Nella successione, il valore del diritto di abitazione di una casa coniugale si calcola in base alle tabelle dell’usufrutto

Cass. pen. sez. VI, 2, 5 giugno 2018, n. 14406
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24731-2016 proposto da:
C.E., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 154, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO SPARANO, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
D.R.C., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentata e difesa dall’avvocato ALBERTO CERRACCHIO giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 512/2016 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 27/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/05/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalla ricorrente.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
In data 3 settembre 1996 moriva ab intestato N.G., lasciando a se superstiti la moglie D.R.C., il fratello N.D. e la madre C.M..
Il N. e la C. donavano a C.E. i diritti vantati sulla massa ereditaria, che si componeva della metà di un fondo rustico in (OMISSIS) e della metà di un appartamento in (OMISSIS).
C.E. quindi conveniva in giudizio la D.R. dinanzi al Tribunale di Salerno al fine di procedere allo scioglimento della comunione.
All’esito del giudizio, il Tribunale con la sentenza n. 2391/2008 dichiarava aperta la successione legittima di N.G., e dato atto dell’acquisto da parte dell’attrice delle quote ereditarie di C.M. e N.D., attribuiva alla D.R. la quota dell’appartamento in (OMISSIS), ed alla C. la quota del terreno, previo pagamento a carico della D.R. di un conguaglio nonché della somma corrispondente alla quota dei frutti dovuti per il godimento esclusivo dell’appartamento.
Avverso tale sentenza proponeva appello la D.R., e la Corte d’Appello di Salerno con la sentenza n. 512 del 27 settembre 2016, in parziale accoglimento del gravame, confermava la ripartizione dei beni operata dal Tribunale, riducendo tuttavia l’entità del conguaglio dovuto all’appellante, rigettando altresì la domanda di rendiconto, attesa la sussistenza del diritto di abitazione in favore del coniuge del de cuius.
Infatti, doveva trovare accoglimento l’appello principale con il quale si lamentava il mancato riconoscimento del diritto di abitazione sull’appartamento che risultava essere la casa coniugale del de cuius, dovendosi dare seguito a quanto statuito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4847/2013 che ha appunto dettato le regole per riconoscere il diritto di cuiall’art. 540 c.c., comma 2 anche in caso di successione ab intestato.
Per l’effetto, dal valore dell’appartamento, da considerare ai fini della distribuzione tra i coeredi, secondo le quote di legge, andava detratto il valore del diritto di abitazione che si configura alla stregua di un prelegato in favore del coniuge superstite, diritto di abitazione che poteva essere determinato facendo applicazione delle tabelle facilmente rinvenibili su internet, dalle quali era dato ricavare che il diritto de quo era commisurabile al 45 % del valore della piena proprietà.
Una volta detratto tale valore, meritava poi accoglimento anche l’altro motivo dell’appello principale, con il quale si contestava la condanna al pagamento dei frutti in favore della controparte, posto che la sussistenza del diritto di abitazione costituiva un titolo legittimante il godimento del bene, senza che nulla fosse dovuto agli altri coeredi per la fruizione della casa coniugale anche dopo la morte.
Non poteva poi essere censurata la decisione di attribuire alla C. la quota indivisa del fondo, essendo questa caduta in successione, a nulla rilevando poi che la residua quota fosse di proprietà esclusiva della D.R..
Quanto alla stima dei beni, atteso che entrambe le parti avevano mosso varie contestazioni alla valutazione effettuata dal CTU in primo grado, la Corte d’Appello reputava che l’ausiliario aveva proceduto ad una corretta e puntuale determinazione del valore dei beni, individuando tutti i vari parametri idonei ad incidere sul calcolo.
Per l’effetto, provvedeva a rideterminare i conguagli, previa detrazione dalla massa da dividere del diritto di abitazione in favore della D.R..
Infine confermava le statuizioni in punto di spese adottate dal giudice di primo grado e poneva anche quelle di appello a carico della massa.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione C.E. sulla base di tre motivi.
D.R.C. resiste con controricorso.
Preliminarmente occorre dare atto che non risulta evocato in giudizio N.D., sebbene parte del giudizio di appello, tuttavia si ritiene che tale omissione non impedisca di poter pervenire comunque alla decisione della controversia.
In primo luogo, va infatti esclusa la qualità di litisconsorte necessario in capo al predetto, posto che risulta pacificamente dagli atti di causa che il N., ancorché ab origine erede del de cuius, ha successivamente donato i propri diritti successori alla odierna ricorrente, sicché deve darsi seguito alla costante giurisprudenza di questa Corte per la quale la qualità di litisconsorte necessario compete al cessionario della quota e non all’erede originario (cfr. da ultimo Cass. n. 12242/2011).
A ciò deve poi aggiungersi che, anche laddove si volesse diversamente opinare, occorre ribadire che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivantedall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei diritti del l’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degliartt. 175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espressodall’art. 101 cod. proc. civ., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (Cass. 17 giugno 2013 n. 15106; Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723; Cass., Sez. Un., 3 novembre 2008, n. 26373; Cass., Sez. 3, 7 luglio 2009, n. 15895; Cass., Sez. 3, 19 agosto 2009, n. 18410; Cass., Sez. 3, 23 dicembre 2009, n. 27129).
In applicazione di detto principio, essendo il presente ricorso (per le ragioni che andranno ad esporsi nel prosieguo) prima facie infondato, appare superflua la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio nei confronti della predetta parte, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti.
Il primo motivo di ricorso denunzia la violazionedell’art. 112 c.p.c.nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in quanto la sentenza impugnata, nel riconoscere il diritto di abitazione in favore della convenuta ha rideterminato autonomamente il valore dell’asse relitto, senza dare seguito alle concordi richieste delle parti di disporre un rinnovo della CTU, ricavando gli elementi per la valutazione del diritto di abitazione da dati privi di certezza scientifica.
Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.
Ed, infatti, esclusa in maniera evidente la dedotta violazionedell’art. 112 c.p.c., il quale si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr. da ultimo Cass. n. 13716/2016), il giudice di appello ha adeguatamente evidenziato le ragioni in base alle quali andava mantenuta ferma la stima effettuata da parte del CTU nominato in primo grado, ritenendo quindi prive di fondamento le critiche mosse da entrambe le parti, di guisa che la censura si risolve in una non consentita critica ad un apprezzamento rimesso alla discrezionalità del giudice di merito, peraltro nella fattispecie, anche corredato di ampia e coerente motivazione.
Il secondo motivo di ricorso denunzia la violazione di legge (senza peraltro indicare quale sia la norma violata) nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla determinazione del valore del diritto di abitazione attribuito a titolo di prelegato in favore della controricorrente.
Oltre a reiterare la doglianza relativa alla mancata ammissione della CTU in appello, si lamenta che la Corte d’Appello, oltre ad avvalersi di elementi privi di certezza ed attendibilità, quali i dati ricavabili da siti internet, avrebbe parificato il diritto di abitazione a quello di usufrutto quanto alla stima, ancorché il primo abbia un valore minore rispetto al secondo.
Anche tale motivo va disatteso, risolvendosi ad avviso della Corte del pari in una non ammissibile richiesta di procedere ad una rivalutazione del merito, contestando in realtà valutazioni insindacabili e proprie del giudice di merito.
Ed, invero, sebbene la disciplina dell’usufrutto e quella del diritto di abitazione divergano in parte, per attribuire il legislatore all’usufruttuario facoltà maggiori rispetto a quelle assegnate al titolare del diritto di abitazione, tuttavia la divergenza di valore tra i due diritti non può non tenere conto anche delle peculiarità del bene sul quale viene a costituirsi il diritto di abitazione.
Nel caso di specie trattasi di un immobile pacificamente destinato a casa coniugale, e peraltro di una quota indivisa del bene, di talché, tenuto conto della obiettiva attitudine del bene stesso a soddisfare le esigenze abitative del coniuge superstite, palesandosi del tutto inverosimile che il bene possa essere distratto da tale finalità, considerata anche la circostanza che si tratta di bene ad uso abitativo, risulta evidente che le utilità ritraibili dall’usufruttuario appaiono sostanzialmente identiche a quelle che può trarre l’abitatore, di modo che nel caso in esame, le pur sussistenti differenze di disciplina, non appaiono tali da indurre a ravvisare anche una differente valutazione del diritto dal punto di vista della sua quantificazione economica, risultando quindi non irrazionale e non contestabile la scelta della Corte di Appello di avvalersi dei criteri usati per determinare il valore dell’usufrutto, per pervenire al valore del prelegato spettante alla convenuta.
Infine il terzo motivo lamenta l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio, osservando che con l’appello incidentale erano state poste delle contestazioni ai criteri dei quali si era avvalso il CTU per la stima degli immobili caduti in successione.
Trattasi però di affermazione che risulta palesemente contraddetta dalla lettura della sentenza impugnata, laddove la Corte di merito, alla pag. 9, ha espressamente ritenuto che gli elementi addotti dalle parti non erano idonei ad inficiare la valutazione del CTU, dovendosi quindi escludere che vi sia stata un’omessa disamina delle circostanze dedotte dalla ricorrente.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.

In mancanza di tempestivo dissenso, le spese straordinarie (rilevanti imprevedibili e imponderabili) di maggiore interesse per i figli, vanno rimborsate anche se non concordate

Cass. civ. Sez. I, 7 marzo 2018, n. 5490
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8416/2016 proposto da:
B.P., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati Chieco Francesco, Cascione Adele, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.M.E.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1705/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 29/09/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/01/2018 dal cons. VALITUTTI ANTONIO.
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione notificato l’11 febbraio 2012, P.M.E. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, B.P., chiedendone la condanna al rimborso della metà delle spese straordinarie – poste a suo carico, in misura del 50%, dal Tribunale per i minorenni di Torino, con decreto del 13 ottobre 2000 – da lei affrontate nell’interesse della figlia B.C.S., nata dalla relazione more uxorio intrattenuta con il convenuto. Il giudice adito, con sentenza n. 232/2014, rigettava la domanda.
2. La Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 705/2015, depositata il 29 settembre 2015, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava il B. a corrispondere alla P. la somma di Euro 5.145,98, oltre interessi legali. La Corte riteneva, invero, che – una volta acclarata la necessità o utilità della spesa, peraltro documentalmente comprovata dalla istante, ed il suo carattere straordinario – la mancanza di un “previo concerto” tra i genitori non impedisse la proposizione dell’azione di regresso da parte del genitore anticipante. Rilevava, altresì, il giudice di appello che il B. non aveva in alcun modo comprovato l’ipotetica inutilità delle spese in questione (per trattamenti estetici e per l’iscrizione in una scuola privata), essendosi il medesimo limitato ad una generica contestazione al riguardo.
3. Per la cassazione di tale decisione ha, quindi, proposto ricorso B.P. nei confronti di P.M.E. affidato a due motivi. L’intimato non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso – denunciando la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.6, artt. 316, 316 bis, 337 bis, 337 quater, e 113, 115 e 116 c.p.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente lamenta che dalla documentazione versata in atti emergerebbe “in maniera inconfutabile” che la P. non aveva “mai concertato con l’odierno ricorrente alcuna delle spese, dalla medesima ritenute straordinarie, sostenute nell’interesse della figlia C.”.
1.1. Il motivo è infondato.
1.1.1. Va osservato – al riguardo – che non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro, in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, costituente decisione “di maggiore interesse” per il figlio, sussistendo, di conseguenza, a carico del coniuge non affidatario un obbligo di rimborso, qualora il medesimo non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso (Cass., 26/09/2011, n. 19607; Cass., 30/07/2015, n. 16175; Cass., 08/02/2016, n. 2467).
1.1.2. Nel caso di specie, dall’esame dell’impugnata sentenza si evince che il B. si era limitato – nel giudizio di merito – ad una mera, generica, contestazione delle spese straordinarie, laddove – come correttamente rilevato dalla Corte territoriale – il medesimo avrebbe dovuto comprovarne “la futilità e l’assenza delle ragioni addotte dalla controparte”.
1.3. La doglianza va, pertanto, disattesa.
2. Con il secondo motivo di ricorso – denunciando la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.6, artt. 316, 316 bis, 337 bis, 337 quater, e 113, 115 e 116 c.p.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente si duole anzitutto del fatto che la Corte territoriale abbia riconosciuto natura di spese straordinarie agli esborsi affrontati dalla madre per i trattamenti estetici a favore della figlia – a suo dire non supportati da nessuna prescrizione medica che ne certificasse la necessità o l’utilità – nonché alle spese sostenute per la scuola media privata. L’istante censura, poi, la decisione impugnata sotto il profilo della mancata valutazione, da parte del giudice di seconde cure, della sostenibilità di tali spese da parte dei genitori della ragazza, in relazione alle loro effettive e concrete condizioni economiche.
2.1. La censura è in parte infondata, ed in parte inammissibile.
2.1.1. Per quanto concerne, invero, il profilo relativo alla contestata natura di spese straordinarie, attribuita dalla Corte territoriale agli esborsi affrontati dalla madre per i trattamenti estetici a favore della figlia – a detta del ricorrente non supportati da nessuna prescrizione medica che ne certificasse la necessità o l’utilità – e delle spese sostenute per la scuola media privata, deve osservarsi che, in tema di mantenimento della prole, devono intendersi spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli (Cass., 08/06/2012, n. 9372).
Ebbene, nel caso concreto, la Corte d’appello – con valutazione di fatto incensurabile in questa sede – ha accertato che si trattava di spese per trattamenti estetici necessari a rimuovere la peluria sul viso della ragazza, “anomala per un soggetto di sesso femminile” e fonte di notevole imbarazzo, e di spese per l’iscrizione in una scuola privata i cui orari si erano rivelati maggiormente compatibili con le esigenze lavorative del genitore affidatario. Trattasi – all’evidenza di esborsi non prevedibili, poiché sopraggiunti nel corso del tempo, al momento della determinazione dell’assegno di mantenimento a carico del padre. Talché, una volta accertatane – da parte del giudice di merito – la natura di spese straordinarie ed utili alla figlia, ed in assenza della dimostrazione di un tempestivo e valido dissenso da parte del B., quest’ultimo è da considerarsi senz’altro tenuto a corrispondere all’altro genitore la quota di sua spettanza.
2.1.2. Per quanto attiene, poi, al profilo relativo alla mancata valutazione, da parte del giudice di appello, della sostenibilità di tali spese da parte dei genitori della ragazza, in relazione alle condizioni economiche di entrambe le parti, va osservato che il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione dei motivi per i quali si richiede la cassazione della sentenza impugnata, aventi i requisiti della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass., 25/02/2004, n. 3741; Cass., 23/03/2005, n. 6219; Cass., 17/07/2007, n. 15952; Cass., 19/08/2009, n. 18421).
Nel caso concreto, per contro, – a fronte dell’accertamento, operato dalla Corte territoriale, circa la debenza del rimborso di metà delle spese straordinarie in questione da parte del B. – quest’ultimo si è limitato a dedurre, del tutto genericamente, che le capacità economiche delle parti con consentivano alle stesse di affrontare le spese in questione, ma nulla ha specificato in ordine all’effettivo reddito di ciascuno dei genitori, da porre a raffronto con l’entità degli esborsi in parola.
2.2. La doglianza è da reputarsi, pertanto, del tutto generica e, come tale, inammissibile.
3. Per le ragioni suesposte, il ricorso deve essere, di conseguenza, rigettato, senza alcuna statuizione sulle spese, attesa la mancata costituzione della intimata nel presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Le ordinanze del GI di modifica o revoca dei provvedimenti presidenziali non sono reclamabili

Cass. civ. Sez. VI – 1, 10 maggio 2018, n. 11279
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10796/2016 proposto da:
N.G., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE 173, presso lo studio dell’avvocato TEODORA MARCHESE, rappresentata e difesa dall’avvocato DAVIDE ODDO;
– ricorrente –
contro
S.G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO CESI 21, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO BILOTTA, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA D’IGNAZIO;
– controricorrente –
avverso il provvedimento della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositato il 14/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 22/02/2018 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ordinanza del 07.10.2015 il giudice istruttore del Tribunale di Imperia, nell’ambito del procedimento di separazione dei coniugi S.G.M. e N.G., ha revocato l’ordinanza presidenziale rispetto al contributo di mantenimento posto a carico del primo in favore della seconda.
N.G. ha pertanto proposto reclamo avverso suddetta ordinanza dinanzi alla Corte d’appello di Genova, che ha dichiarato l’impugnazione inammissibile, rilevando che avverso le ordinanze del giudice istruttore è ammesso unicamente il reclamo al Tribunale in composizione collegiale ex art. 669 terdecies c.p.c., comma 2, oppure la richiesta di revoca o modifica da proporsi allo stesso giudice istruttore. Avverso questa pronuncia propone ricorso per cassazione N.G. sulla base di un unico motivo, accompagnato da memoria. Resiste con controricorso S.G.M..
Deduce la ricorrente che nella specie non si trattava di un’impugnazione di un’ordinanza del giudice istruttore, ma di un reclamo proposto alla Corte d’appello exart. 739 c.p.c., nell’ambito del procedimento exart. 710 c.p.c., instaurato dallo S. per la modifica delle condizioni della separazione. Infatti, la rubrica in epigrafe del ricorso riportava espressamente il riferimentoall’art. 710 c.p.c., pertanto si sarebbe dovuta necessariamente seguire la ritualità da questa disposizione prevista.
Il ricorso è inammissibile.
Ai sensidell’art. 709 c.p.c., “i provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui dell’art. 708, comma 3, possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore”. Secondo Cass. n. 15416 del 04/07/2014 “nell’ambito del procedimento di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti adottati dal giudice istruttore, exart. 709 c.p.c., u.c., di modifica o di revoca di quelli presidenziali, non sono reclamabili poiché è garantita l’effettività della tutela delle posizioni soggettive mediante la modificabilità e la revisione, a richiesta di parte, dell’assetto delle condizioni separative e divorzili, anche all’esito di una decisione definitiva, piuttosto che dalla moltiplicazione di momenti di riesame e controllo da parte di altro organo giurisdizionale nello svolgimento del giudizio a cognizione piena” (Rv. 632557-01).
Nella specie il reclamo dinanzi alla Corte d’appello ha avuto ad oggetto l’ordinanza del 07.10.2015, emessa dal giudice istruttore, con cui veniva revocato il contributo di mantenimento stabilito dall’ordinanza presidenziale. Correttamente, pertanto, l’impugnazione è stata dichiarata inammissibile dalla Corte territoriale, essendo il riferimento all’art. 710 c.p.c., riportato nell’epigrafe del ricorso dello S., frutto di un mero errore materiale.
Ne consegue l’inammissibilità del ricorso, con applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese processuali, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.
Condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente le spese processuali, liquidate in Euro 3000 per compensi, 100 per esborsi, oltre accessori di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

Se rispondente al miglior interesse del minore, la permanenza in Italia del genitore straniero, anche se condannato, va autorizzata

Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 2018, n. 14238
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3358/2017 proposto da:
Y.F., W.P., quali genitori dei minori L., F. e E., domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione,rappresentati e difesi dall’avvocato Migliaccio Luigi, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Pubblico Ministero presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli;
– intimati –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2018 dal cons. Dott. ACIERNO MARIA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso in via principale per il rigetto, in subordine per la rimessione alle Sezioni Unite;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato Migliaccio Luigi che ha chiesto l’accoglimento.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con decreto n. 225/2016 la Corte d’appello di Napoli ha rigettato il reclamo proposto da Y.F. e W.P., cittadini cinesi, avverso la decisione del Tribunale per i minorenni di Napoli che aveva rigettato il ricorso dagli stessi proposto al fine di ottenere l’autorizzazione alla permanenza del territorio nazionale nell’interesse dei tre figli minori ( Y.F., L. e E.) ai sensi delD.Lgs. n. 286 del 1998,art.31, comma 3.
A sostegno del rigetto la Corte territoriale ha affermato:
– ilD.Lgs. n. 286 del 1998,art.31, tutela il minore straniero che versi in una situazione di eccezionale e contingente grave pericolo per il suo sviluppo psico-fisico, e non ha la finalità di garantire, in ogni caso, il diritto del medesimo di crescere ed essere educato nella propria famiglia, né di salvaguardare la sua situazione di integrazione nel tessuto sociale dove vive;
– il diritto del minore a vivere nella propria famiglia non può prevalere sull’interesse dello Stato alla tutela del territorio e alla sicurezza dei cittadini, nel caso in cui colui che richieda il permesso di soggiorno abbia commesso reati tali da far presumere la sua pericolosità sociale. Nella specie risulta che Y.F. e W.P. sono attualmente imputati e hanno riportato condanne irrevocabili per reati relativi alla tutela del diritto d’autore, ricettazione e contraffazione, fatti che comportano la revoca del permesso di soggiorno e l’espulsione dello straniero dal territorio. Ciò fa presumere che l’istanza da essi formulata ex art. 31 cit. sia del tutto strumentale;
– i minori sono tutti nati in Italia e sono ben inseriti nel contesto scolastico ed amicale, ma la previsione che essi potrebbero subire un danno psicologico in conseguenza dell’allontanamento dei genitori non costituisce ragione sufficiente per consentire l’ulteriore permanenza di quest’ultimi in Italia. Inoltre, anche qualora gli istanti fossero autorizzati a rimanere in Italia, i figli minori sarebbero comunque privati del loro sostegno, in quanto dovrebbero scontare in prigione varie condanne a pene detentive di rilevante durata: correttamente il Tribunale per i minorenni ha ritenuto superflua una consulenza tecnica d’ufficio su di loro.
Avverso questa pronuncia propongono ricorso per cassazione Y.F. e W.P. sulla base di due motivi, accompagnati da memoria exart. 378 c.p.c..
In esito all’adunanza camerale del 12/06/2017, tenutasi presso la Sesta sezione civile, la trattazione del presente ricorso è stata rimessa, con ordinanza interlocutoria n. 19921/2017, alla pubblica udienza della Prima sezione civile.
Con il primo motivo viene censurata, sotto il profilo della violazione delD.Lgs. n. 286 del 1998,art.31, comma 3, l’interpretazione fortemente restrittiva data dalla Corte d’appello all’espressione “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore”, in contrasto con la giurisprudenza di legittimità e con la ratio stessa dell’istituto in questione, che pone al centro l’interesse del minore. Il decreto impugnato risulta motivato esclusivamente sulle condanne penali riportate dai ricorrenti.
Con il secondo motivo viene censurato, sotto il profilo dell’omesso esame circa un fatto decisivo exart. 360 c.p.c., n. 5, il mancato svolgimento di un giudizio prognostico sulle prospettive di danno grave per i minori, nati e cresciuti in Italia e qui ben radicati, nell’ipotesi di allontanamento di uno o entrambi i genitori.
Il ricorso, i cui motivi possono trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, è fondato.
IlD.Lgs. n. 286 del 1998,art.31, comma 3, prevede che il Tribunale per i minorenni possa rilasciare – anche in deroga alle disposizioni che regolano il soggiorno dei cittadini stranieri nel territorio nazionale – un’autorizzazione temporanea all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di un minore, per gravi motivi connessi allo sviluppo psicofisico del minore medesimo e tenuto conto della sua età e delle sue condizioni di salute.
La pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 21799 del 25/10/2010, cui ha fatto seguito la costante giurisprudenza di questa Sezione, ha chiarito che siffatta autorizzazione non richiede necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla salute del minore, ma può comprendere qualsiasi danno effettivo ed obiettivamente grave che deriva o deriverà allo stesso dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto, in considerazione della sua età o delle sue condizioni di salute sia fisica che psichica (Cass. n. 2648/2011; n. 13237/2011; n. 14125/2011, par. 2; Cass. 17739/2015, par. 9; n. 24476/2015, riv. 638154-01; n. 25419/2015, rv. 638177-01; n. 4197/2017; n. 29795/2017, par. 5). Il giudice del merito, in altri termini, è chiamato ad accertare la sussistenza di “gravi motivi” basati su una situazione oggettiva attuale o futura dedotta, attraverso un giudizio prognostico, quale conseguenza dell’allontanamento improvviso del familiare (Cass. n. 17861/2017, rv. 645052-01), avendo la parte, dal canto suo, l’onere di dedurre in modo specifico il grave disagio psico-fisico del minore che da tale allontanamento discenderebbe (Cass. n. 26710/2017, rv. 64656601).
L’art. 31 cit. delinea, pertanto, due distinte situazioni giuridiche soggettive: da un lato, il diritto del minore ad avere l’assistenza e la cura del proprio familiare in Italia; dall’altro, il diritto del familiare a dare assistenza al minore stesso, in ragione della tutela di “quel particolare bene della vita costituito dall’unità della famiglia e della reciproca assistenza tra i suoi membri” (Cass. n. 21799/2010). Si tratta di due posizioni complementari, di cui quella del familiare subordinata a quella del minore, titolare di un interesse che, infatti, costituisce l’oggetto primario della tutela apprestata dalla disposizione in esame, come risulta dalla sua rubrica (“Disposizioni a favore dei minori”) e, ancor più significativamente, dall’essere la valutazione sulla sussistenza dei “gravi motivi” rimessa all’apprezzamento del Tribunale per i minorenni. Ne deriva che l’interesse del familiare ad ottenere l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza nel territorio nazionale riceve tutela in via riflessa, ovvero nella misura in cui sia funzionale a salvaguardare lo sviluppo-psicofisico del minore, che è il bene giuridico protetto dalla norma nonché la ragione unica del provvedimento autorizzatorio.
La temporaneità dell’autorizzazione non esclude che essa possa essere prorogata ove, al termine del periodo previsto, permanga la sua ragione giustificativa (i “gravi motivi”), né che possa essere revocata prima della scadenza “quando vengano a cessare i gravi motivi che ne giustificavano il rilascio”, essendo la condizione psicofisica del minore, invero, una situazione naturalmente suscettibile di mutare ed evolversi nel tempo (Cass. n. 17861/2017, rv. 64505201). La norma in esame prevede altresì due ulteriori fattispecie di revoca dell’autorizzazione, dovute ad attività del familiare incompatibili “con le esigenze del minore” o “con la permanenza in Italia”. Si tratta di ipotesi che, all’evidenza, sono distinte sia quanto al loro presupposto fattuale, sia quanto alla loro ratio. La prima ipotesi si spiega già in ragione della natura dell’autorizzazione, perché l’ingresso o la permanenza dell’istante, concessi in deroga all’ordinario regime giuridico disciplinante l’immigrazione, si giustifica se ed in quanto egli svolga la propria funzione familiare a beneficio del minore e del suo sviluppo psico-fisico, venendosi altrimenti a contraddire lo scopo stesso della disposizione in oggetto (Cass. 21799/2010, par. 8). Ne consegue che comportamenti dell’adulto richiedente incompatibili con le esigenze del minore condurranno il Tribunale a negare il rilascio dell’autorizzazione (o a revocarla in caso di condotte sopravvenute), essendo una valutazione necessariamente implicita in quella concernente la sussistenza dei “gravi motivi” e non scindibile da essa.
Nondimeno, l’art. 31 introduce un parametro esterno a quello che, come detto, costituisce il bene giuridico tutelato dalla norma, in quanto conferisce rilievo ostativo ad attività del familiare incompatibili con la sua permanenza nel territorio nazionale, sia nel caso in cui siffatte attività siano sopravvenute sia, a fortiori, nel caso in cui vengano riscontrate dal giudice già al momento del primo rilascio. L’accertamento dell'”incompatibilità” della condotta dell’istante impone pertanto un giudizio di bilanciamento tra la protezione del benessere psico-fisico del minore (incluso il suo diritto al mantenimento dell’unità familiare), al cui scopo la presenza dell’adulto in Italia è finalizzata, e la tutela dell’ordine pubblico, da svolgersi alla stregua dei parametri dettati dalle norme interne e internazionali e precisati dalla giurisprudenza nazionale ed Europea, tenuto conto che la garanzia del superiore interesse del minore costituisce in questa sede il criterio interpretativo principale. A tal proposito viene in rilievo, in primo luogo, ilD.Lgs. n. 286 del 1998,art.28, comma 3, in base a cui “in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all’unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo”, nonché laL. n. 184 del 1983,art.1, che enuncia il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia di origine, e l’art. 337ter c.c., che riconosce al figlio minore “il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi”. Tra i documenti internazionali di maggior importanza vi è la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del bambino, resa esecutiva dall’Italia con laL. n. 176 del 1991, il cui art. 3 afferma la necessità della considerazione in via preminente dell’interesse superiore del fanciullo in tutti i procedimenti che lo riguardano. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 7 dicembre 2000) prevede un catalogo di diritti, assai ampio e specificatamente determinato, che coinvolgono direttamente o indirettamente la vita familiare (e in particolare il rapporto genitori-figli), la protezione e il rispetto della dignità umana (art. 6), il rispetto della vita privata e familiare (art. 7), il diritto dei minori alla protezione e alle cure necessaria per il loro benessere e ad intrattenere regolarmente relazioni e contatti diretti con i genitori, salvo che ciò appaia contrario al loro interesse (art. 24) (Cass. n. 4197/2018). La Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione (“diritto al rispetto della vita privata e familiare”), ha enucleato una serie di parametri da tenere in considerazione nella valutazione della legittimità dell’ingerenza statuale nel diritto al rispetto della vita privata e familiare dello straniero (pronunce Boultif v. Switzerland, 02.11.2001, e Uner v. The Netherlands, 18.10.2006), da cui discende che l’accertamento della pericolosità sociale – secondo quanto statuito da questa Corte anche in relazione al sindacato sulla legittimità dei provvedimenti espulsivi e sul diniego di permesso di soggiorno per motivi familiari – dovrà essere svolto in concreto e non in astratto, attraverso un esame della condotta e della situazione complessiva dell’istante (Cass. 18482/2011). A questa preventiva valutazione, attinente alla condizione dell’adulto istante, segue il giudizio di bilanciamento tra l’interesse statuale all’allontanamento (o al diniego di ingresso) di cittadini stranieri socialmente pericolosi e il diritto del minore così come declinato dal citato articolo. Siffatto giudizio deve essere effettuato alla stregua dei criteri indicati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, tra cui vi sono il miglior interesse e il benessere del figlio minore (“the best interests and well-being of the children, in particular the seriousness of the difficulties which any children of the applicant are likely to encounter in the country to which the applicant is to be expelled”), al fine di verificare se il rigetto dell’istanza, rappresentando un’interferenza nella vita familiare del richiedente, costituisca una misura necessaria in una società democratica e proporzionata al legittimo fine perseguito (CEDU, Uner v. The Netherlands, cit., par. 57-58), tenuto conto che il carattere fortemente derogatorio della norma in esame comporta che l’interesse del minore – benché non possa considerarsi in senso assoluto sempre gerarchicamente prevalente – si trovi in una posizione di preminenza tale da imporre al giudice di considerare in ogni singolo caso quale delle soluzioni possibili sia ad esso più favorevole.
Il decreto impugnato non ha fatto corretta applicazione dei principi appena richiamati.
In primo luogo, nel premettere che l’art. 31 tutela situazioni di contingente ed eccezionale grave pericolo per lo sviluppo psico-fisico del minore, il giudice a quo invoca un orientamento di questa Corte che la più volte richiamata pronuncia delle Sezioni Unite n. 21799/2010 ha inteso superare, perché il requisito dell'”eccezionalità”, oltre a travalicare la lettera della legge, è contrario all’interpretazione della disposizione letta alle luce delle norme costituzionali e internazionali rilevanti.
In secondo luogo, la valutazione svolta dalla Corte territoriale risulta incentrata pressoché esclusivamente sulla posizione e sulla condotta dei genitori, ritenuti socialmente pericolosi in ragione delle condanne penali riportate (violazione delle norme in materia di diritto d’autore, contraffazione, ricettazione, etc…), da cui si evincerebbe che l’istanza dagli stessi formulata è meramente strumentale. Tale giudizio, tuttavia, non viene svolto in concreto ma risulta esclusivamente incentrato su una presunzione di pericolosità discendente dal disposto normativo delD.Lgs. n. 286 del 1998,art.4, comma 3, – che considera ostative all’ingresso nel territorio nazionale le condanne per i reati relativi alla tutela del diritto d’autore e quelli di cuiall’art. 473 c.p.(“contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli, e disegni”) eart. 474 c.p.(“introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi”) – disposizione cui l’art. 31, comma 3, cit., consente di derogare alla ricorrenza dei “gravi motivi”, stabilendo, invero, che l’autorizzazione possa concedersi “anche in deroga alle altre disposizioni del presente testo unico”. Inoltre, la pronuncia mostra di non tenere in debita considerazione quello che costituisce il principale oggetto del giudizio ex art. 31 cit., ovvero il possibile pregiudizio psico-fisico che verrebbe arrecato ai tre figli minori in conseguenza dell’allontanamento dei genitori o dello sradicamento dal contesto di vita attuale. Infatti, da un lato viene dato atto che i figli, nati e cresciuti in Italia, sono ben inseriti nel contesto scolastico e amicale; dall’altro, viene escluso in astratto che la previsione che essi subiscano un danno psicologico a seguito dell’espulsione dei signori F. costituisca ragione sufficiente per rilasciare l’autorizzazione ex art. 31, sulla base di un’interpretazione che, richiamando la necessità che vengano dedotte situazioni di carattere “eccezionale”, trascura la giurisprudenza di questa Corte e la ratio dell’istituto in esame, mirante a una tutela globale del minore, comprensiva tanto della salute fisica quanto di quella psichica, a prescindere dall’eccezionalità o meno della situazione dedotta in giudizio (Cass. n. 24476/2015, rv. 638154-01). Al contrario, proprio l’accertato radicamento dei minori nel territorio nazionale avrebbe dovuto condurre la Corte di merito a valutare con attenzione il possibile pregiudizio psico-fisico discendente dal diniego del provvedimento autorizzatorio, non potendosi, d’altra parte, conferire rilievo alla possibilità che i tre figli possano espatriare con i genitori, trattandosi di un un’opzione non valutabile dal giudice, in virtù del divieto di espulsione dei minori vigente nel nostro ordinamento e del conseguente diritto costituzionalmente e convenzionalmente garantito dei minori di soggiornare in Italia unitamente ai genitori ove ricorrano le condizioni di legge (Cass. n. 1824/2016, par. 3). Parimenti non corretta l’argomentazione secondo cui i figli minori sarebbero in ogni caso privati del sostegno dei loro genitori a causa dello stato di carcerazione in cui essi verrebbe a trovarsi, perché basata su una prognosi apodittica e non concretamente giustificata.
Pertanto, il giudice è chiamato in primo luogo ad accertare, con riferimento esclusivo ai minori, la sussistenza di “gravi motivi” connessi con il loro sviluppo psicofisico, così come intesi dalla costante giurisprudenza di questa Corte a partire dalla succitata pronuncia delle Sezioni Unite n. 21799/2010. Esaurito positivamente tale accertamento, il Tribunale, a fronte del compimento da parte del familiare istante di attività “incompatibili con la sua permanenza in Italia”, potrà negare l’autorizzazione soltanto all’esito di un esame complessivo, svolto in concreto e non in astratto, della sua condotta, cui segua un attento giudizio di bilanciamento tra l’interesse statuale alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale e il preminente interesse del minore.
Tale giudizio di bilanciamento non è stato svolto dalla Corte territoriale, che, al contrario, attraverso un’inversione giuridicamente erronea, ha negato l’autorizzazione richiesta deducendone l’immeritevolezza dai precedenti penali degli odierni ricorrenti ma trascurando l’interesse dei minori, assegnandovi carattere residuale anziché considerazione primaria.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto e la pronuncia impugnata cassata con rinvio alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto: “Nel giudizio avente ad oggetto l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore straniero,D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 31, comma 3, la sussistenza di comportamenti del familiare medesimo incompatibili con il suo soggiorno nel territorio nazionale deve essere valutata in concreto e attraverso un esame complessivo della sua condotta, al fine di stabilire, all’esito di un attento bilanciamento, se le esigenze statuali inerenti alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale debbano prevalere su quelle derivanti da gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, cui la norma conferisce protezione in via primaria”.
Il giudice del rinvio provvederà anche alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato con rinvio alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 gennaio 2018.

L’ex convivente potrà proporre azione di arricchimento nei confronti dell’altro qualora il conferimento non sia supportato da una giusta causa (contratto, atto di liberalità o adempimento di obbligazione naturale)

Cass. civ. Sez. III, 7 giugno 2018, n. 14732
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5644/2016 proposto da:
C.O., elettivamente domiciliata in ROMA, V. SENECA 73, presso lo studio dell’avvocato PAOLO MORRICONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO CORRA’ giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
D.M., considerata domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati LAURA GASPAROTTO, ALESSANDRO PESAVENTO giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 94/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 20/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/01/2018 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.
Svolgimento del processo
1.Nel 2003 D.M. conveniva in giudizio il proprio ex partner, M.S., chiedendo accertarsi la cessazione della famiglia di fatto costituita con il M. fino all’agosto 2001, accertarsi la consistenza del patrimonio comune a quella data, conseguente agli apporti in denaro e in lavoro di entrambi i conviventi, e disporsi la divisione di esso in parti uguali, con l’attribuzione in proprio favore del controvalore in denaro; in subordine chiedeva accertarsi l’ingiustificato arricchimento del suo ex convivente, con la condanna del medesimo alla restituzione degli importi ricevuti.
Rappresentava che era intercorsa tra i due una relazione iniziata fin dal 1987, e che si era instaurata una convivenza di fatto dal 1997 fino al 2001; che entrambi i partners avevano contribuito, prima dell’instaurazione della convivenza, in denaro e con il contributo lavorativo personale, alla costruzione di una casa di abitazione eretta tra il 1995 e 1997 su un terreno di esclusiva proprietà del M., che pertanto era divenuta proprietà esclusiva di questi; che il M., allo scioglimento della convivenza, aveva trattenuto per sé tutti gli arredi della casa, acquistati insieme o dall’uno o l’altro dei partners durante la convivenza, i risparmi versati da entrambi su un conto cointestato, un motoscooter; che l’attrice aveva personalmente sostenuto anche spese per l’acquisto dei materiali necessari alla costruzione della casa; che aveva personalmente lavorato alla costruzione della casa; che la convivenza nel periodo tra il 1997 e il 2001 si era svolta secondo paritetica cooperazione economica nel rispetto della quale i conviventi, entrambi lavoratori subordinati, versavano i loro stipendi nel conto corrente cointestato.
Si costituiva in giudizio M.S., rappresentando che il terreno su cui sorgeva la casa era di sua esclusiva proprietà, e che di conseguenza aveva acquistato la proprietà della casa, e che le contribuzioni al menage familiare della D., in denaro o in lavoro, erano state effettuate a titolo gratuito, ed erano irripetibili, in quanto prestate in adempimento di un dovere morale e che pertanto nulla le doveva.
2. Il Tribunale, con sentenza n. 1787/2007, rigettava tutte le domande dell’attrice (dichiarando inammissibile in quanto tardiva la domanda exart. 936 c.c., formulata solo con la memoria exart. 183 c.p.c., con la quale la D. chiedeva la restituzione delle utilità prestate per la costruzione della casa acquisita in proprietà esclusiva al – marito in quanto proprietario del terreno, in riferimentoall’art. 936 c.c., comma 2).
3. D.M. proponeva appello per la riforma della sentenza impugnata. M.S. resisteva al gravame. La Corte d’appello, pur condividendo la ricostruzione del primo giudice nel senso della tardività della domanda exart. 936 c.c., formulata dalla D. solo in sede di memoria contenente la precisazione delle domande introduttive, ammetteva una parte delle prove orali richieste dall’appellante, e accoglieva la domanda di arricchimento senza causa con riguardo al contributo di D.M. alla costruzione dell’abitazione; escludeva la sussistenza di una obbligazione naturale e l’irripetibilità delle prestazioni, dal momento che esse erano andate a totale vantaggio di uno due partner) in mancanza di un rapporto che la giustificasse (la D. e il M., all’epoca dei fatti, non erano né sposati né conviventi); riconosceva alla D. una somma equitativamente determinata per il lavoro prestato nella costruzione della casa; accoglieva la domanda di divisione dei beni residui al momento della cessazione della convivenza.
In particolare, la corte d’appello richiamava la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, nell’ambito di una famiglia di fatto, le reciproche dazioni in denaro o in lavoro che vanno a vantaggio del complessivo menage familiare trovano il loro fondamento in una obbligazione naturale, ovvero sono erogate nella convinzione, esistente in capo ai partners, di adempiere ad una obbligazione fondata su doveri morali o sociali (e quindi non sono di norma ripetibili), purché esse si mantengano nei limiti di proporzionalità e di adeguatezza, parametrati alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti (posizione espressa da Cass. n. 11330 del 2009; Cass. n. 3713 del 2003).
Tuttavia, escludeva che i conferimenti connessi alla realizzazione della casa fossero riconducibili nell’alveo delle obbligazioni naturali perché: a) i due all’epoca erano fidanzati ma non conviventi e quindi non formavano ancora una famiglia di fatto pertanto non sussisteva alcuna obbligazione naturale in capo alla D. che giustificasse la non ripetibilità di quei conferimenti; b) si trattava di dazioni consistenti, che si collocavano oltre la soglia di proporzionalità ed adeguatezza rispetto ai mezzi di ciascuno dei partners. Quindi, condannava il M. alla restituzione di tutti i conferimenti in denaro per i quali riteneva raggiunta la prova. Accoglieva anche, e liquidava in via equitativa, la domanda della D. a vedersi riconoscere una somma a titolo di indennità per le ore di lavoro prestate negli anni, il sabato e la domenica, nel suo tempo libero, per la costruzione della casa, in accoglimento dell’azione di indebito arricchimento. Per quanto concerne poi le somme residuate sul conto corrente cointestato, la corte chiariva l’estraneità di esse alla problematica delle obbligazioni naturali, e le riconduceva allo scioglimento di una comunione ordinaria; di conseguenza, ne attribuiva l’importo a ciascuno al 50% (con obbligo del M. di corrispondere gli importi prelevati o che non aveva accettato di suddividere con la sua ex compagna).
4. Dopo il deposito della sentenza di appello, in data 09.06.2015, M.S. decedeva senza lasciare testamento; C.O., che il M. aveva sposato dopo il termine della sua relazione con la D., accettava l’eredità con beneficio di inventario.
La C. propone ricorso per Cassazione, articolato in quattro motivi, nei confronti di D.M. per la cassazione della sentenza n. 94/2015, depositata dalla Corte d’appello di Venezia il 20.01.2015. Notifica il ricorso anche agli altri eredi del M..
D.M. resiste con controricorso.
La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.
La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
Preliminarmente, va detto che sussiste la legittimazione processuale in capo all’attuale ricorrente, sig. C.O., che non era parte dell’originario giudizio e propone il ricorso quale moglie, ed erede legittima, del defunto M.S. (trattandosi di verifica attinente alla regolare costituzione delle parti essa deve essere effettuata d’ufficio).
In tema di impugnazione per cassazione, al fine di evitare una pronuncia di inammissibilità del ricorso, il soggetto che non è stato parte del giudizio di merito deve allegare la propria “legitimatio ad causam”, e fornire la dimostrazione di essere subentrato nella medesima posizione del proprio dante causa, avendo l’impugnante, che si affermi successore (a titolo universale o particolare) della parte originaria, l’onere di fornire la prova documentale della propria legittimazione, a meno che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta.
La documentazione prodotta dalla C. è idonea a documentare la sua legittimazione: la ricorrente ha prodotto infatti sia il certificato di morte del M., che il certificato di matrimonio, che la dichiarazione di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, dalla quale risulta che il M. è morto intestato.
Il ricorso è pertanto ammissibile.
Nondimeno, esso è infondato.
Va premesso che la controversia in esame sottopone all’attenzione della Corte alcune questioni, sempre più ricorrenti nella pratica ma non del tutto risolte sul piano normativo né frequentemente esaminate in sede di legittimità, connesse alla cessazione di una relazione affettiva, alla individuazione dei principi da applicare per la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra gli ex partners e alla divisione del patrimonio comune.
Per la miglior comprensione della fattispecie e delle domande delle parti, nonché delle questioni che in relazione ad esse residuano in questa sede, va puntualizzato che nel caso di specie, la relazione sentimentale si è protratta per un lungo periodo di tempo, nell’arco del quale, per circa dieci anni i due partners hanno vissuto separatamente (il loro legame viene definito dalla sentenza in termini di fidanzamento) contribuendo con il denaro e il lavoro di entrambi alla costruzione di una casa comune. A questo primo periodo ha fatto seguito un secondo periodo di convivenza nella casa stessa, durato quattro anni, al termine del quale la relazione si è conclusa.
Nel caso in esame, con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazionedell’art. 2042 c.c., laddove la sentenza impugnata considera proponibile l’azione di indebito arricchimento previstadall’art. 2041 c.c., nonostante fosse esperibile – e non esaminata perché proposta tardivamente – l’azione previstadall’art. 936 c.c..
Sostiene che la Corte d’appello non abbia correttamente interpretato e applicato alla fattispecie la norma citata perché ha condannato M.S. a indennizzare, ai sensidell’art. 2041 c.c., D.M. per il valore dei materiali e il prezzo della manodopera impiegati nella costruzione della casa senza considerare che tale domanda, trattandosi pacificamente di casa di abitazione costruita su terreno di proprietà del M., doveva essere formulata dall’attrice ai sensidell’art. 936 c.c., con conseguente improponibilità dell’azione sussidiaria regolatadall’art. 2041 c.c..
Il motivo è infondato, perché la situazione in esame non è riconducibile alle fattispecie tutelatedall’art. 936 c.c.: l’art. 936, disciplina la particolare eventualità in cui un terzo che non vi sia in alcun modo legittimato né autorizzato, realizzi un’opera su un fondo altrui e detta una disciplina differente per le due diverse ipotesi, quella in cui il proprietario voglia trattenere le opere eseguite sul suo fondo senza autorizzazione (dettando dei criteri di indennizzo per il terzo) e quella in cui invece vuole che siano asportate. Nel caso in esame non è mai stato messo in discussione che la D. non si è intromessa nella costruzione facendo realizzare arbitrariamente opere non autorizzate, piuttosto la stessa ha contribuito con il proprio lavoro, le proprie scelte ed anche economicamente, con ripetuti contributi patrimoniali, alla realizzazione delle opere autorizzate dal proprietario (e scelte, in origine, di comune accordo, perché la costruzione doveva costituire l’abitazione della coppia), per cui correttamente la fattispecie è stata inquadrata nell’ambito dell’azione generale di arricchimento senza causa e la domanda è stata accolta una volta esclusa l’esistenza di una obbligazione naturale (che avrebbe reso irripetibile la dazione in denaro).
Peraltro, come osservato dalla controricorrente, la mancanza del presupposto della residualità, nel caso di specie, dell’azione di ingiustificato arricchimento, non sembra sia questione già in precedenza introdotta dalla parte ricorrente, non risultando affrontata dalla sentenza d’appello (né denunciata in termini di omessa pronuncia). Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia la falsa applicazionedell’art. 2041 c.c., laddove la sentenza impugnata non ha considerato che la volontarietà della prestazione esclude l’ingiustificato arricchimento (in relazione alle domande volte all’indennizzo del lavoro svolto ed al recupero del denaro investito nella costruzione della casa).
Sostiene che la Corte d’appello abbia errato nell’interpretarel’art. 2041 c.c., laddove ha ritenuto che il fidanzamento in assenza di convivenza more uxorio non sia giusta causa di arricchimento nonostante la pacifica volontarietà del trasferimento di utilità economiche. Osserva che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, la semplice volontà dell’impoverito di effettuare la dazione integri giusta causa dello spostamento patrimoniale, e quindi impedimento al riconoscimento del diritto all’indennizzo; e che tale principio sia stato applicato soprattutto a fattispecie di arricchimento determinate da affectionis vel benevolentiae causa in quanto indubbiamente connotate dalla volontà della parte che si assume danneggiata.
Il motivo è infondato.
Si tratta di questioni non infrequenti, anche se non idoneamente disciplinate, che concernono le conseguenze economiche dello scioglimento della famiglia di fatto, o comunque dei principi applicabili allorché cessino rapporti sentimentali stabili, in relazione alla sorte delle spese sostenute in vista della futura convivenza.
I principi da applicare sono stati compiutamente espressi da Cass. n. 11330 del 2009, che da un lato ricostruisce sistematicamente tutte le ipotesi in cui non si possa legittimamente richiamare la mancanza di causa del conferimento, a fondamento dell’azione di arricchimento, dall’altro fa applicazione degli indicati principi proprio in relazione ad un disciolto rapporto di convivenza more uxorio: “l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’ obbligazione naturale. E’, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza”.
Riprendendo i principi sopra citati, deve puntualizzarsi che all’interno dell’azione di indebito arricchimento, la volontarietà del conferimento è idonea ad escludere il diritto alla ripetizione di quanto spontaneamente pagato in quanto (o come anche si usa dire, nella misura in cui) essa è spontaneamente indirizzata ad avvantaggiare il soggetto in cui favore viene effettuato il conferimento, ovvero in quanto essa sia una volontaria attribuzione patrimoniale a fondo perduto in favore di una determinata persona, che il conferente intende sostenere o aiutare economicamente in una sua attività o iniziativa, o esigenza.
Nel nostro caso, il conferimento di denaro e del proprio tempo libero, impegnato in ore di lavoro per la costruzione della casa che doveva essere la dimora comune, è stato senz’altro volontario da parte della D. (ed effettuato peraltro quando essa ancora non era convivente col M., ma proprio in vista della instaurazione della futura convivenza).Esso però non è stato effettuato dalla donna in favore esclusivo del partner, per aiutarlo a costruire la sua casa, bensì è stato effettuato dalla donna in favore ed in vista della costruzione di un futuro comune, cioè per costruire un immobile che poi avrebbero goduto insieme, all’interno del loro rapporto, per consentire ad entrambi di coabitare in una casa che avevano progettato e costruito anche materialmente insieme, nell’ambito e per la realizzazione di un progetto comune. In ragione della proprietà esclusiva del terreno e dell’operatività del principio dell’accessione, quel conferimento è andato di fatto ad integrare un bene che è entrato, per le regole che disciplinano i modi di acquisto della proprietà, nella proprietà esclusiva dell’ex partner. Ciò non fa venir meno il fatto che la volontarietà del conferimento fosse indirizzata non al vantaggio esclusivo del partner, ma alla formazione e poi alla fruizione comune di un bene e non costituisse né una donazione né una attribuzione spontanea in favore del solo soggetto che se ne è giovato. Nel momento in cui lo stesso progetto dell’esistenza di un patrimonio e di beni comuni è venuto meno, perché si è sciolto il rapporto sentimentale tra i due ed è stato accantonato il progetto stesso di vita in comune, al convivente che non si è preventivamente tutelato in alcun modo non potrà essere riconosciuta la comproprietà del bene che ha collaborato a costruire con il suo apporto economico e lavorativo, ma avrà diritto a recuperare il denaro che ha versato e ad essere indennizzato per le energie lavorative impiegate volontariamente, per quella determinata finalità, in applicazione e nei limiti del principio dell’indebito arricchimento.
Pertanto, i contributi, in lavoro o in natura, volontariamente prestati dal partner di una relazione personale per la realizzazione della casa comunque non sono prestati a vantaggio esclusivo dell’altro partner e pertanto non sono sottratti alla operatività del principio della ripetizione di indebito.
Neppure è idoneo, al fine di escludere l’applicabilità della disciplinadell’art. 2041 c.c., il richiamo al principio delle obbligazioni naturali.
Premesso quanto sopra in relazione alla applicabilità della disciplina sull’ingiustificato arricchimento qualora le prestazioni siano state spontaneamente erogate non in favore esclusivo del partner ma in vista della realizzazione di un progetto comune, occorre poi verificare se all’applicabilità delle norme sull’ingiustificato arricchimento osti la disciplina delle obbligazioni naturali, o se nel caso di specie le somme (e le prestazioni lavorative) erogate non fossero ripetibili perché effettuate in adempimento di una obbligazione naturale.
La sentenza impugnata, come sopra sinteticamente indicato, esamina il problema e lo risolve escludendo che i conferimenti connessi alla realizzazione della casa fossero riconducibili nell’alveo delle obbligazioni naturali sulla base di due ordini di considerazioni: perché i due all’epoca erano solo fidanzati ma non ancora conviventi e quindi non formavano ancora una famiglia di fatto – pertanto non sussisteva alcuna obbligazione naturale in capo alla D. che giustificasse la non ripetibilità di quei conferimenti; perché si trattava di esborsi consistenti, che si collocavano oltre la soglia di proporzionalità ed adeguatezza rispetto ai mezzi di ciascuno dei partners. La motivazione giunge alla corretta conclusione di escludere che tali spontanee prestazioni siano irripetibili perché riconducibili nell’alveo delle obbligazioni naturali: si tratta di prestazioni esulanti dall’adempimento di obbligazioni inerenti al rapporto di convivenza.
In più, e questo profilo è ben colto dalla sentenza impugnata, i conferimenti in denaro e in lavoro per la costruzione della casa comune non sarebbero in ogni caso riconducibili alle obbligazioni naturali perché è stato accertato in fatto, dalla corte d’appello, che essi fossero ben superiori al normale tenore di vita della D., operaia, proprio perché finalizzati non ad una liberalità e non al normale contributo alle spese ordinarie della convivenza, ma a realizzare quella che avrebbe dovuto essere la casa della coppia (i conferimenti effettuati si collocherebbero quindi comunque al di sopra della soglia che il giudice di merito deve individuare nel rispetto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza, richiamati da ultimo da Cass. n. 1266 del 2016). Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazionedell’art. 115 c.p.c., laddove la sentenza impugnata ritiene indimostrato l’accordo divisorio (in base alla contribuzione effettiva) del conto cointestato, dedotto da una parte, nonostante l’altra non l’avesse mai contestato (il motivo è relativo quindi all’accoglimento della domanda di restituzione del 50% delle somme esistenti sul conto corrente comune). Sostiene che, a fronte della mancata contestazione da parte della D. dell’esistenza di un preventivo accordo di divisione delle somme relative al conto cointestato, al quale le pani avrebbero dato spontanea attuazione, dedotto dal M., la Corte d’appello avrebbe dovuto rigettare la domanda di (ulteriore) divisione delle somme che erano residuate sul conto nel momento della cessazione della convivenza.
Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione degliartt. 1101 e 1114 c.c., laddove la sentenza impugnata assegna, in sede di divisione, a ciascun comunista metà dei beni in comunione nonostante la parte attrice avesse riconosciuto di aver conferito in comunione beni in misura inferiore alla metà.
Sostiene che, poiché il M. versava mensilmente sul c/c l’importo di 2.400.000 Lire, mentre la D. versava 1.600.000, il primo conferiva in comunione denaro nella misura del 60%, mentre la seconda del 40%, e che pertanto nel rispetto di tale proporzione tra i due dovesse essere eventualmente diviso il residuo.
Il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto pongono in discussione sotto differenti profili la decisione sul punto in cui ha disposto l’attribuzione alla ex convivente del 50 % delle somme esistenti sul conto cointestato.
Essi sono entrambi inammissibili.
Il terzo motivo è inammissibile in primo luogo perché è volto ad introdurre una questione nuova, in quanto nella sentenza impugnata non si fa alcuna menzione di un precedente accordo volto alla spartizione del denaro e dei titoli sui conti cointestati, a seguito del quale la D. avrebbe rinunciato ad ogni pretesa sul conto cointestato. Inoltre, tende ad una rinnovazione del giudizio in fatto per arrivare ad una diversa ripartizione degli importi depositati sul conto comune.
Anche il quarto motivo è inammissibile.
In caso di conto corrente cointestato tra due conviventi di fatto, si presume che entrambi abbiano contribuito a determinare l’ammontare del deposito in parti uguali, per cui, dal momento dello scioglimento della convivenza ciascuno dei partner ha diritto all’attribuzione del 50% della somme presenti sul conto, se l’altra parte non dimostri una diversa misura dei conferimenti (in applicazione ai rapporti tra ex conviventi del principio consolidato sulla presunzione di parità in caso di cointestazione del rapporto di conto corrente, enunciato da ultimo da Cass. n. 77 del 2018, e prima da Cass. n.4066 del 2009, secondo il quale nel conto corrente bancario intestato a due (o più) persone, i rapporti interni tra correntisti non sono regolatidall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensìdall’art. 1298 c.c., comma 2, in base al quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali, solo se non risulti diversamente).
La corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio sopra indicato, relativo alle norme sulla comunione e sui rapporti interni tra obbligati solidali per regolare la sorte degli importi residuati sul conto corrente comune al momento dello scioglimento della convivenza, accertando quale fosse l’importo residuo e disponendo che il 50% di esso, che quantifica, debba essere restituito alla D.. Essa ha applicato la presunzione che gli apporti di entrambe le parti fossero equivalenti, e non contiene alcun accertamento sulla misura dei conferimenti di ciascuno, che evidentemente non era stato inserito nel thema decidendum né era stato oggetto di prova: esso costituisce questione nuova, ed in ogni caso non sarebbe possibile procedere ad un nuovo accertamento in fatto sul punto.
Il ricorso va complessivamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.
Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla parte controricorrente, che liquida in complessivi Euro 4.500,00 oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione, il 12 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2018

Non costituisce pregiudizio per il creditore la donazione indiretta successiva all’atto di disposizione compiuto se, a tale momento, il patrimonio residuo del debitore soddisfaceva le sue ragioni

Cass. civ. sez. VI – 3, 4 aprile 2018, n. 8345
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29243/2016 proposto da:
BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO SOMALIA 67, presso lo studio dell’avvocato RITA GRADARA, rappresentata e difesa dall’avvocato STEFANO SARZI SARTORI;
– ricorrente –
contro
B.P., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE 87, presso lo studio dell’avvocato ARTURO ANTONUCCI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBERTO VASSALLE, FRANCESCA VIRGILI;
– controricorrente –
contro
B.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1172/2015 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 19/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 08/02/2018 dal Consigliere Dott. SESTINI DANILO;
Dato atto che il Collegio ha disposto la motivazione semplificata.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
la Corte di Appello di Brescia ha confermato la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda exart. 2901 c.c., proposta dalla MPS Gestione Crediti Banca s.p.a. nei confronti di B.P. e del figlio A., in relazione ad una donazione indiretta compiuta dal primo (mediante il pagamento del prezzo di un immobile acquistato dal secondo);
la Corte ha condiviso la valutazione del Tribunale che aveva escluso la ricorrenza dell’eventus damni in quanto, al momento in venne compiuto l’atto revocando, il residuo patrimonio di B.P., costituito anche da un “considerevole patrimonio immobiliare”, era “ampiamente superiore al debito dello stesso nei confronti della banca (…) ed era per gran parte vincolato a garanzia dell’esposizione debitoria conseguente all’apertura di credito”;
ha proposto ricorso per cassazione la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (incorporante la MPS Gestione Crediti Banca), affidandosi ad un unico motivo; ha resistito B.P. con controricorso.
Considerato che:
con l’unico motivo, la ricorrente ha denunciato la violazione e la falsa applicazionedell’art. 2901 c.c., evidenziando che il pregiudizio rilevante ai fini dell’azione revocatoria ordinaria “non include il mero danno attuale, ma anche il danno potenziale” e che, con la donazione indiretta in favore del figlio, il B. aveva comunque determinato una “scarto di garanzia”, ossia una considerevole riduzione della differenza fra l’esposizione debitoria e le garanzie patrimoniali;
il motivo è infondato giacché:
la Corte ha correttamente verificato la sussistenza dell’eventus damni all’epoca in cui venne compiuto l’atto di disposizione dedotto in giudizio, costituente il momento in cui doveva apprezzarsi se il patrimonio residuo del debitore fosse tale da soddisfare le ragioni del creditore (cfr. Cass. n. 23743/2011, che ha anche precisato come restino invece “assolutamente irrilevanti, al fine anzidetto, le successive vicende patrimoniali del debitore, non collegate direttamente all’atto di disposizione”);
rispetto a tale momento, la Corte ha accertato che il residuo patrimonio del B. era – come detto – “ampiamente superiore al debito dello stesso nei confronti della banca”, sulla base di dati che non erano “stati specificamente contestati da MPS”, con la conseguenza che non appariva configurabile alcun pregiudizio per il creditore, neppure in termini di maggiore difficoltà di realizzare il proprio credito;
a fronte di tale apprezzamento – riservato al giudice di merito e non censurato sotto il profilo dell’irriducibile anomalia motivazionale – la decisione impugnata risulta dunque conforme a diritto per avere rigettato la domanda in difetto del requisito dell’eventus damni;
le spese di lite seguono la soccombenza;
trattandosi di ricorso proposto successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per l’applicazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

L’art. 570 co. 2 c.p. impone l’obbligo positivo di un effettivo adempimento mediante esborso delle somme dovute a soddisfacimento diretto dei bisogni del minore

Cass. pen. Sez. III, 14 marzo 2018, n. 11565
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.V., nato il (OMISSIS) – PARTE CIVILE;
avverso la sentenza del 25/10/2016 della CORTE APPELLO di SALERNO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ALESSANDRO MARIA ANDRONIO;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. FILIPPI PAOLA che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi presentati dalle parti ricorrenti.
Udito il difensore presente, Avvocato Luca Pagliaro, al termine del proprio intervento si riporta ai motivi del ricorso.
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza del 9 ottobre 2014, il Tribunale di Salerno ha assolto l’imputato, per insussistenza dei fatti, dai reati di cui:all’art. 570 c.p., a lui contestato per avere tenuto una condotta contraria alla morale della famiglia, non incontrandosi con il figlio naturale e omettendo di versare il mantenimento all’ex compagna, facendo mancare loro i mezzi di sussistenza (capo B dell’imputazione); all’art. 609 bis c.p., a lui contestato per avere palpeggiato la ex compagna nelle parti intime contro sua volontà, tenendola ferma con le braccia (capo C). Lo ha invece condannato, anche al risarcimento del danno nei confronti della parte civile costituita, da liquidarsi in sede civile, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante contestata, per il reato di cuiall’art. 81 c.p., comma 2,artt. 594, 582 e 585 c.p., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, aveva aggredito la ex compagna procurandole lesioni personali e insultandola (capo A).
Con sentenza del 25 ottobre 2016, la Corte d’appello di Salerno ha assolto l’imputato dal reato di cuiall’art. 594 c.p., perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, rideterminando la pena in diminuzione per i residui reati, e ha confermato, quanto al resto, la sentenza di primo grado; ha altresì rigettato l’appello della parte civile, condannandola al pagamento delle spese del grado di giudizio.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si lamentano la mancanza, la contraddittorietà, la manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla responsabilità penale, il cui accertamento sarebbe stato basato sulla versione accusatoria della persona offesa. Non si sarebbe considerato che la stanza dove si sarebbero svolti i fatti non avrebbe consentito, per la sua ridotta altezza, che l’imputato colpisse con una sedia la persona offesa, secondo le modalità da quest’ultima descritte. Ella aveva infatti riferito che l’imputato aveva alzato la sedia sulla propria testa, pur in presenza di uno spazio di soli 20 cm tra la testa e il soffitto. Si sostiene, altresì, che la persona offesa sarebbe stata ritenuta non credibile quanto alla violenza sessuale, per la quale vi era stata assoluzione; e si sottolinea, quanto alle lesioni, l’inidoneità dei certificati medici in atti a provare la dinamica del fatto. Quanto al secondo episodio contestato, che consisterebbe nel ferimento al braccio con un coltello, la persona offesa avrebbe riferito di avere presentato una querela, poi ritirata, della quale non vi sarebbe traccia in atti. Non si sarebbe considerato che la stessa aveva l’interesse a mentire sul punto, per dissidi circa la prole, e trattandosi di un soggetto dotato di una personalità tendente alla manipolazione.
2.2. – In secondo luogo, la decisione impugnata sarebbe viziata in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in misura prevalente rispetto alla contestata aggravante.
Non si sarebbe considerato che l’imputato è un soggetto incensurato, stimato nell’ambiente lavorativo, che si è sottoposto volontariamente all’esame delle parti, essendo stato presente a tutte le udienze. Si ricorda, inoltre, che nel giudizio di comparazione tra le circostanze aggravanti e attenuanti, non può ritenersi valido elemento di giudizio la semplice negazione del fatto da parte dell’imputato.
2.3. – Si impugna, in terzo luogo, la condanna dell’imputato alle spese del giudizio di secondo grado in favore della parte civile, sul rilievo che l’appello di quest’ultima avrebbe dovuto essere considerato generico, perché con lo stesso semplicemente si chiedeva la condanna dell’imputato per i fatti per i quali era stato assolto primo grado.
3. – La sentenza è stata impugnata anche dal difensore della parte civile.
3.1. – Si deduce, in primo luogo, la nullità della sentenza stessa, perché nel suo dispositivo sarebbe stata omessa qualsiasi pronuncia in ordine alla conferma della sentenza di primo grado, quanto all’assoluzione dai reati di cui ai capi B e C dell’imputazione.
3.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si lamentano vizi della motivazione in relazione all’assoluzione dell’imputato dal reato di violenza sessuale. La motivazione del Tribunale, secondo cui vi erano attriti pregressi tra le parti, sarebbe smentita dai fatti, mentre non si sarebbe considerata la versione accusatoria della persona offesa, la quale aveva riferito la condotta descritta nell’imputazione, a seguito del tentativo dell’imputato di avere un rapporto sessuale con lei. Non si sarebbe considerato, inoltre, che vi è la prova dell’invio, da parte dell’imputato, di un messaggio con il quale egli chiedeva alla vittima di dichiarare falsamente al pronto soccorso di essersi ferita in un incidente stradale, nonché dell’assoluzione pronunciata dal Giudice di pace nei confronti dell’attuale persona offesa, imputata in un procedimento per minacce nei confronti dell’attuale imputato.
3.3. – Si prospettano, poi, vizi della motivazione in relazione all’assoluzione dell’imputato dal reato di maltrattamenti.
Il Tribunale aveva ritenuto che, pur in mancanza di prova della corresponsione di mezzi economici, l’imputato non si fosse disinteressato alla sorte del figlio e avesse assunto un debito in favore della parte civile, stipulando un mutuo a garanzia per l’acquisto di un appartamento. Quanto alla garanzia, lo stesso imputato non avrebbe affermato di avere pagato rate, essendosi limitato ad affermare, senza darne prova, di avere dato una cifra in contanti all’ex compagna il giorno della stipula del contratto.
3.4. – In quarto luogo, si impugna la condanna al pagamento delle spese del secondo grado di giudizio, sul rilievo che la stessa sarebbe ingiusta, sia perché scaturente dalle ingiuste assoluzioni dell’imputato, sia perché l’impugnazione di quest’ultimo era stata accolta solo in parte, con rideterminazione della pena in diminuzione.
Motivi della decisione
4. – Il ricorso dell’imputato è inammissibile.
4.1. – Il primo motivo di impugnazione – relativo alla motivazione circa la responsabilità penale – è inammissibile, perché formulato in modo non specifico. La difesa si limita, infatti, a contestare l’attendibilità della persona offesa, senza puntualmente richiamare gli atti di causa dai quali tale inattendibilità deriverebbe e senza considerare gli elementi di riscontro, sostanzialmente riproducendo censure già esaminate e motivatamente disattese in primo e secondo grado.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, la Corte d’appello ha preso in considerazione la prospettazione secondo cui il soffitto della stanza nella quale l’imputato aveva colpito la persona offesa con una sedia era particolarmente basso, e ne ha escluso la rilevanza, evidenziando che la dinamica del fatto descritta dalla persona offesa risulta pienamente compatibile con tale caratteristica del soffitto. Del tutto generiche sono, parimenti, le considerazioni difensive circa l’inidoneità, quali riscontri, dei certificati medici delle lesioni. Quanto, poi, al secondo episodio contestato, consistente nel ferimento al braccio con un coltello, la difesa si limita ad asserire che la persona offesa avrebbe riferito di avere presentato una querela, poi ritirata, della quale non vi sarebbe traccia in atti, senza compiutamente formulare specifiche censure circa l’inattendibilità della stessa. Non sono tali, infatti, le mere affermazioni secondo cui quest’ultima aveva interesse a mentire sul punto, per dissidi circa la prole, ed era un soggetto dotato di una personalità tendente alla manipolazione. Del tutto correttamente, del resto, il Tribunale e la Corte d’appello hanno ritenuto raggiunta la prova delle lesioni, che trovano riscontro nei rilievi fotografici, negli SMS inviati dall’imputato alla persona offesa, dotati di sostanziale contenuto confessorio, nelle certificazioni mediche in atti; non hanno invece ritenuto provata, per mancanza di riscontri, la violenza sessuale, non essendo sufficientemente specifiche le propalazioni accusatorie della vittima sul punto, in presenza di elementi, quale l’inimicizia con l’imputato, che non consentivano di considerare da sole sufficienti tali propalazioni ai fini della prova della responsabilità.
4.2. – Inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in misura prevalente rispetto alla contestata aggravante. La Corte d’appello ha preso in considerazione la prospettazione difensiva secondo cui l’imputato è un soggetto incensurato, stimato nell’ambiente lavorativo, che si è sottoposto volontariamente all’esame delle parti, essendo stato presente a tutte le udienze, confermando il giudizio di equivalenza tra le circostanze già formulato in primo grado. Con motivazione pienamente logica incoerente e, dunque, insindacabile in sede di legittimità, ha altresì evidenziato la mancanza di ulteriori elementi positivi di giudizio, tali da indurre a modificare la già formulata statuizione di equivalenza tra le circostanze.
4.3. – Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso, con cui si censura la condanna dell’imputato alle spese del giudizio di secondo grado in favore della parte civile, limitandosi a rilevare che l’appello di quest’ultima avrebbe dovuto essere considerato generico. La difesa asserisce, sul punto, che con l’atto di appello semplicemente si chiedeva la condanna dell’imputato per i fatti per i quali era stato assolto in primo grado; mentre, dalla semplice lettura dello stesso, emerge che tale richiesta era espressamente collegata all’interesse della parte civile all’ulteriore integrale risarcimento dei danni.
4.4. – Il ricorso dell’imputato, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a normadell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
5. – Il ricorso della parte civile è, invece, parzialmente fondato.
5.1. – Il primo motivo – con cui si deduce la nullità della sentenza impugnata, perché nel suo dispositivo sarebbe stata omessa qualsiasi pronuncia in ordine alla conferma della sentenza di primo grado, quanto all’assoluzione dai reati di cui ai capi B e C dell’imputazione – è infondato. Il dispositivo della sentenza, pur recando effettivamente un esplicito riferimento al rigetto dei motivi di appello relativi all’assoluzione per i reati di cui sopra, contiene statuizioni dalle quali tale rigetto si desume in modo univoco. La Corte d’appello, infatti, conferma le statuizioni civili della sentenza di primo grado, evidentemente limitate al solo capo per il quale vi è stata condanna; inoltre condanna la parte civile al pagamento delle spese processuali del grado di giudizio; pagamento il cui presupposto è la soccombenza totale della parte, ai sensidell’art. 592 c.p.p., commi 1 e 4.
5.2. – Del tutto generico è il secondo motivo di doglianza, con si lamentano vizi della motivazione in relazione all’assoluzione dell’imputato dal reato di violenza sessuale. La valutazione del Tribunale, correttamente confermata dalla Corte d’appello, si basa – come visto – sulla considerazione unitaria delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, le quali non sono ritenute di per sé sufficienti ai fini della responsabilità penale. Quanto al capo A le stesse sono, però, ampiamente suffragate da altri elementi di prova (vedi sopra sub 4.1.); quanto al capo C, invece, risultano prive di riscontro, con la conseguenza che non risulta superato il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio”.
5.3. E’ parzialmente fondato il terzo motivo, relativo all’assoluzione dell’imputato da due fattispecie di reato di cuiall’art. 570 c.p.(capo B dell’imputazione). Si contesta all’imputato di avere tenuto una condotta contraria alla morale della famiglia, non incontrandosi con il figlio naturale e omettendo di versare il mantenimento all’ex compagna, facendo mancare loro i mezzi di sussistenza.
Quanto alla prima delle due condotte – che secondo l’imputazione rientra nell’ambito di applicazione del primo comma dell’articolo richiamato – deve rilevarsi che le sentenze di primo e secondo grado e la stessa prospettazione della parte civile evidenziano che l’imputato aveva rapporti con il figlio minore, perché lo vedeva con regolarità presso la casa della ex convivente, dove si tratteneva a dormire anche dopo la cessazione della convivenza more uxorio.
Ne deriva la manifesta insussistenza del reato contestato.
Quanto alla seconda condotta, deve rilevarsi che la stessa è riconducibile all’ambito di applicazionedell’art. 570 c.p., comma 2, 2), limitatamente alla posizione del figlio minore dell’imputato.
Infatti, per quanto qui rileva, la disposizione in parola sanziona “chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro”. La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la violazione degli obblighi di assistenza familiare sussiste anche in assenza di una disposizione civilistica che imponga la corresponsione di un assegno, laddove si riscontri una situazione concreta di bisogno rispetto ai figli, in virtù di un obbligo morale che è il vero oggetto della disciplina dell’art. 570 (Sez. 6, n. 32478 del 05/07/2016). E, in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva dello stato di bisogno, con il conseguente obbligo per i genitori di contribuire al loro mantenimento, assicurando ad essi detti mezzi di sussistenza (Sez. 6, n. 50075 del 04/10/2016).
Inoltre, l’eventuale capacità economica dell’altro coniuge non esclude la responsabilità del soggetto che non adempie agli obblighi di assistenza familiare nei confronti dei figli minori d’età (Sez. 6, n. 48604, del 27/09/2017).
Tornando al caso in esame, deve rilevarsi che la Corte d’appello ha ritenuto contraddittorio il racconto della persona offesa con riferimento al disinteresse mostrato dell’imputato per il mantenimento del figlio minore; disinteresse che non si concilierebbe con la sottoscrizione del contratto di mutuo a garanzia per l’acquisto di un appartamento, a favore della ex convivente.
È peraltro vero che, quanto alla garanzia fideiussoria prestata, lo stesso imputato non ha affermato di avere pagato rate, essendosi limitato ad asserire, senza darne prova, di avere dato una cifra in contanti all’ex compagna il giorno della stipula del contratto. Per quanto emerge dalla stessa ricostruzione della Corte d’appello, dunque, non vi è sufficiente prova del fatto che l’imputato abbia fornito mezzi di sussistenza al figlio, perché tale non è la semplice stipula di una fideiussione, dalla quale non deriva in concreto alcun esborso di denaro, a meno che non vi sia l’escussione del fideiussore da parte del creditore; ipotesi non verificatasi nel caso di specie. Deve infatti affermarsi il seguente principio di diritto: “Ai fini dell’applicazionedell’art. 570 c.p., comma 2, n. 2), non vale ad escludere la mancanza di mezzi di sussistenza per i discendenti di età minore, la semplice prestazione, da parte del genitore, di garanzie patrimoniali per debiti contratti nel loro interesse, cui non segua un effettivo esborso. L’obbligo la cui violazione è sanzionata dalla norma deve intendersi, infatti, come un obbligo positivo di concreta garanzia dei mezzi di sussistenza, da adempiersi con la dazione di denaro o attraverso il soddisfacimento diretto dei bisogni del minore destinatario”.
5.4. – Come visto, la Corte d’appello non ha fatto corretta applicazione di tale principio, con la conseguenza che la sentenza impugnata deve essere annullata, limitatamente al reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2), ai soli effetti civili, con rinvio, per nuovo giudizio sul punto, al giudice civile competente per valore in grado d’appello, al quale deve essere rimesso anche il regolamento delle spese. L’accoglimento del terzo motivo di ricorso, comporta l’assorbimento del quarto, riferito alla condanna della parte civile al pagamento delle spese del secondo grado di giudizio, perché, ai fini di tale condanna, risulta pregiudiziale la valutazione circa la fondatezza del motivo di appello relativo al reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2); valutazione che, seppure ai soli fini civili, è stata rimessa al giudice di rinvio.
Il ricorso della parte civile deve essere rigettato nel resto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso dell’imputato C.V. e lo condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2), ai soli effetti civili, e rinvia, per nuovo giudizio sul punto, al giudice civile competente per valore in grado d’appello, al quale rimette il regolamento delle spese. Rigetta nel resto il ricorso della parte civile.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, in quanto imposto dalla legge.

La sanzione prevista dalla L. n. 898 del 1970, art. 12-sexies è applicabile anche per la violazione degli obblighi di contribuzione economica derivanti dall’ordinanza presidenziale

Cass. pen. Sez. VI, 29 maggio 2018, n. 24162
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F.L., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 21/06/2017 della Corte d’appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Antonio Corbo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. Delia Cardia, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente, l’avvocato Cinzia Passero, in sostituzione dell’avvocato Biagio Maurizio La Venuta, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa in data 21 giugno 2016, la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Termini Imerese, per quanto di interesse in questa sede, ha, previa riqualificazione giuridica del fatto, affermato la penale responsabilità di F.L. per il reato di cui allaL. n. 54 del 2006,art.3, per aver omesso di corrispondere l’assegno di mantenimento in favore dei due figli maggiorenni, fissato in Euro 300,00 mensili con provvedimento del Presidente del Tribunale di Termini Imerese il 28 ottobre 2012, con condotta perdurante dalla data appena indicata al 30 luglio 2013, ed ha rideterminato la pena in due mesi di reclusione.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe l’avvocato Biagio Maurizio La Venuta, quale difensore di fiducia di F.L., articolando quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento allaL. n. 54 del 2006,art.3,L. n. 898 del 1970,art.12-sexiese artt. 530, 125, 546 e 192 c.p.p., nonché vizio di motivazione, a normadell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla sussistenza e configurabilità del fatto di reato.
Si deduce che la sanzione prevista dallaL. n. 898 del 1970,art.12-sexiesè inapplicabile per sanzionare la violazione degli obblighi di contribuzione economica derivanti dall’ordinanza del Presidente del Tribunale, stante il divieto di applicazione analogica delle disposizioni incriminatrici (si cita, a sostegno, Sez. 6, n. 2824 del 03/02/1999, Bracci, Rv. 212887).
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento allaL. n. 54 del 2006,art.3eL. n. 898 del 1970,art.12-sexies, nonché vizio di motivazione, a normadell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla sussistenza e configurabilità del fatto di reato.
Si deduce che la sentenza impugnata, nonostante la questione sia stata posta con i motivi nuovi di appello, ha omesso di considerare che l’ordinanza del Presidente del Tribunale, emessa in data 28 ottobre 2012, è stata sostanzialmente revocata con la sentenza pronunciata dal Tribunale civile di Termini Imerese in data 29 marzo 2016, prevedendo solo un assegno da corrispondere direttamente ai figli maggiorenni (si cita Sez. 6, n. 21475 del 05/02/2015, M.L., non mass.). Si aggiunge che la somma fissata nell’ordinanza del Presidente del Tribunale è stata versata alla moglie dell’imputato, e che i figli non convivevano con la stessa.
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento allaL. n. 54 del 2006,art.3,L. n. 898 del 1970,art.12-sexies, e artt. 530, 125, 546 e 192 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a normadell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla sussistenza del dolo.
Si deduce che la coscienza e volontà dell’imputato di far mancare il mantenimento ai figli è esclusa perché dagli atti risulta che questi non convivevano con la madre ed hanno sempre lavorato. Si aggiunge che gli accertamenti compiuti hanno evidenziato l’assenza di lavoro e redditi per l’imputato.
2.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, a normadell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla pena inflitta.
Si deduce che le condizioni di indigenza dell’imputato e l’assenza di reali pregiudizi subiti dai figli avrebbero dovuto determinare l’applicazione della sola pena pecuniaria.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è complessivamente infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Infondate sono le censure esposte nel primo motivo.
Le stesse contestano la configurabilità del reato di cui allaL. n. 54 del 2006,art.3, negando che l’obbligo penalmente sanzionato possa discendere dall’inadempimento dell’ordinanza del Presidente del Tribunale.
In realtà, il Collegio ritiene di dover dare continuità al principio secondo cui, in tema di violazione degli obblighi di natura economica posti a carico del genitore separato, il disposto di cui allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.12-sexies(richiamato dallaL. 8 febbraio 2006 n. 54,art.3) si applica anche all’inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli minori, stabilito dal Presidente del tribunale tra le disposizioni conseguenti all’autorizzazione dei coniugi a vivere separati (così Sez. 6, n. 43341 del 27/09/2016, D C., Rv. 268506).
Ed infatti, questa conclusione è persuasivamente sostenuta sul rilievo che laL. n. 54 del 2006,art.3sanziona la violazione degli “obblighi di natura economica”, senza operare alcuna distinzione quanto alla loro fonte.
Per effetto di questa disposizione è superato il principio affermato da Sez. 6, n. 2824 del 03/02/1999, Bracci, Rv. 212887, e richiamato nel ricorso: questa decisione – secondo la quale la sanzione prevista dallaL. n. 898 del 1970,art.12-sexiesnon è applicabile all’inosservanza dell’ordinanza emessa, a norma dell’art. 4 della legge citata, dal Presidente del Tribunale in via temporanea e urgente nell’interesse dei coniugi e della prole – è stata emessa in relazione ad un contesto normativo antecedente all’entrata in vigore dellaL. n. 54 del 2006.
Per completezza, si può aggiungere che la conclusione non muta per effetto dell’introduzionedell’art. 570-bis c.p., inserito dalD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21,art.2, ed in vigore dal 6 aprile 2018. Questa disposizione, infatti, prevedendo: “Le pene previste dall’art. 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipo di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”, non risulta aver recato alcuna modifica rilevante ai fini della decisione da assumere in questa sede.
3. Infondate sono anche le censure esposte nel secondo e nel terzo motivo, da esaminare congiuntamente.
Le stesse deducono che l’ordinanza del Presidente del Tribunale impositiva dell’obbligo per l’imputato di versare le somme in contestazione è stata sostanzialmente revocata con la sentenza del Tribunale che ha disposto di corrispondere l’assegno ai soli figli, che il denaro, per effetto dell’ordinanza in questione, doveva essere versate alla moglie sebbene i figli non convivessero con la stessa, ma fossero maggiorenni e lavorassero, e che egli era disoccupato e privo di redditi.
3.1. Le questioni giuridiche da affrontare attengono all’applicabilità della disposizione incriminatrice di cui allaL. n. 54 del 2006,art.3anche in caso di violazione degli obblighi disposti a beneficio dei figli maggiorenni, ed ai limiti di rilevanza della situazione di difficoltà economica dell’obbligato.
Per quanto concerne la prima questione, la risposta deve essere positiva.
Invero, l’art. 3 citato, come si è detto, sanziona la “violazione degli obblighi di natura economica”, senza operare distinzioni. Deve aggiungersi che l’art. 1 della medesimaL. n. 54 del 2006ha regolato specificamente la possibilità di imporre, in sede di separazione, il pagamento di un assegno periodico in favore dei “figli maggiorenni”, introducendol’art. 155-quinquies cod. civ., nel quale, tra l’altro, si prevede che detto “assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”. Del resto, sia pure incidentalmente, l’applicabilità dellaL. n. 54 del 2006,art.3è stata più volte affermata con riferimento alle violazioni degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli maggiorenni (cfr., specificamente: Sez. 6, n. 23794 del 27/04/2017, B., Rv. 270223; Sez. 6, n. 36263 del 22/09/2011, C., Rv. 250879; Sez. 6, n. 6575 del 18/11/2008, dep. 2009, G., Rv. 243529).
Deve aggiungersi che, sempre in relazione alla configurabilità del reato in questione per l’omesso pagamento dell’assegno in favore dei figli maggiorenni, non occorre la prova della mancanza dei mezzi di sussistenza da parte dei medesimi. In effetti,l’art. 155-quinquies cod. civ., come introdotto dallaL. n. 54 del 2006, prevede la possibilità di disporre il versamento di un assegno periodico in favore dei figli maggiorenni sul più limitato presupposto che gli stessi siano semplicemente “non indipendenti economicamente”.
Per quanto si riferisce alla seconda questione, è sufficiente richiamare l’orientamento consolidato della giurisprudenza.
Innanzitutto, come ribadito da numerose pronunce, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionatidall’art. 570 cod. pen., deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti (cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 33997 del 24/06/2015, C., Rv. 264667, nonchè Sez. 6, n. 41362 del 21/10/2010, M., Rv. 248955). Inoltre, sempre secondo un indirizzo ermeneutico largamente condiviso, ai fini dell’esclusione della responsabilità per il reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, incombe all’interessato l’onere di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l’impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione, del tutto inidonea essendo a tal fine la dimostrazione di una mera flessione degli introiti economici o la generica allegazione di difficoltà (v., esemplificativamente, Sez. 6, n. 8063 del 08/02/2012, G., Rv. 252427, nonché Sez. 6, n. 5751 del 14/12/2010, dep. 2011, P., Rv. 249339).
3.2. La sentenza impugnata descrive compiutamente gli elementi di fatto ritenuti rilevanti.
I giudici di secondo grado segnalano, in primo luogo, che il provvedimento del Presidente del Tribunale, emesso in sede di separazione il 28 ottobre 2012, poneva a carico dell’imputato l’obbligo di versare alla moglie 200,00 Euro mensili e ai due figli, entrambi maggiorenni, la somma di 300,00 Euro mensili, e che il medesimo ricorrente non aveva mai corrisposto alcunché fino al 30 luglio 2013, data indicata in contestazione, versando quindi in situazione di “assoluto inadempimento”. Rappresentano, poi, che la sentenza del 29 marzo 2016 ha revocato l’obbligo di mantenimento nei confronti della sola moglie, che, ai fini del reato in contestazione, non rileva la prova dello stato di bisogno dei figli, quali beneficiari dell’assegno, e che l’incapacità dell’imputato è oggetto di mera affermazione dello stesso, sprovvista di qualunque allegazione.
3.3. Le conclusioni della Corte d’appello sono corrette.
In effetti, la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito non è censurabile, stante l’assenza di critiche idonee ad evidenziare vizi logici o giuridici o effettivi travisamenti della prova; anzi, il ricorso, con riguardo ad uno dei figli, si limita semplicemente a rilevare che lo stesso ha dichiarato di vivere con la nonna materna.
Ciò posto, è indiscutibile anche la correttezza dell’applicazione dei principi evidenziati in precedenza, posto che laL. n. 54 del 2006,art.3sanziona anche la violazione degli obblighi di natura economica disposti a beneficio dei figli maggiorenni “non indipendenti economicamente”, che il giudice può disporre l’effettuazione pagamento della somma stabilita a beneficio di questi anche a mani della madre, e che l’incapacità economica dell’imputato deve essere rigorosamente dimostrata, tanto più a fronte di una situazione di “assoluto inadempimento”.
4. Manifestamente infondate sono le censure esposte nel quarto motivo, che contestano la mancata applicazione della sola pena pecuniaria.
La sentenza impugnata ha compiutamente spiegato che la sanzione è stata determinata avendo riguardo alla durata dell’inadempimento, protrattosi anche per il periodo successivo a quello indicato in imputazione, al grave pregiudizio per i due figli, così da integrare due distinti reati, ed al precedente penale per furto.
Trattasi di motivazione che procede a corretta applicazione dei principi di cuiall’art. 133 cod. pen., indicando sia profili attinenti alla gravità dei fatti, sia profili concernenti la personalità del reo, e che, come tale, è idonea a giustificare l’applicazione della pena detentiva e non di quella pecuniaria.
5. All’infondatezza delle censure, segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

ASSENZA

di Gianfranco Dosi
I La scomparsa di una persona e la natura solo eventuale delle procedure civilistiche che ne conseguono
Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno il numero delle persone che scompaiono in Italia è sempre in aumento: nel 2017 le denunce di scomparsa sono state 211.219 (22.109 in più rispetto al 2016) mentre le persone rintracciate sono state 158.229. Quindi non si sono avute più notizie di 52.990 persone scomparse (nel 75% uomini e nel 25% donne). Il dato comprende anche le denunce di stranieri scomparsi.
A scomparire possono essere persone (maggiorenni o minori) che volontariamente decidono di far perdere le loro tracce oppure persone incapaci di intendere o di volere che si perdono senza fare rientro nel luogo in cui abitavano, oppure ancora che vengono per esempio rapite o sequestrate o che partecipano ad operazioni militari o di protezione civile restando vittime di qualche evento che ne fa perdere le tracce.
Scomparire vuol dire, insomma, “non comparire più nel luogo dell’ultimo domicilio senza che vi siano notizie circa il luogo in cui la persona scomparsa si trova” (concetto lucidamente espresso nell’art. 48 c.c.). La legge non indica il periodo minimo di tempo per potersi parlare di scomparsa, ma è evidente che deve trascorrere un tempo sufficiente o devono sussistere elementi di fatto – valutate tutte le circostanze del caso – per rendere ragionevole l’ipotesi della scomparsa.
Ugualmente non deve essere trascorso un tempo tale da lasciar presumere che lo scomparso sia addirittura morto. Così per esempio Trib. Monza, 24 novembre 1987 ha in passato affermato che quando risulti che una persona, per il trascorrere degli anni, sia certamente deceduta, non si può far luogo alla nomina di un curatore allo scomparso. E d’altro canto la scomparsa non deve essersi verificata da troppo tempo tanto da far presumere che lo scomparsi sia morto (Cass. civ. Sez. II, 6 luglio 1972, n. 2247).
Che succede quando una persona scompare?
A questo problema danno risposta sia il codice civile (dall’art. 48 all’art. 57 nell’ambito in titolo IV del primo libro, appositamente riservato all’assenza e alla dichiarazione di morte presunta) sia il codice di procedura civile (dall’art. 721 all’art. 731).
Si prevedono procedure civilistiche di conservazione e di amministrazione del dei beni dello scomparso che sono procedure non necessitate ma solo eventuali.
Va, infatti, chiarito che tutte le procedure in questione e tutti gli adempimenti successivi alla scomparsa non sono previsti come obbligatori. Se vi sono particolari esigenze di tutela e di protezione del patrimonio dello scomparso, gli interessati o il pubblico ministero possono senz’altro richiedere l’attivazione delle procedure che saranno tra breve illustrate. Se queste esigenze di tutela non vi sono – per esempio per l’assenza di un patrimonio dello scomparso o per altre ragioni – non si farà luogo a queste procedure.
La scomparsa di una persona non determina quindi necessariamente né l’attivazione delle misure di natura cautelare a tutela del patrimonio dello scomparso, né l’attivazione dello stesso procedimento che si conclude con la dichiarazione di assenza, tanto è vero che alla dichiarazione di morte presunta1 si può giungere “anche se sia mancata la dichiarazione di assenza” (art. 58, ult. Co, c.c.).
Proprio perché la scomparsa determina solo la quiescenza dei rapporti giuridici facenti capo allo scomparso, l’obbligo per esempio dell’I.N.A.I.L. di pagamento della rendita vitalizia non rimane sospeso in caso di scomparsa del beneficiario (Cass. civ. Sez. lavoro, 21/01/2005, n. 1253).
II La scomparsa di una persona e gli eventuali adempimenti di conservazione del suo patrimonio
a) La nomina del curatore
L’effetto principale – oltre a quello di far decorrere dal momento della scomparsa il tempo per la eventuale dichiarazione di assenza di cui si parlerà più oltre – è quello di rendere possibile “agli interessati o al pubblico ministero” di richiedere al tribunale dell’ultima residenza della persona scomparsa la nomina di un curatore ove vi siano esigenze di conservazione del patrimonio di cui è titolare lo scomparso (art. 48 c.c.).
Non si tratta di una evenienza obbligatoria ma solo eventuale. Lo scomparso potrebbe, infatti, non avere beni o un patrimonio di cui si renda necessaria l’amministrazione o potrebbe non esservi una consistenza patrimoniale che renda necessario l’intervento di un curatore. Potrebbero non essere in corso procedimenti che rendano necessaria la rappresentanza dello scomparso. E’ comunque sempre necessaria l’istanza degli interessati o del pubblico ministero.
L’esigenza della nomina può porsi anche nel corso di un giudizio in cui una parte scompaia. In tal caso sarò lo stesso giudice a segnalare al pubblico ministero il fatto affinché possa essere azionata, ove ritenuta opportuna, la procedura di nomina del curatore (Corte cost. 16 ottobre 1986, n. 320).
Tutte queste circostanze sono sintetizzate nel codice civile all’art. 48 (curatore dello scomparso): “Quando una persona non è più comparsa nel luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima sua residenza e non se ne hanno più notizie, il tribunale dell’ultimo domicilio o dell’ultima residenza, su istanza degli interessati o dei presunti successori legittimi o del pubblico ministero, può nominare un curatore che rappresenti, la persona in giudizio o nella formazione degli inventari e dei conti e nelle liquidazioni o divisioni in cui sia interessata, e può dare gli altri provvedimenti necessari alla conservazione del patrimonio dello scomparso”.
Il secondo comma precisa, come si è detto, che “Se vi è un legale rappresentante, non si fa luogo alla nomina del curatore”.
La nomina di un curatore allo scomparso non produce, di per sé, alcuna conseguenza sulla legittimazione passiva del soggetto, ovvero sulla sua capacità processuale, ove, pertanto, la nomina del curatore non sia comunicata a colui il quale agisce in giudizio nei riguardi dello scomparso, la domanda giudiziale deve ritenersi del tutto legittimamente proposta essendo onere del curatore rendere noto il proprio potere di rappresentanza e costituirsi in giudizio al suo posto (Cass. civ., 19 aprile 1983, n. 2672; App. Palermo Sez. II, 18 giugno 2013).
Ugualmente la scomparsa del creditore, con la nomina di un curatore speciale non implica di per sé che il debitore debba eseguire od offrire la prestazione a detto curatore, tenendo conto che tale evento non incide sulla capacità o sullo status del soggetto (a differenza di quanto si verifica nei casi di dichiarazione di assenza o di morte presunta), e che è onere del curatore medesimo di dare notizia della sua nomina, indicando luogo, tempo e modalità dell’adempimento (Cass. civ. Sez. II, 4 luglio 1991, n. 7364).
b) I poteri del curatore
Il curatore “rappresenta, la persona in giudizio o nella formazione degli inventari e dei conti e nelle liquidazioni o divisioni in cui sia interessata” (art. 48 c.c.) e proprio per questo motivo se lo scomparso è persona minore o interdetta con un proprio rappresentante non è necessaria la nomina di un curatore. Sarà lo stesso rappresentante dell’incapace scomparso a rappresentarlo negli atti indicati.
L’attività svolta dal curatore ha sostanzialmente scopo conservativo del patrimonio dello scomparso essendo finalizzata ad evitare che il patrimonio di questi non subisca pregiudizio per effetto della momentanea assenza del titolare. La conservazione del patrimonio si realizza attraverso l’assunzione di tutte le misure necessarie ad evitare la distruzione della ricchezza, in conseguenza dello stato di incertezza che si determina nei rapporti giuridici facenti capo allo scomparso (Cass. civ. Sez. II, 20 febbraio 2014, n. 4081) e può implicare la gestione di attività economiche complesse, quali per esempio la gestione della società facente capo allo scomparso.
E’ stato precisato che previa autorizzazione del tribunale competente, il curatore dello scomparso può conferire ad una terza persona procura ad amministrare i beni, siti all’estero, alla persona scomparsa intestati e bisognevoli di adeguata amministrazione (Trib. Isernia, 8 ottobre 1997) ed inoltre che il curatore può essere autorizzato anche all’alienazione di immobili di proprietà dello scomparso (App. Bari, 22 gennaio 1997).
Il curatore, in quanto abilitato alla conservazione del patrimonio della persona scomparsa, nel quale rientra anche il diritto, precedentemente acquisito dalla stessa, al trattamento di pensione di vecchiaia, è legittimato a riscuotere, non iure proprio ma in nome e per conto dello scomparso, i ratei pensionistici a questo spettanti (Cass. civ. Sez. lavoro, 24 ottobre 1989, n. 4338).
Il curatore è legittimato a provvedere, ovviamente, alla tutela degli interessi dello scomparso anche se, decorso il termine di due anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia di costui, non sia stato promosso il procedimento per la dichiarazione di assenza (Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 1963, n. 692).
c) La procedura
La procedura per la nomina del curatore è camerale. Trattasi di atti di volontaria giurisdizione. L’art. 721 c.p.c. (Provvedimenti conservativi nell’interesse dello scomparso) prescrive che “I provvedimenti indicati nell’articolo 48 del codice civile sono pronunciati dal tribunale in camera di consiglio, su ricorso degli interessati, sentito il pubblico ministero”. L’impugnazione si propone entro dieci giorni dalla comunicazione alla corte d’appello sempre con ricorso e il provvedimento della corte d’appello, pronunciato in camera di consiglio, non è altrimenti impugnabile (art. 739 c.p.c.).
d) I casi in cui non va nominato il curatore
Come sopra anticipato il secondo comma dell’art. 48 c.c. precisa che “Se vi è un legale rappresentante, non si fa luogo alla nomina del curatore”.
Quindi, se lo scomparso è un incapace (un minore oppure – come spesso avviene, una persona interdetta) non si procede alla nomina di un curatore (art. 48, cpv, c.c.): saranno rispettivamente i genitori o il tutore a rappresentare l’incapace. Il curatore ugualmente non sarà nominato in caso di scomparsa del beneficiario di amministrazione di sostegno in quanto all’amministratore di sostegno sono quasi sempre attribuiti poteri pieni di rappresentanza negoziale del beneficiario.
Il potere di rappresentanza può anche essere stato attribuito dallo scomparso. Se quindi lo scomparso abbia in precedenza nominato un procuratore generale per la cura dei propri affari, non si farà luogo alla nomina del curatore, sempre che il potere di rappresentanza non sia esteso a tutto l’ambito di attività ricompreso nei poteri attribuiti dalla legge al curatore.
III La sentenza dichiarativa dell’assenza
Se la scomparsa si protrae oltre due anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia, “i presunti successori legittimi e chiunque ragionevolmente creda di avere sui beni dello scomparso diritti dipendenti dalla morte di lui”, può chiedere al tribunale dell’ultimo domicilio dello scomparso una formale dichiarazione di assenza.
La cerchia dei soggetti legittimati a chiedere la dichiarazione di assenza è quindi più ristretta rispetto a quella di coloro che possono chiedere la nomina del curatore dello scomparso. Il pubblico ministero non è, per esempio, compreso tar i legittimati a chiedere la dichiarazione di assenza. Secondo la dottrina tra i soggetti legittimati sarebbero inclusi anche coloro che ritengono di essere eredi testamentari o presunti legatati, così come anche i titolari di un diritto di usufrutto o il nudo proprietario.
Anche in questo caso non si tratta di una procedura necessita. Se qualcuno dei soggetti legittimati lo richiede si farà luogo al procedimento, altrimenti non si procede in alcun modo.
Il procedimento è disciplinato in modo semplificato. La domanda va proposta con ricorso, nel quale debbono essere indicate le generalità e la residenza dei presunti successori legittimi dello scomparso e, se esistono, del suo procuratore o rappresentante legale (art. 722 c.p.c.). Il presidente del tribunale fissa con decreto l’udienza per la comparizione del ricorrente e di tutte le persone indicate nel ricorso, potendo anche ordinare che il decreto sia pubblicato in uno o più giornali. Il decreto è comunicato al pubblico ministero (art. 723 c.p.c.) affinché possa intervenire (art. 70, n. 5 c.p.c.). All’udienza il giudice interroga le persone comparse sulle circostanze che ritiene rilevanti, assume, quando occorre, ulteriori informazioni e quindi riferisce in camera di consiglio per i provvedimenti del tribunale, che pronuncia con sentenza (art. 724 c.p.c.).
La procedura ha natura camerale contenziosa nel senso che il rito seguito è quello camerale ma la procedura si conclude con sentenza, avverso la quale sono esperibili gli ordinari mezzi di impugnazione con ricorso da notificare entro trenta giorni dal deposito della sentenza a tutti coloro che sono stati indicati nell’atto introduttivo. La corte d’appello decide con sentenza ricorribile per cassazione (Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 1962, n. 1588).
IV La pubblicazione della sentenza
L’art. 729 c.p.c. prescrive che la sentenza che dichiara l’assenza (o la morte presunta) deve essere inserita per estratto nella Gazzetta Ufficiale e “pubblicata sul sito internet del Ministero della giustizia” (art 37, comma 18 lett. b del Decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 convertito con modificazioni nella legge 15 luglio 2011, n. 111). L’inserzione vale come notificazione anche se il tribunale può sempre disporre ulteriori mezzi di pubblicità, quali per esempio, la pubblicazione su determinati giornali.
Copia della Gazzetta ufficiale (ed eventualmente anche dei giornali sui quali il tribunale avesse disposto la pubblicazione) andrà poi depositata dagli interessati nella cancelleria del tribunale la quale provvederà all’annotazione dell’adempimento nell’originale della sentenza.
V L’esecutività della sentenza e la comunicazione all’ufficio di stato civile
La sentenza che dichiara l’assenza ha natura dichiarativa e non è, conseguentemente, provvisoriamente esecutiva. L’art. 282 c.p.c. sulla provvisoria esecuzione delle sentenze di primo grado non è applicabile alle sentenze costitutive e dichiarative.
Espressamente l’art. 730 c.p.c. prescrive che la sentenze dichiarativa dell’assenza (e della morte presunta) “non può essere eseguita prima che sia passata in giudicato e che sia compiuta l’annotazione” sull’originale della sentenza degli adempimenti relativi alle modalità di pubblicizzazione sopra indicate.
Al momento del passaggio in giudicato il cancelliere deve dare notizia della sentenza all’ufficio di stato civile competente (cioè a quello in cui è avvenuta la nascita) per l’annotazione a margine dell’atto di nascita (art. 731 c.p.c. e art. 49, lett. f del DPR 396/2000, Ordinamento di stato civile).
VI Lo scioglimento della comunione legale e gli altri effetti di diritto di famiglia
L’effetto immediato della dichiarazione di assenza è lo scioglimento della comunione legale della persona a cui si riferisce. L’art. 191 c.c. prevede tra i casi di scioglimento della comunione legale la dichiarazione di assenza. Pertanto il giudicato (e l’annotazione) della sentenza di assenza comportano il passaggio automatico al regime di separazione dei beni.
L’art. 117 c.c. prevede i casi in cui può essere impugnato il matrimonio contratto in violazione degli articoli 84 (minore età), 86 (libertà di stato), 87 (rapporti di parentela), 88 (delitto). In tutti questi anche gli ascendenti o il pubblico ministero ovvero chi ha un interesse legittimo e attuale può impugnare il matrimonio contratto in violazione appunto di quelle norme. Ebbene, il terzo comma dell’art. 117 c.c. precisa che “il matrimonio contratto dal coniuge dell’assente non può essere impugnato finché dura l’assenza”.
L’art. 317 c.c. prevede che in caso di “impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro”. Ciò significa che la dichiarazione di assenza di un genitore concentra sull’altro, in via esclusiva, la responsabilità genitoriale.
Infine può certamente essere nominato un tutore al minore in caso di dichiarazione di assenza di entrambi i genitori o di quello che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale. L’apertura della tutela, secondo l’art. 343 c.c. avviene, infatti, non solo quando entrambi i genitori sono morti ma anche quando “per altre cause non possono esercitare la responsabilità genitoriale”.
In passato Cass. civ. Sez. lav. 15 novembre 1988, n. 6168 ha affermato che la moglie di persona assente ha diritto all’erogazione pro quota dei ratei pensionistici spettanti all’assente a titolo di pensione di reversibilità. Di contrario avviso era stata in precedenza Cass. civ. Sez. lav. 14 gennaio 1983, n. 299 secondo cui il coniuge di assicurato presso l’Enpam dichiarato assente con sentenza divenuta esecutiva non avrebbe diritto alla pensione di riversibilità in quanto la disciplina dell’immissione temporanea nel possesso di beni della persona scomparsa e dell’ammissione all’esercizio temporaneo dei diritti dipendenti dalla di lui morte, dettata dall’art. 50 c.c. per il caso di dichiarazione di assenza dello scomparso, riguarda esclusivamente il patrimonio dell’assente al momento della scomparsa, ed è diretta a tutelare le aspettative di eredi od altri interessati su detto patrimonio, mentre non può implicare il sacrificio di ragioni di terzi (quali l’Empam) con l’introduzione a loro carico di obblighi che risulterebbero insussistenti in caso di ritorno dell’assente.
VII L’immissione nel possesso temporaneo dei beni
L’immissione nel possesso temporaneo dei beni è il provvedimento che, divenuta eseguibile la sentenza di assenza consente al tribunale – ai sensi dell’art. 50 c.c. – “su istanza di chiunque vi abbia interesse o del pubblico ministero” l’adozione di un provvedimento che “attribuisce a coloro che l’ottengono e ai loro successori l’amministrazione dei beni dell’assente, la rappresentanza di lui in giudizio e il godimento delle rendite dei beni” (art. 53 c.c. Effetti della immissione nel possesso temporaneo).
L’immissione nel possesso die beni si protrae fino all’accertamento della morte o alla dichiarazione di morte presunta.
Art. 50 c.c. (Immissione nel possesso temporaneo dei beni)
Divenuta eseguibile la sentenza che dichiara l’assenza, il tribunale, su istanza di chiunque vi abbia interesse o del pubblico ministero, ordina l’apertura degli atti di ultima volontà dell’assente, se vi sono.
Coloro che sarebbero eredi testamentari o legittimi, se l’assente fosse morto nel giorno a cui risale l’ultima notizia di lui, o i loro rispettivi eredi possono domandare l’immissione nel possesso temporaneo dei beni.
I legatari, i donatari e tutti quelli ai quali spetterebbero diritti dipendenti dalla morte dell’assente possono domandare di essere ammessi all’esercizio temporaneo di questi diritti.
Coloro che per effetto della morte dell’assente sarebbero liberati da obbligazioni possono essere temporaneamente esonerati dall’adempimento di esse, salvo che si tratti delle obbligazioni alimentari previste dall’articolo 434.
Per ottenere l’immissione nel possesso, l’esercizio temporaneo dei diritti o la liberazione temporanea dalle obbligazioni si deve dare cauzione nella somma determinata dal tribunale; se taluno non sia in grado di darla, il tribunale può stabilire altre cautele, avuto riguardo alla qualità delle persone e alla loro parentela con l’assente.
In virtù di quanto stabilito nell’art. 52 c.c. (Effetti della immissione nel possesso temporaneo) l’immissione nel possesso temporaneo dei beni deve essere preceduta dalla formazione dell’inventario dei beni e attribuisce a coloro che l’ottengono e ai loro successori l’amministrazione dei beni dell’assente, la rappresentanza di lui in giudizio e il godimento delle rendite dei beni nei limiti stabiliti dall’art. 53 (Godimento dei beni) secondo il quale gli ascendenti, i discendenti e il coniuge immessi nel possesso temporaneo dei beni ritengono a loro profitto la totalità delle rendite mentre tutti gli altri soggetti devono riservare all’assente il terzo delle rendite.
Coloro che hanno ottenuto l’immissione nel possesso temporaneo dei beni non possono alienarli, ipotecarli o sottoporli a pegno, se non per necessità o utilità evidente riconosciuta dal tribunale il quale, nell’autorizzare questi atti dispone circa l’uso e l’impiego delle somme ricavate (art. 54).
Quindi l’immissione nel possesso dei beni attribuisce il potere di amministrazione e di godimento ma non di disposizione (Cass. civ. sez. I, 24 gennaio 1981, n. 536).
Non è escluso che altre persone possano successivamente richiedere l’immissione nel possesso temporaneo die beni dell’assente. Come chiarisce infatti l’art. 55 c.c. (Immissione di altri nel possesso temporaneo), se durante il possesso temporaneo taluno prova di avere avuto, al giorno a cui risale l’ultima notizia dell’assente, un diritto prevalente o uguale a quello del possessore, può escludere questo dal possesso o farvisi associare; ma non ha diritto ai frutti se non dal giorno della domanda giudiziale.
VIII L’assegno alimentare a favore del coniuge dell’assente
L’art. 51 c.c. (Assegno alimentare a favore del coniuge dell’assente) prescrive che “Il coniuge dell’assente, oltre ciò che gli spetta per effetto del regime patrimoniale dei coniugi e per titolo di successione, può ottenere dal tribunale, in caso di bisogno, un assegno alimentare da determinarsi secondo le condizioni della famiglia e l’entità del patrimonio dell’assente”.
Il testo della disposizione richiama un po’ il contenuto dell’art. 9-bis della legge sul divorzio che in caso di morte dell’ex coniuge che erogava un assegno divorzile consente all’ex coniuge superstite di poter chiedere un assegno alimentare a carico dell’eredità.
Naturalmente l’assegno alimentare, da determinarsi secondo le condizioni della famiglia e l’entità del patrimonio dell’assente, si protrae fino all’accertamento della morte o alla dichiarazione di morte presunta dell’assente. Quando di dovessero verificare queste circostanze il coniuge dell’assente avrà la piena attribuzione dei diritti successori e cesserà l’attribuzione dell’assegno alimentare.
Il tribunale deve determinare sia i soggetti tenuti all’adempimento sia la ripartizione tra gli stessi dell’importo.
Si ritengono applicabili gli altri principi contenuti nella normativa sugli alimenti e tra questi quello di cui all’art. 440 c.c. che consente la riduzione o la revoca dell’assegno al sopraggiungere di circostanze che modificano, in peggio o in meglio, lo stato di bisogno dell’avente diritto.
La domanda (che è autonoma rispetto al procedimento finalizzato alla dichiarazione dell’assenza) è rivolta al tribunale dell’ultimo domicilio dell’assente in contraddittorio con gli eredi immessi nel possesso temporaneo dei beni che dovranno provvedere all’erogazione dell’assegno.
Il rito processuale è sostanzialmente quello previsto per gli alimenti e quindi il rito a cognizione ordinaria che si conclude con sentenza.
Ha precisato Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 1992, n. 3405 che l’Inps è passivamente legittimato in ordine alla pretesa concernente l’attribuzione, a titolo di assegno alimentare ai sensi dell’art. 51 c. c., di una quota della pensione dell’assente.
IX Il ritorno dell’assente o la prova della sua esistenza
All’eventualità che l’assente ritorni o se ne provi l’esistenza fa riferimento l’art. 56 c.c. scondo il quale “Se durante il possesso temporaneo l’assente ritorna o è provata la sua esistenza cessano gli effetti della dichiarazione di assenza, salva, se occorre, l’adozione di provvedimenti per la conservazione del patrimonio a norma dell’articolo 48.
I possessori temporanei dei beni devono restituirli; ma fino al giorno della loro costituzione in mora continuano a godere i vantaggi attribuiti dagli articoli 52 e 53, e gli atti compiuti ai sensi dell’articolo 54 restano irrevocabili.
Se l’assenza è stata volontaria e non è giustificata, l’assente perde il diritto di farsi restituire le rendite riservategli dalla norma dell’articolo 53”.
X La prova della morte dell’assente
Se durante il possesso temporaneo è provata la morte dell’assente, la successione si apre a vantaggio di coloro che al momento della morte erano suoi eredi o legatari (art. 57 c.c.). Ugualmente avverrà (secondo il richiamo contenuto nell’art. 63 c.c.) in caso di dichiarazione di morte presunta.
Troveranno applicazione anche in questo caso le disposizionI del secondo comma dell’art. 56 sopra viste e cioè i possessori temporanei dei beni devono restituirli; ma fino al giorno della loro costituzione in mora continuano a godere i vantaggi attribuiti dagli articoli 52 (Effetti della immissione nel possesso temporaneo) e 53 (Godimento dei beni) e gli atti di alienazione autorizzati dal tribunale restano irrevocabili.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. II, 20 febbraio 2014, n. 4081 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’attività svolta dal curatore dello scomparso, ai sensi dell’art. 48 c.c., consiste nell’approntare gli strumenti necessari alla “conservazione del patrimonio” verificandosi con la scomparsa una situazione di quiescenza dei rapporti giuridici facenti capo allo scomparso, senza immissione neppure temporanea degli eredi nel possesso dei beni, né liberazione o sospensione delle obbligazioni assunte nei confronti dello scomparso. La conservazione del patrimonio si realizza attraverso l’assunzione di tutte le misure necessarie ad evitare la distruzione della ricchezza, in conseguenza dello stato di incertezza che si determina nei rapporti giuridici facenti capo allo scomparso. L’attività svolta dal curatore ha sostanzialmente scopo conservativo del patrimonio dello scomparso essendo finalizzata ad evitare che il patrimonio di questi non subisca pregiudizio per effetto della momentanea assenza del titolare.
La “conservazione del patrimonio dello scomparso”, ai sensi dell’art. 48 cod. civ., pur non configurandosi come intrinsecamente dinamica, può implicare la gestione di attività economiche complesse, affinché non subiscano pregiudizio per la momentanea assenza del titolare, sicché il giudice può autorizzare il curatore dell’imprenditore scomparso a gestire le società a lui facenti capo. (Cassa con rinvio, Trib. Piacenza, 09/10/2007)
App. Palermo Sez. II, 18 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 48 c.c., in seguito all’allontanamento della persona dall’ultimo domicilio e dall’ultima residenza senza che vi faccia rientro o dia proprie notizie, può procedersi alla nomina di un curatore che rappresenti lo scomparso in giudizio o in determinati negozi o operazioni necessarie alla conservazione del suo patrimonio. La nomina di un curatore allo scomparso non produce, di per sé, alcuna conseguenza sulla legittimazione passiva del soggetto, ovvero sulla sua capacità processuale. Ove la nomina del curatore dello scomparso non sia comunicata a colui il quale agisce in giudizio nei riguardi dello stesso, la domanda giudiziale deve ritenersi legittimamente proposta nei riguardi dello scomparso, essendo onere del curatore rendere noto il proprio potere di rappresentanza e costituirsi in giudizio al suo posto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 21 gennaio 2005, n. 1253 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dell’I.N.A.I.L. di pagamento della rendita vitalizia non rimane sospeso in caso di scomparsa del beneficiario atteso che la dichiarazione di scomparsa, ai sensi degli artt. 48 c.c. e ss., determina solo la quiescenza dei rapporti giuridici facenti capo allo scomparso, e la necessità di conservazione del suo patrimonio, a cui provvede il curatore all’uopo nominato; non vi è immissione, neppure temporanea, degli eredi nel possesso dei beni, come si prevede per il caso di assenza, né liberazione o sospensione delle obbligazioni, anche strettamente personali, assunte da terzi verso lo scomparso, né assume alcun rilievo la questione della trasmissibilità del diritto agli eredi.
Trib. Isernia, 8 ottobre 1997 (Dir. Famiglia, 1999, 163 nota di FUCCILLO)
Previa autorizzazione del tribunale competente, il curatore dello scomparso può conferire ad una terza persona procura ad amministrare i beni, siti all’estero, alla persona scomparsa intestati e bisognevoli di adeguata amministrazione.
App. Bari, 22 gennaio 1997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore dello scomparso, nominato ai sensi dell’art. 48 c.c., può essere autorizzato ad alienare un immobile appartenente al patrimonio dello scomparso, al fine di provvedere al pagamento di debiti maturati e maturandi cui non sia possibile far fronte col normale attivo della gestione del detto patrimonio, giacchè tale alienazione può considerarsi rientrante nella finalità di conservazione e gestione del patrimonio stesso.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 1992, n. 3405 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di azione (di accertamento) di un coniuge, volta alla dichiarazione di assenza dell’altro coniuge ed al regolamento interinale del patrimonio dello scomparso, l’Inps è passivamente legittimato in ordine alla pretesa dell’attore concernente l’attribuzione, a titolo di assegno alimentare ai sensi dell’art. 51 c. c., di una quota della pensione dell’assente.
Cass. civ. Sez. II, 4 luglio 1991, n. 7364 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La scomparsa del creditore, con la nomina di un curatore speciale ( art. 48 c. c.), non implica di per sé che il debitore debba eseguire od offrire la prestazione a detto curatore, tenendo conto che tale evento non incide sulla capacità o sullo status del soggetto (a differenza di quanto si verifica nei casi di dichiarazione di assenza o di morte presunta), e che è onere del curatore medesimo di dare notizia della sua nomina, indicando luogo, tempo e modalità dell’adempimento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 ottobre 1989, n. 4338 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore dello scomparso, in quanto abilitato, ai sensi dell’art. 48 c. c., alla conservazione del patrimonio della persona scomparsa, nel quale rientra anche il diritto, precedentemente acquisito dalla stessa, al trattamento di pensione di vecchiaia, è legittimato a riscuotere, non iure proprio ma in nome e per conto dello scomparso, i ratei pensionistici a questo spettanti, senza che a tale legittimazione sia di ostacolo la mancata prova dell’esistenza in vita del pensionato ai sensi dell’art. 69 c. c. essendo tale norma inapplicabile alla specie per l’indubitabile anteriorità dell’insorgenza del diritto alla pensione rispetto alla scomparsa del suo titolare.
Cass. civ. Sez. lav. 15 novembre 1988, n. 6168 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La moglie di persona assente ha diritto all’erogazione pro quota dei ratei pensionistici spettanti all’assente a titolo di pensione di reversibilità.
Trib. Monza, 24 novembre 1987 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando risulti che una persona, per il trascorrere degli anni, sia certamente deceduta, non si può far luogo alla nomina di un curatore allo scomparso.
Poiché la nomina del curatore allo scomparso presuppone una situazione di incertezza circa l’esistenza in vita ed il domicilio attuale della persona, ad essa non può procedersi qualora sia da ritenere certo, in relazione all’epoca assai lontana cui risalgono la nascita e le ultime notizie della persona stessa, il suo avvenuto decesso.
Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 1983, n. 2672 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel nostro ordinamento la semplice scomparsa, definita dall’art. 48 c.c. come l’allontanarsi della persona dall’ultimo domicilio e dall’ultima residenza senza che vi faccia ritorno o dia proprie notizie, consente di nominare un curatore che rappresenti lo scomparso in giudizio ovvero in determinati negozi od operazioni e di impartire altri provvedimenti necessari alla conservazione del suo patrimonio, ma, a differenza di quanto si verifica in conseguenza della dichiarazione di assenza o di morte presunta, non incide sulla capacità o sugli status del soggetto, e neppure sulla generalità dei rapporti che a lui fanno capo, unitariamente considerati; essa, pertanto, non produce, di per sé, conseguenze sulla legittimazione passiva del soggetto ovvero sulla sua capacità processuale, con la conseguenza che, anche quando sia stato nominato un curatore allo scomparso, se tale nomina non sia stata formalmente comunicata a colui che agisce, legittimamente la domanda viene proposta nei confronti dello scomparso, essendo onere del curatore rendere noto il potere di rappresentanza e costituirsi al suo posto.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 1983, n. 299 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge di assicurato presso l’Enpam dichiarato assente con sentenza divenuta esecutiva non ha diritto alla pensione di riversibilità.
La disciplina dell’immissione temporanea nel possesso di beni della persona scomparsa e dell’ammissione all’esercizio temporaneo dei diritti dipendenti dalla di lui morte, dettata dall’art. 50 c.c. per il caso di dichiarazione di assenza dello scomparso medesimo, riguarda esclusivamente il patrimonio dell’assente al momento della scomparsa, ed è diretta a tutelare le aspettative di eredi od altri interessati su detto patrimonio, mentre non può implicare il sacrificio di ragioni di terzi, con l’introduzione a loro carico di obblighi che risulterebbero insussistenti in caso di ritorno dell’assente. Pertanto, deve escludersi che la dichiarazione di assenza possa essere invocata dai presunti superstiti per conseguire, sia pure in via provvisoria, prestazioni pensionistiche indirette da parte di enti previdenziali (nella specie, ENPAM).
Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 1981, n. 536 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio dispositivo di beni della persona dichiarata assente posto in essere dal suo presunto erede, sebbene inficiato dalla carenza di legittimazione di quest’ultimo, il quale, ancorché immesso nel possesso di tali beni, non ha il potere di disporne (artt. 52 e 54 c.c.), non rimane caducato quando – dichiarata la morte presunta dell’assente e verificatasi conseguentemente, alla stregua degli artt. 58 e 456 c.c., l’apertura della successione al medesimo al momento dell’ultima sua notizia – risulti che detto erede, allora non legittimato, era effettivamente titolare del diritto oggetto del negozio, poiché, per effetto del postumo riconoscimento in capo a lui di siffatta titolarità, si determina il consolidamento della stessa e della correlativa legittimazione. Ne consegue che colui che si accolla le obbligazioni di un concordato fallimentare (assuntore), dietro corrispettivo della cessione dei beni dell’attivo, si sostituisce al fallito anche nella titolarità di quelli di tali beni che il medesimo abbia acquistato come erede dell’assente di cui sia stata dichiarata la morte presunta in epoca antecedente al concordato.
Cass. civ. Sez. II, 6 luglio 1972, n. 2247 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
l curatore, nominato dal Tribunale per la rappresentanza in giudizio di una persona scomparsa, è legittimato a tutelarne gli interessi anche quando siano decorsi due anni dall’ultima notizia e non sia stato promosso il procedimento per la dichiarazione di assenza. Dopo tale dichiarazione la rappresentanza spetta ai presunti successori mortis causa dell’assente che vengono immessi nel possesso temporaneo dei beni.
Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 1963, n. 692 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore è legittimato a provvedere alla tutela degli interessi dello scomparso anche se, decorso il termine di due anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia di costui, non sia stato promosso il procedimento per la dichiarazione di assenza.
Cass. civ. Sez. I, 20/06/1962, n. 1588 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Attribuito dal codice di rito ai provvedimenti relativi all’ assenza ed alla dichiarazione di morte presunta forma, contenuto ed effetti di sentenza, compresa la forza di giudicato, nel quadro del carattere sostanzialmente contenzioso del giudizio, deve ritenersi l’impugnabilità dei provvedimenti stessi in appello ed in cassazione.

In casi di eccezionale gravità il giudice può estendere d’ufficio al beneficiario dell’amministrazione di sostegno le restrizioni previste per l’interdetto e l’inabilitato con riguardo alla capacità di donare e di testare

Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2018, n. 12460
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14409/2015 R.G. proposto da:
B.E., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Savini, con domicilio eletto in Roma, via Q. Sella, n. 41, presso lo studio dell’Avv. Camilla Bovelacci;
– ricorrente –
contro
M.M. e PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI RAVENNA;
– intimati –
avverso il decreto della Corte d’appello di Bologna depositato il 30 marzo 2015.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 novembre 2017 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
Svolgimento del processo
1. Con decreto del 4 novembre 2014, il Giudice tutelare del Tribunale di Ravenna, su ricorso del Pubblico Ministero, nominò un amministratore di sostegno a B.E., al quale estese anche le limitazioni e i divieti previsti dal codice civile nei confronti degl’interdetti con riguardo alla capacità di donare e di testare.
2. Il reclamo proposto dal B. è stato rigettato dalla Corte d’Appello di Bologna con decreto del 30 marzo 2015.
Premesso che nella richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno ai fini del compimento degli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione doveva ritenersi compresa anche l’adozione d’interventi diretti a limitare la capacità di porre in essere atti di liberalità, la Corte ha ritenuto giustificate le restrizioni imposte al reclamante, osservando che con la limitazione della capacità di testare prevista per l’interdetto l’art. 591 c.c. mira a far sì che le disposizioni di ultima volontà siano il frutto di scelte consapevoli compiute in presenza dei necessari requisiti psichici, e rilevando che il reclamante era risultato affetto da prodigalità, perdite di memoria, mancanza di senso del denaro nonché da una certa confusione mentale, tali da comportare un concreto pericolo che eventuali disposizioni testamentarie fossero il frutto delle predette alterazioni. Ha concluso pertanto che correttamente il Giudice tutelare aveva esteso al reclamante le limitazioni riguardanti la capacità di donare e di testare, precisando che tale facoltà poteva essere esercitata anche d’ufficio, una volta iniziato il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno.
3. Avverso il predetto decreto il B. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo. Gl’intimati non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 407 e 411 c.c., sostenendo che quest’ultima disposizione esclude la possibilità di estendere d’ufficio al beneficiario dell’amministrazione di sostegno le norme dettate per l’interdetto e l’inabilitato, la cui applicazione comporterebbe uno snaturamento della funzione protettiva dell’istituto, caratterizzato da una tendenziale conservazione della capacità di agire. Afferma l’improprietà del richiamo del decreto impugnato all’art. 407 c.c., penultimo comma, il quale, nel consentire al giudice tutelare d’intervenire anche d’ufficio, si riferisce esclusivamente alla ipotesi in cui si tratti di modificare o integrare un decreto già emesso, e comunque non permette di applicare d’ufficio norme dettate per l’interdetto o l’inabilitato. Nell’ammettere la possibilità di provvedere d’ufficio, la Corte di merito è incorsa in contraddizione, avendo contestualmente affermato che la richiesta avanzata dal Pubblico Ministero comprendeva in realtà quella di applicazione delle norme in materia di donazione e testamento dettate per l’interdetto; tale richiesta, peraltro, non soddisfaceva i requisiti di cui all’art. 411 c.p.c., u.c., non recando un esplicito riferimento alle limitazioni previste per l’interdetto e l’inabilitato né al testamento, non an-noverabile tra gli atti di straordinaria amministrazione.
1.1. Il motivo è infondato.
Com’è noto, la ratio dell’amministrazione di sostegno è stata individuata da questa Corte nell’esigenza di offrire a chi si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, ravvisandosi in tale specifica funzione l’elemento caratteristico dell’istituto in esame rispetto agli altri già previsti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla L. 9 gennaio 2004, n. 6 attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 c.c.. E’ stato tuttavia precisato che, rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (cfr. Cass., Sez. 1, 26/10/2011, n. 22332; 29/11/2006, n. 25366; 12/06/2006, n. 13584).
La predetta flessibilità si realizza principalmente attraverso tre disposizioni, che costituiscono i cardini della disciplina dell’istituto:
a) l’art. 405 c.c., comma 5, nn. 3 e 4, secondo cui il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve indicare l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere compiere in nome e per conto del beneficiario, nonchè quelli che quest’ultimo può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore;
b) l’art. 409 c.c., comma 1, che, nel prevedere la conservazione della capacità di agire del beneficiario per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore, precisa che il beneficiario può compiere in ogni caso gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana;
c) l’art. 411 c.c., che, nel dichiarare applicabili all’amministrazione di sostegno, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli da 349 a 353 e da 374 a 388 c.c. (comma 1) e quelle di cui agli artt. 596, 599 e 779 c.c. (comma 2), attribuisce al giudice tutelare il potere di disporre, con il provvedimento di nomina dell’amministratore o in un momento successivo, che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario della misura in esame, avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni (comma 4).
Tali disposizioni, consentendo al giudice tutelare di conformare il libero esercizio delle facoltà del beneficiario e la correlata ampiezza dei poteri d’intervento dell’amministratore in base alle esigenze di protezione della persona e di gestione degl’interessi patrimoniali emergenti da una valutazione in concreto delle condizioni psico-fisiche dell’interessato, forniscono un quadro di estrema duttilità dell’istituto, volto a superare l’alternativa secca tra capacità ed incapacità, cui era improntata la precedente disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, in modo tale da salvaguardare le residue capacità del beneficiario, permettendo nel contempo di far fronte ad una molteplicità di situazioni tra loro profondamente diverse, non necessariamente permanenti né collegate obbligatoriamente ad uno stato d’infermità mentale (cfr. Cass., Sez. 1, 11/09/2015, n. 17962; 22/04/2009, n. 9628).
L’ottica di prevalente tutela della persona e di conseguente valorizzazione delle sue residue capacità, cui s’ispira la disciplina dell’amministrazione di sostegno rispetto a quella delle altre misure di protezione, maggiormente orientate a favore della salvaguardia della sfera patrimoniale, ha peraltro indotto la prevalente dottrina a dubitare della possibilità di ampliare la sfera del potere conformativo riconosciuto al giudice tutelare fino ad includervi la possibilità d’imporre restrizioni alla facoltà di porre in essere gli atti c.d. personalissimi, cioè quegli atti (come i negozi familiari, quelli mortis causa, le donazioni) che, non tollerando l’intervento della volontà di un terzo in funzione d’intermediazione o integrazione di quella dell’interessato, non possono essere compiuti con la rappresentanza o l’assistenza dell’amministratore. Si è infatti osservato che, in quanto volta ad agevolare il pieno dispiegamento della personalità del beneficiario, attraverso il superamento degli ostacoli derivanti dall’infermità o comunque dalla menomazione che ha dato luogo all’adozione del provvedimento, la disciplina in esame mal si concilia con un sistema di preclusioni, sia pure introdotte caso per caso dalla autorità giudiziaria, riguardanti il compimento di atti che rappresentano per ogni individuo una fondamentale manifestazione di libertà ed un momento di realizzazione degl’interessi personali.
Tale orientamento non ha incontrato il favore della giurisprudenza di legittimità, la quale, in tema di matrimonio, ha recentemente riconosciuto, in presenza di circostanze di eccezionale gravità, la possibilità di estendere al beneficiario dell’amministrazione di sostegno il divieto previsto dall’art. 85 c.c., attraverso un apposito provvedimento del giudice tutelare: pur rilevandosi che la diversità dell’ispirazione sottesa all’istituto dell’interdizione impedisce una generalizzata applicazione, in via analogica, delle limitazioni che ne derivano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, si è infatti ritenuto che il rilievo conferito dal legislatore al best interest di quest’ultimo, posto anche in relazione con la ratio della nuova misura, che ne permette l’utilizzazione anche in situazioni talmente gravi da giustificare in astratto il ricorso all’interdizione, non consenta di escludere a priori la possibilità d’imporre il predetto divieto attraverso l’esercizio del potere previsto dall’art. 411 c.c., comma 4, ove, alla luce dell’interesse protetto dalla norma, la tutela dell’amministrato possa realizzarsi solo con l’estremo sacrificio della libertà matrimoniale (cfr. Cass., Sez. 1, 11/05/2017, n. 11536).
In termini non diversi, pur dovendosi escludere la possibilità di estendere in via analogica al beneficiario dell’amministrazione di sostegno l’incapacità prevista dall’art. 591 c.c., comma 2, n. 2 per l’interdetto, occorre ammettere, conformemente ad un orientamento manifestatosi in dottrina, che il giudice tutelare possa imporre allo stesso, mediante il provvedimento di nomina dell’amministratore o successivamente, una limitazione della capacità di testare, ove le condizioni psico-fisiche dell’interessato appaiano compromesse in misura tale da indurre a ritenere che egli non sia in grado di esprimere una libera e consapevole volontà testamentaria. Allo stesso modo, deve riconoscersi la possibilità d’imporre limitazioni alla capacità di donare, il cui esercizio da parte del beneficiario dell’amministrazione di sostegno non può ritenersi precluso, in linea generale, dall’art. 774 c.c., comma 1, avuto riguardo alla previsione dell’art. 411, comma 2, che estende all’amministratore l’incapacità a ricevere prevista dallo art. 779 per il tutore, ed a quella del terzo comma del medesimo articolo, che dichiara valide le “convenzioni” (ivi comprese, quindi, le donazioni) in favore dell’amministratore che sia coniuge o convivente o parente entro il quarto grado del beneficiario.
Le obiezioni sollevate in proposito dalla dottrina maggioritaria muovono innanzitutto dal carattere eccezionale dell’incapacità di testare, intesa come restrizione della fondamentale libertà di compiere un atto che costituisce espressione della sfera sentimentale-affettiva propria di ogni uomo, e dalla conseguente tassatività delle ipotesi previste dall’art. 591 c.c., il quale, nel limitare la predetta incapacità all’interdetto, non fa alcun riferimento ad altre figure d’incapaci, primo fra tutti l’inabilitato. Si è osservato inoltre che, in quanto destinato ad operare post mortem, l’atto in questione, nel quale trovano spazio disposizioni di carattere non solo patrimoniale, ma anche familiare e personale, non è in grado di arrecare alcun pregiudizio al suo autore, mentre gl’interessi dei suoi familiari restano tutelati dalla facoltà di esercitare l’azione di riduzione, se legittimari, ed in ogni caso dalla possibilità, prevista dall’art. 591, comma 2, n. 3, di ottenere l’invalidazione del testamento, ove provino che il suo autore versava, per qualsiasi causa, anche transitoria, in stato d’incapacità d’intendere e di volere al momento in cui l’atto fu posto in essere. All’azione di annullamento resterebbe parimenti affidata, in caso di donazione, la tutela dei familiari e dello stesso beneficiario, conformemente alla disciplina dettata dall’art. 775 c.c.. In linea più generale, si afferma infine che l’estensione dell’incapacità di testare e donare al beneficiario dell’amministrazione di sostegno rischia di perpetuare la rigida dicotomia capacità-incapacità che caratterizzava gl’istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, nonché la logica patrimonialistica cui gli stessi risultavano prevalentemente improntati, ed il cui superamento costituiva il principale obiettivo perseguito attraverso l’introduzione della nuova disciplina.
In contrario, occorre tuttavia rilevare che la predetta dicotomia è destinata inevitabilmente a riemergere in presenza di atti, come quelli personalissimi, rispetto ai quali, a fronte di una grave compromissione delle facoltà cognitive o volitive dell’autore, non sembrano agevolmente ipotizzabili forme d’intermediazione o integrazione da parte di terzi, a meno che le stesse non si traducano nella prestazione di un consenso al compimento dell’atto, la cui necessità si porrebbe però in stridente contrasto con il carattere personale dello stesso e con la valorizzazione della capacità del beneficiario, cui tende l’istituto in esame. Significativa, in tal senso, è la mancata previsione dell’incapacità di testare per il caso dell’inabilitazione, la cui pronuncia, richiedendo che lo stato d’infermità mentale non sia talmente grave da far luogo all’interdizione, postula evidentemente il possesso di residue facoltà cognitive e volitive sufficienti a consentire l’autonoma formazione ed espressione di una volontà testamentaria libera e consapevole: non è un caso, d’altronde, che, in riferimento all’ipotesi dell’infermità mentale, la distinzione tra i presupposti dell’interdizione e quelli dell’inabilitazione resti affidata al diverso grado di menomazione delle facoltà psichiche, la cui generica individuazione da parte del legislatore impone, nel relativo apprezzamento, di far riferimento, oltre che alla capacità di provvedere autonomamente alla cura della propria persona, a quella di porre in essere gli atti che, preclusi all’interdetto, sono invece ordinariamente consentiti all’inabilitato.
Al di là di tali considerazioni, peraltro, è proprio la generalizzata esclusione del potere d’imporre limitazioni al compimento di singoli atti, anche personalissimi, senza far luogo necessariamente all’interdizione, a riproporre, contro le intenzioni dei suoi stessi sostenitori, quell’alternativa tra capacità ed incapacità, che l’introduzione dell’amministrazione di sostegno mira a superare, in tal modo riducendo le potenzialità applicative dell’istituto, in contrasto con gli obiettivi avuti di mira dal legislatore, che sulla diversificazione dei provvedimenti del giudice tutelare ha contato proprio al fine di consentirne l’adeguamento alle peculiarità delle singole fattispecie ed alle specifiche esigenze di protezione del beneficiario. E se è vero che, in riferimento alla capacità di testare, tali esigenze sono destinate a cessare con la morte di quest’ultimo, mentre rispetto sia al testamento che alla donazione quelle di tutela dei familiari possono essere soddisfatte mediante l’impugnazione dell’atto, è anche vero, però, che, in presenza di situazioni di eccezionale gravità, tali da indurre a ritenere che il processo di formazione e manifestazione della volontà possa andare incontro a turbamenti per l’incidenza di fattori endogeni o di agenti esterni, l’esclusione a priori della capacità di testare o donare può rivelarsi uno strumento di tutela assai più efficace non solo dell’interesse di coloro che aspirano alla successione, ma anche della persona del beneficiario, potenzialmente esposta a pressioni e condizionamenti.
Quanto poi alla possibilità d’imporre d’ufficio le predette restrizioni, è sufficiente richiamare da un lato l’art. 405 c.c., comma 5, nn. 3 e 4, che, imponendo al giudice tutelare d’individuare gli atti che l’amministratore può compiere in nome e per conto del beneficiario e quelli che quest’ultimo può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore, gli consente di conformare il contenuto del provvedimento alle esigenze di protezione emergenti dall’istruttoria espletata, dall’altro il disposto dell’art. 407 c.c., comma 4, il quale, in ossequio alle finalità pubblicistiche dell’istituto, attribuisce al medesimo giudice il potere di modificare o integrare, anche d’ufficio, in qualsiasi momento le decisioni assunte con il decreto di nomina dell’amministratore, in tal modo confermando che, sebbene il provvedimento debba essere assunto a seguito di ricorso, secondo la testuale previsione dell’art. 407 c.c., comma 1 e dell’art. 411 c.c., comma 4, ultimo periodo, nell’adozione delle relative determinazioni il giudice non è obbligato ad attenersi alle richieste delle parti.
2. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione degl’intimati.
Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.