Grava sul convivente autore dell’atto di ricognizione di debito l’onere di provare l’inesistenza, l’invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale

Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2018, n. 11766
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE-
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18422/2015 proposto da:
S.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DE CAROLIS UGO 101, presso lo studio dell’avvocato FULVIO FRANCUCCI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIERO GOZZI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO SPADAFORA, rappresentato e difeso dall’avvocato GIAN PAOLO NOVELLI giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1526/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 17/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/10/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto;
udito l’Avvocato FULVIO FRANCUCCI;
udito l’Avvocato GIAN PAOLO NOVELLI.
Svolgimento del processo
1. S.F. ricorre per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza n. 1526/14 del 17 giugno 2014 della Corte di Appello di Bologna, che – riformando la sentenza pronunciata dal Tribunale di Ravenna n. 25/08 del 20 maggio 2008, in accoglimento del gravame proposto da P.E. – ha condannato l’odierna ricorrente sia a pagare al predetto P., a titolo di regresso exart. 1950 c.c., la somma di Euro 5.388,15 (oltre interessi, nella misura legale, dal 22 gennaio 2007 al saldo), sia a restituirgli, ciò che qui interessa, un prestito dal primo erogatole nella misura di Euro 37.500,00.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver intrattenuto, per circa sei anni (dal 1998 al 2004), una convivenza more uxorio con il P., cimentandosi anche in una comune attività imprenditoriale per il sostentamento della vita di coppia, con scelta caduta su un negozio di abbigliamento, per la cui apertura veniva stipulato – in data 4 novembre 2000 – un mutuo chirografario, sottoscritto da entrambi i conviventi, ma in relazione al quale il P. rilasciava pure duplice garanzia fideiussoria.
Assume, dunque, l’odierna ricorrente che ambedue i conviventi si sarebbero occupati, con le stesse mansioni e pari capacità di gestione, dell’esercizio commerciale suddetto, contribuendo, inoltre, economicamente alla vita di coppia nei limiti delle proprie risorse.
Terminata la relazione affettiva nel giugno 2004, la S. ed il P. – secondo quanto si legge sempre nel ricorso – cedevano ad un terzo acquirente, nei primi mesi del 2005, l’attività commerciale creata, senza che nessuna pretesa economica, in occasione dell’operazione di vendita, fosse avanzata dal P..
Radicato da quest’ultimo un giudizio cautelare per la tutela del suo diritto, ritenendo il P. che la S. fosse propria debitrice in forza delle fideiussioni da esso prestate, oltre che in virtù di prestiti personali ammontanti ad Euro 37.500,00, denegata la richiesta cautelare, l’adito Tribunale respingeva anche l’azione volta all’accertamento del diritto dell’attore sia a rimanere indenne e manlevato da qualsivoglia conseguenza pregiudizievole derivante dalle fideiussioni prestate (o, in subordine, ad ottenere la ripetizione di tutte le somme che, per effetto delle stesse, fosse stato tenuto a pagare), sia ad ottenere la restituzione dei prestiti effettuati.
Proposto appello dal P., la Corte felsinea, in accoglimento del gravame, provvedeva nei termini sopra riassunti, e ciò sul rilievo dell’inesistenza, nel caso di specie, degli “estremi per l’accertamento di una società di fatto” tra le parti, ovvero “per affermare l’esistenza di una comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale estesa anche a rapporti estranei all’instaurata convivenza”.
Inoltre, quanto alla prima domanda attorea, la sentenza oggi impugnata sottolineava che “la veste di fideiussore del P. ha un formale riscontro documentale che non è possibile superare sulla base di considerazioni meramente indiziarie”. Con particolare riferimento, poi, alla domanda di restituzione del prestito, la stessa veniva accolta sulla base di un prospetto contabile, recante “l’indicazione dei soldi resi ad E. e da dare ad E.”, dandosi atto come siffatta scrittura fosse stata “sottoscritta dalla S.” (che provvedeva al riconoscimento di “sottoscrizione e contenuto” della stessa, in occasione dell’interrogatorio formale), evenienza che ne avrebbe avvalorato “la natura di atto formale e di riconoscimento di debito e non meramente contabile”.
3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna ha proposto ricorso per cassazione la S., sulla base – come detto di quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo, si deduce – ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione degliartt. 1324, 1362 e 1963 c.c., e 2697 c.c., nonché degliartt. 113 e 115 c.p.c.”, sul rilievo che sarebbero stati disattesi “i criteri ermeneutici di interpretazione indicatidall’art. 1362 c.c.e ss.”, nonché per essere stata “omessa la ricostruzione della volontà delle parti”, oltre che per essere stato “posto a fondamento della decisione una prova non proposta dalle parti”.
In particolare, si assume che il summenzionato prospetto contabile consisterebbe in “un foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al comportamento delle parti e alla loro volontà”.
Più esattamente, la “completa assenza di sottoscrizione”, comporterebbe che il giudice di appello, “in violazione di quanto impostodall’art. 115 c.p.c.”, avrebbe “posto a fondamento della propria decisione un documento inesistente, mai offerto in produzione dalle parti”. Inoltre, la decisione impugnata avrebbe riconosciuto “valore ricognitivo ad un calcolo (tot. Euro 37.500,00) che non ha neppure alcuna connessione con i dati numerici che lo precedono, sommando algebricamente i quali si giunge ad un risultato differente e pure inferiore”. Infine, si nega che “da detto documento possa trasparire “una specifica intenzione ricognitiva” a favore del P.”, atteso che – secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità – per l’applicazionedell’art. 1988 c.c., sarebbe “necessaria la consapevolezza del riconoscimento desunta da una dichiarazione univoca, tale da escludere che la relativa dichiarazione possa avere finalità diverse o che il riconoscimento resti condizionato da elementi estranei alla volontà del debitore.
Con specifico riferimento a tale ultimo profilo di doglianza, va rimarcato come la ricorrente censuri la sentenza impugnata giacché avrebbe “omesso di considerare” che la dichiarazione de qua era “riferita ad un’attività gestita in comune dalle parti” (il negozio di abbigliamento), come sarebbe stato agevole accertare sulla base di una serie di dati, idonei a rivelare la effettiva volontà delle parti, e la cui mancata valorizzazione integrerebbe, dunque, violazione dei criteri ermeneutici indicati dalla legge. Rileverebbero, infatti, in tal senso: la disponibilità, da parte del P., del conto corrente intestato alla ditta S.F., avendo delega completa ad operare su di esso, con potere di emissione di assegni; la conduzione e definizione, sempre ad opera del medesimo, degli accordi per la cessione a terzi dell’azienda; l’espresso consenso, manifestato, per iscritto, a tale operazione, senza avanzare alcuna rivendicazione in merito a propri asseriti crediti verso la S.; la fattiva ed assidua presenza del P. nella gestione dell’esercizio commerciale.
3.2. Il secondo motivo, sempre prospettato ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), ipotizza “violazione e falsa applicazione degliartt. 1987 e 1988 c.c.”, segnatamente laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che il suddetto prospetto contabile fosse “di per sé fonte di obbligazione di pagamento”, così omettendo ogni accertamento sul rapporto in cui detta dichiarazione risultava intervenuta.
Sul presupposto secondo cui “la promessa di pagamento e la ricognizione di debito non costituiscono promesse unilaterali ai sensidell’art. 1987 c.c., e dunque non sono fonti di obbligazioni”, essendo la “loro efficacia limitata al tema della prova del rapporto fondamentale che ne costituisce l’oggetto”, producendo solo una “inversione dell’onere probatorio circa l’esistenza dell’obbligazione sottostante”, la ricorrente censura la sentenza impugnata perché avrebbe disatteso tali principi. In base ad essi, si ipotizza nel ricorso, il riconoscimento del debito “comporta unicamente l’inversione dell’onere della prova”, e ciò “in quanto la sua esistenza, estensione, validità ed efficacia dipende dalla prova del rapporto obbligatorio in cui interviene”. Orbene, nel caso di specie, la Corte di Appello di Bologna avrebbe “completamente omesso l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta ricognizione”, e ciò “prescindendo dai “legami” esistenti tra le parti”, ed in particolare “omettendo ogni opportuno accertamento” con riguardo alla “comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale”, esistente tra i conviventi more uxorio ed “estesa anche ai rapporti estranei all’instaurata convivenza”.
3.3. Il terzo motivo è, invece, proposto simultaneamente ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), denunciandosi, da un lato, violazione e falsa applicazionedell’art. 2034 c.c., eart. 430 c.c., comma 2, nonché, dall’altro, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero “l’esistenza di obbligazioni naturali” a carico del P., statuendo erroneamente la Corte felisinea il diritto dello stesso a ripetere quanto pagato in forza del loro adempimento.
Si censura il fatto che il giudice di appello, nell’ambito di un’interpretazione riduttiva dei doveri morali e sociali ravvisabili nelle relazioni more uxorio, avrebbe erroneamente escluso che i versamenti di somme da parte del P. potessero costituire adempimento di detti obblighi, disattendendo quella giurisprudenza di legittimità che nega il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza.
La sentenza impugnata, inoltre, non avrebbe ritenuto opportuno valutare l’adeguatezza delle elargizioni rispetto alle consistenze patrimoniali del P. e della S., “limitandosi a vedere il rapporto tra le parti come una sterile interazione tra un soggetto creditore e un soggetto debitore”, mentre il primo “contribuiva alla gestione del negozio assiduamente e fattivamente”, giovandosi anche dei suoi ricavi.
3.4. Infine, il quarto motivo – proposto a normadell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), – censura la sentenza impugnata per avere “completamente omesso di accertare l’esistenza di una comunione di fatto” tra i due conviventi more uxorio, essendo mancato nel ragionamento del giudice di seconde cure ogni riferimento a dati che lo hanno indotto ad una simile conclusione.
4. Ha proposto controricorso P.E., per resistere all’avversaria impugnazione.
In punto di fatto, il controricorrente precisa che il documento prodotto nel presente giudizio dalla S. (il prospetto contabile), del quale ella contesta l’idoneità a costituire ricognizione di debito, in ragione, tra l’altro, dell’assenza di sottoscrizione, costituirebbe solo l’estratto di un più ampio documento già presente agli atti dei due gradi di merito del presente giudizio. Si tratterebbe, infatti, solo della prima di tre complessive pagine dell’agenda su cui l’odierna ricorrente teneva la propria contabilità, l’ultima delle quali recante non solo la sottoscrizione dell’interessata, ma anche la stampigliatura della data in cui fu trasmessa via fax al commercialista.
Ciò premesso, e non senza ulteriormente precisare come controparte non abbia “mai confutato esistenza ed ammontare delle elargizioni ricevute dal P., essendosi limitata unicamente a contestare la natura di prestito”, l’odierno controricorrente ribadisce come la S., nel corso dell’interrogatorio formale effettuato nel primo grado di giudizio, abbia confermato il contenuto e la sottoscrizione del documento de quo. Evidenzia, inoltre, che contrariamente a quanto sostenuto nell’avversario ricorso – la somma algebrica degli importi indicati nel predetto documento (Euro 37.622,73) corrisponde, sostanzialmente, a quella cifra di Euro 37.500,00 per la cui ripetizione esso P. ha agito in giudizio, al netto di un piccolo arrotondamento al ribasso.
Quanto, poi, al merito delle censure avanzate dalla ricorrente, il P. sottolinea come essa insista a sostenere, “per non restituire quanto ricevuto”, che i prestiti ricevuti “rientrano nell’alveo delle obbligazioni naturali”. Così, tuttavia, non sarebbe, giacché “una cosa sono le spese sostenute per le necessità familiari” (delle quali esso P., difatti, “si è mai sognato di tenere una contabilità analitica e dettagliata durante il rapporto di convivenza, nè si è mai sognato di chiedere la restituzione dopo)”, altro, invece, “i prestiti effettuati in favore dell’attività commerciale della S.”.
Infondata, poi, sarebbe la doglianza relativa alla “omissione” in cui la Corte di Appello sarebbe incorsa quanto all’accertamento delle obbligazioni naturali, giacché il giudice di seconde cure avrebbe, piuttosto, espressamente “escluso” qualsiasi ricostruzione dei rapporti intercorsi tra le parti che richiami il dispostodell’art. 2034 c.c.. Inoltre, si evidenzia come l’odierna ricorrente non abbia “mai offerto il benché minimo elemento di prova, atto a far ipotizzare che le somme le fossero state corrisposte dal P. in adempimento di un’obbligazione naturale”.
Infine, quanto all’omesso esame della questione relativa all’esistenza di una “comunione di fatto” tra i conviventi more uxorio, il P. – non senza previamente evidenziare come l’accertamento della stessa non sarebbe stato richiesto da nessuno, né in primo né in secondo grado, costituendo, così, una domanda nuova – esclude, in ogni caso, che le risultanze istruttorie ne abbiano confermato la ricorrenza. Si sottolinea, infine, come siffatta tesi non possa – in ogni caso – trovare giuridico accoglimento, giacché ciò equivarrebbe ad ipotizzare per i conviventi more uxorio un “regime di comunione legale “in automatico”, senza neppure la possibilità di scegliere un diverso regime patrimoniale, a differenza di quanto avviene per i coniugi”, in disparte ogni altro rilievo circa le conseguente aberranti soprattutto in termini di incertezza sulla circolazione dei beni derivanti dall’applicazione delle regole dettatedall’art. 177 c.c..
5. Entrambe le parti hanno presentato memorie exart. 378 c.p.c., ribadendo quanto già affermato.
Motivi della decisione
6. Il ricorso è da respingere.
6.1. In particolare, i motivi primo, secondo e terzo – da trattare congiuntamente, in quanto censurano, sotto diversi angoli visuali, la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto il prospetto contabile inviato dalla S. al proprio commercialista idoneo ad integrare riconoscimento del debito, ai fini ed agli effetti di cuiall’art. 1988 c.c.- non sono fondati.
6.1.1. In particolare, con il primo motivo si contesta che il documento de quo possa considerarsi espressivo di uno “specifico intento ricognitivo”, trattandosi di “un foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al comportamento delle parti e alla loro volontà”.
Proposta la censura in questi termini (e non, invece, lamentando che la ricognizione, perché possa spiegare i suoi effetti, deve essere “rimessa direttamente dall’obbligato al creditore, senza intermediazioni”, cfr. Cass. Sez. 3, sent. 14 febbraio 2012, n. 2104, Rv. 621529-01), la stessa va rigettata.
E ciò non soltanto perché i dubbi sull’assenza della sottoscrizione e sulla congruità, dal punto vista algebrico, delle cifre in esso riportate, sono superabili sulla scorta dei rilievi proposti dal controricorrente P., ma soprattutto in ragione delle considerazioni che seguono.
Sul punto, infatti, va ribadito che la “ricognizione di debito, come qualsiasi altra manifestazione di volontà negoziale, può risultare anche da un comportamento tacito, purché inequivoco, tale essendo il contegno che nessuno terrebbe se non al fine di riconoscersi debitore, e senza altro scopo se non quest’ultimo” (Cass. Sez. 3, sent. 21 luglio 2016, n. 14993, Rv. 641448-01), dovendo inoltre compiersi, nell’interpretazione dell’atto ricognitivo, “una ricostruzione dell'”intenzione delle parti” (rilevante sotto il profilo di cuiall’art. 1362 cod. civ.) afferente, in via esclusiva, alla volontà espressa dal dichiarante, e non certamente a quella – peraltro, del tutto ipotetica del destinatario di quelle dichiarazioni” (Cass. Sez. 3, sent. 1 agosto 2002, n. 11433, Rv. 556500-01). Proprio a tale ultima volontà, per contro, pretenderebbe di attribuire rilievo la ricorrente, richiamando il contributo del P. alla gestione della (asseritamente) comune attività imprenditoriale.
Corrobora, d’altra parte, l’esito del rigetto anche il rilievo secondo cui “l’indagine sul contenuto e sul significato della dichiarazione al fine di stabilire se importino ricognizione di debito ai sensidell’art. 1988 c.c., rientra nel potere discrezionale del giudice di merito” (cfr. Cass. Sez. 1., sent. 1febbraio 2007, n. 2205, Rv. 595044-01), potere ormai sindacabile solo entro le strette maglie del “novellato” testodell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
6.1.2. Ciò premesso, spostando l’analisi dal piano della astratta “idoneità ad esprimere l’intento ricognitivo”, propria della dichiarazione suddetta, a quello – evocato dal secondo motivo di ricorso – degli effetti destinati a scaturire da essa, deve qui ribadirsi come l’odierna ricorrente censuri il fatto che l’astrazione processuale, conseguente all’avvenuta ricognizione, obbligasse il giudice di appello a compiere “l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta ricognizione”, ciò che il medesimo avrebbe dovuto fare senza poter prescindere “dai “legami” esistenti tra le parti”, ed in particolare dalla supposta “comunione di fatto” tra i già conviventi more uxorio.
Ai fini del rigetto del motivo, tuttavia, è sufficiente osservare come la già ricordata astrazione processuale conseguente alla ricognizione si sostanzi in una “relevatio ab onere probandi” che dispensa il destinatario della dichiarazione dalla necessità di provare il rapporto sottostante al debito riconosciuto, che si presume fino a prova contraria, salvo, appunto, che “la parte da cui provenga dimostri che il rapporto medesimo non sia stato instaurato, o sia sorto invalidamente” (Cass. Sez. 1, sent. 13 giugno 2014, n. 13506, Rv. 631306-01), ovvero “che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento” (Cass. Sez. 1, sent. 13 ottobre 2016, n. 20689, Rv. 642050-03).
Conseguentemente, non era il giudice a dover accertare quale fosse il rapporto sottostante, ma essa S. a doverne dimostrare l’inesistenza, l’estinzione o l’invalidità.
6.1.3. Ne deriva, pertanto, che il discorso finisce – di nuovo – con il traslare su di un ulteriore piano (al quale fa riferimento il terzo motivo di ricorso), ovvero quello della supposta erroneità della decisione impugnata nell’escludere che i versamenti di somme da parte del P. potessero costituire adempimento di obbligazioni naturali verso la convivente S..
Nondimeno, anche questo motivo è destinato al rigetto.
Se, infatti, è innegabile – come argomenta la ricorrente nel proprio atto di impugnazione – che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurino l’adempimento di una obbligazione naturale exart. 2034 c.c., purché a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza (cfr. Cass. Sez. 1, sent. 22 gennaio 2014, n. 1277, Rv. 629802-01; Cass. Sez. 2, sent. 13 marzo 2003, n. 3713, Rv. 651116-01), siffatta conclusione non giova, di per sé, alla S..
Sarebbe stato, infatti, suo onere dimostrare che gli importi – pari, complessivamente, a Euro 37.500,00 – risultanti dal documento dalla stessa sottoscritto (ed indicati, tra l’altro, come “da dare ad E.”), dei quali il P. ha reclamato la restituzione, fossero proprio quelli corrispondenti, invece, ad attribuzioni compiute dallo stesso in adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di convivenza.
Valga, sul punto, rilevare che se il destinatario della dichiarazione exart. 1988 c.c., “stante l’astrazione della causa debendi”, allorché agisca “per l’adempimento della obbligazione”, ha soltanto l’onere di provare la ricorrenza della promessa o della ricognizione di debito, “e non anche la esistenza del rapporto giuridico da cui essa trae origine”, incombe, invece, all’autore della dichiarazione “l’onere di provare la inesistenza o la invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale”; di conseguenza, “è di palmare evidenza che non è sufficiente perché detto onere possa dirsi adempiuto, che lo stesso affermi e dimostri che “altro” rapporto fondamentale è stato estinto”, essendo, invece, indispensabile non tanto la dimostrazione che “in precedenza esisteva un rapporto di debito e credito e questo, per qualsiasi motivo, si è estinto, ma che esista coincidenza – concreta tra tale rapporto (di cui è data la prova) e quello “presunto” per effetto della ricognizione di debito e non (…) una mera “compatibilità” astratta tra i due titoli” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 23 febbraio 2006, n. 4019, Rv. 587935-01).
6.2. Infine, il quarto motivo è inammissibile.
Esso, a tacer d’altro (ovvero al profilo di “novità” denunciato dal controricorrente, idoneo a comportare il medesimo esito processuale: cfr., ex multis, Cass. Sez. 1, sent. 25 ottobre 2017, n. 25319; Rv. 645791-01), si sostanzia nella censura, più che dell’omesso esame di un “fatto”, della mancata disamina, da parte della Corte felsinea, della questione giuridica della configurabilità di una “comunione di fatto” (a somiglianza della comunione patrimoniale tra i coniugi) tra i conviventi more uxorio.
Così intesa, dunque, la censura non appare idonea ad integrare, neppure astrattamente, il vizio suscettibile di riconduzione al novellato testodell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), visto che esso deve investire “non una “questione” o un “punto” della sentenza” (come avvenuto, invece, nel presente caso), “ma un fatto vero e proprio, e quindi un fatto principale, exart. 2697 c.c.(cioè, un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), oppure secondario (cioè, dedotto in funzione di prova di un fatto principale)”; cfr., da ultimo, in motivazione Cass. Sez. 1, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, R. 641174-01; in senso analogo – sulla necessità che l’omesso esame investa sempre un “fatto storico, principale o secondario” – si veda anche Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, ai sensi delD.M. 10 marzo 2014, n. 55.
8. A carico della ricorrente, rimasta soccombente, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e condanna S.F. a rifondere ad P.E. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 9.600,00, più Euro 200,00 per esborsi e spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, nel testo introdotto dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 24 ottobre 2017.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2018

Nei giudizi per il riconoscimento e determinazione dell’assegno divorzile bisogna attendere la decisione delle Sezioni Unite

Cass. civ. Sez. VI – 1, 18 maggio 2018, n. 12378
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 15250/2016 proposto da:
D.S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO CANESTRELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARA RONCOLETTA;
– ricorrenti –
contro
N.R.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 84/2016 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 17/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 22/02/2018 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza del 3 marzo 2016 la Corte d’appello di Trento ha respinto il gravame proposto da D.S. avverso la pronuncia del Tribunale che – avendo già dichiarato con sentenza non definitiva lo scioglimento del matrimonio contratto con N.R. – aveva disposto che egli versasse in favore di quest’ultima un assegno divorzile di Euro, 950,00 mensili e lo aveva condannato alla rifusione delle spese di lite ponendo altresì a suo carico le spese della consulenza tecnica d’ufficio.
La Corte d’appello ha ritenuto che:
l’assetto economico stabilito con l’assegno di mantenimento in sede di separazione (con sentenza che nel caso di specie non è stata oggetto di ricorso per cassazione ed è quindi passata in giudicato), non avendo subito sostanziali modificazioni, potesse costituire un valido indice di riferimento del tenore di vita goduto durante il matrimonio e delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, pur tenendo presente la diversità concettuale tra le due tipologie di prestazione;
– la decisione del tribunale non si prestasse a censure né rispetto al an debeatur né rispetto al quantum debeatur dell’assegno divorzile, stante l’accertata sproporzione reddituale e patrimoniale tra i due coniugi e l’inidoneità dei redditi dell’appellata a garantire un tenore di vita analogo a quello di cui poteva godere in costanza di matrimonio, anche in considerazione della lunga durata dell’unione e del contributo da lei offerto nell’interesse della famiglia;
– irrilevanti fossero le spese ordinarie sostenute dall’appellante (ad es., gas, elettricità, telefono, etc…), dovendo queste essere parimenti sostenute dall’appellante, nonché le spese sostenute per la propria salute e per l’accudimento della sua anziana madre;
– quanto alle spese di lite, non fosse ravvisabile alcuna reciproca soccombenza in primo grado; quanto alle spese della consulenza tecnica, il suo espletamento fosse stato richiesto proprio dall’appellante.
Ha proposto ricorso per cassazione D.S., affidandosi a due motivi, così articolati:
1) violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, L. n. 898 del 1970, art. 5; nullità della sentenza ex art. 360, n. 4, per mancata valutazione delle prove documentali offerte; omesso esame circa un fatto decisivo ex art. 360, n. 5: l’assegno divorzile ha natura assistenziale e non può essere equiparato all’assegno di mantenimento posto in sede di separazione. Il Collegio ha omesso di valutare correttamente la fascia economico-sociale delle parti e l’ingente patrimonio immobiliare della signora N., mentre avrebbe dovuto tenere in adeguata considerazione sia la situazione economica della richiedente, sia quella di D.;
2) violazione o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’errata condanna del sig. D. alle spese di giudizio e di c.t.u, nonché nullità della sentenza ex art. 360, n. 4 e omesso esame circa un fatto decisivo ex art. 360, n. 5: dato che la signora N. si era opposta alla domanda di divorzio e aveva chiesto un assegno divorzile più alto di quello riconosciuto dalla decisione impugnata, doveva quantomeno pervenirsi a una statuizione di soccombenza reciproca. Quanto alla c.t.u., le sue spese non possono essere poste a carico del D., perché era stata chiesta per accertare “all’occorrenza” il patrimonio immobiliare della N., elemento che comunque rientrava nell’onere della prova di quest’ultima.
In considerazione della necessità di attendere la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte circa la determinazione e la quantificazione dell’assegno divorzile, occorre rinviare la causa a nuovo ruolo.
P.Q.M.
La Corte rinvia la causa a nuovo ruolo.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2018

Qualora il giudice intenda disattendere le dichiarazioni del minore e le conclusioni peritali, deve motivare la sua decisione con particolare rigore e pertinenza

Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2018, n. 12957
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
S.F., elettivamente domiciliata in Roma, via Famagosta 2, presso l’avv. Eugenio Mete che la rappresenta e difende, in virtù di mandato in calce al ricorso;
– ricorrente –
nei confronti di:
Su.Vi., elettivamente domiciliato in Roma, circonvallazione Trionfale 145, presso l’avv. Stefano Colella dal quale è rappresentato e difeso in virtù di mandato a margine del controricorso (fax n. 06/39731068, p.e.c. stefanocolella(at)ordineavvocatiroma.orq);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1978/2016 della Corte di appello di Roma, emessa il 16 marzo 2016 e depositata il 25 marzo 2016, n. R.G. 6218/2013;
letta la requisitoria del P.G. in persona del cons. Francesca Ceroni;
sentita la relazione in camera di consiglio del cons. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Il Tribunale di Roma, nel giudizio di separazione fra i coniugi S.F. e Su.Vi. ha emesso sentenza n. 20755/2013 con la quale ha respinto le reciproche domande di addebito, ha affidato la figlia E.S., nata il (OMISSIS) ai servizi sociali, ha disposto la sua residenza prevalente presso il padre regolando la frequentazione con la madre e ponendo a carico di quest’ultima un contributo mensile al mantenimento della figlia di 300 Euro oltre al 50% delle spese straordinarie. Il Tribunale ha inoltre condannato la S. ex art. 709 ter c.p.c., al pagamento di 1.000 Euro in favore della Cassa Ammende e ha ammonito i genitori a tenere comportamenti di maggiore cooperazione nell’interesse della minore.
2. La sentenza è stata appellata da entrambi i coniugi che hanno insistito nelle reciproche domande di addebito della separazione. La S. ha chiesto che fosse disposto l’affidamento condiviso della figlia con fissazione della sua residenza principale presso di sé e imposizione al Su. di un contributo mensile al mantenimento della figlia, pari a 1.000 Euro oltre al 50% delle spese straordinarie. Ha chiesto infine la revoca della sanzione irrogata ex art. 709 ter c.p.c.. Il Su. ha chiesto l’elevazione a 580 Euro del contributo mensile al mantenimento della figlia a carico della S. e la sua condanna alla restituzione di quanto corrisposto durante il giudizio di primo grado a titolo di assegno di mantenimento poi revocato. Ha proposto domanda di condanna della controparte ai sensi dell’art. 96 c.p.c..
3. La Corte di appello di Roma ha accolto la domanda del Su. di condanna della S. alla restituzione della somma di 6.000 Euro, percepita, a titolo di assegno di mantenimento, nel corso del giudizio di primo grado. Ha respinto le domande proposte, nel corso del giudizio di appello, dalla S. ex art. 709 ter c.p.c., e art. 330 c.c., e la domanda di condanna ex art. 96 c.p.c., proposta dal Su.. Ha compensato le spese del giudizio di appello.
4. Ricorre per cassazione S.F. che, con sette motivi di impugnazione, lamenta la mancata nomina di un curatore speciale della minore in presenza di un rilevante conflitto tra i genitori (primo motivo), la mancata audizione della minore da parte del giudice e la non considerazione della volontà da lei espressa di abitare con la madre e la sorella, volontà valorizzata dal consulente tecnico che ha ritenuto la madre il genitore più attento ai bisogni della figlia e ha riscontrato un deciso peggioramento delle condizioni della minore che impongono urgentemente un intervento psicoterapeutico per contrastare la tendenza alla depressione come conseguenza della separazione dalla madre e dalla sorella (motivi dal secondo al sesto). Infine la ricorrente, con il settimo motivo, censura la condanna alla ripetizione della somma di 6.000 Euro perché contraria ai principi giurisprudenziali in tema di ripetibilità delle somme percepite a titolo di assegno di mantenimento, in base a provvedimenti presidenziali revocati nel successivo corso del giudizio. In questa prospettiva ha evidenziato la modestia dell’importo dell’assegno di mantenimento di 400 Euro mensili percepito (dal giugno 2007 all’agosto 2008) sino a quando non ha avuto una occupazione lavorativa stabile.
5. Si difende con controricorso Su.Vi..
6. Le parti depositano memorie difensive.
7. Il Procuratore Generale ha chiesto la cassazione della sentenza della Corte di appello e la pronuncia del seguente principio di diritto: “la tutela del diritto fondamentale di sorellanza e fratellanza impone che, in caso di separazione dei genitori, i fratelli e le sorelle debbano essere collocati presso il medesimo genitore, salvo che emerga la contrarietà in concreto di tale collocamento al loro interesse”.
Ritenuto che:
8. Devono essere esaminati preventivamente e unitariamente i motivi dal secondo al sesto che si rivelano fondati. Ritiene la giurisprudenza di legittimità che nel giudizio di separazione personale tra coniugi, l’audizione del minore infradodicenne capace di discernimento – direttamente da parte del giudice ovvero, su mandato di questi, da parte di un consulente o del personale dei servizi sociali – costituisce adempimento previsto a pena di nullità ove si assumano provvedimenti che lo riguardino, salvo che il giudice non ritenga, con specifica e circostanziata motivazione, l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore (Cass. civ. sez. 1^ n. 19327 del 29 settembre 2015). Tuttavia l’ascolto del minore è cosa diversa dallo svolgimento di una consulenza tecnica volta a fornire al giudice strumenti di valutazione per individuare quale sia la situazione più confacente all’interesse del minore, per ciò che concerne la decisione che dovrà adottare circa la convivenza con l’uno o l’altro genitore. L’ascolto è infatti una relazione tendenzialmente diretta fra il giudice e il minore che dà spazio, all’interno del processo, alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda. La consulenza, se pure si avvale preferibilmente di un ascolto diretto del minore da parte di uno specialista, è una indagine che prende in considerazione una serie di fattori quali in primo luogo la personalità, la capacità di accudimento e di educazione dei genitori, la relazione in essere con il figlio. Ciò comporta che il giudice deve motivare le ragioni per cui ritiene il minore infradodicenne incapace di discernimento, se decide di non disporne l’ascolto, così come deve motivare perché ritiene l’ascolto effettuato nel corso delle indagini peritali idoneo a sostituire un ascolto diretto ovvero un ascolto demandato a un esperto al di fuori del contesto relativo allo svolgimento di un incarico peritale. Tale motivazione appare, in generale, tanto più necessaria quanto più l’età del minore, come nel caso in esame, si approssima a quella dei dodici anni oltre la quale subentra l’obbligo legale dell’ascolto. È vero inoltre che il giudice non è tenuto a recepire, nei suoi provvedimenti, le dichiarazioni di volontà che emergono dall’ascolto del minore così come non è tenuto a recepire le conclusioni dell’indagine peritale. Tuttavia qualora il giudice intende disattendere tali dichiarazioni e tali conclusioni ha l’obbligo di motivare la sua decisione con particolare rigore e pertinenza. Nel caso in esame vi è stata una chiara volontà espressa dalla figlia di convivere con la madre e con la sorella con la quale ha un rapporto affettivo importante e di reciproco sostegno. Tale volontà è stata apprezzata dal consulente che ha ritenuto il legame con la sorella il maggior riferimento affettivo e stabilizzante per E.S., sulla base di una valutazione psicologica che si aggiunge alla condivisibile considerazione generale del PG circa la necessità di preservare nelle separazioni la conservazione del rapporto fra fratelli e sorelle e di non adottare provvedimenti di affidamento che comportino la loro separazione se non per ragioni ineludibili e, comunque, sulla base di una motivazione rigorosa che evidenzi il contrario interesse del minore alla convivenza. In questa prospettiva, sia normativa (che trova la sua fonte nel quadro legislativo nazionale e nelle convenzioni internazionali specificamente nell’art. 8 della C.E.D.U.) sia riferibile a un sapere extragiuridico, quale è quello di cui si è avvalsa, nel caso in esame, la Corte di appello, mediante la consulenza, la prescrizione normativa dell’ascolto del minore richiede una valorizzazione sostanziale del punto di vista del minore ai fini della decisione che lo concerne. Si impone in questi casi pertanto una rigorosa verifica della contrarietà al suo interesse, come condizione necessaria per disattenderle, delle valutazioni e aspirazioni espresse dal minore nel corso dell’ascolto. I risultati, che peraltro sono ampiamente riportati nella motivazione della Corte di appello, dell’indagine sulle carenze genitoriali di entrambi i genitori e sulla attuale situazione gravemente insoddisfacente della minore, non consentono di ritenere che tale verifica sia stata compiuta. La conflittualità delle parti in causa non può costituire, di per sé, una giustificazione idonea a far ritenere prevalente l’interesse del minore al mantenimento dello status quo. La decisione sul collocamento di E.S. va pertanto cassata per consentire alla Corte di appello una nuova verifica su quale sia la residenza della minore, presso il padre o la madre, maggiormente corrispondente al suo interesse. Verifica che, partendo dall’ascolto della minore, prenda in esame il contesto dei due nuclei familiari, l’idoneità genitoriale e la esigenza primaria della conservazione del legame e della condivisione di vita con la sorella.
9. Per quanto riguarda il primo motivo di ricorso la Corte ritiene che il giudizio di separazione, nel quale vengono adottati provvedimenti che concernono il minore, non determina automaticamente, nel caso di rilevante conflittualità fra le parti in causa, una situazione di conflitto di interesse fra genitori e figli. Deve piuttosto ritenersi che essa può determinarsi in concreto in relazione a comportamenti processuali delle parti che tendano a impedire al giudice una adeguata valutazione dell’interesse del minore ovvero a frapporsi alla libera prospettazione del punto di vista del minore in sede di ascolto da parte del giudice. Si tratta, in questi casi, di una situazione di conflitto che richiede la nomina di un curatore speciale ma la cui individuazione è rimessa alla valutazione del giudice di merito.
10. Quanto all’ultimo motivo di ricorso la Corte rileva che alla luce della giurisprudenza, anche recente, di legittimità, in tema di separazione personale, la riduzione e la revoca dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge e dei figli decorre normalmente dal momento della pronuncia giudiziale che ne modifica la misura o ne accerta l’inesistenza dei presupposti. Non sono quindi rimborsabili le somme percepite in forza di precedenti provvedimenti non definitivi, qualora, per la loro non elevata entità, tali somme siano state comunque destinate ad assicurare il mantenimento del coniuge fino all’eventuale esclusione del diritto stesso o al suo affievolimento in un obbligo di natura solo alimentare, e si debba presumere, proprio in virtù della modestia del loro importo, che le stesse siano state consumate per fini di sostentamento personale (cfr. fra le molte, Cass. civ. sez. 1^ n. 6864 del 20 marzo 2009 che ha escluso la ripetibilità di un assegno di mantenimento di 350 Euro mensili e Cass. civ. sez. 6^-1 n. 15186 del 20 luglio 2015).
11. Il ricorso va pertanto accolto con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di appello di Roma che in diversa composizione deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 ottobre 2017.
Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2018

Se non contraria all’interesse del minore, il sindaco non può rifiutare la trascrizione nei registri degli atti di nascita della “stepchild adoption” concessa all’estero a una coppia omosessuale, regolarmente sposata in base alla legge del paese di origine

Cass. civ. Sez. I Ordinanza, 31 maggio 2018, n. 14007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14790/2016 proposto da:
Sindaco del Comune di (OMISSIS), Sindaco del Comune di (OMISSIS), entrambi in qualità di Ufficiale di Governo, domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende ope legis;
– ricorrenti –
contro
L.D.G., H.R.L.A.R., entrambe in proprio e nella qualità di rappresentanti dei figli minori H.G.A. e L.D.L.M.R., elettivamente domiciliate in Roma, Via Ludovisi n. 35, presso lo studio dell’avvocato Perin Giulia, rappresentate e difese dall’avvocato Di Meo Giuseppe, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Napoli;
– intimato –
avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 30/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/04/2018 dal cons. IOFRIDA GIULIA;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE AUGUSTINIS Umberto, che ha chiesto la trattazione in pubblica udienza.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Napoli, con ordinanza n. 688/2016, pronunciata, ex art. 702 bis c.p.c. (D.Lgs. n. 150 del 2011,art.30), in giudizio promosso da L.D.G., cittadina francese ed italiana, e H.R.L., cittadina francese, in proprio e quali rappresentanti dei figli minori H.A.G. e L.D.L.M.R., tutti residenti in (OMISSIS), al fine di sentire riconoscere le adozioni piene di diritto francese (“adoption pleniere”), pronunciate con due sentenze emesse, in data 12/05/2014, dal Tribunal de Grande Istance de Lille, un’adozione, da parte di H.R.L., della minore L.D.L.M.R., “allo stato civile francese”, nata nel (OMISSIS), altra adozione, da parte di L.D.G., del minore H.A.G., “allo stato civile francese”, nato nel (OMISSIS), e per gli effetti ordinare all’Ufficiale di Stato civile del Comune di (OMISSIS) la trascrizione delle suddette sentenze e le annotazioni susseguenti (in particolare, la rettifica dei cognomi dei minori), – nel contraddittorio con i Sindaci dei Comuni di (OMISSIS) e di (OMISSIS), in qualità di Ufficiali dello Stato Civile, in accoglimento del ricorsoL. n. 218 del 1995, ex art. 67, ha riconosciuto l’efficacia nell’ordinamento giuridico italiano delle suddette sentenze del giudice francese, ordinando agli Ufficiali di Stato Civile dei due Comuni di procedere alle debite trascrizioni nei registri degli atti di nascita.
Le signore L.D. e H., entrambe di cittadinanza francese, la prima anche italiana iure sanguinis, – unite da una relazione amorosa stabile e continua sin dagli anni ’80, sfociata nella stipula, nel 2000, presso il Consolato francese a Napoli, di un “patto civile di solidarietà”, previsto dalla legislazione francese, e, nel 2013, nel matrimonio contratto in Francia, in virtù della legge francese n. 404/2013 (matrimonio trascritto nei registri dello stato civile, a seguito di provvedimento della Corte d’appello di Napoli, impugnato con ricorso per cassazione dall’amministrazione), – e residenti dagli anni ’90 anche in Italia (avendo comunque mantenuto una residenza in Francia), svolgendo la professione di insegnanti di lingua francese presso l’università di Salerno, hanno partorito, rispettivamente, attraverso pratiche di inseminazione artificiale realizzate in (OMISSIS) ed in (OMISSIS), la L.D., la figlia L.D.L.M.R., nata ad (OMISSIS), e, la H., il figlio H.A.G., nato ad (OMISSIS), ed i suddetti due figli minori sono stati adottati da parte delle due donne coniugate (ciascuna ha adottato il figlio biologico dell’altra), con adozione piena di diritto francese, per effetto di sentenze del giudice civile di Lille (FR), divenute definitive e dichiarate esecutive.
Le richieste, inoltrate all’Ufficiale di Stato civile del Comune di (OMISSIS), di trascrizione, non sono state accolte, in quanto il matrimonio dei genitori, evento indicato come relativo alla filiazione, è stato ritenuto improduttivo di effetti in Italia ed il provvedimento di rifiuto è stato confermato dal Tribunale di Avellino, con rigetto della correlata opposizione; anche la richiesta della L.D., al Comune di (OMISSIS), di ottenere l’aggiunta, al nominativo della figlia L.M.R., del cognome della madre adottiva H., non è stata accolta.
La Corte d’appello – ritenute sussistenti la propria giurisdizione, in luogo di quella del giudice amministrativo, e la propria competenza, in luogo di quella del giudice minorile, prevista dallaL. n. 218 del 1995,art.41, comma 2, inteso a salvaguardare la specialità dell’adozione internazionale di cui alla richiamataL. n. 476 del 1998, (laddove, nella specie, si trattava di riconoscimento,L. n. 218 del 1995, ex artt. 64 e 65, dell’efficacia in Italia di un’adozione nazionale francese, avvenuta “al di fuori dagli schemi (ed all’epoca ignote) dell’adozione internazionale”, da parte di due donne coniugate per lo Stato francese dei rispettivi figli biologici), nonché la legittimazione passiva degli Ufficiali di stato civile, che avevano “contestato” le sentenze straniere nella sede amministrativa, – hanno affermato che le suddette adozioni, pronunciate in Stato Europeo, implicanti l’acquisto, da parte dei minori, “dello status di figli legittimi…delle due madri, coniugate validamente secondo la legislazione dello stato di cittadinanza”, non sono contrarie all’ordine pubblico, inteso come ordine pubblico internazionale e quindi “come complesso di principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati s esigenze di garanzia, comuni ai divi si ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo”, considerato che il riconoscimento di tutti i diritti e doveri scaturenti dal rapporto di adozione corrisponde, secondo l’apprezzamento già operato dal giudice francese, “all’interesse superiore del minore al mantenimento della vita familiare costruita con ambedue le figure genitoriali ed al mantenimento delle positive relazioni affettive ed educative che con loro si sono consolidate”.
Avverso la predetta ordinanza, i Sindaci dei Comuni di (OMISSIS) e di (OMISSIS), quali Ufficiali del Governo, propongono ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti di L.D.G. e H.R.L., in proprio e quali rappresentanti dei figli minori H.A.G. e L.D.L.M.R. (che resistono con controricorso) e del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Napoli (che non ha svolto attività difensiva).
Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, chiedendo la trattazione del ricorso in pubblica udienza. Le controricorrenti hanno anche depositato memoria, mentre la memora depositata dai ricorrenti risulta tardiva.
Motivi della decisione
1. I ricorrenti lamentano: 1) con il primo motivo, la violazione, exart. 360 c.p.c., n. 2, delle norme sulla competenza, ribadendo eccezione, già sollevata e respinta dalla Corte d’appello e deducendo che, vertendosi in fattispecie, sostanzialmente, di opposizione al rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile alla trascrizione delle sentenze emesse dal giudice francese, ricorre la competenza del Tribunale del circondario in cui si trova l’ufficio di stato civile presso il quale è registrato l’atto o presso il quale si chiede di eseguire l’adempimento, ai sensi delD.P.R. n. 396 del 2000,art.95; 2) con il secondo motivo, la violazione, eart. 360 c.p.c., n. 2, delle norme sulla competenza ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.35, comma 5, dovendo ritenersi competente, sulla base anche della deroga dettata dallaL. n. 218 del 1995,art.41, comma 2, il Tribunale per i minorenni del distretto in cui gli aspiranti all’adozione hanno la residenza nel momento dell’ingresso del minore in Italia; 3) con il terzo motivo, la violazione e falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, dellaL. n. 218 del 1995,art.41, comma 2, eL. n. 184 del 1983,art.6, e art. 35, comma 3, avendo la Corte d’appello riconosciuto l’efficacia in Italia del provvedimento straniero di adozione malgrado lo stesso fosse contrario ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori e specificamente al principio secondo cui l’adozione è permessa soltanto ai coniugi “uniti in matrimonio”, matrimonio che nell’ordinamento italiano è consentito solo a persone di sesso diverso, cosicché nella specie difetta un presupposto per l’adozione “legittimante”, il matrimonio, essendo improduttivo di effetti in Italia il matrimonio celebrato all’estero da due persone dello stesso sesso, avendo anche il legislatore nazionale, nel recente intervento normativo di cui allaL. n. 76 del 2016, escluso la possibilità, per la coppia formata da persone dello stesso sesso, di addivenire ad una “stepchild adoption”; 4) con il quarto motivo, la violazione, exart. 360 c.p.c., n. 3,dell’art. 92 c.p.c., comma 2, in ordine alla mancata compensazione delle spese processuali, a fronte dell’assoluta novità e complessità della questione trattata.
2. I ricorrenti hanno premesso che pende altro giudizio dinanzi a questa Corte, n. 25693/2015 RG, avente ad oggetto la legittimità della trascrizione in Italia del matrimonio delle attuali controricorrenti, celebrato in Francia, avendo il Sindaco del Comune di (OMISSIS) impugnato il decreto della Corte d’appello di Napoli, n. 1156/2015, con il quale era stato accolto il reclamo delle sig.re L.D. ed H. avverso decreto del Tribunale di Avellino, ordinandosi la trascrizione dell’atto di matrimonio nei registri dello stato civile di quel Comune.
La Corte d’appello di Napoli, nell’ambito di un procedimento di rettificazione di atti di stato civile, promosso ai sensi delD.P.R. n. 396 del 2000,art.95, a fronte del rifiuto alla trascrizione opposto dal Sindaco del Comune, quale Ufficiale dello stato civile, e premesso che oggetto del giudizio era la trascrizione dell’atto di matrimonio, contratto in Francia (ove è ammessa l’unione come coniugi di persone dello stesso sesso) da due cittadine francesi (di cui una anche cittadina italiana iure sanguinis), in Italia, Paese dove la coppia coniugata si è trasferita (ed ove ancora non era stata emanata laL. n. 76 del 2016, disciplinante le unioni civili di persone dello stesso sesso), ha ritenuto trascrivibile in Italia il matrimonio di cittadini stranieri e dell’Unione, a prescindere dal loro orientamento sessuale e/o appartenenza di genere, non ostandovi alcun limite di ordine pubblico (nazionale o internazionale) opponibile dall’amministrazione dello Stato di residenza.
Ora, va rilevato che detto procedimento risulta definito con sentenza di questa Corte n. 2487/2017, pubblicata il 31/1/2017, con la quale è stato dichiarato improcedibile il ricorso principale del Sindaco, stante il mancato deposito della copia notificata del provvedimento impugnato, e, di conseguenza, inefficace anche il ricorso incidentale, proposto tardivamente dalle controricorrenti L.D. ed H. (e le controricorrenti, a pag. 7 della memoria depositata, hanno dato atto di ciò).
Per l’effetto, stante la formazione del giudicato, il matrimonio contratto in Francia dalle attuali controricorrenti è pienamente produttivo di effetti giuridici nell’ordinamento italiano o, più precisamente, l’atto di matrimonio tra le controricorrenti, di cui è stata ordinata la trascrizione negli archivi di stato civile, con sentenza ormai passata in giudicato, risulta così idoneo ad assolvere pienamente le funzioni proprie, pubblicitarie e probatorie (cfr. Cass. 9578/1993; Cass. 10351/1998; Cass. 17620/2013).
2. Le controricorrenti, dopo avere eccepito l’improcedibilità del ricorso per tardività della notifica, hanno sollevato preliminarmente eccezione di inammissibilità del ricorso, per carenza di legittimazione processuale dei Sindaci ricorrenti, quali Ufficiali di stato civile e del Governo (e quindi del Ministro dell’Interno, peraltro non partecipante al giudizio di merito), sotto vari profili: 1) in rito, dovendo ritenersi che i Sindaci, nella fase di merito, erano meri intervenienti volontari (e peraltro neppure validamente costituiti in giudizio con modalità telematica), in procedimento di volontaria giurisdizione, a fronte di una notificazione del ricorso nei loro confronti a titolo di mera litis denuntiatio; 2) in relazione agli adempimenti di trascrizione all’esito dell’accertamento giudiziale dell’efficacia del provvedimento stranieroL. n. 218 del 1995, ex art. 67, essendo gli stessi “confinati alla fase squisitamente amministrativa”.
3. Sono infondate le eccezioni pregiudiziali sollevate dalle controricorrenti.
3.1. E’ anzitutto infondata l’eccezione di improcedibilità del ricorso per cassazione, risultando che lo stesso, a fronte della notifica dell’ordinanza della Corte d’appello, avvenuta, a cura di parte, il 5/4/2016, è stato spedito dall’Avvocatura generale dello Stato a mezzo posta in data lunedì 6/6/2016 (non rilevando, rispetto al termine per il notificante, la data del perfezionamento della notifica), nel termine di gg. sessanta di cui all’art. 325.
3.2. Del pari infondata risulta l’eccezione di carenza di legittimazione processuale dei Sindaci ricorrenti, e quindi anche l’eccezione correlata di inammissibilità del ricorso, considerata la previsione generale dellaL. n. 218 del 1995,art.67, sul diritto internazionale privato, secondo cui, a fronte della contestazione del riconoscimento della sentenza straniera o del provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, la legittimazione attiva, a ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria (e quindi,D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 30, alla corte d’appello del luogo di attuazione del provvedimento), spetta a “chiunque vi abbia interesse” e la disposizione va interpretata “nel senso che parte interessata non è soltanto una delle parti del processo che ha dato luogo alla sentenza da eseguire” (Cass. 220/2013, in tema, con riguardo al cessionario del diritto accertato con medesima decisione).
Come evidenziato, di recente, da questa Corte (Cass. 4382/2018, ordinanza interlocutoria), in fattispecie similare (concernente, tuttavia, il riconoscimento di efficacia nell’ordinamento giuridico italiano di un provvedimento giurisdizionale emesso dal giudice canadese, con il quale si accertava una relazione di co-genitoriaità di un secondo padre rispetto a due minori, in assenza di legami genetici), “la nozione di interessato al riconoscimento del provvedimento straniero di volontaria giurisdizione (qual è quello esaminato dai giudici di merito), difficilmente può portare all’esclusione del Sindaco come ufficiale di stato civile”, considerato che l’oggetto della domanda giudiziale, come già precisato dalla Corte d’appello, pur costituito esclusivamente dal riconoscimento nell’ordinamento interno, ai sensi dellaL. n. 218 del 1995,art.67, del provvedimento pronunciato dal giudice francese (di adozione piena, da parte di ciascuna delle due madri sociali del figlio biologico dell’altra), comunque ne comporta la successiva e dipendente richiesta di ordinare, agli Ufficiali dello stato civile dei Comuni di (OMISSIS) e di (OMISSIS) (ossia ai Sindaco o loro delegati), la trascrizione negli atti dello Stato civile di quei Comuni.
Deve poi aggiungersi che, nel procedimento svoltosi dinanzi alla corte d’appello, secondo il procedimento sommario di cognizione, i Sindaci dei due Comuni hanno partecipato, essendo stati evocati in giudizio dalle stesse ricorrenti (come rilevato dalla corte d’appello di Napoli), così da non potere essere ritenuti semplici intervenienti volontari.
Ora, la qualità di parte legittimata a proporre il ricorso per cassazione o a resistere ad esso spetta solo a chi abbia formalmente assunto la qualità di parte nel giudizio di merito conclusosi con la sentenza impugnata, indipendentemente dall’effettiva titolarità (dal lato attivo o passivo) dei rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, atteso che con l’impugnazione non si esercita un’azione, ma un potere processuale che, per sua natura, può spettare soltanto a chi abbia partecipato al pregresso grado di giudizio (Cass. 1854/2000; Cass. 9538/2001; Cass. 15021/2005; Cass. 16100/2006; Cass. 17234/2014).
3.3. Inammissibile risulta poi la contestazione in ordine alla non rituale costituzione dei Sindaci, attuali ricorrenti, nel giudizio svoltosi dinanzi alla Corte d’appello – avvenuta con modalità telematica, per asserita non validità dell’atto, stante “la revoca della firma digitale” apposta dall’Avvocato dello Stato che lo aveva redatto – considerato che la corte distrettuale ha espressamente statuito sulla questione pregiudiziale di rito, rigettandola, avendo accertato, al contrario, che dal fascicolo telematico “la difesa erariale risulta chiaramente costituita con comparsa firmata digitalmente dall’avv.to Giuseppe Capodanno” e che “dal predetto rapporto di verifica risulta non revocato e in corso di validità il certificato” per firma digitale, apposta sulla comparsa, tanto che la comparsa ed il fascicolo telematico della difesa erariale erano stati accettati dal sistema. La riproposizione della lagnanza quindi neppure coglie la ratio decidendi.
In ogni caso, ai fini dell’interesse nel presente giudizio, la non rituale costituzione, nel giudizio dinanzi alla corte d’appello in unico grado, della difesa erariale non sarebbe idonea a travolgere la qualità di parte processuale e quindi la legitimatio ad causam nel presente giudizio.
Inoltre, la questione, sottesa all’eccezione, avrebbe potuto essere sollevata solo a mezzo di proposizione di apposito ricorso incidentale e non già di mera riproposizione, come invece avvenuto, considerato che, nel caso in cui la sentenza di secondo grado abbia, seppure implicitamente, risolto in senso sfavorevole alla parte vittoriosa una questione pregiudiziale o preliminare, il ricorso per cassazione dell’avversario impone, qualora si intenda ottenere un riesame della Corte sulla questione stessa, di proporre ricorso incidentale, non trovando applicazione nel giudizio di cassazione il disposto di cuiall’art. 346 c.p.c., (e dunque sia in caso di soccombenza pratica che teorica). Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il convenuto vittorioso nel merito in primo grado, che intenda devolvere al giudice dell’appello una questione pregiudiziale di rito, affrontata e decisa nella sentenza in senso a lui sfavorevole, ha l’onere di formulare un’impugnazione incidentale, non essendo sufficiente la mera riproposizione della questione ai sensidell’art. 346 c.p.c.(Cass., SS.UU., 16 ottobre 2008, n. 25246, in relazione alla questione della necessaria riproposizione o meno, da parte del vincitore nel merito, dell’eccezione pregiudiziale di rito relativa al difetto di giurisdizione, esplicitamente rigettata in primo grado; Cass. S.U. 26940/2013; in motivazione, Cass. 11799/2017).
4. Tanto premesso, la prima censura del ricorso è infondata.
La L. n. 396 del 2000, art. 95, contempla la possibilità di impugnare il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, dinanzi al Tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento; laL. n. 218 del 1995,art.67, contempla, invece, la possibilità di ricorrere dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria (dopo la Riforma di cui al D.Lgs. n. 150/2911) per impugnare la mancata ottemperanza o la contestazione del riconoscimento della sentenza straniera o del provvedimento straniero di volontaria giurisdizione.
Trattasi di rimedi alternativi, non pienamente sovrapponibili, che possono essere coltivati in via autonoma. Nella specie, le ricorrenti hanno prescelto la strada di cui all’art. 67, volendo conseguire una pronuncia giudiziale di riconoscimento pieno dell’efficacia in Italia delle sentenze di adozione del giudice francese.
5. Anche la seconda censura è infondata.
LaL. n. 218 del 1995,art.41, nel consentire il riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di adozione, richiama, al primo comma, la disciplina dettata dagli artt. 64, 65 e 66, della medesima legge per il riconoscimento dell’efficacia delle sentenze e dei provvedimenti stranieri, ivi compresi quelli di giurisdizione volontaria, secondo il modello di riconoscimento in via automatica (ritenuto, quindi, sicuramente operante nelle ipotesi di adozione di maggiorenni, di adozioni all’estero di minori italiani, di adozioni all’estero di minori stranieri da parte di adottanti stranieri), facendo tuttavia salve, al secondo comma, le disposizioni delle leggi speciali in materia di adozione dei minori.
Tali disposizioni sono quelle dettate dallaL. n. 184 del 1983, e segnatamente l’art. 29 e ss. (Titolo III, dell’adozione internazionale), i quali disciplinano l’adozione di minori stranieri (vale a dire l’adozione internazionale, laddove vi sia diversità dello Stato di residenza degli aspiranti genitori adottivi, rispetto a quello del minore in stato di abbandono, che va distinta dall’adozione c.d. “straniera” ovvero interna al Paese estero in cui è pronunciata, caratterizzata dalla comune residenza, in uno Stato estero, da almeno due anni, dei cittadini italiani che sono aspiranti genitori adottivi e del minore, che risulta in stato di abbandono, che trova comunque disciplina specifica nell’art.36 comma 4 della stessa legge, sempre all’interno del Titolo III), stabilendo che la stessa ha luogo conformemente ai principi e secondo le direttive della Convenzione della Aja, resa esecutiva nel nostro ordinamento dallaL. n. 476 del 1998, che ha modificato laL. n. 184 del 1983cit..
Ai sensi dell’art. 29 bis, la disciplina in esame si applica all’adozione di un minore straniero residente all’estero, qualora gli adottanti siano persone residenti in Italia o cittadini italiani residenti in uno Stato straniero, che soddisfino le condizioni prescritte dall’art. 6 della stessa legge (“coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni”, non separati, di età idonea all’adozione secondo i criteri fissati dalla legge stessa), e si svolge, nel primo caso, dinanzi al tribunale per i minorenni del distretto in cui gli adottanti hanno la residenza, e, nel secondo, dinanzi a quello del distretto in cui si trova il luogo della loro ultima residenza. La Corte Costituzionale, nell’ordinanza n. 76/2016, nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dellaL. 4 maggio 1983, n. 184,artt.35e36, (Diritto del minore ad una famiglia), sollevate dal Tribunale per i minorenni di Bologna (in fattispecie attinente all’efficacia interna di un provvedimento straniero di adozione reso nei confronti della compagna e poi moglie, in forza di matrimonio celebrato in altro Paese, della madre biologica del minore), in riferimento agliartt. 2, 3, 30, 31 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agii artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ha precisato, con riguardo allaL. n. 184 del 1983,art.36, comma 4, – nel quale si prevede che “l’adozione pronunciata dalla competente autorità di un Paese straniero a istanza di cittadini italiani, che dimostrino al momento della pronuncia di aver soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del tribunale per i minorenni, purché conforme ai principi della Convenzione” -, che tale disposizione è “volta ad impedire l’elusione, da parte dei soli cittadini italiani, della rigorosa disciplina nazionale in materia di adozione di minori in stato di abbandono, attraverso un fittizio trasferimento della residenza all’estero” (nella specie, la questione è stata ritenuta non rilevante, in quanto non si trattava di adozione internazionale da parte di cittadini italiani, seppur residenti all’estero, ma di adozione pronunciata all’estero a favore di soggetto che, solo successivamente alla pronuncia di adozione, aveva conseguito la cittadinanza italiana).
Risulta pertanto che l’intera disciplina dell’adozione di minori stranieri contenuta nel titolo III dellaL. n. 184 del 1983, dedicato all’adozione internazionale, non è applicabile nel caso in esame, dal momento che non si verte in ipotesi di coppia di coniugi, cittadini italiani, residenti in Italia ovvero all’estero, ma da almeno due anni, che intendono congiuntamente adottare, con effetti di adozione piena, un minore straniero in stato di abbandono, residente all’estero; vi sono sì alcune circostanze che presentano collegamenti con l’ordinamento italiano (la doppia cittadinanza, di cui una anche italiana, per la L.D., la residenza in Italia di entrambe le adottanti), ma esse non valgono a ricondurre la specifica forma di adozione coparentale, pronunciata all’estero, nella nozione di “adozione internazionale”, quale quella disciplinata dallaL. n. 184 del 1983.
Il riconoscimento dell’adozione piena disposto all’estero non risulta, in sostanza, rivolto a creare, secondo lo schema dell’adozione internazionale piena, contemplato dallaL. n. 184 del 1983, un nuovo legale familiare tra minore ed adottante, destinato a soppiantare i precedenti legami famigliari con la famiglia d’origine.
Anche l’adozione in forme particolari, di cui all’art. 44, stessa legge, contenuta nel titolo autonomo IV, i cui effetti non corrispondono a quelli dell’adozione piena, essendo modellati su quelli delle adozioni di persone maggiori di età – questione peraltro neppure specificamente prospettata in ricorso -, non si attaglia alla fattispecie in esame, vertendosi in ipotesi di adozione, da parte di ciascuna delle due donne, cittadine francesi (una delle quali anche cittadina italiana), unite da vincolo matrimoniale, con effetti giuridici anche per l’ordinamento italiano (che convivono stabilmente e da tempo provvedono alla cura dei due minori stranieri), del figlio biologico dell’altra.
Correttamente, dunque, ai sensi dellaL. n. 218 del 1995,art.41, comma 1, la Corte d’appello di Napoli ha ritenuto che il riconoscimento dell’adozione piena francese, nella specifica fattispecie, sia soggetto alla disciplina prevista dalla L. n. 218 del 1994, art. 64 e ss..
6. In relazione al terzo motivo, attinente al concetto di ordine pubblico cui occorre fare riferimento al fine del riconoscimento dell’efficacia in Italia delle sentenze del giudice francese, va osservato quanto segue.
Giova preliminarmente ribadire che il giudizio riguardante la compatibilità con l’ordine pubblico secondo il diritto internazionale privato, ai sensi dellaL. n. 218 del 1995,art.64e ss., è finalizzato non già ad introdurre in Italia direttamente la legge straniera, come fonte autonoma e innovativa di disciplina della materia, ma esclusivamente a riconoscere effetti in Italia ad uno specifico atto o provvedimento straniero relativo ad un particolare rapporto giuridico tra determinate persone (cfr. Cass. 19599/2016).
Questo giudice di legittimità, nella sentenza di questa stessa sezione, già citata, del 2016, ha prescelto una nozione, assai circoscritta, di “ordine pubblico”, condivisa dalla Corte d’appello di Napoli, nella decisione qui impugnata (peraltro, di anteriore pubblicazione), con riferimento ai soli principi supremi o fondamentali e vincolanti della Carta costituzionale (e fra questi anche di quello relativo all’interesse superiore del minore, che avrebbero trovato riconoscimento e tutela nell’ordinamento internazionale e in quello interno), non anche in base alle norme costituenti esercizio della discrezionalità legislativa (quali ad es. la disciplina sulle unioni civili di cui allaL. n. 76 del 2016, o quella relativa alla fecondazione assistita, con i suoi divieti, di cui allaL. n. 40 del 2004), in materie connesse o direttamente implicate.
La nozione di ordine pubblico, limite al riconoscimento di sentenza o provvedimento giurisdizionale straniero, già era stata identificata come “sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell’Unione Europea dall’art. 6 TUE” (Cass. 1302/2013).
Le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente pronuncia n. 16601/2017, hanno, tuttavia, precisato che “il rapporto tra l’ordine pubblico dell’Unione e quello di fonte nazionale non è di sostituzione, ma di autonomia e coesistenza”, cosicché “la sentenza straniera che sia applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina Europea, deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale”.
Ora, laL. n. 76 del 2016, entrata in vigore il 5/6/2016, al comma 20, dell’articolo unico, dedicato alla c.d. “clausola di equivalenza”, ha previsto la non applicabilità della disposizione “alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui allaL. 4 maggio 1983, n. 184”, precisando che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.
Il legislatore nazionale non ha dunque specificamente disciplinato l’adozione da parte di coppia dello stesso sesso, vincolata da unione civile.
Va allora evidenziato che, nella materia in oggetto (riconoscimento di provvedimento di adozione di minore straniero), il principio del superiore interesse del minore opera necessariamente come un limite alla stessa valenza della clausola di ordine pubblico, che va sempre valutata con cautela ed alla luce del singolo caso concreto.
L’art. 24 della Convenzione dell’Ala del 1993, per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, ratificata in Italia conL. n. 476 del 1998, stabilisce che “il riconoscimento dell’adozione può essere rifiutato da uno Stato contraente solo se essa e manifestamente contraria all’ordine pubblico, tenuto conto dell’interesse superiore del minore”. Questa Corte, nella pronuncia n. 19599/2016, ha evidenziato, con specifici richiami, come, nella normativa comunitaria, è escluso il riconoscimento delle decisioni emesse in uno Stato membro (ora previsto come automatico) nei soli casi di “manifesta” contrarietà all’ordine pubblico.
Il preminente interesse del minore, alla base della normativa nazionale ed internazionale in materia di adozione, e quindi il diritto del minore a vivere in modo stabile in un ambiente domestico armonioso ed ad essere educato e assistito nella crescita con equilibrio e rispetto dei suoi diritti fondamentali, vale dunque ad integrare lo stesso concetto di ordine pubblico nella materia specifica.
Nella specie, le adozioni, sul cui riconoscimento in Italia è sorta contestazione, interessano due donne, coniugate, ed hanno riguardato, contestualmente, ciascuna il figlio biologico dell’altra.
Non risulta esservi, quindi, contrasto con quanto già statuito da questa Corte in ordine al fatto che “la trascrizione nei registri dello stato civile italiano dell’adozione di un minore pronunciata all’estero con effetti legittimanti non può avere mai luogo ove contraria ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori, tra i quali v’è quello secondo cui l’adozione legittimante è consentita solo a coniugi uniti in matrimonio, ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.6” (Cass. 6078/2006; Cass. 3572/2011).
Tantomeno potrebbe rilevare, ai fini di escludere la compatibilità con l’ordine pubblico, quale sopra considerato, e quindi con il preminente interesse dei minori, delle adozioni per cui è causa, il dato, conseguente, dell’inserimento degli stessi minori nel contesto di una famiglia costituita da coppia omosessuale, e delle possibili ripercussioni negative sul piano della crescita e dell’educazione, essendo qui sufficiente il richiamo a quanto già chiarito da questa Corte, in ordine all’ininfluenza di meri pregiudizi (Cass. 601/2013; Cass. 4184/2012) ed in ordine alla non incidenza dell’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass. 15202/2017; Cass. 12962/2016).
In definitiva, le sentenze di adozione del giudice francese di cui si chiede il riconoscimento in Italia non risultano contrarie all’ordine pubblico, valutato in relazione al superiore interesse dei minori ed al mantenimento, già vagliato dal giudice straniero, della stabilità della vita familiare venutasi a creare con ambedue le figure genitoriali.
6. Il quarto motivo, con il quale si denuncia l’ingiustizia della condanna alle spese, disposta dalla Corte d’appello a carico dei Sindaci soccombenti, a fronte della complessità e novità della questione trattata, è inammissibile, alla luce del principio secondo cui la facoltà di disporre la compensazione delle spese tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non è censurabile in cassazione (Cass., sez. un., n. 14989 del 2005; Cass. 24179/2017).
7. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.
Le spese del presente giudizio di legittimità, in considerazione della novità dell’oggetto del contendere e della natura dei diritti coinvolti, vanno integralmente compensate tra le parti (cfr. Corte Costituzionale n. 77/2018).
Essendo l’amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applicaD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, (nel caso di prenotazione a debito il contributo non è versato ma prenotato al fine di consentire, in caso di condanna della controparte alla rifusione delle spese in favore dei ricorrenti, il recupero dello stesso in danno della parte soccombente).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Dà atto che della non applicazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, il 13 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2018