Nel divorzio a domanda congiunta, il tentativo di conciliazione non è obbligatorio ed il rinvio della udienza di comparizione, nel caso di assenza del coniuge convenuto, è rimesso ad una valutazione discrezionale del Presidente

Cass. civ. Sez. VI – 1, 2 maggio 2018, n. 10463
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7029/2017 proposto da:
R.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VELLETRI 21, presso lo studio dell’avvocato PAPA AVVOCATO, rappresentato e difeso dall’avvocato MICHELE DE BONIS;
– ricorrente –
contro
G.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FREGENE 13, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPINA D’ANGELO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
contro
PUBBLICO MINISTERO;
– intimato –
avverso la sentenza n. 5283/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 08/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/02/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
il signor R.E. ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 5283, depositata in data 08 settembre 2016, con la quale era stato respinto l’appello avente ad oggetto la sentenza (n.784/2012) del Tribunale di Viterbo di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario intercorso tra l’odierno ricorrente e la controricorrente G.G.;
la signora G.G. ha resistito con controricorso;
Considerato che:
con l’unico motivo di ricorso – denunciando la violazione e falsa applicazione, via art. 360, comma 1, n. 3, del codice di rito, dellaL. n. 898 del 1970,art.4, e art. 101 c.p.c. – il ricorrente si duole del fatto che la Corte Capitolina non abbia interpretato la normativa richiamata nel senso di favor per la conservazione del matrimonio, a fronte di condotte processuali delle parti significative in tal senso;
in particolare, il giudice di seconde cure, non avrebbe sentito entrambi i coniugi – stante l’assenza, giustificata da ragioni di salute, del R. – anche al fine di tentare la conciliazione degli stessi, non ritenendo neppure di rinviare il procedimento ad una nuova udienza, per consentire la comparizione dell’odierno ricorrente;
il giudice di appello non avrebbe, inoltre, tenuto conto della revoca del consenso al divorzio e dalla rinuncia alla relativa azione da parte della G., provvedendo a dichiarare l’estinzione o, quantomeno, l’improcedibilità del giudizio, né, avrebbe inteso la contumacia della signora G. quale tacita adesione alla richiesta di annullamento della sentenza di primo grado – che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio – avanzata dal R. con la proposizione dell’appello;
Rilevato che:
la norma dellaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 16, prevede esclusivamente che i coniugi debbono essere sentiti, ossia che deve essere fissata una udienza per la loro comparizione personale, ma non prevede né il tentativo di conciliazione, né l’adozione di provvedimenti provvisori ed urgenti da parte del presidente, se non nella sola ipotesi in cui “il tribunale ravvisi che le condizioni relative ai figli sono in contrasto con gli interessi degli stessi”, nel qual caso procederà ai sensi del comma 8 del medesimo articolo;
Ritenuto che:
tale previsione sia conforme alla natura della decisione che il tribunale è chiamato a pronunciare sul divorzio cd. “congiunto” o “su conclusioni conformi”, la quale incide bensì sul vincolo matrimoniale, ma sull’accordo tra i coniugi, e pertanto realizza – in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli – un controllo solo esterno e formale attesa la natura negoziale dell’accordo medesimo (Cass., 20/08/2014, n. 18066);
nessuna violazione del contraddittorio debba ritenersi, pertanto, sussistente, una volta accertato dal giudice di seconde cure che il R. era stato messo in condizioni più volte – essendo stata l’udienza di comparizione rinviata per ben otto volte – di comparire personalmente davanti al Presidente del Tribunale, sicché nessun obbligo di concedere un ulteriore rinvio – peraltro in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo – sussisteva per il Tribunale;
del resto, nello stesso divorzio giudiziale il tentativo di conciliazione sia facoltativo, onde il rinvio della udienza di comparizione, nel caso di assenza del coniuge convenuto, è rimesso ad una valutazione discrezionale del Presidente (Cass., 14/03/2014, n. 6016);
Considerato che:
per quanto concerne la mancata valutazione della rinuncia all’azione da parte della G., il fondamento della “domanda congiunta” di divorzio,L. n. 898 del 1970, ex art. 4, è da individuarsi nella concorde volontà dei coniugi di dar luogo al divorzio, riconoscendone la sussistenza dei presupposti, e di disciplinare conseguentemente le condizioni inerenti alla prole ed i loro rapporti economici, mediante un accordo, in primo luogo sostanziale, circa la disciplina delle conseguenze dello scioglimento del rapporto matrimoniale, e, per l’effetto, processuale, circa la procedura scelta per la proposizione della domanda di divorzio;
Ritenuto che:
pertanto, richiamandosi, la “domanda congiunta” di divorzio, ad una iniziativa processuale comune e paritetica che, non corrisponde né alla “somma” di due distinte domande di divorzio né alla “adesione” di una parte alla domanda avanzata dall’altra, debba reputarsi inammissibile una rinuncia unilaterale, poiché alla domanda congiunta possono rinunciare congiuntamente soltanto entrambe le parti (Cass., 08/07/1998, n. 6664);
neppure possa annettersi – contrariamente all’assunto del R. – alla mancata costituzione dell’appellata G. nel giudizio di secondo grado il significato di un’adesione implicita alla riforma della decisione di prime cure, non equivalendo la contumacia – equiparabile al silenzio della parte in materia negoziale – ad ammissione dei fatti dedotti dall’attore o dall’appellante (Cass., 12/07/2006, n. 15777);
Ritenuto che:
alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso debba essere rigettato, con condanna del ricorrente alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente, in favore della controricorrente, alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.600,00, di cui Euro 100, per esporsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2018

PARTO ANONIMO

Di Gianfranco Dosi

I. Il diritto della donna di partorire nell’anonimato
a) Il quadro legislativo
b) I motivi della scelta del legislatore
c) Divieto del parto anonimo in caso di procreazione medicalmente assistita
II. Il parto anonimo nel matrimonio e fuori dal matrimonio
a) Parto anonimo nel matrimonio
b) Parto anonimo fuori dal matrimonio
III L’obbligo di identificazione della madre come regola nella maggior parte dei Paesi europei
IV. L’adottabilità del nato quale inevitabile conseguenza del parto anonimo
I Il diritto della donna di partorire nell’anonimato
a) Il quadro legislativo
L’art. 30 del DPR 3 Novembre 2000 n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile) prevede al primo comma che “La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra perso¬na che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”1
1 Art. 30 (Dichiarazione di nascita)
1. La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata.
2. Ai fini della formazione dell’atto di nascita, la dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile è corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora della nascita e del sesso del bambino.
3. Se la puerpera non è stata assistita da personale sanitario, il dichiarante che non è neppure in grado di esibire l’attestazione di constatazione di avvenuto parto, produce una dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell’articolo 2 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.
4. La dichiarazione può essere resa, entro dieci giorni dalla nascita, presso il comune nel cui territorio è avve¬nuto il parto o in alternativa, entro tre giorni, presso la direzione sanitaria dell’ospedale o della casa di cura in cui è avvenuta la nascita. In tale ultimo caso la dichiarazione può contenere anche il riconoscimento contestuale di figlio naturale e, unitamente all’attestazione di nascita, è trasmessa, ai fini della trascrizione, dal direttore sanitario all’ufficiale dello stato civile del comune nel cui territorio è situato il centro di nascita o, su richiesta dei genitori, al comune di residenza individuato ai sensi del comma 7, nei dieci giorni successivi, anche attraverso l’utilizzazione di sistemi di comunicazione telematici tali da garantire l’autenticità della documentazione inviata secondo la normativa in vigore.
5. La dichiarazione non può essere ricevuta dal direttore sanitario se il bambino è nato morto ovvero se è mor¬to prima che è stata resa la dichiarazione stessa. In tal caso la dichiarazione deve essere resa esclusivamente all’ufficiale dello stato civile del comune dove è avvenuta la nascita.
6. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente articolo, gli uffici dello stato civile, nei loro rapporti con le direzioni sanitarie dei centri di nascita presenti sul proprio territorio, si attengono alle modalità di coordinamento e di collegamento previste dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’articolo 10, comma 2.
7. I genitori, o uno di essi, se non intendono avvalersi di quanto previsto dal comma 4, hanno facoltà di di-chiarare, entro dieci giorni dal parto, la nascita nel proprio comune di residenza. Nel caso in cui i genitori non risiedano nello stesso comune, salvo diverso accordo tra di loro, la dichiarazione di nascita è resa nel comune di residenza della madre. In tali casi, ove il dichiarante non esibisca l’attestazione della avvenuta nascita, il comune nel quale la dichiarazione è resa deve procurarsela presso il centro di nascita dove il parto è avvenuto, salvo quanto previsto al comma 3.
8. L’ufficiale dello stato civile che registra la nascita nel comune di residenza dei genitori o della madre deve comunicare al comune di nascita il nominativo del nato e gli estremi dell’atto ricevuto. .
Il diritto di partorire nell’anonimato non era previsto nell’originario ordinamento di stato civile (approvato con Regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238) ed ha trovato espresso riconoscimento nor¬mativo solo in epoca recente ad opera della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), la quale ha inserito nell’art. 70 di quella legge – che si occupava della dichiarazione di nascita – l’inciso “rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”, successivamente transitato inalterato nel vigente art. 30 del DPR 3 novembre 2000, n. 396.
L’espressione “rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata” significa che la donna può chiedere di partorire nell’anonimato e cioè di non indicare le proprie generalità in modo da non lasciare elementi che consentano in futuro la sua identificazione.
Con questa dichiarazione la madre quindi, se coniugata neutralizza di fatto la presunzione di pa¬ternità del marito impedendo che essa possa sorgere, se nubile rinuncia a riconoscere il figlio. Il diritto a partorire nell’anonimato vale, quindi, sia per la madre che partorisce nel matrimonio, che per il parto fuori dal matrimonio2
2 Lo si deduce chiaramente, per quanto serva, dall’art. 29 dove si precisa che nella dichiarazione di nascita si indicano le generalità dei genitori coniugati nonché di quelli che rendono la dichiarazione di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio. .
Nel certificato di assistenza al parto (CeDAP)3
3 Ministero della Sanità, Decreto 16 luglio 2001, n. 349, Art. 1.
1. È approvato il nuovo certificato di assistenza al parto, in seguito denominato “certificato”, quale strumento utilizzabile ai fini statistici e di sanità pubblica, secondo l’allegato schema esemplificativo di base che costitu¬isce parte integrante del presente regolamento.
2. Il certificato, che contiene almeno le informazioni riportate nello schema allegato, è composto delle se¬guenti sezioni:
sezione generale;
sezione A: informazioni socio-demografiche sul/sui genitore/i;
sezione B: informazioni sulla gravidanza;
sezione C: informazioni sul parto e sul neonato;
sezione D: informazioni sulle cause di nati-mortalità;
sezione E: informazioni sulla presenza di malformazioni.
(omissis)
4. Il certificato viene redatto, non oltre il decimo giorno dalla nascita, a cura dell’ostetrica/o o del medico che ha assistito il parto o del medico responsabile dell’unità operativa in cui è avvenuta la nascita per le sezioni A, B e C, ed a cura del medico accertatore per le sezioni D ed E.
5. L’originale del certificato viene conservato presso la direzione sanitaria degli istituti di cura pubblici e privati in cui è avvenuto il parto.
(omissis) in caso di richiesta dell’anonimato i dati relativi alla partoriente sono sostituiti dal codice 999 che significa “donna che non vuole essere nominata” che at¬testa, appunto, la volontà della donna di partorire nell’anonimato. Come si dirà tra breve è comunque assicurato un raccordo tra il certificato di assistenza al parto privo dei dati idonei a identificare la donna che non consente di essere nominata con la cartella clinica custodita presso il luogo dove è avvenuto il parto. Ciò rende sempre tecnicamente possibile l’individuazione della madre biologica.
La compilazione del Certificato di assistenza al parto da parte dell’ostetrica era originariamente regolamentato dal D.M. 19 aprile 1978 e della Circolare esplicativa del 12 gennaio 1985 dell’allora Ministero di Grazia e Giustizia che disciplinavano le modalità di rilevazione delle nascite. Il succes¬sivo (attualmente vigente) Regolamento del Ministero della salute 16 luglio 2001, n. 349 recante: “Modificazioni al certificato di assistenza al parto, per la rilevazione dei dati di sanità pubblica e sta¬tistici di base relativi agli eventi di nascita, alla nati-mortalità ed ai nati affetti da malformazioni”, cui ha fatto seguito la circolare ministeriale n.15 del 19 dicembre 2001, ha innovato la disciplina giuridica (abrogando il precedente decreto ministeriale del 1978) ed ha separato nell’ambito della rilevazione delle nascite la parte amministrativa (contenente i dati relativi alla nascita da inviare all’ufficiale di stato civile con un apposito attestato finalizzato alla formazione dell’atto di nascita) da quella informativa ai fini statistici (contenenti dati ulteriori di uso anche epidemiologico, per esempio eventuali malformazioni del neonato e le caratteristiche socio-demografiche dei genitori). Agli uffici di stato civile andranno (con una apposita attestazione di nascita) i dati necessari alla formazione dell’atto di nascita, mentre in sede di organizzazione sanitaria saranno comunicati e diffusi solo i dati di tipo statistico ed epidemiologico.
Nel caso di parto anonimo in seguito all’invio agli uffici di stato civile dell’attestazione con l’indi¬cazione che la madre non vuole essere nominata, l’ufficiale di stato civile forma l’atto di nascita attestando che il neonato è “nato da donna che non consente di essere nominata”. In tal caso la nascita, come meglio si dirà, viene segnalata all’autorità giudiziaria minorile per l’avvio della pro¬cedura di adottabilità.
Al momento dell’accettazione nella struttura sanitaria i dati della partoriente sono sempre riportati e conservati nei registri dell’ospedale o della clinica così come, ugualmente, viene sempre compila¬ta la cartella clinica con i dati personali della donna che ha partorito. Proprio grazie alle generalità contenute nei registri dell’ospedale e nella cartella clinica sarà sempre possibile in futuro, quindi – nei limiti che la legge indica – l’identificazione della madre che ha partorito.
Il decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 (codice in materia di protezione dei dati personali) all’art. 93 (Certificato di assistenza al parto), prevede che
1. Ai fini della dichiarazione di nascita il certificato di assistenza al parto è sempre sostituito da una semplice attestazione contenente i soli dati richiesti nei registri di nascita. Si osservano, altresì, le disposizioni dell’articolo 109.
2. Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento.
3. Durante il periodo di cui al comma 2 la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile.
Il primo comma tutela in generale la riservatezza della donna che ha scelto di riconoscere il figlio rispetto ai dati di tipo sanitario, statistico ed epidemiologico non strettamente necessari per la com¬pilazione e la formazione dell’atto di nascita. Quindi i dati che andranno inseriti nell’atto di nascita sono indicati in una attestazione “contenente i soli dati richiesti nei registri” di stato civile e non anche tutte le altre molteplici informazioni personali contenute nel certificato di assistenza al parto.
Il secondo e il terzo comma tutelano, invece, la riservatezza della donna che ha scelto di parto¬rire nell’anonimato e, quindi, di non riconoscere il figlio. Le generalità della partoriente saranno accessibili solo dopo cento anni (secondo comma) – durata idealmente eccedente quella della vita umana – con possibilità, tuttavia di accesso, anche prima, ad informazioni importanti per esempio di tipo genetico necessarie alla tutela della salute dei discendenti, con le cautele necessarie ad evitare l’identificazione della donna, (terzo comma).
Solo la normativa sull’adozione prevede la possibilità di accesso ai dati identificativi della parto¬riente anche prima dei cento anni da parte dell’adottato, ai fini della ricerca delle proprie origini4
4 Cfr la voce RICERCA DELLE PROPRIE ORIGINI .
b) I motivi della scelta del legislatore
Il motivo per il quale il legislatore attribuisce alla partoriente il diritto all’anonimato è stato bene esplicitato nelle sentenze che si sono occupate del bilanciamento tra il diritto all’anonimato e il diritto alla ricerca delle proprie origini: Corte costituzionale, 25 novembre 2005, n. 425 (“È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle infor¬mazioni sulle sue origini nel caso in cui, ove la madre naturale abbia manifestato la volontà di non essere nominata, non condiziona il divieto per l’adottato di accedere alle informazioni sulle origini alla previa verifica, da parte del giudice, dell’attuale persistenza di quella volontà”); la successiva di segno opposto Corte costituzionale 22 novembre 2013 n. 278 (“E’ fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riser-vatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”) nonché Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 13 febbraio 2003 (“In materia di accesso ai documenti amministrativi, non viola l’art. 8 della Convenzione il diniego di comunicazione delle informazioni riguardanti le generalità dei genitori naturali, qualora questi ultimi non abbiano manifestato il consenso alla divulgazione”) secondo le quali la ratio sottesa al diritto all’anonimato materno è quella di evitare aborti, specie clandestini, infanticidi e abbandoni di neonati. Si intende cioè offrire alla donna e al bambino una alternativa ai comportamenti abbandonici, consentendo alla madre di dare alla luce il figlio senza che ciò comporti la necessità di instaurare con il neonato alcun legame giuridico.
Si legge sia in Corte cost. 25 novembre 2005, n. 425 che nella successiva Corte costituzio¬nale 22 novembre 2013 n. 278 che il sistema garantisce i diritti della gestante che in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale abbia deciso di non te¬nere con sé il bambino. In tal modo si offre alla madre la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo si intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi.
c) Divieto del parto anonimo in caso di procreazione medicalmente assistita
In base alla previsione contenuta nell’art. 9 della legge 11 febbraio 2004, n. 40 sulla procreazione assistita5
5 Cfr la voce PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA , la madre del nato, a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita, non può manifestare la volontà di non essere nominata. Si tratta di un divieto ragionevo¬le, motivato dall’intento di responsabilizzare chi opera tale scelta procreativa.
II Il parto anonimo nel matrimonio e fuori dal matrimonio
Il diritto della madre di partorire nell’anonimato vale sia in per i figli che nascono nel matrimonio, che per quelli che nascono fuori dal matrimonio. La scelta è irreversibile, fatto salvo – come si dirà – il diritto al ripensamento sulla volontà di man¬tenere l’anonimato, in occasione dell’interpello da parte del tribunale allorché l’adottato maggio¬renne dovesse chiedere di accedere all’identità della madre).
a) Parto anonimo nel matrimonio
Nel caso di filiazione nel matrimonio l’art. 231 c.c. prevede il principio di presunzione di paternità in base al quale il marito della partoriente è considerato padre del neonato.
La presunzione di paternità non è però ostativa alla possibilità per la partoriente di dichiarare di non voler essere nominata. Il richiamato art. 30, comma 1, del regolamento di stato civile non indica limitazioni a tale proposito.
La richiesta di parto anonimo da parte della donna coniugata non farà scattare quindi al momen¬to della nascita la presunzione di paternità (art. 231 c.c. secondo cui Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio). L’operatività della presunzione di cui all’art. 231 cod. civ. dipende, infatti, necessariamente dalla previa indicazione delle generalità della madre nell’atto di nascita secondo le modalità enunciate agli artt. 29 e 30 ordinamento di stato civile.
D’altro lato la stessa giurisprudenza ammette che la donna coniugata possa dichiarare che il fi¬glio non è nato dal marito non ostandovi la presunzione di paternità (Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1987, n. 31; Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 1992, n. 11073; Cass. civ. Sez. I, 5 aprile 1996, n. 3194; Cass. civ. Sez. I, 27 agosto 1997, n. 8059; App. Genova, 16 ottobre 1982; Trib. Rimini, 9 marzo 1995). Il principio applicato è che non opera la presunzione di paternità di cui all’art. 231 c.c. per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi sia anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in mancanza, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’operatività di detta presunzione e dello “status” di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’art. 235 c.c., né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità na-turale di persona da una relazione extraconiugale potrebbe diversa dal marito.
Pertanto la donna coniugata – che ha, in sostanza, il diritto di riconoscere il figlio nato da una sua relazione extraconiugale senza far scattare la presunzione di paternità del marito – ha anche il dirit¬to, nel caso in cui non intendesse neanche riconoscerlo come figlio naturale (da sola o con il padre biologico), di partorire nell’anonimato dichiarando prima del parto di non voler essere nominata.
Tuttavia – e qui sta l’aspetto più problematico – la donna coniugata può avvalersi del diritto di partorire nell’anonimato non solo allorché il figlio sia frutto di una relazione extraconiugale, al fine di impedire l’operatività della presunzione di paternità (per poi procedere al riconoscimento), ma anche nell’ipotesi in cui il figlio sia stato effettivamente concepito ad opera del marito. Una parte della dottrina ha, proprio per questo, criticato questa opzione. Effettivamente la donna coniugata potrebbe, a sua discrezione, chiedendo di partorire nell’anonimato, negare lo status di figlio nel matrimonio del neonato. Sebbene, non sussista il rischio di essere incriminata per il delitto di alte¬razione di stato (art. 567 cod. pen.) dal momento che la donna esercita un suo diritto, parte della dottrina suggerisce de iure condendo l’introduzione di una deroga a tale diritto, in modo che non possa essere impedita la formazione di un atto di nascita di figlio legittimo con riguardo al figlio effettivamente concepito con il marito.
b) Parto anonimo fuori dal matrimonio
La decisione della donna di partorire nell’anonimato nel caso di filiazione fuori dal matrimonio comporta la rilevante conseguenza di non consentire mai in seguito da parte del figlio l’azione dichiarativa della maternità. A ben vedere, tuttavia, si tratta di un effetto teorico dal momento che in ogni caso il figlio adottato, avendo già uno status filiationis (adozione cosiddetta legittimante), non potrebbe comunque mai esperire l’azione in questione.
III L’obbligo di identificazione della madre come regola nella maggior parte dei Paesi europei
Il diritto a partorire nell’anonimato non è condiviso nella maggior parte degli ordinamenti in Europa dove quasi tutti i sistemi giuridici (salvo quello francese e italiano) impongono l’identificazione del¬la donna al momento del parto, in tal modo facendo proprio il principio di derivazione romanistica per cui mater semper certa est.
Il codice civile tedesco – che costituisce il modello di riferimento per quasi tutti gli Stati europei che non ammettono l’anonimato (Paesi scandinavi, Belgio, Olanda, Portogallo, Spagna, Svizzera, Austria) – al § 1591 stabilisce che “Madre di un figlio è la donna che lo ha partorito”. L’attribuzione della maternità è quindi effetto giuridico che scaturisce automaticamente ed inderogabilmente dal dato fattuale del parto, senza che su di esso possa in alcun modo influire la volontà della gestan¬te. E ciò, sia che la nascita avvenga da genitori uniti tra loro in matrimonio, sia che il figlio nasca fuori dal matrimonio. Le strutture sanitarie hanno l’obbligo di denunciare all’ufficio di stato civile la nascita del bambino ed il suo nome, oltre al nome ed al domicilio della madre.
Il principio giuridico mater semper certa est ha, sul piano del diritto europeo, ricevuto due signi¬ficativi riconoscimenti. È stato in primo luogo fatto proprio dalla Convention européenne sur le status juridique des enfants nés hors mariage (Strasburgo, 1975) che, all’art. 2, testualmente ha
previsto che “La filiazione materna di ogni figlio nato fuori del matrimonio è stabilita dal solo fatto della nascita del bambino”, con ciò dando chiaramente per scontato – secondo gli interpreti – l’ac¬certamento automatico ex latere matris dei rapporti di filiazione sorti in ambito matrimoniale. Ha inoltre ispirato la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 13 giugno 1979 resa nel caso Marckx la quale ha stabilito che violano il combinato disposto dell’art. 8, n. 1, della Convenzione di Roma dei diritti dell’uomo, che garantisce il rispetto della vita privata e familiare, e dell’art. 14 del¬la medesima Convenzione, che proibisce discriminazioni in ragione della nascita, quelle legislazioni nazionali che fanno dipendere da un atto di riconoscimento la costituzione del vincolo giuridico di filiazione tra la madre ed il nato.
L’altro modello vigente nel contesto europeo è quello francese, il quale – come quello italiano – risulta caratterizzato da un coefficiente volontaristico, poiché l’attribuzione dello status di madre non può mai avvenire contro la volontà della madre stessa. L’art. 326 del Code civil stabilisce infatti che “Al momento del parto la madre può domandare che sia conservato il segreto tanto sul suo ingresso in ospedale quanto sulla sua identità”, con ciò riconoscendo in modo inequivocabile la facoltà di ogni donna di partorire nell’anonimato. Il figlio non instaura alcun rapporto giuridico con la madre; la decisione di partorire nell’anonimato esclude che la maternità possa successivamente essere dichiarata in via giudiziale su istanza del figlio ma non preclude alla stessa madre la pos¬sibilità di procedere ad un suo successivo riconoscimento. La scelta, infatti, di rimanere anonima non è scelta irreversibile, potendo in ogni momento essere revocata. In questo sta la differenza tra il sistema francese e quello italiano. Qualora successivamente il nato manifesti la volontà di conoscere l’identità di colei che lo ha generato, un apposito organismo pubblico potrà autorizzare la rimozione del segreto qualora la madre manifesti il proprio consenso oppure sia deceduta senza aver espresso volontà contraria.
IV L’adottabilità del nato quale inevitabile conseguenza del parto anonimo
Ci si deve chiedere ora quali conseguenze comporti per il nato la decisione della madre (coniugata o meno) di avvalersi di tale prerogativa.
La formazione di un atto di nascita di figlio nato da madre che non desidera essere nominata comporta l’obbligo da parte della struttura sanitaria di segnalazione dell’avvenuta nascita al Pro¬curatore della repubblica presso tribunale per i minorenni del distretto nel quale avviene la nascita ai sensi del primo comma dell’art. 9 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) come sostituito dall’art. 9 della legge 28 marzo 2001, n. 1496
6 Art. 9 Legge 4 maggio 1983, n. 184 come sostituito dall’art. 9 della legge 28 marzo 2001, n. 149
Chiunque ha facoltà di segnalare all’autorità pubblica situazioni di abbandono di minori di età. I pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio, gli esercenti un servizio di pubblica necessità debbono riferire al più presto al procuratore della repubblica presso il tribunale per i minorenni nel luogo in cui in cui il minore si trova sulle condizioni di ogni minore in situazione di abbandono di cui vengono a conoscenza in ragione del proprio ufficio. . La condizione del neonato privo di genitori è, infatti, condizione di abbandono che conduce all’instaurazione della procedura di adottabilità e all’adozione del minore.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 27 agosto 1997, n. 8059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità di cui all’art. 231 c.c. non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi siano anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’operatività di detta presunzione e dello “status” di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’art. 235 c.c., né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito.
Cass. civ. Sez. I, 5 aprile 1996, n. 3194 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché la presunzione di paternità di cui all’art. 231 c.c. opera solo in presenza di un corrispondente titolo di Stato, ove la madre abbia dichiarato il figlio come naturale resta esclusa l’operatività della presunzione e difetta lo “status” di figlio legittimo, con l’ulteriore conseguenza che non è necessario il preventivo disconoscimento al fine di proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale di persona diversa dal marito.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 1992, n. 11073 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità di cui all’art. 231 c. c. non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi sia anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’operatività di detta presunzione e dello status di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’art. 235 c. c., né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito.

Il coniuge non ha diritto alla quota del TFR se il diritto a percepirlo sorge prima della domanda di assegno divorzile

Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 marzo 2018, n. 7239
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8190/2017 proposto da:
F.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FILOMENA D’ADDARIO;
– ricorrente –
contro
D.Q.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIUSEPPE SIRTORI 56, presso lo studio dell’avvocato VITTORIO AMEDEO MARINELLI, rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCESCO ORLANDO, VINCENZO CORALLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 142/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 16/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/02/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
F.G. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce n. 142 del 2016, depositata il 16 febbraio 2016, con la quale è stata accolta la domanda, avanzata dal controricorrente, allora appellante signor D.Q.D., di rigetto della domanda di pagamento della quota di TFR dalla odierna ricorrente propostaL. n. 898 del 1970, ex art. 12 bis; il signor D.Q.D. ha replicato con controricorso;
Considerato che:
con il primo motivo di ricorso – violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.12 bis, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – la ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia erroneamente escluso il diritto a percepire la quota di TFR richiesta, dovendosi individuare, quale elemento temporale di riferimento a tal fine, quello in cui il TFR entra definitivamente nella disponibilità del coniuge e non quello in cui sorge il relativo diritto;
con il secondo motivo di ricorso – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c.comma 1, n. 5) – la ricorrente si duole della circostanza che la Corte salentina abbia omesso di dar conto, con adeguata e corretta motivazione, delle ragioni ostative alla valutazione dell’istanza di rinnovo, formulata nei precedenti gradi di giudizio, di acquisizione delle informative rivolte al datore di lavoro dell’appellante, nonché all’Istituto nazionale di previdenza sociale, volte alla cognizione della data di erogazione del TFR e del relativo quantum;
Ritenuto che:
l’espressione, contenuta nella L. 10 dicembre 1970, n. 898, art. 12 bis, secondo cui il coniuge ha diritto alla quota del trattamento di fine rapporto anche se questo “viene a maturare dopo la sentenza” implichi che tale diritto deve ritenersi attribuibile anche ove il trattamento di fine rapporto sia maturato prima della sentenza di divorzio, ma dopo la proposizione della relativa domanda, quando invero ancora non possono esservi soggetti titolari dell’assegno divorzile, divenendo essi tali dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio ovvero di quella, ancora successiva, che lo abbia liquidato; infatti, poiché la “ratio” della norma è quella di correlare il diritto alla quota di indennità, non ancora percepita dal coniuge cui essa spetti, all’assegno divorzile, che in astratto sorge, ove spettante, contestualmente alla domanda di divorzio, ancorché di regola venga costituito e divenga esigibile solo con il passaggio in giudicato della sentenza che lo liquidi, ne derivi che, indipendentemente dalla decorrenza dell’assegno di divorzio, ove l’indennità sia percepita dall’avente diritto dopo la domanda di divorzio, al definitivo riconoscimento giudiziario della concreta spettanza dell’assegno è riconnessa l’attribuzione del diritto alla quota di T.F.R. (Cass., 06/06/2011, n. 12175; Cass., 20/06/2014, n. 14129);
siffatta interpretazione sia, per vero, coerente con la natura costitutiva della sentenza di divorzio e con la possibilità, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 10, di stabilire la retroattività degli effetti patrimoniali della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio a far data dalla domanda (Cass., 17/12/2003, n. 19309);
Rilevato che:
nel caso di specie, la Corte d’appello ha correttamente applicato la norma, l’art. 12 bis, oggetto di censura, avendo individuato nella data di cessazione del rapporto di lavoro, a seguito di licenziamento, quella nella quale è sorto il diritto del D.Q. al TFR ed avendo negato, conformemente all’orientamento di codesta Corte sopra richiamato, il diritto per l’odierna ricorrente a riceverne una quota, quale ex coniuge, essendo stato proposto il ricorso per la cessazione degli effetti civili del matrimonio in un arco cronologico successivo alla maturazione del diritto dl TRF in capo al marito;
In conseguenza di quanto suesposto, risulta del tutto corretta la decisione del giudice di appello di negare qualsivoglia rilevanza, ai fini della definizione della controversia, all’istanza exart. 210 c.p.c., di acquisizione di notizie sulla data di erogazione del TFR e del relativo ammontare;
Ritenuto che:
peraltro, l’omesso esame di istanze istruttorie non valga ad integrare il vizio di cui al novellatoart. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 e 8054);
alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso debba essere rigettato con condanna del ricorrente alle spese del presente giudizio).

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente, in favore del controricorrente, alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Il figlio superstite ha diritto alla pensione di reversibilità, ove maggiorenne, se riconosciuto inabile al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi

Cass. civ. Sez. lavoro, 13 aprile 2018, n. 9237
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27503/2012 proposto da:
A.R., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI PIETRALATA 320-D, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE RUTIGLIANO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
A.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI GIUSEPPE GENTILE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIANTONIETTA ZINGRILLO, giusta delega in atti;
– controricorrente –
e contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE C.F. (OMISSIS);
– intimato –
avverso la sentenza n. 2662/2012 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 04/07/2012 r.g.n. 1574/2010.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
RILEVATO:
1. che la Corte di Appello di Bari, con sentenza n.2662 del 2012, ha riformato la decisione di primo grado e, per l’effetto, ha riconosciuto il diritto di A.I. alla corresponsione integrale della pensione di reversibilità, quale superstite del padre, con condanna dell’INPS al pagamento della prestazione con decorrenza della data della domanda amministrativa;
2. che la Corte di merito ha ritenuto, dal compendio testimoniale acquisito in giudizio, non sufficientemente provato, in capo ad A.R., il requisito della vivenza a carico del defunto genitore, con il consequenziale riconoscimento del beneficio della pensione di reversibilità, in via esclusiva, ad A.I.;
3. che avverso tale sentenza A.R. ha proposto ricorso, affidato a due motivi, al quale ha opposto difese, con controricorso, A.I., rappresentata in giudizio dall’amministratore di sostegno, A.V.;
4. che l’INPS non ha svolto difese;
CONSIDERATO:
5. che la parte ricorrente, deducendo illogica e contraddittoria motivazione e violazionedell’art. 2697 c.c., si duole che la Corte del gravame abbia ritenuto decisive prove testimoniali incentrate su un requisito – la mancata coabitazione con il defunto genitore – insufficiente a fondare la sussistenza della vivenza a carico e per avere invertito l’onere probatorio (primo motivo); deducendo, inoltre, violazione e falsa applicazione dellaL. n. 903 del 1965,art.22, censura l’erronea interpretazione del requisito della vivenza a carico offerto dalla Corte di merito (secondo motivo);
6. che ritiene il Collegio si debba rigettare il ricorso;
7. che, secondo il condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità, in caso di morte del pensionato, il figlio superstite ha diritto alla pensione di reversibilità, ove maggiorenne, se riconosciuto inabile al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi, laddove il requisito della vivenza a carico, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza e neanche con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare che il genitore provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile (cfr., ex plurimis, Cass., 14 febbraio 2013, n. 3678 e la giurisprudenza ivi richiamata);
8. che, come già affermato da Cass. 3 luglio 2007, n. 14996, agli effetti del requisito della prevalenza del contributo economico continuativo del genitore nel mantenimento del figlio inabile, ragioni di certezza giuridica, di parità di trattamento, di tutela di valori costituzionalmente protetti (artt. 3 e 38 Cost.) impongono criteri quantitativi certi che assicurino eguale trattamento ai superstiti inabili, quali si desumono dalla Delibera dell’istituto previdenziale n. 478 del 2000 e al riferimento, ivi enunciato, ad indici stabiliti per legge nonché di considerare a carico i figli maggiorenni inabili che hanno un reddito non superiore a quello richiesto dalla legge per il diritto alla pensione di invalido civile totale;
9. che, l’onere della prova del fatto costitutivo del diritto alla pensione di reversibilità incombe su chi tale diritto ha fatto valere in giudizio, a normadell’art. 2697 c.c., mentre il giudice non può sopperire alle carenze probatorie imputabili alle parti, in quanto il suo potere di ammettere d’ufficio mezzi di prova a normadell’art. 421 c.p.c., è solo finalizzato ad integrare un quadro probatorio già tempestivamente delineato dalle parti (sulla circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova, si rinvia a Cass. Sez. U. 17 giugno 2004, n. 11353);
10. che l’accertamento, in concreto, del sostentamento del figlio inabile, da parte del genitore, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, è tipico giudizio di fatto demandato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato (v. tra le altre, Cass. 20 aprile 2016, n. 8023);
11. che, nella specie, la Corte di merito, incentrando la ratio decidendi sull’insussistenza del contributo rilevante del genitore al sostentamento economico di A.R. inabile, non solo non ha imperniato la decisione sulla necessaria coabitazione tra ascendente e figlia inabile ultramaggiorenne, come assume la parte ricorrente, ma si è conformata ai principi sopra delineati;
12. che, peraltro, criticando l’asserita non decisività di circostanze costituenti, per la Corte di merito, il fulcro delle emergenze testimoniali dimostrative dell’insussistenza della dipendenza economica dal genitore, l’attuale ricorrente non evidenzia, nell’illustrazione delle censure, la tempestiva introduzione, nelle sedi di merito, di elementi idonei e decisivi volti a dimostrare, in un delicato e conflittuale contesto familiare, il costante mantenimento da parte del genitore fino al momento del decesso, e richiamando le risultanze dell’interrogatorio formale (incentrato sull’aiuto ricevuto, di nascosto, dal genitore a causa della conflittualità con gli altri fratelli) ed una deposizione testimoniale (evocativa dell’elargizione di minime somme di denaro per il conto della spesa) richiede, alla Corte di legittimità, un’inammissibile valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie;
13. che la sentenza è, pertanto, immune da censure;
14. che le spese di lite seguono la soccombenza non sussistendo le condizioni previstedall’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, per l’esonero dal pagamento delle spese processuali, in relazione alla necessaria indicazione, fin dall’atto introduttivo del giudizio, dell’apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante il possesso delle condizioni reddituali previste dalla norma.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 1.200,00 per compensi professionali, oltre quindici per cento spese generali e altri accessori di legge.

Ai fini dell’esistenza della convivenza more uxorio la coabitazione rileva come dato recessivo, semplice indizio o elemento presuntivo

Cass. civ. sez. III, 13 aprile 2018, n. 9178
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15431/2014 proposto da:
P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 48, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO MORLINO, rappresentato e difeso dagli avvocati OSVALDO MOSSINI, ROBERTO ROSSI giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente-
Contro
UNIPOLSAI SPA, già FONDIARIA SAI SPA, in persona del procuratore speciale Dott. G.R., elettivamente domiciliata in ROMA, FABIO ALBERICI che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI CALABRESE giusta procura speciale in calce al controricorso;
IMBAI SRL, in persona del suo legale rappresentante pro tempore T.A., IMMOBILIARE ALBERGO FUNICOLARE MIRALAGO SRL in persona del suo legale rappresentante pro tempore T.A., T.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LAGO DI LESINA 35 presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO CORATELLA che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCA BAJ, giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrenti –
contro
S.L.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4694/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 27/12/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/11/2017 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

Svolgimento del processo
1. P.A. propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi ed illustrato da memoria, nei confronti di S.L., Immobiliare Albergo Funicolare Miralago s.r.l., IMBAI s.r.l., T.A. e Fondiaria SAI s.p.a., per la cassazione della sentenza n. 4694/2013, depositata dalla Corte d’Appello di Milano il 27.12.2013, con la quale veniva confermato il rigetto della sua domanda di risarcimento danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta quale convivente del defunto sig. S.N. in riferimento ai danni conseguenti alla morte di questi, che perdeva la vita precipitando nel vano ascensore dell’immobile di proprietà della Immobiliare Albergo Funicolare Miralago, mentre erano in corso lavori di ristrutturazione.
Resistono con controricorso la UnipolSai s.p.a., già Fondiaria Sai s.p.a., e, con controricorso congiunto, Immobiliare Albergo Funicolare Miralago s.r.l., IMBAI s.r.l. e T.A..
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.
2. Questi i fatti, per quanto ancora interessa: a seguito della morte di S.N., precipitato nel 2007 nel vano ascensore dell’Albergo Funicolare Miralago, nel 2009 P.A. iniziava una causa di risarcimento danni, assumendo che il defunto fosse all’epoca dei fatti suo convivente, pensionato e che lavorasse (benché non in regola) nel cantiere della Immobiliare Albergo Funicolare Miralago s.r.l., ove la IMBAI s.r.l. stava svolgendo lavori di ristrutturazione. Chiedeva il risarcimento dei danni nei confronti del proprietario della struttura, dell’appaltatore, del responsabile dei lavori, del progettista e direttore dei lavori, R.S..
Venivano chiamate in causa le rispettive compagnie assicuratrici per la responsabilità civile.
Parallelamente, il figlio della vittima, S.L., introduceva autonoma causa di risarcimento danni nei confronti delle medesime persone.
Sia la P. che il S. raggiungevano un distinto accordo con l’arch. Si. e con la compagnia assicuratrice di questi, Allianz, nei confronti dei quali il processo veniva dichiarato estinto.
3. Il Tribunale di Como rigettava la domanda della P., affermando che mancasse la prova del rapporto di convivenza, in quanto le prove orali avevano dato esito contrastante, e dalle risultanze istruttorie emergeva che il S. risultava residente in (OMISSIS) al momento della sua morte, mentre la P. abitava nel paese di (OMISSIS).
4. A sua volta, la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza qui impugnata, rigettava l’appello, ritenendo che dal contesto probatorio non emergesse a sufficienza la prova dell’esistenza di una convivenza stabile tra il S. e la P., nonostante vi fossero elementi idonei a ritenere sussistente un rapporto affettivo e una relazione di coppia, ma non un legame caratterizzato da quella stabilità e continuità che legittimano il convivente di fatto ad agire per i danni da perdita del rapporto affettivo ed eventualmente per i danni patrimoniali conseguenti alla morte del convivente.

Motivi della decisione
1. I motivi. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazionedell’art. 2 Cost., in riferimento alla qualificazione della fattispecie giuridica della famiglia di fatto, nonché la violazionedell’art. 2059 c.c., in riferimento al riconoscimento dei presupposti per il risarcimento in caso di lesione del rapporto familiare di fatto.
Sostiene la ricorrente che la corte d’appello non avrebbe rispettato la nozione di famiglia di fatto esistente nel diritto vivente, in cui all’elemento soggettivo dell’affectio si associa l’elemento oggettivo della stabile convivenza.
Segnala che, nella evoluzione giurisprudenziale, in ragione delle modifiche della vita sociale, si è recepito che, se è necessaria ai fini dell’accertamento dell’esistenza di una convivenza di fatto l’esternalizzazione della stabilità del legame affettivo, alla quale deve associarsi la condivisione di compiti ed obblighi, non necessariamente tale esternalizzazione può ravvisarsi esclusivamente in presenza della coabitazione.
Richiama in particolare Cass. 7128 del 2013, che ha affermato che non necessariamente la convivenza deve coincidere con la coabitazione e definisce la convivenza come “lo stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”.
Sostiene che la corte d’appello, nel valutare le istanze istruttorie, abbia errato non solo nella valutazione in fatto (svalutando l’importanza di indici assai significativi della esistenza di una relazione stabile), ma anche in diritto, laddove si è limitata a considerare la famiglia di fatto (rectius il rapporto di convivenza), come fondato imprescindibilmente sulla coabitazione, senza considerare altri importanti e concordanti elementi (l’esistenza di un conto corrente comune, la disponibilità in capo alla ricorrente delle agende lavorative del defunto, il fatto che i carabinieri si rivolsero a lei subito dopo l’incidente, indicandola a verbale come convivente del defunto) comprovanti l’esistenza di un rapporto stabile e duraturo che, anche nell’eventuale mancanza della coabitazione, possono ritenersi sicuri indici di un legame stabile, la cui perdita sia risarcibile.
Con il secondo motivo, la P. denuncia la violazionedell’art. 2735 c.c., in riferimento alla confessione stragiudiziale resa da S.L., figlio del suo defunto convivente e parte del giudizio, in un altro processo. Sostiene che la corte d’appello non avrebbe preso in adeguata considerazione le significative dichiarazioni rese dal figlio della vittima nella comparsa di risposta depositata nel giudizio in cui il S.L., sul presupposto proprio della convivenza tra il defunto padre e la signora P., in conseguenza degli obblighi spontaneamente assunti dalla P. in ragione di tale convivenza, chiedeva che anche la ricorrente fosse chiamata a sostenere le spese per i funerali del defunto S..
Anche all’interno di questo motivo, la ricorrente si duole del fatto che la corte d’appello non abbia idoneamente considerato alcune circostanze di fatto, quali i movimenti sul conto corrente comune, il fatto che tale conto corrente comune fosse stato acceso nel comune di residenza della P., e che su di esso fossero addebitate le utenze di casa P., a riprova del fatto che il S. si era spostato a coabitare con la ricorrente. Segnala che la corte d’appello non avrebbe neppure considerato che il medico curante del defunto abitava nel paese della P., e che questa era stata indicata nel rapporto dei carabinieri come convivente, era stata chiamata dai carabinieri al verificarsi della sciagura ed aveva consegnato loro l’agenda del S. e le sue buste paga dalle quali risultava che questi lavorasse, benché “in nero”, nel cantiere dove si era verificato l’incidente. Ribadisce anche in questa sede che le indicate circostanze, ove considerate nel loro complesso, avrebbero dovuto portare il giudice di merito ad affermare l’esistenza di una situazione di convivenza stabile tra la ricorrente e il de cuius, presupposto per la risarcibilità del danno da perdita del convivente di fatto.
Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazionedell’art. 2 Cost.,dell’art. 2043 c.c., edell’art. 2059 c.c., in riferimento al mancato riconoscimento della prestazione risarcitoria chiesta dalla ricorrente.
Ribadisce il proprio diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, correlando il danno patrimoniale alla perdita delle entrate del S., consistenti nella sua pensione e nelle sue benché discontinue prestazioni lavorative remunerate, i cui proventi confluivano tutti sul conto corrente cointestato, e, quanto al risarcimento del danno non patrimoniale, ne chiede la liquidazione, in via equitativa, sulla base della valutazione presuntiva del danno conseguente alla perdita della relazione affettiva stabile, richiamando per la quantificazione le tabelle milanesi. Il terzo motivo quindi è teso ad evidenziare i criteri per la quantificazione delle due voci di danno, patrimoniale e non patrimoniale, in ordine ai quali la corte d’appello non ha preso posizione, perché si è fermata al passaggio precedente, ritenendo la ricorrente non legittimata a chiedere il risarcimento in quanto non titolare di un rapporto di convivenza stabile, idoneamente caratterizzato da coabitazione ed affectio.
Il primo motivo è fondato e va accolto per le ragioni che seguono, con assorbimento del secondo e del terzo.
2. La motivazione della corte d’appello. La corte d’appello non esclude affatto che tra i due sussistesse una relazione affettiva stabile, al contrario, dà atto della esistenza di un rapporto affettivo e di una relazione di coppia, ed in altro punto afferma che gli stessi erano caratterizzati da “serietà dei impegno e regolarità di frequentazione nel tempo”.
Tuttavia, afferma che gli elementi allegati, che “possono ritenersi di riscontro ad un rapporto affettivo ed a una relazione di coppia tra la predetta e il de cuius, dall’altro risultano assolutamente carenti dal punto di vista del supporto probatorio necessario ad attestare un legame di convivenza che abbia le caratteristiche di continuità e di stabilità quali evidenziate dalla giurisprudenza della Suprema Corte”.
Esaminava, per pervenire a queste conclusioni, i vari elementi allegati a sostegno della convivenza dalla P. (l’esistenza di un conto corrente comune, aperto nel Comune di residenza anagrafica della ricorrente, l’indicazione nelle buste paga del defunto della residenza nel Comune di residenza anagrafica della ricorrente, la disponibilità da parte della P., presso la sua abitazione, del calendario con le annotazioni autografe del S. indicanti i giorni lavorati e delle buste paga del defunto, l’indicazione della residenza del S. presso la P. risultante dai verbali redatti nell’immediatezza del sinistro, dalla relazione del medico di base di entrambi, dalla transazione conclusa con il progettista), ritenendo insuperabile il dato che la residenza del defunto fosse rimasta, fino al momento della sua morte, nel diverso Comune di Legnano.
Concludeva affermando che le circostanze portate dalla P. nulla chiarissero “in ordine ad una effettiva convivenza che travalichi una relazione di affettività e frequentazione, per sfociare in una situazione relazionale connotata da quei caratteri di stabilità e durevolezza richiesti ed individuati dalla giurisprudenza di legittimità perché la stessa possa essere assimilata ad un vincolo matrimoniale”.
Nella sua ricostruzione, e nelle conclusioni in diritto cui perviene la corte d’appello, escludendo la tutelabilità della posizione della P. in quanto esclude la configurabilità di un rapporto di convivenza tra i due, sono ravvisabili due diversi errori, uno di metodo e l’altro di merito.
3. Violazione del principio della necessità di una valutazione globale degli indizi. Preme sottolineare che il primo errore in cui incorre la corte territoriale non è un errore sulla valutazione degli elementi di prova raccolti, che naturalmente fa parte del giudizio di merito e non è in questa sede rinnovabile, né tanto meno questa Corte intende rinnovarla, sovrapponendosi al controllo del giudice di merito e duplicandolo: la Corte di cassazione non può né intende in alcun modo sostituirsi al giudice di merito nella valutazione delle prove.
E’ invece un errore di diritto sul metodo da utilizzare al fine della corretta valutazione del materiale probatorio, che deve essere in questa sede rilevato: acquisita una pluralità di elementi che costituiscono indici rilevanti – nella stessa affermazione e quindi considerazione del giudice di merito – in ordine alla configurabilità di una determinata situazione produttiva di ricadute giuridicamente rilevanti, essi non possono essere poi presi in considerazione atomisticamente, ma devono essere considerati nella loro unitarietà e nella loro interazione l’uno con l’altro.
La prova presuntiva (o indiziaria) esige che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli nel loro insieme e gli uni per mezzo degli altri. E’, pertanto, erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga, autonomamente, a dignità di prova (v. Cass. n. 7303 del 2012; v. anche Cass. n. 26022 del 2011, recentemente richiamata da Cass. n. 12022 del 2017; v. anche Cass. n. 5374 del 2017).
L’errore in cui cade il giudice di appello nel caso in esame consiste proprio nella valutazione frazionata dell’insieme degli indizi pur raccolti e sottoposti al suo esame. La prova presuntiva, difatti, nella sua innegabile delicatezza, postula, quale prius operazionale del procedimento logico che la assiste, un’analisi dei singoli fatti sottoposti all’esame del giudice di tipo “composito”, di tipo, cioè, sinergico/valutativo, e non una scomposizione disgregata di tipo meramente addizionale e atomistica dei fatti medesimi.
Se infatti il singolo elemento, atomisticamente considerato, può non essere idoneo e sufficiente a costituire piena prova di un fatto ignoto (nel nostro caso, l’esistenza di una vera e propria convivenza tra il S. e la P.), la concorrenza e concordanza degli indizi può far sì che essi si saldino l’uno con l’altro per formare il quadro complessivo dal quale emerge come provato nella sua esistenza, il fatto ignoto.
La corte d’appello ha invece adottato l’opposto procedimento logico valutativo del frazionamento o della parcellizzazione: essa ha prima “scomposto” il coacervo indiziario in svariati momenti distinti, per poi inferirne che nessuno di questi segmenti, valutati inter se distantibus, assurgesse a necessaria dignità probatoria sotto il profilo della certezza, gravita, concordanza. È il criterio stesso della concordanza che impone la valutazione complessiva del materiale probatorio, allo scopo di ricostruire se i vari frammenti probatori fossero atti a ricostruire, se collegati, un’unica immagine.
4. La nozione giuridicamente rilevante della convivenza di fatto e il rilievo recessivo della coabitazione.
Il secondo errore, in diritto nel quale è incorsa la corte d’appello, ricade sulla nozione di convivenza di fatto giuridicamente rilevante e meritevole di tutela anche sotto il profilo risarcitorio.
La corte d’appello, nel rigettare la domanda risarcitoria, pur formalmente richiamando la giurisprudenza di questa Corte che ha elaborato la nozione di convivenza di fatto, l’ha di fatto svuotata dall’interno, escludendo che vi fosse un supporto probatorio idoneo ad attestare le caratteristiche di continuità e stabilità della convivenza richieste dalla giurisprudenza di legittimità a fronte del fatto, cui attribuisce rilevanza dirimente, che la residenza del de cuius fosse rimasta fino al momento della morte in Legnano, ovvero in luogo diverso da quello di residenza della P..
E’ noto che si riconosce al convivente di fatto il diritto, in caso di perdita del convivente, ad una uguale tutela rispetto al soggetto coniugato in caso di perdita del coniuge, e tuttavia che, per non estendere indefinitamente le maglie delle situazioni risarcibili fino a ricomprendervi legami labili e non sufficientemente stabilizzati e meritevoli di tutela, questa Suprema Corte ha negli anni elaborato una nozione di famiglia di fatto, o di convivenza tutelabile, all’interno della quale all’elemento soggettivo della relazione affettiva stabile si accompagni l’elemento oggettivo della reciproca, spontanea assunzione di diritti ed obblighi.
Come questa Corte ha avuto già modo di affermare, infatti, “Il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente “more uxorio” del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale; a tal fine non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla P.A. per fini anagrafici” (Cass. n. 23725 del 2008). In altri casi si è affermato che “Il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale”. (Cass. n. 12278 del 2011).
Deve sottolinearsi che, nell’illustrazione degli elementi identificativi della convivenza di fatto, all’interno della giurisprudenza della Corte, se la coabitazione è stata finora indicata come un indice rilevante e ricorrente dell’esistenza di una famiglia di fatto, individuando l’esistenza di una casa comune all’interno della quale si svolge il programma di vita comune, non è stato peraltro ritenuto un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, fosse determinante al fine di escludere la configurabilità della convivenza.
Giova richiamare, in particolare, il principio di diritto affermato da Cass. n. 7128 del 2013, in base al quale integra di per sé un danno risarcibile exart. 2059 c.c., giacché lede un interesse della persona costituzionalmente rilevante, ai sensidell’art. 2 Cost.- il pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione.
Deve aggiungersi che è anche necessario prendere atto del mutato assetto della società, collegato alle conseguenze di una prolungata crisi economica ma non originato soltanto da queste, dal quale emerge che ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato. Non può non considerarsi infatti che: -la scelta del luogo di abitazione talvolta non può essere conforme alle preferenze delle persone o alle loro scelte affettive ma può essere necessitata dalle circostanze economiche; – la impossibilità dello Stato di mantenere tutte le provvidenze dello stato sociale porta talora gli individui a doversi attivare in supplenza del supporto assistenziale mancante, e a sostenere degli spostamenti o a scegliere il luogo di abitazione per accudire le persone del proprio nucleo familiare che ne abbiano bisogno, o comunque privilegiando le necessità di accudimento piuttosto che le esigenze della vita affettiva; – il mercato del lavoro non garantisce una regolare coincidenza del luogo di svolgimento del rapporto lavorativo con il luogo di abitazione familiare; la ricerca della miglior collocazione lavorativa porta a prescindere dalla provenienza geografica e a spostarsi con maggiore facilità in un luogo diverso da quello di provenienza o anche da quello ove si ha il proprio centro affettivo, per migliori prospettive di carriera o per realizzare un progetto che nella propria città o nel proprio paese sarebbe impossibile realizzare. A ciò si aggiunga, come ulteriore componente di cambiamento del modo di vivere e di concepire sia i rapporti sociali in generale che le relazioni interpersonali, la maggiore facilità ed economicità sia dei contatti telefonici e a video che dei trasporti.
Tutti questi fattori di un cambiamento sociale che è ormai verificato nella società comportano che si instaurino e si mantengano rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in passato (non solo nelle famiglie di fatto ma, ugualmente, anche all’interno delle famiglie fondate sul matrimonio) e devono indurre a ripensare al concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può appiattirsi sulla coabitazione.
Sono tutte situazioni in cui può esistere una famiglia di fatto o una stabile convivenza, intesa come comunanza di vita e di affetti, in un luogo diverso rispetto a quello in cui uno dei due conviventi lavori o debba, per suoi impegni di cura e assistenza, o per suoi interessi personali o patrimoniali, trascorrere gran parte della settimana o del mese, senza che per questo venga meno la famiglia.
Esistono anche realtà in cui le famiglie, siano esse di fatto o fondate sul matrimonio, si formano senza avere neppure, per un periodo di tempo più o meno lungo, una casa comune, intesa come casa dove si svolge la vita della famiglia, in quanto ognuno dei due partners è tenuto per i propri impegni professionali o per particolari esigenze personali, a vivere o a trascorrere la gran parte della settimana o del mese in un luogo diverso dall’altro.
Alla luce di tutti questi elementi non ha più alcun senso appiattire la nozione di convivenza sulla esistenza di una coabitazione costante tra i partners, lasciando fuori dai margini della tutela ogni altra relazione, che pur sia stabile sia affettivamente sia sotto il profilo della reciproca assunzione di un impegno di assistenza e di collaborazione all’adempimento degli obblighi economici, ma sia dotata di un assetto organizzativo della vita familiare diverso da quello tradizionale.
Negare tutela a tutte queste molteplici situazioni vorrebbe dire perdere il contatto tra la necessità, esistente ed insopprimibile, di delimitare la sfera della risarcibilità alle situazioni giuridicamente meritevoli di tutela, e la necessità, di non inferiore dignità, di tutelare tutte le situazioni meritevoli di tutela senza trascurarne alcuna.
Il dato della coabitazione, all’interno dell’elemento oggettivo della convivenza è quindi attualmente un dato recessivo. Esso deve essere inteso come semplice indizio o elemento presuntivo della esistenza di una convivenza di fatto, da considerare unitariamente agli altri elementi allegati e provati e non come elemento essenziale di essa, la cui eventuale mancanza, di per sé, possa legittimamente portare ad escludere l’esistenza di una convivenza.
La nozione di convivenza di fatto, intesa come un rapporto di fatto che si caratterizzi, oltre che per l’esistenza di una relazione affettiva consolidata, per la spontanea assunzione di diritti ed obblighi, tali da darle una stabilità assimilabile a quella coniugale, peraltro trova ora il suo supporto normativo nellaL. n. 76 del 2016, che all’art. 1, definisce i conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco.
Colpisce che questa realtà non sia stata colta affatto nella sentenza impugnata, che esclude da ogni forma di tutela la P. negandone la qualità di convivente di fatto, dopo aver passato in rassegna una sequela di indici pur esistenti, per il solo fatto, ritenuto dirimente, che il S. avesse lasciato la propria residenza anagrafica nel Comune dove vivevano il figlio e il nipote.
Conclusivamente, la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata e la causa rinviata per un nuovo esame alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio e si atterrà ai seguenti principi di diritto:
– si ha convivenza more uxorio, rilevante anche ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente in caso di perdita della vita dell’altro, qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale:
– ai fini dell’accertamento della configurabilità della convivenza more uxorio, i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza degli elementi presuntivi, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi (quali, a titolo meramente esemplificativo, un progetto di vita comune, l’esistenza di un conto corrente comune, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese familiari, la prestazione di reciproca assistenza, la coabitazione), i quali devono essere valutati non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri.
Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio.

Va revocata l’assegnazione della casa familiare (già concessa in comodato) se non è più utilizzata

Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2018, n. 9732
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 13778/2015 proposto da:
C.B., elettivamente domiciliata in Roma, Piazza c Fernando De Lucia n. 15, presso lo studio dell’avvocato Dattolo Rosa, rappresentata e difesa dall’avvocato Sirianni Domenico, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
A.S., elettivamente domiciliato in Roma, Piazzale Flaminio n. 9, presso lo studio dell’avvocato Campagna Salvatore, rappresentato e difeso dall’avvocato De Meco Natale, giusta procura a margine del controricorrente e ricorrente incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 26/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 03/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/03/2018 dal cons. TRICOMI LAURA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale SORRENTINO FEDERICO che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, inammissibilità del ricorso incidentale.
Svolgimento del processo
C.B., provvisoriamente ammessa al patrocinio a spese dello Stato, propone ricorso per cassazione affidato a due motivi avverso la sentenza della Corte di appello di Catanzaro, in epigrafe indicata, rese in giudizio di separazione personale dei coniugi, con la quale era stata revocata l’assegnazione della casa familiare già disposta a suo favore, quale collocataria privilegiata dei figli M. (classe (OMISSIS)) e Y.M. (classe (OMISSIS)) e confermato l’assegno di mantenimento posto a carico del marito, a favore della moglie (Euro 100,00) e dei due figli (Euro 300,00 per ciascuno).
A.S. replica con controricorso e propone ricorso incidentale fondato su tre motivi.
Il ricorso, fissato dinanzi all’adunanza camerale della Sesta sezione civile della Cassazione, è stato rimesso exart. 375 c.p.c., alla pubblica udienza del 22/03/2018, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione
1.1. Primo motivo del ricorso principale – Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione – A parere della ricorrente la pronuncia di revoca della assegnazione della casa familiare non ha tenuto conto del fatto decisivo costituito dalla circostanza che l’allontanamento da detta abitazione era avvenuto a seguito del distacco delle utenze domestiche compiuto dal marito, il quale per tali fatti era stato condannato con sentenza del Tribunale Penale di Crotone, depositata il 19/11/2014, oggetto di appello.
1.2. Secondo motivo del ricorso principale – Violazione ed errata applicazione del principio secondo il quale i fatti giuridici estintivi del rapporto giuridico sostanziale che forma oggetto della cognizione, verificatisi dopo la formazione del giudicato, ben possono essere dedotti in appello; violazione dellaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.6, come sostituito dallaL. 6 marzo 1987, n. 74,art.11.
Sostiene la ricorrente che l’abitazione, concessa in comodato d’uso alla famiglia dai genitori del marito, non poteva essere distolta da questa assegnazione per nessun motivo; sollecita quindi la valutazione delle condizioni economiche dei coniugi, ricorda che il figlio soffre di patologia cardiaca, che lei stessa non ha redditi e che il marito non versa l’assegno di mantenimento.
1.3. I motivi primo e secondo possono essere trattati congiuntamente perché avvinti sotto il profilo logico; vanno respinti perché inammissibili.
1.4. La Corte di appello, con la sentenza impugnata, ha pronunciato la revoca dell’assegnazione della casa familiare sita in (OMISSIS), già oggetto di comodato gratuito da parte dei genitori dell’ A., proprietari, al nucleo familiare, sulla scorta di altra sentenza della Corte di appello di Catanzaro, resa in data 25/09/2012, passata in giudicato, che aveva condannato la C. al rilascio dell’immobile a favore dei proprietari in quanto l’appartamento già da tempo non costituiva più residenza del nucleo familiare, osservando che “da tempo C.B. – che nel frattempo è divenuta madre di un altro bambino – per sua decisione spontanea (ha) trasferito altrove il domicilio proprio e quello dei figli e, segnatamente, in via dei (OMISSIS), presso il sig. Cr.Pa., padre del figlio ultimogenito della donna” (fol. 3/4 della sent. imp.).
Orbene, a fronte di tale statuizione che appare conforme alla giurisprudenza di legittimità, sia perché tiene conto del giudicato formatosi sull’ordine di rilascio, sia perché dà atto che l’utilizzo familiare dell’immobile era oramai cessato per scelta della C. (v. Cass. n. 24618 del 03/12/2015, Cass. Sez. U. n. 20448 del 29/09/2014) la ricorrente introduce circostanze di fatto, relative al distacco delle utenze domestiche compiute dal marito ed alle ricadute che tale condotta – che sarebbero oggetto di un processo penale non ancora definitivo -, avrebbe avuto sulla scelta dì abbandonare la casa familiare, senza tuttavia chiarire se e quando tali circostanze, meramente asserite, siano state sottoposte al giudice di appello, posto che nella sentenza non ve ne è menzione e nel ricorso le controdeduzioni all’appello formulate dalla ricorrente non sono riprodotte (fol. 4 del ricorso). Ciò induce evidenti ricadute negative sul piano dell’autosufficienza, sia quanto al primo che al secondo motivo, che peraltro non appaiono nemmeno centrati sulla ratio decidendi, prima ricordata.
2.1. Primo motivo del ricorso incidentale, articolato in due sub motivi – Violazione e falsa applicazionedell’art. 156 c.c., commi 1 e 2, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e motivazione contraddittoria sulle statuizioni di carattere economico concernenti l’assegno di mantenimento previsto a favore della moglie (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Il ricorrente si duole del mancato esame di documentazione (debito Findomestic per spese familiari, CUD relativi agli anni dal 2009 al 2014, etc.) volta a comprovare le sue condizioni economiche al fine di escludere o di parametrare in misura ridotta l’assegno di mantenimento in favore del coniuge. Afferma che, erroneamente, la Corte di appello ha sostenuto la mancata esibizione da parte dell’obbligato di attestazioni reddituali ulteriori rispetto al CUD 2006.
2.2. Secondo motivo del ricorso incidentale – Violazionedell’art. 2697 c.c.(art. 3 c.p.c., comma 1, n. 5) sempre riferito alla mancata valutazione della documentazione successiva al 2006, comprovante un disagio economico del ricorrente incidentale.
2.3. Terzo motivo del ricorso incidentale – Violazionedell’art. 345 c.p.c.(art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), sempre riferito alla mancata valutazione della documentazione economica; il ricorrente incidentale sostiene che l’acquisizione dei mezzi di prova e dei documenti è ammissibile sino all’udienza di discussione (Cass. n. 1656/2007) e avvalora la tesi della loro indispensabilità, dolendosi della mancata motivazione e valutazione circa la non indispensabilità da parte della Corte di appello.
2.4. I motivi del ricorso incidentale, tutti afferenti all’obbligazione per il mantenimento della moglie, possono essere trattati congiuntamente per connessione logica, poiché attengono alla mancata valorizzazione di documentazione che, a dire del ricorrente incidentale, sarebbe stata prodotta in appello ed avrebbe potuto dimostrato le sue ridotte capacità economiche.
2.5. I motivi sono inammissibili e vanno respinti.
2.6. Innanzi tutto va rilevato che le censure non colgono la ratio decidendi espressa dalla Corte di appello che, dopo avere ricordato i criteri di legge per la commisurazione dell’assegno di mantenimento, ha anche precisato che “… per la quantificazione dell’assegno di mantenimento, la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede la determinazione dell’esatto importo del patrimonio dell’obbligato, attraverso l’acquisizione di dati numerici o di rigorose analisi contabili e finanziarie” (fol. 4 della sent. imp.), ed ha escluso la ricorrenza di presupposti per revocare o modificare l’obbligazione, già prevista in misura contenuta, tenuto conto della mancanza di redditi della moglie.
2.7. Quindi, va rimarcato che i motivi sostanzialmente vertono sulla mancata valutazione da parte della Corte di appello di documentazione – a detta del ricorrente decisiva -, ma trascurano che la Corte di appello, contrariamente a quanto sembra assumere il ricorrente, ha accertato che questi non aveva esibito le attestazioni reddituali successive al CUD 2006 e cioè gran parte della documentazione di cui sollecitala valutazione.
Infine, i motivi risultano tutti inammissibili anche considerando che nel ricorso – ai fini dell’assolvimento degli oneri di autosufficienza – non è riprodotto l’atto di appello, quanto meno con riferimento ai passi significativi, non sono precisati tempi e modalità della asserita produzione documentale, né ne viene chiarito in modo adeguato il contenuto al fine di consentire l’apprezzamento della effettiva decisività.
3.1. In conclusione il ricorso principale ed il ricorso incidentale vanno dichiarati inammissibili.
Le spese del giudizio di legittimità si compensano in ragione della reciproca soccombenza.
Sia il ricorrente principale che la ricorrente incidentale hanno dichiarato di essere esenti dal contributo unificato ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.10, comma 2.
Va disposto che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso principale ed il ricorso incidentale;
– Compensa le spese del giudizio di legittimità tra le parti;
– Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

Cane sempre legato e senza cuccia adeguata: padrone in carcere

Cassazione, sentenza n. 8036/2018
SENTENZA
sul ricorso proposto da: …..; avverso la sentenza n. 1075/15 della Corte di appello di
Ancona del 9 marzo 2015; letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso
introduttivo; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI; sentito il PM,
in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Gabriele MAZZOTTA, il quale ha
concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO La Corte di appello di Ancona, ha riformato, con esclusivo
riferimento alla entità della sanzione penale irrogata, la sentenza con la quale, in data 26
marzo 2013, il Tribunale di Pesaro aveva dichiarato la penale responsabilità di ….. in
ordine al reato di cui all’art. 544-ter, comma secondo, cod. pen., per avere sottoposto il
proprio cane ad un trattamento incompatibile con la sua indole, tenendolo per vari giorni
legato ad una catena all’interno di un box, privo di assistenza igienica, di acqua e di cibo,
all’interno del quale vi era una cuccia in cemento non riparata dalle intemperie. Come
accennato la Corte territoriale, con sentenza del 9 marzo 2015, ha mitigato la sanzione a
suo tempo inflitta al ……, riducendola da 9 a 6 mesi di reclusione; alla determinazione
della pena nella misura dianzi indicata la Corte è pervenuta attraverso la riduzione della
entità della pena base a suo tempo irrogata dal Tribunale, ma confermando gli avvisi di
tale organo in relazione sia alla esclusione della concedibilità delle circostanze attenuanti
generiche sia in relazione alla computabilità dell’aumento per la ritenuta recidiva; i
precedenti del …… sono stati, infine, considerati ostativi alla sospensione condizionale
della pena. Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione il
prevenuto, articolando tre motivi di impugnazione. Il primo ha ad oggetto la violazione di
legge per non essere stato notificato al prevenuto il decreto di citazione a giudizio, ciò
avrebbe comportato un’evidente lesione al suo diritto di difesa in quanto, non essendo
stato informato il ….. della pendenza del giudizio nei suoi confronti, egli non avrebbe
potuto difendersi in sede processuale. Il ricorrente ha, altresì, in via subordinata, dedotto
la omessa qualificazione del fatto a lui contestato entro l’ambito dell’art. 727 cod. pen.,
atteso che non emergerebbe dagli atti la circostanza che l’animale di cui al capo di
imputazione abbia patito delle lesioni dolosamente cagionategli dall’imputato. Infine il
ricorrente ha lamentato la manifesta illogicità della sentenza impugnata in relazione al
riscontro della esistenza di uno stato di abbandono dell’animale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile e come tale va dichiarato, con le derivanti conseguenze. Quanto
il primo motivo di impugnazione, concernente la dedotta omessa notificazione del decreto
di citazione in giudizio, va rilevato che, per quanto emerge dagli atti, ai quali questa Corte
può fare libero accesso attesa la natura processuale della censura formulata dal
ricorrente, il ….., in data 3 marzo 2011 elesse domicilio per la esecuzione delle
notificazioni concernenti il presente procedimento in ……, impegnandosi a comunicare
eventuali successive variazioni. Per come emerge ancora dagli atti le notificazioni relative
alla citazione in giudizio del prevenuto sono state eseguite, ai sensi dell’art. 161, n. 4),
cod. proc. pen. presso il difensore di ufficio dell’imputato in quanto, essendo stato
infruttuoso il tentativo di notificazione presso il sopraindicato domicilio eletto, stante la
evidente inidoneità della sua indicazione, è stato necessario ricorrere alla forma di
comunicazione prevista dal legislatore proprio per il caso in cui non fosse possibile
procedere al compimento dell’atto presso il domicilio indicato dall’interessato. Nessun vizio
è, pertanto, ravvisabile nella modalità di esecuzione della notificazione in questione e
perfettamente regolare è stata, pertanto, la evocazione dell’imputato in giudizio. Passando
al secondo motivo di impugnazione, va rilevato che la contestazione mossa al prevenuto
ha ad oggetto la condotta consistente nella inflizione, senza necessità, di maltrattamenti e
sevizie nei confronti di un animale domestico, nella specie un cane di razza “pastore
tedesco”, consistenti nell’imporgli un trattamento incompatibile con la sua indole, i cui
profili sono chiaramente descritti nel capo di imputazione elevato a carico del ….. Osserva,
pertanto, la Corte come sia inconferente rispetto al presente caso, diversamente da
quanto ritenuto dal ricorrente, la indagine volta a verificare la sussistenza a carico della
bestia – oggetto materiale del reato sebbene non certo titolare del bene interesse tutelato
dalla norma, dovendo questo essere rinvenuto nel sentimento di compassionevole pietas
che l’individuo umano prova dei confronti di determinate categorie di animali che, in
quanto soggetti indubbiamente senzienti, non possono essere, pertanto, sottoposti ad
ingiustificate sofferenze – di eventi avversi riconducibili, dal punto di vista nosologico, al
concetto di lesione fisica o psichica. Invero nel presente caso è stato contestato al ……. di
avere volontariamente sottoposto l’animale a sevizie ed ad un trattamento incompatibile
con la sua indole, consistente nel tenerlo legato per vari giorni ad una catena all’aperto,
senza cure igieniche, senza somministrazione né di cibo né di acqua, in assenza di un
valido riparo (a tale proposito giova ricordare che il reato è stato contestato nel mese di
gennaio, periodo in cui è ragionevole pensare che le temperature siano estremamente
rigide ed inadeguate al benessere dei cani in assenza di idonee forme di protezione).
Poco inciderebbe, atteso il descritto quadro, chiaramente incompatibile con le
caratteristiche etologiche di una bestia del tipo di quella di cui alla contestazione mossa
all’imputato, la circostanza che la istruttoria documentale acquisita agli atti non
evidenzierebbe, secondo il ricorrente, alcuna lesione a carico della povera bestia.
Osserva, infatti, la Corte che, come segnalato dalla Corte di Ancona, l’animale al momento
in cui è intervenuto il veterinario pubblico presentava uno stato di magrezza e deperimento
avanzato tanto che lo stesso subiva un “collasso” e non era in grado di reggersi sulle 4
zampe né di alimentarsi (condizione certamente riconducibile ad uno stato patologico tale
da integrare comunque il concetto di lesione). Ciò posto, è indubbio che integri il concetto
di sevizie e comportamenti incompatibili con le caratteristiche dell’animale, e pertanto sia
già di per se fattore tale da costituire l’elemento materiale del reato contestato il tenere lo
stesso, per periodi considerevoli di tempo, in isolamento, legato in uno spazio
angustamente circoscritto, senza cure igieniche né somministrazioni alimentari e senza
un’adeguata protezione dalle intemperie, con ricadute sulla sua integrità. E’, infatti,
nozione di comune esperienza il dato secondo il quale il cane sia di per sé un animale
gregario, destinato cioè a vivere – sia pure in abituali condizioni di sostanziale cattività –
non isolato ma in comunione con altri soggetti, comunemente rappresentati, data la
oramai millenaria consuetudine che tale bestia ha con la specie umana, da uomini nei cui
confronti esso non di rado riversa, in una auspicabile mutua integrazione, i segni evidenti
della propria sensibile affettività, dovendo, peraltro, ricevere dall’uomo, ove sia instaurato
con esso un rapporto di proprietà, le necessarie cure ed assistenze. E’, pertanto, evidente
come sia contrario alle oramai radicate caratteristiche etologiche della bestia in questione
il trattamento che, con insindacabile accertamento in punto di fatto, la Corte anconetana
ha verificato essere stato riservato dal ….. al cane di cui al capo di imputazione. Con
riferimento alla qualificazione della condotta realizzata dal …. entro i confine dell’art. 544-
ter cod. pen. come ritenuto in sede di sentenza impugnata, e non, invece, integrante il più
lieve illecito, contravvenzionale, di cui all’art. 727, comma secondo, cod. pen., come
rivendicato dal ricorrente, osserva la Corte che il criterio discretivo fra le due fattispecie
appare essere riconducibile al diverso atteggiamento soggettivo dell’agente nelle due
diverse fattispecie criminose, essendo la prima connotata dalla necessaria sussistenza del
dolo, persino nella forma specifica ove la condotta sia posta in essere per crudeltà o,
comunque, nello sua ordinarie forme ove la condotta sia realizzata senza necessità (Corte
di cassazione, Sezione III penale, 30 novembre 2007, n. 44822), mentre nel caso del
reato di cui all’art. 727 cod. pen. la produzione delle gravi sofferenze, quale conseguenza
della detenzione dell’animale secondo modalità improprie, deve essere evento non voluto
dall’agente come contrario alle caratteristiche etologiche della bestia, ma derivante solo da
una condotta colposa dell’agente (in tal senso si veda la recente sentenza di questa Corte
di cassazione, Sezione III penale, 25 maggio 2016, n. 21932, in qui è stata
appropriatamente differenziato, sotto il profilo della rilevanza penale, l’uso del collare
addestrativo come tale da integrare la contravvenzione di cui all’art.727 cod. pen. ove
finalizzato a realizzare, con metodi incentrati su impulsi dolorosi in caso di risposte
insoddisfacenti da pare dell’animale, tecniche di apprendimento di comportamenti
conformi alle caratteristiche etologiche della bestia, e come tale da integrare, invece, la
violazione dell’art. 544-ter cod. pen. la medesima metodica se, invece, finalizzata a
reprimere, attraverso la sofferenza fisica, comportamenti ordinari dell’animale dettati dalle
sue specificità naturalistiche; nella specie si trattava di reprimerne, attraverso impulsi
dolorosi, la naturale inclinazione ad abbaiare, quale indubbia forma di manifestazione
esterna di interne sensazioni). Nel caso di specie non vi è dubbio che la condotta del ……,
concretizzatasi nelle forme dianzi descritte, è stata posta in essere in termini di piena
consapevolezza e volontarietà, quindi, in presenza di un atteggiamento riconducibile al
dolo e non alla mera colpa. Quanto, infine, al terzo motivo di impugnazione, con il quale è,
sostanzialmente, contestata la possibilità di rinvenire nel fatto contestato all’imputato gli
estremi del reato a lui ascritto, rileva il Collegio che, per un verso la verifica della idoneità o
meno della cuccia presente nel recinto ove è stato ritrovata la bestia di cui al capo di
imputazione a proteggere quest’ultima dalle intemperie costituisce indagine non
suscettibile di essere portato alla attenzione di questa Corte, trattandosi, evidentemente di
accertamento di fatto sulla quale la motivazione della Corte di appello appare esaustiva,
laddove ha rilevato che non era stata apprestata in loco la protezione della bestia dalle
intemperie, potendosi ben convenire con la Corte territoriale che la mera esistenza di una
cuccia in cemento non può di per sé essere ritenuto adeguato mezzo di protezione dagli
avversi eventi meteorologici tanto più nella stagione invernale; mentre per ciò che attiene
al fatto che, pietatis causa, fosse stato portato da terzi qualche alimento alla bestia in
discorso, si tratta di elemento anch’esso non significativo posto che, a voler tacere del
fatto che l’animale avrebbe necessitato non solo di alimenti solidi ma anche di
abbeverarsi, è il complessivo trattamento a lui riservato che integra gli estremi degli
elementi costitutivi del reato, la cui rilevanza non è elisa dal fatto che, episodicamente, la
loro asprezza fosse solo parzialmente mitigata da occasionali ed imprevedibili condotte di
terzi. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso fa seguito, visto l’art. 616 cod. proc.
pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di
euro 2000,00 in favore della Cassa delle ammende.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di…..

L’affidamento ai nonni non è consentito senza un significativo legame con i nipoti

Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2018, n. 9021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8105/2017 proposto da:
R.S.H.M., S.F.I.N., elettivamente domiciliati in Roma, Viale Angelico n. 103, presso lo studio dell’avvocato Antinucci Mario, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Ciccarone Davide, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
M.G., nella qualità di curatore speciale delle minori R.S.H.M.B. e R.S.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Giovanni Nicotera n. 7, presso il proprio Studio, rappresentato e difeso da se medesimo;
– controricorrente –
contro
Casa Famiglia Villaggio SOS di Roma S.c.a.r.l., Ma.Fe.Ab.Ar., P.M. presso il Tribunale per i Minorenni di Roma, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma, Sh.Fa.Is., Sindaco di Roma;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1175/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/01/2018 dal cons. ACIERNO MARIA;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha chiesto alla Corte di Cassazione, riunita in camera di consiglio, il rinvio della decisione del ricorso all’esito della pubblica udienza, in subordine l’accoglimento del ricorso ed in ulteriore subordine l’affermazione del principio di diritto ai sensi del 363 c.p.c. sopra precisato.Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’Appello di Roma ha confermato la dichiarazione di adottabilità delle minori B. e Me.Re.So., emessa dal Tribunale per i minorenni.
Preliminarmente il giudice di secondo grado ha rilevato che sono intervenuti nel giudizio di appello i nonni materni nel giudizio di appello deducendo di aver richiesto di essere ascoltati fin dal procedimento di primo grado e sottolineando che era pervenuta informazione dall’ambasciata italiana in Egitto avente ad oggetto la piena capacità degli stessi di prendersi cura delle nipoti a livello finanziario etico ed affettivo. Essi infine si sono dichiarati disponibili anche a trasferirsi in Italia. Il loro intervento è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’Appello.
Nel merito, per quel che ancora interessa, la Corte ha accertato la persistenza delle condizioni di abbandono morale e materiale delle minori già rilevato in primo grado, attesa in particolare l’incapacità materna di sottrarsi alla relazione, caratterizzata prevalentemente da violenza, con il marito e di un atteggiamento aggressivo e del tutto non comprensivo nei confronti delle figlie.
E’ stata, inoltre, constatata: a) la acquisita maggiore tranquillità delle minori, in particolare della più grande, nata (OMISSIS), lontana dall’ambiente familiare e l’affermata e riscontrata forte paura di essere ricondotta presso la madre e di rivivere in un clima di violenza fisica e psicologica pressoché quotidiano, e di essere trasferita in Egitto; b) il sostanziale sopravvenuto disinteresse del padre e la mancanza di consapevolezza della gravità della situazione familiare per le minori; la mancanza di rapporti significativi con i nonni materni che sono stati coinvolti dalla figlia solo parzialmente e molto tardivamente nelle sue problematiche familiari e sono sempre rimasti in Egitto; la mancanza di qualsiasi legame anche culturale e linguistico delle minori con l’Egitto.
Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione i genitori delle minori affidandosi a tre motivi. Il procuratore generale ha depositato requisitoria scritta.
Nel primo motivo viene dedotta la violazionedell’art. 111 Cost.per assenza di motivazione in ordine all’esclusione dei nonni materni dalle figure parentali cui affidare le minori. È stata del tutto omessa la verifica della possibilità di conservare per le minori tale legame famigliare. La corte d’Appello ha omesso la loro audizione al fine di acquisire in concreto la disponibilità degli stessi e non ha svolto alcun accertamento al riguardo, limitandosi a registrare la mancanza d’interesse delle minori verso tali figure.
Nel secondo motivo la medesima censura viene svolta sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo. Non è stato considerato che la significatività del rapporto deve essere intesa in senso potenziale e non può essere esclusa dall’estraneità linguistica e culturale.
Il terzo motivo prospetta l’illegittima valutazione negativa della disponibilità dei nonni materni sotto il profilo della violazione dell’art. 8 Cedu.
I tre motivi illustrati devono essere esaminati congiuntamente, in quanto logicamente connessi.
Deve preliminarmente rilevarsi che non viene censurata la statuizione di natura processuale relativa alla declaratoria d’inammissibilità dell’intervento nel giudizio d’appello dei nonni materni.
In ordine allo specifico oggetto della censura deve rilevarsi che il requisito, espressamente previsto dallaL. n. 184 del 1983,art.12della significatività dei rapporti con i parenti fino al quarto grado al fine di verificarne l’idoneità soggettiva e la sussistenza delle condizioni oggettive ai fini dell’affidamento dei minori è stato già ritenuto, nella giurisprudenza di questa Corte, valutabile anche sotto il profilo potenziale, quando sia stata constatata l’impossibilità incolpevole di stabilire rapporti con i minori da parte dei parenti indicati dal citato art. 12. Nella sentenza n. 2102 del 2011 è stato affermato che la mancanza di rapporti significativi pregressi può non essere assunta come elemento di valutazione dell’idoneità dei parenti ad assicurare l’assistenza e la crescita del minore in modo adeguato quando quest’ultimo sia stato allontanato subito dopo la nascita e la richiesta dei parenti sia stata ragionevolmente tempestiva.
Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, tuttavia, secondo l’insindacabile accertamento di fatto svolto dalla Corte d’Appello, i nonni materni prima della dichiarazione di disponibilità pervenuta in via consolare il 15/9/2015 non avevano maturato o sviluppato alcun rapporto con le minori nate rispettivamente nel (OMISSIS), risultando del tutto estranei alle tormentate e drammatiche vicende del nucleo familiare delle minori.
Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, pertanto, non può riscontrarsi la condizione dell’impossibilità incolpevole in ordine alla creazione e conservazione di rapporti significativi con le minori. I nonni materni sono stati assenti dalla vita delle nipoti proprio negli anni di maggiore criticità della loro esistenza e non hanno avuto significativi contatti neanche con i genitori delle minori ed in particolare con la madre delle stesse. (cfr. pag. 20 della sentenza impugnata).
Sola la nipote più grande ha trascorso i primi anni di vita in Egitto ma ha dichiarato di non avere memoria di tale fase di vita e della relazione con i nonni (cfr. pag. 24 della sentenza impugnata). La condizione di reciproca estraneità, di conseguenza, non può ritenersi fondata, nella specie, da condizioni meramente oggettive, quali la lontananza geografica, ma risulta dettata, come esattamente individuato dalla Corte territoriale, dalla situazione relazionale che i nonni materni e i genitori delle minori hanno determinato nel tempo. Tale situazione è attualmente caratterizzata non solo dalla totale assenza di rapporti significativi tra nonni e nipoti ma anche dalla mancanza di potenzialità di recupero non traumatiche in tempi compatibili con lo sviluppo equilibrato della personalità delle minori, anche in considerazione dell’oggettivo radicale cambiamento contestuale (e linguistico) che si determinerebbe e che, alla luce dell’indagine di fatto approfondita ed insindacabile svolta dalla Corte d’Appello, non è affrontabile senza un riferimento relazionale affettivo preesistente e significativo così come richiesto dalla legge.
Nel quarto motivo viene dedotta la violazione dell’art. 8 Cedu e la contraddittorietà della motivazione in ordine all’allegata modificazione delle condizioni soggettive riguardanti i ricorrenti ed in particolare la madre. In particolare viene richiesto un approfondimento istruttorio mediante consulenza tecnica d’ufficio volta ad accertare le attuali capacità genitoriali dei ricorrenti.
La censura è inammissibile in quanto mira a sostituire all’accertamento di fatto svolto dalla Corte d’Appello, peraltro sulla base della ricostruzione delle vicende del nucleo familiare in oggetto, della relazione tra i ricorrenti e dello sviluppo delle condizioni delle minori dalle prime criticità al momento della decisione, una diversa valutazione della situazione attuale peraltro affidandola a futuri accertamenti tecnici.
Il quadro fattuale posto a base della decisione impugnata risulta completo e specificamente diretto a rilevare le problematiche genitoriali e le reazioni delle minori nel tempo.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese processuali del presente giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna le parti ricorrenti al pagamento delle spese processuali in favore della parte controricorrente da liquidarsi in Euro 3000 per compensi ed Euro 200 per esborsi oltre accessori di legge.
In caso di diffusione omettere le generalità.

È sollevata questione di legittimità dell’art. 657 bis c.p.p. nella parte in cui non è previsto anche per i minori la possibilità di scomputare dalla pena inflitta il periodo trascorso in messa alla prova

Cass. pen. Sez. I, 12 aprile 2018, n. 16358
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
B.A.P., nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Milano in data 6/03/2017;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. TOCCI Stefano, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
Svolgimento del processo
1. A seguito della richiesta di rinvio a giudizio davanti al Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i Minorenni di Milano per rispondere del delitto di cui agliartt. 110 e 648 c.p., B.A. aveva beneficiato della sospensione del processo con messa alla prova ai servizi minorili applicata, per un periodo pari a un anno, con ordinanza dello stesso giudice in data 17/10/2011.
Nel corso della misura, egli era stato sottoposto a un progetto elaborato dal Servizio sociale minorile che prevedeva interventi di orientamento formativo e lavorativo, di sostegno per il conseguimento del patentino per il ciclomotore, per il mantenimento della frequenza di uno sport di squadra, per lo svolgimento di attività di utilità sociale, da individuarsi a carico dello stesso servizio sociale, nonché colloqui di monitoraggio con l’assistente sociale e di sostegno psicologico dell’equipe penale. Dopo un iniziale periodo in cui B. aveva aderito al progetto educativo, egli aveva successivamente disatteso gli impegni assunti, interrompendo bruscamente i contatti con gli operatori psico-sociali e riallacciando strumentalmente i rapporti con i servizi soltanto in prossimità dell’udienza finale.
Per tale motivo, con sentenza in data 3/10/2012 il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i Minorenni di Milano aveva ritenuto che la messa alla prova si fosse conclusa con esito negativo e aveva condannato l’imputato alla pena di sette mesi e quattro giorni di reclusione, riconosciute le attenuanti generiche ed applicata la diminuente della minore età.
1.1. Successivamente, B. era stato nuovamente tratto a giudizio davanti al Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i Minorenni di Milano per rispondere dei delitti di cui agli artt. 81, 609 octies, 609 bis e 609 ter c.p.; e conordinanza in data 14/04/2014era stato ammesso, una seconda volta, alla sospensione del procedimento con messa alla prova al Servizio sociale minorile per un periodo di un anno e sei mesi. Il progetto elaborato dal Servizio sociale prevedeva il mantenimento della frequenza scolastica, con profitto e buon comportamento, colloqui di sostegno psicologico, con cadenza quantomeno quindicinale, finalizzati anche alla rielaborazione dei reati e dei sottesi stili di vita e relazionali con i pari; lo svolgimento di attività socialmente utili inizialmente presso un oratorio e successivamente presso altri contesti al fine di incentivare “sentimenti di condivisione e di empatia”, di attività di servizio alla persona, con l’inserimento, ove possibile, in gruppi rivolti alla presa in carico di minori coinvolti in reati di stampo sessuale, nonché colloqui di verifica e di sostegno con l’assistente sociale, con il coinvolgimento dei familiari.
La misura, anche in questo frangente, non era stata gestita in maniera adeguata, sicché in sede di relazione conclusiva, datata 16/09/2015, il Servizio affidatario aveva sottolineato l’esito negativo del percorso di messa alla prova. Su tali basi, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i minorenni di Milano aveva valutato sfavorevolmente l’andamento della misura, sottolineando come il giovane si fosse sottratto ad una presa in carico psicologica, avesse interrotto e ripreso i rapporti con gli operatori a proprio piacimento, si fosse mantenuto “emotivamente distante rispetto alle relazioni di aiuto a lui offerte”, avesse autonomamente orientato la propria progettualità lavorativa, dimostrando una “totale mancanza di interesse al contesto penale”, non avesse svolto “alcuna significativa riflessione sulle condotte di reato”, non palesando alcun “movimento trasformativo” sia sul piano comportamentale che attitudinale. In questa prospettiva, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i minorenni di Milano, con sentenza in data 13/10/2015, lo aveva condannato, con la riduzione per il rito prescelto e con la diminuentedell’art. 98 c.p., ritenuta prevalente sulle aggravanti contestate, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione.
1.3. Le due sentenze di condanna erano state, quindi, unificate dal provvedimento di cumulo del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano in data 23/08/2016, che aveva determinato la pena espianda in tre anni, un mese e quattro giorni di reclusione.
2. In data 6/10/2016, B.A.P. aveva presentato, a mezzo del difensore avv. Luigi Marinelli, richiesta di applicazione dell’art. 657 bis c.p.p., in relazione al periodo, pari a complessivi due anni e sei mesi, nel quale il giovane era stato ammesso alla prova in relazione alle condanne unificate dal menzionato provvedimento di cumulo.
In data 10/10/2016, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano aveva rigettato la richiesta, sul presupposto della non applicabilità al processo minorile dell’art. 657 bis c.p.p., previsto per i soli imputati adulti, avuto riguardo alle sostanziali differenze, sia sul piano strutturale che funzionale, tra le due ipotesi di sospensione del processo con messa alla prova.
2.1. Per tale ragione, in data 12/10/2016, B.A.P. aveva personalmente formulato un incidente di esecuzione volto ad ottenere il riconoscimento dello scomputo previsto dalla citata disposizione.
Tuttavia, con ordinanza in data 6/03/2017, il Tribunale per i minorenni di Milano, pronunciandosi in qualità di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la predetta richiesta. Anche secondo il giudice minorile, infatti, le due ipotesi di sospensione del processo con messa alla prova avrebbero una sostanziale diversità, sia sul piano strutturale che della ratio, con una spiccata vocazione in senso educativo e non afflittivo dell’istituto previsto per il processo minorile.
Tale circostanza, secondo il giudice dell’esecuzione, avrebbe impedito l’estensione dell’art. 657 bis c.p., al caso in esame, atteso che il principio di sussidiarietà previsto dalD.P.R. n. 448 del 1988,art.1, avrebbe consentito l’estensione al processo minorile delle norme del codice di procedura penale soltanto ove si fosse in presenza di una sostanziale lacuna nel sistema regolativo proprio del rito minorile; lacuna nella specie non ravvisabile.
Sotto altro, ma connesso, profilo, essendosi in presenza di una disposizione che si sarebbe inserita in uno specifico e autonomo sistema di regole, non sarebbe stato, dunque, possibile configurare alcuna violazione del principio di uguaglianza, essendo il diverso regime giustificato dalle peculiarità del processo minorile e del relativo istituto della messa alla prova.
3. Avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione ha proposto ricorso per cassazione lo stesso B., a mezzo del difensore di fiducia, avv. Luigi Marinelli, deducendo, con un unico articolato motivo di impugnazione, inosservanza o erronea applicazione della legge penale e processuale nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensidell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B), C) ed E).
Si opina, da parte del ricorrente, che ilD.P.R. n. 448 del 1988,art.1, consenta la estensione, anche al processo minorile, delle disposizioni del codice di procedura penale previste per i maggiorenni; e, sotto altro profilo, che la mancata applicazione della norma de qua sarebbe ingiustificata, creerebbe un assetto sostanzialmente discriminatorio e, dunque, sarebbe incostituzionale per contrasto con il principio di eguaglianza.
4. In data 14/07/2017, il Procuratore generale presso questa Corte ha depositato in Cancelleria la propria requisitoria scritta, con la quale ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. A parere del P.G., l’art. 657 bis c.p.p., sarebbe, infatti, applicabile anche al processo minorile in virtù della menzionata clausola di estensione contemplata dalD.P.R. n. 448 del 1988,art.1, laddove l’opposta soluzione ricostruttiva contrasterebbe con i principi posti dagliartt. 3 e 31 Cost., su cui si baserebbe l’intero diritto penale minorile.

Motivi della decisione
1. Ritiene il Collegio che la sollecitata applicazione estensiva dell’art. 657 bis c.p.p., alla messa alla prova per i minorenni, prevista dal D.P.R. n. 448 del 1998, art. 28, non sia, alla luce dei dati testuali e di sistema, praticabile.
Il D.P.R. n. 448 del 1998, art. 28, stabilisce, al comma 1, che “il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova disposta a norma del comma 2. Il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno”; e, al comma 2, che “con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato”.
IlD.Lgs. 28 luglio 1989, n. 272,art.27, recante Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie delD.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, prevede, al comma 2, che il progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, sulla base del quale il giudice provvede a norma del citato art. 28, deve prevedere tra l’altro: a) le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; b) gli impegni specifici che il minorenne assume; c) le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell’ente locale; d) le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa.
Sul piano contenutistico le prescrizioni possono consistere in: prescrizioni formali per le esigenze di controllo sociale; prescrizioni di tipo riparatorio; prescrizioni di vario contenuto quali il trattamento sanitario, la terapia disintossicante, il trattamento psicologico/psichiatrico; prescrizioni aventi un contenuto in positivo, quali ad esempio l’obbligo di frequentare scuole professionali o di svolgere determinate attività lavorative.
Ai sensi delD.P.R. n. 448 del 1988,art.29, decorso il periodo di sospensione, il giudice fissa una nuova udienza nella quale dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo. Dunque, la valutazione circa l’esito della stessa viene compiuta alla stregua degli effetti che la prova ha prodotto sulla personalità del minore, essendo l’istituto rivolto, secondo una autorevole dottrina, al “completamento, al consolidamento della personalità del minore”. Ne consegue che la prova possa, quindi, ritenersi fallita nel caso in cui essa non abbia inciso positivamente sulla personalità del minore, quand’anche le sue prescrizioni siano state formalmente rispettate. Ed in caso di esito negativo, il giudice dispone la prosecuzione del procedimento e si pronuncia, nel merito, sui fatti oggetto di imputazione.
2. Quanto, invece, all’istituto della sospensione del processo per messa alla prova dell’imputato maggiorenne, introdotto dallalegge 28/04/2014, n. 67, esso si configura come un procedimento alternativo rispetto al rito ordinario, riconducibile, sul piano sostanziale, alle cause estintive del reato; effetto che si produce in caso di esito positivo della prova.
Sul piano procedimentale, ai sensi dell’art. 168 bis c.p., comma 1, e art. 464 bis c.p.p., comma 1, il rito si instaura su esclusiva iniziativa dell’imputato, il quale deve altresì consentire all’esecuzione del programma di trattamento cui viene sottoposto a seguito della sospensione del processo.
Nessun consenso deve essere espresso dal pubblico ministero, salvo il caso di domanda di sospensione del procedimento presentata nel corso delle indagini preliminari.
Il beneficio può essere chiesto unicamente dagli indagati o dagli imputati di reati puniti con pena detentiva che, sola o congiunta alla pena pecuniaria, non sia superiore nel massimo a quattro anni e di quelli previstiall’art. 550 c.p.p., comma 2. Inoltre, la sospensione è preclusa per i delinquenti e contravventori abituali o professionali e per i delinquenti per tendenza; non può essere concessa nuovamente qualora sia stata revocata o qualora la prova non abbia dato esito positivo, e, in ogni caso, non può essere concessa più di una volta.
Ai sensi dell’art. 168 bis c.p., commi 2 e 3, e art. 464 bis c.p.p., comma 4, la prova consiste in una attività, indefettibile, dal contenuto retributivo, consistente nell’affidamento dell’imputato al servizio sociale, secondo le modalità definite nel programma di trattamento concordato con l’U.E.P.E. e nello svolgimento del lavoro di pubblica utilità; nonché, in una attività, soltanto facoltativa, di natura riparativa, diretta all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, alle restituzioni, al risarcimento del danno, ove possibile nonché alla eventuale mediazione con la persona offesa.
Nel dettaglio, nel programma di trattamento devono essere indicate, se “necessario e possibile”, “le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale”, “le prescrizioni comportamentali” (relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali) e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, quali le misure finalizzate alla riparazione in favore della vittima e a vantaggio della collettività, consistenti nel lavoro di pubblica utilità e in attività di volontariato di rilievo sociale. Quanto, in particolare, al lavoro di pubblica utilità, l’art. 168 bis c.p., comma 3, stabilisce che esso consista in una prestazione non retribuita, individuata sulla base della professionalità e delle attitudini lavorative del richiedente, da svolgersi presso lo Stato, gli enti territoriali, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale sanitaria o di volontariato, da svolgersi con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato.
Ove non debba pronunciare sentenza di proscioglimento exart. 129 c.p.p., il giudice, decidendo con ordinanza, accoglie l’istanza allorquando, in base ai criteri di cuiall’art. 133 c.p., compia un apprezzamento favorevole in relazione alla gravità del fatto, alla idoneità del programma, alla prognosi positiva in relazione alla futura astensione dal commettere ulteriori reati. In tal caso, il giudice deve indicare la durata della sospensione che, comunque, non può essere superiore a due anni se si procede per un reato per il quale è prevista la pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria e ad un anno per i reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria.
Nella fase esecutiva, l’U.E.P.E. deve compiere le periodiche verifiche sull’andamento della prova, su cui deve relazionare il giudice, proponendo eventuali modifiche al programma di trattamento, l’abbreviazione della durata della prova, ovvero la revoca dell’ordinanza ammissiva nel caso in cui ricorra talune delle condotte previste dall’art. 168 quater c.p., (e, dunque, la grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte; il rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità; la commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede).
Alla fine del periodo di prova, il giudice ne valuta l’esito sulla base della relazione conclusiva dell’U.E.P.E., avuto riguardo al comportamento tenuto dall’imputato e al rispetto delle prescrizioni stabilite.
In caso di esito positivo, il giudice dichiara con sentenza che il reato è estinto; e, in caso contrario, dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso.
In caso di successiva condanna, l’art. 657 bis c.p.p., stabilisce che il pubblico ministero, nel determinare la pena da eseguire, detrae un periodo corrispondente alla prova comunque eseguita, computando un giorno di reclusione o di arresto, oppure duecentocinquanta Euro di multa o di ammenda, per ogni tre giorni di prova.
3. Alla luce delle evidenziate caratteristiche dei due istituti, deve rilevarsi che la sospensione del processo con messa alla prova per gli imputati minorenni presenta significative differenze, sia sul piano strutturale che funzionale, rispetto al corrispondente istituto previsto per gli adulti.
Sotto il primo aspetto, 1) esso non ha limitazioni oggettive e soggettive; 2) comporta lo svolgimento di attività di osservazione trattamento e sostegno e l’assoggettamento a disposizioni che prescindono da richieste o dal consenso del minore; 3) ha ad oggetto, sul piano contenutistico, prescrizioni variamente modulabili e almeno tendenzialmente connotate da una minore afflittività; 4) ha una durata diversa; 5) il suo esito è strettamente correlato con la valutazione della personalità dell’imputato e, quindi, può essere negativo anche nel caso in cui vengano rispettate le prescrizioni previste nel progetto.
Sotto il profilo funzionale, mentre la presenza, nel caso della messa alla prova per gli adulti, del lavoro di pubblica utilità connota l’istituto in termini prettamente afflittivi, questa caratterizzazione, nel caso dell’istituto minorile, assume un rilievo eventuale e comunque meno pregnante, a favore delle istanze educative che sono proprie del processo minorile.
Dalle evidenziate differenze tra i due istituti consegue, come anticipato, ad avviso del Collegio la impossibilità di estendere l’art. 657 bis c.p.p., anche al processo minorile, in particolare per quanto concerne il rigido automatismo previsto dalla norma, la quale, in ragione dei profili afflittivi delle prescrizioni altrettanto rigidamente disciplinate per l’istituto previsto dall’art. 168 bis c.p., contempla un meccanismo di fungibilità costruito alla stregua di un criterio matematico: tre giorni di messa alla prova corrispondono a un giorno di pena detentiva da detrarre (ovvero a 250 Euro di pena pecuniaria), che sembra non esportabile automaticamente in ogni caso di messa alla prova del minorenne.
4. Pur in presenza delle evidenziate differenze tra i due istituti, attinenti sia al piano strutturale sia a quello funzionale, anche l’istituto della messa alla prova per i minorenni può presentare però, in concreto e caso per caso, significativi profili di afflittività.
Ciò è evidente nelle situazioni in cui, tra le prescrizioni, sia previsto l’inserimento comunitario obbligatorio con obbligo di permanenza all’interno della struttura, attesa la consistente limitazione della libertà di movimento che esso implica. Ma ad analoga valutazione deve pervenirsi anche nel caso in cui le prescrizioni, lungi dal presentare un contenuto “debole”, consistente in una mera offerta trattamentale e di sostegno educativo, consistano, come nella fattispecie in esame, in un obbligo di fare (o di non fare), atteso che anche in tali ipotesi è comunque configurabile una limitazione della libertà personale, il cui contenuto presenta, ontologicamente, un carattere afflittivo, al di là della finalizzazione verso un obiettivo di natura prettamente educativa.
Ne consegue che, in tale evenienza, l’esclusione di qualunque rilevanza del percorso seguito durante la prova, pur segnato da un epilogo sfavorevole, realizza un regime ingiustificatamente differenziato rispetto all’assetto regolativo che caratterizza l’omologo istituto per gli imputati maggiorenni, sì da confliggere con il principio di uguaglianza postodall’art. 3 Cost..E ciò tanto più ove si consideri lo specialissimo statuto, ispirato a una prospettiva di deciso favor, che l’ordinamento penale riconosce, sia sul piano sostanziale che processuale, agli imputati minorenni, a sua volta radicato nella previsionedell’art. 31 Cost., comma 2, secondo cui la Repubblica “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Un principio, questo, che con specifico riferimento alla Giustizia minorile è stato declinato nel senso che l’intervento giudiziario deve essere funzionale a preservare e consolidare i processi educativi che riguardano il minore, soggetto da tutelare in quanto tale, adattando gli istituti giuridici alle sue peculiari esigenze (cfr. Corte cost., sent. n. 222 del 1983, secondo cuil’art. 31, secondo comma, Cost.è alla base del principio secondo il quale il processo minorile deve essere ispirato alla prevalente esigenza educativa del minore; sent. n. 109 del 1997, secondo cui la protezione della gioventù exart. 31 Cost., si attua attraverso la “specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono”). In questo modo, peraltro, si configura un evidente collegamento conl’art. 27 Cost., comma 3, il quale finalizza l’intervento penale al principio rieducativo, secondo quanto riconosciuto dalla Consulta con la sentenza n. 222 del 1983, la quale ha affermato che la funzione di recupero del minore, imposta dall’interesse superiore alla protezione del medesimo espressonell’art. 31 Cost., comma 2, deve essere perseguita mediante la richiesta di interventi individualizzati da parte di organi giurisdizionali specializzati, attraverso istituti processuali ad hoc e “mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, in armonia con la meta additata al terzo commadell’art. 27 Cost., nonchè dall’art. 14, paragrafo 4, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (adottato a New York il 19 dicembre 1966 e la cui ratifica ed esecuzione sono state disposte conL. 25 ottobre 1977, n. 881)” oltre che dalle “Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile” (dette anche Regole di Pechino), approvate dal VI Congresso dell’ONU nel 1985.
In questa prospettiva, la previsione di un regime giuridico chiaramente sfavorevole per il minore, il quale, secondo la tesi accolta dal giudice dell’esecuzione, non potrebbe in alcun modo o misura scomputare dalla pena inflittagli il periodo trascorso in messa alla prova, diversamente da quanto previsto per l’omologo istituto applicabile agli adulti, sembra configurare una violazione dei principi di tutela del minore e della finalità educativa dell’intervento penale postidall’art. 31 Cost., comma 2, eart. 27 Cost., comma 3, e del principio di eguaglianza, non apparendo il regime, che per il minorenne non prevede alcun computo delle restrizioni eventualmente patite nella pena ancora da espiare, giustificato in rapporto alla rilevanza costituzionale degli interessi in gioco, riconducibili all’ambito della libertà personale, sottoposta a limitazioni di varia intensità e cogenza nel corso della prova.
In altri termini, attese le ragioni della già evidenziata impraticabilità di una automatica estensione dell’art. 657 bis c.p.p., alla messa alla prova minorile, il dubbio sulla legittimità costituzionale investe non la mancata applicabilità, sic et simpliciter, della norma in questione al rito minorile, quanto piuttosto l’impossibilità, per il giudice, di tenere in alcun conto, per il minore condannato a seguito di esito negativo della messa alla prova, del periodo trascorso in assoggettamento a tale regime, valutando, all’esito del pur negativo esperimento, le limitazioni della libertà personale alle quali sia stato comunque nelle more sottoposto: analogamente, a quanto è ora consentito in caso di revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova, ex art. 47, comma 11 (già comma 10), ord. pen. (L. n. 354 del 1975), dopo che Corte cost. n. 343 del 1987, sulla scorta di principi analoghi a quelli affermati già da Corte cost. sentenze nn. 185 del 1985 e 312 del 1985, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale normativa nella parte in cui non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova.
Il dubbio di legittimità costituzionale delle disposizioni di cui all’art. 657 bis c.p.p., eD.P.R. n. 448 del 1988,art.29, nella parte in cui non prevedono che, in caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice determina la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova, con riferimentoall’art. 3 Cost.,art. 31 Cost., comma 2, eart. 27 Cost., comma 3, non può ritenersi, per conseguenza, manifestamente infondato.
5. Nella fattispecie concreta, la questione appare, quindi, sicuramente rilevante.
Durante i due distinti periodi di messa alla prova ai quali è stato sottoposto, in entrambi i casi dichiarati anticipatamente conclusi con esito negativo, al ricorrente è stato prescritto, tra l’altro, lo svolgimento di attività socialmente utili, la cui consistenza e afflittività, unitamente a quella delle altre attività e prestazioni indicate nei progetti, che stando agli atti risulterebbero almeno in parte realizzati e di cui si è fatto resoconto in sintesi nella parte in “fatto”, non è stata menomamente valutata dai giudici del merito.
L’incidenza della relativa decisione sul presente giudizio è resa manifesta dal fatto che, da un lato, la non valutabilità delle restrizioni connesse al periodo di messa alla prova costituisce proprio l’oggetto del ricorso; dall’altro lato, solo la invocata, ma oggi non prevista, possibilità di valutare tali afflizioni consentirebbe un annullamento del provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di sorveglianza perché proceda ad esame del sostanziale aggravamento del trattamento sanzionatorio subito dal condannato in ragione della sua sottoposizione alla messa alla prova.
6. Alla stregua delle considerazioni che precedono, deve in conclusione ritenersi rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agliartt. 3, 27 e 31 Cost., la questione di legittimità costituzionale delD.P.R. n. 448 del 1988,art.29, e art. 657 bis c.p.p., nella parte in cui non prevedono che, in caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice possa determinare la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova.
Va per l’effetto disposta l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, mentre il giudizio in corso deve essere sospeso.
A cura della Cancelleria la presente ordinanza sarà notificata ai ricorrenti e alle parti civili, al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei Ministri e sarà comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

P.Q.M.
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agliartt. 3, 31 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale delD.P.R. n. 448 del 1988,art.29, e art. 657 bis c.p.p., nella parte in cui non prevedono che, in caso di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice determina la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova. Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al ricorrente, al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

È nulla la divisione del patrimonio ereditario operata direttamente dal testatore che pretermette un legittimario

Cass. civ. Sez. II, 22 marzo 2018, n. 7178
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 28120/’13) proposto da:
L.S.M., (C.F.: (OMISSIS)), in proprio e quale erede di L.D., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Gian Paolo Olivetti Rason ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Ernesto Abbate, in Roma, Largo Trionfale, n. 7;
– ricorrente –
contro
L.L., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale a margine del controricorso (contenente ricorso incidentale), dagli Avv.ti Carlo Martuccelli e Maurizio Dell’Unto ed elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in Roma, v. Dora, n. 2;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
Avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze n. 593/2013, depositata il 22 aprile 2013 (e non notificata);
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 18 dicembre 2017 dal Consigliere relatore Aldo Carrato;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’inammissibilità del ricorso incidentale;
uditi l’Avv. Francesco Arnaud (per delega) nell’interesse della ricorrente principale e l’Avv. Carlo Martuccelli
per il controricorrente – ricorrente incidentale.

Svolgimento del processo
Con sentenza non definitiva del 3 luglio 2008, il Tribunale di Firenze, decidendo sulla causa instaurata dalla sig.ra L.S.M. nei confronti del germano sig. L.L. per la divisione dell’eredità della loro genitrice B.L., così provvedeva:
– accoglieva l’azione di riduzione proposta dall’attrice (nella qualità di erede del padre L.D.), disponendo la riduzione delle disposizioni testamentarie di cui alle schede redatte dalla genitrice B.L., pubblicate il 13 marzo 2000, nella misura di tre quarti dell’intero asse ereditario;
– dichiarava la nullità della divisione di cui alle stesse schede testamentarie;
– riconosceva il diritto della stessa attrice di succedere nella misura della metà dell’intero asse relitto della B.;
– approvava il rendiconto redatto dal c.t.u. e dichiarava il diritto della medesima attrice a percepire l’importo di Euro 61.718,29.
Avverso la suddetta sentenza proponeva appello il convenuto L.L. articolato in complessivi quattro motivi, al quale resisteva l’originaria attrice che, a sua volta, formulava appello incidentale in relazione al rigetto della domanda di declaratoria di inefficacia (od invalidità) del preteso testamento, oltre che in ordine alla nullità della divisione, per effetto della pretermissione del legittimario, con la conseguente devoluzione dell’eredità in quote paritarie, deducendo, inoltre, la circostanza dell’intervenuta definizione transattiva della divisione dei cespiti immobiliari, chiedendo di procedersi alla divisione del patrimonio residuo (comprendente beni mobili e denaro) a perfetta metà.
La Corte di appello di Firenze, con sentenza non definitiva n. 593/2013 (depositata il 22 aprile 2013), in parziale riforma della impugnata sentenza di primo grado, così decideva:
– accertava e dichiarava che la successione di B.L. avrebbe dovuto essere devoluta secondo la volontà testamentaria della de cuius di cui alle schede testamentarie pubblicate dal notaio C.P. il 13 marzo 2000, previa riduzione proporzionale per la determinazione della quota legittima di 1/4 dell’eredità spettante a L.D.;
– accertava e dichiarava la devoluzione della predetta quota legittima agli eredi di L.D., e cioè a L.L. e L.S.M., ciascuno per metà;
– disponeva la rimessione della causa sul ruolo per la determinazione della quota legittima e la sua divisione.
A sostegno dell’adottata pronuncia il giudice di secondo grado disattendeva – in primo luogo – l’eccezione pregiudiziale di tardività dell’appello incidentale e respingeva quest’ultimo con riferimento alla domanda di invalidità del testamento della B.L. (sulla cui volontà devolutiva dei beni ereditari in favore di entrambi i figli non poteva nutrirsi alcun dubbio). Delibando, poi, sul merito delle censure avanzate dall’appellante principale, premessa l’insussistenza dell’incompatibilità della tutela del diritto del legittimario con la divisio inter liberos exart. 734 c.c., le accoglieva nella parte in cui il Tribunale di prime cure aveva dichiarato la nullità della divisione quale conseguenza della ritenuta fondatezza dell’azione di riduzione e nella parte in cui aveva accertato e dichiarato il diritto della L.S.M. di succedere nella metà dell’intero asse relitto. La stessa Corte territoriale confermava, poi, la riduzione delle disposizioni testamentarie della B.L. e, per l’effetto, accertato e dichiarato che la quota spettante al legittimario pretermesso L.D. era corrispondente ad 1/4, da prelevarsi proporzionalmente dalle quote attribuite ai due eredi testamentari secondo le ritenute valide disposizioni della testatrice, dava atto del venir meno dell’esigenza della formazione dei lotti secondo quote paritarie previste in sentenza e della conseguente necessità della formazione di un progetto di assegnazione dal momento che gli eredi risultavano già assegnatari, con effetti reali, dei beni loro attribuiti per testamento. Sulla base di queste disposizioni, la Corte fiorentina disponeva la rimessione della causa sul ruolo per procedere all’anzidetta individuazione dei beni da attribuire al legittimario pretermesso, pari a 1/4 del relictum, da prelevarsi proporzionalmente dalle quote già assegnate agli eredi e con la ridistribuzione di detta quota per metà, corrispondente ad 1/8 dello stesso relictum in favore di ciascuna parte, nella qualità di erede paritario del legittimario in nome del quale era stata esercitata jure successionis l’azione di riduzione.
Avverso la suddetta sentenza (non notificata) ha proposto ricorso per cassazione L.S.M., articolato in quattro motivi, al quale ha resistito l’intimato L.L. con controricorso contenente, a sua volta, ricorso incidentale riferito a tre motivi. La ricorrente principale ha formulato anche controricorso al ricorso incidentale avanzato dal L.L..
I difensori di entrambe le parti hanno anche depositato, rispettivamente, memoria illustrativa ai sensidell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo complesso motivo la ricorrente principale – avuto riguardo al rigetto dell’appello incidentale dalla stessa proposto volto ad ottenere la dichiarazione di nullità e/o di annullabilità del testamento della genitrice B.L. (sul presupposto della deduzione dell’erroneità dell’impugnata sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che le schede redatte dalla B. avevano la natura di testamento essendo indubitabile la manifestazione della volontà testamentaria della de cuius) – ha denunciato:
– la nullità della sentenza di appello per assunta carenza di uno dei requisiti indispensabili exart. 132 c.p.c., per il raggiungimento dello scopo exart. 156 c.p.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
– la nullità della stessa sentenza per asserita violazionedell’art. 115 c.p.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
– l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
– la violazione e falsa applicazionedell’art. 624 c.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
2. Con il secondo, articolato, motivo la ricorrente principale ha – con riferimento alla parte della sentenza di appello con la quale era stata ravvisata la validità della divisione disposta con le schede testamentarie della B., malgrado non avesse in essa compreso il coniuge legittimario L.D. (per la cui relativa lesione dei diritti la stessa L.S.M. aveva esercitato in via pregiudiziale “ab origine” l’azione di riduzione per il riconoscimento della quota spettantele quale erede del padre, deceduto successivamente senza testamento) – prospettato:
– l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
– la nullità dell’impugnata sentenza per asserita violazionedell’art. 112 c.p.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
– l’assunta violazione o falsa applicazione degliartt. 734 e 735 c.c., in ordineall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
3. Con la terza censura – correlata all’addotta erroneità della sentenza di secondo grado nella parte in cui si era pronunciata ultra petita e, comunque, in violazione delle norme sui diritti riservati ai legittimari – la difesa della L.S.M. ha inteso denunciare:
– la nullità della sentenza per violazionedell’art. 112 c.p.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
– la violazione o falsa applicazione degliartt. 542, 554, 556, 558 e 735 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
4. Con la quarta ed ultima doglianza – rivolta alla denuncia dell’omessa pronuncia sull’appello incidentale formulato dalla stessa – la ricorrente principale ha dedotto la nullità della sentenza impugnata per violazionedell’art. 112 c.p.c.(in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) e l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia (ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
5. Con la prima censura del ricorso incidentale la difesa del L.L. ha – in ordine alla critica della stima dei beni immobili compiuta dal c.t.u. e alla ravvisata necessità della sua rielaborazione – prospettato la violazione o falsa applicazione degliartt. 115 e 116 c.p.c., (in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) nonché l’omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
6. Con il secondo motivo del ricorso incidentale – riferita alla mancata condivisione dei risultati e del metodo di valutazione dei beni mobili operata dal c.t.u. – sono stati prospettati gli stessi vizi di cui all’appena riportata prima censura.
7. Con il terzo ed ultimo motivo del ricorso incidentale – riguardante la mancata disposizione del rendiconto a carico della controparte sui beni dalla stessa posseduti sul presupposto della tardività della relativa richiesta – il L.L. ha inteso far valere la violazione o falsa applicazione degliartt. 115 e 116 c.p.c., oltre chedell’art. 723 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, unitamente al vizio di omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
8. Cominciando, in ordine logico-giuridico, l’esame delle formulate censure con la considerazione del primo motivo del ricorso principale, rileva il collegio che esso deve essere dichiarato in parte inammissibile e in parte infondato.
La doglianza si prospetta, invero, inammissibile nella parte in cui con la stessa risultano denunciati vizi processuali ricondottiall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perché, con la relativa deduzione, la ricorrente principale ha inteso solamente far valere la supposta violazione di legge attinente alla qualificazione come testamento delle schede redatte dalla B.L. avuto riguardo all’interpretazione delle disposizioni in esse contenute e all’emergenza di un’effettiva manifestazione di volontà testamentaria, in tal senso prospettando anche il vizio di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Con riferimento a quest’ultimo pure deve pervenirsi ad una pronuncia di inammissibilità perché – applicandosi, nel caso di specie, la nuova formulazione della relativa previsione normativa come introdotta dalD.L. n. 83 del 2012,art.54, comma 1, lett. b), conv., con modif., dallaL. n. 134 del 2012, (sul presupposto che la sentenza impugnata è stata pubblicata successivamente all’il settembre 2012, in virtù di quanto stabilito dal citatoD.L. n. 83 del 2012,art.54, comma 3) – la Corte di appello di Firenze ha – in linea con la giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. Sez. U. n. 8053 e 8054 del 2014 e, da ultimo, Cass. n. 9253/2017) – certamente esaminato la relativa doglianza sul fatto decisivo della controversia riguardante l’asserita invalidità del testamento della B., adottando una motivazione sicuramente sufficiente, non omettendola né fornendo una giustificazione argomentativa sul piano logico-giuridico meramente apparente del suo convincimento.
Il prospettato vizio di violazione di legge è, invece, privo di fondamento.
Infatti, il giudice di appello ha espressamente e logicamente motivato sull’effettività dell’emergenza dal contenuto delle schede testamentarie della univoca volontà della testatrice nel rendere le disposizioni ereditarie (riguardanti i beni immobili alla stessa appartenenti) in favore dei due figli, ancorché emesse nel convincimento (o, comunque, nell’auspicio) della ritenuta corrispondenza ai loro stessi desideri. Certamente questa finalità rafforzativa della volontà della de cuius (compendiata nell’espressione dell’incipit “…dedico ai miei due carissimi figli – per testamento il mio avere – come già da loro espresso desiderio nella divisione di: a mia figlia….; a mio figlio…”) non poteva aver determinato il venir meno del presupposto intento pienamente volitivo della testatrice, né può ritenersi che, nel caso di specie, come sostenuto dalla ricorrente principale, si fosse venuta a configurare una ipotesi di “errore sul fatto”, nel senso che la suddetta volontà era stata condizionata in modo decisivo dalla rappresentazione di un fatto (da inquadrarsi in senso oggettivo) non vero (cfr. Cass. n. 24637/2010).
Invero, secondo la concorde giurisprudenza di questa Corte (v., anche, Cass. n. 2152/1966 e Cass. 2132/1971), l’errore sul motivo, assuntodall’art. 624 c.c., comma 2, quale causa di annullamento di disposizioni testamentarie, si identifica in quello che cade sulla realtà obiettiva e non già sulla valutazione che di essa abbia fatto il testatore, nel suo libero ed insindacabile apprezzamento circa l’importanza e le conseguenze della realtà stessa, in relazione alle sue personali vedute ed aspirazioni ed ai fini perseguiti nel dettare le sue ultime volontà (donde tale soggettiva valutazione della realtà obiettiva è da qualificarsi come giuridicamente irrilevante). Peraltro, l’apprezzamento del giudice del merito circa l’esistenza o meno del motivo erroneo, dedotto quale causa di annullamento del testamento, è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici ed errori di diritto, come verificatosi nella fattispecie.
In altri termini, il giudice di appello ha, nella vicenda che ci occupa, legittimamente ritenuto che il contenuto dei testamenti (con cui aveva disposto del suo complessivo patrimonio immobiliare) corrispondesse alla reale volontà della testatrice, senza che essi contenessero alcun errore (escludendosi, perciò, la supposta violazionedell’art. 624 c.c.), inteso nel senso di distorsione della realtà oggettiva, esprimendo gli stessi soltanto una convinzione maturata dalla B. e legittimamente dalla stessa posta a base delle proprie disposizioni di ultima volontà.
9. La seconda, complessa, censura dedotta con il ricorso principale – nei termini prima richiamati – è, ad avviso del collegio, da dichiarare inammissibile con riguardo alla dedotta violazione ricondottaall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (per le stesse ragioni esposte con riferimento al primo motivo, avendo la Corte territoriale comunque esaminato l’ulteriore fatto decisivo della causa riferito alla contestata validità della divisione operata con testamento dalla B.), infondata in relazione al supposto vizio di omessa pronuncia (palesemente insussistente) mentre è da ritenersi fondata in ordine alla denunciata violazione degliartt. 734 e 735 c.c..
E’ opportuno premettere che l’attuale ricorrente principale, fin dall’originario atto di citazione, aveva richiesto (ribadendo le domande anche in sede di precisazione delle conclusioni) – subordinatamente alla domanda principale di dichiarazione di invalidità e/o di inefficacia dei testamenti olografi della B. (come detto rigettata con la sentenza di primo grado e confermata sul punto dalla sentenza d’appello, il cui motivo, riproposto in questa sede, è stato respinto per quanto chiarito in ordine alla prima censura) – che venisse, comunque, accertata e dichiarata la nullità dei testamenti stessi ai sensidell’art. 735 c.c., comma 1, o, comunque, della sola divisione sempre in virtù della stessa norma (v. pagg. 6-8 del ricorso) per pretermissione del coniuge legittimario (ancora vivente al momento dell’apertura della successione, ancorché deceduto poco tempo dopo). Da ciò sarebbe derivata la conseguente dichiarazione che allo stesso legittimario pretermesso (poi deceduto) spettava (ai sensidell’art. 542 c.c., comma 2) la quota di riserva di 1/4 dell’eredità relitta della B. e che, pertanto, a seguito della sopravvenuta morte (“ab intestato”) del padre (marito della B.), previo accertamento che ella era erede legittima del padre per la quota del 50% ed in accoglimento dell’azione di riduzione cumulativamente proposta (quale, appunto, erede di L.D.), alla medesima avrebbe dovuto essere riconosciuta una quota pari al 50% dell’intero asse relitto dalla madre B.L..
Le domande formulate in via subordinata venivano accolte con la sentenza di primo grado del Tribunale di Firenze, il quale riteneva fondata l’azione di riduzione proposta dall’attrice in qualità di erede del padre successivamente deceduto (provvedendo alle relative riduzioni) e dichiarava la nullità della divisione di cui alle impugnate schede testamentarie della B.L., con il conseguente riconoscimento del diritto della L.S.M. a succedere nella misura della metà dell’intero asse relitto di B.L. di cui alle stesse schede testamentarie, provvedendo, inoltre, sull’approvazione del rendiconto.
La Corte di appello di Firenze (la cui sentenza qui impugnata e per come depositata nell’interesse della ricorrente principale nella forma di cuiall’art. 369 c.p.c., comma 2, pur essendo monca della pag. 9, risulta sufficientemente intelligibile ai fini dell’esame del secondo motivo, anche alla stregua del concorde richiamo del relativo contenuto nei rispettivi ricorsi di entrambe le parti in questa fase di legittimità), adita dal L.L., pur dando atto che non era stato proposto gravame dal predetto appellante sul punto della decisione di primo grado con cui erano state accertate la lesione dei diritti del legittimario L.D. e l’ammissibilità dell’azione di riduzione esercitata dalla L.S.M. quale erede dello stesso legittimario pretermesso (v. pag. 8 della sentenza di appello, donde la formazione dell’acquiescenza su tale questione e il relativo passaggio in giudicato sull’intervenuto accoglimento della inerente domanda), ha riformato la sentenza di primo grado proprio con riferimento alla dichiarazione di nullità della divisione quale conseguenza dell’accoglimento dell’azione di riduzione e nella parte in cui aveva accertato e dichiarato il diritto della L.S.M. di succedere nella metà dell’intero asse relitto.
Così statuendo, però, la Corte territoriale è incorsa nella denunciata violazione dell’art. 734 e, soprattutto,dell’art. 735 c.c..
Ad avviso del collegio, infatti, risulta erronea la sentenza impugnata nella parte in cui con essa è stata riformata la decisione di primo grado, dovendo, invece, pervenirsi – come domandato nell’originaria citazione dalla L.S.M. (che non si era, quindi, limitata solo a proporre, in via pregiudiziale, una domanda di riduzione quale erede del padre successivamente deceduto) – alla dichiarazione di nullità della divisione operata direttamente dalla testatrice che aveva disposto dei suoi beni pretermettendo il coniuge legittimario.
Così provvedendo, il giudice di appello è incorso, specificamente, nella violazione del primo comma del citatoart. 735 c.c., determinando il mancato riconoscimento, in favore della ricorrente principale, del diritto a succedere nella metà (indistinta) dell’intero asse relitto dalla B., stante l’assenza nel testamento “di criteri per la definizione delle quote da assegnare” a ciascuno dei due eredi parti in causa (con totale pretermissione del coniuge legittimario, non istituito formalmente coerede, che aveva legittimato la stessa L.S.M. ad agire per la relativa azione di riduzione essendo a sua volta diventata coerede del padre, nelle more deceduto senza testamento), sul presupposto che l’istituzione di eredi testamentari era stata fatta dalla “de cuius” per cespiti immobiliari nominati (in funzione, per l’appunto, divisoria tra i due germani eredi) e non per quote.
Ha, quindi, errato la Corte fiorentina laddove ha ritenuto che la nullità della divisione contemplatadall’art. 735 c.c., comma 1, operi solo nell’ipotesi in cui il testatore abbia espressamente previsto che il legittimario debba essere soddisfatto con beni non compresi nel relictum, ritenendo, invece, esclusa l’operatività di siffatta nullità nel caso di pretermissione del legittimario dal testamento e dalla divisione, sul presupposto che, in tal caso, la divisione sarebbe idonea a conservare i suoi effetti previa riduzione delle assegnazioni e, quindi, facendo in modo che l’erede pretermesso possa essere soddisfatto con beni provenienti dal relictum, da prelevarsi proporzionalmente da quelli attribuiti agli eredi testamentari.
Così statuendo, infatti, il giudice di appello ha illegittimamente assoggettato alla stessa disciplina il caso della pretermissione dell’erede legittimario e quello della lesione della quota di legittima che, invece, il legislatore ha voluto mantenere distinti, prevedendo una differenziata disciplina contenuta, rispettivamente, nel primo e nel più volte menzionatoart. 735 c.c., comma 2.
Infatti, in virtù del disposto di cui al primo comma di detta norma, in caso di divisione testamentaria con pretermissione del legittimario, la divisione proprio perché ne è impedita la realizzazione della causa per effetto dell’anomalia funzionale dipendente dalla mancata previsione della partecipazione ad essa di un avente diritto – è da ritenersi nulla (v. Cass. n. 2367/1970; Cass. n. 2870/1972 e, in motivazione, anche se solo per obiter, Cass. Sez. U. n. 20644/2004), ragion per cui deve escludersi, in tale ipotesi, la configurabilità dell’efficacia reale della c.d. divisici inter liberos (ritenuta, invece, operante dalla Corte di appello toscana), derivando dalla nullità della divisione testamentaria il ripristino della comunione ereditaria.
Essendo stata, quindi, nella concreta fattispecie, proficuamente reclamata, in via preliminare, la quota ereditaria riservata al legittimario per mezzo dell’accolta azione di riduzione esperita dalla ricorrente principale quale legittima erede del padre pretermesso (v., per idonei riferimenti, anche Cass. n. 3599/1992 e Cass. n. 3694/2003), il giudice di appello avrebbe dovuto ritenere fondata (come, del resto, aveva rilevato correttamente il giudice di prime cure) la correlata domanda di nullità del riparto divisorio così come operato di sua iniziativa dalla testatrice con attribuzione diretta di distinti cespiti dell’intero patrimonio ereditario immobiliare, concretamente individuati, in favore dei due figli a causa della “preterizione divisoria del legittimario”.
In definitiva, in accoglimento per quanto di ragione (ovvero relativamente alla denuncia violazione di legge sostanziale) del secondo motivo dedotto con il ricorso principale, la sentenza della Corte di appello di Firenze deve essere cassata “in parte qua”, enunciandosi – ai sensidell’art. 384 c.p.c., comma 2, il principio di diritto secondo cui “deve essere accolta la domanda di nullità, proposta dal legittimario pretermesso nel testamento (o, in sostituzione del medesimo, da un suo erede, come verificatosi nel caso di specie), della divisione del patrimonio ereditario disposta direttamente dal testatore qualora Io stesso legittimario (o un suo erede agente “iure successionis”), da considerarsi preterito per non essere stato compreso nella divisione, abbia positivamente esperito in via preventiva l’azione di riduzione”.
Alla ritenuta fondatezza di detta censura nei richiamati termini consegue, per derivazione logico-giuridica, la dichiarazione di assorbimento dei residui motivi proposti con il ricorso principale e di tutti quelli avanzati con il ricorso incidentale.
Il giudice di rinvio (che si designa in altra Sezione della Corte di appello di Firenze), oltre a conformarsi al su riportato principio di diritto, provvederà anche a regolare le spese della presente fase di giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale; accoglie, per quanto di ragione, il secondo motivo dello stesso ricorso principale e dichiarata assorbiti gli altri motivi del ricorso principale e tutti i motivi del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la regolazione delle spese della presente fase di legittimità, ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze.