Vi è difetto di giurisdizione del giudice italiano con riferimento alle domande inerenti alla responsabilità genitoriale ed al mantenimento dei figli minori non residenti abitualmente in Italia

Cass. civ. Sez. Unite, 27 novembre 2018, n. 30657
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione iscritto al NRG 15385 del 2018 promosso da:
C.C., rappresentata e difesa dagli Avvocati Roberta Ceschini e Armando Restignoli, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, viale Giuseppe Mazzini, n. 4;
– ricorrente –
contro
CA.Vi.Ma.Gi., rappresentato e difeso dall’Avvocato Rosaria Monaco;
– controricorrente –
in relazione al giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Catania (RG 9597/17);
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20 novembre 2018 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Sorrentino Federico, che ha chiesto dichiararsi, in accoglimento del ricorso, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario italiano con riferimento a tutte le questioni inerenti la responsabilità genitoriale ed il mantenimento dei figli minori delle parti.
Svolgimento del processo
che in data 24 maggio 2017 C.C., nata a (OMISSIS), e ivi residente, ha promosso, dinanzi al Tribunale di Catania, un giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio nei confronti del marito Ca.Vi.Ma.Gi.;
che si è costituito in giudizio il Ca., avanzando domande relative ai figli minori S. e L., con riferimento alla modifica sia del diritto di visita, sia del loro assegno di mantenimento;
che nella pendenza del giudizio dinanzi al Tribunale di Catania, la C. ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo dichiararsi, ai sensi dell’art.8delregolamento CE 27 novembre 2003, n. 2201/2003, il difetto di giurisdizione del giudice italiano, e la sussistenza della giurisdizione del giudice tedesco, per quanto attiene alle domande inerenti alla responsabilità genitoriale, ed in particolare alla domanda di modifica dei diritti di visita del padre sui figli S. e L., nonché dichiararsi, ai sensi dell’art. 3 del regolamento CE 18 novembre 2008, n. 4/2009, il difetto di giurisdizione del giudice italiano e la sussistenza della giurisdizione del giudice tedesco, per quanto concerne la domanda di modifica dell’assegno di mantenimento per i medesimi minori;
che nel giudizio per regolamento preventivo si è costituito, con controricorso, il Ca., concludendo per la sussistenza della giurisdizione italiana;
che il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale sulla base delle conclusioni scritte, ai sensidell’art. 380-ter c.p.c., del pubblico ministero, il quale ha chiesto dichiararsi, in accoglimento del ricorso, il difetto di giurisdizione del giudice italiano con riferimento a tutte le questioni inerenti alla responsabilità genitoriale ed al mantenimento dei figli minori delle parti;
che in prossimità dell’adunanza camerale la ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
Motivi della decisione
che l’istanza di regolamento preventivo è proposta con esclusivo riguardo alle domande, avanzate dal marito resistente nel giudizio a quo, aventi per oggetto la modifica dei provvedimenti relativi alla regolamentazione del diritto di visita dei figli minori e la modifica dell’assegno, posto a suo carico, di mantenimento dei medesimi minori;
che il Collegio condivide le conclusioni scritte del pubblico ministero;
che, invero, quanto alla domanda di modifica del diritto di visita, va fatta applicazione dell’art. 8, par. 1, del regolamento CE n. 2201 del 2003, ai cui sensi “Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoria-le su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono aditi”;
che, come evidenzia il pubblico ministero, dagli atti risulta che i due figli minori delle parti (nati nel (OMISSIS)) risiedono abitualmente, non in (OMISSIS), ma in (OMISSIS) con la madre (la ricorrente C.), in forza dell’autorizzazione espressa contenuta nella sentenza di separazione personale del Tribunale di Catania n. 4333/2016 del 9 agosto 2016, confermata dalla Corte d’appello della stessa città con la sentenza n. 721/2018 del 29 marzo 2018, tanto più che già nel 2016 i coniugi raggiunsero un accordo sul regime di visita avanti alla Pretura-Tribunale della famiglia di (OMISSIS), in (OMISSIS), accordo approvato da quel giudice in data 13 ottobre 2016;
che, pertanto, ai sensi dell’art. 8, par. 1, del citato regolamento CE, va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano per quanto attiene alla regolamentazione della responsabilità genitoriale sui minori, con riferimento al regime di visita e frequentazione, non sussistendo, d’altra parte, alcuna delle deroghe al criterio della residenza abituale di cui al citato articolo: (a) non quella della ultrattività della competenza della precedente residenza abituale del minore (art. 9), giacché al momento dell’introduzione della domanda di divorzio erano decorsi più di tre mesi dal trasferimento della residenza dei figli in (OMISSIS); (b) non quella per i casi di sottrazione di minori (art. 10), posto che il trasferimento in (OMISSIS) di S. e L. è stato esplicitamente autorizzato da provvedimenti del giudice italiano; (c) non quella di proroga della competenza (art. 12), mancando la doppia condizione consistente, da un lato, nel consenso univoco alla giurisdizione prestato da entrambi i coniugi (attesa la proposizione del regolamento preventivo da parte della C., con la deduzione del difetto di giurisdizione del giudice italiano) e, dall’altro, nell’interesse superiore dei minori (apparendo anzi corrispondere al loro migliore interesse che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal giudice che si trovi il più possibile vicino al luogo di effettiva residenza dei minori stessi);
che in tal senso è indirizzata la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha già statuito (Cass., Sez. U., 7 settembre 2016, n. 17676; Cass., Sez. U., 2 febbraio 2018, n. 2585) che quando il minore non risiede abitualmente nello Stato membro in cui si svolge il procedimento di divorzio, il suo superiore e preminente interesse impone, salva la sussistenza delle previste ed eccezionali deroghe, di scindere i due ambiti e di non attribuire al giudice adito per il primo procedimento d’indole matrimoniale anche la competenza a conoscere delle domande concernenti la responsabilità genitoriale;
che anche per quanto riguarda la domanda relativa alla modifica dell’assegno di mantenimento dei minori, va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano, e ciò dovendosi fare applicazione dell’art.3delregolamento CE n. 4/2009, trattandosi – come esattamente osserva il pubblico ministero – “di domanda accessoria a quella relativa alla responsabilità genitoriale”, a sua volta fondata sulla residenza abituale dei minori, ed attesa l’esigenza di “realizzare la tendenziale concentrazione di tutte le azioni giudiziarie che riguardano i minori” (cfr. Cass., Sez. U., 5 febbraio 2016, n. 2276);
che va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano con riferimento alle domande inerenti la responsabilità genitoriale ed il mantenimento dei figli minori delle parti;
che sussistono le condizioni di legge per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese del regolamento, attesi la natura della controversia e il recente consolidamento dell’indirizzo giurisprudenziale di cui si è fatta qui applicazione;
che va disattesa la richiesta della ricorrente di condanna del resistente a titolo di responsabilità aggravata, ai sensidell’art. 96 c.p.c., considerate le circostanze che hanno indotto a compensare le spese di lite e dovendo escludersi che il Ca. abbia resistito con mala fede o colpa grave.
P.Q.M.
dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano con riferimento alle domande inerenti alla responsabilità genitoriale ed al mantenimento dei figli minori delle parti. Dichiara la compensazione tra le parti delle spese del regolamento.
Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018

La Corte detta i criteri per la liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa dei minori

Cass. civ. Sez. III, 4 dicembre 2018, n. 31235
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25377-2013 proposto da:
C.L., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CLITUNNO, 51, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA FRAGALITA, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIA CARMEN DE CESARE giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
T.M., D.R.M.L. eredi di T.B.P., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso lo studio;
(Ndr: pagina mancante).
udienza del 16/10/2018 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale; accoglimento del 3 motivo del ricorso incidentale;
udito l’Avvocato MARIA CARMEN DE CESARE;
udito l’Avvocato GUIDO FRANCESCO ROMANELLI;
udito l’Avvocato PAOLO MIGLIACCIO.
Svolgimento del processo
1. L’esposizione dei fatti sarà limitata alle sole circostanze ancora rilevanti in questa sede.
Nel 1999 Ta.Ab. e B.N., dichiarando di agire sia in proprio che quali rappresentanti exart. 320 c.c.del figlio minore Ta.Am., convennero dinanzi al Tribunale di Mantova, sezione staccata di Castiglione delle Stiviere, l’Azienda Ospedaliera (OMISSIS) (d’ora innanzi, per brevità, “l’Azienda”), T.P.B. (che decederà nelle more del giudizio, e la cui posizione processuale sarà coltivata dagli eredi, ovvero D.R.M.L., T.V. e T.M.), e C.L., esponendo che:
(-) il (OMISSIS), nell’ospedale di (OMISSIS) (gestito dall’Azienda convenuta) nacque il loro figlio Ta.Am.;
(-) il neonato, sano durante la gestazione, patì una grave ipossia cerebrale a causa della ritardata esecuzione del parto cesareo, ascrivibile a colpa del medico di turno, dott.ssa C.L., e del primario del reparto, dott. T.P.B.;
(-) l’ipossia intra partum provocò gravissimi postumi permanenti, consistiti in una tetraparesi.
Chiesero, perciò, la condanna dei convenuti in solido al risarcimento dei danni rispettivamente patiti.
2. T.P.B. e l’Azienda si costituirono, negando la propria responsabilità.
C.L. rimase invece contumace.
Il Tribunale di Mantova, sezione di Castiglione delle Stiviere, con sentenza 6 marzo 2007 n. 33 accolse la domanda nei confronti di tutti i convenuti.
La sentenza venne appellata da tutte le parti.
3. La Corte d’appello di Brescia, con sentenza 28 marzo 2013 n. 413, rigettò l’appello dei danneggiati, accolse quello degli eredi T. e, in parte, quelli proposti dall’Azienda e da C.L..
La Corte d’appello ritenne che:
(-) T.P.B. tenne sì una condotta colposa, ma essa fu priva di efficienza causale nel determinismo del danno; infatti anche se egli avesse praticato il parto cesareo non appena avvisato del rischio, il danno non sarebbe stato “evitato e neppure limitato”, dal momento che il feto aveva già patito l’insulto ipossico;
(-) la stima del danno non patrimoniale e patrimoniale patito dalla vittima primaria ( Ta.Am.) compiuta dal Tribunale fosse corretta;
(-) dai danni risarcibili andasse escluso il pregiudizio patito dalla sig.a B.N., e consistito nella rinuncia al lavoro retribuito, per potersi occupare stabilmente del figlio;
(-) andasse corretto il conteggio del danno da mora e lo scomputo degli acconti pagati prima della sentenza, rispetto a come era stato calcolato dal Tribunale.
4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione:
(-) in via principale da C.L., con ricorso fondato su cinque motivi;
(-) in via incidentale (parzialmente) adesiva dall’Azienda, con ricorso fondato su tre motivi.
Hanno resistito con controricorso D.R.M.L. e T.M., le quali hanno altresì depositato memoria.
Ta.Ab., B.N. e T.V. non si sono difesi in questa sede.
5. La causa, fissata per l’udienza pubblica del 3 dicembre 2015, con ordinanza del 19 febbraio 2016 n. 3364 venne rinviata a nuovo ruolo, in attesa che le Sezioni Unite di questa Corte si pronunciassero sul problema dei limiti e dell’operatività dell’istituto della compensatio lucri cum damno, problema posto dal quinto motivo del ricorso principale e dal secondo motivo del ricorso incidentale.
Con sentenza n. 13372 del 30.6.2016, tuttavia, le Sezioni Unite ritennero non rilevante, nel ricorso ad esse sottoposto, il tema della compensatio lucri cum damno, sicché tale questione di massima di particolare importanza rimase irrisolta.
Fissata nuovamente la discussione del presente ricorso per la pubblica udienza del 12.1.2017, questa Corte con ordinanza interlocutoria n. 15537 del 22.6.2017, previa riconvocazione della camera di consiglio, sottopose nuovamente alle Sezioni Unite i seguenti quesiti di diritto:
(A) se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice deve limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla cd. compensatio lucri cum damno (istituto o principio non individuabile nell’ordinamento giuridico); e di conseguenza stabilire, quando l’evento causato dall’illecito costituisce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, se di essi il giudice deve tenere conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo;
(B) se il risarcimento del danno patrimoniale patito dalla vittima di lesioni personali, e consistente nelle spese da sostenere per l’assistenza personale ed infermieristica, vada liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento di cui allaL. 21 novembre 1988, n. 508,art.1, oppure di cui allaL. 12 giugno 1984, n. 222,art.5, comma 1.
6. Con sentenza 22.5.2018 n. 12567 le Sezioni Unite di questa Corte, a composizione dei precedenti contrasti, hanno stabilito il seguente principio di diritto:
“dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’ente pubblico, in conseguenza di quel fatto, essendo tale indennità rivolta a fronteggiare ed a compensare direttamente il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito, consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore o assistente per le esigenze della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto”.
Hanno, di conseguenza, accolto il quinto motivo del ricorso principale proposto da C.L., ed il secondo motivo del ricorso incidentale proposto dall’Azienda, rimettendo a questa Sezione la decisione sui restanti motivi di ricorso.
7. Il ricorso è stato così nuovamente fissato per la pubblica udienza del 16 ottobre 2018, ove è stato discusso e trattenuto in decisione.
Motivi della decisione
1. Questioni preliminari.
1.1. Va preliminarmente rilevato come la relazione di notificazione del ricorso principale, ritualmente notificato a Ta.Ab. e B.N., non indichi che la notifica è avvenuta anche nella loro qualità di legali rappresentanti del figlio minore (all’epoca della notificazione) Ta.Am..
Tale circostanza tuttavia è irrilevante ai fini dell’ammissibilità del ricorso, dal momento che la qualità degli intimati è stata correttamente indicata nel frontespizio del ricorso. Trova dunque applicazione il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui non è la relazione di notificazione, ma l’atto da notificare che deve indicare la qualità di rappresentante del destinatario (ex multis, Sez. 5, Sentenza n. 14230 del 08/07/2015).
1.2. Ancora in via preliminare, va rilevato come nell’epigrafe del controricorso proposto dagli eredi di T.P.B. compaiano le generalità di tre persone: D.R.M.L., T.M. e T.V..
Di quest’ultima, tuttavia, manca la sottoscrizione in calce alla procura speciale; inoltre nella procura alle liti le parole ” T.V.” sono cancellate da una linea orizzontale.
Il controricorso proposto (formalmente) da T.V. va pertanto dichiarato inammissibile.
2. Il primo motivo del ricorso principale.
2.1. Col primo motivo la ricorrente lamenta il vizio di “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione” su un punto decisivo della controversia.
Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe errato nell’escludere un valido nesso di causa tra la condotta di T.P.B. e il danno lamentato dagli attori.
Assume che gli errori della Corte d’appello sarebbero stati i seguenti:
-) non avere correttamente valutato le consulenze tecniche d’ufficio (così il ricorso, p. 7 e 10);
-) essere caduta in contraddizione, nell’affermare da un lato che la condotta di T.P.B. fu negligente, ma nell’escludere dall’altro che essa avesse causato o concausato il danno (ibidem, p. 8);
-) non avere considerato che le registrazioni del battito cardiaco fetale erano state interrotte tra le ore 23.00 e le ore 1.00 del giorno successivo (ibidem, p. 13);
-) avere escluso la sussistenza del nesso di causa applicando un criterio scorretto, giacchè non vi era alcuna “probabilità vicina alla certezza” che, se il dott. T.P.B. avesse eseguito il parto cesareo prima di quanto fece, il danno si sarebbe verificato comunque (ibidem. pp. 13-16).
2.2. Il motivo è inammissibile.
Deve escludersi, in primo luogo, che sia mancato l’esame d’un “fatto controverso e decisivo”.
La condotta del dott. T.P.B., la sua natura colposa, la sua incidenza causale sono tre circostanze esaminate dalla Corte d’appello.
Né l’omesso esame di questo o quell’elemento istruttorio può integrare il vizio di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, ove si afferma che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti”).
2.3. Infondato, poi, è il motivo nella parte in cui lamenta la contraddittorietà della sentenza impugnata.
Nessuna contraddizione, infatti, può esservi tra l’affermare da un lato che la condotta d’un sanitario fu negligente, ed il soggiungere dall’altro che quella condotta non provocò alcun danno. È infatti evidente che il primo giudizio investe la conformità della condotta del sanitario rispetto alle leges artis, il secondo giudizio investe il diverso problema del nesso di causa. Ed è sin troppo ovvio che una condotta colposa può essere priva di conseguenze, così come anche una condotta diligente può provocare conseguenze dannose.
2.4. Del pari inammissibile è il primo motivo di ricorso nella parte in cui lamenta la violazione, da parte della Corte d’appello, delle regole sull’accertamento della causalità.
L’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di legittimità ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, mentre l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze che sono derivate dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità (Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014).
Nel caso di specie, la Corte d’appello ha ritenuto in punto di fatto che un più tempestivo intervento da Parte di T.P.B. non avrebbe evitato né attenuato il danno, “con alta credibilità razionale”.
L’affermazione, voltata in forma affermativa, sta a significare evidentemente che un più tempestivo intervento da parte del primario avrebbe avuto possibilità di successo quasi nulle.
La Corte, dunque, ha applicato un criterio di causalità addirittura più svantaggioso per il responsabile, e più favorevole per la vittima, posto che sarebbe stato sufficiente il criterio c.d. della “probabilità dell’evidenza”, o del “più sì che no” (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011).
Per affermare la responsabilità del sanitario, alla luce di questo criterio, la Corte si sarebbe potuta limitare ad accertare che un parto cesareo, eseguito più tempestivamente, avrebbe avuto ragionevoli probabilità di successo; la Corte invece è andata oltre, accertando in fatto che un più tempestivo intervento avrebbe avuto possibilità di successo non già “probabili”, ma pressoché inesistenti.
Se, infatti, un intervento tempestivo “certamente” non avrebbe evitato il danno, a fortiori dovrà ammettersi che non l’avrebbe evitato nemmeno “probabilmente”.
L’applicazione del corretto criterio di causalità, dunque, avrebbe addirittura rafforzato la statuizione di esclusione del nesso di causa.
Stabilire, poi, se la suddetta valutazione fu corretta o meno alla luce delle prove acquisite, è questione di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di questa Corte.
2. Il secondo motivo del ricorso principale.
2.1. Col secondo motivo C.L. lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di “motivazione carente, insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia”.
Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe dovuto accertare per prima la sussistenza del nesso di causa, e solo dopo la sussistenza della colpa del primario. Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto ritenere sussistente il nesso tra la condotta del medico e il danno al neonato, perché avrebbe dovuto rilevare come nel caso di specie sussisteva la “necessità di estrarre il feto in tempi rapidi”.
Il motivo si conclude con l’affermazione secondo cui “l’esame preliminare dell’aspetto della colpevolezza quanto al comportamento del primario è corrisposto ad un effettivo accertamento di responsabilità in capo a quest’ultimo”.
2.2. Il motivo è manifestamente inammissibile: non solo perché prospetta un vizio (l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione) previsto da una norma non più applicabile ratione temporis al presente giudizio (ovverol’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo anteriore alle modifiche di cui allaD.L. 22 giugno 2012, n. 83,art.54, convertito nellaL. 7 agosto 2012, n. 134); ma soprattutto per carenza di interesse.
Se, infatti, la Corte d’appello avesse esaminato per prima la questione del nesso di causa, e poi quella della colpa, non si vede come sarebbe potuta pervenire a conclusioni diverse: anche in tal caso infatti avrebbe, secondo il suo insindacabile giudizio sul fatto, escluso il nesso, e si sarebbe anzi persino potuta astenere dal passare a sindacare l’esistenza della colpa.
Costituisce, infatti, una petizione di principio quanto sostenuto dalla difesa della ricorrente, ovvero che l’esito d’un giudizio di responsabilità possa cambiare a seconda che si esamini per primo il problema della causalità o quello della colpevolezza.
Il giudizio sulla causalità e quello sulla colpevolezza della condotta sono infatti tra loro indipendenti, sicché il rispettivo esito non potrebbe mai mutare, sol perché si muti l’ordine con cui vengano esaminati.
3. Il terzo motivo del ricorso principale.
3.1. Col terzo motivo di ricorso la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 3. È denunciata, in particolare, la violazione delD.P.R. 27 marzo 1969 n. 128,art.7eD.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761,art.63.
Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe erroneamente trascurato di considerare un ulteriore profilo di colpa del primario, consistito nel non avere adeguatamente vigilato sull’operato dei suoi medici e non aver dato loro istruzioni puntuali, in violazione delle norme che all’epoca dei fatti disciplinavano la responsabilità del primario.
3.2. Il motivo è inammissibile perché prospetta una questione nuova.
Nella sentenza impugnata, infatti, non si dà conto che le parti abbiano mai prospettato od abbiano mai discusso, nei gradi di merito, della questione concernente la sussistenza d’una responsabilità di T.P.B. per culpa in vigilando, ovvero per negligente organizzazione dei servizi del reparto a lui affidato.
Né la ricorrente – in violazione del principio di specificità del ricorso, di cuiall’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6 – indica in quale atto processuale od in quali termini abbia mai sollevato, nei gradi di merito, tale questione. Indicazione, quest’ultima, tanto più necessaria in un caso in cui l’odierna ricorrente rimase contumace in primo grado, e dunque non avrebbe potuto sollevare per la prima volta in appello questioni che erano rimaste sottratte al dibattito processuale nella prima fase del giudizio.
Delle due, pertanto, l’una:
-) se la questione della culpa in vigilando del primario non fu mai introdotta nei gradi di merito, il motivo è inammissibile per la sua novità;
-) se la questione della culpa in vigilando del primario fu ritualmente introdotta nei gradi di merito, il motivo è inammissibile per la sua aspecificità, poiché in esso non si indica in quale atto ed in quale fase processuale quella questione fu dedotta.
4. Il quarto motivo del ricorso principale.
4.1. Col quarto motivo di ricorso C.L. lamenta, ancora, il vizio di “carente, insufficiente e contraddittoria motivazione”.
Deduce che la Corte d’appello ha ritenuto il piccolo Ta.Am. invalido al 100%, mentre i consulenti avevano stimato il grado di invalidità permanete causato dalla tetraplegia “pressoché totale” e “molto prossimo al 100%”.
Soggiunge che comunque il Tribunale di Mantova, con statuizione confermata in appello, aveva nei fatti liquidato il danno biologico patito da Ta.Am. monetizzando una invalidità permanente del 98,5%, e non del 100%.
4.2. Il motivo è inammissibile.
Da un lato, infatti, la stima del danno non patrimoniale è un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in questa sede solo ove sia illegittimo il criterio da quegli adottato, e non l’applicazione pratica di esso.
Dall’altro lato, il motivo è altresì inammissibile per difetto di interesse: è la stessa ricorrente, infatti, ad ammettere (pag. 28, secondo capoverso, del ricorso) che la somma di denaro accordata alla vittima a titolo di risarcimento del danno biologico corrisponde ad una invalidità del 98,5%, ovvero quella ritenuta dai consulenti, e non quella solo astrattamente proclamata dalla Corte d’appello.
Sicché la ricorrente, in sostanza, si duole di un errore che essa stessa ammette non avere prodotto effetti per lei svantaggiosi.
5. Il quinto motivo del ricorso principale.
5.1. Col quinto motivo di ricorso la ricorrente lamenta formalmente – il vizio di “motivazione carente, insufficiente e contraddittoria” circa la stima del danno patrimoniale.
Al di là di tale intitolazione formale, tuttavia, nella illustrazione del motivo deduce che la Corte d’appello ha sovrastimato il danno patrimoniale patito dalla vittima primaria e consistito nelle spese di assistenza, perché non ha detratto da esso né il valore capitalizzato dell’indennità di accompagnamento erogata dall’INPS al minore, né il valore economico delle prestazioni pubbliche di assistenza domiciliare.
5.2. Il motivo, come già detto, è stato ritenuto fondato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 12567 del 2018, in precedenza ricordata.
6. Il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale dell’Azienda.
6.1. Col primo e col secondo motivo del proprio ricorso incidentale l’Azienda propone censure coincidenti con quelle proposte dalla ricorrente principale nei motivi quarto e quinto del suo ricorso.
Per le ragioni già esposte, quindi, il primo motivo del ricorso incidentale andrà rigettato; il secondo è già stato accolto dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza ricordata al p. precedente.
7. Il terzo motivo del ricorso incidentale.
7.1. Col terzo motivo del proprio ricorso incidentale l’Azienda lamenta il vizio di “motivazione carente, insufficiente e contraddittoria”.
Ad onta di questa intitolazione formale, nella illustrazione del motivo viene svolta una censura riassumibile come segue.
La Corte d’appello, osserva l’amministrazione ricorrente, ha liquidato il danno patrimoniale futuro, consistente sia nelle spese future che Ta.Am. e la sua famiglia avrebbero dovuto sostenere per l’assistenza infermieristica, sia nel mancato guadagno causato dalla perdita della capacità di lavoro, “a valori attuali e con capitalizzazione attualizzata”, senza però applicare la “riduzione per anticipata corresponsione”.
Secondo l’Azienda tale modalità di liquidazione sarebbe erronea perché la Corte d’appello avrebbe dovuto, invece, applicare la “riduzione per anticipata corresponsione” (rectius, il c.d. coefficiente di minorazione per la capitalizzazione anticipata).
7.2. Prima di esaminare il motivo nel merito, v’è da rilevare come il suo contenuto non sia coerente con la sua intitolazione.
L’Azienda infatti, pur lamentando formalmente un “difetto di motivazione” (vizio, come già rilevato, non più censurabile in sede di legittimità, se non nei limitati casi di motivazione totalmente inesistente o totalmente incomprensibile), nella sostanza lamenta la violazione delle regole sulla stima del danno (in particolare, delle regole dettate dagliartt. 1223 e 1226 c.c.), censura che rientra nel differente vizio di violazione di legge, di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 3.
Questo errore nell’inquadramento della censura, tuttavia, non è di ostacolo all’esame nel merito del quinto motivo di ricorso.
Infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioè erri nell’inquadrare, in una delle cinque categorie previstedall’art. 360 c.p.c., l’errore commesso dal giudice di merito), il ricorso non può per ciò solo dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile il vizio censurato, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).
Nel caso di specie, l’illustrazione contenuta nelle pp. 12-14 del ricorso è sufficientemente chiara nel prospettare la violazione, da parte della Corte d’appello, della regola dettatadall’art. 1223 c.c.: e quindi il motivo è ammissibile, previa qualificazione d’ufficio come denuncia d’un error in iudicando.
7.3. Nel merito, il motivo è in parte fondato.
Rispetto al momento in cui viene compiuta la liquidazione, i danni patrimoniali futuri e permanenti possono essere di due specie:
(a) quelli che si stanno già producendo nel momento della liquidazione, e che continueranno a prodursi in futuro (nel nostro caso, le spese sanitarie e di assistenza);
(b) quelli che, pur essendo certi od altamente verosimili nel loro avverarsi, al momento della sentenza non si sono ancora avverati, perché inizieranno a prodursi solo dopo un certo periodo di tempo dalla liquidazione (nel nostro caso, il lucro cessante derivante dalla perdita della capacità di lavoro).
7.4. I danni del primo tipo (cioè i danni che si stanno già producendo al momento della liquidazione) possono essere liquidati in due modi:
(a) moltiplicando l’importo annuo del danno per il numero di anni per i quali il pregiudizio verosimilmente si produrrà;
(b) oppure, come è più frequente, moltiplicando l’importo annuo del danno per un coefficiente di capitalizzazione anticipata.
7.4.1. Se si sceglie la prima modalità, il risultato ottenuto dovrà essere ridotto (non con un coefficiente di minorazione, come invoca la ricorrente, ma) attraverso lo sconto matematico o commerciale (pari al “compenso” spettante a chi paga un debito prima della scadenza), in base alla nota formula: ovvero moltiplicando il capitale per il saggio di sconto, e dividendo il prodotto per il tempo di anticipazione, espresso in dodicesimi).
Se si sceglie la seconda modalità (capitalizzazione), non vi è bisogno né di sconto, né di riduzioni di sorta, perché qualsiasi coefficiente di capitalizzazione, restituendo il valore attuale di una rendita pagabile per n anni, ingloba in sé il calcolo dello sconto.
7.5. I danni patrimoniali futuri che, pur producendosi de die in diem, non sono ancora venuti ad esistenza al momento della liquidazione (nel nostro caso, la perdita della capacità di guadagno, danno che avrebbe iniziato a prodursi solo quando il minore avrebbe raggiunto l’età lavorativa), possono essere liquidati anch’essi col sistema della capitalizzazione, vale a dire moltiplicando l’importo annuo del reddito presumibilmente perduto dalla vittima, per un coefficiente di capitalizzazione.
In questo caso tuttavia, il principio di indifferenza del risarcimento sancitodall’art. 1223 c.c.impone al giudice di tenere conto del fatto che sta liquidando oggi un danno che si verificherà tra n anni.
E’ dunque necessario in questo caso tenere conto dello scarto temporale tra il momento della liquidazione ed il successivo momento in cui il danno inizierà a prodursi, e per farlo sarà necessario ridurre il risultato ottenuto dall’operazione di capitalizzazione, moltiplicandolo per un numero decimale inferiore ad uno, denominato “coefficiente di minorazione per capitalizzazione anticipata”, il quale restituisce il valore attuale di un Euro pagabile solo fra n anni.
7.6. Questo essendo il quadro dei principi che governano la materia della liquidazione del danno patrimoniale futuro e permanente, nel nostro caso i danni patrimoniali futuri per spese mediche e per assistenza sanitaria appaiono liquidati in modo ad essi conforme.
È la stessa Azienda, infatti, ad allegare che i suddetti pregiudizi sono stati “capitalizzati”. E poiché ogni operazione di capitalizzazione, per quanto detto, necessariamente presuppone lo sconto matematico, nessun errore vi fu da parte della Corte d’appello.
Né andava applicato alcun “coefficiente di minorazione” sul risultato ottenuto, come vorrebbe la ricorrente, perché per quanto detto il danno per spese mediche e di assistenza era già in fase di produzione al momento della liquidazione, e dunque non v’era alcuno iato temporale tra tale momento, e quello in cui il danno avrebbe iniziato a prodursi.
Nei termini che precedono deve ritenersi qui corretta la motivazione della Corte d’appello, che obiettivamente non è molto chiara su tale questione.
7.7. Non altrettanto correttamente sono stati liquidati dalla Corte d’appello i danni patrimoniali futuri da perdita della capacità di guadagno.
Vittima dell’illecito fu infatti un minore. Il danno patrimoniale da perduta capacità di procacciarsi un reddito da lavoro, pertanto, sarebbe insorto nel patrimonio della vittima solo quando quest’ultima avrebbe raggiunto l’età lavorativa. Solo allora, infatti, si sarebbe realizzato il deficit tra reddito atteso e reddito ottenuto.
Il Tribunale, per liquidare questo danno, si è limitato a moltiplicare il presunto reddito che la vittima avrebbe percepito se fosse rimasta sana, per il numero di anni lavorativi sperati, e la Corte d’appello ha reputato corretta tale operazione.
Così giudicando, tuttavia, la Corte d’appello ha trascurato sia di attualizzare (col metodo dello sconto o col metodo della capitalizzazione, sopra descritti) il danno futuro; sia di ridurre comunque il risultato applicando il c.d. coefficiente di minorazione per la capitalizzazione anticipata nei fanciulli, tenendo conto di uno scarto di non meno di 18 anni tra la data dell’illecito e la data di ingresso nel mondo del lavoro.
Non facendo ciò, la Corte d’appello ha violatol’art. 1223 c.c.ed il principio di corrispondenza tra danno e risarcimento, perché il minore – se fosse rimasto sano – avrebbe cominciato a guadagnare solo molti anni dopo la nascita, e di questo decalage temporale si doveva tenere conto nella liquidazione, attraverso il suddetto coefficiente di minorazione.
7.8. La Corte d’appello di Brescia, sul punto, ha rigettato il motivo di gravame affermando che nessuna riduzione andava applicata al risarcimento del danno futuro, perché “il denaro si svaluta”.
Ciò tuttavia appare paradossale: la minorazione per anticipata liquidazione va compiuta, infatti, proprio per tenere conto del fatto che di norma il denaro si deprezza. E’, infatti, proprio la svalutazione del denaro a far sì che il pagamento anticipato costituisca un maggior sacrificio per il debitore (in virtù del principio plus dat qui cito dat).
La Corte d’appello, in definitiva, ha addotto a giustificazione del proprio errore proprio il principio in virtù del quale avrebbe dovuto emendarlo.
7.9. La sentenza va dunque cassata su questo punto, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, la quale nel riesaminare il gravame proposto dall’Azienda applicherà il seguente principio di diritto:
“la liquidazione del danno permanente da incapacità di lavoro, patito da un fanciullo, deve avvenire dapprima moltiplicando il reddito annuo, che si presume sarà perduto, per un coefficiente di capitalizzazione corrispondente alla presumibile età in cui il danneggiato avrebbe iniziato a produrre reddito; e poi riducendo il risultato così ottenuto attraverso la moltiplicazione di esso per un coefficiente di minorazione, corrispondente al numero di anni con cui la liquidazione viene anticipata, rispetto al momento di presumibile inizio, da parte della vittima, dell’attività lavorativa”.
7.10. Questa Corte ritiene doveroso aggiungere una considerazione finale.
Ta.Am., vittima dell’illecito, nacque il (OMISSIS), ed ha quindi oggi ((OMISSIS)) 20 anni compiuti.
Non è quindi da escludere che il giudice di rinvio, nell’esercizio dei suoi poteri di accertamento del fatto, possa ritenere che, al momento in cui tornerà ad effettuare la liquidazione del danno da lucro cessante, Ta.Am. abbia già raggiunto l’età in cui, se fosse rimasto sano, avrebbe iniziato un’attività lavorativa.
Tale circostanza tuttavia non rende privo di rilevanza il terzo motivo del ricorso incidentale proposto dall’Azienda.
Se, infatti, non fosse rimossa la sentenza impugnata, l’Azienda sarebbe tenuta ad adempiere una obbligazione – ed i relativi accessori – calcolata nel 2007 e sovrastimata rispetto all’epoca della liquidazione, perdendo il c.d. interusurium.
Va da sé che, se il giudice del rinvio, al momento in cui provvederà alla nuova liquidazione del danno patrimoniale, riterrà già raggiunta da Ta.Am. l’età in cui questi avrebbe presumibilmente iniziato l’attività lavorativa se fosse rimasto sano, si asterrà dall’applicare il suddetto coefficiente di minorazione per capitalizzazione anticipata, secondo i principi esposti al p. 7.4 della presente sentenza.
8. Le spese.
Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
(-) dà atto che il quinto motivo del ricorso principale ed il terzo motivo del ricorso incidentale sono stati accolti dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 12567 del 2018;
(-) rigetta il primo, il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale;
(-) rigetta il primo motivo del ricorso incidentale;
(-) accoglie il terzo motivo del ricorso incidentale, nei limiti di cui in motivazione;
(-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, il 16 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2018

L’art. 184 c.c. presuppone l’avvenuta effettiva autonoma disposizione di un bene comune da parte di uno solo dei coniugi

Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2018, n. 8525
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22476-2013 proposto da:
G.G., rappresentato e difeso dagli Avvocati LELIO LIMONI e ROBERTO GIOVANNI ALOISIO, ed elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 42, presso lo studio del secondo;
– ricorrente –
contro
F.E., nella qualità di erede di F.M., rappresentato e difeso dagli Avvocati A. DOMENICO SELLA e MICHELE TAMPOINI, ed elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO FRIGGERI 106, presso lo studio del secondo;
– controricorrente –
e contro
V.N., nella qualità di erede di M.Z., rappresentato e difeso dagli Avvocati STEFANO FASOLIN e GIUSEPPE CAMPANELLI, ed elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DARDANELLI 37, presso lo studio del secondo;
– controricorrente –
e contro
V.C., nella qualità di erede di M.Z.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1975/2012 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 19/09/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/12/2017 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi l’Avvocato ROBERTO GIOVANNI ALOISIO per il ricorrente che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; gli Avvocati DONATO MONDELLI per il controricorrente F.E. e GIUSEPPE CAMPANELLI, per il controricorrente V.N., che hanno concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 4 settembre 2002, G.G. conveniva dinanzi al Tribunale di Verona, sezione distaccata di Legnago, F.M., in proprio e quale tutore della moglie interdetta M.Z., chiedendo l’adempimento exart. 2932 cod. civ.(dichiarandosi disposto al pagamento del saldo del prezzo e chiedendo il rilascio del bene) del preliminare stipulato il 19 giugno 2001, con cui il F. aveva promesso in vendita all’attore un terreno in comproprietà tra il F. medesimo e la moglie.
Si costituiva F.E., quale protutore della M., che eccepiva la nullità del preliminare per il mancato consenso della stessa, chiedendo il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale subordinata, l’annullamento del contratto exart. 184 e/o 377 cod. civ., stante anche la mancata autorizzazione del Tribunale alla stipulazione dell’atto.
Si costituiva anche F.M., il quale concludeva in modo analogo, chiedendo il rigetto della domanda, previo accertamento della nullità del contrato preliminare, o in via riconvenzionale l’annullamento.
Interrotta la causa per morte di entrambi i convenuti ( F.M. e M.Z.) la stessa veniva riassunta dal G. nei confronti degli eredi ( F.E., quale erede di F.M., e V.N. e C., quali eredi di M.Z.) che si costituivano ribadendo le precedenti difese svolte dai rispettivi danti causa.
Il Tribunale adito, con sentenza n.44/08 depositata il 26 febbraio 2008, accoglieva la domanda attorea, rigettando le difese dei convenuti, in quanto l’annullabilità exartt. 375 e 377 cod. civ.non ricorreva, non avendo F.M. agito come tutore, ed essendo tardiva la domanda di annullamento exart. 184 cod. civ.(la cui disciplina presentava carattere di specialità rispetto a quella della comunione ordinaria) perché proposta oltre l’anno da quando il protutore aveva avuto notizia del contratto; per l’effetto disponeva il richiesto trasferimento del bene, condannava l’attore al pagamento del prezzo residuo ed i convenuti al rilascio, e compensava le spese.
Con atto notificato l’8 aprile 2009, la sentenza veniva impugnata davanti alla Corte d’appello di Venezia da F.E., chiedendone la riforma, previa inibitoria exart. 283 cod. proc. civ., nonché il rigetto delle domande avversarie e l’accoglimento delle proprie istanze e difese non accolte il primo grado.
Si costituivano il G., chiedendo il rigetto dell’appello e dell’istanza di inibitoria; e V.N. (rimanendo contumace V.C.), che si associava alle conclusioni dell’appellante.
Sospesa l’efficacia esecutiva della impugnata sentenza del Tribunale di Verona (sezione distaccata di Legnago), la Corte d’appello di Venezia, con sentenza n. 1975/2012, depositata il 19/09/2012, in riforma della decisione di primo grado rigettava le domande proposte da G.G. nei confronti di F.M. e M.Z..
Per la cassazione di tale sentenza G.G. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi. F.E. e V.N. hanno resistito con rispettivi controricorsi. Tutte le parti in giudizio hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione di norma di diritto in tema di comunione legale tra coniugi. In particolare violazionedell’art. 184 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3”, poiché la Corte d’appello ha ritenuto fondato (e assorbente) l’argomento con cui l’appellante aveva riproposto l’eccezione di nullità-inefficacia del contratto preliminare di vendita di un immobile, appartenente a due coniugi, in regime di comunione legale, per mancata adesione al medesimo di uno dei due coniugi comproprietari, entrambi indicati in intestazione come parti dello stesso, con conseguente inapplicabilitàdell’art. 184 cod. civ.(sentenza pag. 12).
Il ricorrente deduce l’erroneità della decisione di appello che avrebbe ritenuto l’inapplicabilitàdell’art. 184 c.c., che a giudizio della Corte di merito deriverebbe dal fatto che tale norma disciplina l’ipotesi in cui il coniuge disponga autonomamente del bene comune, e quindi troverebbe applicazione nei differenti casi in cui il coniuge non riveli la situazione di comunione, presentandosi come unico proprietario, ovvero dichiari di agire anche per conto dell’altro senza averne i poteri.
1.2. – Il motivo non è fondato.
1.3. – La Corte d’appello di Venezia ha richiamato il principio di diritto (pronunciato rispetto ad identica fattispecie negoziale, e mai specificamente negato dalla successiva giurisprudenza di legittimità) in virtù del quale, “in regime patrimoniale di comunione legale, il disposto di cuiall’art. 184 cod. civ.(secondo cui “gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art. 2683″) presuppone l’effettiva autonoma disposizione di un bene comune da parte di uno solo dei coniugi, pertanto non si applica nel caso in cui, come nella specie, tutti i contraenti siano a conoscenza della comunione dei beni tra i coniugi e questi ultimi figurino entrambi nel contratto come venditori, atteso che in tal caso il mancato consenso di uno dei due impedisce il sorgere di una valida obbligazione neanche a carico dell’altro” (Cass. n. 3647 del 2004).
La Suprema Corte – nel ritenere (appunto) non fondata la pretesa dei ricorrenti di veder affermata la validità del contratto di compravendita per essere decorso il termine annuale concesso al coniugedall’art. 184 c.c.per far annullare l’atto stipulato senza il suo consenso – ha precisato che, in quella occasione (come nell’odierna), le parti avevano predisposto un contratto in cui figuravano in qualità di venditori sia il marito che la moglie, senza tuttavia mai ottenere la sottoscrizione di questa, sicché non poteva dirsi che il primo avesse disposto autonomamente di un bene della comunione, essendo pacifico che tutte le parti erano consapevoli della comunione vigente sui beni e la comune volontà di tutti era orientata alla stipula di un contratto in cui entrambi i titolari del bene avrebbero dovuto prestare il consenso alla vendita.
1.4. – Orbene, è incontestato in atti che la “promessa di vendita” in questione prevedesse, testualmente, che tra ” F.M., nato a (…) e M.Z.M. da una parte, e il signor G.G. nato a (…) dall’altra, si conviene e stipula quanto segue: art. 1) il signor F.M. e M.Z.M. promette di vendere al signor G.G. che promette di acquistare (…)”; ed altrettanto non controverso è che, nella medesima scrittura, manchi la sottoscrizione della signora M..
Anche nel presente giudizio, dunque, la Corte d’appello ha correttamente esclusa (in coerenza col precedente principio espresso dalla Cassazione) l’applicabilità del dispostodell’art. 184 c.c., il quale (nel predisporre la specifica tutela del coniuge dissenziente) presuppone l’avvenuta effettiva autonoma disposizione di un bene comune da parte di uno solo dei coniugi; situazione, questa, non certamente equiparabile a quella di specie, in cui la mancata prestazione del consenso da parte di uno dei coniugi, espressamente indicato nell’atto quale contraente, non ha mai consentito il sorgere di una valida obbligazione neppure a carico dell’altro, attesa la nullità del contratto per mancanza di tale requisito essenziale (artt. 1325 c.c.e ss.).
1.5. – Non si tratta dunque di rifarsi alla peculiare natura della comunione legale tra coniugi ed agli effetti del consenso del coniuge, rimasto estraneo all’atto di disposizione posto in essere dal solo altro coniuge; né alla qualificazione del consenso quale negozio unilaterale autorizzativo, atto a rimuovere il limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene (come affermato dalla giurisprudenza richiamata dal ricorrente: Cass. sez. un. n. 17952 del 2007; Cass. n. 12849 del 2008; Cass. n. 14093 del 2010; Cass. n. 12923 del 2012); e neppure agli effetti nei confronti dei terzi del contratto stipulato in assenza del consenso del coniuge pretermesso (Cass. n. 2202 del 2013). Né soccorre il richiamato orientamento secondo cui, “per l’esecuzione in forma specifica, a normadell’art. 2932 cod. civ., di un preliminare di vendita di un bene immobile rientrante nella comunione legale dei coniugi, non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i promittenti venditori, ma è sufficiente il consenso del coniuge non stipulante, traducendosi la mancanza di detto consenso in un vizio di annullabilità, da far valere, ai sensidell’art. 184 cod. civ., nel rispetto del principio generale della buona fede e dell’affidamento, entro il termine di un anno, decorrente dalla conoscenza dell’atto o dalla trascrizione” (Cass. n. 12923 del 2012, già cit.; conf. a Cass. n. 2202 del 2013, cit.; Cass. n. 1385 del 2012, Cass. n. 14093 del 2010, cit.; Cass. n. 88 del 2007 e Cass. 16177 del 2001; laddove il riferimento alla fattispecie decisa dalla già evocata Cass. n. 12923 del 2012 attiene al diverso caso in cui il coniuge pretermesso era semplicemente “presente” alla stipulazione dell’atto da parte dell’altro coniuge, senza parteciparvi, e non lo aveva sottoscritto).
Del tutto correttamente, pertanto, la Corte d’appello ha evidenziato la peculiarità della fattispecie in esame che – peraltro in assenza di alcun riferimento nell’atto sia al regime patrimoniale dei coniugi promittenti venditori, sia a poteri rappresentanza volontaria e/o legale (anche in ragione dello stato di interdizione della contraente signora M.) in capo al coniuge firmatario diversamente dai richiamati precedenti riguarda specificamente il caso in cui il coniuge sia parte contraente a tutti gli effetti, il cui nome appaia nell’intestazione come nel contento dell’atto, senza che poi ne segua la sottoscrizione, così configurandosi una figura contrattuale rispetto alla quale è del tutto estranea la disciplina dei rimedi approntatadall’art. 184 c.c.; e ciò (come correttamente evidenziato dalla Corte d’appello) in mancanza di alcuna ragione di privilegiare l’affidamento del terzo contraente e sottoscrittore dell’atto, ben consapevole della incompletezza dell’accordo raggiunto e, quindi, dell’inefficacia dell’atto.
2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “violazionedell’art. 1387 c.c.in relazioneall’art. 357 c.c., richiamatodall’art. 424 c.c., nonché violazionedell’art. 183 c.c., comma 3, che esclude il coniuge interdetto dall’amministrazione dei beni comuni: l’interdizione di M.Z. impediva la di lei sottoscrizione del preliminare di vendita immobiliare – Violazione delle cennate norme di diritto in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3”. L’errore di diritto sarebbe consistito nel non aver considerato che il potere di rappresentanza di M.Z. in capo al coniuge tutore F.M. era a questi conferito dalla legge e nel non avere tenuto conto chel’art. 183 c.c., comma 3, esclude il coniuge interdetto dall’amministrazione dei beni comuni.
2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – Proprio la scelta di utilizzare una figura contrattuale in cui entrambi i coniugi figurano come contraenti, promittenti venditori, nonché di escludere dal contenuto dell’atto qualunque riferimento allo stato di interdizione legale della signora M., e quindi alla sua esclusione di diritto dalla amministrazione dei beni comuni (ai sensidell’art. 183 c.c., comma 3), ovvero al potere di rappresentanza conferito dalla legge al tutore, dimostrano la chiara volontà delle parti di predisporre il contratto preliminare de quo per la partecipazione al negozio di entrambi i comproprietari; e non già per la partecipazione di uno solo di essi quale tutore e rappresentante legale della interdetta.
Correttamente dunque la Corte d’appello di Venezia – sulla base dell’interpretazione del contratto, riservata al giudice di merito (Cass. n. 16181 del 2017), operata in riferimento alla comune intenzione dei contraenti, appalesata dall’inequivoco senso letterale delle parole (verificate alla luce dell’intero contesto negoziale ai sensidell’art. 1363 c.c., nonché ai criteri d’interpretazione soggettiva di cui agliartt. 1369 e 1366 c.c.), e volta a consentire l’accertamento del significato dell’accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta e ad escludere interpretazioni cavillose deponenti per un significato in contrasto con gli interessi che le parti hanno voluto tutelare mediante la stipulazione negoziale (Cass. n. 7927 del 2917) – ha valorizzato e posto a fondamento della propria decisione, il fatto che la scrittura privata in questione, così come testualmente redatta dalle parti, aveva il fine di permettere la partecipazione all’atto di entrambi i comproprietari.
2.3. – E per tale ragione la Corte d’appello ha, altrettanto correttamente, attribuito carattere e valenza assorbente alla eccezione di nullità/inefficacia, per vizio del consenso, del contratto preliminare di vendita di immobile, appartenente ai due coniugi in regime di comunione legale, per mancata sottoscrizione del medesimo di una dei due coniugi comproprietari, indicata insieme all’altro coniuge, nella intestazione e nel contenuto dell’atto, come parte dello stesso.
3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce (in via subordinata al mancato accoglimento dei due precedenti) la “violazione della tariffa professionale vigente pro tempore (D.M. 8.4.2004 n. 127in G.U. 18.5.2004), in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3. Applicazione delD.M. 20 luglio 2012, n. 140,art.41alla presente controversia”. Il ricorrente contesta il superamento dei limiti tariffari massimi nella determinazione delle spese processuali liquidate in favore delle controparti vittoriose in appello.
3.1. – Il terzo motivo è inammissibile.
3.2. – Va preliminarmente osservato che la fattispecie dedotta in giudizio (nella quale viene contestato l’ammontare delle spese di lite determinate nella sentenza della Corte di appello di Venezia depositata il 19.9.2012) è regolata, ratione temporis, dalD.M. 20.7.2012(il cui art. 41 recita: “Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore”), posto che alla data di entrata in vigore di tale decreto (23.8.2012) la prestazione professionale del cui compenso si discute non si era ancora conclusa e che, come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 17405/12, la nozione di compenso rimanda ad un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata, ancorché iniziata e parzialmente svolta sotto il vigore di discipline tariffarie previgenti (conf. Cass. 4949/17).
Inoltre, nella specie trova applicazione la disposizione di cui all’art. 1, comma 7, del suddetto decreto 140/2012, alla cui stregua “In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa”; disposizione questa rispetto alla quale è stato peraltro precisato che il giudice è tenuto ad indicare le concrete circostanze che giustificano le deroga ai minimi e massimi stabiliti dal medesimo d.m. (cfr. Cass. n. 18167 del 16/09/2015; Cass. 11 gennaio 2016 n. 253; Cass. 3 agosto 2016, n. 16225).
3.3. – Ciò premesso, va rilevato che, nei termini in cui risulta formulato il motivo di appello, la denuncia di violazione della tariffa professionale vigente pro tempore sembrerebbe riferita alle tariffe di cui alD.M. 8 aprile 2004, n. 127; laddove solo in un secondo momento si rappresenta l’applicabilità nella definizione delle spese del giudizio a quo delD.M. n. 140 del 2012,art.41.
Peraltro, a supporto dell’assunto del superamento del massimo tariffario, il ricorrente confusamente ne deduce, prima, la non coerenza in riferimento a non meglio precisati parametri tariffari (che, per dare senso al richiamo contenuto nella sintesi del motivo, sembrerebbero presumibilmente quelli dettati dal richiamatoD.M. n. 127 del 2004); e, solo dopo aver rappresentato l’applicabilità ratione temporis delle tariffe di cui alD.M. n. 140 del 2012, osserva che è su detta nuova normativa che “va parametrato il compenso per l’intero presente giudizio, in tutti i gradi nei quali ha trovato svolgimento”.
Tale rappresentazione delle doglianze espresse dal motivo, e l’assenza di sicuri parametri di riferimento delle singole voci di tariffa rispetto alle specifiche attività effettivamente svolte nei diversi gradi di giudizio, comporta (in mancanza di autosufficienza del motivo) l’impossibilità di operare una sicura valutazione della legittimità o meno della contestata quantificazione operata dal giudice di appello. Secondo il principio affermato da questa Corte, la parte, la quale intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi tariffari, ha l’onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il ricorso che contenga il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in eccesso rispetto alla tariffa massima (Cass. n. 18086 del 2009; conf. Cass. n. 3651 del 2007; n. 2626 del 2004).
4. – Il ricorso pertanto va rigettato.
4.1. – Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che liquida per ciascuno dei controricorrenti in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2018

È necessario il consenso di entrambi i genitori al fine dell’accoglimento da parte del Prefetto della domanda di modifica del nome di un minore

T.A.R. Lazio Roma Sez. I ter, 26 novembre 2018, n. 11410
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4511 del 2013, proposto da
-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avvocato Anna Maria Barbante, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR Lazio in Roma, via Flaminia, 189;
contro
U.T.G. – Prefettura di Rieti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
-OMISSIS-, non costituito in giudizio;
per l’annullamento
del decreto prefettizio n. 0004395 dell’11 marzo 2013 con cui è stata respinta la domanda presentata dalla ricorrente volta ad ottenere l’aggiunta del cognome materno a quello paterno.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’ U.T.G. – Prefettura di Rieti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 luglio 2018 la dott.ssa Francesca Romano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo
1. Con ricorso notificato il 9 maggio e depositato il successivo 17 maggio 2013, la sig.ra -OMISSIS-ha adito questo Tribunale al fine di ottenere l’annullamento del decreto del Prefetto della Provincia di Rieti dell’11 marzo 2013 con cui è stata respinta l’istanza volta ad ottenere l’aggiunta del cognome materno “-OMISSIS-” al cognome paterno “-OMISSIS-“, in favore del figlio minore –OMISSIS-.
2. Espone in fatto che il figlio, nato dalla relazione con -OMISSIS-, e da questi legalmente riconosciuto, è stato lei affidato allorquando la convivenza tra loro veniva a cessare nel mese di marzo del 2012.
A causa del disaccordo tra i due, i rapporti genitoriali venivano regolati dal Tribunale per i Minorenni di Roma che, con decreto del 13 marzo 2012, disponeva l’esercizio congiunto della potestà genitoriale, fermo restando il collocamento del minore presso la madre.
In data 1 agosto 2012 la sig.ra -OMISSIS- presentava, dunque, l’istanza tendente ad ottenere l’aggiunta del cognome materno “-OMISSIS-” a quello paterno “-OMISSIS-” in favore del figlio -OMISSIS-, al fine di vedere riconosciuto il suo ruolo genitoriale, senza incidere sulla situazione acquisita e sull’originario cognome paterno del bambino.
Espletata l’istruttoria, la Prefettura di Rieti comunicava alla ricorrente, con avviso ex art.10 bis,L. n. 241 del 1990, che il padre del minore aveva proposto formale opposizione all’istanza di cambiamento del cognome.
Con il gravato decreto, dunque, la Prefettura, considerata la necessarietà del consenso di entrambi i genitori al fine dell’accoglimento della domanda, non sussistendo un’ipotesi di decadenza dalla potestà genitoriale né altre comprovate peculiari circostanze familiari, la respingeva.
3. Avverso il gravato decreto la ricorrente deduce i seguenti motivi di diritto:
I. Carenza, illogicità e difetto di motivazione per violazione degli artt.1e3,L. n. 241 del 1990. Sviamento del potere, in quanto l’amministrazione non avrebbe consentito alla ricorrente di conoscere le ragioni dell’opposizione dell’altro genitore.
II. Erroneità ed illogicità della motivazione per violazione dell’art. 89, D.P.R. 2 novembre 2011, n. 396, nella lettura costituzionalmente orientata offerta da Corte Costituzionale nella decisione n. 61/2006.
III. Erroneità della motivazione nella misura in cui ha ritenuto indispensabile il consenso dell’altro genitore, come disposto dalla circolare n. 15/2008.
4. Si è costituita in giudizio la resistente amministrazione, depositando in giudizio la documentazione relativa al procedimento per cui è causa.
5. Alla pubblica udienza del 17 luglio 2018 la causa è passata in decisione.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato.
Il nostro ordinamento riconosce il diritto al nome (art. 6 c.c.), nel binomio comprensivo del prenome e del cognome, e ne prevede la tutela (artt. 7 e 8 c.c.), intesa non tanto come tutela del segno distintivo della persona ma come tutela dell’identità personale.
L’art. 6 c.c., nell’ esprimere il favor per la certezza e la stabilità del nome – con l’evidente intento di salvaguardare l’interesse pubblico alla certezza dello status ed all’agevole individuazione delle persone, al comma terzo, consente “cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome”, nei soli casi e con le formalità previste dalla legge ordinaria.
L’art.89, comma 1,D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, come da ultimo modificato dalD.P.R. 13 marzo 2012, n. 54, stabilisce, a tale riguardo che: “salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce. Nella domanda l’istante deve esporre le ragioni a fondamento della richiesta”.
La giurisprudenza amministrativa ha così avuto modo di chiarire che la domanda proposta ai sensi dell’art.89,D.P.R. n. 396 del 2000può essere sostenuta anche da intenti soggettivi ed atipici, purché meritevoli di tutela e non contrastanti con il pubblico interesse alla stabilità ed alla certezza degli elementi identificativi della persona e del suo status giuridico e sociale (ex plurimis, Cons. St., III, 15 ottobre 2013, n. 5021).
Secondo la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr., Cons. St., IV, 27 aprile 2004, n. 2752; 26 giugno 2002, n. 3533), ancora, “il diniego ministeriale di autorizzazione al mutamento di nome, ai sensi degli artt.153 e seguentidelR.D. 9 luglio 1939, n. 1238, costituisce, (…), provvedimento eminentemente discrezionale, in cui la salvaguardia dell’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome, connesso ai profili pubblicistici dello stesso come mezzo di identificazione dell’individuo nella comunità sociale, può venire contemperata con gli interessi di coloro che quel nome intendano mutare o modificare nonché di coloro che a quel mutamento intendano opporsi.
Dalla natura discrezionale dell’impugnato provvedimento di diniego discende – come logico corollario – che il sindacato giurisdizionale dello stesso può essere condotto, quanto al vizio intrinseco dello sviamento, sotto il limitato profilo della manifesta irragionevolezza delle argomentazioni amministrative o del difetto di motivazione” (così, Cons. St., IV, 26 aprile 2006, n. 2320).
2. Nel caso di specie, il provvedimento prefettizio di diniego all’aggiunta, al cognome paterno del figlio minore, del cognome della madre, motivato sulla base dell’opposizione del padre, non appare a questo collegio affetto da alcun vizio manifesto.
Innanzitutto, giova precisare, alla fattispecie in esame non sono applicabili i principi da ultimo posti dal giudice delle leggi nella sentenza n. 286 del 2016.
Premessa la vigenza nel nostro ordinamento, desumibile dalle norme che implicitamente la presuppongono, della norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso jure al figlio, la Corte Costituzionale, ha espressamente affermato, come già incidentalmente aveva fatto nel 2006 (sentenza n. 61 del 2006), l’incompatibilità della norma de qua con i valori costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”.
Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome, ha osservato la Corte, con l’abrogazione degli artt.84,85,86,87e88delD.P.R. n. 396 del 2000e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera delD.P.R. 13 marzo 2012, n. 54, le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome, effettuata al momento della nascita.
“Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre.
3.4.- La Corte ritiene che siffatta preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.
(…) Il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale, che si proietta nella sua personalità sociale, ai sensidell’art. 2 Cost.
(…) In questa stessa cornice si inserisce anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ricondotto il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con laL. 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, nella sentenza Cusan Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014, successiva all’ordinanza di rimessione in esame, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale “dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane”. La Corte EDU ha, altresì, ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni aggiungendo a quello paterno il cognome della madre.
La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori” (così, Corte Cost. 21 dicembre 2016, n. 286).
Sulla base di tali principi, la Corte giunge, dunque, a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagliartt. 237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, delR.D. 9 luglio 1939, n. 1238(Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 delD.P.R. 3 novembre 2000, n. 396(Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo2, comma 12, dellaL. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.
3. Il caso sottoposto all’odierno organo giudicante è, tuttavia, diverso.
La richiesta del cambiamento di cognome, in ipotesi di soggetto minorenne, deve necessariamente provenire dai soggetti che ne hanno la rappresentanza legale, quindi, nel caso di specie dagli esercenti la potestà genitoriale.
Nel caso in cui vi sia accordo tra i medesimi trovano senza dubbio applicazione i principi sopra affermati da ultimo dai giudici costituzionali nella decisione n. 286/2016, di modo che deve senza dubbio essere riconosciuta la possibilità di trasmettere ai figli, e quindi, di aggiungere al cognome paterno, anche il cognome materno.
In caso di disaccordo, all’opposto, tali principi non sono immediatamente applicabili.
Si deve avere riguardo, a tale proposito, alla normadell’art. 320 c.c.sulla rappresentanza e amministrazione dei beni dei figli, secondo cui i genitori esercitano “congiuntamente” (salvo l’ipotesi, che non ricorre nel caso de quo, dell’esercizio in via esclusiva della potestà genitoriale) i poteri di rappresentanza dei figli “in tutti gli atti civili”.
La richiesta di modifica del cognome del figlio minore, integrando un “atto civile”, può essere presentata, allora, dai genitori solo nell’esercizio della rappresentanza legale che trova la sua fonte e disciplinanell’art. 320 c.c., di guisa che deve ritenersi a tal fine imprescindibile il consenso di entrambi i genitori, fatto salvo solo il caso – che qui non ricorre – in cui uno di essi sia stato privato della potestà genitoriale.
In caso di disaccordo, stabilisce, in ultima analisi,l’art. 320, comma 2, c.c., si applicano allora le disposizionidell’art. 316 c.c., che per il caso di contrasto su questioni di particolare importanza prevede la possibilità, per ciascuno dei genitori, di ricorrere senza formalità al giudice civile.
Alcuna censura, pertanto, può essere mossa avverso il gravato provvedimento di diniego, sia sotto il profilo dello sviamento del potere che dell’illogicità ed erroneità della motivazione, sollevate con il primo ed il secondo motivo di ricorso, in quanto in presenza di disaccordo tra i coniugi nell’esercizio dei poteri rappresentanza del minore per il compimento di atti civili, quali, in specie, il cambiamento del cognome, non è il Prefetto l’autorità competente ad adottare le determinazioni ritenute più idonee a curare l’interesse del figlio, bensì, come detto, l’autorità giudiziaria, ai sensi degliartt. 320 e 316 c.c.
4. Del pari, privo di fondamento risulta essere il terzo motivo di ricorso.
La circolare ministeriale n. 15/2008 prevede espressamente la possibilità di presentare l’istanza di cambiamento di cognome per conto del minorenne, ribadendo, pur tuttavia, in armonia con i sopra affermati principi, che la stessa può essere presentata da entrambi i genitori in quanto esercenti la potestà genitoriale, o anche da uno dei due “purché detta istanza sia accompagnata dal consenso dell’altro genitore”.
La circolare contempla, quindi, due ipotesi eccezionali in cui l’istanza può essere positivamente valutata dal Prefetto ancorché presentata da uno solo dei due genitori: l’ipotesi di perdita della potestà genitoriale da parte dell’altro, che non ricorre nel caso de quo, e l’ipotesi di istanza motivata sulla base di “peculiari circostanze familiari, adeguatamente comprovate, tali da arrecare pregiudizio o danno al minore” che, con motivazione sul punto esente da vizi di legittimità, il Prefetto non ha ritenuto ravvisabile nella mera circostanza dell’esistenza di una situazione conflittuale tra i genitori del minore.
5. Per tutto quanto sopra esposto, in conclusione, il ricorso deve essere respinto.
6. Si ravvisano, per la peculiarità della fattispecie esaminata, giustificati motivi per compensare le spese di
lite tra le parti.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui agli artt.52 commi 1,2 e 5 e 22, comma 8D.Lgs. n. 196 del 2003, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o delle persone minori ivi citate.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 luglio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Germana Panzironi, Presidente
Roberta Ravasio, Consigliere
Francesca Romano, Primo Referendario, Estensore

ASSEGNO DI DIVORZIO E ONERE DELLA PROVA

Di Gianfranco Dosi

I Il superamento, in materia di assegno divorzile, delle equazioni tradizionali sull’onere della prova nel processo civile
La tesi che intendo illustrare è che il riconoscimento e l’attribuzione in sede giudiziaria dell’assegno divorzile non sono più da considerare governati in via prevalente dalla regola tradizionale dell’art. 2697 c.c. sull’onere della prova nel processo civile1
1 L’art. 2697 c.c. afferma il principio dell’onere in capo all’attore che intenda far valere un diritto di provare i fatti costitutivi del diritto stesso (cioè i fatti, gli elementi, richiesti dalla legge per l’esistenza di tale diritto) e l’onere per il convenuto di eccepire l’eventuale inefficacia o inesistenza di tali fatti sostenendo che il diritto si è, per esempio, estinto o modificato, e dovendo perciò provare tali fatti estintivi, modificativi o impeditivi., ma sono il risultato della distribuzione, operata dalla legge, tra il giudice e le parti di differenti e convergenti funzioni (ribadite molto efficacemente da Cass, civ. Sez. Unite, 11 luglio 2018, n. 18287) che consistono per il giudice nel potere/ dovere di accertamento anche d’ufficio delle condizioni reddituali, economiche e patrimoniali delle parti (cui corrisponde un dovere di documentazione e di collaborazione delle parti e comunque di soggezione a tale potere/dovere) e per le parti private nell’onere probatorio teso soprattutto all’ac¬certamento delle connessioni causali tra lo squilibrio dei redditi e gli indicatori elencati nell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio (contributo personale data alla vita familiare, condizioni perso¬nali, ragioni della decisione, durata del matrimonio).
In materia di onere della prova in generale i processualisti ci hanno sempre abituato a pensare in termini di due equazioni: I equazione: Diritti disponibili = art. 2697 c.c. (onere della prova sostanzialmente a carico delle parti Cfr anche l’art. 115 c.p.c. (Disponibilità delle prove): Il giudice pone a fondamento della propria decisione le prove prodotte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Il giudice porrà a fondamento della sua decisione anche le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, senza bisogno di prova. ).
II equazione: Diritti indisponibili = poteri di ufficio del giudice e decisione anche ultra petita3
3 Tutto ciò nell’ambito di un sistema processuale basato su alcuni semplici principi: a) sulla sostanziale equiparazione tra prove precostituite (atti pubblici, scritture private, scritture richieste per motivi fiscali dalla pubblica amministrazione come le dichiarazioni dei redditi) e prove precostituende. b) sulla sostanziale equiparazione tra prova diretta e prova indiretta come le presunzioni (art. 2727 c.c.) c) sul libero convincimento del giudice (art. 116 c.p.c.) in cui la valutazione delle prove (dirette o indirette che siano) è rimessa al suo prudente apprezzamento, salvo per le prove cosiddette legali (confessione e giuramento) che nei limiti della loro ammissibilità vincolano lo stesso giudice. .
II Poteri/doveri d’ufficio del giudice nel processo civile e nel processo del lavoro
L’equazione diritti disponibili = onere della prova a carico delle parti è temperata nel processo civile in generale dall’esistenza di poteri d’ufficio del giudice.
1. Nel processo ordinario (maggiormente in quello camerale
4 Nel rito camerale il giudice “può assumere informazioni” (art. 738 ultimo comma c.p.c.) ma anche significativi nel rito a cognizione ordinaria
5 A tale proposito occorre ricordare che il giudice civile in generale ha una fascia di poteri di iniziativa d’ufficio senz’altro consistenti. Si tratta di un numero significativo di ipotesi in cui si attribuiscono al giudice civile poteri ufficiosi in materia probatoria, tanto da far dubitare, che il processo civile possa dirsi effettivamente dominato dal principio della disponibilità delle prove. Si pensi all’interrogatorio libero delle parti (art.117 e 183 c.p.c.); all’ispezione di persone e cose (art. 118 c.p.c.); all’ordine di esibizione (art. 2711 cod. civ.); alla nomina di un consulente tecnico (artt. 61 e 191 ss c.p.c.) (nei limiti in cui la consulenza tecnica possa essere considerato mezzo di prova); alla richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione (art. 213 c.p.c.a); al giuramento suppletorio e quello d’estimazione (artt. 240 e 241 c.p.c.); al potere rivolgere al teste domande utili a chiarire i fatti (art. 253, 1° comma c.p.c.); all’audizione dei testi di riferimento (art. 257 e 281 ter c.p.c.); all’esperimento giudiziale (art. 261 c.p.c.). )
2. Nel processo del lavoro (anche dove si tratta di diritti disponibili del lavoratore) al giudice sono attribuiti poteri d’ufficio funzionali sostanzialmente all’accertamento della verità materiale6
6 Art. 421 c.p.c. (Poteri istruttori del giudice) “Il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti.
Può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Si osserva la disposizione del comma sesto dell’articolo 420.
Dispone, su istanza di parte, l’accesso sul luogo di lavoro, purché necessario al fine dell’accertamento dei fatti, e dispone altresì, se ne ravvisa l’utilità, l’esame dei testimoni sul luogo stesso.
Il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell’articolo 246 o a cui sia vietato a norma dell’articolo 247. . Si legga Cass. civ. Sez. Unite, 17 giugno 2004, n. 11353 (E’ caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, ove il giudice reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione).
III Oneri di documentazione a carico delle parti e poteri/doveri d’ufficio del giudice nel processo di divorzio e di separazione
a) Oneri di documentazione a carico delle parti
Per i procedimenti di divorzio (e di separazione) sono previste norme specifiche che prescrivono alle parti l’obbligo di determinati adempimenti documentali e norme che prescrivono un vero e proprio “dovere di collaborazione delle parti nella formazione della prova” (Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1996, n. 97567
7 Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1996, n. 9756 (Famiglia e Diritto, 1997, 16 nota di CHIZZINI) L’art. 5, comma 8, l. 1 dicembre 1970 n. 898 (nel testo di cui alla l. 6 marzo 1987 n. 74) – secondo cui entrambi i coniugi devono presentare, all’udienza di comparizione dinanzi al Presidente del tribunale, la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi ed al loro patrimonio, ed in caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria – deroga al principio generale sull’onere della prova stabilito dall’art. 2697 c.c. Tale deroga, peraltro, non inverte l’ onere probatorio trasferendo sul soggetto nei cui confronti l’assegno è richiesto l’ onere di dimostrare che non ne sussistono i presupposti, bensì impone ad entrambi i soggetti interessati un obbligo di collaborazione nella formazione di tale prova, in relazione al quale, ove sorgano contestazioni sul suo esatto adempimento, ).
Come si sa, sia in sede di separazione (art. 706, co. 3 ultima parte c.p.c.) che in sede di divorzio (art. 4, co. 6 legge divorzio) si prevede infatti che “Al ricorso e alla memoria difensiva sono alle¬gate le ultime dichiarazioni dei redditi presentate”. E questo anche nel caso in cui non vi siano figli minori. Si tratta di un adempimento che potremmo chiamare di discovery di tipo confessorio che, imponendo precisi obblighi di documentazione non solo all’attore ma anche al convenuto è certa¬mente un primo rilevante indizio di dissonanza rispetto alle regole del processo civile governato dal principio di rigida disponibilità della prova.
Inoltre la legge sul divorzio, all’art. 5, comma 9, dopo aver ribadito l’obbligo di presentazione delle dichiarazioni dei redditi, prescrive che le parti devono depositare “ogni altra documentazione rela-tiva ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale di-spone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenere di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”. Si tratta di un altro adempimento di discovery confessoria – altro rilevante indizio di officiosità del processo – in base al quale in quasi tutti i tribunali viene espressamente richiesto alle parti (già per l’udienza presidenziale) attraverso l’ordine di integrare la documen¬tazione sui redditi, con il deposito di altri documenti, come i saldi trimestrali o gli estratti degli ultimi anni dei conti correnti bancari o delle carte di credito, indicazioni su proprietà immobiliari e mobiliari, nonché su autoveicoli, imbarcazioni, finanziamenti, mutui, stipendi e altra documenta¬zione sui rapporti di lavoro e di collaborazione. E’ anche invalsa la prassi in molte sedi giudiziarie di richiedere che l’indicazione di questi elementi venga effettuata attraverso la presentazione di apposite dichiarazioni sostitutive di atto notorio.
Tutto ciò avviene non solo nei tribunali ma anche in molte Corti d’appello subordinato alla contestazione della sufficienza e veridicità della documentazione depositata al fine del decidere, con la conseguenza che l’acquiescenza, della parte interessata, che non contesti le risultanze e la completezza di detta documentazione, preclude alla medesima di dedurre in sede di impugnazione il mancato uso di tali poteri. sono attribuiti al giudice poteri di accertamento di ufficio. Pertanto, l’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice è . Questa prassi di richie¬dere anche in appello la documentazione aggiornata sulla condizione economica e reddituale delle parti (ancorché non vi siano richieste di modifica dei provvedimenti economici vigenti tra le parti. Anche oltre il significato dell’art. 359 c.p.c. secondo cui nel giudizio di appello si osservano sostanzialmente le norme del giudizio primo grado. ) enfatizza e valorizza anche in appello i poteri d’ufficio del giudice di ricerca della verità materiale, che il processualista puro potrebbe leggere in dissonanza con l’art. 345 c.p.c. sui limiti devolutivi del giudizio d’appello. Il principio vale, quindi, sia per le domande di revisione concernenti il mantenimento dei figli che per quelle concernenti il mantenimento tra coniugi o tra ex coniugi ed è stato molto chiaramente ribadito anche di recente da Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 maggio 2016, n. 10099; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1798 secon¬do cui nei procedimenti in tema di famiglia retti dal rito camerale, le sopravvenienze e la relativa prova sono ammissibili e valutabili in sede di impugnazione, purché sia prestata osservanza al principio del contraddittorio.
La giurisprudenza è stata comunque sempre conforme su questo punto, affermandosi che la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra le parti postulano la possibilità di adeguare l’am¬montare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali o reddituali, ed anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni, con la conseguenza che il giudice di appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatesi nelle more del giudizio (Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2184; Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2007, n. 16398; Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2005, n. 1824).
Come sai dirà più oltre in molte sentenze si afferma esplicitamente che compito del giudice in presenza di do¬mande di revisione dell’assegno coniugale o per i figli è quello di operare una “rinnovata valutazione comparati¬va” della situazione economica delle parti avvalendosi anche dei poteri di ufficio (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6289; Cass. civ. Sez. I, 21 agosto 2013, n. 19326; Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2011, n. 8754; Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2006, n. 5378; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2338). .

10 Art. 345 c.p.c. (Domande ed eccezioni nuove)
Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inam¬missibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa.
Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio.
Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte di¬mostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio.
Per quanto attiene alle domande relative al mantenimento coniugale o tra ex coniugi vale in giurisprudenza il principio della loro assoggettabilità al divieto di comande nuove in appello espresso nell’art. 345 c.p.c. Molto chiare in proposito sono Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1998, n. 4615 (Nel procedimento per lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, la domanda per l’attribuzione dell’assegno divorzile (art. 5, comma 4, l. n. 898 del 1970) ne presuppone la tempestiva proposizione secondo le ordinarie norme processuali, così che il giudice di appello deve rigettare la richiesta avanzata per la prima volta dinanzi a lui dal coniuge avente diritto, a nulla rilevando che questi sia rimasto contumace in primo grado), Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 aprile 2016, n. 7451 (È inammissibile la domanda di attribuzione dell’assegno di mantenimento proposta, per la prima volta, in appello, in violazione dell’art. 345 c.p.c., a nulla rilevando che la parte istante sia rimasta contumace in primo grado) e Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 novembre 2017, n. 27695 (In tema di separazione personale tra coniugi, la do¬manda rivolta a richiedere un assegno di natura alimentare costituisce un “minus” ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge. Ne consegue che la relativa istanza – ancorché formulata per la prima volta in appello in conseguenza della dichiarazione di addebito – è ammissibile, non essendo qualificabile come nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., attesa anche la natura degli interessi ad essa sottostanti).
b) Poteri/doveri d’ufficio del giudice
In sede di separazione e divorzio l’assegno divorzile è un diritto disponibile (nel senso che il giudice non lo può attribuire se non viene richiesto, né il misura maggiore di quello richiesto).
La sostanziale disponibilità dei diritti patrimoniali post-coniugali (chiaramente ribadita da Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2018, n. 18287) è confermata dalla loro possibile ampia negozialità.
Nonostante la natura pacificamente disponibile dell’assegno divorzile (secondo un percorso ar-gomentativo da considerare ormai irreversibile) la decisione in materia di assegno si avvale non soltanto di norme che impongono oneri specifici di documentazione a carico delle parti, ma anche di specifici poteri di ufficio del giudice (come le Sezioni Unite 18287/2018 hanno condivisibilmente rimarcato), poteri che sono spesso sottostimati dagli stessi magistrati (come dimostrano prassi difformi tra sedi giudiziarie in ordine all’atteggiamento del giudice rispetto all’uso di tali poteri).
Tutto ciò perché il processo di divorzio (come, d’altronde, anche quello di separazione in cui i poteri d’ufficio del giudice sono gli stessi) si è andato caratterizzando nel tempo come processo teso, indi-pendentemente dalla disponibilità dei diritti (e non solo quindi di fronte ai diritti indisponibili dei figli minori), alla tutela delle situazioni di maggiore vulnerabilità e all’accertamento della verità materiale.
In passato, anche in tempi recenti, il principio e il mito dell’“onere della prova a carico delle parti” anche in sede di separazione e divorzio, ha lasciato in ombra sia l’importanza delle norme che impongono alle parti specifici oneri di documentazione, sia l’importanza dei poteri/doveri d’ufficio del giudice11 nonostante che in molte decisioni questo potere/dovere venga spesso richiamato.12
A conferma dell’orientamento sono anche le decisioni secondo cui la giurisprudenza ha affermato che la do¬manda rivolta a richiedere un assegno di natura alimentare costituisce un “minus” ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge con la conseguenza che la relativa istanza – ancorché formulata per la prima volta in appello in conseguenza della dichiarazione di addebito – è ammissibile, non essendo qualificabile come nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., attesa anche la natura degli inte¬ressi ad essa sottostanti (Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 novembre 2017, n. 27695; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2013, n. 10718).
Secondo Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 2005, n. 11319 – che concerne il tema dei nuovi mezzi di prova – l’ac¬quisizione dei mezzi di prova e, segnatamente, dei documenti è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contrad¬dittorio che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti in camera di consiglio.
A questi poteri d’ufficio fanno esplicito e molto chiaro riferimento le Sezioni Unite 18287/201813
11 Si vedano per esempio tra le tante sentenze di legittimità Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870 secondo nell’ambito dell’accertamento sull’assegno divorzile assumono rilievo, sotto il profilo dell’onere probatorio, le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le rispettive potenzialità economiche. Nella giurisprudenza di merito, tra le tante App. Roma, 7 luglio 2010 secondo cui al fine di acquisire il diritto all’assegno divorzile, il richiedente è gravato da un duplice onere probatorio: egli deve, infatti, fornire la prova non solo di non godere di redditi adeguati alle proprie necessità, ma anche di non essere in grado di procurarsi i detti mezzi per ragioni oggettive non imputabili alla sua volontà o alla sua inerzia. Pertanto, grava sul coniuge istante l’onere di provare e dimostrare con idonei mezzi di prova, per quanto concerne l’an debeatur, quale fosse tale tenore di vita e quale deterioramento ne sia conseguito per effetto del divorzio, mentre per quanto riguarda il quantum dovrà provare le diverse circostanze idonee ad influire sulla sua determinazione. Spetta, dunque, al richiedente l’assegno dimostrare la fascia socio-economica di appartenenza della coppia all’epoca della convivenza ed il relativo stile di vita adottato durante il matrimonio nonché l’attuale situazione economica. Conferma nel resto. mentre la questione è sempre rimasta un po’ nell’ombra – salvo qualche importante eccezione – nella giurisprudenza precedente e perfino nelle decisioni della prima sezione del 2017 che avevano mantenuto il focus e il baricentro soprattutto sulle “pertinenti allegazioni deduzioni e prove offerte dalla parte che richiede l’assegno, su cui incombe il corrispondente onere probatorio , fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altra parte” (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504).
Ricordo anche che il potere/dovere d’ufficio del giudice si è arricchito recentemente con l’attribu-zione al giudice del procedimento di separazione e divorzio del potere di accesso alle banche dati automatizzate finalizzato alla ricostruzione del patrimonio delle parti nei procedimenti in materia di famiglia e in quelli relativi alla gestione di patrimoni altrui. In molte sentenze si afferma esplicitamente che compito del giudice in presenza di domande di revisione dell’assegno coniugale o per i figli è quello di operare una “rinnovata valutazione comparativa” della situazione economica delle parti avvalendosi anche dei poteri di ufficio (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6289; Cass. civ. Sez. I, 21 agosto 2013, n. 19326; Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2011, n. 8754; Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2006, n. 5378; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2338). .

13 Cass. Sez. Unite 18287/2018: “Il legislatore impone di accertare, preliminarmente, l’esistenza e l’entità dello squilibrio determinato dal divorzio mediante l’obbligo della produzione dei documenti fiscali dei redditi delle parti ed il potenziamento dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice, nonostante la natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco”.

14 Art. 155-sexies disp. att. c.p.c (Ulteriori casi di applicazione delle disposizioni per la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare). Le disposizioni in materia di ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare si applicano anche per l’esecuzione del sequestro conservativo e per la ricostruzione dell’attivo e del passivo nell’ambito di procedure concorsuali, di procedimenti in materia di famiglia e di quelli relativi alla gestione di patrimoni altrui. Ai fini del recupero o della cessione dei crediti, il curatore, il commissario e il liquidatore giudiziale possono avvalersi delle medesime disposizioni anche per accedere ai dati relativi ai soggetti nei cui confronti la procedura ha ragioni di credito, anche in mancanza di titolo esecutivo nei loro confronti. Quando di tali disposizioni ci si avvale nell’ambito di procedure concorsuali e di procedimenti in materia di famiglia, l’autorizzazione spetta al giudice del procedimento.
IV La natura assistenziale-compensativa dell’assegno di divorzio e i presupposti per richiederlo
L’assegno di divorzio ha natura di diritto disponibile (come le Sezioni Unite 18287/2018 ricordano) con funzione non solo assistenziale/perequativa ma soprattutto compensativa.
Le Sezioni unite riferendosi ai compiti d’ufficio del giudice finalizzati all’accertamento dello squili-brio dei coniugi determinatosi in seguito al divorzio, affermano che “All’esito di tale preliminare e doveroso accertamento può venire già in evidenza il profilo strettamente assistenziale dell’asse¬gno, qualora una sola delle parti non sia titolare di redditi propri e sia priva di redditi da lavoro. Possono, tuttavia, riscontrarsi più situazioni comparative caratterizzate da una sperequazione più o meno accentuata tra le condizioni economico-patrimoniale delle parti”.
Interpretando questi passaggi possono verificarsi tre situazioni:
a) L’assegno è dovuto al coniuge che non può procurarsi redditi per ragioni oggettive
L’assegno sarà in linea generale dovuto (secondo gli accertamenti disposti d’ufficio e secondo le prove prodotte dalle parti) a chi non è in grado di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive15.
b) L’assegno è dovuto al coniuge che non redditi
Nel caso – statisticamente diffuso – in cui il coniuge richiedente non ha redditi (neanche di lavoro) deve prevalere, secondo le Sezioni Unite, la natura assistenziale dell’assegno su quella compen¬sativa. Con la conseguenza che l’assegno sarà dovuto indipendentemente dalla durata del matri¬monio e indipendentemente dal contributo personale dato nel matrimonio dal coniuge richiedente.
Elementi questi (il contributo personale e la durata del matrimonio) che, tuttavia, sono destinati inevitabilmente ad incidere sulla quantificazione dell’importo, in quanto non avere redditi propri al momento del divorzio può certamente dipendere dai sacrifici compiuti in famiglia lungo un arco temporale matrimoniale magari molto lungo.
Naturalmente non si può fare a meno di precisare – rispetto a questa indicazione delle Sezio¬ni Unite – che se l’inesistenza di redditi dipende anche parzialmente dall’inerzia non giustificata dell’interessato (provata dall’altro coniuge), il giudice ha il potere/dovere di tenerne conto nella quantificazione dell’importo dell’assegno (come chiarito da Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2015, n. 21670 secondo cui in tema di divorzio, l’ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego, da parte del coniuge beneficiario, non incide sulla determinazione dell’assegno, salvo che il coniuge onerato non fornisca la prova che il beneficiario abbia l’effettiva e concreta possibilità di esercitare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini).
C) L’assegno è dovuto anche al coniuge che ha redditi propri il quale dimostri che la di¬sparità dei redditi dipende dagli indicatori elencati nell’art, 5 comma 6, della legge sul divorzio
L’assegno può essere attribuito anche nel caso in cui il coniuge richiedente abbia redditi propri (e in questo sta la distanza dall’orientamento espresso da Cass.11504/2017) se la disparità economica rilevata al momento del divorzio trova causa nella divisione dei compiti che i coniugi hanno attuato nel corso del matrimonio (tra lavoro professionale e lavoro casalingo) cui consegue la necessità di compensare i sacrifici di chi, dedicandosi al lavoro di cura della famiglia e dei figli, può venirsi a trovare (in relazione alla durata del matrimonio e all’età) in una condizione economicamente svan-taggiata al momento del divorzio (e in questo sta la distanza da Cass. Sezioni Unite 11490/1990 che legavano il diritto all’assegno al tenore di vita goduto nel corso del matrimonio e che conside¬ravano i sacrifici profusi nel matrimonio come criterio di sola moderazione dell’assegno).
Sono molto chiare, a questo punto, quindi sia le convergenze che le divergenze tra il nuovo orien-tamento e i due orientamenti precedenti contrapposti.
⫸ Convergenza tra Sez. Unite 18287/2018 e Cass. 11504/2017
L’assegno non ha la funzione di ricostituire (sia pure tendenzialmente) il tenore di vita avuto nel corso del matrimonio (il che non vuol dire che non si deve, però, tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio: nella determinazione dell’importo).
⫸ Divergenza tra Sez. Unite 18287/2018 e Cass. 11504/2017
Secondo Cass. 11504/2017 andavano considerati solo gli aspetti economicistici (questo orienta-mento oggi sconfessato – escludendo l’assegno in caso di autosufficienza economica – aveva con-sapevolmente ignorato l’art. 29 Cost. e 183 c.c. assimilando il divorzio alla nullità e relegando il contributo non economico dato dalla moglie ad elemento di sola quantificazione dell’assegno). Nel contratto coniugale ci sono entrambi questi aspetti (e cioè sia l’aspetto economico rappresentato

L’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude nè inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (Cass. civ. Sez. Lav. 9 giugno 2008, n. 15162).

al contributo professionale, sia l’aspetto non economico rappresentato dal contributo di cura della famiglia e dei figli) e nel momento del divorzio questi aspetti non possono essere annullati igno-randone la pari dignità e considerando prevalente gli aspetti economici su quelli non economici.
⫸ Divergenze tra Sez. Unite 18287/2018 ed entrambi gli orientamenti precedenti (Cass. Sez. Uni¬te 11490/1999 e Cass. 11504/2017 ).
Non ci sono più due fasi (an e quantum) ma un’unica fase in cui gli elementi di valutazione della “inadeguatezza dei redditi” vanno attinti dagli indicatori contenuti nell’art. 5 comma 6 (e quindi internamente alla norma) e non da elementi estranei (tenore di vita e autosufficienza economica).
Qui sta anche l’”intelligenza” della decisione delle Sezioni Unite che prendono la distanza da en-trambi gli orientamenti in contrasto tra loro.
V I compiti del giudice
Secondo le Sezioni Unite il giudice ha tre compiti fondamentali: a) innanzitutto quello di accertare l’esistenza e l’entità dello squilibrio tra i redditi dei coniugi eventualmente determinatosi al mo¬mento del divorzio; b) In secondo luogo il compito di valutare – secondo le prove prodotte dalle parti – il nesso causale tra lo squilibrio e gli indicatori previsti nella legge; c) infine il compito di determinare l’importo perequativo-compensativo del caso concreto.
a) L’accertamento dello squilibrio tra i redditi dei coniugi
Compito iniziale e principale del giudice è quello di accertare, preliminarmente, l’esistenza e l’enti¬tà dello squilibrio al momento del divorzio tra i mezzi a disposizione di entrambi i coniugi. A questo fine, come si è detto, la legge (art. 706, co. 3 ultima parte c.p.c.; art. 4, co. 6 e art. art. 5, comma 9, della legge sul divorzio) prevede l’obbligo della produzione delle dichiarazioni dei redditi delle parti e di ogni altra documentazione sui redditi e sul patrimonio nonché il potenziamento dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice il quale può anche disporre indagini di polizia tributaria.
I principi che possono essere enucleati sono i seguenti:
a) La sperequazione tra i redditi delle parti che l’importo dell’assegno è destinato a perequare (funzione assistenziale/perequativa) è condizione necessaria per l’attribuzione dell’assegno divor¬zile. Se manca la sperequazione non si può parlare di diritto all’assegno divorzile. Nella decisione delle Sezioni Unite si parla di “rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi all’atto dello scioglimento del vincolo”.
b) Possono riscontrarsi più situazioni comparative (“mille sfumature”) caratterizzate da una spere-quazione di entità variabile nella condizione economico-patrimoniale delle parti (dalla situazione in cui un coniuge non ha alcun reddito a quella in cui ha propri redditi ma inferiori a quelli dell’altro coniuge).
c) Non esiste un minimum che rende irrilevante la sperequazione. Perciò anche se un coniuge fosse “autosufficiente economicamente” (avendo per esempio un reddito che gli consente di condurre una vita dignitosa) avrà sempre diritto a richiedere un assegno divorzile ove sussista una spere¬quazione di una certa rilevanza.
d) All’assenza di mezzi e di redditi va equiparata l’impossibilità oggettiva di procurarseli.
b) La valutazione – sulla base delle prove prodotte dalle parti – del nesso causale tra lo squilibrio e gli indicatori previsti nella legge
In caso di domanda di assegno da parte di un coniuge il giudice deve valutare se e in che termini l’inadeguatezza dei mezzi o l’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive posta a base della domanda dell’assegno è collegata agli indicatori contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6.
La prova della connessione causale tra lo squilibrio economico tra le parti e gli indicatori in que¬stione è compito degli interessati.
Il giudice dovrà soprattutto valutare il contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio e del benessere comune. Contributo che il giudice deve compensare economicamente.
L’espressione “funzione compensativa” (equiordinata rispetto a quella assistenziale e perequativa) fa riferimento alla “compensazione” delle aspettative professionali ed economiche sacrificate dal coniuge che si è dedicato in via esclusiva o primaria alla cura della famiglia e dei figli nel corso del matrimonio.
Non bisogna dimenticare che il principio costituzionale di uguaglianza e di parità tra coniugi (art. 29 cpv della Costituzione 16) oltre che il principio di parità tra lavoro professionale e lavoro casalingo (cioè il lavoro di cura della famiglia e dei figli) proclamato nell’art. 143 del codice civile 17, impongo¬no di tener conto, al momento dello scioglimento del vincolo, della distribuzione dei compiti profes¬
16 “Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (art. 29 Cost.)

17 “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e gli stessi doveri.
Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione.

sionali (capitale visibile) e dei compiti domestici e di cura della famiglia e dei figli (capitale invisibile) che i coniugi hanno scelto o realizzato di fatto nel corso del matrimonio, essendo del tutto evidente che da tale distribuzione di compiti può derivare al momento del divorzio una oggettiva penaliz¬zazione per il coniuge che ha assunto soprattutto compiti di natura non reddituale/professionale.
Il richiamo a questa funzione compensativa dell’assegno è quasi ossessivo nella sentenza delle Sezioni Unite.
c) La decisione sull’importo dell’assegno
Alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo.
Il giudice dovrà quindi procedere alla determinazione in concreto dell’importo dell’assegno tenendo presenti le valutazioni effettuate.
Tornerò più oltre su questo aspetto (certamente il più strettamente collegato alla giustizia del caso singolo) intorno al quale le Sezioni Unite consegnano ai giudici di merito un compito certamente non facile e non privo di elementi di problematicità.
VI L’onere probatorio a carico delle parti sulle connessioni tra lo squilibrio dei redditi e gli indicatori elencati nell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio
Considerato quanto si è detto sull’esistenza degli obblighi di documentazione previsti dalla legge (“Al ricorso e alla memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi presentate”), sui doveri di collaborazione imposti alle parti (le quali sono chiamate a depositare “ogni altra docu-mentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune), nonché sull’estensio¬ne dei poteri/doveri d’ufficio del giudice della separazione e del divorzio (“In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenere di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”), è evidente che l’onere probatorio delle parti non sarà più indirizzato a far emergere la disparità e lo squilibrio tra i redditi dei coniugi (su cui le parti non perdono, però, certamente il potere di richieste istruttorie), ma soprattutto sulle connessioni tra lo squilibrio evidenziato e gli indicatori previsti nella prima parte dell’art. 5, comma 6 della legge sul divorzio.
Sono le stesse Sezioni Unite che lo ribadiscono laddove – dopo aver affermato che “l’attenzione deve rivolgersi, al fine di rendere effettiva la funzione perequativa dell’assegno, al rigoroso ac-certamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, dovendo trovare giustificazione causale negli indicatori contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6 ed in particolare nel contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge” – testualmente precisano che “di tale contributo la parte richiedente deve fornire la prova con ogni mezzo anche mediante presunzioni. Del superamento della disparità determinata dalle cause sopraindicate, la parte che chiede la riduzione o la eliminazione dell’asse¬gno posto originariamente a suo carico, deve fornire la prova contraria”18.
Il coniuge che richiede l’assegno divorzile ha l’onere, quindi, di dimostrare che lo squilibrio de-terminato dal divorzio trova ragione e causa negli indicatori elencati nella prima parte dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio e, in particolare, nella distribuzione dei compiti nel corso del matrimonio (e della organizzazione dei compiti di cura dei figli anche successivamente) da cui può desumersi anche in via presuntiva l’indebolimento delle capacità di recupero professionale anche in ragione dell’età del richiedente,
L’altro coniuge ha l’onere di fornire la prova contraria per dimostrare che le disparità economiche e patrimoniali non trovano ragione negli indicatori in questione.
a) Il contributo personale ed economico dato alla vita e al benessere matrimoniale
Si tratta – come si è già detto – dell’indicatore certamente più importante previsto nell’art. 5, comma 6 della legge sul divorzio (“…il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune…”). L’indi¬catore è così importante da aver portato oggi le Sezioni Unite a qualificare la natura dell’assegno non più solo assistenziale ma soprattutto “compensativa”. Non si tratta di una caratteristica nuova, naturalmente, essendo tale qualificazione quella già data all’indomani dell’entrata in vigore del divorzio sulla base del testo originario della legge 898/70 che aveva attribuito all’assegno divorzile una funzione composita (assistenziale, perequativa e compensativa).
Come hanno chiarito molto bene le Sezioni Unite l’accertamento del giudice relativo al contributo personale ed economico dato da ciascuno nel corso del matrimonio, “non è conseguenza di un’i¬

Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro pro¬fessionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” (art. 143 c.c.).

Frase quest’ultima che allude evidentemente ai casi in cui un coniuge che corrisponde l’assegno divorzile in base a provvedimenti pregressi (cioè adottati in conformità ai precedenti orientamenti) può chiedere l’applicazio¬ne dei nuovi principi dimostrando che la disparità tra i redditi non dipende dai sacrifici indotti dalla distribuzione del lavoro in famiglia e dalla divisione dei compiti professionali e casalinghi ma da altri presupposti.
19 In questo senso le Sezioni Unite tornano all’originaria funzione dell’assegno nella legge del 1970 sul divorzio.
nesistente ultrattività dell’unione matrimoniale, definitivamente sciolta tanto da determinare una modifica irreversibile degli status personali degli ex coniugi, ma della norma regolatrice del diritto all’assegno, che conferisce rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la rela¬zione coniugale e la vita familiare”.
In verità, anche questo indicatore, non è di difficile individuazione nei suoi elementi costitutivi. Si tratta di verificare quale sia stata la oggettiva distribuzione di compiti tra i coniugi nel corso del matrimonio (scelta consapevolmente o realizzata di fatto) e di valutare l’incidenza di questa distri-buzione di compiti sulla condizione dei coniugi al momento del divorzio.
Il coniuge che richiede l’assegno può avvalersi naturalmente della prova indiretta per presunzioni (art. 2727 c.c.), cioè può limitarsi a fare riferimento alla durata del matrimonio, all’organizzazione della vita familiare e lavorativa, all’organizzazione del ménage coniugale, alle modalità di accu-dimento dei figli. Tutto ciò anche nell’ipotesi in cui il lavoro di cura della famiglia e dei figli si sia aggiunto ad un lavoro di tipo professionale (come si sa la donna spesso oltre al lavoro magari parte time, si occupa anche prevalentemente del lavoro casalingo). Da questi semplici elementi non è difficile nel caso concreto estrarre elementi utili alla valutazione del contributo fornito nel corso del matrimonio dal coniuge che richiede l’assegno.
La contestazione o la prova contraria rispetto a questi elementi è oggettivamente difficile.
Più plausibile è, invece, per il coniuge che ritiene di doversi opporre alla richiesta di un assegno da parte dell’altro (o anche nella prospettiva di un assegno meno penalizzante) dare la prova (anche presuntivamente) del proprio contributo alla vita familiare e al benessere dell’altro coniuge o al be-nessere comune. Il lavoro professionale non è spesso meno faticoso di quello casalingo ed in ogni caso può apportare anche all’altro vantaggi economici. Fondamentale a tale proposito è il richiamo al regime patrimoniale della famiglia nel corso del matrimonio, essendo evidente, per esempio, che in regime di comunione gli incrementi patrimoniali di cui entrambi i coniugi possono essersi giovati grazie ad acquisti effettuati da uno si essi, costituiscono certamente un contributo personale alla formazione del patrimonio dell’altro di cui occorre tener conto.
In altre parole il contributo personale di cui tener conto non è solo quello di cura della famiglia e dei figli (che merita in sede divorzile una giusta compensazione sul versante economico) , ma anche quello del coniuge che meno dedito magari ai compiti domestici ha apportato ugualmente un contributo significativo alla vita coniugale.
b) La durata del matrimonio
Benché nell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio questo elemento sia indicato alla fine dell’e-lenco degli indicatori (“…e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matri-monio…”) certamente si tratta di un dato di enorme significato di cui tener conto. D’altra parte la decisione delle Sezioni Unite ha inteso proprio risolvere il problema della tutela del coniuge debole nei matrimoni di lunga durata ed è quindi evidente che la durata del matrimonio è il primo elemen¬to a disposizione del giudice per le valutazioni relative all’assegno divorzile.
Occorre ricordare che il concetto di “durata del matrimonio” deve fare necessariamente riferimento in presenza di figli, anche al periodo successivo al divorzio, per tutto l’arco di tempo in cui uno dei genitori continua ad occuparsi in via prevalente (anche in aggiunta ad un eventuale lavoro retribuito), appunto, dei figli. In altre parole, per quanto riguarda il diritto all’assegno divorzile il matrimonio si protrae – ai fini della valutazione della sua “durata” – fino a che durano gli impegni di una delle parti non solo verso l’altro coniuge ma anche verso i figli. E questo naturalmente, in¬dipendentemente dal contributo di mantenimento per i figli.
Fatta questa considerazione sulla “durata massima” è però necessario anche aggiungere che la sentenza delle Sezioni Unite nulla ci dice circa la “durata minima” del matrimonio soprattutto in assenza di figli. Non è escluso che la giurisprudenza possa adottare dei criteri cronologici (come ha fatto in materia di delibazione delle sentenze ecclesiastiche) ma è molto più ragionevole ipotizzare che caso per caso dovrà essere il giudice a valutare questo elemento.
Tutto sarebbe più semplice, come avviene in altri Paesi e come comunque è stato previsto dalla legge 76 del 2016 per l’assegno alimentare in caso di cessazione della convivenza di fatto, se po¬tesse ipotizzarsi un assegno divorzile a termine proporzionato alla durata (come sopra intesa) del matrimonio. Potrebbe essere questa la strada giusta per una soluzione che non rischi di lasciare in questo settore eccessiva discrezionalità al giudice.
c) Le condizioni personali e reddituali dei coniugi
Ulteriore elemento da prendere in considerazione nelle valutazioni relative all’assegno divorzile è la “condizione dei coniugi” e cioè l’insieme di quelle circostanze – anche in questo caso di non difficile individuazione per le quali l’onere della prova è a carico delle parti. In alcuni casi si tratta di elementi oggettivi. Quello che va sottolineato è che si tratta di elementi che riguardano sia il coniuge che richiede l’assegno che il coniuge chiamato a corrisponderlo.
– L’età del coniuge richiedente l’assegno (Le Sezioni Unite tornano spesso su questo elemento). La funzione compensativa dell’assegno divorzile si comprende bene se si fa riferimento congiunto proprio ai tre indicatori fondamentali costituiti dal contributo personale, dalla durata del matrimo¬nio e dall’età del coniuge richiedente. La combinazione di questi tre elementi mette in evidenza condizioni differenziate di svantaggio da compensare con l’assegno divorzile. Anche in questo caso le sfumature sono molteplici.
– La formazione professionale, le capacità professionali, il titolo di studio del coniuge richiedente l’assegno, le opportunità concrete di lavoro. E’ piuttosto evidente che maggiori sono le risorse complessive a disposizione del coniuge richiedente, minore è la condizione di svantaggio da com-pensare al momento del divorzio.
– L’esistenza di una “famiglia ricomposta”. Per quanto attiene al coniuge che richiede l’assegno, come è noto, la stessa legge sul divorzio prevede all’art. 5, comma 1020 la perdita del diritto all’as-segno in caso di nuove nozze; effetto che la giurisprudenza ha anche applicato alla instaurazione di una stabile convivenza di fatto. Per quanto invece attiene al coniuge obbligato, l’eventuale famiglia ricomposta (con o senza figli) pur non essendo un elemento che produce de iure la ces¬sazione dell’obbligo, va ricondotta, appunto, alla valutazione delle “condizioni di coniugi” essendo certamente un elemento che introduce una oggettiva alterazione negli equilibri di tipo economico-patrimoniale di cui è impensabile non tener conto. Il tema delle famiglie ricomposte (cioè del diritto a rifarsi una famiglia dopo il divorzio) è proprio, anzi, uno dei temi che più hanno pesato negli ultimi anni nel dibattito in materia di assegno divorzile.
d) Le ragioni della decisione
Pur essendo un indicatore al quale le Sezioni Unite non dedicano nessuna specifica attenzione, non vi è dubbio che l’art. 5, comma 6 della legge sul divorzio prevede pur sempre “le ragioni della decisione” tra gli elementi di cui il giudice è chiamato a tener conto in materia di assegno divorzile.
Visto dall’angolo visuale del coniuge creditore dell’assegno, storicamente si tratta di un elemento, come è noto, collegato all’addebito della separazione (cui consegue ex lege la perdita del diritto all’assegno coniugale: art. 156 c.c.). Non essendo contenuta nella legge sul divorzio alcuna analo¬ga previsione, ne deriva che il coniuge al quale fosse stata addebitata la separazione (e che abbia di conseguenza perso in quella sede il diritto all’assegno di mantenimento coniugale) potrebbe re-cuperare in sede di divorzio il diritto a richiedere un assegno divorzile: una situazione legittima ma oggettivamente ingiusta. Proprio per questo motivo – e benché l’addebito in sede di separazione sia statisticamente ormai poco frequente – la giurisprudenza ha attribuito alle “ragioni della deci¬sione” la funzione di elemento che potrebbe “azzerare” l’importo eventualmente dovuto in base ai presupposti che l’assegno ha in sede di divorzio. Era questa la posizione delle Sezioni Unite del 1990 che avevano indicato questo possibile “azzeramento” dell’assegno quale conseguenza non solo dell’indicatore “ragioni della decisione” ma anche di tutti gli altri indicatori di cui alla prima parte dell’art. 5, comma 6, qualificati, proprio per questo, elementi di sola moderazione dell’im¬porto dell’assegno (individuato in astratto nella fase dell’an debeatur).
VII Come si determina l’importo dell’assegno divorzile
a) Le considerazioni delle Sezioni Unite sulla determinazione dell’assegno
Si tratta di un aspetto sul quale le Sezioni Unite non sono state molto prodighe di attenzione, no-nostante che la determinazione in concreto dell’assegno divorzile costituisca l’obiettivo cui è pre-ordinato tutto il processo oltre che l’interesse principale di chi si rivolge al giudice. Verosimilmente ciò è avvenuto nella fiducia che la giurisprudenza di merito – a cui è affidata la giustizia del caso singolo – sappia individuare caso per caso i parametri per la soluzione di questo problema.
Due passaggi della sentenza sono, però, utilizzabili per dare una possibile risposta al problema di come possa essere determinato in concreto l’importo dell’assegno.
In un punto della decisone le Sezioni Unite chiariscono che “la funzione assistenziale dell’asse¬gno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo [cioè di un assegno ndr] che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita fami-liare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall’assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro”.
Da questo passaggio si comprende come le Sezioni Unite ritengono che dovrebbe essere assicurato non soltanto il “raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosuffi-cienza del coniuge debole” ma soprattutto che tale livello debba essere “adeguato al contributo” dato alla vita familiare “tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmen¬te sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente” anche al fine di poter “recuperare il pregiudizio professionale ed economico”.
Nel secondo passaggio in cui si allude alla determinazione in concreto dell’assegno divorzile si legge che “la funzione equilibratrice dell’assegno… non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di
20 “L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge al quale deve essere corrisposti passa a nuove nozze” (art. 5, comma 10, legge divorzio)

vita endoconiugale ma soltanto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa attuale”.
In sintesi l’importo dell’assegno:
– deve assicurare innanzitutto (come obiettivo minimo) l’autonomia e l’autosufficienza economica del coniuge debole;
– in secondo luogo deve, però, anche essere adeguato al contributo dato dal coniuge alla vita fami-liare (cura della famiglia e dei figli) e, quindi, compensare (tenendo conto dell’età e della durata del matrimonio) il sacrificio delle aspettative21 professionali ed economiche che ne sono conseguite;
– non ha la finalità di ricostituzione del tenore di vita endoconiugale.
b) Il tenore di vita nel corso del matrimonio
Nonostante l’impegno ricostruttivo delle Sezioni Unite teso a tener fuori il “tenore di vita” dall’as-segno divorzile (“…la funzione equilibratrice dell’assegno non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale…”), la sensazione è che il tenore di vita coniugale sarà invece ben presente nella prassi applicativa dei principi oggi introdotti dal nuovo orientamento.
Per questo ritengo che il tenore di vita debba costituire pur sempre uno degli argomenti che con-tinueranno ad essere oggetto di attenzione probatoria.
Nel significato comune dell’espressione “tenore di vita” ci si riferisce all’insieme delle opportunità che le condizioni economiche offrono alla coppia e alla famiglia. Se le condizioni economiche sono buone sarà buono anche il tenore di vita.
Il tenore di vita si misura soprattutto su alcuni elementi quali le spese quotidiane, la scelta della scuola dei figli, la scelta del luogo e del modo delle vacanze, gli acquisti di beni di consumo e di beni voluttuari e in genere corrisponde alle reali disponibilità dei coniugi.
Ebbene, se il tenore di vita costituisce in genere il segnale del benessere raggiunto da una famiglia in seguito agli sforzi e ai sacrifici dei coniugi, è evidente che questa condizione di benessere dovrà influire sulla misura dell’assegno divorzile. Se si deve valutare il contributo dato dai coniugi alla vita familiare, come si può escludere da tale valutazione il benessere raggiunto da quella famiglia, cioè il tenore di vita? Pertanto la misura dell’assegno sarà direttamente proporzionale al tenore di vita raggiunto dalla famiglia.
Il giudice ha il compito, come si è detto, di verificare se lo squilibrio tra i redditi e i mezzi a di-sposizione di ciascun coniuge dopo il divorzio sia di tale entità da giustificare un riequilibrio, una perequazione, a favore del coniuge debole. In questa operazione è insita una valutazione dei red¬diti e quindi del benessere raggiunto da una famiglia. Se è vero che – come affermano le Sezioni Unite – “la funzione equilibratrice dell’assegno… non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale” è anche altrettanto vero che per individuare un importo dell’assegno nel caso concreto non si potrà fare a meno di considerare anche il tenore di vita della coppia. E’ oggettiva-mente impensabile che ciò possa non essere fatto.
Ipotizziamo una coppia unita in matrimonio da dodici anni e in cui durante il matrimonio e dopo la separazione (e perfino dopo il divorzio) la moglie, insegnante di scuola, si sia anche occupata dei figli come genitore prevalente. Se il marito, ingegnere, è stato da sempre il soggetto econo¬micamente trainante della famiglia grazie a redditi professionali elevati, il giudice chiamato ad individuare un importo dell’assegno non potrà fare a meno di considerare il livello di benessere raggiunto complessivamente da questa famiglia. E’ infatti a questo livello di benessere che la mo¬glie ha contribuito non soltanto con il suo lavoro di insegnante ma anche e soprattutto con il suo impegno familiare e verso i figli e quindi con il sacrificio che ne è conseguito di altre aspettative di tipo professionale. La compensazione di tali “sacrifici” sarà necessariamente collegata al benessere che ne è conseguito, anche in termini di maggiore importo dell’assegno divorzile.
Se questo lavoro di ricostruzione – anche in via presuntiva – del tenore di vita coniugale non ve¬nisse svolto, l’assegno finirebbe per aver la sola funzione (esclusa dalla Sezioni Unite) di garantire l’autosufficienza economica del richiedente.
21 Interessante, in relazione al tema del compenso anche delle legittime aspettative reddituali, la parte della motivazione in cu si legge che “Il nuovo testo dell’art. 5 non preclude la formulazione di un giudizio di adeguatezza anche in relazione alle legittime aspettative reddituali conseguenti al contributo personale ed economico fornito da ciascun coniuge alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno ed a quello comune. L’adeguatezza dei mezzi deve, pertanto, essere valutata, non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare e che, sciolto il vincolo, produrrebbe effetti vantaggiosi unilateralmente per una sola parte”.

Tribunale dei Minori: i provvedimenti cautelari emessi da un giudice territorialmente incompetente mantengono la loro efficacia nell’interesse superiore del minore.

Tribunale dei Minori di Potenza 3 luglio 2018
Il Tribunale per i Minorenni di Potenza, riunito in camera di consiglio nelle persone dei signori:
1) D.ssa. Valeria Montaruli Presidente rel.
2) Dr. Emiliano Mistrulli Giudice
3) D.ssa Carmela Genovese Giudice Onorario
4) Dr. Gerardo Montesano Giudice Onorario
Letti gli atti relativi alla minore S (….);
rilevato che, con decreto del 26 marzo 2018, emesso in via provvisoria ed urgente, nel quale si dava atto che, alla luce del clima di elevata conflittualità tra genitori separati, la madre denunciava sospetti abusi sessuali e maltrattamenti commessi dal padre, con la complicità della sua attuale compagna, in danno della minore, durante i periodi in cui la stessa si trovava presso il genitore, veniva disposto il divieto di permanenza della minore presso l’abitazione del padre, incaricando il servizio sociale di P., di intesa con le parti, un calendario di incontri protetti tra il padre e la minore;
che, con memoria del 17 aprile 2018, il difensore del padre eccepiva preliminarmente l’incompetenza funzionale del tribunale per i minorenni adito, essendo in corso davanti al Tribunale di Matera un procedimento instaurato su ricorso ex art. 337 quinquies c.c. proposto dal padre e depositato in data 11 dicembre 2017, teso a modificare le condizioni della relazione padre – figlia. Nella memoria si leggeva peraltro che, nel corso del procedimento penale a carico dello S., era stato espletato incidente probatorio per l’ascolto della minore, in data 24 aprile 2018;
sentite all’udienza del 24 aprile 2018 l’assistente sociale L. G. e la psicologa C. C. del servizio sociale di Pisticci, le quali rappresentavano il positivo andamento degli incontri protetti tra il padre e la minore, nonché, avuta la presenza all’udienza del 10 maggio 2018 del sig. S, rappresentato e difeso dall’avv.to U, che si riportava alla propria eccezione di incompetenza funzionale, e disposto, in via provvisoria, che gli incontri protetti avvengano con la cadenza di due volte la settimana; eseguita la rituale comunicazione del verbale di udienza alla controparte, che non replicava rispetto all’eccezione preliminare di incompetenza di questo tribunale;
acquisito il parere del pubblico ministero, che si pronunciava in favore dell’accoglimento dell’eccezione preliminare sollevata nell’interesse del padre;
OSSERVA
L’eccezione preliminare di incompetenza per materia di questo tribunale per i minorenni è fondata, per essere competente il tribunale ordinario (nel caso di specie il Tribunale di Matera), presso il quale pende giudizio di revisione delle condizioni della separazione ex art. 337 quinquies c.c. tra le stesse parti.
Deve, infatti, rilevarsi che il procedimento relativo al giudizio di revisione delle condizioni della separazione tra i coniugi, pendente dinanzi al Tribunale di Matera, è iniziato in data 11 dicembre 2017, ovvero prima del presente procedimento, instaurato con ricorso del PMM depositato in data 20.3.2018.
Ai sensi del novellato art. 38 d.a.c.c., la competenza per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., in via generale attribuita al tribunale per i minorenni, se instaurati successivamente al giudizio di separazione o divorzio o ex art. 316 c.c. e per tutta la durata del procedimento, spetta al tribunale ordinario, quale giudice del conflitto familiare . Aggiunge detta norma che in tali ipotesi, e per tutta la durata del processo, la competenza, anche per i provvedimenti sopra citati, spetta al giudice ordinario. Viene poi replicata la clausola relativa alla residuale competenza del tribunale ordinario per i casi in cui non sia espressamente stabilita la competenza di altra autorità giudiziaria.
All’indomani dell’entrata in vigore della novella, giurisprudenza e dottrina si sono interrogate principalmente sull’individuazione del giudice competente a decidere sulla domanda di limitazione o di decadenza dalla potestà (oggi responsabilità) genitoriale, con riferimento alla vis attractiva esercitata dall’ampliata competenza del tribunale ordinario. In particolare, il nodo più rilevante atteneva all’attribuzione della competenza in ordine al più delicato provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale, in pendenza di procedimento di separazione, divorzio o ex art. 316 c.c.
La questione sembra aver trovato, sia pure faticosamente, una soluzione nei recenti arresti della Cassazione sul punto. La prima pronuncia è la sentenza, emessa in sede di regolamento di competenza, Cass. civ., Sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 21633, a mente della quale, in un caso in cui era pendente un procedimento ex 333 c.c. o 330 c.c. davanti al tribunale per i minorenni quando ancora non era iniziato il giudizio di separazione, instaurato successivamente davanti al tribunale ordinario, la competenza a conoscere della domanda di limitazione o decadenza dalla potestà dei genitori, introdotta prima della modifica del testo dell’art. 38 disp. att. cod. civ. disposta dall’art. 38 disp. att. c.c., rimane radicata presso il tribunale per i minorenni anche se nel corso del giudizio sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, in ossequio al principio della “perpetuatio jurisdictionis” ed a ragioni di economia processuale che trovano fondamento anche nelle disposizioni costituzionali (art. 111 Cost.) e sovranazionali (art. 8 C.E.D.U. e art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) .
Lo stesso principio, nell’ipotesi cui fa riferimento la norma dettata nella seconda parte dell’art. 38 disp. att. cod. civ., comma 1, è applicabile alla fattispecie in esame, essendo la previsione normativa della pendenza di un giudizio di separazione riferibile, in considerazione della ratio e dell’ambito di applicazione della norma, anche alla pendenza di un procedimento di modifica delle condizioni della separazione (tanto giudiziale quanto consensuale omologata: v. L. n. 54 del 2006, art. 4) nel quale si controverte dinanzi al tribunale dei provvedimenti riguardanti la prole conseguenti alla separazione . Si è pronunciata in tal senso Cass. civ., sez. VI, 19/05/2016, n. 10365 , la quale osserva: “una diversa opzione ermeneutica che faccia leva acriticamente sul solo tenore letterale (peraltro controverso, in dottrina e giurisprudenza) della norma richiamata – e quindi su una astratta non coincidenza tra il giudizio di separazione ed il successivo procedimento camerale di modifica ex art. 710 cod. proc. civ. – perderebbe di vista quella che deve ritenersi la principale “chiave interpretativa” della norma stessa (cfr. Cass. n. 1349/15), cioè l’esigenza, sottesa alla modifica legislativa del 2012 e già più volte in precedenza evidenziata dalla giurisprudenza, di attuare, nei limiti previsti, una concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, che sulla stessa materia conflittuale possano essere aditi due organi giudiziali diversi e possano quindi essere assunte decisioni tra loro contrastanti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed attuabili (cfr. Cass. n. 20352/11; n. 8362/07)…”.
In tale prospettiva, allorquando – come nel caso di specie – il procedimento davanti al tribunale per i minorenni sia iniziato su ricorso del pubblico ministero, non assume rilevanza preclusiva all’operare nella specie della vis attractiva la sola diversità di ruolo del Pubblico Ministero nei due giudizi (ricorrente in quello minorile, interventore obbligatorio nell’altro), tenendo presente che ciò non incide sulla esigenza, che la norma mira ad attuare, di concentrazione in un solo processo di due cause in entrambe delle quali siano parti i genitori (cfr. Cass. civ. n. 1349/15; in senso analogo si pronunciava l’ordinanza emessa dalla Suprema Corte, Sez. VI, 12 gennaio 2015, n. 2833).
In accoglimento dell’eccezione preliminare sollevata nell’interesse del padre della minore, va dunque dichiarata l’incompetenza per materia del tribunale per i Minorenni di Potenza.
In merito alle modalità di traslazione della domanda de potestate dal tribunale per i minorenni al tribunale ordinario, appare opportuno segnalare che la Suprema Corte ha ritenuto che nella materia in esame sia possibile la trasmissione degli atti dal giudice dichiaratosi incompetente ad altro giudice ritenuto competente, in considerazione dei poteri di intervento d’ufficio attribuiti al giudice investito di questioni attinenti i minori (cfr. Cass. Civ., sez. I, 16 ottobre 2008, n. 25290, emessa sulla scia di Cass. Civ, Sez. Un., n. 7149 del 1994 in materia fallimentare). La trasmissione degli atti, in alternativa al meccanismo della riassunzione ex art. 50 c.p.c., è da considerare non una prassi, ma uno strumento di primaria importanza in questo tipo di procedure e presenterebbe l’indubbio vantaggio di accelerare la decisione delle questioni prospettate, e nella specie di rendere edotto il giudice della separazione di ulteriori elementi relativi alla dinamica conflittuale tra le parti, evitando che l’inerzia delle parti nella riassunzione, si traduca in un vuoto di tutela in danno del minore.
Copia del presente decreto va, pertanto, trasmessa al Tribunale di Matera.
Resta ferma la possibilità di riassunzione della controversia davanti al tribunale competente, ai sensi dell’art. 50 c.p.c. nel termine di legge.
Occorre a questo punto delibare la questione relativa all’efficacia del provvedimento cautelare e urgente emesso da questo Tribunale.
Ritiene il collegio che, pur non essendovi un’espressa previsione normativa sul punto, sia ricavabile dall’ordinamento il principio generale di ultrattività dei provvedimenti cautelari emessi dal giudice dichiaratosi incompetente, in attesa che provveda il giudice competente.
È invero pacifico che, nel processo civile, gli atti istruttori compiuti innanzi al giudice che si sia dichiarato incompetente siano utilizzabili davanti al giudice competente, in quanto, ai sensi dell’art. 50 c.p.c, dopo la riassunzione, il processo ‘continua’ davanti al giudice competente. In giurisprudenza, si è in tal senso autorevolmente pronunciata la sentenza Cass. civ., sez. un., 29 ottobre1986, n. 6337 , ai sensi della quale, quando a norma dell’art. 50 c.p.c., la riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato nella sentenza dal giudice e, in mancanza, in quello di sei mesi dalla comunicazione della sentenza che dichiara l’incompetenza del giudice adito, il processo continua davanti al nuovo giudice. Ne consegue che la traslatio iudicii, disposta dalla legge sulla base della struttura unitaria del processo e del principio dell’unità della giurisdizione, comporta una valida costituzione dell’intero procedimento e dei relativi atti anche istruttori, in ordine ai quali l’incompetenza del giudice prima adito che li abbia disposti ed espletati non può, di per sè sola, indurre alcun effetto invalidante. A tale principio si è conformata la giurisprudenza successiva (cfr. ex plurimis, Cass. civ., sez. I, 07/10/2014, n. 21105).
Si osserva peraltro che, ai sensi dell’art. 669 sexies cpc in tema di procedimento cautelare uniforme, quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento, il giudice provvede con decreto motivato, assunte ove occorra sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti. Tale disposizione, coordinata con il successivo art. 669 septies c.p.c., ai sensi del quale l’ordinanza di incompetenza non preclude la successiva riproposizione della domanda, induce a ritenere pure l’efficacia degli atti istruttori compiuti in via di urgenza dal giudice successivamente dichiaratosi incompetente.
Ai sensi dell’art. 669 nonies cpc, solo se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all’articolo 669 octies, ovvero se successivamente al suo inizio si estingue, il provvedimento cautelare perde la sua efficacia, e comunque tale inefficacia non opera automaticamente, ma solo se il giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara, se non c’è contestazione, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento è divenuto inefficace e dà le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente , fatto salvo il principio dell’ultrattività dei provvedimenti cautelari di natura anticipatoria ai sensi della diversa previsione di cui all’art. 669 octies , comma 6, cpc.
Per quanto più specificamente concerne la materia del diritto di famiglia, va inoltre richiamato l’art. 189 disp. att. c.p.c., che prevede l’ultrattività dei provvedimenti presidenziali dati in materia di separazione e divorzio in caso di estinzione del giudizio (ipotesi nella quale può ritenersi compresa la pronuncia di incompetenza, che è una delle vicende idonea a provocare l’estinzione del processo per il caso in cui esso non si è riassunto tempestivamente).
Quanto alle fonti sovranazionali, per la competenza al riconoscimento delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale, l’art. 20 del Regolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, cd. Bruxelles bis, prevede, nei casi di urgenza, il potere delle autorità giurisdizionale di uno Stato membro che non sia competente secondo le regole generali, di adottare comunque i provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge interna, relativamente alle persone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati, stabilendo che i provvedimenti adottati dal giudice incompetente cessano di essere applicabili quando l’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente a conoscere del merito, abbia adottato i provvedimenti ritenuti appropriati.
Disposizioni analoghe si trovano anche in altri rami dell’ordinamento. Infatti, l’articolo 11comma 6 del decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104 (codice sul processo amministrativo) prevede che nel giudizio riproposto davanti al giudice amministrativo, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova, e il comma 7 prevede che le misure cautelari perdano la loro efficacia solo 30 giorni dopo la pubblicazione del provvedimento che dichiari il difetto di giurisdizione del giudice che le ha emanate. Infine, nel procedimento penale, l’art. 27 c.p.p. prevede che le misure cautelari disposte dal giudice che, contestualmente o successivamente, si dichiara incompetente, cessano di avere effetto se, entro 20 giorni dall’ordinanza di trasmissione degli atti, il giudice competente non provvede.
Da tutti questi argomenti sistematici, letti alla luce del principio generale di tutela dell’infanzia e dell’adolescenza di cui alla Convenzione di New York e all’art. 24 della Carta dei diritti UE, deve riconoscersi al tribunale per i minorenni che si dichiari incompetente, sia il potere di confermare i provvedimenti provvisori urgenti adottati in precedenza, sia di adottarli contestualmente alla dichiarazione di incompetenza, al fine di porre rimedio, ove opportuno, alle condizioni di pregiudizio e di disagio in cui il minorenne si trovi a causa del conflitto tra i genitori, con l’espressa previsione che detti provvedimenti manterranno la loro efficacia sino a diversa pronuncia del competente tribunale ordinario (presso il quale, mediante trasmissione degli atti, o per riassunzione, sia attivata la translatio iudicii).
Alla luce della gravità dei fatti denunciati dalla madre della minore e oggetto di accertamento in sede penale, pare conforme all’interesse della minore confermare, in attesa che provveda il giudice competente, il provvedimento assunto in via urgente, di divieto dei rientri della minore presso il padre e di autorizzazione di incontri protetti con la frequenza di due a settimana, secondo un calendario concordato tra le parti e il servizio sociale competente.
P.Q.M.
visti gli artt. 330, 333 c.c. e 38 d.a.c.c.;
DICHIARA la propria incompetenza per materia, per essere competente il Tribunale di Matera;
DISPONE trasmettersi copia del presente decreto al Tribunale di Matera;
CONFERMA, in attesa di pronuncia del giudice competente, il provvedimento urgente assunto in data 26 marzo 2018, secondo le modalità declinata in parte motiva. di cui si trasmette copia al tribunale competente;
ORDINA archiviarsi gli atti;
MANDA alla Cancelleria per la comunicazione al PM, e per la notifica alle parti presso i rispettivi difensori, al Servizio sociale di Pisticci, nonché per la trasmissione al Tribunale di Matera.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. N. 196 del 2003, art. 52, nei termini imposti dalla legge.
Potenza, lì 21 giugno 2018.
Dep il 3 luglio 2018
Provvedimento redatto con la collaborazione della tirocinante Dott.ssa Marianna D’Andraia.

Se c’è l’accordo dei genitori, il cognome materno può essere aggiunto a quello paterno con richiesta alla Prefettura. In caso di disaccordo si può ricorrere al giudice.

Tar Lazio 11410 del 26 novembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4511 del 2013, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avvocato Anna Maria Barbante, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR Lazio in Roma, via Flaminia, 189;
contro
U.T.G. – Prefettura di Rieti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
-OMISSIS-, non costituito in giudizio;
per l’annullamento
del decreto prefettizio n. 0004395 dell’11 marzo 2013 con cui è stata respinta la domanda presentata dalla ricorrente volta ad ottenere l’aggiunta del cognome materno a quello paterno.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’ U.T.G. – Prefettura di Rieti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 luglio 2018 la dott.ssa Francesca Romano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso notificato il 9 maggio e depositato il successivo 17 maggio 2013, la sig.ra -OMISSIS-ha adito questo Tribunale al fine di ottenere l’annullamento del decreto del Prefetto della Provincia di Rieti dell’11 marzo 2013 con cui è stata respinta l’istanza volta ad ottenere l’aggiunta del cognome materno “-OMISSIS-” al cognome paterno “-OMISSIS-”, in favore del figlio minore –OMISSIS-.
2. Espone in fatto che il figlio, nato dalla relazione con -OMISSIS-, e da questi legalmente riconosciuto, è stato lei affidato allorquando la convivenza tra loro veniva a cessare nel mese di marzo del 2012.
A causa del disaccordo tra i due, i rapporti genitoriali venivano regolati dal Tribunale per i Minorenni di Roma che, con decreto del 13 marzo 2012, disponeva l’esercizio congiunto della potestà genitoriale, fermo restando il collocamento del minore presso la madre.
In data 1° agosto 2012 la sig.ra -OMISSIS- presentava, dunque, l’istanza tendente ad ottenere l’aggiunta del cognome materno “-OMISSIS-” a quello paterno “-OMISSIS-” in favore del figlio -OMISSIS-, al fine di vedere riconosciuto il suo ruolo genitoriale, senza incidere sulla situazione acquisita e sull’originario cognome paterno del bambino.
Espletata l’istruttoria, la Prefettura di Rieti comunicava alla ricorrente, con avviso ex art. 10 bis, l. n. 241/1990, che il padre del minore aveva proposto formale opposizione all’istanza di cambiamento del cognome.
Con il gravato decreto, dunque, la Prefettura, considerata la necessarietà del consenso di entrambi i genitori al fine dell’accoglimento della domanda, non sussistendo un’ipotesi di decadenza dalla potestà genitoriale né altre comprovate peculiari circostanze familiari, la respingeva.
3. Avverso il gravato decreto la ricorrente deduce i seguenti motivi di diritto:
I. Carenza, illogicità e difetto di motivazione per violazione degli artt. 1 e 3, l. n. 241/1990. Sviamento del potere, in quanto l’amministrazione non avrebbe consentito alla ricorrente di conoscere le ragioni dell’opposizione dell’altro genitore.
II. Erroneità ed illogicità della motivazione per violazione dell’art. 89, d.p.r. 2 novembre 2011, n. 396, nella lettura costituzionalmente orientata offerta da Corte Costituzionale nella decisione n. 61/2006.
III. Erroneità della motivazione nella misura in cui ha ritenuto indispensabile il consenso dell’altro genitore, come disposto dalla circolare n. 15/2008.
4. Si è costituita in giudizio la resistente amministrazione, depositando in giudizio la documentazione relativa al procedimento per cui è causa.
5. Alla pubblica udienza del 17 luglio 2018 la causa è passata in decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Il nostro ordinamento riconosce il diritto al nome (art. 6 c.c.), nel binomio comprensivo del prenome e del cognome, e ne prevede la tutela (artt. 7 e 8 c.c.), intesa non tanto come tutela del segno distintivo della persona ma come tutela dell’identità personale.
L’art. 6 c.c., nell’ esprimere il favor per la certezza e la stabilità del nome – con l’evidente intento di salvaguardare l’interesse pubblico alla certezza dello status ed all’agevole individuazione delle persone, al comma terzo, consente “cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome”, nei soli casi e con le formalità previste dalla legge ordinaria.
L’art. 89, comma 1, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 , come da ultimo modificato dal D.P.R. 13 marzo 2012, n. 54, stabilisce, a tale riguardo che: “salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce. Nella domanda l’istante deve esporre le ragioni a fondamento della richiesta”.
La giurisprudenza amministrativa ha così avuto modo di chiarire che la domanda proposta ai sensi dell’art. 89, d.p.r. n. 396/2000 può essere sostenuta anche da intenti soggettivi ed atipici, purché meritevoli di tutela e non contrastanti con il pubblico interesse alla stabilità ed alla certezza degli elementi identificativi della persona e del suo status giuridico e sociale (ex plurimis, Cons. St., III, 15 ottobre 2013, n. 5021).
Secondo la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr., Cons. St., IV, 27 aprile 2004, n. 2752; 26 giugno 2002, n. 3533), ancora, “il diniego ministeriale di autorizzazione al mutamento di nome, ai sensi degli artt. 153 e seguenti del R.D. 9 luglio 1939 n. 1238, costituisce, (…), provvedimento eminentemente discrezionale, in cui la salvaguardia dell’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome, connesso ai profili pubblicistici dello stesso come mezzo di identificazione dell’individuo nella comunità sociale, può venire contemperata con gli interessi di coloro che quel nome intendano mutare o modificare nonché di coloro che a quel mutamento intendano opporsi.
Dalla natura discrezionale dell’impugnato provvedimento di diniego discende – come logico corollario – che il sindacato giurisdizionale dello stesso può essere condotto, quanto al vizio intrinseco dello sviamento, sotto il limitato profilo della manifesta irragionevolezza delle argomentazioni amministrative o del difetto di motivazione” (così, Cons. St., IV, 26 aprile 2006, n. 2320).
2. Nel caso di specie, il provvedimento prefettizio di diniego all’aggiunta, al cognome paterno del figlio minore, del cognome della madre, motivato sulla base dell’opposizione del padre, non appare a questo collegio affetto da alcun vizio manifesto.
Innanzitutto, giova precisare, alla fattispecie in esame non sono applicabili i principi da ultimo posti dal giudice delle leggi nella sentenza n. 286 del 2016.
Premessa la vigenza nel nostro ordinamento, desumibile dalle norme che implicitamente la presuppongono, della norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso jure al figlio, la Corte Costituzionale, ha espressamente affermato, come già incidentalmente aveva fatto nel 2006 (sentenza n. 61 del 2006), l’incompatibilità della norma de qua con i valori costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”.
Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome, ha osservato la Corte, con l’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88 del d.p.r. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012, n. 54, le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome, effettuata al momento della nascita.
“Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre.
3.4.- La Corte ritiene che siffatta preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.
(…) Il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale, che si proietta nella sua personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.
(…) In questa stessa cornice si inserisce anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ricondotto il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, nella sentenza Cusan Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014, successiva all’ordinanza di rimessione in esame, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La Corte EDU ha, altresì, ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni aggiungendo a quello paterno il cognome della madre.
La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori” (così, Corte Cost. 21 dicembre 2016, n. 286).
Sulla base di tali principi, la Corte giunge, dunque, a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.
3. Il caso sottoposto all’odierno organo giudicante è, tuttavia, diverso.
La richiesta del cambiamento di cognome, in ipotesi di soggetto minorenne, deve necessariamente provenire dai soggetti che ne hanno la rappresentanza legale, quindi, nel caso di specie dagli esercenti la potestà genitoriale.
Nel caso in cui vi sia accordo tra i medesimi trovano senza dubbio applicazione i principi sopra affermati da ultimo dai giudici costituzionali nella decisione n. 286/2016, di modo che deve senza dubbio essere riconosciuta la possibilità di trasmettere ai figli, e quindi, di aggiungere al cognome paterno, anche il cognome materno.
In caso di disaccordo, all’opposto, tali principi non sono immediatamente applicabili.
Si deve avere riguardo, a tale proposito, alla norma dell’art. 320 c.c. sulla rappresentanza e amministrazione dei beni dei figli, secondo cui i genitori esercitano “congiuntamente” (salvo l’ipotesi, che non ricorre nel caso de quo, dell’esercizio in via esclusiva della potestà genitoriale) i poteri di rappresentanza dei figli “in tutti gli atti civili”.
La richiesta di modifica del cognome del figlio minore, integrando un “atto civile”, può essere presentata, allora, dai genitori solo nell’esercizio della rappresentanza legale che trova la sua fonte e disciplina nell’art.
320 c.c., di guisa che deve ritenersi a tal fine imprescindibile il consenso di entrambi i genitori, fatto salvo solo il caso – che qui non ricorre – in cui uno di essi sia stato privato della potestà genitoriale.
In caso di disaccordo, stabilisce, in ultima analisi, l’art. 320, comma 2, c.c., si applicano allora le disposizioni dell’art. 316 c.c., che per il caso di contrasto su questioni di particolare importanza prevede la possibilità, per ciascuno dei genitori, di ricorrere senza formalità al giudice civile.
Alcuna censura, pertanto, può essere mossa avverso il gravato provvedimento di diniego, sia sotto il profilo dello sviamento del potere che dell’illogicità ed erroneità della motivazione, sollevate con il primo ed il secondo motivo di ricorso, in quanto in presenza di disaccordo tra i coniugi nell’esercizio dei poteri rappresentanza del minore per il compimento di atti civili, quali, in specie, il cambiamento del cognome, non è il Prefetto l’autorità competente ad adottare le determinazioni ritenute più idonee a curare l’interesse del figlio, bensì, come detto, l’autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 320 e 316 c.c.
4. Del pari, privo di fondamento risulta essere il terzo motivo di ricorso.
La circolare ministeriale n. 15/2008 prevede espressamente la possibilità di presentare l’istanza di cambiamento di cognome per conto del minorenne, ribadendo, pur tuttavia, in armonia con i sopra affermati principi, che la stessa può essere presentata da entrambi i genitori in quanto esercenti la potestà genitoriale, o anche da uno dei due “purché detta istanza sia accompagnata dal consenso dell’altro genitore”.
La circolare contempla, quindi, due ipotesi eccezionali in cui l’istanza può essere positivamente valutata dal Prefetto ancorché presentata da uno solo dei due genitori: l’ipotesi di perdita della potestà genitoriale da parte dell’altro, che non ricorre nel caso de quo, e l’ipotesi di istanza motivata sulla base di “peculiari circostanze familiari, adeguatamente comprovate, tali da arrecare pregiudizio o danno al minore” che, con motivazione sul punto esente da vizi di legittimità, il Prefetto non ha ritenuto ravvisabile nella mera circostanza dell’esistenza di una situazione conflittuale tra i genitori del minore.
5. Per tutto quanto sopra esposto, in conclusione, il ricorso deve essere respinto.
6. Si ravvisano, per la peculiarità della fattispecie esaminata, giustificati motivi per compensare le spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui agli artt. 52 commi 1,2 e 5 e 22, comma 8 D.lg.s. 196/2003, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o delle persone minori ivi citate.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 luglio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Germana Panzironi, Presidente
Roberta Ravasio, Consigliere
Francesca Romano, Primo Referendario, Estensore L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Francesca Romano Germana Panzironi

Procedimento di mediazione – Assenza della parte attrice- eccezione di improcedibilità – Rigetto

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI SAVONA
In persona del Giudice dott. Fabrizio Pelosi
ha pronunciato la seguente
sentenza
nella causa tra:
L. P. e F. X., difesi dall’avv. * per procura contenuta nella comparsa di nuovo difensore.
ATTORE
CONTRO
Condominio A. di via * in persona dell’amministratore pro tempore, difeso dall’avv. * per procura in calce alla comparsa
CONVENUTO
CONCLUSIONI DELLE PARTI
PER PARTE ATTRICE: “”Piaccia al Giudice Ill.mo, ogni contraria istanza disattesa:
.-. sospendere la esecutività della delibera impugnata, Delibera Condominio A.
di An. delli 22.04.2017;
.-. annullare e/o dichiarare nulla la delibera condominiale delli 22.04.2017, per le
ragioni di cui in premessa nella parte in cui il Condominio ha:
1) Approvato i punti 3 e 4 dell’O.d.G. Ossia ha approvato i lavori di rifacimento ed impermeabilizzazione solettone box, per essere l’avviso di convocazione non sufficientemente specifico, non contenendo idonea indicazione dei lavori da eseguirsi (quali lavori di impermeabilizzazione?) e non essendo allegato né preventivi, né capitolato dei lavori da eseguire, e essendo il preventivo approvato pervenuto successivamente alla convocazione, e quindi non esaminabile idoneamente dai condomini;
2) approvato i lavori di cui al punto 5 dell’O.d.G., ossia i lavori adeguamento antincendio autorimessa, poiché né dall’avviso di convocazione (cui non sono allegati né preventivi, né capitolati), né dal verbale è data di conoscere, data la genericità del termine, quali lavori sono stati approvati e essendo il preventivo approvato pervenuto successivamente alla convocazione, e quindi non esaminabile idoneamente dai condomini;
3) approvato (punti 4 e 5) di ripartire le spese dei lavori di cui ai punti 4 e 5, poiché è stato dalla Assemblea approvato non il riparto, ma i criteri da seguire e comunque non sono stati rispettati criteri di riparto adottati dalla assemblea (la Assemblea non ha approvato alcun riparto: il riparto datato 21.04 allegato al verbale di Assemblea è stato successivamente ritirato perchè dichiarato non conforme ai criteri adottati ed il verbale inviato successivamente in sostituzione di quello trasmesso col verbale assembleare, è stato predisposto dall’Amministratore e non approvata dalla Assemblea);
4) adottato(Punti 4 e 5 ) criteri di riparto delle spese difformi da quelli di legge a maggioranza e non alla unanimità della totalità dei condomini;
5) rateizzato (punto 8 O.d.g.) le spese, essendo le delibere di adozione delle spese
rateizzate, invalide per le ragioni di cui in premessa (punti 4 e 5 o.d.g.).
.-. annullare la delibera impugnata perchè la Assemblea in seconda convocazione non risulta dal verbale trasmesso essere stata convocata nel il rispetto del termine di 10 gg. di cui all’art. 1136 cod. civ.;
.-. dichiarare che nulla deve essere versato alle scadenze indicate per essere stato il riparto e la rateizzazione stabilita dall’Amministratore e non dall’Assemblea e per
essere viziate le delibere di approvazione delle spese rateizzate;
.-. porre le spese di giudizio, a carico di parte convenuta”
PER PARTE CONVENUTA: “Piaccia all’ecc.mo Tribunale, adversis reiectis:
Dichiarare la nullità dell’atto di citazione e, di conseguenza, della comparsa in riassunzione degli attori per mancanza degli elementi di cui all’art. 163 nn. 3 e 4 c.p.c., come indicato in narrativa;
Per l’effetto, ai sensi dell’art. 164 c.p.c. o comunque in considerazione dell’inerzia
tenuta dagli attori successivamente alla notifica della citazione e del mancato esperimento della mediazione obbligatoria, dichiarare inammissibile e/o improcedibile le domande attoree per intervenuta decadenza dall’impugnazione delle delibere oggetto del presente giudizio;
In via di subordine e nel merito, in ogni caso respingere ogni domanda attorea in
quanto infondata;
Valutata la soccombenza e tenuto conto della condotta processuale degli attori, condannare gli stessi alla rifusione di spese ed onorari di giudizio, oneri di legge inclusi, oltre al risarcimento in favore del Condominio A. dei danni ex art. 96 c.p.c., da valutarsi in via equitativa, per avere proposto la presente lite in modo temerario”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L. P. e F. X. sono comproprietari dell’appartamento int. 7 sito nel condominio A. di An.
Gli attori hanno impugnato alcuni punti della delibera assembleare del 22 aprile 2017, chiedendone l’annullamento.
Gli attori hanno notificato la citazione, ma non hanno iscritto a ruolo la causa, salvo poi riassumerla in un secondo momento
Il condominio si è costituito in giudizio, contestando le argomentazioni di parte attrice e chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
Con provvedimento del 4 maggio del 2018, il Giudice, su eccezione di parte convenuta, rilevato che la materia oggetto di causa ricadeva tra quelle soggette alla mediazione obbligatoria, ha fissato termine di 15 gg. per adire l’organismo di mediazione.
Per quanto nessuna delle parti abbia prodotto il relativo verbale, è pacifico che parte attrice ha proposto la relativa istanza all’organismo di mediazione nei termini di legge, ma non ha, poi, presenziato al primo incontro fissato dal mediatore, cui, invece, era presente parte convenuta.
Quest’ultima ha eccepito l’improcedibilità della domanda.
L’improcedibilità del giudizio
L’obbligatorietà della mediazione in materia condominiale è prevista dall’art. 5 del Dlgs 28/10 e dall’art. 71 quater disp. att. c.c.
Al riguardo, l’art. 5, co. 1-bis prevede: “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio … è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto … L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.
Si pone il problema di identificare qual è l’adempimento richiesto perché il procedimento di mediazione possa dirsi esperito.
Sul punto, il co. 2 bis del medesimo art. 5 precisa che “Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.
La giurisprudenza maggioritaria (si vedano, tra gli altri, Corte d’Appello di Milano, sentenza 10 maggio 2017 in Leggid’Italia; Corte d’Appello di Ancona, sentenza 23 maggio 2018 in www.mondoadr.it; Tribunale di Pavia, sez. III, sentenza 20 gennaio 2017 e Trib. di Roma, Ord., 26 ottobre 2015, n. 100801 in Leggid’Italia; Trib. Vasto, 9 marzo 2015, in Giur. it., 2015, 1885; Trib. Firenze, 26 novembre 2014, in Riv. dir. proc., 2015, 558; Trib. Firenze, 19 marzo 2014, in Plurisonline – Giurisprudenza di merito) ha sostenuto che, perché la mediazione possa dirsi esperita, è necessario dar vita ad un tentativo di conciliazione effettivo.
Ciò presuppone, in primis, la presenza fisica delle parti al primo incontro fissato dal mediatore. Qualora ciò non avvenga, la domanda dovrà essere dichiarata improcedibile.
Sul piano letterale, si dice, il co. 2 bis dell’art. 5 del Dlgs 28/10 richiede, perché la condizione di procedibilità possa dirsi avverata, che “il primo incontro” si concluda “senza accordo”.
Tale incontro è disciplinato dall’art. 8 che prevede, tra l’altro, che ad esso “le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”.
La condizione di procedibilità, quindi, può dirsi realizzata solo quando le parti (a ciò giuridicamente tenute) si sono materialmente incontrate davanti ad un mediatore.
Sul piano teleologico, invece, si richiama la ratio dell’istituto: se bastasse, la sola presentazione della domanda all’organismo di mediazione e non fosse necessaria la presenza delle parti medesime, la mediazione non potrebbe mai realizzare il suo fine, che consiste nel creare le condizioni perché si riattivi la comunicazione tra i litiganti, al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto. In sostanza, basterebbe adempiere solo formalmente all’obbligo della mediazione, presentando la domanda ma senza usufruire in concreto delle potenzialità dell’istituto, per svuotarlo completamente di ogni significato. Ecco allora che il legislatore, per evitare che ciò si verifichi, ha fatto ricorso ad un incentivo forte: l’improcedibilità della domanda.
Tuttavia, tale conclusione non convince, in quanto sembra fondarsi più su argomenti de jure condendo che non su argomenti de jure condito.
La tesi criticata non considera che ogni ostacolo frapposto alla piena esplicazione del diritto all’azione tutelato dalla Costituzione deve considerarsi eccezionale.
Con riferimento ad ipotesi di giurisdizione condizionata, qual è quella in esame, la giurisprudenza ha affermato il “principio, espresso anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga alla disciplina generale, devono essere interpretate in senso non estensivo” (Corte Cost. 403/07; Cass. 967/04) e, anzi, “devono essere interpretate in senso restrittivo” (Cass. 26560/2014), “dovendo limitarsene l’operatività ai soli casi nei quali il rigore estremo è davvero giustificato” (Cass. 6130/2011).
La Cassazione ha, poi, precisato che “l’improcedibilità, quale conseguenza sanzionatoria di un comportamento procedurale omissivo, derivante dal mancato compimento di un atto espressamente configurato come necessario nella sequenza procedimentale” “dev’essere espressamente prevista, non potendo procedersi ad applicazione analogica in materia sanzionatoria, attese le gravi conseguenze del rilievo dell’improcedibilità”, ragion per cui l’improcedibilità non può operare in difetto di espressa previsione legislativa (Cass. 20975/17) che, nel caso di specie, manca.
Infatti, l’ipotesi di mancata partecipazione delle parti al procedimento di mediazione è disciplinata da una norma specifica: l’art. 8, co. 4 bis, Dlgs 28/10 che prevede, come conseguenza dell’assenza delle parti, l’applicazione di una sanzione pecuniaria e la rilevanza di tale comportamento ex art. 116 c.p.c.
Nulla viene detto, invece, in ordine all’improcedibilità dell’azione. O meglio: qualcosa, sul punto, implicitamente la norma dice. Si prevede, infatti, che la mancata partecipazione al procedimento di mediazione è valutabile ex art. 116 c.p.c. Questo significa che, se la parte non partecipa alla mediazione, il processo andrà avanti e dovrà concludersi con una pronuncia di merito, nell’ambito del quale l’assenza dell’attore o del convenuto sarà valutabile come argomento di prova contro l’assente.
Non è neppure sostenibile che le sanzioni di cui all’art. 8 si cumulino con quella dell’improcedibilità.
Infatti, la norma non distingue a seconda che sia assente l’attore o il convenuto.
Questo significa che la sola assenza del convenuto (e, quindi, il mancato incontro di cui agli artt. 5, co. 2 bis ed 8) dovrebbe comportare il mancato realizzarsi della condizione di procedibilità.
Ma è impensabile che il convenuto possa, con la propria colpevole o volontaria inerzia, addirittura beneficiare delle conseguenze favorevoli di una declaratoria di improcedibilità della domanda, che paralizzerebbe la disamina nel merito delle pretese avanzate contro di sé o possa, comunque, rallentare l’andamento del processo per almeno 3 mesi.
Né può ritenersi che solo l’attore dovrebbe presenziare all’incontro di mediazione.
Tale soluzione non è sostenibile, in primo luogo, in quanto nessuna norma distingue la posizione dell’attore da quella del convenuto ai fini della mediazione, per cui sarebbe arbitrario ritenere sussistere un obbligo solo per tale parte. L’art. 8, co. 1, è chiaro nell’affermare che entrambe le parti “devono partecipare” al primo incontro, per cui non c’è alcuna ragione per sanzionare l’inosservanza dell’una o dell’altra in modo diverso. Una soluzione diversa determinerebbe, infatti, una disparità di trattamento tra la parte che ha interesse alla realizzazione della condizione di procedibilità e le sue controparti, perché sola la prima è esposta alla grave sanzione processuale ipotizzata (sul punto, Trib. Verona Ord. 11 maggio 2017, n. 1626 in www.altalex.com).
In secondo luogo, non solo non c’è alcun dato normativo a differenziare la disciplina dell’assenza dell’attore da quella del convenuto, ma non c’è neppure alcuna valida ragione perché ciò avvenga. L’attore ed il convenuto, di fronte al mediatore, perdono il loro ruolo processuale: non c’è più un soggetto che si afferma titolare di un diritto ed un convenuto indicato come gravato, invece, da un corrispondente dovere, come nel processo. Con la mediazione “scompaiono” i diritti e fanno ingresso gli interessi, originariamente confliggenti e che, per effetto della mediazione, sono destinati a divenire convergenti: entrambi i contendenti devono impegnarsi a porre fine ad una controversia tra loro esistente, collaborando, a tal fine, in modo soddisfacente e sfruttando le opportunità offerte dalla mediazione, evitando i costi economici ed umani del giudizio.
Neppure può sostenersi che l’improcedibilità è prevista dall’art. 5 del Dlgs 28/10 laddove precisa che la condizione di procedibilità è avverata quando il primo incontro si conclude senza accordo.
Infatti, il legislatore ha semplicemente descritto quello che il legislatore ha pensato poter essere lo sviluppo della procedura. Ciò che interessa al legislatore, perché si realizzi la condizione di procedibilità è che, nel primo incontro, le parti si esprimano sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione, come si evince dall’art. 8 che prevede che, nel corso di tale incontro, “il mediatore invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione”.
Accertata tale impossibilità, il processo deve andare avanti. Con l’assenza, la parte ed il suo avvocato danno una risposta chiara alla possibile prosecuzione del procedimento: la mancata partecipazione è espressione inconfutabile di mancanza di volontà di iniziare la mediazione.
Del resto, se l’ordinamento riconosce il diritto a non partecipare al processo restando contumace, senza che ciò abbia alcuna diretta conseguenza sul piano processuale, in modo analogo deve essere riconosciuto il diritto a non aderire al procedimento di mediazione, in un sistema, quale il nostro, retto dal principio dispositivo e dal diritto costituzionale all’azione in giudizio. Ciò è tanto più vero ove si consideri la contraddittorietà intrinseca nel voler costringere le parti alla mediazione ed alla conciliazione.
Non è, poi, vero quanto sostenuto dall’orientamento qui criticato, secondo cui, se l’assenza della parte non comportasse la sanzione dell’improcedibilità e fosse sufficiente solo la presentazione della domanda alla mediazione, l’istituto sarebbe svuotato di ogni sua utilità. A parte il fatto che, comunque, la presenza fisica della parte non garantisce un impegno effettivo a conciliare la lite, comunque, si osserva che il Dlgs 28/10 istituisce una gerarchia fra le varie fattispecie sanzionatorie, al cui vertice si pone l’improcedibilità dell’azione, da dichiararsi unicamente nei casi più gravi; in posizione mediana, si pongono la condanna pecuniaria ed il potere giudiziale di desumere argomenti di prova di cui all’art. 8; infine, nel caso in cui le parti abbiano partecipato alla mediazione, senza, però, sfruttare immotivatamente l’occasione offerta di una conciliazione, la conseguenza sanzionatoria è la condanna alle spese legali ex art. 13. Da tale quadro emerge che la pacifica affermazione secondo cui le parti hanno l’obbligo di presenziare all’incontro di mediazione non comporta automaticamente che l’inosservanza sia punita con l’improcedibilità.
Infatti, il legislatore ha, comunque, previsto uno stimolo per le parti a presenziare all’incontro di mediazione: l’assenza viene punita con una pena pecuniaria (il pagamento di un importo pari al contributo unificato) e con una pena processuale (applicazione dell’art. 116 c.p.c.), secondo quanto previsto dall’art. 8.
Qualora tali rimedi si rivelino non adeguati, sarà compito del legislatore porvi rimedio.
A questo, deve aggiungersi che l’art. 6 prevede che il procedimento di mediazione non possa avere una durata superiore a 3 mesi. Trascorso tale lasso di tempo, quindi, il processo può proseguire verso la definizione nel merito; in questo caso, quindi, la condizione di procedibilità può dirsi realizzata, pur in assenza dell’incontro di cui all’art. 8 del Dlgs 28/10 che, in ipotesi, potrebbe non intervenire prima della sentenza conclusiva.
Ciò che, invece, non manca mai, perché il processo possa proseguire, è la proposizione della domanda ex art. 4.
A ciò va aggiunto che tale conclusione trova supporto anche da un confronto tra l’istituto in esame e l’altro istituto “fratello”: la convenzione assistita. L’art. 3 del Dlgs 132/14, disciplinando l’invito obbligatorio alla stipula di una “convenzione di negoziazione assistita” dagli avvocati, fra le parti di una controversia rientrante nel novero di quelle assoggettate a tale (nuova) ipotesi di improcedibilità della domanda giudiziale, stabilisce, al comma 2°, che “Quando l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se l’invito non è seguito da adesione, è seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione, ovvero quando è decorso il periodo di tempo di cui all’articolo 2, comma 2, lettera a)”: eventi, tutti, innegabilmente riconducibili – espressamente o implicitamente (nel caso di mancata adesione o di infruttuoso decorso del termine) – alla mera volontà negativa delle parti in lite alla negoziazione.
L’assenza della parte, quand’anche sia attrice, all’incontro di mediazione disposto ex art. 5 Dlgs 28/10, è, quindi, sì punita dal Dlgs 28/10, ma non con l’improcedibilità, bensì con le sanzioni di cui all’art. 8.
In conclusione, deve ritenersi che l’unico adempimento richiesto ai fini della procedibilità della domanda è il deposito della domanda di mediazione presso l’organismo deputato.
Si deve, quindi, decidere nel merito delle argomentazioni di parte attrice.
La tempestività dell’azione
Parte convenuta ha eccepito la tardività dell’impugnazione proposta.
Infatti, secondo parte attrice nel termine di 60 gg. gli attori avrebbero dovuto attivare la procedura di mediazione o, comunque, depositare in cancelleria la citazione.
Non avendolo fatto, gli attori erano, quindi, decaduti dall’impugnazione.
Tuttavia, dal momento che l’impugnazione della delibera deve avvenire con citazione e non ricorso (Cass. Sez. Un. 8491/11), basta che la notifica di tale atto sia intervenuta nel termine di 30 gg. (Cass. 8839/17).
Nel caso in cui, notificata la citazione, la causa non sia iscritta a ruolo e sia, invece, riassunta ben dopo il decorso di 30 gg. dalla delibera, la giurisprudenza (Cass. 14661/13), in una fattispecie analoga alla presente, ha affermato che “La notificazione della citazione, ancorché non seguita dall’iscrizione della causa a ruolo, né dalla costituzione delle parti nei termini loro rispettivamente assegnati, è sufficiente a determinare la pendenza della lite, poiché la mancata costituzione non comporta senz’altro l’estinzione del processo, il quale, benché in stato di quiescenza, può essere riassunto ai sensi dell’art. 307 c.p.c. Pertanto, la riassunzione della causa non iscritta a ruolo non determina l’instaurazione di un nuovo giudizio, ma la prosecuzione di quello già pendente, con la conseguenza che gli effetti sostanziali e processuali della domanda permangono inalterati e riferiti, quanto alla loro produzione, alla data della notifica della prima citazione”.
Ne discende che l’eccezione è infondata.
Mancato rispetto del termine di convocazione dell’assemblea
Parte attrice ha lamentato che l’assemblea era stata convocata in prima convocazione a dicembre, mentre in seconda convocazione era stata convocata ad aprile e, quindi, ben oltre il termine di 10 gg. dalla prima.
Tuttavia, parte convenuta ha specificato che la prima assemblea si era tenuta non a dicembre, come indicato nel relativo verbale che conteneva, quindi, un evidente errore materiale, bensì ad aprile, con la conseguenza che l’intervallo temporale tra la prima e la seconda convocazione previsto dall’art. 1136 c.c. era stato rispettato.
La sussistenza di un errore materiale nella datazione del verbale della prima assemblea è circostanza non specificamente contestata ex art. 115 c.p.c.
Solo in sede di comparsa conclusionale, parte attrice ha insistito sul punto, ma quando i termini per le allegazioni in fatto (e, quindi, per le contestazioni) erano già spirati.
Ne discende che anche tale eccezione è infondata.
Genericità dell’ordine del giorno
Parte attrice ha, poi, lamentato che l’ordine del giorno dell’assemblea del 22 aprile 2017 non conteneva una specifica indicazione degli argomenti oggetto dell’assemblea quanto ai punti 3, 4 e 5. Il punto 3 dell’odg era così rubricato “Esame preventivi lavori di rifacimento e impermeabilizzazione solettone box completo e scelta ditta appaltatrice”; il punto 4 era riportato come “approvazione lavori di rifacimento e impermeabilizzazione solettone box completo e scelta ditta appaltatrice e suo riparto col criterio di riparto deliberato nell’assemblea del 7/8/14”. Infine, il punto 5 prevedeva “approvazione lavori di adeguamento antincendio autorimessa e suo riparto”.
L’assemblea ha, poi, approvato i lavori in questione.
La giurisprudenza, sul punto, ha evidenziato: “In tema di condominio negli edifici, affinché la delibera assembleare sia valida, non occorre che l’avviso di convocazione prefiguri lo sviluppo della discussione e il risultato dell’esame dei singoli punti all’ordine del giorno” (Cass. 13047/14); “In tema di deliberazioni dell’assemblea condominiale, ai fini della validità dell’ordine del giorno occorre che esso elenchi specificamente, sia pure in modo non analitico e minuzioso, tutti gli argomenti da trattare, sì da consentire a ciascun condomino di comprenderne esattamente il tenore e l’importanza, e di poter ponderatamente valutare l’atteggiamento da tenere, in relazione sia alla opportunità o meno di partecipare, sia alle eventuali obiezioni o suggerimenti da sottoporre ai partecipanti. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che l’autorizzazione all’amministratore ad aprire un nuovo conto corrente, una volta saldato quello precedente in passivo, e di procedere ad uno sconfinamento – in quanto connessa e logicamente conseguenziale ai punti dell’ordine del giorno relativi alla nomina del nuovo amministratore ed all’avvio della nuova gestione condominiale, con l’approvazione del rendiconto relativo alle annualità pregresse – non richiedesse una indicazione analitica e separata della questione) (Cass. 21449/10).
Tali requisiti sono stati chiaramente rispettati anche nel caso di specie.
A questo deve aggiungersi che la giurisprudenza afferma che “L’obbligo di preventiva informazione dei condomini in ordine al contenuto degli argomenti posti all’ordine del giorno dell’assemblea risponde alla finalità di far conoscere ai convocati, sia pure in termini non analitici e minuziosi, l’oggetto essenziale dei temi da esaminare, in modo da consentirgli di partecipare consapevolmente alla relativa deliberazione; pertanto, in considerazione della “ratio” di detto avviso, la sua eventuale genericità non comporta l’invalidità della delibera condominiale, qualora risulti che il condomino, sia pure “aliunde”, era sufficientemente informato sull’argomento che avrebbe costituito oggetto dell’assemblea” (Cass. 63/06).
I lavori oggetto della delibera impugnata avevano costituito l’oggetto di altra delibera, anch’essa impugnata dagli attori e, poi, revocata dal condominio. Ne discende che questi erano già a conoscenza di ciò su cui l’assemblea sarebbe stata chiamata a pronunciarsi.
Omessa allegazione di documentazione all’avviso di convocazione
La delibera, nei punti 3 e 4, era viziata, in quanto non era stato allegato alcun documento all’avviso di convocazione, nonostante fossero sopravvenuti 3 preventivi, come specificamente indicato in verbale.
Come riconosciuto dall’attore, nessuna norma impone all’amministratore di allegare all’ordine di convocazione la documentazione oggetto della discussione in sede di delibera assembleare. Nulla viene detto, in particolare, dall’art. 66 disp. att. c.c.
Peraltro, il condomino è tutelato in quanto può prendere visione di tale documentazione ove ne faccia richiesta, nei giorni e nelle ore indicate dall’amministratore stesso ex art. 1129, co. 2 c.c.
La giurisprudenza afferma che “al fine di soddisfare adeguatamente il diritto d’informazione dei condomini circa l’oggetto della delibera non è necessario allegare all’avviso anche i singoli importi dei preventivi in questione, posto che per assolvere agli oneri di specificità e chiarezza dell’ordine del giorno e soddisfare il diritto d’informazione dei condomini è sufficiente l’indicazione della materia su cui deve vertere la discussione e la votazione, mentre è onere del condomino, ove intendesse avere a disposizione i dati specifici e la documentazione relativa alla materia su cui decidere, attivarsi per visionarla presso l’amministratore stesso ed eventualmente farsene rilasciare copie a proprie spese (Tribunale Roma, sez. V, 12/01/2010, n. 316 Guida al diritto 2010, 13, 74 e Trib. Nocera Inf. 10 maggio 2012 n. 394 in www.dejure.it).
La circostanza che siano sopravvenuti alcuni preventivi non giustifica alcuna deroga ai principi di cui sopra.
Indeterminatezza dei votanti alla delibera di cui al punto 5
L’assemblea approvò anche i lavori di cui al punto 5.
Nel verbale si legge che tale punto “viene deliberato all’unanimità degli aventi diritto, nessun voto contrario e nessun astenuto”.
Secondo parte attrice, non si comprende chi votò la delibera.
In realtà, in assenza di indicazioni di segno contrario, si deve ritenere che gli aventi diritto altri non sono che coloro che parteciparono all’assemblea e che sono titolari di diritti sui beni oggetto dei lavori. E’, quindi, chiaro che si tratta di una delibera approvata dall’unanimità dei condomini presenti.
Illegittimità dei criteri di riparto delle spese e della rateizzazione
In relazione ai lavori di cui ai punti 4 e 5, l’assemblea deliberò di ripartire le spese secondo i criteri di riparto delle spese di cui alla delibera del 7 agosto 2014.
Gli attori hanno lamentato che l’assemblea avrebbe determinato non il riparto, ma solo i criteri di riparto di tali spese e, comunque, il riparto sarebbe avvenuto in violazione della legge e di quanto stabilito dall’assemblea.
Tuttavia, parte attrice ha omesso di specificare in che modo si sarebbero manifestate tali illegittimità, e non ha neppure prodotto il relativo riparto.
E’, quindi, impossibile pronunciarsi sulla legittimità o meno dei criteri di riparto adottati.
Nessuna norma, poi, vieta all’assemblea di definire in astratto i criteri di riparto rimettendo all’amministratore l’operazione meccanica volta a determinare i contributi dovuti in concreto da ciascun condomino.
Ne discende che anche tale motivo di impugnazione è infondato.
Spese di lite
Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate avendo riguardo ai valori medi valore indeterminato.
Quanto all’istanza ex art. 96 c.p.c. non è stato specificato in cosa consisterebbe il danno patito dal condominio.
La giurisprudenza afferma: “è onere della parte che richiede il risarcimento dedurre e dimostrare la concreta ed effettiva esistenza di un danno che sia conseguenze del comportamento processuale della controparte, sicché il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad identificarne concretamente l’esistenza, desumibili anche da nozioni di comune esperienza e dal pregiudizio che la parte resistente abbia subito per essere stata costretta a contrastare una iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario”; ed ancora ”la liquidazione del danno da responsabilità aggravata postula che la parte istante abbia quanto meno assolto l’onere di allegare gli elementi di fatto necessari ad identificarne concretamente l’esistenza ed idonei a consentire al giudice la relativa liquidazione, anche se equitativa” (Cass. 16606/10).
La stessa deve pertanto essere respinta.
PQM
definitivamente pronunciando;
Respinge la domanda attorea;
condanna L. P. e F. X. in solido fra loro a rifondere a condominio A. An. le spese di lite, spese che liquida in euro 7.254,00 per compensi, oltre accessori di legge e spese generali al 15%.
condanna L. P. e F. X. al pagamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma pari al contributo unificato dovuto per il presente giudizio;
Savona 19 ottobre 2018

Prime applicazioni di procedura giudiziale per scioglimento di unione civile.

Tribunale di Novara 5 luglio 2018
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 3449/2017 promossa
da:
B. S. M. nato a .. rappresentato e difeso dall’Avv. .. presso il cui
studio in Novara, elettivamente domiciliato, come da procura in atti
ATTORE
contro
D. L. R. nato ad ..
CONVENUTO contumace
e con l’intervento del Pubblico Ministero
INTERVENUTO
CONCLUSIONI DELLE PARTI
Per l’attore
“Voglia l’Ill.mo Tribunale adito disattesa ogni contraria istanza:
– Dichiarare lo scioglimento dell’unione civile contratta tra B. S.
M. e D. I. R., celebrata a Torino il ..
– Nulla dichiarare per il mantenimento dei coniugi.
– Dichiarare che i coniugi sono economicamente autosufficienti”
Per il P.M.
“Visto e conclude per l’accoglimento del ricorso”
FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con ricorso depositato in data 17.11.2017 il sig. S. M. B. ha esposto: di aver costituito unione civile
con il sig. L. R. D. in Torino in data .. di aver stabilito con il convenuto la comune residenza in .. che il
rapporto non si è evoluto in modo positivo per incompatibilità caratteriali; che il sig. D. ha
abbandonato l’abitazione ove conviveva con l’esponente; ha pertanto chiesto al Tribunale di
pronunciare scioglimento dell’unione civile celebrata in data .. e dichiarare l’autosufficienza economica
delle parti.
All’udienza del 27.02.2018 il Presidente ha sentito il ricorrente; il resistente, invece, pur ritualmente
avvisato, non è comparso né si è costituito in giudizio. Con ordinanza di pari data il Presidente ha
autorizzato le parti unite civilmente a vivere separatamente, con facoltà di interrompere la convivenza
e la coabitazione, ma con l’obbligo del reciproco rispetto, fissando udienza innanzi al Giudice istruttore
per l’ulteriore corso del giudizio.
All’udienza celebrata innanzi al Giudice istruttore in data 8.05.2018 l’attore ha depositato copia
dell’ordinanza presidenziale notificata nei termini e chiesto dichiararsi la contumacia della parte
convenuta, nonché di precisare le conclusioni, con rinuncia ai termini di cui all’art. 190 c.p.c.
Il Giudice istruttore, rilevata la ritualità della notifica, ha dichiarato la contumacia del sig. D. e
trattenuto la causa in decisione sulle conclusioni in epigrafe riportate, riservandosi di riferire al
Tribunale in Camera di Consiglio acquisite le conclusioni del P.M..
Il carattere innovativo delle questioni poste dal presente giudizio, in considerazione della recente
introduzione dell’istituto delle unioni civili e l’assenza a quanto consta di precedenti, rendono
necessaria, ad avviso del Collegio, una breve premessa in diritto.
Come noto, con la legge n. 76 del 20 maggio 2016 è stata istituita l’unione civile tra persone dello
stesso (art. 1, comma 1) e, per quanto in questa sede soprattutto rileva, ne sono state altresì
disciplinate le modalità di scioglimento.
Oltre che per morte, dichiarazione di morte presunta della parte o rettificazione del sesso (commi 22 e
26), l’unione civile si può sciogliere in presenza di due distinte tipologie di presupposti e con due
diverse modalità, fra loro alternative, rispettivamente contemplate dai commi 23 e 24 dell’art. 1 della
legge n. 76/2016.
Ai sensi del comma 23, “l’unione civile si scioglie altresì nei casi previsti dall’articolo 3, numero 1) e
numero 2), lettere a), c), d) ed e), della legge 1° dicembre 1970, n. 898”.
Ancorché la formulazione della disposizione possa indurre a pensare ad uno scioglimento automatico
ex lege conseguente al perfezionamento di una delle fattispecie contemplate dalle disposizioni
richiamate, in realtà (arg. ex comma 25) la ricorrenza di uno dei “casi” rende soltanto possibile
ottenere lo scioglimento dell’unione attraverso una sentenza pronunciata in esito ad un procedimento
contenzioso ovvero attraverso un accordo sottoposto all’ufficiale dello stato civile o, ancora, attraverso
un accordo stipulato in esito ad una negoziazione assistita da avvocati.
Merita peraltro in proposito di essere evidenziato, con particolare riguardo al procedimento
giurisdizionale, come precisato in dottrina, che la ricorrenza di uno dei “casi” contemplati dall’art. 3,
nn. 1 e 2, lett. a, e, d ed e, l. n. 898/1970 ha, per lo scioglimento dell’unione civile, un ruolo ben
diverso rispetto a quello che ad essa viene attribuito dagli artt. 1 e 21. n. 898/1970 ai fini dello
scioglimento del matrimonio. Per poter pronunciare una sentenza di scioglimento di matrimonio,
infatti, il giudice deve a rigore accertare: a) che la comunione materiale e spirituale di vita tra i
coniugi non può più essere mantenuta o ricostituita e b) che tale impossibilità è causalmente
imputabile alla ricorrenza di uno dei casi contemplati dall’art. 3. Per contro, per poter pronunciare una
sentenza di scioglimento dell’unione civile è sufficiente al giudice accertare la ricorrenza di uno dei casi
contemplati dall’art. 3, nn. 1 e 2, lett. a, c, d ed e, l. n. 898/1970 , del tutto irrilevante essendo se, ed
in che misura, il perfezionamento di una di tali fattispecie abbia inciso sulla comunione di vita fra le
parti, pregiudicando la possibilità di mantenerla o ricostituirla.
Ciò, ad avviso dei commentatori, per la ovvia ragione che l’esistenza ab origine e la conservazione di
una comunione materiale e spirituale di vita fra le parti è del tutto priva di rilevanza nell’istituto
dell’unione civile.
Il comma 24, invece, dispone che “l’unione civile si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato
anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile. In tale caso la
domanda di scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla data della manifestazione
di volontà di scioglimento dell’unione”.
Tale comma reca dunque la disciplina ordinaria dello scioglimento del rapporto venuto in essere a
seguito della costituzione di una unione civile, attivabile tutte le volte in cui non ricorra alcuno dei casi
previsti dall’art. 3, nn. 1 e 2, lett. a, c, d ed e, l. n. 898/1970.
Secondo l’interpretazione più convincente ed aderente al dato normativo, il comma 24 della predetta
legge ha disegnato per lo scioglimento dell’unione civile, per la quale non è prevista la separazione, un
iter procedimentale che prende le mosse dalla dichiarazione di volontà di scioglimento dell’unione
effettuata davanti all’ufficiale di stato civile, anche da una sola delle parti. Tale dichiarazione non ha
effetti dissolutivi dell’unione civile, ma è solo il presupposto per presentare “la domanda di
scioglimento”, domanda che non potrà essere avanzata prima del termine dilatorio di tre mesi dalla
data in cui è stata effettuata la dichiarazione davanti all’ufficiale di stato civile. In altri termini, solo
dopo la dichiarazione e decorso il termine di cui sopra, sarà possibile per la parte intraprendere una
delle strade individuate dal legislatore per lo scioglimento dell’unione: quella giurisdizionale (sia con la
proposizione della domanda di divorzio congiunto, in caso di accordo delle parti, che con la
proposizione della domanda di divorzio in sede contenziosa, in caso di disaccordo) o quella
stragiudiziale, nelle forme della negoziazione assistita o dello scioglimento dell’unione davanti al
Sindaco quale ufficiale dello stato civile.
Il termine di tre mesi che deve intercorrere tra la manifestazione di volontà dinanzi all’ufficiale di stato
civile e la proposizione della domanda giudiziale è in ultima analisi lo spatium deliberandi che la legge
impone ai partners di un’unione civile che decidono di sciogliere il proprio vincolo, in assenza di una
delle cause legali sopra ricordate.
Nessuna influenza sulla possibilità di ottenere la sentenza di scioglimento viene attribuita alla
circostanza che la domanda giudiziale di scioglimento venga presentata da una soltanto delle parti o
da entrambe congiuntamente: nell’uno e nell’altro caso la domanda deve infatti essere accolta dal
giudice per il solo fatto di essere stata presentata ad oltre tre mesi di distanza dall’avvenuta
manifestazione di volontà di scioglimento davanti all’ufficiale dello stato civile, senza che si rendano
necessari ulteriori accertamenti.
Il recente d.lgs. n. 5 del 19 gennaio 2017, in attuazione dell’art. 28 della legge n. 76, è infine
intervenuto a colmare alcune lacune dell’articolato normativo descritto.
Il d.lgs. n. 5/2017, introducendo la lettera g-quinquies all’art. 63 d.P.R. n. 396/2000 ha previsto
espressamente che la volontà di sciogliere l’unione civile possa essere manifestata da una o da
entrambe le parti; sembra invece escludersi l’ipotesi di una manifestazione differita, ovvero l’ipotesi in
cui una parte voglia aderire alla richiesta dell’altra giacché il decreto del Ministero dell’Interno 27
febbraio 2017 ha in proposito previsto l’alternativa tra manifestazione congiunta o manifestazione di
una sola parte; introducendo la lettera g-quinquies all’art. 63 d.P.R. n. 396/2000 il legislatore ha poi
previsto un ulteriore passaggio nell’iter procedimentale consistente nell’obbligo di preventiva
comunicazione di una parte all’altra, mediante lettera raccomandata, dell’intento di sciogliere il
vincolo: l’ufficiale di stato civile, dunque, verificato l’incombente, raccoglie la dichiarazione di volontà
di scioglimento del vincolo e solo da quel momento decorreranno i tre mesi necessari per poter
radicare il giudizio.
Infine, il decreto del Ministero dell’Interno 27 febbraio 2017 ha chiarito che la dichiarazione possa
essere resa solo innanzi all’ufficiale di stato civile del Comune dove l’unione è stata costituita. Per
quanto in questa sede soprattutto rileva, si osserva che, secondo l’interpretazione offerta dai primi
commentatori, dal punto di vista processuale, la predetta dichiarazione davanti all’ufficiale dello stato
civile, che nel caso di specie non è stata resa, sembra costituire, pur in assenza di una esplicita
previsione in questo senso da parte del legislatore, una condizione di procedibilità per lo scioglimento
dell’unione civile.
Occorre tuttavia interrogarsi più attentamente su quali siano le conseguenze nel caso in cui difetti
l’invio della raccomandata al partner e non risulti resa la dichiarazione innanzi all’ufficiale di stato
civile.
Ebbene, ritiene il Collegio che, al ricorrere di determinate condizioni, che si andranno appresso
indicando, il Tribunale adito possa comunque delibare la domanda di scioglimento dell’unione civile,
pur in difetto di invio della predetta raccomandata e della formale dichiarazione innanzi all’ufficiale
dello stato civile. In particolare, ad avviso del Collegio, nel caso in cui l’attore abbia notificato
ritualmente il ricorso introduttivo del giudizio al partner, abbia ribadito in sede presidenziale la propria
volontà di sciogliere il vincolo e, tra la fase presidenziale ed il momento in cui viene emesso da parte
del Tribunale il provvedimento definitorio del giudizio, sia trascorso un lasso di tempo pari o superiore
a tre mesi, allora si deve ritenere che l’omissione della fase amministrativa innanzi all’ufficiale di stato
civile non pregiudichi la valutazione nel merito della domanda.
Tale conclusione, a ben vedere, si impone non solo sulla base di argomenti di ordine letterale, ma
anche e soprattutto, teleologico, sol che si rifletta sulla ratio sottesa alla previsione normativa di cui al
comma 24 della l. n. 76/2016.
In primo luogo, infatti, l’invocato comma 24, pur stabilendo che la parte renda la dichiarazione innanzi
all’ufficiale di stato civile, non qualifica espressamente tale dichiarazione come condizione di
procedibilità dell’azione, né fa discendere alcuna conseguenza dall’inadempimento di tale incombente.
Inoltre e soprattutto, come ha avuto modo di precisare la dottrina, da tale dichiarazione non derivano
altre conseguenze se non quella di determinare il dies a quo per la decorrenza di quel termine di tre
mesi al quale i commentatori hanno pressoché unanimemente riconosciuto il significato di spatiucm
deliberandi, momento di riflessione prodromico alla instaurazione del giudizio. Tanto chiarito, si può
allora agevolmente ritenere che la rituale notifica del ricorso al partner possa tenere luogo all’invio
della lettera raccomandata, in quanto idonea al raggiungimento dello scopo che la norma si prefigge,
ovvero notiziare in maniera formale il partner della propria volontà di sciogliere il vincolo.
Parimenti si può ben sostenere che la manifestazione di volontà ribadita innanzi al Presidente del
Tribunale possa tenere luogo alla mancata dichiarazione innanzi all’ufficiale di stato civile. Ed invero,
vale la pena ribadire in proposito che alla dichiarazione resa innanzi all’ufficiale di stato civile la legge
non ha attribuito alcuna conseguenza, ad esempio in ordine allo scioglimento del regime di comunione
legale dei beni eventualmente in essere, se non quella di fissare la decorrenza del periodo di
riflessione di tre mesi. In definitiva, l’unico scopo attribuito a tale dichiarazione è quello di
cristallizzare in maniera formale il momento in cui il partner manifesta la propria volontà di sciogliere
l’unione al fine di consentire il decorrere del termine di tre mesi.
Stando così le cose, allora, non si rinvengono argomenti di ordine letterale né sistematico che portino
ad escludere la possibilità di equiparare, quanto a sacralità e formalità, la dichiarazione resa innanzi
all’ufficiale di stato civile a quella resa innanzi al Presidente del Tribunale. Infine, non si ravvisano
controindicazioni di sorta nel sostenere che, qualora dal momento in cui il ricorrente espliciti la propria
volontà innanzi al Presidente del Tribunale a quello in cui il Tribunale si trova a decidere sulla
domanda, sia trascorso un termine pari o superiori a tre mesi, allora si è inverata anche l’ulteriore
condizione richiesta dalla legge, vale a dire il trascorrere di un termine che consenta alla parte di
riflettere sulla propria determinazione ed, eventualmente, di mutare il proprio avviso. Non sussistono
infatti ragioni logiche, prima ancora che giuridiche, che consentano di escludere che il termine di tre
mesi decorso nell’ambito del giudizio sia diverso, per quantità e qualità, al medesimo lasso di tempo,
se trascorso prima del processo ed al di fuori dello stesso. In definitiva, in assenza di indici contrari
all’interno della legge in esame ed al ricorrere delle circostanze indicate, la fase amministrativa, pur
ordinariamente prevista dal legislatore, non costituisce passaggio indefettibile per l’esame nel merito
della domanda di scioglimento dell’unione civile. Del resto, la soluzione interpretativa accolta, ad
avviso del Collegio, è la più idonea a contemperare il rispetto del dato normativo con i principi di
economia processuale e ragionevole durata del processo di matrice costituzionale. Diversamente
opinando, infatti, il giudizio dovrebbe irrimediabilmente esitare in una pronuncia di improcedibilità del
ricorso, così costringendo la parte alla riproposizione della propria domanda.
Ricostruito in questi termini il dettato normativo, si ritiene che nel caso di specie, pur non essendo
stata inviata raccomandata dal sig.1a odierno attore, al compagno, R D L , né essendo stata resa la
dichiarazione innanzi all’ufficiale di stato civile, la domanda possa essere valutata nel merito ed
accolta.
Ed infatti risulta che il sig. B. abbia notificato il ricorso introduttivo del giudizio per lo scioglimento
dell’unione civile al compagno; in sede presidenziale, all’udienza del 27.02.2018, abbia ribadito la
propria volontà di sciogliere il vincolo e così innanzi al giudice relatore il giorno 8.05.2018. Sulla
domanda il P.M. in sede non ha sollevato rilievi. Sicché, per tutte le ragioni in diritto esposte, si ritiene
che nel caso di specie la ratio sottesa agli adempimenti previsti dal legislatore con la legge n. 7612016
ed il d.lgs. n. 5/2017 sia stata rispettata e la domanda di scioglimento dell’unione civile proposta
possa essere accolta.
Le spese di lite devono dichiararsi irripetibili.
P.Q.M.
il Tribunale di Novara, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando sulla domanda di
scioglimento di unione civile proposta da S.M.B. nei confronti di R. D. L.
1. pronuncia lo scioglimento dell’unione civile costituita in data a Torino tra i signori S.M.B. e R.D.L.
atto iscritto nel Registro provvisorio delle Unioni civili Comune di Torino al .. anno
2. ordina all’ufficiale di stato civile del Comune di Torino di provvedere alle incombenze di legge.
Spese di lite irripetibili.
Così deciso in Novara, nella Camera di Consiglio del 5.07.2018.
Depositata in cancelleria il 05/07/2018.

Per l’esclusione dalla comunione valgono solo le cause indicate dall’art. 179 c.c.

Corte di Cassazione 14 novembre 2018 n. 29342
V.G., in data 2.1.1982, contraeva matrimonio con C.M.T., adottando il regime patrimoniale della
comunione dei beni. La casa coniugale era rappresentata da un’unità abitativa sita in (omissis), già di
proprietà per la quota di metà della moglie e per la restante metà del fratello della medesima, C.G. . In
costanza di matrimonio, con atto notarile in data 5.7.1996, C.M.T., acquistava dal fratello G. la restante
quota, dichiarando in atto che l’acquisto avveniva ai sensi della lett. f) dell’art. 179 c.c.; a V.G. era
richiesto di partecipare all’atto, essendogli rappresentato dalla moglie che la sua partecipazione era
necessaria in quanto coniuge e, in tale sede, egli confermava la dichiarazione resa dalla moglie. Il
corrispettivo dell’acquisto, pur dichiarato in atto in Lire 115.000.000, era in realtà di Lire 400.000.000,
somma versata all’alienante.
Con atto di citazione, notificato in data 20.9.2011, dinanzi al Tribunale di Lecco, V.G. conveniva in giudizio
la moglie C.M.T., assumendo che la quota di metà della casa coniugale – formalmente intestata alla
moglie in forza dell’atto di acquisto del 5.7.1996 – fosse in realtà in comunione, in ragione della disciplina
legale degli acquisti compiuti dai coniugi in costanza di matrimonio, in base al regime patrimoniale di
comunione legale. L’attore chiedeva il relativo accertamento, oltre alla divisione e, in via subordinata, per
l’ipotesi in cui la proprietà della casa fosse ritenuta in via esclusiva della moglie, chiedeva che la stessa
fosse dichiarata tenuta a rimborsare alla comunione il denaro prelevato dalla stessa per l’acquisto, con
condanna all’esito della divisione al versamento in favore del marito della metà della somma.
C.M.T. si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree, evidenziando che il marito,
intervenuto personalmente all’atto pubblico, aveva prestato il suo assenso, ai sensi dell’art. 179, comma
2, lett. f) c.c., riconoscendo che l’immobile era acquistato dalla moglie quale bene personale.
Esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione ed espletato l’interrogatorio formale della C., con
sentenza n. 781/2013, depositata il 29.8.2013, il Tribunale di Lecco rigettava la domanda di caduta in
comunione sulla quota di metà della casa, condannando il V. alle spese di lite.
Avverso detta sentenza proponeva appello V.G. sotto un duplice profilo: che la dichiarazione resa dallo
stesso non potesse avere natura confessoria per non avere la moglie affermato un fatto, ma per essersi
limitata al richiamo di una norma di legge che, oltretutto, prevede due fattispecie alternative; e che, ove
si riconoscesse natura confessoria alla propria dichiarazione, quella della moglie era di per sé insufficiente
per carenza della specifica indicazione dei beni utilizzati per l’acquisto.
Con sentenza n. 3378/2014, depositata il 24.9.2014, la Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello,
condannando l’appellante alle spese del grado.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione V.G. sulla base di due motivi; resiste C.M.T. con
controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Ragioni della decisione
1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce la “Falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c.: falsa applicazione dell’art. 179, comma 1, lett. f), e comma 2, c.c. (sotto il profilo
della carenza di natura confessoria della dichiarazione dell’altro coniuge partecipante all’atto)”, là dove
erroneamente la Corte di merito, con la sentenza impugnata: ha ritenuto l’immobile non incluso nella
comunione in quanto il marito aveva partecipato all’atto di acquisto da parte della moglie; ha affermato
che quanto trasferito era escluso dalla comunione ai sensi dell’art. 179 lett. f) c.c., poiché il marito aveva
confermato nell’atto quanto dichiarato dalla moglie; ha evidenziato la natura confessoria della
dichiarazione resa dal marito (richiamando Cass. sez. un. n. 22755 del 2009), superabile dalla revoca
della confessione stragiudiziale, ammissibile, ex art. 2732 c.c., solo per errore di fatto o violenza; ha
rilevato che, in ogni caso, non sarebbe necessaria l’indicazione specifica dei beni utilizzati per l’acquisto
preteso solitario e la prova che gli stessi siano personali, essendo sufficiente che il coniuge acquirente
dichiari che lo siano e che l’altro coniuge, che interviene all’atto, possa non esprimersi.
1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la “Falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c.: falsa applicazione dell’art. 179, comma 1, lett. f), c.c. (sotto il profilo della
necessità di indicazione specifica dei beni personali ai quali si è fatto ricorso per l’acquisto preteso
solitario), poiché la Corte di merito non ha preso in esame la seconda questione, secondo cui la
dichiarazione della moglie sarebbe carente dell’indicazione dei beni personali ai quali sarebbe ricorsa per
l’acquisto, limitandosi ad affermare che il richiamo contenuto nel rogito alla specifica norma dell’art. 179
lett. f) c.c. configura dichiarazione resa dal coniuge acquirente (confermata dall’altro coniuge) idonea a
determinare gli effetti indicati dall’art. 179, co. 2 c.c..
2. – Il primo motivo è fondato.
2.1. – Preliminarmente va evidenziato che la Corte di merito ha riconosciuto l’errore in cui era incorso il
Giudice di primo grado nella ricostruzione dei fatti, nella parte in cui affermava che nell’atto notarile fosse
contenuta la dichiarazione attribuita al V., che “quanto trasferito era bene personale”, mentre tale
dichiarazione era stata resa dalla parte alienante.
2.2. – Ciò chiarito, dal tenore della affermazione contenuta nell’atto notarile (e testualmente riportata) –
secondo la quale “la signora C.M.T. dichiara di essere coniugata in regime di comunione legale dei beni,
ma che il presente acquisto è escluso dalla comunione legale ai sensi dell’art. 179 lett. f) codice civile,
come ad ogni effetto conferma il coniuge signor V.G. ” – i giudici di merito hanno ritenuto che tale
conferma avesse natura confessoria (lasciando spazio alla sua revoca solo per errore o violenza, non
dedotti).
Va, viceversa, rilevato che la dichiarazione resa dalla C. nel contesto dell’atto notarile non può dirsi che
avesse ad oggetto un fatto storico, richiamandosi con essa le mere conseguenze giuridiche della
applicazione di una norma di legge; per cui anche la relativa conferma da parte del V. non era riferita ad
un fatto (non assumendo dunque valenza confessoria).
2.3. – La natura giuridica e i limiti di efficacia della dichiarazione del coniuge non acquirente, partecipe
all’atto di compravendita, sono stati chiariti da Cass., sez. un. n. 22755 del 2009, secondo cui essa si
atteggia diversamente a seconda che la personalità del bene dipenda dal pagamento del prezzo con i
proventi del trasferimento di beni personali, o alternativamente dalla destinazione del bene all’esercizio
della professione dell’acquirente. Solo nel primo caso la dichiarazione del coniuge non acquirente assume
natura ricognitiva della natura personale e portata confessoria dei presupposti di fatto già esistenti.
Laddove nel secondo – che è quello pertinente anche nella presente fattispecie – esprime la mera
condivisione dell’intento altrui. Ne consegue che la successiva azione di accertamento della comunione
legale sul bene acquistato, mentre è condizionata, nella prima ipotesi, dal regime di prova legale della
confessione stragiudiziale, superabile nei limiti di cui all’art. 2732 c.c., per errore di fatto o violenza, nella
seconda implica solo la prova dell’effettiva destinazione del bene, indipendentemente da ogni indagine
sulla sincerità dell’intento manifestato (Cass. n. 1523 del 2012).
In linea con siffatto orientamento, in analoga fattispecie, questa Corte ha affermato che, nel caso di
acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale,
la partecipazione all’atto dell’altro coniuge non acquirente, prevista dall’art. 179 cod. civ., comma 2, si
pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione (in tal
steso anche Cass. n. 18114 del 2011): occorrendo, a tal fine (come allora, anche nella odierna
fattispecie), non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene –
richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura – ma anche l’effettiva
sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179 c.c.,
comma 1, lett. c), d) ed f). Con la conseguenza che l’eventuale inesistenza di tali presupposti può essere
fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale
accertamento dalla circostanza che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi
(Cass. sez. un. n. 22755 del 2009). Né si può assegnare alla dichiarazione del coniuge comparente,
verbalizzata nell’atto pubblico di compravendita, valore di confessione di un fatto storico, come tale,
revocabile successivamente solo per errore di fatto o violenza (art. 2732 cod. civ.). (Cass. n. 18114 del
2010).
2.4. – Tali principi sono stati confermati, anche di recente, precisandosi che, in caso di comunione legale
tra i coniugi, il bene acquistato dai medesimi, insieme o separatamente, durante il matrimonio,
costituisce, in via automatica, ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a), c.c., oggetto della comunione tra
loro e diventa, quindi, in via diretta, bene comune ai due coniugi, anche se destinato a bisogni estranei a
quelli della famiglia ed il corrispettivo sia pagato, in via esclusiva o prevalente, con i proventi dell’attività
separata di uno dei coniugi, a meno che non si tratta del denaro ricavato dall’alienazione di beni personali
(e sempre che, in quest’ultimo caso, l’acquirente dichiari espressamente la provenienza del denaro: art.
179, lett. f, c.c.) ovvero si tratta di un bene di uso strettamente personale di ciascun coniuge (art. 179,
lett. c, c.c.) ovvero che serve all’esercizio della professione del coniuge (art. 179, lett. d, c.c.), ed, in caso
di acquisto di beni immobili (o di beni mobili registrati), tale esclusione risulti dall’atto di acquisto ed il
coniuge non acquirente partecipi alla relativa stipulazione (art. 179, comma 2, c.c., con espresso
riferimento ai casi previsti dall’art. 179, lett. c, d, f cit.). La dichiarazione resa nell’atto dal coniuge non
acquirente, ai sensi dell’art. 179, comma 2, c.c., in ordine alla natura personale del bene, si pone,
peraltro, come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione,
occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del
bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche
l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art.
179, comma 1, lett. c), d) ed f), c.c. (Cass. n. 11668 del 2018).
Pertanto – contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, secondo la quale, per l’esclusione
della caduta in comunione del bene acquistato da un coniuge in regime di comunione dei beni “deve
ritenersi sufficiente la sua partecipazione alla conclusione del contratto, accompagnata dalla mancata
opposizione alla dichiarazione di esclusione resa dall’altro coniuge ed inserita nell’atto” (sentenza
impugnata, pag. 6) – la dichiarazione concorde del ricorrente nell’atto notarile non può considerarsi
idonea a determinare in sé l’esclusione della comunione dell’acquisto fatto dalla controricorrente,
caratterizzata come è dal solo richiamo alle conseguenze giuridiche dell’atto.
3. – Il primo motivo di ricorso va accolto, con assorbimento del secondo motivo; la sentenza impugnata
va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Milano, altra sezione, anche in ordine alla liquidazione delle
spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso; assorbito il secondo motivo. Cassa la sentenza impugnata, in
relazione alle censure accolte, e rinvia la stessa alla Corte d’appello di Milano, altra sezione, che
provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.