La sentenza di divorzio che modifica l’importo del mantenimento definito in sede di separazione retroagisce alla data della domanda

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
Con la sentenza di separazione dei coniugi sig.ri S.M. e P.P. era stato determinato un contributo a carico del primo di Euro 300,00 mensili per il mantenimento di ciascuna delle due figlie della coppia, conviventi con la madre.
Nel successivo giudizio di divorzio il Tribunale di Rimini, in sede di definizione delle questioni economiche dopo la sentenza di scioglimento del matrimonio, determinò in Euro 550,00 mensili, oltre il 50 % delle spese straordinarie, il contributo per il mantenimento della figlia C. dovuto dal padre alla madre, dichiarando cessato l’obbligo del contributo relativo alla figlia B., divenuta economicamente autosufficiente (peraltro già a decorrere dal luglio 2013 il giudice istruttore aveva disposto il versamento diretto alla stessa del contributo).
Adita con appello principale dalla sig.ra P., che insisteva per l’aumento del contributo per il mantenimento della figlia C. ad Euro 700,00 mensili, oltre al 50 % delle spese straordinarie, con decorrenza dalla domanda (proposta con la memoria di costituzione nel giudizio di divorzio depositata il 16 maggio 2007), e con appello incidentale del sig. S., che chiedeva la revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla ex moglie, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato il primo gravame ed ha accolto il secondo (la stessa sig.ra P. aveva dichiarato di non essere più interessata all’assegnazione della ex casa coniugale).
La Corte ha confermato la statuizione del Tribunale relativa alla decorrenza dell’aumento del contributo per la giovane C. dalla data della sentenza di primo grado (2 luglio 2014), anzichè dalla data della domanda, per le medesime ragioni indicate dal Tribunale, da essa individuate nel richiamo di Cass. 18538/2013, la quale fa derivare dal carattere determinativo della sentenza sul contributo l’impossibilità della stessa di “operare per il passato, per il quale continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agli artt. 708 e 709 c.p.c.”.
La sentenza di appello ha inoltre negato il diritto dell’appellante principale all’aumento del contributo rispetto all’ultima determinazione in Euro 400,00 mensili per ciascuna figlia, oltre alla metà delle spese straordinarie, operata in costanza di separazione dalla medesima Corte d’appello di Bologna con provvedimento del 21 giugno 2007, emesso in sede di reclamo ai sensi dell’art. 710 c.p.c., sul diniego di modifica delle condizioni della separazione stessa da parte del Tribunale; e ciò perchè non era stato allegato alcun rilevante mutamento delle circostanze di fatto in base alle quali era stato emesso tale ultimo provvedimento determinativo, nè comunque era stato provato alcunchè “in ordine alla capacità reddituale dell’ex coniuge, asseritamente di molto maggiore rispetto a quella risultante dalle sue dichiarazioni dei redditi”.
La sig.ra P. ha proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, illustrati anche con memoria. Il sig. S. si è difeso con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, la ricorrente censura la statuizione relativa alla decorrenza dell’aumento del contributo per il mantenimento della figlia C., sostenendo che tale decorrenza non coincide con la data di emissione della sentenza, ma, in ossequio al principio che la durata del processo non può andare a pregiudizio della parte che ha ragione, retroagisce alla data della domanda o comunque alla data del venire in essere delle ragioni giustificative dell’aumento.
1.1. Il motivo è fondato.
Il richiamo della Corte d’appello a Cass. 18538/2013 ed al principio, in essa enunciato, secondo cui la nuova determinazione del contributo con la sentenza non può operare per il passato, per il quale invece continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agli artt. 708 e 709 cod. proc. civ., non è appropriato. Tale precedente, infatti, riguarda il rapporto tra le statuizioni della sentenza e quelle dei provvedimenti provvisori emessi dal giudice nel corso del medesimo processo. Nel caso che ci occupa, invece, la determinazione del contributo per il mantenimento della giovane C. non è stata oggetto, prima della sentenza, di alcun provvedimento provvisorio ai sensi dei richiamati artt. 708 e 709, bensì di provvedimenti determinativi definitivi adottati all’esito di giudizi diversi dal presente giudizio di divorzio, ossia il giudizio di separazione e quello di modifica delle condizioni della separazione ai sensi dell’art. 710 c.p.c.. Tali provvedimenti sono pacificamente modificabili nel successivo, distinto processo di divorzio, nel quale trova piena applicazione il principio della decorrenza delle statuizioni della sentenza dalla data della domanda, in ossequio all’esigenza che la durata del giudizio non pregiudichi la parte che ha ragione, conformemente alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., fra le molte, Cass. 3348/2015, 19382/2014, 10119/2006, 21087/2004, tutte in tema di contributo al mantenimento dei figli).
Peraltro, sempre secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, soltanto nel caso in cui, con la sentenza, venga escluso l’assegno in favore del coniuge, già riconosciuto in via provvisoria ai sensi dell’art. 708 c.p.c., o sia ridotto l’ammontare dello stesso, è prevista la salvezza degli effetti di tale determinazione provvisoria, in considerazione della natura cautelare di questa funzionale al diritto al mantenimento del coniuge beneficiario (Cass. 2411/1980, 5384/1990, 9728/1991, 8977/1993, 3415/1994).
Va pertanto affermato che gli effetti della sentenza, emessa in sede di definizione delle questioni economiche relative al divorzio, modificativa dell’ammontare – già determinato con precedente provvedimento definitivo emesso in sede di separazione o di modifica delle condizioni economiche della separazione – del contributo di uno degli ex coniugi per il mantenimento dei figli collocati presso l’altro ex coniuge, retroagiscono alla data della domanda o comunque alla data, se successiva, del verificarsi delle ragioni giustificative della modifica.
Va inoltre rilevato che nella specie la domanda di determinazione del contributo per il mantenimento dei figli è stata proposta, nel giudizio di divorzio, con la memoria di costituzione della sig.ra P. davanti al Tribunale il 16 maggio 2007, data anteriore a quella dell’ultima determinazione del medesimo contributo in sede di separazione, effettuata con il provvedimento del 21 giugno 2007 emesso in sede di reclamo nel procedimento ai sensi dell’art. 710 c.p.c., di cui si è detto in narrativa. Tuttavia la decorrenza della nuova determinazione del contributo in sede di divorzio, tendenzialmente coincidente con la data della domanda per quanto si è appena detto, non può essere anteriore alla determinazione del medesimo contributo con il richiamato provvedimento dl 21 giugno 2007, che ha carattere definitivo e può essere modificato soltanto per l’avvenire, al verificarsi dei necessari presupposti.
2. Con il secondo motivo di ricorso, denunciando violazione di norme di diritto, si contesta che, ai fini della rideterminazione del contributo per il mantenimento della prole, in sede di divorzio, sia necessario il mutamento delle condizioni fattuali precedenti, essendo tale contributo modificabile in ogni momento.
2.1. Il motivo è inammissibile.
La statuizione censurata, infatti, è stata assunta dalla Corte d’appello al fine di respingere la domanda di ulteriore aumento del contributo per il mantenimento della giovane C.. Sennonchè il rigetto di tale domanda è retto, nella sentenza impugnata, da due autonome rationes decidendi: quella appena indicata e quella secondo cui “comunque” l’appellante principale non aveva fornito la prova della “capacità reddituale dell’ex coniuge, asseritamente di molto maggiore rispetto a quella risultante dalle sue dichiarazioni dei redditi”.
Questa seconda ratio non viene censurata dalla ricorrente, con la conseguenza che anche l’eventuale accoglimento della censura rivolta alla prima, sollevata con il motivo in esame, non sarebbe sufficiente per cassare la decisione di rigetto della domanda, la quale continuerebbe a reggersi sulla ratio non censurata; sicchè il motivo in esame è privo di decisività.
3. Inammissibili, per la stessa ragione, sono anche il terzo e il quinto motivo di ricorso, con i quali la ricorrente lamenta che non si sia tenuto conto, rispettivamente, del decorso del tempo e della revoca dell’assegnazione in suo favore della casa coniugale, quali nuove circostanze sopravvenute che avrebbero giustificato la modifica della misura del contributo per il mantenimento della figlia C..
4. Il quarto motivo di ricorso, con il quale si invoca la decorrenza della nuova misura del contributo al mantenimento della figlia quantomeno dall’anno 2008 (epoca alla quale risale l’accertamento dei redditi dell’obbligato da parte del Tribunale), è assorbito dall’accoglimento del primo motivo.
5. In conclusione, in accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale si atterrà ai principi di diritto enunciati negli ultimi due capoversi del paragrafo 1.1, che precede, e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibili il secondo, il terzo e il quinto e assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Se uno dei genitori può mantenere da solo i figli, nulla può pretendere dalla famiglia del genitore inadempiente

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Rilevato che:
la sig.ra B.E. convenne in giudizio i sig.ri R.M. e T.T., nonni paterni dei suoi figli minori Ro.Ma. e N., per la corresponsione degli alimenti in favore di questi ultimi, ai sensi dell’art. 433 c.c., nella misura di Euro 700,00 mensili a far data da luglio 2008;
i convenuti resistettero e il Tribunale di Lamezia Terme li condannò al pagamento degli alimenti nella misura di 300,00 mensili a decorrere dal luglio 2009, data della domanda, nonchè alle spese di lite;
la Corte d’appello di Catanzaro ha accolto il gravame dei soccombenti rigettando la domanda e compensando integralmente le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito;
premessa la natura sussidiaria dell’obbligazione alimentare degli ascendenti, rispetto a quella dei genitori, la Corte ha ritenuto che non era stata offerta dall’attrice la prova di nessuno dei presupposti oggettivi dell’obbligazione alimentare: nè, cioè, dell’incapacità di entrambi i genitori a provvedere alle esigenze primarie dei minori, essendo l’appellata titolare di un reddito da lavoro di Euro 700,00 mensili, associato alla proprietà della casa di abitazione, e non avendo ella, del resto, dedotto o dimostrato la propria incapacità, per condizione professionale o sociale, di incrementare tale reddito; nè della capacità degli appellanti di far fronte all’obbligazione alimentare, risultando dagli atti che essi vivevano della pensione del sig. R. di Euro 1.500,00 mensili;
la sig.ra B. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, cui i sig.ri R.- T. hanno resistito con controricorso contenente anche ricorso incidentale per due motivi;
Ritenuto che:
va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per inesistenza della notificazione in quanto effettuata dall’ufficiale giudiziario su richiesta di un avvocato privo di mandato difensivo;
dalla relata risulta infatti che la notificazione del ricorso è stata effettuata “su richiesta dell’avv. Luisa Cimino nell’interesse di B.E. nella qualità di cui in atti…”, ossia su richiesta di soggetto che, sebbene in effetti non munito di procura, è stato nondimeno delegato dalla parte, espressamente menzionata nella relata; sicchè deve richiamarsi il principio secondo cui l’attività di impulso del procedimento notificatorio – consistente essenzialmente nella consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario – può, dal soggetto legittimato, e cioè dalla parte o dal suo procuratore in giudizio, essere delegata ad altra persona, anche verbalmente, e, in tal caso, l’omessa menzione, nella relazione di notifica, della persona che materialmente ha eseguito la attività suddetta, ovvero della sua qualità di incaricato del legittimato, è irrilevante ai fini della validità della notificazione se, alla stregua dell’atto da notificare, risulta egualmente certa la parte ad istanza della quale essa deve ritenersi effettuata; tale principio opera in genere per gli atti di parte destinati alla notificazione, la quale deve essere imputata alla parte medesima, con la conseguenza che le omissioni suddette non danno luogo ad inesistenza o nullità della notificazione stessa (Cass. 4520/2016);
il primo motivo del ricorso principale, con il quale si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 433, 147 e 148 c.c., è inammissibile perchè la sentenza impugnata ha fatto applicazione del principio, enunciato da questa Corte, secondo cui l’obbligo di mantenimento dei figli minori ex art. 148 cod. civ. spetta primariamente e integralmente ai loro genitori sicchè, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di cosmi; pertanto l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinchè possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli – che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli; così come il diritto agli alimenti ex art. 433 c.c., legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità di reperire attività lavorativa, sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo (Cass. 20509/2010);
con il secondo motivo del ricorso principale si deduce “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia”, nonchè “travisamento degli elementi di prova” circa il grave stato di bisogno dei minori e la capacità economica dei loro nonni;
il motivo è inammissibile, applicandosi nella specie, ratione temporis, l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, che circoscrive il vizio di motivazione alla sola denuncia di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”: denuncia non contenuta, nè formalmente nè sostanzialmente, nel ricorso, neppure nella parte in cui esso fa riferimento allo stato di disoccupazione della ricorrente, introdotto nel giudizio di merito, inammissibilmente, soltanto con la comparsa conclusionale in grado di appello;
con i due motivi del ricorso incidentale si contesta la legittimità e comunque la congruità della compensazione delle spese dei due gradi del giudizio di merito, giustificata dalla Corte d’appello con la sola considerazione della “natura della controversia”;
tale complessiva censura è infondata poichè il riferimento, ancorchè sintetico, alla natura della controversia rende evidente che la Corte di merito ha inteso valorizzare il carattere alimentare della lite quale giustificazione della disposta compensazione, con ciò ottemperando all’obbligo di esplicita indicazione dei giusti motivi di compensazione delle spese secondo l’art. 92, comma secondo, cod. proc. civ. nel testo – qui applicabile ratione temporis – come sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. a), della legge 28 dicembre 2005, n. 263 con efficacia dal 1 marzo 2006 fino all’ulteriore modifica disposta dall’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (in vigore dal 4 luglio 2009 e non applicabile nella specie, essendo stata la citazione notificata il 24 giugno 2009, come risulta dallo stesso controricorso);
in conclusione, il ricorso principale va dichiarato inammissibile e il ricorso incidentale va rigettato;
la reciproca soccombenza delle parti giustifica l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità;
poichè dagli atti il processo risulta esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Oscuramento dei dati personali.

FAMIGLIA

Di Gianfranco Dosi

I Introduzione: la famiglia nucleare “parentale”
Nell’ambito della ricerca antropologica e sociologica, è unanime la convinzione che è impossibile ricondurre la famiglia a un sistema di relazioni basate su funzioni naturali riferibili a un modello immutato per tutte le società e per tutte le epoche [è inevitabile richiamare in questa sede quanto meno gli studi di M. Barbagli (a cura di), Famiglia e mutamento sociale, Il Mulino, Bologna, 1977; F. Heritier, Famiglia, in Enciclopedia, Vol. VI, Einaudi, Torino, 1979; W. J. Goode, Famiglia e trasformazioni sociali, Zanichelli, Bologna, 1982; M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, il Mulino, Bologna, 1984; C. Saraceno, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 1988]. La variabilità dei modelli peraltro ha sempre indotto anche una molteplicità di approcci [ben presentati in P. Donati, P. Di Nicola, Lineamenti di sociologia della famiglia, La nuova Italia scientifica, Roma, 1995].

Da tutti questi studi emerge molto chiaramente – come è molto noto – che il modello strutturale della famiglia moderna impostosi nel dopoguerra è quello della famiglia nucleare caratterizzata dalla convivenza tra parenti di primo grado (genitori e figli) in contrapposizione storica con il modello della famiglia patriarcale estesa caratterizzato dalla convivenza di membri della famiglia appartenenti a più generazioni (genitori, figli, nonni, zii). La famiglia estesa costituiva la norma in Italia, soprattutto nelle aree rurali, almeno fino ai primi decenni del Novecento, e consentiva ai suoi componenti di condividere la quotidianità, di collaborare nella cura reciproca e nell’organiz¬zazione domestica.
Tuttavia, anche la famiglia nucleare (fondata sul matrimonio e su una discendenza in genere nu¬merosa) si è trasformata a partire in Itala dagli anni Sessanta del secolo scorso. La rivoluzione demografica e le profonde trasformazioni socioeconomiche e culturali degli ultimi settant’anni, sono alla radice del suo declino e della diffusione ormai di una molteplicità di tipi di famiglia. La crisi dell’istituzione matrimoniale è ampiamente documentata dal calo e dal ritardo dei matrimoni, dall’aumento delle convivenze e delle unioni libere [rimane ancora fondamentale uno dei primi approfondimenti sociologici in Italia sulle convivenze di fatto di V. Pocar e P. Ronfani, Coniugi senza matrimonio, Cortina, Roma, 1992] anche tra persone dello stesso sesso, dall’aumento dei divorzi, dall’aumento delle famiglie monoparentali, di quelle ricostituite e di quelle unipersona¬li, dal calo complessivo delle nascite e dall’aumento dei figli nati fuori dal matrimonio. Fenomeni che hanno modificato e continuano a modificare la natura stessa della famiglia e del matrimonio.
In un lavoro divulgativo che resta ancora oggi un punto di riferimento per chi intende approfondire la varietà dei modelli familiari nella nostra realtà [A. L. Zanatta, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997] si ricorda che nella società del passato in cui, in tutte le classi sociali, il matrimo¬nio era un’alleanza tra famiglie mentre i sentimenti degli individui erano del tutto irrilevanti, la sta¬bilità dei matrimoni era garantita dagli interessi economici e di potere che stavano alla base di tale alleanza. Quando il matrimonio d’amore ha preso il posto di quello combinato, le aspettative di fe¬licità della coppia sono aumentate. L’unione coniugale perde la sua ragion d’essere quando l’amore si dissolve. L’autonomia individuale, anche nel campo dei sentimenti e degli affetti si è affermata in una duplice direzione: in un primo tempo la coppia coniugale si è affrancata dal controllo per¬vasivo e diffuso dei parenti, rafforzando la relazione affettiva all’interno della coppia e tra genitori e figli. In un secondo tempo si è sviluppata l’indipendenza individuale in seno alla stessa famiglia coniugale con la conseguenza che le esigenze di autorealizzazione del singolo possono sembrare o diventare prioritarie rispetto a quelle dell’unità familiare. Il principio di dissolubilità del matrimonio (legge 1° dicembre 1970, n. 898) ha reso possibile la fuoriuscita legale dal matrimonio.
I cambiamenti della condizione della donna nella società e nella famiglia hanno naturalmente contribuito in modo importante alle trasformazioni della famiglia contemporanea. La maggiore autonomia sociale della donna – non solo, s’intende, l’autonomia economica, messa in crisi oggi dalla condizione di riduzione delle opportunità lavorative anche tradizionali per tutti – si è tradotta in maggior potere contrattuale all’interno della famiglia, in una maggiore capacità di negoziare rapporti familiari più paritari e anche di interrompere relazioni giudicate insostenibili o inadeguate rispetto alle aspettative. In questo senso possono essere certamente letti i dati statistici da cui risulta che i più alti tassi di divorzio si hanno dove la quota di donne lavoratrici è più elevata. In tali aree la maggior parte delle domande di divorzio proviene proprio dalle donne. Naturalmente può essere significativo, a tale proposito, osservare che una quota consistente di domande di divorzio presentate dagli uomini, può fondatamente ritenersi motivata dalla insoddisfazione per la perdita di privilegi che la divisione tradizionale dei ruoli ha sempre loro assicurato. Resta, tuttavia, il fatto ancora largamente presente di una divisione del lavoro all’interno della famiglia fortemente asim¬metrica e scompensata a svantaggio della donna.
Cambiano quindi le relazioni all’interno della coppia e si moltiplicano le strutture familiari (famiglie di fatto, famiglie con un solo genitore, famiglie ricostituite, famiglie unipersonali) anche se la fa¬miglia resta un punto di riferimento importante per la maggior parte delle persone e conserva un grande significato affettivo ed esistenziale.
In questa sede ci si interroga da giuristi sul significato della famiglia. Il diritto di famiglia non ha, però, ambizioni sociologiche o antropologiche, ma semplicemente di ricostruzione e di promozione giuridica. Ciò significa che si cercherà di ricostruire il concetto attuale di famiglia non tanto, però, attraverso l’esame strutturale dei differenti tipi di aggregazione interpersonale che la connotano nell’epoca contemporanea (è sufficiente per questo rimandare agli studi di demografia o di socio¬logia sull’argomento dove si parla di famiglie anziché di famiglia, nel senso che non è concepibile un concetto unico di famiglia da indicare come modello e che nella società coesistono oggettiva¬mente differenti forme di famiglia), quanto adottando una prospettiva funzionale, interrogandosi, cioè, soprattutto sulle garanzie che il diritto è in grado di assicurare alla persona nell’ambito delle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.) nella prospettiva per cui “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”, come molto semplicemente (e per nulla ideologicamente) ricorda l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (legge 4 agosto 1955, n. 848).
Interrogarsi sulla vita familiare e sulle situazioni giuridiche in concreto fruibili nella famiglia è l’obiettivo quindi che il giurista può pragmaticamente porsi, pur senza tralasciare di indicare al legislatore le prospettive di un adattamento continuo delle norme giuridiche alle trasformazioni sociali. In questo senso le grandi riforme di questi anni (la riforma sull’affidamento condiviso del 2006, la riforma della filiazione del 2012 e del 2013 e la riforma sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto del 2016) hanno costituito il segnale più eloquente di come questo lavoro di adattamento sia concretamente possibile anche nell’ambito di aspetti del vivere sociale fortemente permeati da principi e convinzioni etiche.
Proprio il contenuto di queste riforme consente oggi di intravedere chiaramente gli elementi co¬stitutivi di un singolare percorso di trasformazione della famiglia nel nostro Paese – dopo la dis¬soluzione della famiglia patriarcale – dal modello tradizionale della famiglia matrimoniale nucleare (tipica del codice del 1942) al modello nucleare costituzionale “paritario” (della riforma del 1975) e poi al modello attuale che potremmo chiamare nucleare “parentale”. L’avvento di quest’ultimo mo¬dello familiare – come meglio si vedrà – non è avvenuta escludendo le relazioni familiari allargate, ma, al contrario, includendole all’interno di un sistema ampio di relazioni parentali (e di affinità nel modello matrimoniale) che connotano la famiglia attuale come rete ampia di protezione e di solidarietà. Per questo si può parlare di famiglia sì nucleare ma “parentale”. Con la precisazione im¬portante che, da un punto di vista funzionale, non è più il concetto di residenzialità a connotare la famiglia ma la rete parentale all’interno della quale le relazioni familiari si vivono e si trasformano.
Sono esempi di questo concetto esteso di famiglia i confini ampi della solidarietà alimentare (art. 433 c.c.), l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adem¬piere i loro doveri nei confronti dei figli (art. 316-bis), il diritto dei figli di conservare rapporti signi¬ficativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (art. 337-ter, primo comma, c.c.) e parallelamente anche il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti con i nipoti (art. 317- bis c.c.), l’esclusione dello stato di adottabilità se il minore è assistito adeguatamente dai parenti entro il quarto grado (articoli 8 e 10 della legge 4 maggio 1983, n. 184), l’ampiezza del concetto di familiari nell’impresa familiare (art. 230-bis c.c.), l’inclusione globale nella famiglia non matri¬moniale dell’intera rete parentale di entrambi i genitori (art. 258, primo comma, c.c.), l’inclusione a tutti gli effetti dei figli adottivi nella famiglia (art. 74 c.c.), l’ampiezza della nozione penalistica di prossimi congiunti (art. 307, ultimo comma, c.p.) ed altri elementi che saranno esaminati.
Sulla base di questi elementi non è più utilizzabile il concetto di famiglia nucleare tradizionale. Siamo in presenza, pur all’interno di un modello generale di famiglia di tipo nucleare, di una esten¬sione della significatività della rete familiare che connota la nuclearità come inclusiva di relazioni parentali, in buona parte dovuta e trainata dalla centralità che nella stessa famiglia nucleare, un tempo soprattutto coniugale, ha acquisito la condizione giuridica dei figli.
Non è più, come nella famiglia nucleare tradizionale, la residenza comune, quindi, che dà un si¬gnificato alla famiglia (considerato che l’urbanizzazione non rende possibili legami residenziali se non nell’ambito della famiglia nucleare genitori-figli e che anche l’assenza di residenza comune non impedisce il formarsi di una famiglia) ma tutti i legami parentali, anche quelli più ampi, che sono diventati nel tempo sempre più significativi, importanti per la socializzazione, talvolta vitali (come nell’assistenza dei familiari anziani) e in ogni caso giuridicamente cogenti e fonti di diritti e di doveri.
II Qualche dato sulla struttura della famiglia italiana
Oltre sessanta milioni di persone formano, in Italia, quasi venticinque milioni di famiglie. La media di persone per famiglia è quindi un po’ più di due. Addirittura una famiglia su tre è composta da una persona sola (singoli, vedovi, divorziati). A fronte di ciò vi sono undici milioni di nonni dei quali oltre sette milioni ultra sessantaquattrenni.
Non vi possono essere dubbi sulla natura nucleare della struttura familiare italiana che tuttavia, contrariamente a quanto spesso si ritiene, non è un sistema isolato dalla più ampia rete parentale. Segnali demografici ma anche giuridici – come si dirà meglio – ci dicono che la rete parentale ha acquisito una presenza che fino ai primi anni del Novecento si esprimeva per lo più nella comune residenza (di solito rurale ma anche urbana), mentre negli ultimi decenni si è espressa, e continua ad esprimersi sempre più, attraverso una significatività non più residenziale ma di diverso tipo alla quale le trasformazioni sociali, ma anche le norme giuridiche e le riforme, hanno attribuito maggio¬re rilevanza rispetto al passato. Alla famiglia allargata dei primi anni del Novecento si è sostituita nel dopoguerra la famiglia nucleare – disciplinata dal codice civile – che ha assunto oggi (dopo la riforma del 1975 e dopo le riforme di questi ultimi anni sulla filiazione, sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto), una connotazione di tipo parentale sconosciuta in passato.
Al 31 dicembre 2015, la popolazione residente in Italia era di 60.665.551 persone, oltre 130 mila in meno rispetto all’inizio dell’anno. La differenza fra le nascite e le morti si conferma negativa (-161.791).
Nel corso del 2015 è proseguito anche il calo delle nascite: i nati vivi, che nel 2014 erano 502.596, nel 2015 passano a 485.780. La fecondità delle donne passa da 1,39 figli in media nel 2013 a 1,37 nel 2014. Nel 2015 il numero dei decessi cresce rispetto all’anno precedente e raggiunge le 647.571 unità (49.207 in più rispetto all’anno precedente). Il quoziente di mortalità, a sua volta, passa dal 9,8 al 10,7 per mille. La speranza di vita alla nascita (vita media), dopo anni di crescita costante, nel 2015 subisce una battuta d’arresto, passando da 80,3 anni a 80,1 anni per i maschi e da 85,0 a 84,7 per le femmine. L’insieme di queste dinamiche rendono l’Italia uno dei paesi dove il rapporto tra la popolazione di 65 anni e oltre e quella con meno di 15 anni è più sfavorevole, pari al 161,4 per cento, ancora in crescita rispetto all’anno precedente (157,7 per cento).
Secondo i dati dell’ultimo censimento (2011) la quasi totalità della popolazione residente in Italia vive in famiglia (59.132.045 individui), il resto (301.699 individui) in convivenze comunitarie (isti¬tuti assistenziali, ospizi, istituti di cura, eccetera).
In analogia con quanto avvenuto nei precedenti decenni, negli ultimi dieci anni il numero di famiglie è aumentato, passando da 21.810.676 a 24.611.766 unità; dal 1971 ad oggi l’incremento è stato del 54,0%. Le famiglie tendono comunque ad essere sempre più piccole, mostrando una progressiva ri¬duzione del numero medio dei componenti; nel 1971 una famiglia era mediamente composta da 3,3 persone, nel 2011 da 2,4. Queste tendenze sono generalizzate e riguardano tutte le aree del Paese.
Le famiglie unipersonali sono quasi una su tre; rispetto al censimento del 2001 risultano in notevo¬le aumento a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e dei mutamenti demografici e sociali. Dal 2001 al 2011 sono passate da 5.427.621 (24,9% delle famiglie) a 7.667.305 (31,2% del totale). L’incremento si osserva su tutto il territorio italiano.
Opposta tendenza si riscontra per la percentuale di famiglie numerose, ovvero quelle con 5 o più componenti, che registrano un moderato calo tra i due ultimi censimenti (1.635.232, il 7,5% di tutte le famiglie nel 2001, 1.408.944 nel 2011, pari al 5,7%).
Nel 2014 i matrimoni continuano la loro fase di diminuzione, passando dai 194.057 eventi del 2013 ai 189.765 del 2014 (quasi 4.300 in meno). Le separazioni legali passano da 88.886 del 2013 a 89.303 del 2014 mentre i divorzi subiscono una lieve flessione passando da 52.943 a 52.355.
Sempre in base ai base ai dati ISTAT, i nonni in Italia sono oltre undici milioni, cioè il 33,3% delle persone che hanno più di 35 anni. Essi sono così distribuiti: il 5,1% ha meno di 55 anni; il 42.2% è tra 55 e 64 anni; il 71,4% (cioè oltre 7 milioni di nonni) ha più di 64 anni.
Di questi uno su tre si occupano dei nipotini quando i genitori lavorano. La percentuale aumenta di pari passo all’abbassarsi del livello di istruzione. I nonni colti si occupano dei nipoti solo occasio¬nalmente e in caso di emergenza. In generale il 70,8% degli anziani sono nonni e in media hanno circa 4 nipoti.
III La famiglia anagrafica
E’ opportuno chiarire subito che di ben poca utilità è, ai fini che qui interessa approfondire, il concetto di famiglia anagrafica, che concerne solo il tema della residenzialità. La definizione della famiglia anagrafica – pur di grande interesse in quanto fin dal 1989 parifica la famiglia matrimo¬niale a quella di fatto – ha rilevanza ai soli fini della qualificazione come nucleo residente. Come si dirà, invece, la residenzialità non è una caratteristica significativa ai fini dell’inquadramento delle relazioni familiari estese all’interno del concetto di famiglia.
L’ordinamento anagrafico ha la sua fonte originaria nella legge 24 dicembre 1954, n. 1228 (Or¬dinamento delle anagrafi della popolazione residente) dove si prevede che in ogni Comune deve essere tenuta l’anagrafe della popolazione residente. L’anagrafe è secondo la legge il servizio pubblico e al tempo stesso l’ufficio pubblico che provvede alla registrazione delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze, che hanno fissato nel Comune la residenza, nonché le posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel Comune il pro¬prio domicilio.
Il regolamento anagrafico è stato approvato con DPR 30 maggio 1989, n. 223 (Regolamento ana¬grafico della popolazione residente) modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126
Il primo Capo si occupa delle registrazioni anagrafiche e all’art. 1 prevede che l’anagrafe è costi¬tuita da schede individuali, di famiglia e di convivenza.
In tali schede sono registrate le posizioni anagrafiche desunte dalle dichiarazioni degli interessati, dagli accertamenti d’ufficio e dalle comunicazioni degli uffici di stato civile.
Premesso che per “persone residenti” si intendono quelle aventi la propria dimora abituale nel comune. negli articoli 4 e 5 vengono date le definizioni di famiglia anagrafica e di convivenza. Bisogna fare attenzione a non confondere le due definizioni. Infatti nell’ambito della nozione di “famiglia anagrafica” rientrano le persone fisiche che costituiscono anagraficamente una famiglia ivi compresi i conviventi di fatto, mentre all’interno della nozione di “convivenza anagrafica” sono allocate le convivenze comunitarie (comunità religiose, carcerarie, militari, sanitarie).
L’art. 4 dà la definizione di “famiglia anagrafica” prevedendo che “agli effetti anagrafici per fami¬glia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune” ed aggiunge che “una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona”.
Viceversa l’art. 5 definisce “convivenza anagrafica” “un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune”.
Secondo l’art. 6 del regolamento sono responsabili delle dichiarazioni anagrafiche ciascun compo¬nente della famiglia per sé e per le persone sulle quali esercita la responsabilità genitoriale o la tutela e ugualmente ciascun componente può rendere le dichiarazioni relative alle mutazioni delle posizioni degli altri componenti della famiglia.
Tutto ciò premesso è evidente che il concetto di famiglia anagrafica è un concetto di tipo soltanto amministrativo, funzionale alle registrazioni relative alla popolazione residente, e fa riferimento sia ai vincoli che costituiscono la famiglia matrimoniale di cui si è fin qui parlato (vincoli di matrimonio, di parentela, di affinità, di adozione) sia vincoli di unione civile ovvero vincoli di natura affettiva. Non è desumibile pertanto da questa definizione null’altro che non sia funzionale al servizio di censimento e di registrazione della popolazione residente.
IV La famiglia come soggetto sociale e come sistema relazionale (oggetto di tutela giuridica)
La famiglia è certamente un soggetto sociale. L’espressione può essere interpretata, natural¬mente, in diversi sensi. L’idealismo e il marxismo ritengono che “tutto ciò che l’uomo è lo deve allo Stato, in quanto solo in esso l’uomo ha la sua essenza” solo che secondo Marx – a differenza di Hegel – tale processo sarebbe destinato ad essere “superato” con l’abolizione dello Stato. La dottrina sociale della Chiesa a partire da Leone XIII1, conferisce alla persona e alla famiglia una soggettività e una natura propria che precede e va oltre lo Stato: la famiglia, come la persona, non deve la sua “soggettività” allo Stato e non trova in esso la propria definizione. Sono evidenti in queste posizioni le anime che hanno portato all’art. 29 della Costituzione che interpreta la fa¬miglia come società naturale. Qui la soggettività sociale della famiglia è vista come originarietà pre-statuale delle relazioni matrimoniali e di filiazione, come sfera di relazioni che deve essere tutelata e protetta dalla società.
La famiglia non è, però, un soggetto giuridico. Nel nostro sistema giuridico la soggettività giuridica è correlata alla capacità giuridica, intesa come idoneità a essere titolare di diritti e doveri o più in generale di situazioni giuridiche soggettive. Questa idoneità è riconosciuta alle persone fisiche (che acquistano la capacità giuridica con la nascita: art. 1 c.c.), alle associazioni, alle fondazioni e alle altre istituzioni di carattere privato (che acquistano la personalità giuridica con il riconoscimento: DPR 10 febbraio 2000, n. 361), nonché alle associazioni prive del riconoscimento come persone giuridiche (art. 14 e seguenti c.c.).
Per questo uno degli studiosi più illustri del diritto di famiglia apre il suo libro su “La famiglia” con l’affermazione che “La famiglia non è un ente giuridico e cioè un autonomo centro di imputazione di diritti e doveri. Nessuna posizione giuridica è attribuita alla famiglia come tale… La famiglia non è portatrice di propri interessi perché gli interessi realizzati nella famiglia sono fondamentali esi¬genze delle persona… Il modello paritario conferma l’idea della famiglia come di una comunità nella quale ciascuno dei componenti realizza le prime esigenze di convivenza e di solidarietà umana” [C. M. Bianca, La famiglia, Milano, Giuffrè, 2005, pag. 10]. Una comunità quindi, ma non un soggetto giuridico.
La precisazione che la famiglia non ha soggettività giuridica – che di per sé potrebbe apparire una puntualizzazione riduttiva – ha, però, anche il significato positivo di escludere che la famiglia possa essere considerata un ente a sé, superiore, autoritario e gerarchico, sovraordinato ai suoi componenti. In verità la comunità familiare è una comunità essenzialmente paritaria e modellata sull’uguaglianza dei suoi componenti (art. 29 Cost.) anche se l’uguaglianza di per sé non comporta necessariamente l’esclusione della soggettività dell’ente. E’ una formazione sociale (art. 2 Cost.) particolarmente qualificata, ma per scelta del legislatore, non un soggetto giuridico dell’ordinamento.
La famiglia non è neanche, naturalmente, una società (art. 2247 c.c.), nonostante il nome utilizza¬to, appunto, dall’art. 29 della Costituzione (“…società naturale fondata sul matrimonio”).
Anche da un punto di vista psicologico la famiglia è indubbiamente un soggetto, essendo consi¬derato un sistema fondamentale di relazioni e di comunicazioni. L’approccio psicologico sistemico sulla famiglia molto diffuso ha spostato l’attenzione dall’individuo al contesto delle sue relazioni ed ogni comportamento acquista significato e diventa comprensibile solo se lo si interpreta in rap¬porto al contesto relazionale in cui è avvenuto. La famiglia, in questa prospettiva, è una rete di relazioni interdipendenti in cui qualunque cambiamento riguardante un suo componente coinvolge e si ripercuote anche sugli altri. Non c’è causalità lineare ma circolare nel senso che ogni soggetto influenza con il suo comportamento le altre persone ma è anche influenzato a sua volta dalla loro condotta. Naturalmente si tratta di un sistema aperto in quanto in collegamento con l’ambiente sociale più vasto con cui intrattiene scambi continui alla ricerca di un equilibrio e al tempo stesso dei cambiamenti necessari per mantenerlo nel tempo.
Le categorie giuridiche hanno una loro indipendenza da quelle psicologiche ma se si guarda con attenzione, per esempio all’addebito nella separazione (art. 151, secondo comma c.c. secondo cui ”Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comporta¬mento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”) si capisce come la teoria sistemica abbia profondamente influenzato nel corso degli anni l’interpretazione di questa disposizione, facendo diventare sempre più rara nei tribunali la pronuncia di addebito. La giurisprudenza, infatti, sostiene che per poter pronunciare l’addebito occorre la prova che un determinato comportamento con¬
1 L’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Familiaris consortio (1981) riassume in qualche modo la dottri¬na sociale cattolica in tema di famiglia. Essa delinea la soggettività sociale della famiglia, anche se in maniera implicita. La soggettività della famiglia è definita in vari passi. In particolare: al pr. 15 (“Nel matrimonio e nella famiglia si costituisce un complesso di relazioni interpersonali – nuzialità, paternità-maternità, filiazione, frater¬nità – mediante le quali ogni persona umana è introdotta nella ‘famiglia umana’ e nella ‘famiglia di Dio’ che è la Chiesa”); al pr. 17 (che attribuisce alla famiglia quattro compiti generali: “1) la formazione di una comunità di persone; 2) il servizio alla vita; 3) la partecipazione allo sviluppo della società; 4) la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa”); al pr. 45 (dove si ricorda, con le parole della Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignita¬tis Humanae, 5 del Concilio Vaticano II che “la società, e più specificatamente lo Stato, devono riconoscere che la famiglia è «una società che gode di un diritto proprio e primordiale»”); al pr. 46 (che delinea “la carta dei diritti della famiglia” quale “cellula base della società, soggetto di diritti e doveri prima dello Stato e di qualunque altra comunità”). Queste affermazioni trovano una ulteriore specificazione e una nuova valorizzazione nel concetto di “soggettività della società” quale sviluppata nell’enciclica Centesimus Annus (1991).

trario ai doveri del matrimonio abbia causato l’intollerabilità della convivenza e condotto la coppia coniugale alla separazione: ma è possibile in un’ottica circolare della causalità determinare quale comportamento ne abbia causato un altro?
Il fatto che alla famiglia (soggetto sociale e soggetto psicologico) l’ordinamento giuridico non at¬tribuisca soggettività giuridica, non significa naturalmente che la famiglia non sia oggetto di tutela giuridica. Il punto è tutto qui: la soggettività giuridica non è il presupposto della tutela giuridica. Come dimostra il fatto che gli animali (si passi il paragone del tutto infelice) non hanno certo sog¬gettività giuridica ma sono al tempo stesso oggetto di tutela, anche se troppo spesso solo quando sono… in via di estinzione.
La tutela giuridica della famiglia è al centro del diritto di famiglia e si esprime attraverso la tutela (civile e penale) di tutte le situazioni all’interno delle quali si sviluppano le relazioni tra le persone che qualifichiamo come relazioni familiari. Si pensi al danno endofamiliare e alla vita di relazione. Non esiste un unico modello di famiglia e pertanto l’oggetto della tutela giuridica non è necessa¬riamente un unico modello di famiglia. La tutela giuridica viene troppo spesso scambiata per tutela di un modello familiare. La giurisprudenza, il dibattito tra i giuristi e le riforme normative, come si vedrà, hanno ben messo in evidenza che la tutela della famiglia matrimoniale assicurata dalla Costituzione (art. 29) non impedisce affatto la tutela di tutte le altre forme di vita familiare che la stessa Costituzione all’art. 2 protegge come formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’in¬dividuo. Al giurista spetta di risolvere il problema delle garanzie e non quello della qualificazione degli istituti.
V Il modello costituzionale di famiglia (nucleare) come società naturale fondata sul matrimonio
E’ ineludibile il confronto con il concetto di famiglia ancorato all’istituto del matrimonio come pre¬cisa l’art. 29 della Costituzione, secondo cui “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
L’espressione “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia…” (art. 29 Cost.) – con cui indubbia¬mente il costituente intendeva risolvere il problema dei rapporti tra la famiglia e lo Stato – è sem¬pre stata interpretata pacificamente nel senso che la famiglia preesiste allo Stato che ne riconosce i diritti. La famiglia è una società originaria; non è una creazione del diritto. Il legislatore non ha il compito di inventare la famiglia, ma di adattare le regole giuridiche alla famiglia che evolve nel¬la società in trasformazione. I rapporti di famiglia trovano, infatti, essenzialmente nel costume, nella coscienza sociale e nell’ordine interno di ciascuna convivenza familiare i canoni della propria disciplina [A. M. Sandulli, Costituzione, Art. 29, in Commentario al diritto italiano della fa¬miglia, diretto da G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi, Padova, Cedam, 1992, p. 7; C. Grassetti, Famiglia – diritto privato, Nss. D. I. VII, Torino, Utet, 1961, p. 48 ss]. E ciò avviene perché la famiglia è un concetto metagiuridico, appunto una comunità “naturale”, preesistente allo Stato di diritto. Appartenente – si sosteneva con forza allora – più al campo degli affetti che a quello delle regole giuridiche “come un’isola che il mare del diritto può lambire soltanto” [A. C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Annali Catania, III, 1948/49, n. 5, p. 38].
La famiglia che la Repubblica riconosce è quella poi “fondata sul matrimonio”. E’ solo la famiglia legittima che la Costituzione prende in considerazione in una accezione ristretta e quindi nel senso della relazione tra coniugi e tra genitori e figli legittimi [P. Barcellona, Famiglia (diritto civi¬le), in Enciclopedia del diritto, XVI, Giuffrè, Milano, 1967, p. 779 ss] senza naturalmente escludere la piena dignità della filiazione fuori dal matrimonio a cui fa riferimento l’art. 30 che garantisce loro “ogni tutela giuridica e sociale” sia pure “compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”.
L’espressione “società naturale fondata sul matrimonio” che ha oggettivamente consentito una interpretazione di tipo giusnaturalistico della famiglia e del matrimonio
La tesi della natura esclusivamente matrimoniale della famiglia tutelata dall’art. 29 ha trovato scontate conferme nella dottrina (come emerge nei principali testi sopra richiamati) ed indubbia¬mente la piena dignità della famiglia, secondo il testo costituzionale, sembra essere una preroga¬tiva della sola famiglia fondata sul matrimonio. Con la precisazione già sopra fatta che questo non può certo escludere la tutela di altre forme di aggregazione familiare.
Meno scontata appare, però, la precisazione che la famiglia legittima tutelata dalla Costituzione sarebbe la sola famiglia nucleare ristretta e non quella parentale.
La Corte costituzionale ha tratto questo convincimento dai principi indicati nell’art. 29 e nell’art. 30. Lo ha fatto allorché affrontò alcune questioni di costituzionalità riguardanti la previsione di esclusione della successione dei figli naturali in caso di concorso con ascendenti o discendenti le¬gittimi. In queste occasioni affermò che la “famiglia legittima” è la famiglia ristretta costituita col matrimonio e composta dal coniuge e dai figli legittimi e non da ascendenti o discendenti legittimi (non facenti parte della famiglia). A questa interpretazione condurrebbero, secondo la Corte, il linguaggio o il contenuto tanto delle norme costituzionali quanto della legislazione ordinaria, ol¬treché la stessa sistematica del Codice civile. Infatti nell’art. 29 la garanzia costituzionale copre il gruppo “società naturale” fondato sul matrimonio, quello, cioè, che, nato da tale unione, riposa appunto sulla parità dei coniugi, anche nel governo della famiglia, e sull’unità familiare (secondo comma dello stesso art. 29): parità ed unità che non possono esigersi né ipotizzarsi nei riguardi degli ascendenti o collaterali di chi ha costituito col matrimonio una società naturale. Del resto che solo del coniuge e dei discendenti si sia preoccupato il Costituente risulta anche dall’art. 31, dove la famiglia e i suoi compiti sono quelli che derivano dal matrimonio; risulta inoltre dall’art. 30, comma primo, che riconosce doveri e diritti dei genitori nei confronti dei figli e non nei riguardi dei propri ascendenti o collaterali. Da questo quadro non è verosimile che sia uscito il terzo comma dell’art. 30: anche qui, l’accenno alla famiglia legittima di chi ha figli naturali, evidentemente, non comprende gli ascendenti o i collaterali; poiché si contrappongono i figli nati fuori del matrimonio di lui alla sua famiglia legittima, questa non può essere che il gruppo costituitosi col suo matrimo¬nio (Corte cost. 14 aprile 1969, n. 79; Corte cost. 30 aprile 1973, n. 50; Corte cost. 27 marzo 1974, n. 82).
Perciò, secondo la posizione espressa in queste decisioni dalla Corte costituzionale (tutte prece¬denti alla riforma del 1975 e, in verità, di dubbia attualità), la famiglia fondata sul matrimonio sa¬rebbe solo quella ristretta, con esclusione di ogni riferimento alla parentela allargata (ascendenti, discendenti) e all’affinità.
Il che, però, ammesso che tale conclusione possa essere condivisa, vorrebbe dire soltanto – come giustamente si è fatto notare [F. Cuocolo, Famiglia- Profili costituzionali, Enciclopedia giuri¬dica, Treccani, Roma, 1989] – che la famiglia disciplinata e protetta primariamente dalla Costi¬tuzione sarebbe soltanto la famiglia legittima coniugale, non certo che non abbia alcuna rilevanza costituzionale la famiglia estesa con i rapporti parentali e di affinità che la caratterizzano.
VI Matrimonio e famiglia: due concetti diversi
Nella riflessione che si sta qui facendo sulla famiglia è essenziale la precisazione che matrimonio e famiglia sono due concetti differenti.
Il matrimonio connota solo una delle modalità di accesso alla famiglia, certamente la principale per simbologia, per sacralità (per la religione cattolica) e per frequenza statistica; tuttavia non può essere confuso con essa. Invece nella discussione sul significato della famiglia si compie spesso una indebita sovrapposizione tra i due concetti.
Questa precisazione serve anche a sdrammatizzare il senso di assolutezza che rischia di essere at¬tribuito all’art. 29 della Costituzione che, se lo si legge, nella sua relatività storica sta a significare che il Costituente nell’epoca in cui ebbe ad affermare il concetto di “famiglia fondata sul matrimo¬nio” aveva sostanzialmente presente il dato sociologico di quel tempo; come emerge anche dalla affermazione indubbiamente ragionevole secondo cui “i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi” (Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138).
E’ per questo che il principio di indissolubilità è riferito al matrimonio e non alla famiglia. Il ma¬trimonio si può sciogliere (art. 191 c.c.; legge 1° dicembre 1970, n. 898) ma la famiglia non si scioglie di certo. I diritti post-divorzili sono diritti post-matrimoniali e non presuppongono lo scioglimento della famiglia che resta nei suoi legami forti che l’avevano connotata e continuano a connotarla anche dopo la fine del matrimonio.
VII La famiglia nucleare tradizionale e l’abbozzo della famiglia nucleare “parentale” nel codice civile dopo la riforma del 1975
a) la famiglia nucleare tradizionale
La famiglia nucleare tradizionale (genitori e figli) alla quale si ispirava il codice civile del 1942 (il primo libro è tuttavia del 1939) era la risultante dell’impegno con cui il fascismo aveva inteso di¬segnare un nuovo modello gerarchico di famiglia – realizzato soprattutto attraverso la legislazione sociale nella sfera dell’assistenza (nel 1925 nasceva l’Opera nazionale maternità e infanzia) e del lavoro (il riferimento è alle leggi di tutela del lavoro minorile e femminile dei primi anni del secolo, poi risistemate nel 1934, osteggiate dal mondo operaio sul rilievo che anziché favorire l’emancipa¬zione femminile avrebbero facilitato l’espulsione delle donne dal mondo del lavoro) – inquadrato nella politica volta a costruire uno Stato etico e sociale di stampo totalitario nel quale le esigenze individuali erano destinate a piegarsi a quelle dello Stato e dei suoi obiettivi, anche di incremento demografico nel contesto di una politica espansionistica (anche se il numero di figli per famiglia era all’epoca ancora alto: quasi 4 figli per coppia nel ventennio, anche se le famiglie numerose con set¬te o più figli erano solo 2 milioni di un totale di circa nove milioni di famiglie). Nel modello di fami¬glia di quel codice i protagonisti erano la donna madre e l’uomo pater e capo della famiglia. In quel codice, in verità, la protezione dei componenti della famiglia non era rivolta a tutelare i loro diritti individuali ma a tutelare, ciascuno secondo il suo specifico status, i membri di una collettività con¬siderata vitale per il mantenimento dello Stato stesso [sull’evoluzione del concetto giuridico della famiglia è fondamentale V. Pocar – P. Ronfani, La famiglia e il diritto, Laterza, Bari, 1998].
All’epoca la famiglia nucleare aveva una dimensione differenziata: la dimensione media delle fami¬glie operaie urbane era agli inizi degli anni Trenta di poco meno di tre persone, contro una dimen¬sione media della famiglia rurale di sette persone. Le famiglie nucleari numerose erano confinate, quindi, nella campagna. Il codice civile, accogliendo gli spunti della dottrina civilistica di Antonio Cicu [A. Cicu, Il diritto di famiglia. Teoria generale. Roma, 1914, e Forni, Bologna, 1978] era interessato soprattutto a prevedere per la famiglia nucleare una regolazione piramidale a marcata valenza pubblicistica. La filiazione fuori dal matrimonio era illegittima, veniva confermata la potestà maritale e, natural¬mente la patria potestà esclusiva, veniva mantenuta l’indissolubilità del matrimonio, la separazio¬ne era possibile solo per colpa, l’abbandono del tetto coniugale e l’adulterio erano puniti. Insomma la famiglia veniva costruita come un’entità chiusa, ferma e permanente, volta al raggiungimento di scopi economici e affettivi interni ma soprattutto alla realizzazione di finalità esterne e superiori.
Questo modello verticistico entrò in crisi con la Costituzione e fu riformato, come si sa, con la leg¬ge 23 maggio 1975, n. 151 che prendeva atto dei mutamenti dei costumi familiari (nel 1970 era stato introdotto il divorzio) e del nuovo ruolo della donna, anche se gli studiosi ritengono che nella realtà delle famiglie italiane ancora il modello comunitario e solidaristico disegnato dalla riforma non aveva sostituito del tutto quello piramidale e asimmetrico del primo libro del codice. Si trattò quindi di una riforma che ebbe anche una funzione di tipo promozionale più che di adattamento.
La nuova famiglia nucleare del XIX secolo a valenza paritaria ed egalitaria trova con la riforma del 1975 sempre nelle disposizioni del codice civile sul matrimonio e sulla potestà genitoriale (ancorché con i residui della supremazia paterna) il territorio più significativo della nuova disciplina giuridica [M. Bessone, G. Alpa, A. D’Angelo, G. Ferrando, La famiglia nel nuovo diritto. Dai principi della Costituzione alla riforma del codice civile, Zanichelli, Bologna, 1980]. Le norme sul regime primario contributivo e solidaristico (sostanzialmente gli obblighi di fedeltà, coabitazione, assistenza e collaborazione di cui all’art. 143 e il principio dell’accordo di cui all’art. 144), la dispo¬sizione sui doveri verso i figli (art. 147), la maggior parte delle disposizioni sui regimi patrimoniali (art. 159 e seguenti) e le stesse regole della separazione dei coniugi (art. 150 e seguenti e art. 337-bis e seguenti), si riferiscono complessivamente alla famiglia nucleare tradizionale. Questo modello di famiglia è quella a cui il codice dedica la parte più sostanziosa della disciplina legale della famiglia. Il codice civile riformato fa nel suo complesso esclusivo riferimento soprattutto alla fami¬glia fondata sul matrimonio con l’eccezione di qualche nuova disposizione che si riferiva, però, non tanto alla famiglia di fatto quanto ai figli nati fuori dal matrimonio (art. 317-bis nel testo di allora).
Nonostante, però, il generico richiamo nell’intitolazione del primo libro del codice (Delle persone e della famiglia) la famiglia non è mai nominata come tale in nessuna norma del libro medesimo, men¬tre gli unici riferimenti alla “famiglia” – anche dopo la riforma del 1975 – sono contenuti nell’art. 143 (che prescrive ai coniugi il dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia e di contribuzione ai bisogni della famiglia), nell’art. 144 (Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia), nell’art. 145 (che consente al giudice, su richiesta espressa e congiunta dei coniugi, di adottare in caso di disaccordo la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia), nel capo VI sul regime patrimoniale della famiglia e, in particolare nel concetto di bisogni della fa¬miglia collegato al fondo patrimoniale. Tutte norme che, collegate alla famiglia legittima, lasciano ritenere che il concetto di famiglia sia effettivamente riferibile alla sola famiglia ristretta del modello costituzionale sopra richiamato della famiglia nucleare matrimoniale ristretta [S. Puleo, Famiglia – Disciplina privatistica: in generale, Enciclopedia giuridica, Treccani, Roma, 1989].
b) La famiglia nucleare “parentale”
Tuttavia, il codice civile – che pure contiene, come si è detto, numerose disposizioni sulla fami¬glia senza però definirne mai i confini – fa qualche significativo riferimento al sistema di relazioni interpersonali di parentela e di affinità che si costituiscono con il matrimonio. Relazioni la cui significatività va oltre il concetto di famiglia che risiede insieme; non bisogna confondere il piano della residenzialità (che definisce la famiglia anagrafica) da quello della significatività, non solo psico-sociale ma anche giuridica, delle relazioni che costituiscono la famiglia.
Insomma pur non esistendo in nessuna parte del codice riformato una precisa definizione giuridica della famiglia, è la famiglia composta dai parenti oltre il primo grado che anche viene presa in con¬siderazione dal legislatore. La nozione di famiglia, insomma, non pare proprio potersi ridurre alla sola famiglia nucleare tradizionale (genitori e figli) anche se per una significatività dei riferimenti alla parentela oltre il primo grado occorrerà attendere decisamente le riforme degli anni Duemila, in particolare quella del 2006 sull’affidamento condiviso, quella del 2012 sulla filiazione e quella del 2016 sulla convivenza di fatto.
Si pensi per esempio alle norme, nel codice riformato nel 1975, sull’impresa familiare. L’art. 230- bis, trattando dell’impresa familiare, afferma che “”si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo” una delimitazione ben più ampia, quindi, di quella, ipotizzata dalla Corte costituzionale nelle decisioni a cui si è fatto sopra riferimento.
Il concetto di famiglia che deriva dalle disposizioni sulla parentela e sull’affinità è quindi ampio nel codice civile riformato del 75 anche se non ancora in modo significativo e non sembra affatto estranea già a quel codice la distinzione tra famiglia nucleare estesa (alla quale indubbiamente si riferisce la rete parentale in linea retta e collaterale e di affinità richiamata da molte disposizioni del codice civile anche in materia successoria) e la famiglia nucleare tradizionale (genitori e figli).
In ogni caso deve prevalere il dato fenomenico che depone nella vita di tutti i giorni per un concetto di famiglia più ampio di quello della sola famiglia nucleare. Scrive a tale proposito Chiara Saraceno nella introduzione alla sua “Sociologia della famiglia” che il termine famiglia è poco specifico; copre una varietà di esperienze e relazioni e ne esclude altre. Nel lessico colloquiale familiare, un marito e una moglie, che insieme danno vita ad una famiglia, possono parlare contemporaneamente della “nostra famiglia”, della “mia famiglia” e della “tua famiglia”, alludendo di volta in volta alla famiglia che fanno insieme alla famiglia di lui e a quella di lei. I “miei”, i “tuoi”, “noi” designano confini, se¬parazioni, ma anche appartenenze, incroci. Tutto ciò non è altro che un indicatore della complessità di relazioni e dimensioni implicite nello spazio della famiglia, dei vincoli e dei confini diversi che lo articolano, che chiedono di essere individuati e distinti.
Il concetto di famiglia è difficilmente enunciabile in senso oggettivo. E’ famiglia sia l’aggregazione nucleare di marito, moglie, spesso ma non necessariamente con figli; sia l’aggregazione estesa comprensiva dei parenti, degli affini. Possiamo perciò riferirci nella disciplina del codice nel suo insieme (comprensivo anche delle norme sulle successioni) alla famiglia nucleare composta dai genitori e dai figlie ma anche del tutto legittimamente alla famiglia più estesa (nucleare parentale) che include gli ascendenti, i discendenti e, per certi versi, anche gli affini.
La famiglia matrimoniale in questo contesto si costituisce con l’unione di marito e moglie, ma cia¬scuno di essi porta nella famiglia il suo ramo parentale.
Secondo l’art. 74 (Parentela), nel testo modificato dall’art. 1, primo comma, della legge 10 dicem¬bre 2012, n. 21, “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo…” mentre secondo l’art. 75 (Linee di pa¬rentela) “Sono parenti in linea retta le persone di cui l’una discende dall’altra; in linea collaterale quelle che, pur avendo uno stipite comune, non discendono l’una dall’altra”. Il che comporta che la nozione di famiglia non è collegata affatto alla sola linea retta (ascendenti, discendenti). Il limite della parentela è indicato nell’art. 77 (Limite della parentela) dove si avverte che “La legge non riconosce il vincolo di parentela oltre il sesto grado, salvo che per taluni effetti determinati” tra i quali l’accesso al matrimonio (in cui il vincolo di parentela ostativo è solo fino al quarto grado come tra zii e nipoti: art. 87), ovvero nella legittimazione a chiedere l’interdizione, l’inabilitazione o l’amministrazione di sostegno (in cui il limite ostativo è oltre il quarto grado: art. 417) oppure ancora in materia di alimenti (in cui l’obbligo non esiste oltre i soggetti individuati nell’art. 433) o in materia successoria in cui il coniuge eredita tutto se mancano discendenti, ascendenti o fratelli e sorelle e non altri parenti (art. 583).
Alla famiglia estesa fa riferimento anche l’art. 148 nel testo allora vigente dove si prevede per gli ascendenti l’obbligo di “fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli”.
Il concetto esteso di famiglia può riferirsi, però, non solo ai parenti ma, come si è detto, anche agli affini. Ritenere, infatti (ma il tema sembra, in verità, ignorato in dottrina), che la famiglia estesa sia costituita dalla sola rete parentale, è erroneo e certamente riduttivo. I rapporti tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge sono anch’essi vissuti come rapporti di famiglia. Sono relazioni, spesso quotidiane, alle quali le persone danno il significato di relazioni familiari. E alle quali lo stesso codi¬ce civile attribuisce natura di relazioni permeate da obblighi di solidarietà vitale (l’art. 433 include gli affini in linea retta tra le persone reciprocamente obbligate agli alimenti). L’inclusione degli affini all’interno della rete familiare è, quindi, reale e non simbolica. Anche l’art. 230-bis (impresa familiare) colloca, come pienamente gli affini tra i familiari.
Alle relazioni tra il ramo parentale di un coniuge e quello dell’altro coniuge fa riferimento l’art.78 (Affinità) secondo cui, appunto, “L’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro”. Il se¬condo comma precisa che “Nella linea e nel grado in cui taluno è parente di uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge” mentre il terzo comma chiarisce che “L’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per taluni effetti specialmente determinati” (come in materia alimentare dove, secondo l’art. 434 l’obbligo cessa se l’avente diritto agli alimenti contrae nuove nozze o quando il coniuge da cui deriva l’affinità e i figli e i loro discendenti sono morti) mentre invece “Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all’art. 87, n. 4” che prevede il divieto di matrimonio tra affini in linea retta sia in caso di annullamento che in caso di divorzio.
La nozione di famiglia (nucleare “parentale”), quindi, abbozzata nel codice civile, è quella in cui sono considerati familiari i parenti e gli affini (nei limiti sopra indicati). In conclusione, se è cer¬tamente vero che con il codice civile del 1942 si è verificato il passaggio dalla famiglia patriarcale a quello della famiglia nucleare tradizionale, nel codice civile riformato nel 1975 sono contenuti elementi dai quali è possibile desumere che il diritto di famiglia avesse iniziato ad allargare i confini della stessa famiglia nucleare, includendovi decisamente i rapporti parentali con gli ascendenti e i rapporti con gli affini. Saranno le riforme degli anni Duemila a dare il colpo decisivo per l’allarga¬mento del concetti di famiglia anche alle più ampie relazioni parentali.
Naturalmente – si ripete – occorre tener ben distinto il piano anagrafico (cioè la comune residenza dei familiari) dal piano della significatività delle relazioni familiari in cui consiste il nuovo concetto di famiglia nucleare “parentale”.
VIII I prossimi congiunti nel codice penale
Anche il codice penale definisce la famiglia indicandone i confini rilevanti e includendovi parenti e affini. Lo fa con il concetto – anch’esso molto ampio – di prossimi congiunti che, secondo poi la definizione, non sono per niente prossimi. Sono prossimi congiunti agli effetti della legge penale, infatti – afferma il secondo comma dell’art. 307 – “gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole”.
La norma serve ad individuare i soggetti considerati non punibili a determinate condizioni ancorché abbiano commesso gravi comportamenti quali l’assistenza ai partecipi di cospirazione e di banda armata (art. 307), alcuni delitti contro l’attività giudiziaria (art. 384) e determinati delitti contro l’ordine pubblico (art. 418).
La nozione coincide solo in parte con quella cui fa riferimento la rete parentale e di affinità richia¬mata nel codice civile (dove sono parenti tra loro non solo zii e nipoti ma anche i figli dei cugini e dove il vincolo di affinità sopravvive alla morte del coniuge da cui deriva) ma è ugualmente sinto¬matica di una concezione della famiglia allargata alla quale in fondo sia il codice civile che il codice penale si richiamano.
Più ristretta è la nozione di familiari accolta nell’art. 649 per indicare i casi di non punibilità di reati contro il patrimonio commessi senza minaccia o violenza alle persone a danno di congiunti. Qui i familiari presi in considerazione sono soltanto il coniuge, gli ascendenti e i discendenti, i fratelli e le sorelle.
Il codice di procedura penale integra in talune situazioni la definizione aggiungendo alla cerchia dei prossimi congiunti anche le persone legate da relazione affettiva stabilmente conviventi (art. 90 c.p.p, che indica chi può esercitare i diritti della persona offesa deceduta e art. 96 che indica chi può nominare il difensore di fiducia all’arrestato o al fermato finché questi non vi abbia prov¬veduto) ovvero, limitatamente ai fatti appresi durante la convivenza, oltre al convivente di fatto anche alle persone nei cui confronti è intervenuta la separazione o sentenza di divorzio (art. 199 che indica la facoltà di astensione dalla testimonianza dei prossimi congiunti).
IX La famiglia dopo la riforma dell’affidamento condiviso
E’ veramente singolare, e forse paradossale, che uno dei primi passi più significativi in direzione di un allargamento del concetto contemporaneo di famiglia, provenga da una riforma che tratta il tema della separazione dei coniugi.
Il codice civile come riformato nel 1975 prevedeva nel vecchio art. 155 (Provvedimenti riguardo ai figli) che “Il giudice che pronunzia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. In particolare il giudice stabilisce la misura e il modo con cui l’altro coniuge deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, nonché le modalità di esercizio dei suoi diritti nei rapporti con essi. Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determi¬nate dal giudice. Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse”. Nessun accenno, come si vede, al ramo parentale dei genitori.
Per oltre trent’anni queste regole (basate sostanzialmente sull’affidamento monogenitoriale) han¬no costituito la base normativa di riferimento della dottrina e della giurisprudenza nell’elaborazione del pensiero giuridico in materia di affidamento dei figli minori in sede di separazione e divorzio, anche se occorre segnalare, doverosamente, l’intervento continuo della giurisprudenza sul ver¬sante della necessaria tutela del rapporto tra nonni e nipoti (per esempio Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24423 secondo cui i nonni, ai quali è impedita dai genitori la frequentazione del nipote minorenne, possono adire il giudice minorile per ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 333 c.c., che consenta loro di incontrare il nipote e, sebbene il provvedimento giurisdizio¬nale “innominato” non possa imporre serenità di rapporti del minore con i propri parenti, è compito del giudice minorile intervenire al fine di garantire, nell’interesse del minore, serenità ed equilibrio in detti rapporti).
Una prima significativa incrinatura dell’affidamento “monogenitoriale” si determinò nel 1987 in seguito all’introduzione – avvenuta con una modifica introdotta nella normativa sul divorzio dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 – dell’affidamento congiunto (joint custody) non meglio precisato nel suo significato innovativo. Si legge nel secondo comma dell’art. 6 della legge 898/70 semplice¬mente che “Ove il tribunale lo ritenga utile all’interesse dei minori, anche in relazione all’età degli stessi, può essere disposto l’affidamento congiunto o alternato”.
Fu, però, solo la riforma del 2006 sull’affidamento condiviso (legge 8 febbraio 2006, n. 54 intito¬lata Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) che deter¬minò una decisa inversione di rotta e una vera e propria operazione culturale di risistemazione dei concetti di fondo in materia di affidamento dei figli. L’impianto della riforma è piuttosto chiaro nella previsione dell’obiettivo della tutela non solo della bigenitorialità ma anche della parentalità. La riforma ribaltava il precedente regime introducendo l’affidamento condiviso come regola ordinaria in caso di separazione dei coniugi e di divorzio. Il principio esplicitato in apertura della riforma è che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi” con l’ulteriore precisazione, veramente nuova da un punto di vista normativo (ma non certo giurisprudenziale) che tra i diritti del figlio minore vi è anche quello “di conservare rapporti significativi con gli ascen¬denti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 155, comma 1, c.c.).
L’allargamento dei diritti del minore al diritto di conservare rapporti significativi con “gli ascenden¬ti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” comporta l’allargamento dei confini della famiglia significativa anche oltre il modello della famiglia nucleare tradizionale (genitori e figli). Un primo passo verso l’avvicinamento al concetto di famiglia nucleare “parentale” che sarà operato con le successive riforme degli anni Duemila.
X La famiglia dopo la parificazione dei figli con la riforma del 2012
La riforma più significativa operata dopo il 1975 nell’ambito del diritto di famiglia è certamente quella sulla filiazione che si deve alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 e al Decreto Legislativo di attuazione 28 dicembre 2013, n. 154.
Non si può non riconoscere che questa riforma – il cui obiettivo è stata la parificazione dello status di tutti i figli – avendo completamente riformulato le norme sulla responsabilità genitoriale e sui diritti e doveri del figlio (titolo IX del primo libro del codice civile) ha indubbiamente rimodellato lo stesso concetto di famiglia estendendone il significato anche e quella non matrimoniale. Secondo il nuovo art. 315 del codice civile (Stato giuridico della filiazione) “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” e secondo il nuovo art. 315-bis (Diritti e doveri del figlio) “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti…”.
Il diritto al rapporto con i parenti – che la riforma del 2006 sull’affidamento condiviso aveva ricono¬sciuto nella sola condizione di separazione e divorzio dei genitori – diventa uno dei diritti principali del figlio come tale.
Ed anzi diventa un diritto degli stessi ascendenti, sempre (fatto di straordinaria importanza) anche al di fuori della condizione di separazione e divorzio. Il nuovo art. 317-bis (Rapporti con gli ascendenti) afferma che “Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. L’ascendente al quale è impedito l’esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell’e¬sclusivo interesse del minore”.
Di fondamentale significato è anche il nuovo testo dell’art. 258 del codice civile in base al quale un tempo il riconoscimento non poteva produrre effetti se non nei confronti del genitore o dei genitori che lo avevano effettuato e non i rispettivi parenti. Il nuovo testo dell’art. 258 afferma dopo la riforma del 2012 che “Il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso” includendo pertanto anche i parenti del genitore nella rete parentale del figlio riconosciuto fuori dal matrimonio.
Ed inoltre, il nuovo art. 316 (Responsabilità genitoriale) affermando anche che “Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi”, estende il concetto di famiglia anche oltre il più ristretto ambito della coabitazione, chiamando alle responsabilità genitoriali pure il genitore che non convive o, addirittura, che non ha mai convissuto con il figlio.
Se per i figli non vi sono, quindi, distinzioni ammissibili nello stato giuridico, neanche per il concet¬to di famiglia (a cui si accede con la nascita) saranno accettabili distinzioni o classificazioni.
XI Le unioni civili: formazione sociale o famiglia?
a) L’unione civile non è matrimonio
Molto dibattuto è il problema della inclusione o meno nel concetto di famiglia delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze di fatto, dopo la riforma del 2016 appunto sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto (legge 20 maggio 2016, n. 76).
La legge non ha previsto la possibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso ma ha istitu¬ito “l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione” (art. 1, comma 1).
Ancora una volta, sovrapponendo due piani diversi (e ritenendo famiglia solo quella fondata sul matrimonio), il legislatore, per evitare l’assimilazione formale al matrimonio, definisce il regime primario dell’unione civile non con riferimento alle norme che indicano il regime primario del ma¬trimonio (sostanzialmente gli articoli 143 e 144 c.c.), ma attraverso l’indicazione dei diritti e dei doveri che le parti assumono allorché costituiscono l’unione civile. Il comma 11 dell’art. 1 precisa che “Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stes¬si diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni” evitando accuratamente di utilizzare il concetto di “bisogni della famiglia” richiamato per i coniugi nell’art. 143 del codice civile. Tuttavia il comma 12 recupera, verosimilmente senza volerlo, il concetto di famiglia prescrivendo che “le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”.
Rispetto al testo dell’art. 143 c.c. scompare il riferimento al dovere di fedeltà (soppresso nel corso dell’esame in Assemblea al Senato) e al dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia, rite¬nuti evidentemente dal legislatore eccessivamente sovrapponibili ai doveri matrimoniali.
Il comma 20 dell’art. 1 dopo aver prescritto che “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «co¬niuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” precisa, però, che questa disposizione “non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella pre¬sente legge…”.
Così per esempio non trova applicazione la norma di cui all’art. 78 del codice civile sull’affinità – non richiamata espressamente dalla nuova legge – e pertanto il partner dell’unione civile non è affine dei parenti dell’altro. La coppia che forma l’unione civile è destinata a rimanere coppia e non nucleo familiare allargato.
b) La posizione della corte costituzionale: l’unione civile tra persone dello stesso sesso è una formazione sociale
Nella legge si parla di “unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”, Espressamente non si parla, quindi, di famiglia. Il legislatore ha scelto di non prevedere la possibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma di considerare l’unione registrata una formazione sociale alla quale assicurare tutela giuridica ai sensi dell’art. 2 2e dell’art. 3 3 della Costituzione così evitando possibili obiezioni di costituzionalità del sistema e al tempo stesso rispondendo, però, alle ripetute esortazioni della stessa Corte costituzionale a garantire alle coppie dello stesso sesso dignità giuridica non deteriore rispetto a quella che l’ordinamento garantisce ai coniugi.
La posizione della Corte costituzionale sui problemi giuridici posti dall’aspirazione delle coppie omosessuali al matrimonio è contenuta soprattutto in due sentenze che disegnano le coordinate fondamentali per comprendere le motivazioni della scelta del legislatore di affidare alle unioni ci¬vili la funzione di tutela dei legami familiari tra persone dello stesso sesso anziché ammettere al matrimonio tali coppie.
Decisiva è l’impostazione della prima sentenza e cioè Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138 chia¬mata a pronunciarsi sulla questione di legittimità del rifiuto dell’ufficiale di stato civile di effettuare le pubblicazioni di matrimonio richieste da persone dello stesso sesso. Le questioni erano state sollevate da un’ordinanza del Tribunale di Venezia e da un’altra ordinanza della Corte d’appello di Trento. La Corte esamina la questione di costituzionalità a) sotto il profilo della eventuale vio¬lazione dell’art. 2 della Costituzione; b) sotto il profilo della eventuale violazione degli articoli 3 e 29 della Costituzione; c) sotto il profilo della eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione nella parte in cui prevede il rispetto da parte del legislatore dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
In riferimento all’art. 2 della Costituzione la Corte dichiara inammissibile la questione “perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata” e condivide il punto di vista da cui muovono le due ordinanze e cioè che “l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. E’ l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, che po¬stula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di una consolidata ed ultra millenaria nozione di matrimonio.
Ferme le considerazioni che precedono – afferma la Corte – si deve dunque stabilire se l’art. 2 del¬la Costituzione imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.
Per “formazione sociale” secondo l’art. 2 della Costituzione – si precisa nella sentenza – deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello plurali¬stico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il ricono¬scimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esau¬
2 Art. 2 Cost. “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle for¬mazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
3 Art. 3 Cost. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

stivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 della Costituzione spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tu¬tela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontra¬bile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.
Con riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la Corte dichiara la questione non fonda¬ta. Occorre – afferma in proposito la Corte – prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dot¬trinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).
Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta inter¬pretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
La seconda sentenza che è significativo richiamare è Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170 nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dalla Corte di cassazione.
Si trattava di un procedimento promosso da una coppia sposata per ottenere la cancellazione della annotazione di «cessazione degli effetti del vincolo civile del matrimonio», che l’ufficiale di stato civile aveva apposto in calce all’atto di matrimonio, contestualmente all’annotazione, su ordine del Tribunale, della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del sesso del marito. La Corte di cas¬sazione – adita in sede di impugnazione avverso il decreto della Corte di Appello di Bologna che, in riforma della statuizione di primo grado, aveva respinto la domanda dei ricorrenti – sollevava sostanzialmente la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 2 e 29 della Costituzione, «dell’art. 4 della legge n. 164 del 1982 nella parte in cui dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca l’automatica cessazione degli effetti civili conseguen¬ti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso senza la necessità di una domanda e di una pronuncia giudiziale2) «degli artt. 2 e 4 della l. n. 164 del 1982 con riferimento al para¬metro costituzionale dell’art. 24 della Costituzione nella parte in cui prevedono la notificazione del ricorso per rettificazione di attribuzione di sesso all’altro coniuge, senza riconoscere a quest’ultimo il diritto di opporsi allo scioglimento del vincolo coniugale nel giudizio in questione, né di esercitare il medesimo potere in altro giudizio, essendo esclusa la necessità di una pronuncia giudiziale dalla produzione ex lege dell’effetto solutorio in virtù del passaggio in giudicato della sentenza di retti-ficazione di attribuzione di sesso»;
La questione viene ritenuta fondata. Afferma la Corte che la situazione (sul piano fattuale innega¬bilmente infrequente, ma che, nella vicenda al centro del giudizio principale, si è comunque veri¬ficata) di due coniugi che, nonostante la rettificazione dell’attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi, intendano non interrompere la loro vita di coppia, si pone, evidentemente, fuori dal modello del matrimonio – che, con il venir meno del requisito, per il nostro ordinamento essenziale, della eterosessualità, non può proseguire come tale – ma non è neppure semplicisticamente equipara¬bile ad una unione di soggetti dello stesso sesso, poiché ciò equivarrebbe a cancellare, sul piano giuridico, un pregresso vissuto, nel cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale, che, seppur non più declinabili all’interno del modello matrimoniale, non sono, per ciò solo, tutti necessariamente sacrificabili.
Il parametro costituzionale di riferimento per una corretta valutazione della peculiare fattispecie in esame – in relazione ai prospettati quesiti sulla legittimità della disciplina, correttamente indi¬viduata dalla Corte di cassazione negli artt. 2 e 4 della Legge n. 164 del 1982, che la risolvono in termini di divorzio automatico – non è dunque quello dell’art. 29 Cost. invocato in via principale dallo stesso collegio rimettente, poiché, come già sottolineato da questa Corte, la nozione di ma¬trimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che «stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero es¬sere persone di sesso diverso» (sentenza n. 138 del 2010). Il che comporta che anche a colui (o colei) che cambia il proprio sesso non resta impedito di formare una famiglia, contraendo nuovo matrimonio con persona di sesso diverso da quello da lui (o lei) acquisito per rettifica.
Non pertinente è anche il riferimento agli artt. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 12 (sul diritto di sposarsi e formare una famiglia) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (H. contro Finlandia – decisione del 13 novembre 2012; Schalk and Kopf contro Austria – decisione del 22 novembre 2010), invocati come norme interposte, ai sensi della denunciata violazione degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost. E ciò perché, in assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unio¬ni omosessuali, la Corte EDU, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma essere riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso.
La stessa sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Schalk and Kopf contro Austria, citata nell’ordinanza di rimessione, nel ritenere possibile una interpretazione estensiva dell’art. 12 della CEDU nel senso della riferibilità del diritto di contrarre matrimonio anche alle coppie omosessuali, chiarisce come non derivi da una siffatta interpretazione una norma impositiva, di una tale esten¬sione, per gli Stati membri.
Neppure sussiste, nei termini della sua prospettazione, il contrasto della normativa denunciata con i precetti di cui agli articoli 24 e 3 della Costituzione. Quanto al primo parametro, perché non essendo, per quanto detto, configurabile un diritto della coppia non più eterosessuale a rimanere unita nel vincolo del matrimonio, non ne è, di conseguenza, ipotizzabile alcun vulnus sul piano della difesa. E quanto al parametro dell’art. 3 della Costituzione, poiché la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa di mutamento del sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina.
Pertinente – conclude la Corte – è invece, il riferimento al precetto dell’art. 2 della Costituzione. Al riguardo questa Corte ha già avuto modo di affermare, nella richiamata sentenza n. 138 del 2010, che nella nozione di “formazione sociale” – nel quadro della quale l’art. 2 della Costituzione dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – «è da annoverare anche l’u¬nione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». In quella stessa sentenza è stato, però, anche precisato doversi «escludere […] che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio», come confermato, del resto, dalla diversità delle scelte operate dai Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette.
Dal che la conclusione, per un verso, che «nell’ambito applicativo dell’art. 2 della Costituzione, spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette», e, per altro verso, che resta, però, comunque, «ri¬servata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni», nel quadro di un controllo di ragionevolezza della rispettiva disciplina.
Sulla linea dei principi enunciati nella riferita sentenza, è innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di si¬tuazioni “specifiche” e “particolari” di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore. La fattispecie peculiare che viene qui in considerazione coinvolge, infatti, da un lato, l’interesse dello Stato a non modificare il modello ete¬rosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di sesso dei coniugi) e, dall’altro lato, l’interesse della coppia, attraversata da una vicenda di rettificazione di sesso, a che l’esercizio della libertà di scelta com¬piuta dall’un coniuge con il consenso dell’altro, relativamente ad un tal significativo aspetto della identità personale, non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto, che essa vorrebbe, viceversa, mantenere in essere.
La normativa – della cui legittimità dubita la Corte rimettente – risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale alla non modificazione dei caratteri fondamentali dell’istituto del matrimonio, restando chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilancia¬mento con gli interessi della coppia, non più eterosessuale, ma che, in ragione del pregresso vissu¬to nel contesto di un regolare matrimonio, reclama di essere, comunque, tutelata come «forma di comunità», connotata dalla «stabile convivenza tra due persone», «idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione» (sentenza n. 138 del 2010).
Sta in ciò, dunque, la ragione del vulnus che, per il profilo in esame, le disposizioni sottoposte al vaglio di costituzionalità arrecano al precetto dell’art. 2 della Costituzione. Tuttavia, non ne è pos¬sibile la reductio ad legitimitatem mediante una pronuncia manipolativa, che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda, poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l’art. 29 della Costituzione Sarà, quindi, compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. E tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell’attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti.
Va, pertanto, dichiarata – in accoglimento, per quanto di ragione, delle sollevate questioni – l’ille¬gittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164, con riferimento all’art. 2 della Costituzione nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzio¬ne di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore.
c) La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo: la convivenza omosessuale co¬stituisce “vita familiare”
L’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo è stato espresso con la sentenza Corte Europea dei diritti dell’uomo, 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria), di poco successiva a quella della Corte costituzionale n. 138/2010, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha affrontato – per la prima volta – la questione se due persone dello stesso sesso “possono affermare di avere il diritto di contrarre matrimonio” (p.50).
Il caso trattato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo riguardava due cittadini austriaci di sesso maschile che avevano chiesto all’ufficio dello stato civile di adempiere le formalità richieste per contrarre matrimonio e, a fronte del rigetto della richiesta, avevano dedotto di essere stati discri¬minati in quanto, essendo una coppia omosessuale era stata loro negata la possibilità di contrarre matrimonio o di far riconoscere la loro relazione dalla legge in altro modo, in violazione della Con¬venzione europea dei diritti dell’uomo, nello specifico degli artt. 12 (Diritto al matrimonio: “Uomini e donne, in età matrimoniale, hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”) e 14 (Divieto di discriminazione: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”).
La Corte ha ritenuto che non vi è stata violazione né dell’art. 12 né dell’art. 14 della Convenzione.
Nonostante il dispositivo di rigetto delle richieste dei ricorrenti, la sentenza contiene importanti novità sull’interpretazione sia dell’art. 12 sia dell’art. 14 della Convenzione.
a) In particolare quanto all’interpretazione dell’art. 12 (diritto al matrimonio) – dopo aver ram¬mentato la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui “l’articolo 12 garantisce il diritto fon¬damentale di un uomo e di una donna di contrarre matrimonio e di fondare una famiglia” la Corte afferma che l’esercizio di questo diritto è soggetto alle leggi nazionali degli Stati contraenti, anche se le limitazioni introdotte in merito non devono limitare o ridurre il diritto in modo o in misura tale da minare l’essenza stessa del diritto” e che si deve tenere conto del contesto storico in cui è stata adottata la Convenzione. Nel 1950 il matrimonio era inteso chiaramente nel senso tradizionale di unione tra partners di sesso diverso”. La Corte non ritiene, perciò, che l’articolo 12 debba essere letto come necessariamente concedente alle coppie omosessuali l’accesso al matrimonio o, in altre parole, come facente obbligo agli Stati membri di prevedere tale accesso nelle loro legislazioni nazionali. A tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra ed afferma di non doversi spingere a sostituire l’opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizio¬ne migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società. In conclusione, la Corte ritiene che “l’art. 12 della Convenzione non obbliga uno Stato a concedere l’accesso al matrimonio a una coppia omosessuale”.
b) Quanto all’interpretazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) la Corte afferma che: “E’ in¬discusso che la relazione di una coppia omosessuale rientri nella nozione di vita privata nell’acce¬zione dell’articolo 8. Tuttavia la Corte ribadisce la sua giurisprudenza radicata in materia di coppie eterosessuali, vale a dire che la nozione di famiglia in base a questa disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio”.
La Corte osserva che dal 2001 ha avuto luogo in molti Stati Membri una rapida evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali. A partire da quel momento un note¬vole numero di Stati Membri ha concesso il riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali. Certe disposizioni del diritto dell’Unione Europea riflettono anche una crescente tendenza a comprendere le coppie omosessuali nella nozione di famiglia” ma è pretestuoso sostenere l’opinione che, a diffe¬renza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la stabile relazione di convivenza omosessuale, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eteroses¬suale nella stessa situazione.
La prima indicazione importante attiene appunto alla questione se il diritto al matrimonio, ricono¬sciuto dall’art. 12 della Convenzione, comprenda anche il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso. La risposta della Corte non lascia adito a dubbi: “Visto l’art. 9 della Carta la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l’art. 12 sia inapplicabile alla doglianza dei ricorrenti. Tuttavia la “garanzia” del diritto ad un matrimonio siffatto è totalmente riservata al potere legislativo degli Stati contraenti della Convenzione e/o membri dell’Unione Europea ed è proprio per questa ragione che la Corte ha potuto affermare che, nel caso sottopostole, “l’art. 12 della Convenzione non faccia obbligo allo Stato convenuto nella specie, l’Austria di concedere l’accesso al matrimonio a una coppia omosessuale come i ricorrenti”.
Corrispondentemente, l’art. 9 della Carta riconosce “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, ma al contempo afferma che questi diritti “sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. E la ragione di questa “separazione” – come emerge nitidamente dalla motivazione della sentenza della Corte Europea – sta nella constatazione delle notevoli ed a volte profonde differenze sociali, culturali e giuridiche, che ancora connotano le discipline legislative del¬la famiglia e del matrimonio dei Paesi aderenti alla Convenzione e/o membri dell’Unione Europea.
La seconda indicazione importante attiene alla questione se la relazione di una coppia omosessuale rientri nella nozione di “vita familiare” nell’accezione dell’art. 8 della Convenzione. Qui la rispo¬sta della Corte è chiarissima: “Data quest’evoluzione sociale e giuridica la Corte ritiene artificiale (pretestuoso) sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omo¬sessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’art. 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”.
Pertanto la Corte europea da un lato afferma che non esiste un obbligo per gli Stati di prevedere il matrimonio tra persone dello stesso sesso e dall’altro, però, afferma chiaramente che due persone dello stesso sesso hanno diritto ad una regolamentazione e ad una tutela giuridica della loro vita privata familiare.
XII La famiglia di fatto dopo la riforma del 2016
La legge 20 maggio 2016, n. 76 ha regolamentato oltre alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, anche le convivenze di fatto (espressione che il legislatore ha scelto di utilizzare al posto di quella di “famiglia di fatto”)
Secondo l’art. 1, comma 36, della legge “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per: «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affet¬tivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Il comma 37 prevede poi che “Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Pre¬sidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”.
La convivenza di fatto (e cioè la “famiglia di fatto”) è stata al centro negli ultimi decenni di una progressiva attribuzione di rilevanza giuridica come formazione sociale (art. 2 Cost.) all’interno della quale vanno garantiti doveri di solidarietà familiare e diritti fondamentali della persona. È af¬fermazione ormai assolutamente pacifica che l’art. 2 della Costituzione e l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo tutelano il diritto alla vita familiare non limitatamente alle relazioni basate sul matrimonio.
Nella stessa legislazione, ancorché in maniera disorganica, sono nel tempo emersi segnali sempre più significativi, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Sotto tale profilo pos¬sono essere per esempio richiamate in primo luogo la riforma della filiazione operata con legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita ogni residua discriminazione tra figli “legittimi” e “naturali”; la legge 8 febbraio 2006, n. 54, che, introducendo l’affidamento condiviso dei figli in sede separazione e divorzio, ha esteso la relativa disciplina ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; la 1egge 19 febbraio 2004, n. 40, che all’art. 5 prevede l’accesso alle tec¬niche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto; la legge 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri, di cui all’art. 408 c.c., per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario, nonché, all’art. 5, prevede, in relazione all’art. 417 c.c., che l’interdizione e l’inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente; la legge 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, estendendo al convivente il regime di protezione contro gli abusi familia¬ri; la legge 28 marzo 2001, n. 149, art. 7, che, sostituendo l’art. 6, comma 4, della legge 4 maggio 1983, n. 184, ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti risulti soddisfatto anche quando costoro abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
La Corte costituzionale già negli anni Ottanta aveva affermato espressamente che l’art. 2 della Co-stituzione è riferibile “anche alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità” (Corte cost., 18 novembre 1986, n. 237).
Anche nella giurisprudenza di legittimità si rinvengono significative pronunce in cui la convivenza di fatto (more uxorio) assume il rilievo di formazione sociale dalla quale scaturiscono doveri di natura sociale e morale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, da cui discendono, sotto vari aspetti, conseguenze di natura giuridica.
Tra le tante si evidenziano, nel solco di un più ampio riconoscimento delle posizioni soggettive sotto il profilo risarcitorio, l’affermazione della responsabilità aquiliana sia nei rapporti interni alla convivenza (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801; Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481), sia nelle lesioni arrecate da terzi al rapporto nascente da un’unione stabile e duratura (Cass. iv. Sez. III, 21 marzo 2013, n. 7128 ; Cass. civ. Sez. III, 16 settembre 2008, n. 23725). In altre pronunce si è attribuita rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di mantenimento o di quello di divorzio (Cass. civ. Sez. 1, 11 agosto 2011, n. 17195 ; Cass. civ. Sez. 1, 12 marzo 2012, n. 3923; Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845; ancora, muovendo dal rapporto di detenzione qualificata dell’unita abitativa, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, si è affermato che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del con¬vivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio (Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214).
La convivenza di fatto “stabile”, nei limiti indicati nel comma 36, determina ipso iure, l’applicazione dello statuto giuridico previsto dalla nuova legge.
Occorre fare una precisazione sull’elemento della convivenza. Innanzitutto la convivenza di fatto (il vivere insieme stabilmente), ancorché per motivi diversi possa naturalmente non essere con¬tinuativa, costituisce un elemento imprescindibile, sebbene naturalmente il legislatore non abbia previsto – né avrebbe certamente potuto prevedere – che alla decisione di vivere insieme possa conseguire un obbligo di coabitazione, simmetricamente a quanto previsto per l’obbligo di coabita¬zione coniugale o nell’unione civile. Pur non avendo un obbligo di coabitazione, tuttavia i conviventi ai quali si applica la nuova legge sono quelli che coabitano insieme e cioè che hanno una medesima dimora abituale nello stesso Comune come chiarisce bene il comma 37. L’elemento della necessa¬ria coabitazione emerge anche da quanto previsto nell’art. 4 del regolamento anagrafico (DPR 30 maggio 1989, n. 223 come modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) dove si precisa, come me¬glio si dirà tra breve, che agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, “coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”.
La stessa giurisprudenza di legittimità ha bene enfatizzato questa condizione di comunanza e di vicinanza affettiva (Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214; Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) affermando che per potersi parlare di convivenza di fatto more uxorio – nello specifico ai fini della tutela possessoria – è necessaria la presenza di una situazione interpersonale di natura affettiva con carattere di tendenziale stabilità, con un minimo di durata temporale e che si esplichi “in una comunanza di vita” e di interessi.
La legge non trova, quindi, applicazione per le persone che si vogliono bene senza convivere stabil¬mente sotto lo stesso tetto. Non trova applicazione per le persone che hanno legami sentimentali o anche rapporti continuativi sessuali, ma che per motivi diversi non decidono di abitare stabilmente insieme. Anche due persone che abbiano un figlio comune e che quindi esercitano la responsabilità genitoriale non sono destinatari delle norme se non convivono stabilmente. La legge si applica a chi decide di “convivere”, cioè di elaborare un progetto di vita che – analogamente al matrimonio o all’unione civile – si fonda sulla decisione di costituire una famiglia (in senso sociologico). Che si tratti, come detto, di eterosessuali o di persone dello stesso sesso non rileva. Ciò che conta è la decisione di “metter su famiglia”.
La necessità della convivenza traspare – come detto – non solo dal nome utilizzato (“conviventi di fatto” e non, per esempio, “coppie” di fatto) ma soprattutto dal riferimento ai fini dell’individua¬zione dell’inizio della “stabile convivenza” agli articoli 4 e 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 che prevedono l’iscrizione all’anagrafe di ogni Comune anche delle convivenze (cioè delle persone legate da vincoli affettivi) e il rilascio delle relative certificazioni anagrafiche. Tuttavia, l’iscrizione anagrafica costituisce solo un elemento probatorio ai fini dell’individuazione dell’inizio della stabile convivenza, mentre i diritti e doveri pre¬visti nella legge scattano unicamente per il fatto di trovarsi in una condizione di convivenza di fatto stabile (anche se la convivenza non risultasse iscritta all’anagrafe). Quindi non esiste secondo la nuova legge nessuna differenziazione giuridica (come avviene invece in altri Paesi) tra convivenze registrate (cioè iscritte all’anagrafe) e convivenze non registrate. La convivenza costituisce un uni¬co fenomeno familiare e non, come si ipotizzava in lontani disegni di legge, un fenomeno scindibile in “convivenze registrate” cui si applicano le norme di tutela e “convivenze non registrate” come luogo sottratto alle garanzie di legge.
Il comma 36 prescrive che la legge trova applicazione solo per le persone conviventi e unite da lega¬mi affettivi di coppia e di reciproca assistenza “non vincolate da rapporti di parentela, affinità o ado¬zione, da matrimonio o da un’unione civile”. Pertanto stando alla definizione testuale della norma, essendo le persone separate ancora considerate unite in matrimonio, nel caso di conviventi di cui almeno uno sia separato, non può trovare applicazione la legge. La convivenza vi sarà ma non avrà le caratteristiche per ricevere la tutela della legge. Perciò le persone separate e le coppie di convi¬venti (ancorché stabili) di cui almeno uno sia separato non sono destinatari della nuova normativa.
Al quesito se la convivenza di fatto costituisca o meno una famiglia risponde in modo affermativo il regolamento anagrafico (approvato con DPR 30 maggio 1989, n. 223 modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) nel cui art. 4 si dà la definizione di “famiglia anagrafica” prevedendo che “agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”.
Tuttavia il regolamento anagrafico risponde a funzioni di tipo classificatorio amministrativo mentre il definire che cosa sia o non sia famiglia è compito del pensiero giuridico. Ebbene si è detto in apertura di questo lavoro che le scienze sociali non riferiscono la famiglia a un modello immutato per tutte le società e per tutte le epoche e che pertanto è anche opportuno per il giurista evitare di addentrarsi in compiti definitori che potrebbero cristallizzare il modello familiare all’interno di un’unica definizione, come ha fatto la nostra carta costituzionale con l’art. 29 della Costituzione. D’altro lato anche alcune acquisizioni delle scienze antropologiche che sembravano acquisite una volta per tutte (come quella che la famiglia si caratterizza per l’organizzazione universale delle sue relazioni basate sulla differenza di genere e sulla differenza generazionale) [E. Sponchiado, Capire le famiglia, Carocci, Roma, 2001] sono messe in crisi dalla pressoché ormai universale regolamentazione del matrimonio o delle unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Molto più ragionevole quindi attribuire alla famiglia il significato minimo di “formazione sociale” (art. 2 Cost.) all’interno della cui definizione non c’è dubbio che trovi posto la “famiglia di fatto” vissuta al di fuori del matrimonio.
XIII La famiglia adottiva (i figli adottivi nella rete parentale degli adottanti)
L’art. 27 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (diritto del minore ad una famiglia) prevede al primo comma che per effetto dell’adozione di minori dichiarati in stato di adottabilità “l’adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti dei quali dei quali assume e trasmette il co¬gnome” mentre l’ultimo comma afferma che “Con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali”.
Si tratta quindi di un’adozione piena – una volta chiamata “legittimante” (terminologia abolita dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 di riforma della filiazione) – in forza della quale il minore cessa i rapporti con la famiglia d’origine ed entra a pieno titolo nella famiglia che lo ha adottato. L’effetto cosiddetto legittimante non consente di definire la nuova famiglia come adottiva ma, appunto, soltanto famiglia.
Di famiglia adottiva si parla, invece, più propriamente con riferimento all’adozione di minori a cui nella legge sopra richiamata si riferisce l’art. 44 (adozione cosiddetta “in casi particolari”) dove si prevede che i minori possono essere adottati anche se non vi è stata dichiarazione di adottabilità: a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. La natura eccezionale di queste situazioni consente alla legge di prevedere che nei casi di cui alle lettere a), c), e d) l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Si tratta quindi di forme di adozione permesse anche alle persone singole.
Per quanto riguarda gli effetti di questo tipo di adozione l’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 – che chiude la parte concernente l’adozione di minori in casi particolari – fa rinvio alle “dispo¬sizioni degli articoli 293, 294, 295, 299, 300 e 304 del codice civile” che si occupano dell’adozione di persone maggiori di età.
Tra queste norme quella che esprime specificamente gli effetti è l’art. 300 c.c. secondo cui “l’adot¬tato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia d’origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge” [sostanzialmente in materia di impedimenti matrimoniali]; il che significa che l’adottato “in casi particolari” ai sensi dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184, ha di fatto due famiglie: quella originaria (biologica) e quella adottiva (affettiva). Anche in giurisprudenza si ammette la pacifica cessazione dell’obbligazione di mantenimento in capo al genitore biologico a seguito di adozione “in casi particolari” (Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1998, n. 978).
L’adottato con questa forma di adozione “in casi particolari” conserva i rapporti con la sua famiglia d’origine e per questo si dice che l’adozione non è piena. Tuttavia, la responsabilità genitoriale sull’adottato ed il relativo esercizio spettano all’adottante o agli adottanti (art. 48). L’adottante ha l’obbligo di mantenere l’adottato, di istruirlo ed educarlo conformemente a quanto prescritto dall’articolo 147 del codice civile.
Lo status del minore adottato con l’adozione “in casi particolari” (che mantiene i rapporti con la famiglia d’origine) non sarebbe, quindi, identico – secondo la normativa sopra richiamata – allo status del minore adottato con l’adozione piena.
Sennonché la riforma della filiazione operata dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha modificato l’art. 74 del codice civile (parentela) che ora risulta così riformulato: “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’in¬terno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti”.
L’effetto di questa nuova formulazione della definizione della “parentela” è che, anche per i minori adottati con l’adozione “in casi particolari”, trova applicazione il principio fondamentale introdotto dalla riforma della filiazione del 2012 secondo cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” (nuo¬vo art. 315 c.c. intitolato “stato giuridico della filiazione”). Pertanto, nonostante la differenza degli effetti, lo status giuridico del minore adottato con l’adozione in casi particolari è il medesimo del minore adottato con l’adozione “legittimante”. Il che non significa che tutti i minori adottati sono diventati figli “legittimi” (dal momento che questa qualificazione distintiva rispetto ai figli “naturali” è venuta meno) ma che tutti i figli (nati dal matrimonio o fuori dal matrimonio ovvero adottati) han¬no lo stesso status giuridico, non essendo più concepibili distinzioni relative, appunto, allo status.
La conseguenza immediata di questa nuova impostazione è che anche per i minori adottati “in casi particolari”, ai sensi dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184, si realizzano gli effetti di parentela nei riguardi dei familiari degli adottanti o dell’adottante. Il vincolo di parentela non sorge nei soli casi di adozione di persone maggiori di età.
La disposizione, quindi, contenuta nel secondo comma dell’art. 304 c.c. (“L’adozione non induce alcun rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato, né tra l’adottato e i parenti dell’adot¬tante…”) è da considerare tacitamente abrogata relativamente all’adozione dei minori di età in casi particolari. Si potrebbe anche dire – ma è la stessa cosa – che per l’adozione in casi particolari dei minori di età è tacitamente abrogato l’art. 55 della legge n. 184/1983 nella parte in cui richiama l’art. 300, secondo comma, del codice civile. Il vincolo di parentela caratterizza perciò ogni tipo di filiazione, con la sola eccezione della filiazione adottiva del maggiorenne.
Al di là dello status unico rimane naturalmente la differenza degli effetti nel senso che l’adozione piena fa cessare ogni rapporto con la famiglia d’origine (art. 27 legge 184/83) a differenza di quanto avviene per l’adozione di minori in casi particolari in cui la responsabilità genitoriale con i connessi obblighi di mantenimento viene ad essere attribuita completamente all’adottante o agli adottanti con la conseguente esclusione (sospensione) quindi di doveri di istruzione, educazione e mantenimento a carico dei genitori biologici del minore.
La sopravvivenza dei rapporti giuridici anche di parentela con la famiglia biologica d’origine (quindi la possibile coesistenza, quando vi siano, di più genitori o di più nonni) costituisce certamente una asimmetria se valutata con riferimento alle regole delle normali relazioni familiari.
XIV Resta famiglia quella dei separati e dei divorziati?
Nella definizione dei confini della famiglia (sia quella “nucleare” che quella “estesa” inclusiva della rete parentale e degli affini) si possono verificare eventi che determinano la cessazione della coa¬bitazione o della convivenza o che, nella famiglia matrimoniale, sciolgono il vincolo matrimoniale, come la morte o l’annullamento del matrimonio o il divorzio.
La separazione dei coniugi o la cessazione della convivenza determinano indubbiamente il ve¬nir meno della condizione che in precedenza connotava la vita di coppia dal punto di vista delle reciproche condizioni soggettive. Con la separazione si attenua il regime primario contributivo (trasformandosi in eventuale obbligazione di mantenimento) e si scioglie il regime secondario pa¬trimoniale mentre con la cessazione della convivenza di fatto viene meno il rapporto di convivenza potendo residuare tra i due ex conviventi una obbligazione alimentare (art. 1, comma 65, della legge 20 maggio 2016, n. 76).
Con lo scioglimento del vincolo (o con l’annullamento del matrimonio o dell’unione civile) la con¬dizione degli ex coniugi o delle ex parti dell’unione civile, cessa del tutto (ex nunc ovvero ex tunc in caso di annullamento). Possono anche in questo caso però residuare obbligazioni di natura eco¬nomica o post divorzili. Con la morte si determina poi l’apertura della successione a beneficio dei soggetti che la legge o il testamento individuano come eredi.
Il problema se, a seguito degli eventi che si sono descritti, viene meno per gli interessati la fa¬miglia, è praticamente un problema quasi del tutto ignorato in dottrina. Qualche accenno si rin¬viene in A. Trabucchi, Natura, legge, famiglia, in Rivista di diritto civile, 1977, I, pag. 1 ss dove si afferma che il significato proprio ed esclusivo della famiglia legittima si manifesta anche in situazioni che sono espressione della natura e della forza del vincolo che essa comporta. Così avviene con il diritto attribuito al coniuge in caso di morte dell’altro coniuge, di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano (art. 540 c.c.) oltre che con i diritti successori. Dopo lo scioglimento del vincolo – afferma Trabucchi in quel lontano contributo – “la famiglia non si dissolve nel nulla, ma sopravvivono situazioni derivate dal vecchio rapporto, come la legittimità della parentela, e tutto ciò che non si può cancellare, come conseguenza della precedente situazione legittima”.
Si è già in precedenza accennato al fatto che il matrimonio connota solo una delle modalità di ac¬cesso alla famiglia, certamente la principale, ma non può essere confuso con essa.
E’ per questo che il principio di indissolubilità è riferito al matrimonio e non alla famiglia. Il ma¬trimonio si può sciogliere (art. 191 c.c.; legge 1° dicembre 1970, n. 898) ma la famiglia non si scioglie di certo. Il giudice pronuncia il divorzio quando “accerta che la comunione spirituale e materiale dei coniugi non può essere mantenuta o ricostituita”. L’esistenza di diritti post-divorzili collegati alle esigenze di solidarietà assistenziale nascenti dal matrimonio testimonia di legami giuridici (di natura soprattutto economica e previdenziale) che permangono dopo lo scioglimento del vincolo. Senza contare che l’affinità non cessa con il divorzio (art. 78 c.c.) e il marito divorziato non potrebbe in nessun caso dopo il divorzio sposare la suocera (art. 84 c.c.).
La famiglia resta, poi, nei suoi legami forti che l’avevano connotata e continuano a connotarla anche dopo la fine del matrimonio, soprattutto se vi sono figli [essenziale è la lettura di E. Scabini – R. Iafrate, Psicologia dei legami familiari, Il Mulino, Bologna, 2003]. Non vi sono limiti alla solidarietà genitori-figli neanche dopo il divorzio. La rete parentale creatasi con il matrimonio o con il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio (art. 258 c.c.) non viene certamente meno con la cessazione del vincolo o con l’annullamento dell’atto che ha dato vita al rapporto). La relazione genitoriale, ove esistente, permane del tutto integra (art. 337-bis e seguenti c.c. e art. 6 della legge sul divorzio). Tutto ciò è sufficiente per ritenere che la famiglia – intesa come rete di relazioni familiari – non si dissolve con la separazione o con la cessazione del vincolo.
Il concetto di famiglia è, come si è visto, un concetto nel quale si sovrappongono aspetti perso¬nali tra le parti e aspetti genitoriali se esistenti. Questi aspetti permangono nel tempo. Nessuna norma di legge definisce il confine della famiglia ma solo quello del matrimonio e nessuna norma, ugualmente, esclude che le relazioni familiari restino tali dopo la cessazione del vincolo o dopo la cessazione della convivenza di fatto.
Il separato e il divorziato restano, perciò, parti della famiglia – intesa come rete di relazioni e le¬gami significativi – anche se non vi siano figli, o non si condivida più la quotidianità o non vi siano obblighi patrimoniali.
XV La famiglia ricostituita
Il tema delle famiglie ricostituite (o ricomposte) (non più del 5%, comunque, di tutti i nuclei fa¬miliari) non è stato finora mai affrontato in sede ordinamentale o giuridica, salvo che nella legge 20 maggio 2016, n. 76 in ordine alle famiglie di fatto costituite successivamente alla cessazione di una precedente esperienza familiare (matrimoniale). Qui l’art. 1, comma 36, della legge, al fine di evitare una sovrapposizione di tutele tra la precedente famiglia coniugale e una successiva convi¬venza di fatto, ha previsto che “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per: «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
La nuova legge trova applicazione, perciò, solo per le persone conviventi e unite da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza “non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Pertanto stando alla definizione testuale della norma, essendo le persone separate ancora considerate unite in matrimonio, nel caso di conviventi di cui almeno uno sia separato, non possono trovare applicazione le tutele per i conviventi di fatto previste dalla nuova legge. La convivenza vi sarà ma non avrà le caratteristiche per ricevere la tutela legale. Per¬ciò le persone separate e le coppie di conviventi (ancorché stabili) di cui almeno uno sia separato non sono destinatari della nuova normativa.
Salvo che in questo caso di vincolo da precedente matrimonio, la famiglia ricostituita è, però, una famiglia vera e propria che si aggiunge a quella originaria.
Ed è proprio con le seconde nozze (o con il successivo matrimonio del vedovo) che si delinea, in genere, questo nuovo modello familiare in cui almeno uno dei coniugi è, appunto al secondo ma¬trimonio. Tuttavia si parla di ricomposizione familiare in genere per alludere soprattutto al fatto in cui i figli nati dalla prima unione sono accuditi da uno dei genitori insieme al suo successivo partner, sposato o meno che sia. La compresenza di più figure “genitoriali”, una sociale e l’altra biologica, pone considerevoli problemi sul piano della regolazione sociale ma anche su quello della regolazione giuridica, considerata la complessità delle sovrapposizioni di più figure adulte e di una vera e propria rete di parentela sociale per il minore. Si tratta perciò di trovare le giuste forme di legittimazione sociale di questo fenomeno: al termine step-family (dove step significa privato, reso orfano) la letteratura sociologica preferisce l’espressione blended-family che allude ad una armonica mescolanza.
Il fenomeno non è sconosciuto nel mondo del diritto in quanto, come si è visto, nel caso di adozio¬ne di maggiorenni o di minori “in casi particolari” “l’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia d’origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge” (art. 300 c.c.). Il che significa che la legge non considera impossibile la sovrapposizione tra due famiglie ai fini successori a favore dell’adottato (art. 304 c.c.) o ai fini della riespansione dello status originario in caso di revoca dell’adozione (art. 305 c.c. e art. 51 della legge 4 maggio 1983, n. 184).
La ricostituzione di una famiglia fondata o meno sul matrimonio – dopo lo scioglimento del vincolo da quella precedente – salvo quando già si è detto in ordine agli effetti patrimoniali, che dovessero permanere, non cancella naturalmente le relazioni familiari connesse alla genitorialità. Ed anzi le problematiche giuridiche della famiglia ricostituita sono proprio soprattutto riferite, come si è det¬to, al rapporto tra i figli e i genitori, quello biologico e quello sociale.
XVI Il danno non patrimoniale alla vita familiare
Nel 2003 per la prima volta una decisione di legittimità (Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828) affermava che il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in con¬seguenza della uccisione di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale, lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 c.c. – senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso -, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
In questa prima decisione è visibile e lucidamente affermata la tutela civilistica della famiglia come tutela di rilievo costituzionale delle relazioni familiari primarie.
Il principio è stato poi ribadito in molte altre decisioni tra cui Cass. civ. Sez. III, 3 maggio 2004, n. 8333, Cass. civ. Sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2557, Cass. civ. Sez. III, 21 marzo 2013, n. 7128 che hanno tutte riaffermato con espressioni identiche lo stesso principio e Cass. civ. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546 che ha parlato di danno parentale (non patrimoniale) per riferirsi allo sconvolgimento delle abitudini di vita con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare, in con¬seguenza dell’irreversibile venir meno del godimento del rapporto personale con lo stretto congiunto nel suo essenziale aspetto affettivo o di assistenza morale (cura, amore) cui ciascun componente del nucleo familiare ha diritto nei confronti dell’altro; aspetto che costituisce espressione di interessi essenziali della persona estrinsecantisi nel diritto all’intangibilità della sfera degli affetti e della reci¬proca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia.
XVII La tutela penale della famiglia
Come si è detto all’inizio la famiglia non è un soggetto giuridico. Il che però non comporta che non sia oggetto di tutela. La tutela penale è tuttavia, meno evidente di quanto non possa ipotizzarsi. Infatti il codice penale riserva l’intero titolo XI ai Delitti contro la famiglia, ma quando si entra nel merito delle singole fattispecie penali ci si accorge che la tutela della famiglia è solo sullo sfondo, quasi simbolica. E tutto ciò, nonostante che nella relazione al progetto definitivo del codice si legge che questa sistematica intendeva dare grande importanza all’ordine familiare tutelando la famiglia intesa come realtà sociale a se stante di cui si vuole assicurare il fondamento, la struttura morale e giuridica, le finalità essenziali. Avevano certamente ragione gli studiosi più attenti a questa siste¬matica ad affermare che in fondo questa allocazione di delitti in uno stesso titolo non ha alcuna va¬lidità scientifica [G. D. Pisapia, Famiglia – Diritto penale, in Nss. Dig. It. VII, Torino, 1961; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, II, Milano, Giuffrè, 1977]. E d’altra parte la stessa concezione, all’epoca del codice penale, della famiglia – come istituzione trascendente i singoli – non era certo quella della famiglia adottata in seguito dalla Costituzione, fondata sul consenso, sul rispetto, sull’uguaglianza dei suoi componenti.
Il titolo XI è suddiviso in quattro capi di cui nessuno specificamente ha di mira la famiglia come bene giuridico tutelato. I delitti contro il matrimonio (contenuti nel capo I) sono la bigamia (art. 556) e l’induzione al matrimonio mediante inganno (art. 558), in quanto l’adulterio (art. 559) e il concubinato (art. 560) sono stati dichiarati incostituzionali. I delitti contro la morale familiare (capo II) sono l’incesto (art. 564) e gli attentati contro la morale familiare commessi col mezzo della stampa periodica (art. 565) I delitti contro lo stato di famiglia (capo III) sono la supposizione o la soppressione di stato (art. 566), l’alterazione di stato (art. 567) e l’occultamento di stato (art. 568). I delitti contro l’assistenza familiare sono la violazione degli obblighi di assistenza (art. 570), l’abuso dei mezzi di correzione (art. 571), i maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572), la sottrazione consensuale di minorenni (art. 573 e 574-bis) e la sottrazione di incapaci (art. 574).
Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio tutte queste fattispecie – contenenti oggettività giuridiche tra loro assai diversificate – né per entrare nel merito delle scelte sanzionatorie del legi¬slatore. Si può, però, osservare che nel loro insieme i reati in questione hanno tutti una evidente plurioffensività essendo il bene giuridico famiglia di fatto mai il bene giuridico leso direttamente. Ad essere tutelate sono, in definitiva, le situazioni giuridiche soggettive dei familiari più che la famiglia in sé. La famiglia nel suo significato simbolico più ampio resta solo sullo sfondo di tutti i delitti sopra richiamati, che colpiscono di volta in volta o una delle modalità di accesso alla vita familiare (il matrimonio o l’unione civile), o una non meglio precisata morale familiare turbata da fatti che producono scandalo (incesto o attentati per mezzo della stampa), o l’alterazione della verità dello status filiationis (delitti contro lo stato di famiglia) oppure le persone più esposte nella vita familiare (violazioni, abusi, maltrattamenti). La plurioffensività è molto evidente, soprattutto in questi ultimi delitti e la giurisprudenza lo ha più volte sottolineato (per esempio Cass. pen. Sez. Unite, 20 dicembre 2007, n. 8413 nel reato di violazione degli obblighi di assistenza familia-re; Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 2004, n. 34522 e Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 nel delitto di maltrattamenti)
Una ricostruzione efficace e sintetica delle teorie sull’oggetto giuridico dei delitti contro la famiglia è contenuta in A. Pezzi, Famiglia, delitti contro la famiglia, Enciclopedia Giuridica, Roma, Treccani, 1989 mentre essenziale resta, anche per un esame moderno e critico delle singole fattispecie, l’ottimo volume a cura di S. Riondato, Diritto penale della famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, Vol. IV, Milano, Giuffrè, 2002.
Il dato che emerge è quindi non tanto l’insufficienza di una tutela penale della famiglia quanto for¬se l’inutilità di una normativa penale che vuole a tutti i costi includere tra i beni giuridici lesi anche la famiglia, senza riuscire in questo ad essere convincente.
L’elemento più significativo è, anche in questo caso, comunque, il progressivo adattamento del sistema penale nel suo complesso ad una concezione della famiglia non ristretta a quella “matri¬moniale”. La dottrina e la giurisprudenza per lungo tempo hanno ritenuto che oggetto della tutela penale fosse soltanto la famiglia fondata sul matrimonio escludendo la rilevanza della famiglia degli affetti. Se si consulta l’opinione di G. Pecorella, Famiglia (delitti contro la), in Enc. dir, XVI, Milano, Giuffrè, 1967, si legge a pag. 790 che il concetto di famiglia adottato dal codice, dovendo corrispondere a quella forma di aggregato che trova un riconoscimento giuridico nel diritto civile, non può che essere solo quello di famiglia legittima. Oggi questa opinione è stata abbandonata, grazie anche alla ricostruzione proposta da molti autori [F. Uccella, La tutela pe¬nale della famiglia, Padova, Cedam, 1984; G. D. Pisapia, Famiglia- Diritto penale, in Nss. Dig. It.- Appendice, III, Torino, Utet, 1982]. Riferimenti essenziali sono contenuti nel volume a cura di S. Riondato, Diritto penale della famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, Vol. IV, Milano, Giuffrè, 2002, già sopra richiamato.
La stessa evoluzione legislativa ha confermato la rilevanza della convivenza di fatto, quale forma della vita familiare, ormai senza alcuna possibilità di ritorno al passato (legge 20 maggio 2016, n. 76). Nell’ambito del sistema penale si è detto della facoltà di astensione dal testimoniare dei prossimi congiunti estesa al convivente di fatto e ai componenti della famiglia adottiva già con la riforma del 1988 del codice di procedura penale (art. 199 c.p.p.). Sintomatico è stato, sempre, il percorso della giurisprudenza sul significato della “famiglia” nei delitti di maltrattamenti, concluso poi dal legislatore, con l’inclusione di qualunque soggetto convivente con l’autore del reato, con le modifiche apportate alla norma dalla legge 1° ottobre 2012, n, 172. Altrettanto significativa è l’inclusione delle persone legate al reo da qualunque tipo di relazione affettiva, tra i soggetti passivi degli atti persecutori (art. 612-bis c.p. inserito dal Decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11 conver¬tito con modificazioni nella legge 23 aprile 2009, n. 38), la previsione dell’aggravante nell’omicidio negli stessi casi (operata dal medesimo Decreto legge) e l’estensione dell’aggravante non solo ai separati o divorziati ma anche a chi è o è stato legato da relazione affettiva alla persona offesa (comma secondo, come sostituito dal Decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modifi¬cazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119.
Già si è visto che, sia pure al fine di escludere la punibilità di gravi comportamenti, la nozione penalistica della famiglia (“prossimi congiunti”) è molto ampia, includendo relazioni familiari che superano i confini della famiglia nucleare (art. 307, ultimo comma c.p.).
Sintomatico è anche il nuovo art. 574-ter (costituzione di un’unione civile agli effetti penali) – in¬serito nel codice penale, nella parte che concerne i delitti contro l’assistenza familiare, dall’art. 1, comma 1, lett. b del D. lgs 19 gennaio 2017, n. 6 a seguito della riforma operata dalla legge 20 maggio 2016, n. 76 – secondo cui “Agli effetti della legge penale il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
FAMIGLIA
Giurisprudenza
Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170 (Foro It., 2014, 10, 1, 2674)
Sono incostituzionali gli art. 2 e 4 L. 14 aprile 1982, n. 164, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore.
Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matri¬monio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimo¬niale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la ri¬conoscibilità di un assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla con¬vivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto.
Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214 (Giur. It., 2013, 12, 2491 nota di FERRETTI)
La. convivenza “more uxorio” determina, sulla casa di abitazione ove si svolge la vita in comune, un potere di fat¬to basato su un interesse proprio distinto rispetto a quello derivante da ragioni di mera ospitalità; ne deriva che l’estromissione violenta o clandestina del convivente dall’unità abitativa, compiuta dal partner, giustifica il ricorso alla tutela possessoria, consentendo l’esperimento dell’azione di spoglio nei confronti dell’altro. La convivenza di fatto, infatti — con il reciproco rispettivo riconoscimento di diritti del partner, che si viene progressivamente consolidando nel tempo, e con la concretezza di una condotta spontaneamente attuata — dà vita, anch’essa, ad un autentico consorzio familiare, investito di funzioni promozionali.
Cass. civ. Sez. III, 21 marzo 2013, n. 7128 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra di per sé un danno risarcibile ex art. 2059 cod. civ. – giacché lede un interesse della persona costituzio¬nalmente rilevante, ai sensi dell’art. 2 Cost. – il pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione. In caso, invece, di relazione prematrimoniale o di fidanzamento che – a prescindere da un rapporto di convivenza attuale al momento dell’illecito – era destinato successivamente ad evolvere (e di fatto si sia evoluto) in matrimonio, il risarcimento del danno non patrimoniale trova fondamen¬to nell’art. 29 Cost., inteso come norma di tutela costituzionale non solo della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, ma anche del diritto del singolo a contrarre matrimonio e ad usufruire dei diritti-doveri reciproci inerenti le persone dei coniugi, nonché a formare una famiglia quale modalità di piena realizzazione della propria vita individuale.
Cass. civ. Sez. 1, 12 marzo 2012, n. 3923 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimo¬nio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto.
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimo¬nio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto; la conseguente cessazione del diritto all’assegno divorzile, a carico dell’altro coniuge, non è però definitiva, po¬tendo la nuova convivenza – nella specie, uno stabile modello di vita in comune, con la nascita di due figli ed il trasferimento del nuovo nucleo in una abitazione messa a disposizione dal convivente – anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza.
Cass. civ. Sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2557 (Nuova Giur. Civ., 2011, 7-8, 1, 656 nota di AMRAM)
Il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un con¬giunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si espri¬me mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla fami¬glia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 cod. pen. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
Corte europea dei diritti dell’Uomo, I sezione, 24 giugno 2010 (Famiglia, Persone e Successioni n. 4/201)
Non costituisce violazione dell’articolo 12 da parte di uno Stato membro la mancata estensione dell’accesso al matrimonio alle coppie costituite da individui dello stesso sesso. Ciò perché, si tratta di un istituto giuridico profondamente connesso alle radici storiche e culturali di una determinata società e rispetto al quale non è ravvisabile un’univoca tendenza negli ordinamenti interni degli Stati membri. Pertanto, rientra nell’ambito della discrezionalità proprio di uno Stato la scelta in merito all’introduzione di una normativa in tal senso, secondo le ragioni di opportunità politica e sociale che ritenga preponderanti.
Considerata l’evoluzione sociale e giuridica è pretestuoso sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’art. 8. Conseguente¬mente la relazione di una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione.
Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 653 nota di GATTUSO)
L’unione omosessuale intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso è da annoverare tra le formazioni sociali a norma dell’art. 2 Cost. cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. È inammissibile la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis c.c in riferimento all’art. 2 Cost. ed all’art. 117 Cost., perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata. La questione è infondata con riferimento ai parametri indi¬viduati negli artt. 3 e 29 Cost. in quanto la nozione di matrimonio riferita alle unioni di persone di sesso diverso non può essere superata per via ermenenutica.
Cass. pen. Sez. Unite, 20 dicembre 2007, n. 8413 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’omessa somministrazione di mezzi di sussistenza, posta in essere nei confronti di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare, non configura un reato unico bensì una pluralità di reati, eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione. Invero, i primi due commi dell’art. 570 c.p. puniscono condotte che, pur assimilabili nel fine unitario di tutela della famiglia e dei rapporti di assistenza in ambito familiare, si differenziano sotto il profilo del bene giuridico tutelato. Più precisamente, la fattispecie punita dal primo comma si pone a tutela della convivenza e dell’unità familiare, di talché, non essendo in tal caso ipotizzabile una protezione differenziata in capo ai vari componenti della famiglia , la sua violazione darà sempre vita ad un reato unico. Al contrario, le condotte incriminate dal secondo comma tutelano, accanto all’unità familiare, anche specifici interessi economici dei singoli, quali il patrimonio del congiunto “debole” (n. 1) o la sopravvivenza economica del medesimo (n. 2), potendo pertanto dare luogo ad una pluralità di reati nel caso in cui le condotte criminose siano realizzate nei confronti di più soggetti della stessa famiglia.
Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24423 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I nonni, ai quali è impedita dai genitori la frequentazione del nipote minorenne, possono adire il giudice minorile per ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 333 c.c., che consenta loro di incontrare il nipote. Sebbene il provvedimento giurisdizionale “innominato” non possa imporre serenità di rapporti del minore con i propri paren¬ti, è compito del giudice minorile intervenire al fine di garantire, nell’interesse del minore, serenità ed equilibrio in detti rapporti.
Cass. civ. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il c.d. danno esistenziale, riparabile ex art. 2059 cod. civ., lo sconvolgimento delle abitudini di vita con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare, in conseguenza dell’irreversibile venir meno del godimento del rapporto perso¬nale con lo stretto congiunto (cosiddetto danno parentale) nel suo essenziale aspetto affettivo o di assistenza morale (cura, amore) cui ciascun componente del nucleo familiare ha diritto nei confronti dell’altro, come per i coniugi in particolare previsto dall’art. 143 cod. civ. (dalla relativa violazione potendo conseguire l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e l’addebitabilità della separazione personale); per il genitore dall’art. 147 cod. civ., e ancor prima da un principio immanente nell’ordinamento fondato sulla responsabilità genitoriale (v. Corte Cost., 13/5/1998, n. 166 ), da considerarsi in combinazione con l’art. 8 legge adoz. (la violazione dell’ob¬bligo di cura o assistenza morale determinando lo stato di abbandono del minore che ne legittima l’adozione); per il figlio nell’art. 315 cod. civ., valorizzabile secondo tale orientata lettura. Tale aspetto, peraltro, costituisce espressione di interessi essenziali della persona estrinsecantisi nel diritto all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia , la quale trova riconoscimento nelle norme di cui agli artt. 2, 29, 30, Cost., con incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute (la cui tutela “ex” art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico) sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo).
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801 (Giur. It., 2006, 4, 691 nota di FRACCON, CARBONE)
Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presup¬posto logico della responsabilità civile, non potendo ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare.
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 2004, n. 34522 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia si estrinseca nel compimento di una pluralità di atti volti a ledere l’integrità fisica e il patrimonio morale del soggetto passivo. L’addebito di assunzione, da parte del prevenuto, del modello di padre famiglia prevaricatore, pur configurando un comportamento deprecabile, se posto in relazione ad un modo di gestire il rapporto familiare oggi improntato ad una sostanziale parità dei coniugi nelle decisioni della vita familiare, mai può costituire ed integrare quella lesione del bene giuridico tutelato dall’art. 572 c.p.
Cass. civ. Sez. III, 3 maggio 2004, n. 8333 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un con¬giunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si espri¬me mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla fami¬glia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 c.c. – senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso -, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 (Famiglia e Diritto, 2004, 195). Tra i fattori capaci di incidere sulla nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico).
Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un con¬giunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si espri¬me mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla fami¬glia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 c.c. – senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso -, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’inco¬lumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia, deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile. (In motivazione, la Corte ha precisato che fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona).
Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1998, n. 978 (Famiglia e Diritto, 1998, 3, 277)
L’obbligo di mantenimento del figlio minore, sancito, nei confronti del padre non affidatario, dalla sentenza di divorzio, cessa per effetto della successiva adozione del predetto minore da parte di un terzo, poiché la potestà sull’adottato, ed il connesso obbligo di mantenimento, giusto disposto degli art. 147 c.c., 48 e 50 l. n. 183 del 1984, spetta, ormai, in via principale, al genitore adottivo ed al di lui coniuge, pur non rivestendo la cessazione dell’obbligo di mantenimento da parte del padre biologico carattere incondizionato ed assoluto, in quanto tale dovere (perdurandone, comunque, il carattere sussidiario) è potenzialmente idoneo a riacquistare attualità nella ipotesi di cessazione dell’esercizio della potestà da parte dell’adottante, ovvero in correlazione con la eventuale insufficienza di mezzi del predetto e del suo coniuge. Ne consegue la legittimità della declaratoria, da parte del giudice del merito, della cessazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento per il figlio minore – obbligo stabilito, in sede di pronuncia di divorzio, a carico del padre non affidatario – qualora il nuovo coniuge della ex moglie (passata a seconde nozze) abbia adottato il minore stesso, e qualora manchi la prova di una situazione di carenza economica della nuova famiglia tale da comportare la reviviscenza, in capo al genitore biologico, dell’obbligo di mantenimento, “in parte qua”, del minore adottato.
Corte cost., 18 novembre 1986, n. 237 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Un consolidato rapporto (come la convivenza more uxorio), ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante se si abbia riguardo al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manife¬stazioni solidaristiche (art. 2 Cost.) e ciò tanto più se vi sia presenza di prole. Siffatti interessi sono indubbia¬mente meritevoli, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione. Tuttavia, nel caso in questione, la eventuale parificazione della convivenza e del coniugio relativamente all’imputato art. 307, quarto comma, c.p., trascenderebbe i ristretti termini del caso, coinvolgendo le altre ipotesi di reato ex art. 384 c.p. e altri istituti, di ordine processuale – la ricusazione del giudice (art. 64, n. 3 e n. 4, cod. proc. pen.), la facoltà di astensione dal deporre (art. 350) la titolarità nella richiesta di revisione delle sentenze di condanna e di connesso esercizio dei relativi diritti (artt. 556, 564) ovvero nella presentazione di domanda di grazia (art. 595) – nonché la disciplina della separazione dei coniugi, con conseguente necessità di apprestare un’esaustiva regolamentazione comportante scelte e soluzioni di natura discrezionale, riservate al solo legislatore, al quale peraltro si rinnova la già espressa sollecitazione a provvedere in proposito. (Inammissibilità della questione di legittimità costituziona¬le, in relazione all’art. 3 Cost., dell’art. 307, comma quarto, cod. pen. e dell’art. 384 cod. pen. (concernenti casi di non punibilità per il reato di favoreggiamento), nella parte in cui non si prevede che la scriminante di cui allo stesso art. 384, possa estendersi al convivente more uxorio).
Corte cost. 27 marzo 1974, n. 82 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 575 c.c. nella parte in cui, in mancanza di figli legittimi e del coniuge del genitore, ammette un concorso tra i figli naturali riconosciuti o dichiarati e gli ascendenti del genitore. Appare evidente l’incostituzionalità della norma nella parte in cui, pur non essendovi prole legittima e coniuge del geni¬tore, ammette un concorso nella successione degli ascendenti del genitore con i figli naturali attribuendo a questi ultimi i due terzi dell’eredità. Questo trattamento, che è diverso da quello riconosciuto ai figli legittimi, i quali conseguono l’intera eredità escludendo dal concorso gli ascendenti, non è giuridicamente giustificato. I diritti ereditari dei figli naturali riconosciuti o dichiarati possono essere legittimamente limitati allorché essi concorrono con i figli legittimi ed il coniuge del genitore, ma non già quando vi siano soltanto gli ascendenti poiché questi – agli effetti qui considerati – non sono membri della famiglia legittima.
Corte cost. 30 aprile 1973, n. 50 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I diritti successori dei figli naturali dichiarati o riconosciuti debbono avere una previsione paritaria rispetto a quella prevista per i figli legittimi anche nel caso di concorso con i soli ascendenti legittimi o con gli ascendenti legittimi e il coniuge. Gli ascendenti legittimi, infatti, non rientrano tra “i membri della famiglia legittima” e, non sussistendo in tali ipotesi incompatibilità con l’art. 30, terzo comma. Cost., l’art. 545 e l’art. 546 c.c. vanno di¬chiarati incostituzionali; conseguentemente l’incostituzionalità si estende anche all’art. 538, all’art. 539 e all’art. 540 dello stesso codice nelle parti in cui richiamano i predetti art. 545 e art. 546.
Corte cost. 14 aprile 1969, n. 79 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 577 c.c., che ammette alla successione “ab intestato” il figlio naturale del figlio del “de cuius”, ma solo se quest’ultimo non lasci né coniuge né parenti entro il terzo grado. La norma ha come presupposto, nel codice, l’assenza di un diritto di rappresentazione del figlio naturale ed è stata emanata, (si dice), “aequitatis causa”, proprio in sostituzione di quel diritto. Perciò, comunque si qualifichi la situazione, l’articolo 577 c.c. è totalmente illegittimo poiché risponde a un sistema successorio che contrasta col diritto di successione del figlio naturale. Infatti, dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 467 c.c., quegli succede o non succede a seconda che non vi siano o vi siano discendenti legittimi del rappresentato; mentre a norma dell’art. 577 c.c.succederebbe o non succederebbe a seconda che non vi fossero o vi fossero coniugi o parenti entro il terzo grado del “de cuius”: il che non si concilia col principio ricavato dal raffronto dell’art. 467 c.c. con l’art. 30 della Costituzione.artt. 467 e 577 del Codice civile: norme di cui l’una attribuisce in generale il diritto di rappresentazione ai soli discendenti legittimi del chiamato, l’altra attribuisce un diritto analogo, nella successione ab intestato, anche al figlio naturale del chiamato, ma soltanto se il de cuius non lasci parenti legittimi entro il terzo grado.

Le spese domestiche sostenute da un coniuge ante separazione non sono rimborsabili

Cassazione civile, sez. VI, 07 Maggio 2018, n. 10927. Est. Lamorgese.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 30 settembre 2013, P.C. conveniva in giudizio, dinanzi al Giudice di Pace di Palermo, la moglie separata, D.F.A., verso la quale chiedeva di rivalersi per la Tarsu del 2012 che egli aveva corrisposto integralmente, mentre tenuta a corrisponderla era la D.F. per l’intera quota dell’imposta relativa a periodo successivo all’assegnazione della casa coniugale di cui era comproprietaria.
La D.F., costituitasi in giudizio, proponeva domanda riconvenzionale per far dichiarare il P. debitore delle somme da essa corrisposte per le utenze familiari relative all’abitazione coniugale, in relazione alle quali eccepiva la compensazione con il credito da lui azionato.
Il Giudice di Pace riteneva che le parti fossero tenute a pagare il debito tributario in via solidale per il periodo precedente alla separazione e che la D.F. fosse unica obbligata per il periodo successivo, in quanto assegnataria ed unica utilizzatrice dell’abitazione; tuttavia, dichiarava il credito Tarsu vantato dal P. compensato con il maggior credito vantato dalla D.F. a titolo restitutorio per le spese da lei sostenute per le utenze domestiche e lo condannava a pagare la differenza.
Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 19 ottobre 2016, ha rideterminato in diminuzione l’importo dovuto dal P. (Euro 641,61) come differenza tra quanto dovuto alla D.F. per la metà delle spese relative alle utenze domestiche e quanto dovuto al P. a titolo restitutorio della Tarsu.
Avverso la predetta sentenza, il P. ha proposto ricorso per cassazione, resistito dalla D.F. con controricorso e memoria.

Motivi della decisione
Con un unico motivo ex art. 360 c.p.c., n. 3 il P. ha imputato al Tribunale di avere disposto la compensazione del suo credito restitutorio per le quote di Tarsu, da lui corrisposte nel periodo successivo all’assegnazione dell’abitazione coniugale, nel quale il debito gravava invece sul coniuge assegnatario, con un insussistente credito restitutorio della D.F., in relazione alle somme da lei spese per le utenze domestiche dell’abitazione coniugale.
Il motivo è fondato per le ragioni che si illustreranno di seguito, dopo avere precisato che l’assegnazione della casa coniugale esonera l’assegnatario esclusivamente dal pagamento del canone, cui altrimenti sarebbe tenuto nei confronti del proprietario esclusivo (o, in parte qua, del comproprietario) dell’immobile assegnato, sicchè la gratuità dell’assegnazione dell’abitazione ad uno dei coniugi si riferisce solo all’uso dell’abitazione medesima (per la quale, appunto, non deve versarsi corrispettivo), ma non si estende alle spese correlate a detto uso (ivi comprese quelle che riguardano l’utilizzazione e la manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’abitazione familiare), le quali sono, di regola, a carico del coniuge assegnatario (Cass. n. 18476/2005). In tal senso la sentenza impugnata è condivisibile.
Con riguardo invece alle spese per le utenze domestiche nella fase precedente alla separazione, non sussiste il diritto al rimborso delle spese sostenute da un coniuge nei confronti dell’altro coniuge, in quanto effettuate per i bisogni della famiglia e riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. (Cass. n. 10942/2015, n. 18749/2004). Da questo principio di diritto la sentenza impugnata si è ingiustificatamente discostata, dovendosi ribadire che nel periodo di convivenza matrimoniale entrambi i coniugi contribuiscono alle esigenze della famiglia, ed anche dei figli, in una misura che verosimilmente corrisponde alle possibilità di ciascuno, coerentemente con quanto previsto dall’art. 316 bis c.c., comma 1.
Le pronunce richiamate nella memoria D.F., prevedendo che il coniuge che abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all’altro coniuge, sia legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest’ultimo per il rimborso (Cass. n. 6819/2017, n. 27653/2011), non si riferisce al caso – come quello in esame – in cui le spese siano state sostenute da entrambi i coniugi per la famiglia e, quindi, anche per i figli, senza possibilità di distinguere tra quelle destinate all’una e agli altri. Il contenzioso postconiugale riguarda gli assetti patrimoniali successivi alla separazione e al divorzio, ma non è un’occasione per rimettere in discussione tutte le voci di spesa sostenute da ciascun coniuge, seppure per i figli, durante il rapporto matrimoniale.
La censura riguardante il governo delle spese di entrambi i gradi di merito è assorbita.
In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata è cassata con rinvio al Tribunale di Palermo, che dovrà fare applicazione dei predetti principi nella concreta fattispecie e provvedere sulle spese.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Palermo, in diversa composizione, anche per le spese.

I beni appartenenti alla comunione legale restano ad essa soggetti anche dopo che i coniugi abbiano deciso di adottare il regime della separazione dei beni

Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4676
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22396-2013 proposto da:
I.D., rappresentato e difeso dall’Avvocato LAURA PITONI, ed elettivamente domiciliato insieme alla stessa in ROMA, VIA EUSTACHIO MANFREDI 21 presso lo studio dell’Avvocato ROBERTO ANTONELLI;
– ricorrente –
contro
P.G., rappresentata e difesa dall’Avvocato FEDERICO FIORAVANTI, ed elettivamente domiciliata insieme allo stesso in ROMA, VIA DELLA BALDUINA 7, presso lo studio dell’Avvocato FRANCESCA CALONZI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3827/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/07/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/12/2017 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi l’Avvocato LAURA PITONI, per il ricorrente, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; e l’Avvocato FEDERICO FIORAVANTI, per la controricorrente, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
I.D. – deducendo di avere contratto matrimonio in data (OMISSIS) con P.G. e di essere addivenuto, con la stessa, a separazione consensuale omologata dal Tribunale di Rieti in data 16 settembre 2003 chiedeva al medesimo Tribunale lo scioglimento della comunione sugli immobili acquistati in regime di comunione legale, e successivamente interessati, con oneri e spese esclusivamente affrontate dall’attore, dalla realizzazione di tre fabbricati che concorrevano a definire, attualmente, il compendio immobiliare oggetto di comunione e di domanda di scioglimento. Chiedeva, quindi, CTU volta alla stima degli immobili e alla determinazione del valore dei fabbricati, mediante assegnazione a sé delle porzioni dei terreni interessate dai fabbricati medesimi, ovvero, alternativamente, per l’ipotesi di accertata indivisibilità, l’assegnazione degli immobili tutti in questione con contestuale obbligo di refusione, in favore della convenuta, di una somma commisurata al valore dei terreni da determinarsi giudizialmente, ovvero ancora, in via ulteriormente gradata, in ipotesi di assegnazione alla P. di porzioni di terreno includenti i fabbricati – ritenuto e dichiarato il credito dell’attore in ordine al valore dei fabbricati – condannare l’assegnataria al relativo pagamento.
Costituitasi in giudizio, la P. deduceva che la realizzazione dei fabbricati sarebbe avvenuta in violazione delle norme che disciplinano la comproprietà e, in specie,dell’art. 1120 cod. civ., configurandosi quindi il suo diritto di ottenerne la demolizione, solo una volta eseguita la quale avrebbe potuto essere riproposta domanda di divisione. Chiedeva pertanto il rigetto della domanda di divisione e l’accoglimento contestuale, della propria domanda riconvenzionale avente ad oggetto la condanna dell’attore ad abbattere i tre manufatti. In via del tutto subordinata, chiedeva dichiararsi, per accessione, la comproprietà anche sui fabbricati, e quindi procedere alla divisione in parti uguali del compendio immobiliare sull’assunto di un paritetico concorso di entrambi i coniugi alla relativa realizzazione.
In ragione delle domande della convenuta, l’attore integrava le proprie conclusioni chiedendo, in via meramente subordinata, nell’ipotesi di accoglimento della avversa domanda di demolizione, di dichiarare la responsabilità della P. per il danno sofferto dall’attore e condannare la stessa al relativo risarcimento in misura corrispondente al valore del fabbricato o delle porzioni di fabbricato da demolire, o ad altra misura maggiore o minore liquidata anche equitativamente.
Con sentenza non definitiva (n. 397/2006) il Tribunale di Rieti accoglieva la domanda riconvenzionale della P., condannando l’I. alla demolizione dei fabbricati eretti sui terreni in comunione, e disponeva procedersi al giudizio di divisione.
Avverso tale sentenza proponeva appello l’I., svolgendo molteplici ed articolare censure, concludenti per una necessaria integrale riforma della impugnata decisione parziale di primo grado. Si costituiva l’appellata che contestava la fondatezza del proposto gravame.
L’adita Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 17 luglio 2012, rigettava integralmente l’appello.
Per la cassazione di tale sentenza I.D. ha proposto ricorso sulla base di sei articolati motivi, illustrati anche con memoria. P.G. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce “vizio di motivazione exart. 360 c.p.c., n. 5: omessa – ovvero meramente apparente – motivazione sul fatto processuale controverso, e decisivo per il giudizio, costituito dalla ricorrenza o meno, nella sentenza di primo grado, del vizio di ultrapetizione (avendo erroneamente il Tribunale accolto la domanda riconvenzionale dell’appellata di demolizione dei fabbricati, formulata dalla stessa solo nell’ipotesi in cui fosse stata accolta la sua opposizione avverso la domanda di divisione proposta dall’appellante) – e comunque di violazione della necessaria corrispondenza tra il chiesto e pronunciato – denunciato dall’appellante con il proprio atto di appello”.
1.1.1. – In subordine, “la violazione ovvero falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, del principio di diritto processuale che vuole corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) in cui è incorsa la sentenza impugnata nel capo con il quale ha ritenuto e dichiarato insussistente il detto vizio nella sentenza di primo grado da essa scrutinata”.
1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., n. 4, per omessa pronuncia sul secondo motivo dell’appello proposto, incentrato sulla eccezione di inapplicabilità, nel caso di specie, e alla stregua della domanda di divisione proposta dall’appellante e dei relativi effetti, processuali e sostanziali, della norma dettatadall’art. 1102 c.c.e a maggior ragione dalla norma dettatadall’art. 1120 c.c.”.
1.2.1. – In subordine, “omessa ovvero meramente apparente motivazione exart. 360 c.p.c., n. 5, per omessa pronuncia sul secondo motivo dell’appello proposto dall’ I., motivo incentrato sull’eccezione di inapplicabilità, nel caso di specie, e alla stregua della domanda di divisione proposta dall’appellante e dei relativi effetti, processuali e sostanziali, della norma dettatadall’art. 1102 c.c.e a maggior ragione della norma dettatadall’art. 1120 c.c.”.
1.2.2. In ulteriore subordine, “violazione ovvero falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, del principio di diritto dedotto e fatto valere col secondo motivo dell’appello proposto dall’ I., motivo incentrato sulla riproposizione dell’eccezione di inapplicabilità, nel caso di specie, e alla stregua della domanda di divisione proposta dall’appellante dei relativi effetti, processuali e sostanziali, della norma dettatadall’art. 1102 c.c.(atteso che in una situazione, quale quella nel caso di specie datasi per effetto della proposizione e dell’accoglimento della domanda di divisione di un bene comune, viene meno il presupposto necessario di applicazione della detta norma costituito, alla luce della lettera e della ratio della norma stessa, dalla persistente comunione del bene”.
1.3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce “vizio di infrapetizione, nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., n. 4, per non aver pronunciato sulla domanda, subordinatamente proposta nel giudizio di appello dall’appellante I., di necessità di decisione nel merito e congiuntamente tanto della domanda di divisione quanto della domanda di demolizione”.
1.3.1. – In subordine “omessa motivazione exart. 360 c.p.c., n. 5, su un fatto processuale controverso e decisivo ai fini del giudizio, fatto costituito dalla necessità, dedotta dall’appellante, sia pure in via subordinata, rispetto ai superiori e assorbenti motivi di gravame, con autonomo motivo di appello, che il giudizio e la relativa decisione di merito fossero estesi, congiuntamente e contestualmente, senza graduazione, tanto alla domanda di divisione quanto alla domanda di demolizione”.
1.3.2. – In ulteriore subordine, “- e per l’eventualità che la giustificazione della decisione di ritenere corretta e conforme a diritto la decisione del giudice di prime cure sull’ordine di priorità dell’esame e decisione della domanda di demolizione rispetto alla domanda di divisione venga rinvenuta nell’assunto che debba ritenersi fatto proprio ed accreditato dalla sentenza di secondo grado, dell’inesistenza di una comproprietà della condividente non costruttrice P. sui fabbricati costruiti dal condividente I. – nullità exart. 360 c.p.c., n. 4, di detto capo motivazionale e decisorio della sentenza di secondo grado, per violazione del giudicato contrario formatosi sul punto sulla contraria statuizione decisoria della sentenza di primo grado”.
1.3.3. – In via ancora ulteriormente subordinata “- e per la denegata eventualità che si ritenga esistente, e, sotto il profilo strettamente processuale, legittimamente cristallizzato, nella sentenza di secondo grado qui impugnata, l’assunto motivazionale e decisorio della inesistenza di una comproprietà della condividente non costruttrice P. sui fabbricati costruiti dal condividente I. per essere inapplicabile a detta fattispecie l’istituto generale dell’accessione exart. 934 c.c.- violazione ovvero falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, del principio di diritto “res solo cedit” sancitodall’art. 934 c.c.e applicabile anche nella fattispecie oggetto di causa di costruzione eseguita su suolo comune da uno soltanto dei comproprietari del suolo”.
1.3.4. – In via ulteriormente gradata, “nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., n. 4, per violazionedell’art. 112 c.p.c.nel capo col quale, disponendo che la divisione del compendio immobiliare comune investa unicamente i terreni e non abbia ad oggetto anche i fabbricati su detti terreni eretti, incorre in violazione del detto principio, che imponendo al giudice di pronunciare “su tutta la domanda”, rende illegittima la decisione resa, circoscritta ad alcuni soltanto, e non a tutti, i beni oggetto di divisione, escludendo dal novero di essi quelli oggetto della disposta demolizione”.
1.3.5. In via ulteriormente gradata, “nullità exart. 360 c.p.c., n. 4, del capo della sentenza di secondo grado recante conferma della condanna di merito alla demolizione dei fabbricati pronunciata dalla sindacata sentenza di primo grado prima ed indipendentemente dalla necessariamente presupposta pronuncia dichiarativa in ordine alla proprietà esclusiva in capo all’uno ovvero all’altro dei condividenti dei fabbricati oggetto di demolizione”.
1.3.6. – In via ulteriormente subordinata, “violazione ovvero falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, del principio di diritto sancitodall’art. 757 c.c.(ed applicabile allo scioglimento anche della comunione non ereditaria in forza e per l’effettodell’art. 1116 c.c., principio che attribuisce natura dichiarativa ed efficacia retroattiva alla sentenza di scioglimento della comunione su un bene immobile, principio che, nel caso di specie, imponeva al giudice di addivenire ad una pronuncia di decisone nel merito tanto della domanda di divisione quanto della domanda di demolizione”.
1.4. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce la “nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., n. 4 per violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato exart. 112 c.p.c.- vizio di infrapetizione – omessa pronuncia sul motivo di appello fondato sull’inapplicabilità alla edificazione controversa oggetto di causa, realizzata da parte di uno solo dei due comproprietari, del regime giuridico proprio degli atti di gestione dei beni comuni dettato dalla disciplina generale relativa alla comunione ordinaria (artt. 1101 c.c.e ss.) e correlativamente sulla applicabilità, a detta fattispecie, della diversa ed incompatibile disciplina (disciplina speciale e di carattere eccezionale) della comunione legale dei coniugi”.
1.4.1. – Subordinatamente “omessa motivazione, exart. 360 c.p.c., n. 5, sul fatto controverso, e decisivo ai fini del giudizio, costituito dall’applicabilità alla fattispecie integrata dai fatti di causa – e cioè all’edificazione controversa ed oggetto di causa realizzata da parte di uno solo dei due comproprietari – del regime giuridico proprio degli atti di gestione dei beni comuni dettato dalla disciplina generale della comunione ordinaria (artt. 1100 e ss. c.c.) ovvero del diverso e incompatibile regime, speciale e di carattere eccezionale, della comunione legale dei coniugi (artt. 177 e ss. c.c.)”.
1.4.2. – In via ulteriormente subordinata “nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., n. 4, per violazione del giudicato formatosi, ai sensidell’art. 346 c.p.c., sul punto, dirimente e risolutivo ai fini della decisione di merito, costituito dalla identificazione della questione di diritto dalla cui soluzione dipende la decisione di merito sulla domanda di demolizione, questione identificata dalla sentenza di primo grado (con statuizione non impugnata e coperta da giudicato) dalla regolamentazione, nei rapporti tra comproprietari, dell’uso della cosa comune fatto da uno solo dei comproprietari e dalla sentenza di secondo grado; dall’applicabilità o meno, nell’ipotesi di costruzione su fondo in comproprietà, da parte di uno solo dei comproprietari, dell’istituto dell’accessione al fine di riconoscere l’acquisizione, in capo al comproprietario non autore della costruzione, della comproprietà dell’edificio”.
1.4.3. – In via ulteriormente subordinata, “violazione ovvero falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, della disciplina di legge applicabile all’edificazione del fondo comune da parte del singolo comproprietario quale fatto controverso ed oggetto di causa: 1) irrilevanza giuridica della questione pregiudiziale di diritto identificata, nella sentenza impugnata, nell’applicabilità o meno della disciplina dell’accessione alla fattispecie dell’edificazione da parte di uno solo dei due comproprietari di un terreno comune, ai fini dell’acquisto della comproprietà del fabbricato in capo al comproprietario del suolo non costruttore; 2) soggezione del caso di specie alla disciplina speciale e di carattere eccezionale dettata per la comunione legale dei beni nei rapporti coniugali (artt. 177 c.c.e ss.) e non alla disciplina (artt. 1100 c.c.e ss.) generale e di carattere ordinario della comproprietà (e tanto meno della disciplina del condominio -artt. 1117 c.c.e ss. – alla quale ha dichiaratamente dato applicazione la Corte d’appello”.
1.4.4.1. – “Error in iudicando nell’identificazione della questione di diritto risolutiva ai fini della decisione di merito”.
1.4.4.2. – “Error in iudicando nell’identificazione del regime giuridico applicabile all’atto di gestione dei beni comuni (edificazione) oggetto di causa”.
1.5. – Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la “nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., n. 4, per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato exart. 112 c.p.c.vizio di infrapetizione – omessa pronuncia sul motivo di appello fondato sulla inesistenza di prescrizione normativa che, avuto riguardo alla edificazione controversa oggetto di causa, realizzata da parte di uno solo dei due comproprietari del suolo, imponga la forma scritta sotto pena nullità per la validità del consenso alla detta edificazione del comproprietario del suolo non costruttore”.
1.5.1. – Subordinatamente, “Omessa ovvero meramente apparente motivazione della sentenza exart. 360 c.p.c., n. 5, quanto alla pronuncia di rigetto dello specifico motivo di appello fondato sulla inesistenza di prescrizione normativa che, avuto riguardo alla edificazione controversa oggetto di causa, realizzata da parte di uno solo dei due coniugi comproprietari del suolo, imponga la forma scritta sotto pena di nullità per la validità del consenso alla detta edificazione del comproprietario del suolo non costruttore”. 1.5.2. – In via ulteriormente subordinata, “violazione ovvero falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, della norma di cuiall’art. 1350 c.c.in relazione alla asserita necessità della forma scritta sotto pena di nullità per la validità del consenso del coniuge comproprietario del suolo non costruttore con riferimento alla edificazione controversa oggetto di causa, realizzata dall’altro coniuge comproprietario del suolo, e ciò tanto nell’eventualità di soggezione di siffatto atto di gestione del bene comune alla disciplina speciale della comunione legale dei coniugi (artt. 177 c.c.e ss.) tanto nell’eventualità di soggezione di detto atto di gestione del bene comune alla disciplina generale ed ordinaria della comunione (art. 1100 c.c.)”.
1.6. – Con il sesto motivo, il ricorrente deduce la “nullità della sentenza, exart. 360 c.p.c., n. 4, per violazionedell’art. 112 c.p.c.- vizio di infrapetizione: omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento danni condizionatamente proposta, nel primo grado di lite, dall’attore I., per l’eventualità di accoglimento della domanda di demolizione nei suoi confronti proposta in via riconvenzionale dalla convenuta P., domanda nuovamente proposta, dall’appellante I., con autonomo e specifico motivo di appello non esaminato e non deciso dalla sentenza di secondo grado qui impugnata”.
2. – Il primo motivo non è fondato.
2.1. – Il ricorrente I. si duole del fatto che l’impugnata sentenza abbia ritenuto infondato il primo motivo d’appello, incentrato sul lamentato vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado, denunciato sull’assunto dell’avere erroneamente il Tribunale accolto la domanda riconvenzionale, formulata viceversa dalla convenuta P. solo nell’ipotesi in cui fosse stata accolta la sua opposizione avverso la domanda di divisione proposta dall’appellante. Secondo la tesi dell’appellante, il Giudice, una volta accolta la domanda di divisione, avrebbe dovuto esaminare non già la riconvenzionale di demolizione dei fabbricati, bensì la domanda subordinata dell’appellata di divisione con assegnazione in parti uguali di terreni fabbricati tra i condividenti.
Tale assunto è basato dal ricorrente su una interpretazione delle conclusioni rassegnate e ribadite dalla controricorrente (che aveva chiesto “in via principale (di) rigettare le domande attrici ed in accoglimento della domanda riconvenzionale condannare l’attore ad abbattere i tre manufatti descritti nell’atto di citazione insistenti sui fondi in comproprietà delle parti”; e “in via subordinata, (di) ritenere e dichiarare che gli immobili edificati si appartengono per accessione ad entrambe le parti, indi procedere alla divisione dei beni in parti uguali ed eventualmente estinguere per compensazione i conseguenti rapporti di dare-avere tra le parti”) secondo la quale la domanda principale proposta dalla P. sarebbe inscindibilmente composta da due capi reciprocamente connessi ed interdipendenti, là dove la richiesta di rigetto della domanda di divisione proposta dall’ I. avrebbe dovuto ritenersi intrinsecamente collegata in senso logico e consequenziale alla richiesta riconvenzionale di demolizione dei fabbricati. Sicché, secondo il ricorrente, il Tribunale (nell’accogliere la domanda di scioglimento, rimettendo sul ruolo la causa per svolgere l’istruttoria a detto esclusivo fine) avrebbe dovuto rigettare la riconvenzionale, essendo come detto le due domande reciprocamente condizionate, interdipendenti ed inscindibili. E non avrebbe potuto e dovuto pronunciare su quella domanda di demolizione espressamente e dichiaratamente proposta solo quale necessario presupposto del rigetto della domanda di divisione; da ciò il lamentato vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il Tribunale.
2.2. – La Corte d’appello ha ritenuto l’infondatezza di siffatto motivo, dichiarando che “nessun vizio di ultrapetizione è rinvenibile nella sentenza impugnata poiché il Tribunale, correttamente, nell’esaminare le varie domande delle parti ha ritenuto prioritario decidere la domanda riconvenzionale, diretta al ripristino del fondo, per poi procedere alla divisione dei terreni di proprietà comune in parti uguali” (pagina 5).
Orbene, è principio consolidato quello secondo cui, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formulazione letterale adottata dalla parte (Cass. n. 26159 del 2014; n. 21087 del 2015), dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonché del provvedimento in concreto richiesto, non essendo condizionato dalla mera formula adottata dalla parte (Cass. n. 5442 del 2006; n. 27428 del 2005). L’interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito (Cass. sez. un. n. 4617 del 2011), il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata avuto riguardo all’intero contesto dell’atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale (Cass. n. 22893 del 2008).
La Corte d’appello di Roma, in stretta coerenza con la formulazione testuale delle domande, ha motivato congruamente e sufficientemente in merito alla correttezza della interpretazione data dal Tribunale alle domande proposte reciprocamente dalle parti, in rapporto anche al fine inequivoco perseguito dalla appellata di ripristinare lo stato del fondo in comunione tra le parti, attraverso la demolizione delle opere su di esso realizzate, per poi procederne alla divisione giudiziale (laddove, in senso contrario, la “sterilizzazione” della domanda riconvenzionale, in tesi non più esaminabile in caso di accoglimento della domanda principale di scioglimento della comunione, si porrebbe in aperta contraddizione col contenuto sostanziale delle pretese azionate dalla appellata, appunto, in via riconvenzionale e subordinata).
Non si configura pertanto né il vizio di difetto di motivazione (exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo anteriore alla riforma di cui alD.L. n. 83 del 2012, applicabile ratione temporis alla fattispecie), che peraltro potrebbe formare oggetto di ricorso per Cassazione solo per quanto attiene all’accertamento ed alla valutazione dei fatti rilevanti per la decisione (Cass. sez. un. n. 22963 del 2014) e non anche per quanto concerne l’interpretazione e l’applicazione delle norme di diritto e la soluzione di questioni giuridiche (ex plurimis Cass. n. 26292 del 2014). Nè il vizio di ultrapetizione (exart. 112 c.p.c.), giacché questo ricorre solo quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili di ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato; mentre al di fuori di tali specifiche previsioni il giudice, nell’esercizio della sua potestas decidendi (anche riguardo alla interpretazione della domanda), resta libero non solo d’individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all’uopo prospettate, bensì di rilevare altresì, indipendentemente dall’iniziativa della controparte, la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva od estintiva di una data pretesa della parte, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge (Cass. n. 12265 del 2003; conf. Cass. n. 6945 del 2007).
3. – Ragioni di priorità logico-giuridica rendono opportuno muovere dall’esame congiunto (per ragioni di connessione) del quarto e quinto motivo di impugnazione (nella sua sopra trascritta ampia articolazione), che appaiono fondati, nei termini che seguono.
3.2. – Col quarto motivo, il ricorrente, nella sostanza, censura l’omessa pronuncia sull’esplicito motivo di appello, finalizzato alla affermazione della inapplicabilità alla edificazione controversa oggetto di causa, realizzata (sul fondo in comunione legale tra coniugi) da parte di uno solo dei due comproprietari, del regime giuridico proprio degli atti di gestione dei beni comuni dettato dalla disciplina generale relativa alla comunione ordinaria (artt. 1101 e ss. c.c.) e correlativamente della applicabilità, a detta fattispecie, della diversa ed incompatibile disciplina (speciale e di carattere eccezionale) della comunione legale dei coniugi (exartt. 180 c.c.e ss.”.
In effetti, della proposizione di tale motivo d’appello formulato avverso l’affermazione del giudice di primo grado in ordine al fatto che (ai sensidell’art. 1102 c.c.) la edificazione dell’opera, “da parte di alcuni soltanto dei partecipanti alla comunione, deve essere accompagnata dal consenso espresso nella necessaria forma scritta, trattandosi di un atto dispositivo di diritti immobiliari” (laddove “in assenza di tale volontà concorde la costruzione determina una incontrovertibile lesione del diritto degli altri comunisti e legittima questi ultimi a richiederne la demolizione”) – viene bensì dato espressamente atto nella impugnata sentenza della Corte d’appello (insieme agli altri spiegati motivi: pagine 4 e 5), che lo sintetizza come segue: “nullità della sentenza per omesso esame circa un punto decisivo della controversia: secondo l’appellante la decisione della domanda di demolizione presupponeva l’esame della normativa applicabile nel caso di costruzione di fabbricati nel rapporto dei coniugi; in tal caso andava esaminata la disciplina dettata per gli atti di gestione compiuti su beni oggetto di comunione legale, che avendo una diversa disciplina non richiede il consenso scritto per rendere valido l’atto di gestione compiuto dall’appellante”. Nonostante ciò, nella motivazione della decisione non si rinviene alcun passaggio argomentativo (neppure per relationem) a doverosa esplicita o anche implicita risposta al detto mezzo di gravame.
3.3. – Appare pacificamente riconosciuto in giudizio che i terreni (sui quali insistono i tre fabbricati in questione) furono acquistati nel 1987 da entrambi i coniugi, in regime di comunione legale dei beni; e che nel 1988 questi mutarono il loro regime patrimoniale scegliendo quello della separazione dei beni, senza tuttavia procedere allo scioglimento della comunione sui beni precedentemente acquistati. Altrettanto incontestato è che dal 1990 in poi il ricorrente ebbe a realizzare i predetti fabbricati, nel tempo utilizzati da entrambi i coniugi senza alcuna contestazione fino alla separazione personale dei medesimi, nel 2003.
Questa Corte (nella diversa, ma in parte speculare fattispecie allora sottoposta alla sua decisione) ha affermato che il passaggio dal vecchio al nuovo regime patrimoniale tra i coniugi (L. n. 151 del 1975,art.228), che individua nella comunione il sistema legale preferenziale, in assenza di un diverso regime convenzionale, non prevede automatismi volti a modificare il regime dei beni acquistati prima della data del 15 gennaio 1978 (termine così modificato dalD.L. n. 688 del 1977,art.1), ma subordina alla concorde volontà delle parti il nuovo assetto. Pertanto, la precedente comunione convenzionale, che sussista tra i coniugi al riguardo di un bene, non si trasforma in comunione legale, ma continua ad essere disciplinata dagliartt. 1100 c.c.e ss. ove non venga posta in essere la convenzione prevista dall’art. 228 cit. e così manifestata una specifica volontà dei coniugi (Cass. n. 2183 del 1991, che precisa, altresì, come il legislatore con tale disposizione abbia contemperato l’esigenza di estendere per il futuro il criterio preferenziale anche alle famiglie già costituite, salva la difforme volontà di uno solo dei coniugi, con il rispetto dell’autonomia e degli assetti dei medesimi realizzati in un tempo in cui esisteva nell’ordinamento la comunione quale regime legale dei rapporti patrimoniali, subordinando alla concorde volontà delle parti la sottoposizione di detti assetti al nuovo sistema).
Quello che rileva dalla decisione (al di là della già evidenziata diversità della fattispecie) è il principio generale secondo cui, ai beni acquistati in un previgente regime patrimoniale, continuino ad applicarsi (salva diversa volontà dei coniugi) le norme proprie di siffatto regime e non quelle del successivo e sopravvenuto regime coniugale. Il che significa che, nel caso in oggetto, il fondo acquistato dai coniugi in comunione legale dei beni continua a mantenere il suo specifico assetto giuridico, fino allo scioglimento della comunione, anche se successivamente detto regime muti, per volontà dei medesimi, in quello di separazione dei beni. In particolare, questa Corte osserva che la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi permane sino al momento del suo scioglimento, per le cause di cuiall’art. 191 c.c., allorquando i beni cadono in comunione ordinaria e ciascun coniuge, che abbia conservato il potere di disporre della propria quota, può liberamente e separatamente alienarla, essendo venuta meno l’esigenza di tutela del coniuge a non entrare in rapporto di comunione con estranei (Cass. n. 8803 del 2017).
3.4. – Ciò determina evidentemente che, in diritto, il regime di comunione legale tra i coniugi, sussistente al momento dell’acquisto del fondo, e mantenuto (per il pregresso) nonostante la successiva separazione dei beni, fa sì che la questione della edificazione del fondo medesimo debba essere affrontata e risolta sula base delle disposizioni speciali di cui agliartt. 180 c.p.c.e ss. e non già di quelle disciplinanti la comunione ordinaria.
In particolare,l’art. 180 c.c.dispone che “L’amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi” (comma 1). “Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi” (comma 2). Il successivoart. 181 c.c.prevede che “Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione o per gli altri atti per cui il consenso è richiesto, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione nel caso in cui la stipulazione dell’atto è necessaria nell’interesse della famiglia o dell’azienda che a norma dell’art. 177, lett. d) fa parte della comunione”. Infine,l’art. 184 c.c.sancisce che “Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art. 2683” (comma 1). “L’azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Se l’atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione l’azione non può essere proposta oltre l’anno dallo scioglimento stesso” (comma 2). “Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel comma 1, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro è obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostituire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione” (comma 3).
3.5. – E’ del tutto evidente che, nella specie, la realizzazione da parte di uno solo dei coniugi dei tre fabbricati sul fondo in comunione legale, debba essere configurato quale atto eccedente l’ordinaria amministrazione, il compimento del quale spetta congiuntamente ad entrambi i coniugi (ai sensi del secondo commadell’art. 180 c.c.); e che l’eventuale mancanza di necessario consenso dell’altro coniuge si traduce in vizio di annullabilità dell’atto (art. 184 c.c., comma 1), da farsi valere in giudizio entro un anno dalla data in cui questo è venuto a conoscenza dell’atto (ovvero da quando l’atto sia stato trascritto, o da quando si sia sciolta la comunione:art. 184 c.c., comma 2).
Orbene, nella specie, non solo non risulta esser stata azionata, nel termine annuale, la domanda di annullamento dell’atto eccedente l’ordinaria amministrazione del fondo in comunione, ma soprattutto non si rinviene in alcun modo che la controricorrente, nei circa 13 anni intercorsi tra l’inizio dei lavori di costruzione e la separazione personale, abbia in qualche modo appalesato (neppure implicitamente ovvero per fatti concludenti) il proprio dissenso rispetto alla edificazione del fondo. Laddove – in virtù del principio di libertà delle forme ed in mancanza di espressa previsione normativa, tanto più in considerazione dell’ambito di incidenza degli effetti, tutti interni rispetto allo svolgimento del rapporto di comunione legale, esclusivo dei coniugi – il consenso di cuiall’art. 181 c.c. non necessita di forma scritta.
In una comunione legale tra i coniugi, costituente una comunione senza quote, nella quale i coniugi stessi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto i beni di essa (e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei) il consenso dell’altro coniuge, quale negozio unilaterale autorizzativo (senza vincolo di forma) che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene, rappresenta dunque un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione (non solo nei confronti dei terzi, ma) innanzitutto nei riguardi dei coniugi stessi (Cass. n. 14093 del 2010; cfr. altresì Cass. n. 284 del 1997; e n. 16177 del 2001).
4.1. – Si rende pertanto necessaria la cassazione della sentenza per un nuovo esame da parte del giudice di rinvio che si atterrà ai citati principi di diritto e colmerà le lacune motivazionali evidenziate.
4.2. – Le considerazioni che precedono (con riferimento all’accoglimento del quarto e del quinto motivo, in partibus quibus) assorbono logicamente l’esame dei motivi secondo, terzo, e sesto, incentrati (nelle loro molteplici articolazioni subordinate) rispettivamente sulla inapplicabilità, nel caso di specie, degliartt. 1102 e 1120 c.c., ovvero subordinatamente dell’accessione exart. 934 c.c.; sulla mancata pronuncia in ordine alla domanda di necessità di decisione nel merito e congiuntamente tanto della domanda di divisione quanto della domanda di demolizione; sulla omessa pronuncia in merito alla domanda di risarcimento danni condizionatamente proposta, per l’eventualità di accoglimento della domanda di demolizione nei suoi confronti proposta in via riconvenzionale dalla convenuta P..
4.3. – Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Roma, provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto ed il quinto motivo di ricorso, nei termini indicati in motivazione; rigetta il primo motivo, e dichiara assorbiti i motivi secondo, terzo e sesto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 dicembre 2017.

Determinazione dell’importo del mantenimento – In modifica di provvedimento definitivo emesso in diverso giudizio – Efficacia retroattiva dalla data della domanda

Cassazione civile, sez. I, 04 Maggio 2018, n. 10788. Est. De Chiara.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
Con la sentenza di separazione dei coniugi sig.ri S.M. e P.P. era stato determinato un contributo a carico del primo di Euro 300,00 mensili per il mantenimento di ciascuna delle due figlie della coppia, conviventi con la madre.
Nel successivo giudizio di divorzio il Tribunale di Rimini, in sede di definizione delle questioni economiche dopo la sentenza di scioglimento del matrimonio, determinò in Euro 550,00 mensili, oltre il 50 % delle spese straordinarie, il contributo per il mantenimento della figlia C. dovuto dal padre alla madre, dichiarando cessato l’obbligo del contributo relativo alla figlia B., divenuta economicamente autosufficiente (peraltro già a decorrere dal luglio 2013 il giudice istruttore aveva disposto il versamento diretto alla stessa del contributo).
Adita con appello principale dalla sig.ra P., che insisteva per l’aumento del contributo per il mantenimento della figlia C. ad Euro 700,00 mensili, oltre al 50 % delle spese straordinarie, con decorrenza dalla domanda (proposta con la memoria di costituzione nel giudizio di divorzio depositata il 16 maggio 2007), e con appello incidentale del sig. S., che chiedeva la revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla ex moglie, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato il primo gravame ed ha accolto il secondo (la stessa sig.ra P. aveva dichiarato di non essere più interessata all’assegnazione della ex casa coniugale).
La Corte ha confermato la statuizione del Tribunale relativa alla decorrenza dell’aumento del contributo per la giovane C. dalla data della sentenza di primo grado (2 luglio 2014), anzichè dalla data della domanda, per le medesime ragioni indicate dal Tribunale, da essa individuate nel richiamo di Cass. 18538/2013, la quale fa derivare dal carattere determinativo della sentenza sul contributo l’impossibilità della stessa di “operare per il passato, per il quale continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agli artt. 708 e 709 c.p.c.”.
La sentenza di appello ha inoltre negato il diritto dell’appellante principale all’aumento del contributo rispetto all’ultima determinazione in Euro 400,00 mensili per ciascuna figlia, oltre alla metà delle spese straordinarie, operata in costanza di separazione dalla medesima Corte d’appello di Bologna con provvedimento del 21 giugno 2007, emesso in sede di reclamo ai sensi dell’art. 710 c.p.c., sul diniego di modifica delle condizioni della separazione stessa da parte del Tribunale; e ciò perchè non era stato allegato alcun rilevante mutamento delle circostanze di fatto in base alle quali era stato emesso tale ultimo provvedimento determinativo, nè comunque era stato provato alcunchè “in ordine alla capacità reddituale dell’ex coniuge, asseritamente di molto maggiore rispetto a quella risultante dalle sue dichiarazioni dei redditi”.
La sig.ra P. ha proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, illustrati anche con memoria. Il sig. S. si è difeso con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, la ricorrente censura la statuizione relativa alla decorrenza dell’aumento del contributo per il mantenimento della figlia C., sostenendo che tale decorrenza non coincide con la data di emissione della sentenza, ma, in ossequio al principio che la durata del processo non può andare a pregiudizio della parte che ha ragione, retroagisce alla data della domanda o comunque alla data del venire in essere delle ragioni giustificative dell’aumento.
1.1. Il motivo è fondato.
Il richiamo della Corte d’appello a Cass. 18538/2013 ed al principio, in essa enunciato, secondo cui la nuova determinazione del contributo con la sentenza non può operare per il passato, per il quale invece continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agli artt. 708 e 709 cod. proc. civ., non è appropriato. Tale precedente, infatti, riguarda il rapporto tra le statuizioni della sentenza e quelle dei provvedimenti provvisori emessi dal giudice nel corso del medesimo processo. Nel caso che ci occupa, invece, la determinazione del contributo per il mantenimento della giovane C. non è stata oggetto, prima della sentenza, di alcun provvedimento provvisorio ai sensi dei richiamati artt. 708 e 709, bensì di provvedimenti determinativi definitivi adottati all’esito di giudizi diversi dal presente giudizio di divorzio, ossia il giudizio di separazione e quello di modifica delle condizioni della separazione ai sensi dell’art. 710 c.p.c.. Tali provvedimenti sono pacificamente modificabili nel successivo, distinto processo di divorzio, nel quale trova piena applicazione il principio della decorrenza delle statuizioni della sentenza dalla data della domanda, in ossequio all’esigenza che la durata del giudizio non pregiudichi la parte che ha ragione, conformemente alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., fra le molte, Cass. 3348/2015, 19382/2014, 10119/2006, 21087/2004, tutte in tema di contributo al mantenimento dei figli).
Peraltro, sempre secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, soltanto nel caso in cui, con la sentenza, venga escluso l’assegno in favore del coniuge, già riconosciuto in via provvisoria ai sensi dell’art. 708 c.p.c., o sia ridotto l’ammontare dello stesso, è prevista la salvezza degli effetti di tale determinazione provvisoria, in considerazione della natura cautelare di questa funzionale al diritto al mantenimento del coniuge beneficiario (Cass. 2411/1980, 5384/1990, 9728/1991, 8977/1993, 3415/1994).
Va pertanto affermato che gli effetti della sentenza, emessa in sede di definizione delle questioni economiche relative al divorzio, modificativa dell’ammontare – già determinato con precedente provvedimento definitivo emesso in sede di separazione o di modifica delle condizioni economiche della separazione – del contributo di uno degli ex coniugi per il mantenimento dei figli collocati presso l’altro ex coniuge, retroagiscono alla data della domanda o comunque alla data, se successiva, del verificarsi delle ragioni giustificative della modifica.
Va inoltre rilevato che nella specie la domanda di determinazione del contributo per il mantenimento dei figli è stata proposta, nel giudizio di divorzio, con la memoria di costituzione della sig.ra P. davanti al Tribunale il 16 maggio 2007, data anteriore a quella dell’ultima determinazione del medesimo contributo in sede di separazione, effettuata con il provvedimento del 21 giugno 2007 emesso in sede di reclamo nel procedimento ai sensi dell’art. 710 c.p.c., di cui si è detto in narrativa. Tuttavia la decorrenza della nuova determinazione del contributo in sede di divorzio, tendenzialmente coincidente con la data della domanda per quanto si è appena detto, non può essere anteriore alla determinazione del medesimo contributo con il richiamato provvedimento dl 21 giugno 2007, che ha carattere definitivo e può essere modificato soltanto per l’avvenire, al verificarsi dei necessari presupposti.
2. Con il secondo motivo di ricorso, denunciando violazione di norme di diritto, si contesta che, ai fini della rideterminazione del contributo per il mantenimento della prole, in sede di divorzio, sia necessario il mutamento delle condizioni fattuali precedenti, essendo tale contributo modificabile in ogni momento.
2.1. Il motivo è inammissibile.
La statuizione censurata, infatti, è stata assunta dalla Corte d’appello al fine di respingere la domanda di ulteriore aumento del contributo per il mantenimento della giovane C.. Sennonchè il rigetto di tale domanda è retto, nella sentenza impugnata, da due autonome rationes decidendi: quella appena indicata e quella secondo cui “comunque” l’appellante principale non aveva fornito la prova della “capacità reddituale dell’ex coniuge, asseritamente di molto maggiore rispetto a quella risultante dalle sue dichiarazioni dei redditi”.
Questa seconda ratio non viene censurata dalla ricorrente, con la conseguenza che anche l’eventuale accoglimento della censura rivolta alla prima, sollevata con il motivo in esame, non sarebbe sufficiente per cassare la decisione di rigetto della domanda, la quale continuerebbe a reggersi sulla ratio non censurata; sicchè il motivo in esame è privo di decisività.
3. Inammissibili, per la stessa ragione, sono anche il terzo e il quinto motivo di ricorso, con i quali la ricorrente lamenta che non si sia tenuto conto, rispettivamente, del decorso del tempo e della revoca dell’assegnazione in suo favore della casa coniugale, quali nuove circostanze sopravvenute che avrebbero giustificato la modifica della misura del contributo per il mantenimento della figlia C..
4. Il quarto motivo di ricorso, con il quale si invoca la decorrenza della nuova misura del contributo al mantenimento della figlia quantomeno dall’anno 2008 (epoca alla quale risale l’accertamento dei redditi dell’obbligato da parte del Tribunale), è assorbito dall’accoglimento del primo motivo.
5. In conclusione, in accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale si atterrà ai principi di diritto enunciati negli ultimi due capoversi del paragrafo 1.1, che precede, e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibili il secondo, il terzo e il quinto e assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

L’erogazione dell’indennità di maternità al padre adottivo deve essere riconosciuta anche nel caso in cui la madre abbia rinunziato a detta prestazione

Corte cost., 23 maggio 2018, n. 105
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt.70e72delD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo15dellaL. 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente alle modificazioni apportate dalD.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80( Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo1, commi 8 e 9, dellaL. 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dalla Corte d’appello di Trieste, nel procedimento instaurato da A. C. nei confronti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, con ordinanza del 9 febbraio 2017, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di costituzione della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense;
udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
udito l’avvocato Massimo Luciani per la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.
1.- Con ordinanza del 9 febbraio 2017, iscritta al n. 88 del registro ordinanze del 2017, la Corte d’appello di Trieste ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt.70e72delD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo15dellaL. 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente alle modificazioni apportate dalD.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80(Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo1, commi 8 e 9, dellaL. 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui “vietano in sostanza l’erogazione dell’indennità di maternità al padre adottivo anche nel caso in cui la madre abbia rinunziato a detta prestazione”.
Il giudice a quo prospetta la violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, 29, primo comma, 31, primo e secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848e agli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.- La Corte rimettente espone di dover decidere sull’appello proposto da un avvocato iscritto alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, che ha chiesto alla Cassa professionale il riconoscimento dell’indennità di maternità in riferimento all’adozione internazionale di tre minori stranieri e ha dedotto, a fondamento della richiesta, che la moglie ha rinunciato espressamente all’indennità di maternità di sua spettanza.
La richiesta è stata respinta dalla Cassa professionale, con provvedimento confermato dalla sentenza impugnata del Tribunale ordinario di Pordenone, in funzione di giudice del lavoro, sul presupposto che la sentenza di questa Corte n. 385 del 2005, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt.70e72delD.Lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non prevedono che spetti al padre, in alternativa alla madre, percepire l’indennità di maternità, si configuri come “sentenza additiva di principio” e non sia autoapplicativa.
La Corte rimettente, nella disamina delle ragioni di gravame, muove dalla premessa che il padre possa godere dell’indennità di maternità, in sostituzione della madre, nelle sole ipotesi tassativamente definite dall’art. 70 e, per i casi di affidamento e di adozione, dall’art.72delD.Lgs. n. 151 del 2001, che a sua volta rinvia alle disposizioni del citato art.70D.Lgs. n. 151 del 2001e non prevede l’ipotesi della rinuncia della madre.
Anche l’art. 70, comma 3-ter, delD.Lgs. n. 151 del 2001, aggiunto dalD.Lgs. n. 80 del 2015e peraltro ratione temporis inapplicabile a una richiesta risalente al 2012, avrebbe contemplato le sole ipotesi della morte, della grave infermità della madre, dell’abbandono, dell’affidamento esclusivo al padre, senza includere la fattispecie della rinuncia della madre.
Il giudice a quo argomenta che, con riguardo ai congedi disciplinati dagli artt.28e31delD.Lgs. n. 151 del 2001, la posizione dei genitori è paritaria, in quanto il padre può goderne quando la madre non abbia avanzato la relativa richiesta.
La medesima esigenza di trattamento uniforme dei due genitori si ravviserebbe anche nel caso dell’adozione, “in cui la situazione dei genitori è assolutamente paritaria dal momento, come qui, di ingresso dei figli adottivi in famiglia che costituisce come evidente il momento di partenza della nuova vita familiare”. Nell’ipotesi dell’adozione, difatti, l’indennità di maternità non perseguirebbe una funzione di tutela della salute della madre: rivestirebbe rilievo preminente la finalità di garantire al fanciullo “un’assistenza completa … nella delicata fase del suo inserimento in famiglia” e dovrebbe essere salvaguardata la libertà dei genitori di scegliere “chi debba assentarsi dal lavoro per assistere il bambino”.
1.2.- L’assetto delineato dal legislatore contrasterebbe con l’art. 3, primo e secondo comma, Cost., in quanto, nell’ipotesi di adozione, dovrebbe essere garantita la parità di trattamento dei genitori con riguardo alla fruizione dell’indennità di maternità, così come avviene per i congedi previsti dall’art. 31 del D.Lgs. n. 151 del 2011, che attribuisce al padre il diritto al congedo, quando non sia richiesto dalla madre. Nel caso di specie, non si ravviserebbe alcuna ragione “per una tutela diversificata della sola figura materna”.
Il rimettente denuncia, inoltre, la violazionedell’art. 29, primo comma, Cost.e argomenta che il diniego dell’indennità di maternità, soprattutto nell’ipotesi di “contestuale ingresso in famiglia … di tre figli minori adottivi” pregiudicherebbe il “valore costituzionale del disposto dell’art. 29 I comma Cost. in materia di diritti della famiglia” e precluderebbe “una ragionevole e paritaria soluzione al caso in oggetto”.
La disciplina censurata sarebbe lesiva dell’art. 31, primo e secondo comma, Cost., che protegge “la maternità e l’infanzia e, in termini più estesi, la condizione di genitore” “anche con misure economiche e provvidenze”. Invero, il diniego dell’indennità di maternità pregiudicherebbe “la formazione di una famiglia, o come qui il suo incremento, … e l’adempimento dei compiti genitoriali”.
Le disposizioni censurate, nel determinare un trattamento deteriore per il genitore adottivo, si porrebbero in contrasto anche conl’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 12 e 14 della CEDU e agli artt. 21 e 23 della CDFUE. Sarebbero violati, in particolare, il “diritto a contrarre matrimonio ed a fondare una famiglia” (art. 12 della CEDU), il principio “di non discriminazione per ragioni di sesso” (artt. 14 della CEDU e 21 della CDFUE), il principio di “parità fra uomo e donna in materia di lavoro, retribuzione ed occupazione” (art. 23 della CDFUE).
2.- Con atto depositato l’11 luglio 2017, si è costituita la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, e ha chiesto di dichiarare inammissibili e comunque infondate le questioni di legittimità costituzionale proposte dalla Corte d’appello di Trieste, con argomentazioni riprese anche nella memoria illustrativa depositata in vista dell’udienza.
2.1.- In punto di ammissibilità, la Cassa forense osserva che l’ordinanza di rimessione sarebbe carente di motivazione sul profilo della rilevanza e non descriverebbe in modo esauriente la fattispecie concreta, soprattutto per quel che attiene alla posizione assicurativa della moglie del ricorrente.
L’inammissibilità si riscontrerebbe anche sotto un ulteriore profilo. A fronte di vicende risalenti al 2012, il rimettente si limiterebbe a menzionare le disposizioni delD.Lgs. n. 151 del 2001, senza chiarire se si tratti della formulazione successiva o precedente alla novella del 2015, e indicherebbe soltanto per relationem il contenuto della disposizione censurata, attraverso il mero richiamo all’interpretazione offerta in primo grado.
Nella memoria illustrativa la difesa della Cassa professionale formula un’ulteriore eccezione di inammissibilità per aberratio ictus e rileva che, in base alla disciplina applicabile ratione temporis alle lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata (art.64, comma 2, delD.Lgs. n. 151 del 2001), il nucleo familiare del ricorrente avrebbe potuto fruire dell’indennità di maternità, commisurata a cinque mensilità, ma non avrebbe potuto beneficiare della “flessibilità nella prestazione (o meno) dell’attività lavorativa nel periodo dell’erogazione dell’indennità”.
Il rimettente, pertanto, avrebbe dovuto censurare l’art.64delD.Lgs. n. 151 del 2001, nella versione applicabile alla vicenda controversa, nella parte in cui esclude tale flessibilità nella prestazione, consentita soltanto a far data dall’entrata in vigore dell’art.13, comma 1, dellaL. 22 maggio 2017, n. 81(Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato), che ora concede l’indennità di maternità alle lavoratrici iscritte alla gestione separata a prescindere dalla effettiva astensione dall’attività lavorativa.
Anche la motivazione in punto di non manifesta infondatezza, con particolare riguardo alle disposizioni della CEDU e della CDFUE, sarebbe lacunosa. Il giudice a quo avrebbe richiamato in modo apodittico una pluralità di parametri costituzionali eterogenei, senza far luce sulle ragioni del contrasto della disposizione censurata con i precetti invocati.
Lacunosa e ambigua sarebbe anche l’individuazione del petitum, in quanto il rimettente non avrebbe specificato il verso dell’addizione richiesta alla Corte e non ne avrebbe chiarito il carattere costituzionalmente imposto.
La questione sollevata sarebbe inammissibile anche per l’omessa sperimentazione di un’interpretazione conforme a Costituzione. Il giudice a quo avrebbe trascurato di esplorare una diversa interpretazione del dato normativo, così da riconoscere al ricorrente “a causa della rinuncia della moglie, l’indennità di maternità spettante a quest’ultima, estendendo al libero professionista il trattamento del lavoratore autonomo”. Nella memoria illustrativa, si lamenta che il rimettente non abbia approfondito la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice, che sancisca il diritto del ricorrente di percepire l’indennità di maternità dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e non già dalla Cassa forense.
2.2.- La questione, nel merito, non sarebbe fondata.
Non sarebbe appropriato il richiamoall’art. 29, primo comma, Cost., che tutela la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, e all’art. 31, primo e secondo comma, Cost. L’ordinamento, nella vicenda in esame, avrebbe riconosciuto all’altro coniuge il beneficio dell’indennità di maternità, preordinato “ad agevolare l’inserimento dei minori nell’ambiente familiare”, e avrebbe così già apprestato provvidenze efficaci per la tutela della famiglia.
Neppure il richiamo alla Carta di Nizza sarebbe pertinente, in quanto i diritti fondamentali che essa garantisce sarebbero provvisti di forza precettiva, solo quando una normativa nazionale rientri nell’àmbito di applicazione del diritto dell’Unione. Tale ipotesi non ricorrerebbe nel caso di specie.
La disposizione censurata non recherebbe alcun vulnus al “diritto a contrarre matrimonio ed a fondare una famiglia” (art. 12 della CEDU) e non determinerebbe alcuna discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Convenzione (art. 14 della CEDU).
La sentenza n. 385 del 2005, addotta dal rimettente a sostegno delle censure di violazionedell’art. 3 Cost., demanderebbe comunque al legislatore “il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela”.
IlD.Lgs. n. 80 del 2015, nell’estendere e nel differenziare le tutele già accordate dalD.Lgs. n. 151 del 2001, avrebbe concesso al padre libero professionista di accedere al beneficio dell’indennità di maternità quando la madre libera professionista non sia in grado di assistere il minore. Sarebbe stata così completata e rafforzata la “rete di solidarietà”, che assicura in ogni caso la presenza di una “figura genitoriale in grado di accudire il minore, sgravata dalle incombenze del lavoro (dipendente o libero professionale)”.
Sarebbe ininfluente il fatto che “in via ordinaria il legislatore incardini nella figura femminile della coppia il beneficio legato alla maternità”, poiché, nell’essenziale prospettiva della tutela del minore, nella specie efficacemente salvaguardata, “eventuali profili differenziali nel trattamento delle due figure genitoriali sono irrilevanti”.
Non sarebbe meritevole di tutela la pretesa di scegliere arbitrariamente, per ragioni di mero calcolo economico, il soggetto chiamato a beneficiare dell’indennità di maternità, tanto più che le libere professioniste e i liberi professionisti “non sopportano l’astensione obbligatoria dal lavoro”.
L’odierna disciplina, novellata nel 2015, non presenterebbe, pertanto, i profili di illegittimità costituzionale denunciati dal rimettente in riferimentoall’art. 3 Cost.
Quanto alla disciplina previgente, già dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 385 del 2005, la Corte non potrebbe che pronunciare una nuova sentenza additiva di principio, ugualmente sprovvista di immediata efficacia applicativa. Sarebbe necessaria l’interposizione del legislatore, per definire le modalità di erogazione dell’indennità “in modo coerente con l’interesse pubblico e di tutte le parti coinvolte” e per individuare, tra molteplici alternative, i parametri di calcolo dell’indennità di paternità e l’ente obbligato a sostenere l’onere assistenziale.
La scelta di far gravare tale onere sulla cassa professionale, alimentata dalla solidarietà della categoria, non solo esulerebbe dalle soluzioni costituzionalmente obbligate, ma sarebbe arbitraria, perché dipenderebbe dalla casuale decisione del professionista iscritto o “ancor più paradossalmente” del coniuge che iscritto non sia.
La stessa Corte di cassazione, sezione lavoro, con la sentenza 15 gennaio 2013, n. 809, avrebbe escluso il diritto del padre libero professionista di percepire l’indennità di maternità in aggiunta a quella erogata alla madre adottiva. Il principio di alternatività nel godimento del beneficio in esame non implicherebbe il diritto di scegliere liberamente l’ente previdenziale chiamato a corrispondere il trattamento, “secondo calcoli di convenienza economica incompatibili con la natura pubblicistica e solidaristica della tutela previdenziale e assistenziale”, in una logica improntata a uno “shopping delle tutele”.
3.- All’udienza pubblica del 10 aprile 2018, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ha ribadito le conclusioni e le argomentazioni svolte negli scritti difensivi.
Motivi della decisione
1.- La Corte d’appello di Trieste dubita della legittimità costituzionale degli artt.70e72delD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo15dellaL. 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente alle modificazioni apportate dalD.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80(Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo1, commi 8 e 9, dellaL. 10 dicembre 2014, n. 183).
Il giudice a quo censura le disposizioni in esame nella parte in cui “vietano in sostanza l’erogazione dell’indennità di maternità al padre adottivo anche nel caso in cui la madre abbia rinunziato a detta prestazione”.
Il divieto di corrispondere l’indennità di maternità al padre adottivo, in sostituzione della madre che rinunci a tale trattamento, contrasterebbe con l’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione. Nell’ipotesi di adozione, dovrebbe essere garantita la parità di trattamento dei genitori con riguardo alla fruizione dell’indennità di maternità, così come avviene per i congedi previsti dall’art. 31 del D.Lgs. n. 151 del 2011, che attribuisce al padre il diritto al congedo, quando non sia richiesto dalla madre. Nel caso di specie, non si ravviserebbe alcuna ragione “per una tutela diversificata della sola figura materna”.
Il rimettente denuncia, inoltre, la violazionedell’art. 29, primo comma, Cost., sul presupposto che il diniego dell’indennità di maternità, soprattutto nell’ipotesi di “contestuale ingresso in famiglia … di tre figli minori adottivi”, pregiudichi il “valore costituzionale del disposto dell’art. 29 I comma Cost. in materia di diritti della famiglia” e sia di ostacolo a “una ragionevole e paritaria soluzione al caso in oggetto”.
La disciplina censurata sarebbe lesiva dell’art. 31, primo e secondo comma, Cost., che protegge “la maternità e l’infanzia e, in termini più estesi, la condizione di genitore” “anche con misure economiche e provvidenze”. Invero, il diniego dell’indennità di maternità pregiudicherebbe “la formazione di una famiglia, o come qui il suo incremento, e l’adempimento dei compiti genitoriali”.
Le disposizioni censurate, nel determinare un trattamento deteriore per il genitore adottivo, si porrebbero in contrasto anche conl’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Sarebbero violati il “diritto a contrarre matrimonio ed a fondare una famiglia” (art. 12 della CEDU), il principio “di non discriminazione per ragioni di sesso” (artt. 14 della CEDU e 21 della CDFUE), il principio di “parità fra uomo e donna in materia di lavoro, retribuzione ed occupazione” (art. 23 della CDFUE).
2.- La Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ha eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale in ragione dell’omessa motivazione sulla rilevanza, dell’indicazione equivoca della disposizione censurata e dell’aberratio ictus.
Tali eccezioni, che precluderebbero in radice lo scrutinio di questa Corte e investono a vario titolo il profilo pregiudiziale della rilevanza, devono essere esaminate preliminarmente e sono da disattendere.
2.1.- La Cassa forense lamenta che il giudice a quo non abbia neppure fatto parola del requisito della rilevanza e osserva che tale lacuna, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, non può essere colmata dall’esame diretto degli atti di causa.
L’eccezione non è fondata.
La motivazione sulla rilevanza è da intendersi correttamente formulata quando illustra le ragioni che giustificano l’applicazione della disposizione censurata e determinano la pregiudizialità della questione sollevata rispetto alla definizione del processo principale.
Nel caso di specie, il carattere pregiudiziale della questione emerge con chiarezza dalla descrizione della fattispecie che ha svolto il rimettente.
Il giudice a quo evidenzia che la madre adottiva ha rinunciato all’indennità di maternità prevista dagli artt.70 e seguentidelD.Lgs. n. 151 del 2001e che il padre adottivo ha chiesto alla Cassa professionale di poterne fruire in alternativa alla madre, in ossequio alle enunciazioni di principio della sentenza n. 385 del 2005. La domanda è stata respinta in primo grado, sul presupposto che la declaratoria di illegittimità costituzionale comunque richieda un espresso intervento del legislatore, e tale statuizione è stata impugnata dal ricorrente con il primo motivo di gravame.
La Corte rimettente, con una motivazione non implausibile, ha dato conto delle ragioni che inducono a dare applicazione agli artt.70e72delD.Lgs. n. 151 del 2001, disposizioni invocate dal ricorrente a sostegno della domanda e poste dallo stesso giudice di primo grado a fondamento della sentenza impugnata.
Il giudice a quo, inoltre, specifica che il vaglio di legittimità costituzionale è richiesto a questa Corte anche sull’art.70delD.Lgs. n. 151 del 2001. L’art. 72, nel regolare l’indennità di maternità spettante, nel caso di filiazione adottiva, alle libere professioniste iscritte a forme obbligatorie di previdenza, sarebbe modellato sulla disciplina generale dettata dall’art. 70 per la filiazione biologica.
2.2.- La Cassa forense assume che l’ordinanza di rimessione non sia univoca nell’individuare l’oggetto della censura e nell’indicare “quale formulazione degli artt.70e72delD.Lgs. n. 151 del 2001sia ritenuta applicabile al caso di specie”.
Il rimettente descrive la fattispecie in modo tale da non destare incertezze in ordine alle censure degli artt.70e72delD.Lgs. n. 151 del 2001, nella formulazione antecedente alle innovazioni recate dalD.Lgs. n. 80 del 2015.
Il rimettente pone in risalto, in primo luogo, il dato temporale e sottolinea che “la domanda di prestazione risale all’anno 2012 e quindi a prima della novella del 2015 di cui alD.Lgs. n. 80 del 2015”. Questo dato cronologico, di per sé inequivocabile, è poi avvalorato dall’osservazione che le censure si indirizzano contro la normativa “in base all’interpretazione datane in I grado”, ovvero con riferimento a una sentenza che, nella ricostruzione degli antecedenti processuali delineata dal rimettente, risale al 28 gennaio 2015, ben prima dell’entrata in vigore, il 25 giugno 2015, delle nuove disposizioni (art.28delD.Lgs. n. 80 del 2015).
Il giudice a quo ha dunque inteso menzionare la normativa del 2015 ad abundantiam, a sostegno della notazione che neanche tale disciplina varrebbe a tutelare la posizione del ricorrente, poiché non sancisce una perfetta equivalenza tra padre e madre adottivi nell’accesso al beneficio dell’indennità di maternità. Pertanto, la normativa sopravvenuta è inapplicabile ratione temporis ed esula dallo scrutinio demandato a questa Corte.
2.3.- Nella memoria illustrativa depositata in vista dell’udienza la Cassa forense ha rilevato inoltre che, in base alla disciplina applicabile ratione temporis alle lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata (art.64, comma 2, delD.Lgs. n. 151 del 2001), il nucleo familiare del ricorrente non avrebbe potuto beneficiare della “flessibilità nella prestazione (o meno) dell’attività lavorativa nel periodo dell’erogazione dell’indennità”. Solo con l’entrata in vigore dell’art.13, comma 1, dellaL. 22 maggio 2017, n. 81(Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato), tale flessibilità sarebbe stata pienamente garantita e l’indennità di maternità sarebbe stata riconosciuta alle lavoratrici iscritte alla gestione separata, a prescindere dalla effettiva astensione dall’attività lavorativa.
Il rimettente, dunque, avrebbe dovuto censurare l’art.64, comma 2, delD.Lgs. n. 151 del 2001, nella formulazione applicabile alla fattispecie controversa, nella parte in cui preclude la flessibilità nella prestazione dell’attività lavorativa nel periodo dell’erogazione dell’indennità.
Una tale eccezione di aberratio ictus non coglie nel segno.
Le censure del rimettente non si concentrano sulla flessibilità nella prestazione dell’attività lavorativa, aspetto estraneo al tema del decidere devoluto al vaglio di questa Corte, quanto piuttosto sulla mancata equiparazione di madre e padre adottivi nel godimento dell’indennità di maternità, in coerenza con le enunciazioni della sentenza n. 385 del 2005.
3.- Di quest’ultima pronuncia, tuttavia, il rimettente non valuta appieno le implicazioni. Le carenze del percorso argomentativo seguìto finiscono per riverberarsi sulla ammissibilità stessa della questione proposta.
3.1.- Con la sentenza n. 385 del 2005, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt.70e72delD.Lgs. n. 151 del 2001, “nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima”.
Essa è pervenuta a tale conclusione sulla base del rilievo che ilD.Lgs. n. 151 del 2001ha riconosciuto il diritto all’indennità al padre adottivo o affidatario lavoratore dipendente e l’ha escluso per quanti esercitano una libera professione.
Tale disparità “rappresenta un vulnus sia del principio di parità di trattamento tra le figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e della tutela del minore” e contraddice la ratio degli istituti a tutela della maternità, che “non hanno più, come in passato, il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, ma sono destinati alla difesa del preminente interesse del bambino “che va tutelato non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente fisiologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della sua personalità” (sentenza n. 179 del 1993)” (sentenza n. 385 del 2005, punto 6. del Considerato in diritto).
L’astensione dal lavoro, nei casi dell’affidamento e dell’adozione, si prefigge di garantire “una completa assistenza al bambino nella delicata fase del suo inserimento nella famiglia” e l’effettiva parità di trattamento tra i genitori, liberi di accordarsi sull’organizzazione familiare più adeguata, risponde al preminente interesse del minore (sentenza n. 385 del 2005, punto 6. del Considerato in diritto), come ribadito da questa Corte anche nella sentenza n. 285 del 2010.
Si è inoltre specificato che “nel rispetto dei principi sanciti da questa Corte, rimane comunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela” (sentenza n. 385 del 2005, punto 6. del Considerato in diritto).
3.2.- La Corte rimettente ricorda che il Tribunale ordinario di Pordenone ha negato al padre l’indennità di maternità, poiché ha ravvisato nella sentenza n. 385 del 2005 una “sentenza additiva di principio”, che richiede l’interposizione del legislatore, e puntualizza inoltre che il ricorrente, con il primo motivo di gravame, ha prospettato la violazione dei princìpi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale.
Il giudice a quo argomenta che “l’intervento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n. 385/2005 richiamata dall’attore ha natura non certo autoapplicativa essendo comunque necessario un intervento legislativo sul tema (vedi, sul tema ed in tale preciso senso, Cass. 8594/2016)” e, su tale presupposto, sollecita una nuova pronuncia di questa Corte, calibrata sulla specifica vicenda sottoposta al suo giudizio, concernente un padre libero professionista che intenda conseguire l’indennità di maternità al posto della madre che a tale indennità abbia rinunciato.
3.3.- La Corte rimettente prende le mosse dall’erroneo presupposto che, in difetto di un intervento del legislatore, il principio enunciato da questa Corte con la sentenza n. 385 del 2005 non dispieghi alcuna influenza sulla definizione della vicenda controversa.
Al contrario, in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt.70e72delD.Lgs. n. 151 del 2001, riguardanti i liberi professionisti iscritti a enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza, la regola che preclude al padre adottivo il godimento dell’indennità di maternità, in posizione di parità con la madre, ha cessato di avere efficacia e non può più ricevere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (artt. 136 Cost.e 30 dellaL. 11 marzo 1953, n. 87, recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”).
In continuità con la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 295 del 1991, punto 3. del Considerato in diritto), si deve affermare che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale corredate dall’addizione di un principio, enunciato in maniera puntuale e quindi suscettibile di diretta applicazione, impongono di ricercare all’interno del sistema la soluzione più corretta (sentenza n. 32 del 1999, punto 6. del Considerato in diritto), anche quando la sentenza ne ha rimesso l’attuazione al legislatore. È dovere del giudice, chiamato ad applicare la Costituzione e le sentenze che questa Corte adotta a garanzia della stessa, fondare la sua decisione sul principio enunciato, che è incardinato nell’ordinamento quale regola di diritto positivo, ancor prima che il legislatore intervenga per dare ad esso piena attuazione.
In tale direzione, del resto, si è già orientato il diritto vivente, quando ha affermato che, nelle more dell’intervento legislativo, la norma applicabile, idonea a produrre effetti nell’ordinamento, è solo quella che si ispira al principio enunciato da questa Corte (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 25 gennaio 2017, n. 1946).
Nel caso in discussione, questa circostanza si è verificata in modo inequivocabile.
Questa Corte non può dunque pronunciarsi una seconda volta, come richiede il giudice a quo, indotto dalla considerazione che non si possa altrimenti dirimere la controversia pendente (in termini analoghi, sentenza n. 295 del 1991, punto 3. del Considerato in diritto, ripresa dalla sentenza n. 74 del 1996, punto 2. del Considerato in diritto).
Il principio di parità tra i genitori adottivi conforma, difatti, la disciplina dell’indennità di maternità, che oramai vive nell’ordinamento, innervata dal principio ordinatore che questa Corte ha introdotto, come peraltro affermato anche dalla Corte di cassazione in una pronuncia recente (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 27 aprile 2018, n. 10282).
In conclusione, al principio, enunciato in maniera puntuale nei termini di una perfetta parità tra i genitori adottivi, il giudice dovrà dunque fare riferimento per individuare un criterio di giudizio della controversia che è chiamato a decidere.
3.4.- Ogni altro possibile profilo di inammissibilità resta assorbito.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt.70e72delD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo15dellaL. 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente alle modificazioni apportate dalD.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80(Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo1, commi 8 e 9, dellaL. 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate dalla Corte d’appello di Trieste, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 29, primo comma, 31, primo e secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

La previsione della residenza (o dell’occupazione) protratta per almeno 15 anni nel territorio della Regione Veneto, quale titolo di precedenza per l’accesso agli asili nido, è costituzionalmente illegittima

Corte cost., 25 maggio 2018, n. 107
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della L.R. Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla L.R. 23 aprile 1990, n. 32, “Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi”), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, spedito per la notificazione il 26 aprile 2017, depositato in cancelleria il 2 maggio 2017, iscritto al n. 37 del registro ricorsi 2017 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;
udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Ezio Zanon e Luigi Manzi per la Regione Veneto.
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 1, comma 1, della L.R. Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla L.R. 23 aprile 1990, n. 32, “Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi”), nella parte in cui modifica l’art. 8, comma 4, della L.R. Veneto 23 aprile 1990, n. 32 (Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi), introducendovi la lettera b). La difesa erariale riferisce che, prima della modifica, l’art. 8 della L.R. Veneto n. 32 del 1990 ammetteva all’asilo nido i bambini di età non inferiore a tre mesi e non superiore a tre anni e, al comma 4, riconosceva “titolo di precedenza all’ammissione” ai “bambini menomati, disabili o in situazioni di rischio e di svantaggio sociale”. Dopo la modifica introdotta dalla disposizione impugnata, l’art. 8, comma 4, della L.R. Veneto n. 32 del 1990 dispone quanto segue: “4. Hanno titolo di precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità: a) i bambini portatori di disabilità; b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione”.
Il Governo contesta specificamente il criterio di precedenza di cui alla lettera b), denunciando diversi vizi di illegittimità costituzionale.
1.1.- In primo luogo, tale norma violerebbe l’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione. L’Avvocatura generale dello Stato, basandosi sui lavori preparatori, ritiene che la norma abbia lo scopo di “privilegiare” le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano in Veneto da almeno quindici anni o ivi risiedano da almeno quindici anni rispetto alle famiglie con reddito più basso, in cui un genitore non lavora, che non siano radicate in Veneto da almeno quindici anni. Il Governo ritiene violatol’art. 3 Cost.perché non si potrebbe differenziare, da un lato, la situazione dei figli di genitori residenti o occupati in Veneto da almeno quindici anni e, dall’altro, le seguenti situazioni: quella dei “figli di genitori di cui uno solo sia residente in Veneto, e magari sia il genitore con cui il figlio convive, o dei figli di genitori di cui uno solo sia occupato in Veneto”; quella “dei figli su cui eserciti la responsabilità genitoriale un solo genitore residente o occupato in Veneto (essendo l’altro genitore ignoto o deceduto o decaduto dalla responsabilità genitoriale)”; quella “dei figli di genitori residenti o occupati in Veneto da meno di quindici anni, ma comunque da un periodo significativo (o dei figli di genitori che non possono accumulare periodi così lunghi di lavoro nella stessa regione perché occupati in attività che comportano frequenti mutamenti di sede)”. Il Governo sostiene poi che non si potrebbe differenziare la situazione dei figli di genitori residenti o occupati in Veneto da almeno quindici anni, “quale che sia la loro capacità economica”, e quella “dei figli di genitori di capacità economica ridotta, attestata dall’ISEE o da altri indici, come lo stato di disoccupazione”, oppure quella “del bambino privo di entrambi i genitori”.
Il fatto che lo stato di residenza o di occupazione in Veneto si sia protratto, per entrambi i genitori, per un dato periodo di tempo (quindici anni) non sarebbe idoneo, per l’Avvocatura, “a dimostrare che i figli di tali genitori esprimano una necessità di fruire del servizio degli asili nido pubblici maggiore” rispetto ai figli dei genitori che si trovino in una delle situazioni sopra descritte. Il criterio utilizzato dalla norma, dunque, sarebbe illegittimo perché non presenterebbe “alcun percepibile collegamento logico né con le esigenze formative del bambino, né con le esigenze educative ed economiche dei genitori”. La norma determinerebbe una differenziazione arbitraria, in contrasto conl’art. 3 Cost.
In secondo luogo, la norma impugnata violerebbe l’art. 3, primo e secondo comma, Cost. anche “inteso come canone di ragionevolezza e proporzionalità della legislazione, in rapporto agli obiettivi sociali che la legge persegue”. Poiché, secondo l’Avvocatura, beneficiario principale del servizio è il bambino, mentre i genitori sono beneficiari “di riflesso”, sarebbe “manifestamente irragionevole subordinare la precedenza nelle graduatorie ad una condizione, come la durata per almeno quindici anni della residenza o dell’occupazione nella regione, che può riguardare soltanto i genitori ed è, ovviamente, del tutto estranea alla condizione specifica del bambino”. Comunque, anche a voler considerare il solo interesse “riflesso” dei genitori, sarebbe “manifestamente irragionevole svincolare del tutto la selezione da criteri di natura economica, riferiti al reddito o al patrimonio della famiglia”. I criteri della protratta residenza e della protratta occupazione nel territorio regionale possono portare, secondo il Governo, “a privilegiare situazioni familiari economicamente migliori e a discriminare situazioni familiari economicamente più precarie”, il che non sarebbe “razionalmente giustificabile, anche in considerazione del fatto … che con gli asili nido pubblici concorre l’offerta delle strutture private, senz’altro accessibili alle famiglie con redditi più elevati”.
L’Avvocatura aggiunge poi che, “anche a voler ammettere, in subordine, che la durata della residenza o dell’occupazione nel territorio regionale possa costituire (il che non è) un criterio selettivo logicamente congruo rispetto all’obiettivo di graduare gli aspiranti al servizio degli asili nido pubblici, appare palese come una durata pari addirittura a quindici anni sia eccessiva e comunque fonte di applicazioni irrazionali”. Il requisito della residenza o dell’occupazione per quindici anni sarebbe irragionevole anche perché non sarebbe neppure idoneo a dare una preferenza ai soggetti “radicati” in Veneto. Infatti, nel caso in cui il periodo debba calcolarsi con riferimento a ciascun genitore considerato separatamente, “la norma favorirebbe indebitamente i nati in Veneto, che è plausibile che vi abbiano risieduto per i primi quindici anni di vita, attribuendo loro “de futuro” un “diritto di prelazione” esercitabile anche molti anni dopo, semplicemente tornando a risiedere in Veneto per un breve periodo, una volta divenuti genitori, magari dopo una lunga assenza che non è certo indice di radicamento territoriale”. Nel caso in cui, invece, il periodo debba calcolarsi con riferimento ad entrambi i genitori (“nel senso che non i singoli componenti bensì la “coppia” in quanto tale deve avere risieduto o essere stata occupata in Veneto per almeno quindici anni”), la norma “si rivelerebbe completamente inutile per tutti i genitori che, come è statisticamente normale, siano divenuti tali prima che siano decorsi quindici anni di residenza comune o di occupazione continuativa”. In entrambe le ipotesi (calcolo “separato” o “congiunto” del periodo di quindici anni), il requisito in questione verrebbe poi “a costituire un disincentivo a divenire genitori prima di avere accumulato una anzianità lavorativa di almeno quindici anni”, così contraddicendo “una delle finalità proprie del sistema degli asili nido, che è quella di favorire, contemporaneamente, il lavoro e la natalità”: di qui un ulteriore profilo di irragionevolezza della norma impugnata.
L’Avvocatura precisa poi che la violazionedell’art. 3 Cost.sussisterebbe anche qualora si interpretasse la disposizione impugnata nel senso che il titolo di precedenza spetta non solo a chi ha entrambi i genitori residenti o occupati in Veneto da almeno quindici anni, ma anche a chi ha un solo genitore rispondente a tali requisiti. In tal caso, sarebbero comunque discriminati “i bambini privi di entrambi i genitori” e quelli che non hanno neppure un genitore residente o occupato in Veneto da almeno 15 anni. Inoltre, sarebbe pur sempre manifestamente irrazionale un criterio di preferenza “basato sulla durata della residenza o dell’occupazione nella regione del genitore, anziché sulla condizione del bambino, e sulla completa esclusione di qualsiasi rilievo della situazione economica del genitore”, e sarebbe pur sempre “eccessiva” la durata del periodo di residenza o di occupazione richiesto. Anzi, qualora fosse sufficiente la residenza o l’occupazione protratta in Veneto in capo a un solo genitore, si “amplierebbe l’area delle situazioni indebitamente privilegiate”.
1.2.- Il Governo lamenta poi la violazionedell’art. 31, secondo comma, Cost., in quanto il criterio di precedenza individuato dalla norma impugnata frustrerebbe “i valori costituzionali ivi codificati della tutela dell’infanzia e della promozione dei necessari istituti”: “una disciplina che porta a formare le graduatorie di ammissione agli asili nido basandosi sulle condizioni di residenza e di lavoro dei genitori …, mentre trascura del tutto di considerare la condizione dei bambini”, confliggerebbe con i valori suddetti.
1.3.- Ancora, la norma impugnata violerebbe gliarticoli 16 e 120, primo comma, Cost., in quanto ostacolerebbe “il trasferimento in Veneto di famiglie che nella propria regione di residenza o di lavoro godano di provvidenze simili, in quanto con il trasferimento in Veneto le perderebbero (non potendole riacquistare prima di quindici anni)”, e, reciprocamente, costituirebbe “un incentivo indebito … a non lasciare il Veneto per coloro che già vi risiedano o vi lavorino”.
1.4.- Infine, la norma in questione violerebbe il diritto dell’Unione europea (art. 117, primo comma, Cost.), sotto diversi profili.
In primo luogo, essa contrasterebbe “con la normativa europea in materia di libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari” (art. 21, 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato dalla L. 2 agosto 2008, n. 137). Il requisito preferenziale, “richiedendo un periodo così prolungato, eccede quanto necessario al raggiungimento del legittimo obiettivo di accertare l’esistenza di un nesso reale tra il richiedente una prestazione e lo Stato membro competente, ovvero di preservare l’equilibrio finanziario del sistema locale di assistenza sociale”.
Inoltre, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l’art.19delD.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30(Attuazione delladirettiva 2004/38/CErelativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), dal momento che l’art. 24 della citata direttiva “garantisce parità di trattamento ai cittadini di Stati membri che risiedano da più di tre mesi in un diverso Stato membro, … rispetto ai cittadini dello Stato ospitante, senza esigere alcun periodo pregresso di residenza a tal fine”. Dunque, la norma in questione discriminerebbe “tutti i cittadini dell’Unione che soggiornino in Veneto da più di tre mesi o comunque che abbiano ottenuto il diritto di soggiorno permanente, non avendo però maturato 15 anni di residenza anche non continuativa o di lavoro continuativo in Veneto”.
Ancora, la norma de qua discriminerebbe i cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, “i quali, secondo quanto previsto dall’art.11, paragrafo 1, lettere d) e f),delladirettiva 2003/109/CE, recepita conD.Lgs. 8 gennaio 2007, n. 3, trascorsi cinque anni di soggiorno regolare sull’intero territorio nazionale (non necessariamente tutti in un’unica regione), dovrebbero godere dello stesso trattamento dei cittadini nazionali sia per quanto riguarda “le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale”, sia per quanto riguarda “l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi””.
L’Avvocatura ricorda che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 168 del 2014, ha ritenuto contrastante con le citate norme europee una legge valdostana che subordinava ad una residenza minima di otto anni nella regione l’accesso all’edilizia residenziale pubblica.
2.- La Regione Veneto si è costituita in giudizio con memoria depositata il 5 giugno 2017.
Con riferimento alla asserita violazione del principio di uguaglianza, la Regione rileva che la norma impugnata “non prevede un criterio selettivo di accesso al servizio di asilo nido, ma unicamente introduce un canone preferenziale basato sul radicamento familiare e lavorativo nel territorio regionale”; essa, cioè, non preclude ad alcuno l’accesso agli asili nido, ragion per cui non potrebbe produrre alcuna discriminazione. Inoltre, la Regione osserva che l’erogazione del servizio di asilo nido non è obbligatoria. Il legislatore regionale avrebbe esercitato la propria potestà discrezionale, dando precedenza “a coloro che abbiano più a lungo contribuito alla realizzazione del contesto sociale ed economico pubblico da cui ha origine il sistema locale di assistenza alla prima infanzia”. La norma non sarebbe affetta da “palese irrazionalità”. Inoltre, essa non discriminerebbe il bambino orfano di un genitore o di entrambi perché la locuzione genitori si riferirebbe “ai soggetti esercenti la potestà genitoriale, a qualunque titolo ciò avvenga e pur anche nel caso in cui vi sia un solo “genitore””.
Quanto alla violazione del principio di ragionevolezza, la Regione osserva, da un lato, che “gli asili nido pubblici, per espressa previsione della legge stataleL. 6 dicembre 1971, n. 1044″Piano quinquennale per l’istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato”, non sono teleologicamente diretti a soddisfare in via esclusiva e prioritaria un interesse formativo del bambino, ma invece sono rivolti a garantire una adeguata assistenza familiare e di promozione del lavoro, soprattutto muliebre, cui accede necessariamente un esito di socializzazione e formazione educativa”; dall’altro, che i comuni hanno potestà regolamentare in materia di asili nido pubblici, potendo prevedere criteri reddituali di graduazione delle domande.
Con riferimento alla asserita violazionedell’art. 31 Cost., la Regione ribadisce che la norma impugnata non fissa un criterio di ammissione ma solo di precedenza e che la disciplina degli asili nido serve a tutelare l’infanzia “solo in via indiretta”. Inoltre, osserva chel’art. 31 Cost.sarebbe una norma “programmatica”, inidonea a incidere sul contenuto di istituti che non tocchino diritti fondamentali dei bambini.
La censura relativa agliartt. 16 e 120 Cost.è giudicata dalla Regione “inverosimile”, non potendo un criterio di preferenza nell’accesso agli asili nido condizionare la scelta di trasferirsi in Veneto. L’argomento dell’Avvocatura impedirebbe agli enti territoriali di prevedere qualsiasi forma di agevolazione economica a favore dei residenti.
Infine, con riferimento alla questione concernentel’art. 117, primo comma, Cost., la Regione rileva che la norma impugnata non viola le norme europee invocate perché “il criterio selettivo opera nei confronti sia dei cittadini sia dei non cittadini”, per cui “nessuna discriminazione può ipotizzarsi”.
3.- La Regione Veneto ha depositato una memoria integrativa il 20 marzo 2018. In essa afferma che la norma impugnata “non prevede un criterio escludente, ma unicamente un criterio suppletivo di preferenza a parità di condizioni per accedere agli asili nido”, cioè un criterio “che opera solo secondariamente e unicamente dopo che i soggetti richiedenti siano già stati selezionati secondo i criteri primari diretti a valorizzare il bisogno di accedere al servizio per l’infanzia”. Tale interpretazione della disposizione impugnata sarebbe confermata dalla concreta applicazione che ne hanno fatto i comuni veneti.
Motivi della decisione
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri censura l’art. 1, comma 1, della L.R. Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla L.R. 23 aprile 1990, n. 32, “Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi”), nella parte in cui modifica l’art. 8, comma 4, della L.R. Veneto 23 aprile 1990, n. 32 (Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi), introducendovi la lettera b).
Per effetto della disposizione impugnata, l’art. 8, comma 4, della L.R. Veneto n. 32 del 1990 dispone quanto segue: “4. Hanno titolo di precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità: a) i bambini portatori di disabilità; b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione”.
Il ricorrente ritiene che il criterio di precedenza fissato alla lettera b) sia incostituzionale per violazione delle seguenti norme: a)art. 3 della Costituzione, con riferimento sia al principio di uguaglianza sia a quello di ragionevolezza; b)art. 31, secondo comma, Cost., in quanto la norma censurata frustrerebbe il valore costituzionale della tutela dell’infanzia; c)artt. 16 e 120, primo comma, Cost., in quanto la norma impugnata ostacolerebbe la libertà di circolazione; d)art. 117, primo comma, Cost., in quanto la norma censurata violerebbe l’art. 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato dalla L. 2 agosto 2008, n. 137, in materia di libertà di circolazione; l’art.24delladirettiva 2004/38/CEdel Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri; l’art.11, paragrafo 1, lettere d) e f),delladirettiva 2003/109/CEdel Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.
2.- Prima di esaminare le questioni di costituzionalità sollevate nel ricorso, è opportuno definire l’esatto significato della disposizione impugnata.
In primo luogo, si deve osservare che l’interpretazione proposta dalla Regione nella memoria integrativa non risulta coerente con la portata della disposizione impugnata. Questa non prevede un criterio meramente sussidiario, destinato a operare per i soggetti che si trovino a parità di punti, ma fissa un “titolo di precedenza” che prevale sui criteri fissati dai singoli comuni. Ciò risulta dalla formulazione della disposizione, che non accenna al presunto carattere sussidiario del criterio, e dall’accostamento al titolo di precedenza rappresentato dalla disabilità, che certamente opera in via prevalente e non sussidiaria; trova inoltre conferma nei lavori preparatori della legge, che sono coerenti con l’interpretazione sostenuta dalla Regione nella memoria di costituzione e non offrono alcuno spunto a sostegno dell’interpretazione adeguatrice prospettata nella memoria integrativa.
Il titolo di precedenza previsto dalla norma impugnata opera a favore del complesso dei bambini figli di genitori radicati in Veneto da lungo tempo. Il periodo di quindici anni deve essere calcolato con riferimento a ciascun genitore considerato separatamente, e non alla coppia, e il termine “genitori” è da intendere in modo conforme alla lettera, cioè nel senso che la precedenza non spetta a chi ha due genitori di cui uno solo radicato da lungo tempo in Veneto. Un’interpretazione estensiva si giustificherebbe qualora la lettera della disposizione non esprimesse in modo sufficiente la sua ratio, ma non è questo il caso, dal momento che la ratio della disposizione converge con la sua lettera nel privilegiare le coppie (da lungo tempo) venete. Pur non avendo valore decisivo, i lavori preparatori confermano l’interpretazione letterale, visto che da essi emerge che lo scopo era quello di favorire le giovani coppie venete e le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano. L’estensione della precedenza alle famiglie in cui un solo genitore è radicato in Veneto da più di quindici anni amplierebbe i beneficiari del titolo di precedenza, vanificando l’obiettivo del legislatore.
Occorre precisare, peraltro, che, se la disposizione impugnata non intende privilegiare le famiglie in cui un genitore su due possiede i requisiti, ad essa non si può attribuire l’intento di discriminare i bambini orfani (o comunque privi) di un genitore o di entrambi, sicché in base ad essa, nei casi in cui la responsabilità genitoriale è esercitata da una sola persona radicata in Veneto da lungo tempo, il titolo di precedenza spetta.
Da ultimo, è opportuno rilevare che la norma impugnata, benché non disciplini un requisito di accesso, fissa un titolo di precedenza a favore di un’ampia categoria di persone e produce così effetti sostanzialmente escludenti dei soggetti non radicati in Veneto da almeno quindici anni (data la notoria scarsità di asili nido pubblici), essendo dunque paragonabile alle norme che considerano la residenza prolungata come requisito di accesso.
3.- La questione relativaall’art. 3 Cost.è fondata.
Per vagliare la ragionevolezza del titolo di precedenza fissato dalla norma impugnata, è preliminarmente necessario soffermarsi sulla funzione degli asili nido.
LaL. 6 dicembre 1971, n. 1044(Piano quinquennale per l’Istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato), ha istituito gli asili nido come “servizio sociale di interesse pubblico” (art. 1, primo comma). All’epoca il servizio era incentrato maggiormente sui bisogni dei genitori, avendo soprattutto il fine di facilitare l’accesso della donna al lavoro (art. 1, secondo comma).
L’art.6dellaL. n. 1044 del 1971affidava alle regioni il compito di fissare, “con proprie norme legislative, … i criteri generali per la costruzione, la gestione e il controllo degli asili-nido”. Le leggi regionali adottate in sua attuazione hanno attribuito una funzione educativa agli asili nido, nella cui disciplina ha dunque assunto peso crescente l’interesse del bambino. Ciò è attestato, ad esempio, dalla citata L.R. Veneto n. 32 del 1990 (modificata dalla legge impugnata), che definisce gli asili nido “attività educativo-assistenziale” (art. 1) e nella quale, anzi, è il bambino il destinatario principale del servizio degli asili nido (“L’asilo nido è un servizio di interesse pubblico rivolto alla prima infanzia e ha finalità di assistenza, di socializzazione e di educazione nel quadro di una politica di tutela dei diritti dell’infanzia”, art. 5, comma 1).
La doppia valenza degli asili nido (sociale ed educativa) si conferma nella successiva legislazione statale: da un lato, laL. 8 novembre 2000, n. 328(Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), dedica l’art. 16 alla “valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari” e dispone, all’art. 22, comma 2, che “gli interventi di seguito indicati costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali … d) misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo 16, per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare …” (ilD.P.R. 3 maggio 2001, recante “Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-2003”, considera il sostegno delle responsabilità familiari come il primo fra gli obiettivi prioritari e tratta degli asili nido nel punto 1.2); dall’altro, l’art.70dellaL. 28 dicembre 2001, n. 448, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)”, definisce gli asili nido “strutture dirette a garantire la formazione e la socializzazione delle bambine e dei bambini di età compresa tra i tre mesi ed i tre anni ed a sostenere le famiglie ed i genitori”, e laL. 13 luglio 2015, n. 107(Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti), prevede l'”istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino a sei anni, costituito dai servizi educativi per l’infanzia e dalle scuole dell’infanzia, al fine di garantire ai bambini e alle bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali, nonché ai fini della conciliazione tra tempi di vita, di cura e di lavoro dei genitori” (art. 1, comma 181, lettera e), comprendendo in particolare i “servizi educativi per l’infanzia” gli asili nido (art.2, comma 3, lettera adelD.Lgs. 13 aprile 2017, n. 65, recante “Istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, a norma dell’articolo1, commi 180 e 181, lettera e, dellaL. 13 luglio 2015, n. 107”). La doppia valenza degli asili nido emerge anche nellaL. 27 dicembre 2006, n. 296, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)” (art. 1, comma 1259), e nellaL. 24 dicembre 2007, n. 244, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)” (art. 2, commi 458 e 460), che, con riferimento agli asili nido, parlano di servizi socio-educativi.
In definitiva, gli asili nido hanno una funzione educativa, a vantaggio dei bambini, e una funzione socio-assistenziale, a vantaggio dei genitori che non hanno i mezzi economici per pagare l’asilo nido privato o una baby-sitter; dalla disciplina legislativa emerge soprattutto l’intento di favorire l’accesso delle donne al lavoro, finalità che ha specifica rilevanza costituzionale, garantendo espressamente la Costituzione la possibilità per la donna di conciliare il lavoro con la “funzione familiare” (art. 37, primo comma, Cost.).
3.1.- Chiarita la funzione del servizio degli asili nido, è opportuno ricordare che questa Corte ha affermato “il principio che “se al legislatore, sia statale che regionale (e provinciale), è consentito introdurre una disciplina differenziata per l’accesso alle prestazioni assistenziali al fine di conciliare la massima fruibilità dei benefici previsti con la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili” (sentenza n. 133 del 2013), tuttavia “la legittimità di una simile scelta non esclude che i canoni selettivi adottati debbano comunque rispondere al principio di ragionevolezza” (sentenza n. 133 del 2013) e che, quindi, debbano essere in ogni caso coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto principale di fruibilità delle provvidenze in questione (sentenza n. 40 del 2011)”” (sentenza n. 168 del 2014). Ha inoltre affermato che “l’introduzione di regimi differenziati è consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioè giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio” (sentenza n. 172 del 2013).
Con particolare riferimento al requisito della residenza protratta, questa Corte ha anche osservato che, “mentre la residenza costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, “un criterio non irragionevole per l’attribuzione del beneficio” (sentenza n. 432 del 2005), non altrettanto può dirsi quanto alla residenza protratta per un predeterminato e significativo periodo minimo di tempo (nella specie, quinquennale). La previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere generale e dirimente, non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto “introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari”, non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben possono connotare la domanda di accesso al sistema di protezione sociale (sentenza n. 40 del 2011)” (sentenza n. 222 del 2013).
3.2.- Tenuto conto di quanto esposto sopra sulla funzione degli asili nido e alla luce della giurisprudenza costituzionale appena rammentata, la norma impugnata risulta lesivadell’art. 3 Cost.
La configurazione della residenza (o dell’occupazione) protratta come titolo di precedenza per l’accesso agli asili nido, anche per le famiglie economicamente deboli, si pone in frontale contrasto con la vocazione sociale di tali asili. Il relativo servizio risponde direttamente alla finalità di uguaglianza sostanziale fissatadall’art. 3, secondo comma, Cost., in quanto consente ai genitori (in particolare alle madri) privi di adeguati mezzi economici di svolgere un’attività lavorativa; il servizio, pertanto, elimina un ostacolo che limita l’uguaglianza sostanziale e la libertà dei genitori e impedisce il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei genitori stessi alla vita economica e sociale del Paese.
Per questa ragione, il servizio degli asili nido dovrebbe essere destinato primariamente alle famiglie in condizioni di disagio economico o sociale, come era previsto dall’art. 8, comma 4, della L.R. Veneto n. 32 del 1990, nella sua previgente formulazione (“Hanno titolo di precedenza all’ammissione i bambini menomati, disabili o in situazioni di rischio e di svantaggio sociale”), in coerenza con la disciplina statale, che sancisce il principio dell’accesso prioritario ai servizi sociali a favore dei soggetti in condizioni di difficoltà economico-sociale (art.2, comma 3, dellaL. n. 328 del 2000). La norma impugnata, invece, prescinde totalmente dal fattore economico e, favorendo le persone radicate in Veneto da lungo tempo, adotta un criterio che contraddice anche lo scopo dei servizi sociali di garantire pari opportunità e di evitare discriminazioni (art.1, comma 1, dellaL. n. 328 del 2000).
In definitiva, il titolo di precedenza previsto dalla norma impugnata è contrario sia alla funzione sociale degli asili nido sia alla vocazione “universalistica” dei servizi sociali.
Quanto alla funzione educativa degli asili nido, l’estraneità ad essa del “radicamento territoriale” risulta ugualmente evidente, e tanto più risulta tale nella norma impugnata che riferisce il requisito ai genitori e non ai beneficiari dell’attività educativa, essendo ovviamente irragionevole ritenere che i figli di genitori radicati in Veneto da lungo tempo presentino un bisogno educativo maggiore degli altri.
3.3.- Quanto alla vocazione universalistica dei servizi sociali, a differenza del requisito della residenza tout court (che serve a identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione ed è un requisito che ciascun soggetto può soddisfare in ogni momento), quello della residenza protratta integra una condizione che può precludere in concreto a un determinato soggetto l’accesso alle prestazioni pubbliche sia nella regione di attuale residenza sia in quella di provenienza (nella quale non è più residente). Le norme che introducono tale requisito vanno dunque vagliate con particolare attenzione, in quanto implicano il rischio di privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza.
L’argomento utilizzato dalla Regione Veneto a sostegno dell’infondatezza della questione (ossia che la norma impugnata darebbe la precedenza “a coloro che abbiano più a lungo contribuito alla realizzazione del contesto sociale ed economico pubblico da cui ha origine il sistema locale di assistenza alla prima infanzia”) non convince. In primo luogo, nessuno dei due criteri utilizzati dalla norma impugnata (residenza prolungata in Veneto o occupazione prolungata in Veneto) assicura che i genitori abbiano pagato tributi in Veneto per un lungo periodo (la residenza può non essere coincisa con un periodo lavorativo e l’occupazione prolungata in Veneto non implica necessariamente la residenza in Veneto). L’argomento si presenta opinabile anche alla luce dell’effettivo assetto delle fonti di finanziamento degli asili nido, dato che le risorse necessarie per la costruzione degli edifici e lo svolgimento del servizio possono essere di origine non regionale (gli artt.8e12del citatoD.Lgs. n. 65 del 2017prevedono finanziamenti statali, e la stessa L.R. Veneto n. 32 del 1990 menziona “contributi statali” all’art. 32, comma 1), e che, per quanto riguarda le risorse provenienti dai bilanci dei comuni e delle regioni, si dovrebbe distinguere fra finanza “propria” e “derivata”. E ciò senza contare che, sotto un profilo più generale, l’argomento del contributo pregresso tende inammissibilmente ad assegnare al dovere tributario finalità commutative, mentre esso è una manifestazione del dovere di solidarietà sociale, e che applicare un criterio di questo tipo alle prestazioni sociali è di per sé contraddittorio, perché porta a limitare l’accesso proprio di coloro che ne hanno più bisogno.
Si può osservare infine che chi si sposta in un’altra regione non ha contribuito al welfare di quella regione ma ha pagato i tributi nella regione di provenienza, e non è costituzionalmente ammissibile sfavorirlo nell’accesso ai servizi pubblici solo per aver esercitato il proprio diritto costituzionale di circolazione (o per essere stato trasferito o assegnato al Veneto per ragioni di lavoro o di altra natura).
In conclusione, poiché il titolo di precedenza previsto dalla norma impugnata non ha alcun collegamento con la funzione degli asili nido né può essere giustificato con l’argomento del contributo pregresso, il suo scopo, che si esaurisce nel riconoscere una preferenza nell’accesso agli asili nido pubblici alle persone radicate in Veneto da lungo tempo, è incompatibile conl’art. 3 Cost.
4.- Anche la questione relativaall’art. 117, primo comma, Cost.e all’art. 21 del TFUE è fondata.
L’art. 21, paragrafo 1, del TFUE dispone che “ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi”.
In relazione ai requisiti di residenza prolungata, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che “una siffatta normativa nazionale, che svantaggia taluni cittadini di uno Stato membro per il solo fatto che essi hanno esercitato la loro libertà di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro, costituisce una restrizione alle libertà riconosciute dall’art. 21, n. 1, TFUE ad ogni cittadino dell’Unione”, e che “una simile restrizione può essere giustificata, con riferimento al diritto dell’Unione, solo se è basata su considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate ed è proporzionata allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale” (sentenza 21 luglio 2011, in causa C-503/09, S., punti 86 e 87; si vedano anche le sentenze 26 febbraio 2015, in causa C-359/13, B. Martens; 24 ottobre 2013, in causa C-220/12, A.I.T.M. (punti 22-29); 15 marzo 2005, in causa C-209/03, The Queen, ex parte di D.B., punti 51-54; 23 marzo 2004, in causa C-138/02, B.F.C.; 30 settembre 2003, in causa C-224/01, G.K.).
La Corte di giustizia non esclude a priori l’ammissibilità di requisiti di residenza per l’accesso a prestazioni erogate dagli Stati membri, ma richiede che la norma persegua uno scopo legittimo, che sia proporzionata e che il criterio adottato non sia “troppo esclusivo”, potendo sussistere altri elementi rivelatori del “nesso reale” tra il richiedente e lo Stato (si vedano le citate sentenze S., punti 92 e 95, e T.M., punto 36). La norma impugnata è difettosa già in relazione allo scopo perseguito (come visto nel punto precedente) ed è inoltre sicuramente sproporzionata quanto alla durata – eccezionalmente lunga: quindici anni – del legame richiesto. Il fatto che discrimini anche cittadini italiani (non radicati in Veneto da più di quindici anni) non è rilevante ai fini della conformità al diritto europeo (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenze T.M., punto 27; 16 gennaio 2003, in causa C-388/01, Commissione, punto 14; 6 giugno 2000, in causa C-281/98, A., punto 41).
Questa Corte ha già censurato, per violazionedell’art. 117, primo comma, Cost., e dell’art. 21 TFUE, una norma che annoverava, fra i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica, la “residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente”: “la norma regionale in esame li pone i cittadini dell’Unione europea in una condizione di inevitabile svantaggio in particolare rispetto alla comunità regionale, ma anche rispetto agli stessi cittadini italiani, che potrebbero più agevolmente maturare gli otto anni di residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione vietata dal diritto comunitario …, in particolare dall’art. 18 del TFUE, in quanto determina una compressione ingiustificata della loro libertà di circolazione e soggiorno, garantita dall’art. 21 del TFUE” (sentenza n. 168 del 2014; si vedano anche le sentenze n. 190 del 2014 e n. 264 del 2013).
4.1.- Possono considerarsi assorbite le altre questioni sollevate con riferimentoall’art. 117, primo comma, Cost., con cui si lamenta la violazione dell’art.24della citatadirettiva 2004/38/CEe dell’art.11, paragrafo 1, lettere d) e f),della citatadirettiva 2003/109/CE.
5.- La questione relativaall’art. 120, primo comma, Cost.è anch’essa fondata.
Occorre premettere che la questione concernentel’art. 16 Cost.è da ritenere ricompresa in quella riguardantel’art. 120, primo comma, Cost., che risulta il parametro più pertinente con riferimento al caso di specie (“La Regione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni, né adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale”).
La norma impugnata, non incidendo in modo immediato sul diritto di circolazione e di svolgere l’attività lavorativa, non viola direttamente i divieti postidall’art. 120, primo comma, Cost.Essa pone tuttavia un ostacolo all’esercizio dei diritti ivi previsti, per le stesse ragioni illustrate con riferimento all’art. 21 TFUE. È evidente, infatti, che un genitore che deve trasferirsi in Veneto per ragioni di lavoro può trovarsi in difficoltà a compiere il trasferimento se non ha i mezzi sufficienti per pagare un asilo nido privato, visto che la norma impugnata lo esclude di fatto dagli asili nido pubblici.
Il divieto di cuiall’art. 120, primo comma, Cost.è idoneo a colpire quelle discipline che limitano, anche solo in via di fatto, i diritti da esso menzionati, come si può ricavare sia dalla lettera della disposizione costituzionale (“in qualsiasi modo”), sia dal suo collegamento conl’art. 3, secondo comma, Cost., che “codifica” il nesso tra libertà e condizioni materiali della libertà, sia ancora dalla giurisprudenza europea che, come visto, ha ravvisato un limite alla libertà di circolazione in certe discipline limitative dell’accesso a prestazioni pubbliche.
Così definita la portata del divieto fissatoall’art. 120, primo comma, Cost., occorre verificare se la limitazione prevista dalla norma impugnata sia costituzionalmente tollerabile, stante che il divieto stesso non va inteso in modo “assoluto”, dovendosi invece vagliare la ragionevolezza delle leggi regionali che limitano i diritti con esso garantiti. Questa Corte ha individuato a tale fine i seguenti criteri: “occorre esaminare: a) se si sia in presenza di un valore costituzionale in relazione al quale possano essere posti limiti alla libera circolazione delle cose o degli animali; b) se, nell’ambito del suddetto potere di limitazione, la regione possegga una competenza che la legittimi a stabilire una disciplina differenziata a tutela di interessi costituzionalmente affidati alla sua cura; c) se il provvedimento adottato in attuazione del valore suindicato e nell’esercizio della predetta competenza sia stato emanato nel rispetto dei requisiti di legge e abbia un contenuto dispositivo ragionevolmente commisurato al raggiungimento delle finalità giustificative dell’intervento limitativo della regione, così da non costituire in concreto un ostacolo arbitrario alla libera circolazione delle cose fra regione e regione” (sentenza n. 51 del 1991).
La norma impugnata è inidonea a superare il primo e il terzo passaggio del test, dal momento che, come visto sopra (punto 3), essa non persegue un interesse pubblico meritevole, mirando solo a dare precedenza alle persone radicate in Veneto da lungo tempo (in violazionedell’art. 3 Cost., come visto), e che la durata richiesta (della residenza o dell’occupazione), se può considerarsi proporzionata a tale illegittimo obiettivo, certamente non lo è a quello di garantire un legame tra il richiedente e la Regione.
6.- È fondata infine anche la questione riferitaall’art. 31, secondo comma, Cost., in base a cui la Repubblica “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. La norma impugnata fissa un titolo di precedenza che tradisce il sensodell’art. 31, secondo comma, Cost.: essa, cioè, non incide sul quantum e sul quomodo del servizio degli asili nido ma ne distorce la funzione, indirizzandolo non allo scopo di tutelare le famiglie che ne hanno bisogno ma a quello di privilegiare chi è radicato in Veneto da lungo tempo. La norma impugnata, dunque, persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia, perché crea le condizioni per privare del tutto una categoria di bambini del servizio educativo dell’asilo nido.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della L.R. Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla L.R. 23 aprile 1990, n. 32, “Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi”), nella parte in cui modifica l’art. 8, comma 4, della L.R. Veneto 23 aprile 1990, n. 32 (Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi), introducendovi la lettera b).

In caso di immobile acquistato in comunione legale, ai fini delle agevolazioni prima casa non rileva che uno dei coniugi non abbia la residenza anagrafica nel comune ove l’immobile si trova

Cass. civ. Sez. VI – 5, 22 giugno 2018, n. 16604
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11391/2017 R.G. proposto da:
U.G., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dagli avv.ti Elisabetta ZOINA e Francesco PAPA, ed elettivamente domiciliata in Roma, alla piazza Cola di Rienzo, n. 92, presso lo studio legale del secondo difensore;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6550/11/2016 della Commissione tributaria regionale del LAZIO, depositata il 28/10/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 23/05/2018 dalConsigliere Lucio LUCIOTTI.
Rilevato che:
– con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale del Lazio respingeva l’appello proposto da U.G. avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso dal medesimo proposto avverso un avviso di liquidazione di maggiore imposta IVA emesso dall’amministrazione finanziaria in relazione all’anno di imposta 2008 a seguito di revoca dei benefici fiscali connessi all’acquisto della prima casa, nella specie effettuato in comunione dei beni con il coniuge, per non avere ivi trasferito la propria residenza nel termine decedenziale di diciotto mesi dalla stipula dell’atto;
– per la cassazione della sentenza di appello ricorre il predetto contribuente con unico motivo, cui replica l’intimata con controricorso;
– sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale il ricorrente ha depositato memoria;
– il Collegio ha disposto la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata;
Considerato che:
– con il motivo di ricorso il ricorrente deduce, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dall’art. 1, nota 2 bis, della Tariffa, Parte prima, allegata alD.P.R. n. 131 del 1986, nonché, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame della documentazione anagrafica prodotta in giudizio, attestante la residenza familiare del ricorrente nell’abitazione de qua, sostenendo che, diversamente da quanto sostenuto dai giudici di appello, ai fini della spettanza della predetta agevolazione era del tutto irrilevante, a fronte della destinazione dell’immobile a residenza familiare, che uno dei coniugi abbia la residenza in luogo diverso;
– i motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi tra loro, sono ammissibili (in tale senso deponendo, contrariamente a quanto eccepito dalla controricorrente, il principio affermato da Cass., Sez. U. n. 9100 del 06/05/2015 – Rv. 635452), sono fondati e vanno accolti;
– “In tema di agevolazioni fiscali per l’acquisto della prima casa e con riguardo alla disciplina delD.L. n. 12 del 1985,art.2, convertito nella L. 4 maggio 1985, n. 118 (applicabile “ratione temporis”), il requisito della residenza nel comune in cui è ubicato l’immobile deve essere riferito alla famiglia, con la conseguenza che, in caso di comunione legale tra coniugi, quel che rileva è che l’immobile acquistato sia destinato a residenza familiare, mentre non assume rilievo in contrario la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza anagrafica in tale comune, e ciò in ogni ipotesi in cui il bene sia divenuto oggetto della comunione ai sensidell’art. 177 c.c., quindi sia in caso di acquisto separato che in caso di acquisto congiunto del bene stesso” (Cass. n. 2109 del 28/01/2009 – Rv. 606705; conf. Cass. n. 16355 del 28/06/2013 e n. 25889 del 23/12/2015);
– nella specie, in cui è incontestato che l’acquisto dell’immobile ubicato nel comune di Catena era stato effettuato in regime di comunione dai coniugi U.G. e R.R. e che quest’ultima aveva trasferito la propria residenza in detto immobile (essendo del tutto irrilevante la circostanza addotta dalla controricorrente – a pag. 2 del controricorso – che si sia trattato di “un mero “cambio di abitazione”” risultando la R. “residente in catena sin dalla nascita”), la CIR, omettendo evidentemente di esaminare la documentazione anagrafica prodotta dal ricorrente, ha violato le disposizioni censurate disattendendo il predetto principio giurisprudenziale; ne consegue l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata, senza necessità di rinvio non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, con accoglimento dell’originario ricorso del contribuente;
– la controricorrente, essendo rimasta soccombente, va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, sussistendo valide ragioni di compensazione delle spese dei giudizi di merito.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso del contribuente. Condanna la controricorrente al pagamento, in favore dei difensori del ricorrente, dichiaratisi antistatari, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15 per cento dei compensi ed agli accessori di legge, compensando le spese dei giudizi di merito.