldestro il piccolo, che, comunque, non sarebbe stato esposto ad un serio pericolo per la sua salute.
Neppure merita accoglimento la richiesta della madre di imporre il divieto di espatrio di non essendo dimostrato, e invero neppure compiutamente allegato, il pericolo di sottrazione internazionale del minore, che al contrario parrebbe smentito dalle deduzioni del padre, il quale non ha neppure domandato di portare con sé il minore in Austria, anche solo per far visita ai nonni, ma si è dichiarato disponibile ad incontrare il bambino a Rimini presso la madre.
Ancora devono essere rigettate le richieste paterne dirette alternativamente alla nomina di un curatore speciale per le scelte in materia sanitaria o alla vigilanza del Servizio Sociale, non avendo trovato riscontro l’allegazione del resistente secondo cui la madre rifiuterebbe di far vaccinare tenuto conto che la ricorrente ha dichiarato in udienza di voler eseguire le vaccinazioni, salvo, in ogni caso, il diritto del padre di adire nuovamente l’Autorità Giudiziaria in caso di inadempimento dell’obbligo. Ciò posto, la tenera età del minore e la concorde richiesta delle parti suggeriscono di mantenerne l’attuale collocazione prevalente presso la madre.
Quanto al diritto di visita del padre, si ritiene di poter accogliere le modalità indicate dal resistente che, tenuto conto della distanza geografica tra le parti, realizzano l’interesse del minore di mantenere una relazione significativa con entrambi i genitori; così il padre potrà vedere e tenere con sé a fine settimana alternati nelle giornate di sabato e domenica, escludendo allo stato il pernottamento, stante la tenerissima età del minore, che mal si concilierebbe con la frequente permanenza presso alberghi e altre sistemazioni precarie che il padre dovrebbe reperire, non avendo la disponibilità di un alloggio nel territorio di Rimini.
Passando alle questioni economiche, in primo luogo, deve essere considerata la complessiva condizione delle parti, che rivela un significativo squilibrio in favore del resistente, il quale può contare su una retribuzione fissa erogata dall’impresa della propria famiglia di origine, nonché su risparmi considerevoli che, a quanto dallo stesso riferito in udienza, gli consentono di mantenersi, senza privarsi, ad esempio, dell’automobile di lusso di cui dispone; dal canto suo, la ricorrente è priva di un’occupazione stabile e vive insieme alla propria madre nell’appartamento da questa condotto in locazione.
Considerate, da una parte, la descritta sperequazione reddituale tra le parti e, dall’altra, la prevalente collocazione di presso la madre, che quindi provvederà principalmente in maniera diretta al suo mantenimento, appare congruo stabilire a carico un contributo al mantenimento del figlio, da versare alla madre, pari a € 400,00 mensili, rivalutabili annualmente secondo gli indici ISTAT, oltre al 50% delle spese straordinarie sostenute dalla madre, previamente concordate e debitamente documentate, ricomprendendo – a titolo meramente esemplificativo – fra le spese straordinarie quelle mediche non mutuabili (visite specialistiche, apparecchi odontoiatrici, apparecchi oculistici), scolastiche (libri, materiale scolastico, gite scolastiche, corsi di lingua straniera; esclusa la refezione, in quanto ricompresa nel mantenimento ordinario), sportive, ludico ricreative e per vacanze (corsi sportivi e relativa attrezzatura, corsi di altro genere, vacanze); saranno rimborsate previa sola esibizione di idonea documentazione le spese mediche che rivestono il carattere dell’urgenza, le spese mediche precedute dalla scelta concordata dello specialista, le spese scolastiche costituenti conseguenza delle scelte concordate tra i genitori in ordine all’istituto scolastico e le spese sportive precedute dalla scelta concordata dello sport da praticare ed escludendo dalle spese straordinarie, a titolo meramente esemplificativo, quelle per la baby sitter e il vestiario.
La parziale reciproca soccombenza – sulla domanda di affidamento esclusivo, quanto alla ricorrente sulla misura del contributo paterno al mantenimento del minore, quanto al resistente – giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Visto l’art. 3 comma 1 L. 10 dicembre 2012 n. 219 in relazione all’art. 38 delle disposizioni per l’attuazione dei codice civile e all’art. 316 codice civile,
il Tribunale, considerate le conclusioni dei Procuratori delle parti costituite,
sentito il Pubblico Ministero,
1. Dispone l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori; la responsabilità genitoriale sarà esercitata ai sensi dell’art. 337 ter, 3° comma, cod. civ. e le decisioni di maggiore interesse relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale saranno assunte di comune accordo tra i genitori, tenuto conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni del figlio. Ciascun genitore potrà assumere le decisioni di ordinaria amministrazione nei periodi in cui avrà la figlio con sé.
2. In caso di disaccordo tra i genitori, le parti si rivolgeranno al giudice competente, da individuarsi in quello italiano, in ossequio al criterio della residenza effettiva del minore, che risulta stabilita nel territorio dello Stato.
3. Il minore resterà collocato in via prevalente presso la madre.
4. Dispone che il padre possa vedere e tenere con sé padre a fine settimana alternati, nelle giornate di sabato e di domenica, fino alle ore 19, quando lo riaccompagnerà presso la madre. Le festività seguiranno il criterio dell’alternanza tra i genitori, in particolare alternando con la madre di anno in anno il giorno di Natale e il Capodanno; il giorno di Pasqua e il Lunedì dell’Angelo.
5. Pone a carico del padre l’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio versando alla madre entro il giorno 10 di ogni mese la somma di euro 400,00, da rivalutare annualmente sulla base degli indici Istat, oltre al pagamento del 50% delle spese straordinarie, sostenute dalla madre, previamente concordate e debitamente documentate, ricomprendendo – a titolo meramente esemplificativo – fra le spese straordinarie quelle mediche non mutuabili (visite specialistiche, apparecchi odontoiatrici, apparecchi oculistici), scolastiche (libri, materiale scolastico, gite scolastiche, corsi di lingua straniera; esclusa la refezione, in quanto ricompresa nel mantenimento ordinario), sportive, ludico ricreative e per vacanze (corsi sportivi e relativa attrezzatura, corsi di altro genere, vacanze); saranno rimborsate previa sola esibizione di idonea documentazione le spese mediche che rivestono il carattere dell’urgenza, le spese mediche precedute dalla scelta concordata dello specialista, le spese scolastiche costituenti conseguenza delle scelte concordate tra i genitori in ordine all’istituto scolastico e le spese sportive precedute dalla scelta concordata dello sport da praticare ed escludendo dalle spese straordinarie, a titolo meramente esemplificativo, quelle per la baby sitter e il vestiario.
6. rigetta ogni altra domanda delle parti.
Spese compensate.
Provvedimento immediatamente esecutivo ex art. 38, comma terzo, disp. att. cod. civ.
Così deciso in Rimini, nella Camera di Consiglio della sezione unica civile, il giorno 31 maggio 2018.
Il Presidente
dott.ssa Francesca Miconi
Il Giudice Estensore