Se c’è l’accordo dei genitori, il cognome materno può essere aggiunto a quello paterno con richiesta alla Prefettura. In caso di disaccordo si può ricorrere al giudice.

Tar Lazio 11410 del 26 novembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4511 del 2013, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avvocato Anna Maria Barbante, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR Lazio in Roma, via Flaminia, 189;
contro
U.T.G. – Prefettura di Rieti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
-OMISSIS-, non costituito in giudizio;
per l’annullamento
del decreto prefettizio n. 0004395 dell’11 marzo 2013 con cui è stata respinta la domanda presentata dalla ricorrente volta ad ottenere l’aggiunta del cognome materno a quello paterno.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’ U.T.G. – Prefettura di Rieti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 luglio 2018 la dott.ssa Francesca Romano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso notificato il 9 maggio e depositato il successivo 17 maggio 2013, la sig.ra -OMISSIS-ha adito questo Tribunale al fine di ottenere l’annullamento del decreto del Prefetto della Provincia di Rieti dell’11 marzo 2013 con cui è stata respinta l’istanza volta ad ottenere l’aggiunta del cognome materno “-OMISSIS-” al cognome paterno “-OMISSIS-”, in favore del figlio minore –OMISSIS-.
2. Espone in fatto che il figlio, nato dalla relazione con -OMISSIS-, e da questi legalmente riconosciuto, è stato lei affidato allorquando la convivenza tra loro veniva a cessare nel mese di marzo del 2012.
A causa del disaccordo tra i due, i rapporti genitoriali venivano regolati dal Tribunale per i Minorenni di Roma che, con decreto del 13 marzo 2012, disponeva l’esercizio congiunto della potestà genitoriale, fermo restando il collocamento del minore presso la madre.
In data 1° agosto 2012 la sig.ra -OMISSIS- presentava, dunque, l’istanza tendente ad ottenere l’aggiunta del cognome materno “-OMISSIS-” a quello paterno “-OMISSIS-” in favore del figlio -OMISSIS-, al fine di vedere riconosciuto il suo ruolo genitoriale, senza incidere sulla situazione acquisita e sull’originario cognome paterno del bambino.
Espletata l’istruttoria, la Prefettura di Rieti comunicava alla ricorrente, con avviso ex art. 10 bis, l. n. 241/1990, che il padre del minore aveva proposto formale opposizione all’istanza di cambiamento del cognome.
Con il gravato decreto, dunque, la Prefettura, considerata la necessarietà del consenso di entrambi i genitori al fine dell’accoglimento della domanda, non sussistendo un’ipotesi di decadenza dalla potestà genitoriale né altre comprovate peculiari circostanze familiari, la respingeva.
3. Avverso il gravato decreto la ricorrente deduce i seguenti motivi di diritto:
I. Carenza, illogicità e difetto di motivazione per violazione degli artt. 1 e 3, l. n. 241/1990. Sviamento del potere, in quanto l’amministrazione non avrebbe consentito alla ricorrente di conoscere le ragioni dell’opposizione dell’altro genitore.
II. Erroneità ed illogicità della motivazione per violazione dell’art. 89, d.p.r. 2 novembre 2011, n. 396, nella lettura costituzionalmente orientata offerta da Corte Costituzionale nella decisione n. 61/2006.
III. Erroneità della motivazione nella misura in cui ha ritenuto indispensabile il consenso dell’altro genitore, come disposto dalla circolare n. 15/2008.
4. Si è costituita in giudizio la resistente amministrazione, depositando in giudizio la documentazione relativa al procedimento per cui è causa.
5. Alla pubblica udienza del 17 luglio 2018 la causa è passata in decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Il nostro ordinamento riconosce il diritto al nome (art. 6 c.c.), nel binomio comprensivo del prenome e del cognome, e ne prevede la tutela (artt. 7 e 8 c.c.), intesa non tanto come tutela del segno distintivo della persona ma come tutela dell’identità personale.
L’art. 6 c.c., nell’ esprimere il favor per la certezza e la stabilità del nome – con l’evidente intento di salvaguardare l’interesse pubblico alla certezza dello status ed all’agevole individuazione delle persone, al comma terzo, consente “cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome”, nei soli casi e con le formalità previste dalla legge ordinaria.
L’art. 89, comma 1, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 , come da ultimo modificato dal D.P.R. 13 marzo 2012, n. 54, stabilisce, a tale riguardo che: “salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce. Nella domanda l’istante deve esporre le ragioni a fondamento della richiesta”.
La giurisprudenza amministrativa ha così avuto modo di chiarire che la domanda proposta ai sensi dell’art. 89, d.p.r. n. 396/2000 può essere sostenuta anche da intenti soggettivi ed atipici, purché meritevoli di tutela e non contrastanti con il pubblico interesse alla stabilità ed alla certezza degli elementi identificativi della persona e del suo status giuridico e sociale (ex plurimis, Cons. St., III, 15 ottobre 2013, n. 5021).
Secondo la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr., Cons. St., IV, 27 aprile 2004, n. 2752; 26 giugno 2002, n. 3533), ancora, “il diniego ministeriale di autorizzazione al mutamento di nome, ai sensi degli artt. 153 e seguenti del R.D. 9 luglio 1939 n. 1238, costituisce, (…), provvedimento eminentemente discrezionale, in cui la salvaguardia dell’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome, connesso ai profili pubblicistici dello stesso come mezzo di identificazione dell’individuo nella comunità sociale, può venire contemperata con gli interessi di coloro che quel nome intendano mutare o modificare nonché di coloro che a quel mutamento intendano opporsi.
Dalla natura discrezionale dell’impugnato provvedimento di diniego discende – come logico corollario – che il sindacato giurisdizionale dello stesso può essere condotto, quanto al vizio intrinseco dello sviamento, sotto il limitato profilo della manifesta irragionevolezza delle argomentazioni amministrative o del difetto di motivazione” (così, Cons. St., IV, 26 aprile 2006, n. 2320).
2. Nel caso di specie, il provvedimento prefettizio di diniego all’aggiunta, al cognome paterno del figlio minore, del cognome della madre, motivato sulla base dell’opposizione del padre, non appare a questo collegio affetto da alcun vizio manifesto.
Innanzitutto, giova precisare, alla fattispecie in esame non sono applicabili i principi da ultimo posti dal giudice delle leggi nella sentenza n. 286 del 2016.
Premessa la vigenza nel nostro ordinamento, desumibile dalle norme che implicitamente la presuppongono, della norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso jure al figlio, la Corte Costituzionale, ha espressamente affermato, come già incidentalmente aveva fatto nel 2006 (sentenza n. 61 del 2006), l’incompatibilità della norma de qua con i valori costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”.
Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome, ha osservato la Corte, con l’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88 del d.p.r. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012, n. 54, le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome, effettuata al momento della nascita.
“Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre.
3.4.- La Corte ritiene che siffatta preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.
(…) Il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale, che si proietta nella sua personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.
(…) In questa stessa cornice si inserisce anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ricondotto il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, nella sentenza Cusan Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014, successiva all’ordinanza di rimessione in esame, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La Corte EDU ha, altresì, ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni aggiungendo a quello paterno il cognome della madre.
La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori” (così, Corte Cost. 21 dicembre 2016, n. 286).
Sulla base di tali principi, la Corte giunge, dunque, a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.
3. Il caso sottoposto all’odierno organo giudicante è, tuttavia, diverso.
La richiesta del cambiamento di cognome, in ipotesi di soggetto minorenne, deve necessariamente provenire dai soggetti che ne hanno la rappresentanza legale, quindi, nel caso di specie dagli esercenti la potestà genitoriale.
Nel caso in cui vi sia accordo tra i medesimi trovano senza dubbio applicazione i principi sopra affermati da ultimo dai giudici costituzionali nella decisione n. 286/2016, di modo che deve senza dubbio essere riconosciuta la possibilità di trasmettere ai figli, e quindi, di aggiungere al cognome paterno, anche il cognome materno.
In caso di disaccordo, all’opposto, tali principi non sono immediatamente applicabili.
Si deve avere riguardo, a tale proposito, alla norma dell’art. 320 c.c. sulla rappresentanza e amministrazione dei beni dei figli, secondo cui i genitori esercitano “congiuntamente” (salvo l’ipotesi, che non ricorre nel caso de quo, dell’esercizio in via esclusiva della potestà genitoriale) i poteri di rappresentanza dei figli “in tutti gli atti civili”.
La richiesta di modifica del cognome del figlio minore, integrando un “atto civile”, può essere presentata, allora, dai genitori solo nell’esercizio della rappresentanza legale che trova la sua fonte e disciplina nell’art.
320 c.c., di guisa che deve ritenersi a tal fine imprescindibile il consenso di entrambi i genitori, fatto salvo solo il caso – che qui non ricorre – in cui uno di essi sia stato privato della potestà genitoriale.
In caso di disaccordo, stabilisce, in ultima analisi, l’art. 320, comma 2, c.c., si applicano allora le disposizioni dell’art. 316 c.c., che per il caso di contrasto su questioni di particolare importanza prevede la possibilità, per ciascuno dei genitori, di ricorrere senza formalità al giudice civile.
Alcuna censura, pertanto, può essere mossa avverso il gravato provvedimento di diniego, sia sotto il profilo dello sviamento del potere che dell’illogicità ed erroneità della motivazione, sollevate con il primo ed il secondo motivo di ricorso, in quanto in presenza di disaccordo tra i coniugi nell’esercizio dei poteri rappresentanza del minore per il compimento di atti civili, quali, in specie, il cambiamento del cognome, non è il Prefetto l’autorità competente ad adottare le determinazioni ritenute più idonee a curare l’interesse del figlio, bensì, come detto, l’autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 320 e 316 c.c.
4. Del pari, privo di fondamento risulta essere il terzo motivo di ricorso.
La circolare ministeriale n. 15/2008 prevede espressamente la possibilità di presentare l’istanza di cambiamento di cognome per conto del minorenne, ribadendo, pur tuttavia, in armonia con i sopra affermati principi, che la stessa può essere presentata da entrambi i genitori in quanto esercenti la potestà genitoriale, o anche da uno dei due “purché detta istanza sia accompagnata dal consenso dell’altro genitore”.
La circolare contempla, quindi, due ipotesi eccezionali in cui l’istanza può essere positivamente valutata dal Prefetto ancorché presentata da uno solo dei due genitori: l’ipotesi di perdita della potestà genitoriale da parte dell’altro, che non ricorre nel caso de quo, e l’ipotesi di istanza motivata sulla base di “peculiari circostanze familiari, adeguatamente comprovate, tali da arrecare pregiudizio o danno al minore” che, con motivazione sul punto esente da vizi di legittimità, il Prefetto non ha ritenuto ravvisabile nella mera circostanza dell’esistenza di una situazione conflittuale tra i genitori del minore.
5. Per tutto quanto sopra esposto, in conclusione, il ricorso deve essere respinto.
6. Si ravvisano, per la peculiarità della fattispecie esaminata, giustificati motivi per compensare le spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui agli artt. 52 commi 1,2 e 5 e 22, comma 8 D.lg.s. 196/2003, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o delle persone minori ivi citate.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 luglio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Germana Panzironi, Presidente
Roberta Ravasio, Consigliere
Francesca Romano, Primo Referendario, Estensore L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Francesca Romano Germana Panzironi