Gravano sul coniuge assegnatario le spese di utilizzazione e manutenzione dell’abitazione coniugale

Cass. civ. Sez. VI – 1, 7 maggio 2018, n. 10927
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2833/2017 proposto da:
P.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TINTORETTO 88, presso lo studio dell’avvocato CIRO GALIANO, rappresentato e difeso da se medesimo;
– ricorrente –
contro
D.F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FEDERICO FERINA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5170/2016 del TRIBUNALE di PALERMO, depositata il 19/10/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 22/03/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 30 settembre 2013, P.C. conveniva in giudizio, dinanzi al Giudice di Pace di Palermo, la moglie separata, D.F.A., verso la quale chiedeva di rivalersi per la Tarsu del 2012 che egli aveva corrisposto integralmente, mentre tenuta a corrisponderla era la D.F. per l’intera quota dell’imposta relativa a periodo successivo all’assegnazione della casa coniugale di cui era comproprietaria.
La D.F., costituitasi in giudizio, proponeva domanda riconvenzionale per far dichiarare il P. debitore delle somme da essa corrisposte per le utenze familiari relative all’abitazione coniugale, in relazione alle quali eccepiva la compensazione con il credito da lui azionato.
Il Giudice di Pace riteneva che le parti fossero tenute a pagare il debito tributario in via solidale per il periodo precedente alla separazione e che la D.F. fosse unica obbligata per il periodo successivo, in quanto assegnataria ed unica utilizzatrice dell’abitazione; tuttavia, dichiarava il credito Tarsu vantato dal P. compensato con il maggior credito vantato dalla D.F. a titolo restitutorio per le spese da lei sostenute per le utenze domestiche e lo condannava a pagare la differenza.
Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 19 ottobre 2016, ha rideterminato in diminuzione l’importo dovuto dal P. (Euro 641,61) come differenza tra quanto dovuto alla D.F. per la metà delle spese relative alle utenze domestiche e quanto dovuto al P. a titolo restitutorio della Tarsu.
Avverso la predetta sentenza, il P. ha proposto ricorso per cassazione, resistito dalla D.F. con controricorso e memoria.

Motivi della decisione
Con un unico motivo exart. 360 c.p.c., n. 3 il P. ha imputato al Tribunale di avere disposto la compensazione del suo credito restitutorio per le quote di Tarsu, da lui corrisposte nel periodo successivo all’assegnazione dell’abitazione coniugale, nel quale il debito gravava invece sul coniuge assegnatario, con un insussistente credito restitutorio della D.F., in relazione alle somme da lei spese per le utenze domestiche dell’abitazione coniugale.
Il motivo è fondato per le ragioni che si illustreranno di seguito, dopo avere precisato che l’assegnazione della casa coniugale esonera l’assegnatario esclusivamente dal pagamento del canone, cui altrimenti sarebbe tenuto nei confronti del proprietario esclusivo (o, in parte qua, del comproprietario) dell’immobile assegnato, sicché la gratuità dell’assegnazione dell’abitazione ad uno dei coniugi si riferisce solo all’uso dell’abitazione medesima (per la quale, appunto, non deve versarsi corrispettivo), ma non si estende alle spese correlate a detto uso (ivi comprese quelle che riguardano l’utilizzazione e la manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’abitazione familiare), le quali sono, di regola, a carico del coniuge assegnatario (Cass. n. 18476/2005). In tal senso la sentenza impugnata è condivisibile.
Con riguardo invece alle spese per le utenze domestiche nella fase precedente alla separazione, non sussiste il diritto al rimborso delle spese sostenute da un coniuge nei confronti dell’altro coniuge, in quanto effettuate per i bisogni della famiglia e riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cuiall’art. 143 c.c.(Cass. n. 10942/2015, n. 18749/2004). Da questo principio di diritto la sentenza impugnata si è ingiustificatamente discostata, dovendosi ribadire che nel periodo di convivenza matrimoniale entrambi i coniugi contribuiscono alle esigenze della famiglia, ed anche dei figli, in una misura che verosimilmente corrisponde alle possibilità di ciascuno, coerentemente con quanto previsto dall’art. 316 bis c.c., comma 1.
Le pronunce richiamate nella memoria D.F., prevedendo che il coniuge che abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all’altro coniuge, sia legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest’ultimo per il rimborso (Cass. n. 6819/2017, n. 27653/2011), non si riferisce al caso – come quello in esame – in cui le spese siano state sostenute da entrambi i coniugi per la famiglia e, quindi, anche per i figli, senza possibilità di distinguere tra quelle destinate all’una e agli altri. Il contenzioso postconiugale riguarda gli assetti patrimoniali successivi alla separazione e al divorzio, ma non è un’occasione per rimettere in discussione tutte le voci di spesa sostenute da ciascun coniuge, seppure per i figli, durante il rapporto matrimoniale.
La censura riguardante il governo delle spese di entrambi i gradi di merito è assorbita.
In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata è cassata con rinvio al Tribunale di Palermo, che dovrà fare applicazione dei predetti principi nella concreta fattispecie e provvedere sulle spese.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Palermo, in diversa composizione, anche per le spese.

Il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero da cittadino italiano e straniero non è trascrivibile come matrimonio ma come unione civile

Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2018, n. 11696
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11508/2016 proposto da:
F.T.C.H., P.D., domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato Santilli Stefania, giusta procure in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Sindaco del Comune di Milano, nella qualità di Ufficiale di Governo, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n.12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
Avvocatura per i Diritti LGBT – Rete Lenford, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Quirino Majorana n.171, presso lo studio dell’avvocato Caput Caterina, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Genova Giovanni, giusta procura in calce al controricorso al ricorso incidentale;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositato il 06/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/11/2017 dal cons. Dott. ACIERNO MARIA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale;
udito, per i ricorrenti, l’Avvocato Santilli Stefania che si riporta;
udito, per la controricorrente Avvocatura Diritti LGBTI, l’Avvocato Longo Paolo, con delega avv. Caput, che si riporta;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato Ferrante Wally che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, ha respinto il ricorso proposto da P.D. e F.C.H. volto a far dichiarare l’illegittimità del rifiuto di trascrizione del loro matrimonio celebrato in Brasile il (OMISSIS) e, successivamente, con rito civile in Portogallo il (OMISSIS).
2. A sostegno della decisione la Corte territoriale ha affermato che alla luce del complessivo quadro costituzionale e convenzionale i singoli Stati membri del Consiglio d’Europa conservano la libertà di scegliere il modello di unione (tra persone dello stesso sesso) giuridicamente riconosciuta nell’ordinamento interno e che in ordine a tale modello deve rinvenirsi una riserva assoluta di legislazione nazionale. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso non corrisponde al modello matrimoniale delineato dal nostro ordinamento e, di conseguenza, la trascrizione di un atto estero di tale contenuto determinerebbe un quadro d’incertezza incompatibile con l’assetto e la funzione della trascrizione.
3. Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione P.D. e F.H. sulla base di due motivi. Ha resistito con controricorso e ricorso incidentale il sindaco di Milano come Ufficiale del Governo ed ha proposto controricorso adesivo l’associazione “Rete Lenford”. Hanno depositato memoria i ricorrenti e i controricorrenti adesivi “Rete Lenford”.

Motivi della decisione
4. Deve rilevarsi, preliminarmente, che nelle more del giudizio per cassazione è intervenuta laL. n. 76 del 2016ed i decreti legislativi delegati previsti dall’art. 1, comma 28, lett. b) riguardanti l’adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni ed annotazioni nonché delle norme in materia di diritto internazionale privato. Sono stati, infatti, emanati rispettivamente iD.Lgs. 19 gennaio 2017 n. 5eD.Lgs. n. 7 del 2017.
4.1. L’illustrazione dei motivi di ricorso verrà, conseguentemente completata dalle integrazioni contenute nelle memorie depositate, dovendosi affrontare, tra gli altri, il profilo dell’applicabilità della nuova disciplina normativa anche ai rapporti sorti prima dell’entrata in vigore del nuovo complesso sistema legislativo, ed ai giudizi instaurati anteriormente ad esso.
5. Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione del principio generale del favor matrimonì in relazione agliartt. 2, 3 e 29 Cost., nonché del principio di tassatività e tipicità delle fattispecie, del principio della conservazione degli atti, del diritto alla vita familiare e del divieto di discriminazione. In particolare, le parti contestano che il matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero sia inidoneo alla produzione di effetti giuridici nel nostro ordinamento e che viga il principio di tassatività in ordine alla trascrizione degli atti. Viene rilevato che ilD.P.R. n. 396 del 2000,art.63, comma 2, stabilisce che i matrimoni celebrati all’estero, davanti all’autorità locale, secondo le leggi del luogo, devono essere trascritti nei registri dello stato civile e che laL. n. 218 del 1995,art.27afferma che la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale del nubendo. Infinel’art. 115 c.c.richiama per il cittadino italiano le norme nazionali sulle condizioni per contrarre matrimonio contenute negliartt. 84 c.c.e ss.. Nessuna di tali norme contiene riferimenti testuali diretti od indiretti alla diversità di sesso dei coniugi. Una volta soddisfatti i requisiti sostanziali di stato e capacità previsti dalla legge italiana il matrimonio del cittadino italiano celebrato nel rispetto della lex loci ha immediata validità nel nostro ordinamento. Alla luce di queste premesse, una volta superata anche dalla giurisprudenza di legittimità la tesi dell’inesistenza giuridica del matrimonio contratto tra persone dello stesso sesso e la vigenza dell’art. 9 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea e 12 della CEDU rimane priva di fondamento l’intrascrivibilità del predetto matrimonio. Se la differenza di sesso tra i nubendi non è un requisito necessario per la esistenza e validità del matrimonio non può neanche incidere sulla sua efficacia. Né può più ritenersi la contrarietà al parametro dell’ordine pubblico del matrimonio in questioneL. n. 218 del 1995, ex art. 16, essendo tale impedimento escluso dalla giurisprudenza di legittimità ed essendo applicabile il principio secondo il quale i matrimoni celebrati tra cittadini italiani e stranieri hanno immediata rilevanza nel nostro ordinamento sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera e sempre che sussistano i requisiti di capacità previsti dalla legge nazionale.
6. Nel secondo motivo viene dedotta specificamente la violazione del divieto di discriminazione in ordine all’affermazione della Corte d’appello secondo la quale il matrimonio tra persone dello stesso sesso non corrisponde alla tipologia di matrimonio delineato nel nostro ordinamento e perciò non è trascrivibile. La trascrizione ha solo efficacia certativa e non costitutiva di un atto che è immediatamente valido ed efficace tanto che non sarebbe consentito un secondo matrimonio di uno dei componenti l’unione coniugale in questione exart. 116 c.c..Inoltre il ricorrente di nazionalità brasiliana, ha ottenuto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari proprio in considerazione dell’unione matrimoniale. Alla luce della giurisprudenza Cedu in tema d’interpretazione degli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione non si riscontra alcuna proporzionalità nella soluzione adottata dalla Corte d’appello. Essa viola la vita privata e famigliare dei ricorrenti, la loro libertà individuale e li discrimina in ragione del loro orientamento sessuale.
7. Le ragioni dei ricorrenti sono state corroborate anche dal controricorso adesivo dell’Associazione “Rete Lenford”, in particolare sotto il profilo dell’insussistenza dell’impedimento dovuto alla contrarietà all’ordine pubblico da intendersi come ordine pubblico internazionale, attualmente del tutto aperto al riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso. La scelta del modello è rimessa al legislatore interno e non entra nella valutazione di compatibilità posta dal limite dell’ordine pubblico internazionale.
8. Nella memoria delle parti ricorrenti è stata evidenziata l’entrata in vigore dellaL. n. 76 del 2016e la previsione nell’art. 1, comma 28 lett. b), della delega al Governo per l’emanazione di decreti attuativi in ordine alla materia del diritto internazionale privato “prevedendo l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo”.
Nella relazione illustrativa era stato sostenuto che “per quanto riguarda il matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero, la soluzione obbligata è quella per cui lo stesso produce in Italia gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana, indipendentemente dalla cittadinanza (italiana o straniera) delle parti”. Successivamente, tuttavia, la Commissione affari Costituzionali del Senato e le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno rilevato che questa formulazione così ampia contraddicesse i principi generali in materia di diritto internazionale privato, determinando una situazione di disparità di trattamento tra coppie dello stesso sesso straniere coniugate all’estero e coppie unite all’estero da un vincolo diverso dal matrimonio. Da tale indicazione è sorta la formulazione dellaL. n. 218 del 1995, art. 32bis, che stabilisce solo per i cittadini italiani dello stesso sesso che abbiano contratto matrimonio all’estero la produzione nel nostro ordinamento degli effetti dell’unione civile.
La norma è applicabile soltanto nell’ipotesi in cui entrambi i nubendi siano italiani. La conclusione è suggerita dalla relazione accompagnatoria che riferisce la soluzione al matrimonio contratto all’estero, ove si tratti di cittadini italiani dello stesso sesso.
La norma sulla trascrizione applicabile, pertanto, è ilR.D. n. 1238 del 1939,art.125, comma 5, che prescrive la trascrizione nei registri di matrimonio degli atti di matrimonio celebrati all’estero.
Dunque la legge italiana non può più regolare situazioni, quali quella dedotta in giudizio, antecedenti il 5 giugno 2016 (data di entrata in vigore dellaL. n. 76 del 2016).
9. Nella memoria dell’associazione “Rete Lenford” viene affrontata specificamente la categoria delle coppie cd. miste, ovvero composte da un cittadino italiano ed un cittadino straniero con matrimonio celebrato all’estero. Questa tipologia di unione coniugale non può produrre gli effetti dell’unione civile, in quanto la citataL. n. 218 del 1995,art.32 bislimita tale peculiare effetto solo ai matrimoni contratti dai cittadini italiani. La conferma della correttezza dell’inapplicabilità della limitazione degli effetti alle coppie miste deriva dal confronto tra lo schema di decreto legislativo trasmesso una prima volta al Parlamento, che si riferiva genericamente al matrimonio contratto all’estero da persone dello stesso sesso, e il testo effettivamente adottato che si riferisce invece a “cittadini italiani dello stesso sesso”. Il rinvio esclusivo alla legge italiana avrebbe impedito l’applicazione delle regole di diritto internazionale privato il cui scopo è il coordinamento con gli ordinamenti stranieri.
Nella memoria viene, infine, sottolineato il difetto di coordinamento normativo tra ilR.D. n. 1238 del 1939,art.125, comma 5, n. 1, che prescrive la trascrizione nei registri di matrimonio celebrati all’estero e l’art. 134 bis, introdotto dalD.Lgs. n. 5 del 2017, secondo il quale tutti gli atti di costituzione delle unioni civili avvenute all’estero e gli atti di matrimonio tra persone dello stesso sesso avvenuti all’estero devono essere trascritti nel registro delle unioni civili. Si tratta di una dimenticanza del legislatore delegato, come sottolineato anche dal Consiglio Nazionale del Notariato. Deve pertanto ritenersi che il citato art. 134 bis sia applicabile soltanto ai matrimoni contratti da soli cittadini italiani all’estero in quanto non è plausibile che una tipologia di matrimonio che secondo le norme di diritto internazionale privato può essere trascritto come tale debba subire, per una disposizione relativa ad una fase meramente certativa, una sorte diversa. I matrimoni composti da coppie miste non sono stati celebrati all’estero con un intento elusivo, costituendo l’esercizio di un diritto soggettivo riconosciuto dall’art. 12 Cedu e 9 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’unione matrimoniale dedotta nel presente giudizio non solo è coerente con la lex soci, ma ha un elemento di transnazionalità che non è stato creato ad hoc ma è agganciato alla legge nazionale di uno dei coniugi, e, dunque, nell’esercizio di un diritto fondamentale. In conclusione, laL. n. 218 del 1995,art.32 bisnon è applicabile alla fattispecie.
9.1 L’applicazione del cd. downgrading (ovvero l’applicazione della disciplina normativa delle unioni civili) anche ai matrimoni cd. misti determinerebbe una violazionedell’art. 3 Cost.Ove si ritenga, contro il chiaro dato testuale, che l’art. 32 bis sopra citato sia applicabile alla fattispecie, deve essere prospettata eccezione d’illegittimità costituzionale delle seguenti norme:
-L. n. 76 del 2016,art.1, comma 28, lett. b)nella parte in cui prevede anche per i matrimoni formati all’estero da una coppia formata da un cittadino italiano e da uno straniero l’applicazione della disciplina dell’unione civile;
– ilR.D. n. 1238 del 1939,art.134 bis, comma 3, lett. a)nella parte in cui prevede che nel registro delle unioni civili di cui alR.D. n. 1238 del 1939,art.14, n. 4bis debbano trascriversi tutti gli atti di matrimoni tra persone dello stesso sesso avvenuti all’estero.
L’eccezione viene prospettata in relazione agliartt. 2, 3, 29 e 117 Cost.nonchè in relazione agli artt. 8 e 14 Cedu. L’interpretazione censurabile sarebbe infatti fondata soltanto sul sesso e sull’orientamento sessuale dei coniugi così violando il principio di uguaglianza.
In assenza dell’impedimento costituito dalla contrarietà all’ordine pubblico internazionale non è ragionevole ed è discriminatoria la disparità di trattamento tra matrimonio contratto all’estero da coppia eterosessuale e dello stesso sesso nell’ipotesi di matrimonio cd. misto.
10. ECCEZIONI PRELIMINARI D’INAMMISSIBILITA’ DEL RICORSO. Preliminarmente devono essere affrontate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso per cassazione prospettate dall’Avvocatura dello Stato in rappresentanza e difesa del Sindaco in qualità di ufficiale del Governo.
10.1 In primo luogo è stato dedotto il difetto di notifica del ricorso per cassazione al Procuratore generale presso la Corte di cassazione. Le parti ricorrenti hanno depositato all’udienza del 30 novembre 2017 la copia dell’avviso di ricevimento dell’atto regolarmente notificato al suddetto Procuratore generale. Deve, peraltro, evidenziarsi che il ricorso non deve essere notificato al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ma soltanto all’ufficio della Procura generale presso la Corte d’appello, in quanto parte del giudizio che ha dato luogo al provvedimento impugnato. La giurisprudenza costante di questa Corte, ha, al riguardo, stabilito che anche tale ultima omissione sia priva di rilievo ove le conclusioni del P.G. presso la corte d’appello siano state accolte dalla sentenza impugnata e il controllo di legittimità sia stato assicurato dalla partecipazione al procedimento davanti la Corte di cassazione del Procuratore generale che abbia, come nella specie, rassegnato le sue conclusioni (Cass. 11211 del 2014).
10.2 Il Procuratore generale, all’udienza pubblica del 30 novembre 2017, ha concluso per il rigetto del ricorso, richiamando gli orientamenti già espressi da questa Corte anteL. n. 76 del 2016, ed ha ritenuto la fattispecie dedotta in giudizio, ratione temporis, non regolata dalla nuova legge.
11. E’ stato prospettato dalla parte controricorrente anche un unico motivo di ricorso incidentale volto alla dichiarazione di nullità della sentenza impugnata e di tutto il procedimento per effetto della mancata notifica del ricorso introduttivo e del reclamo al Sindaco del comune di Milano in qualità di Ufficiale del Governo presso l’Avvocatura di Stato. Presumibilmente il ricorso ed il reclamo sono stati notificati direttamente al Sindaco e non presso l’Avvocatura di Stato, trascurando la sua qualità di Ufficiale del Governo nella specie, ma il giudice del merito, sia in primo che in secondo grado, non ha disposto la rinnovazione della notificazione.
11.1 La censura deve essere disattesa. Tra le attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale, ilD.Lgs. n. 267 del 2000,art.54include specificamente alla lettera a) la tenuta dei registri dello stato civile. Questa funzione pubblica viene svolta dal sindaco in qualità di Ufficiale del Governo. L’eccezione prospettata richiede il preventivo l’esame della natura dell’attività svolta dal Sindaco in tale peculiare ruolo. Può osservarsi al riguardo che si tratta dell’esercizio di una funzione certificativa a carattere dichiarativo del tutto priva di discrezionalità amministrativa, in quanto regolata esclusivamente da norme legislative o regolamentari che ne pongono in luce la vincolatività. Il potere di rifiuto della trascrizione dell’atto, se contrario all’ordine pubblico, si colloca all’interno dell’esercizio di una funzione amministrativa vincolata dal momento che il parametro alla luce del quale verificare la coerenza o la non conformità a tale canone deriva da un complesso tessuto costituzionale, convenzionale e legislativo e più specificamente, per gli ufficiali di stato civile, dalle prescrizioni, per essi cogenti, contenute nelle circolari del Ministero degli Interni al riguardo. L’ulteriore indice della natura vincolata della funzione svolta e della correlata situazione di diritto soggettivo del richiedente la trascrizione si può cogliere nella giurisdizione del giudice ordinario e nell’articolazione del rapporto tra organo giudicante e ufficiale dello stato civile così come previsto dalla norma. Al riguardo, a fronte del rifiuto alla trascrizione dell’atto, il richiedente può proporre ricorso giurisdizionale nei modi indicati nelD.P.R. n. 396 del 2000,art.95, comma 1e ai sensi del successivo art. 96, comma 1: “Il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile.
2. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare”.
L’audizione dell’ufficiale dello stato civile, ha, pertanto, natura eventuale, in quanto conseguente alle valutazioni relative alle esigenze istruttorie formulate dal Tribunale e non è, di conseguenza, idonea a predeterminare una partecipazione necessaria dell’Ufficiale dello stato civile al giudizio.
12. APPLICABILITA’ DELLAL. N. 76 DEL 2016E DEI DECRETI LEGISLATIVI DELEGATIVI N. 5 E 7 DEL 2017 AL GIUDIZIO. Pregiudiziale all’esame dei singoli motivi di ricorso è la verifica dell’applicabilità alla fattispecie dedotta in giudizio della nuova disciplina normativa relativa alle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Nella specie il matrimonio di cui si chiede la trascrizione è stato contratto prima del 5 giugno 2016, giorno in cui è entrata in vigore laL. n. 76 del 2016ed anche il giudizio è stato instaurato anteriormente a tale data.
La giurisprudenza di legittimità, in relazione a un caso analogo (matrimonio contratto all’estero da due cittadini italiani dello stesso sesso), con la sentenza n. 4124 del 2012 ha escluso la legittimità della trascrizione e, successivamente, con la sentenza n. 2400 del 2015 ha ritenuto inapplicabile il modello matrimoniale alle unioni omoaffettive, in una fattispecie sorta dal rifiuto di procedere alle pubblicazioni matrimoniali, nonostante la indubitabile riconducibilità di tali unioni tra le formazioni sociali che godono di pieno riconoscimento e protezione exart. 2 Cost..In entrambe le decisioni è stato evidenziato come sia l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sia l’art. 12 Cedu, non impongano agli Stati l’adozione del modello matrimoniale per il riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive al loro interno, ferma la necessità di garantire un grado di protezione dei diritti individuali e relazionali sorti da tali unioni tendenzialmente omogeneo a quelle coniugali.
La conseguenza, prospettata dal Procuratore Generale nella propria requisitoria, della inapplicabilità del nuovo regime giuridico introdotto dallaL. n. 76 del 2016, anche alla luce delle pronunce n. 138 del 2010 e 170 del 2014, è la radicale intrascrivibilità del matrimonio contratto da una coppia omoaffettiva all’estero.
Tale conclusione, tuttavia, non può essere integralmente condivisa, dal momento che laL. n. 76 del 2016oltre ad introdurre un peculiare modello giuridicamente riconosciuto per le unioni omoaffettive, ha regolato specificamente anche la disciplina delle trascrizioni dei matrimoni o delle unioni giuridicamente riconosciute di natura omoaffettiva contratte all’estero. Il legislatore ha avvertito l’inadeguatezza della regolazione dei rapporti di famiglia contenuti nel Titolo III, capo IV dellaL. n. 218 del 1995ed ha introdotto gli artt. 32 bis, ter, quater, quinquies. Gli artt. 32 ter e quater hanno ad oggetto l’individuazione della giurisdizione e della legge applicabile in ordine alla capacità e alle condizioni per contrarre matrimonio e allo scioglimento delle unioni civili. Gli artt. 32 bis e quinquies riguardano, invece, specificamente il tema degli effetti nel nostro ordinamento dei matrimoni e delle unioni civili (o istituti analoghi come precisa l’art. 32 quinquies) contratte all’estero da cittadini italiani. La definizione degli effetti rispettivamente del matrimonio e dell’unione civile (o istituto analogo) contratti all’estero da cittadini italiani non può essere temporalmente limitata, proprio in virtù dell’intrinseca ratio della novella, alle relazioni coniugali o alle unioni giuridicamente riconosciute, contratte dopo l’entrata in vigore della legge italiana né può essere condizionata dalla data d’instaurazione del giudizio. Nessuna delle due norme contiene la delimitazione dell’efficacia temporale del meccanismo legislativo di conversione (nell’ipotesi del matrimonio contratto all’estero) o di equiparazione degli effetti (nell’ipotesi dell’unione contratta all’estero) e, del resto, una previsione diversa avrebbe determinato un’ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento per i cittadini italiani che abbiano contratto matrimoni o unioni all’estero prima dell’entrata in vigore della nuova legge, ai quali sarebbe preclusa in via generale l’applicazione delle nuove norme di diritto internazionale privato, volte proprio ad evitare soluzioni di continuità e disomogeneità di condizioni di riconoscimento e di tutela all’interno del nostro ordinamento, con riferimento a situazioni omogenee.
L’applicazione delle nuove norme ai rapporti sorti prima della sua entrata in vigore non costituisce una deroga al principio d’irretroattività della legge, ma una conseguenza della specifica funzione di coordinamento e legittima circolazione degli status posta alla base della loro introduzione nell’ordinamento. L’esigenza primaria, indicata anche nellaL. n. 76 del 2016,art.1, comma 28, nel quale è definito l’ambito della delega al Governo nella materia, deve rinvenirsi proprio nella necessità di fornire un regime giuridico uniforme alle coppie che abbiano (già) contratto all’estero un matrimonio, unione civile od altro istituto. Poiché con il matrimonio o con l’unione civile od istituto analogo si costituisce uno status tipicamente a natura non istantanea, ma destinato a durare nel tempo quanto meno fino all’eventuale suo scioglimento, deve essere applicato, in tema di riconoscimento degli effetti di esso in ordinamento diverso da quello in cui il vincolo è stato contratto, il regime giuridico vigente al momento della decisione, non essendo costituzionalmente compatibile una soluzione che, solo in virtù di una preclusione temporale, potrebbe impedire il riconoscimento di effetti giuridici all’interno del nostro ordinamento a cittadini italiani e stranieri.
13. LA TRASCRIZIONE DEL MATRIMONIO CONTRATTO ALL’ESTERO DA UN CITTADINO ITALIANO E DA UN CITTADINO STRANIERO. Premessa l’astratta applicabilità del nuovo regime di diritto internazionale privato alla fattispecie dedotta in giudizio, ed in particolare degli artt. 32 bis e quinquies, specificamente riguardanti il riconoscimento di matrimoni o unioni riconosciute contratte all’estero, deve in primo luogo essere definito l’oggetto dell’accertamento relativo al riconoscimento dell’efficacia di atti, provvedimenti o sentenze straniere nel nostro ordinamento secondo laL. n. 218 del 1995, artt.64 e ss..
13.1 Il giudizio di riconoscimento degli atti e dei provvedimenti giurisdizionali esteri.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il sindacato giurisdizionale deve essere rivolto agli effetti che possono prodursi nel nostro ordinamento a causa del riconoscimento o, nella specie, della trascrizione dell’atto, senza che lo stesso possa essere sottoposto ad un sindacato contenutistico (Cass. 15343 del 2016) o, nel caso si tratti di una sentenza straniera, senza che si debba verificare la correttezza della soluzione adottata dal giudice straniero in relazione alla disciplina di diritto positivo interno (cfr. Cass. 9483 del 2013, sulla irrilevanza della diversità del regime patrimoniale coniugale vigente negli Stati Uniti rispetto a quello italiano).
Neanche l’accertamento dell’esistenza (o della mancanza) di analogo istituto nell’ordinamento italiano costituisce, in linea generale, un ostacolo impeditivo al riconoscimento, come è accaduto nelle pronunce che hanno riconosciuto provvedimenti e sentenze straniere di divorzio ancorché negli ordinamenti di provenienza non fosse conosciuta la separazione personale. Il limite effettivo, in ordine ai rapporti di famiglia, è costituito dal complesso dei principi anche di natura valoriale, costituzionale e convenzionale che, sul fondamento della dignità della persona, della uguaglianza di genere e della non discriminazione tra generi ed in relazione all’orientamento sessuale, determinano l’orizzonte non oltrepassabile dell’ordine pubblico internazionale. Un atto o provvedimento straniero che sia rispettoso di tale limite merita di essere riconosciuto nel nostro ordinamento con riferimento specifico agli effetti che è destinato a produrre.
13.2 La peculiarità della domanda.
L’applicazione dei principi sopra esposti alla fattispecie dedotta nel presente giudizio presenta delle peculiarità che meritano di essere sinteticamente rilevate.
Le parti ricorrenti hanno richiesto la trascrizione dell’atto di matrimonio come tale. Esse, come ribadito anche in tutti gli atti difensivi dimessi in giudizio, richiedono il riconoscimento della loro unione coniugale come matrimonio e non come unione civile. Non ritengono legittima l’applicazione del cd. downgrading ovvero la conversione della loro unione matrimoniale in unione civile. Non ritengono, di conseguenza, sufficiente che mediante la trascrizione negli atti del registro delle unioni civili del loro matrimonio si producano automaticamente nel nostro ordinamento gli effetti giuridici previsti dallaL. n. 76 del 2016e la conseguente, tendenziale, equiparazione delle tutele a quelle previste per l’unione coniugale con i limiti in essa indicati e salva la clausola di salvaguardia per i diritti già riconosciuti in sede giurisdizionale, contenuta nellaL. n. 76 del 2016,art.1, comma 20.
Alla peculiarità della domanda proposta dalle parti ricorrenti corrisponde specularmente la complessità del sistema giuridico ad essa astrattamente applicabile. Deve rilevarsi, al riguardo, che le norme di diritto internazionale privato (L. n. 218 del 1995,artt.64 e ss; per i provvedimenti ed atti in materia di famiglia, artt. 65 e 66), come già evidenziato, concernono il riconoscimento degli effetti dell’atto. L’impedimento costituito dalla contrarietà all’ordine pubblico, nella configurazione sopra delineata, coerente con gli orientamenti di questa Corte (Cass. 11599 del 2016 e S.U. 16601 del 2017), riguarda gli effetti e non la qualificazione dell’atto. A tal proposito deve precisarsi che la disciplina contenuta nellaL. n. 218 del 1995,art.28, relativa alla validità formale del matrimonio, riguarda la legge applicabile e non il riconoscimento o la trascrizione dell’atto formato all’estero. Ai fini dell’individuazione della legge applicabile per la validità formale dell’atto, in via generale, concorre con gli altri criteri anche quello del luogo della celebrazione ma tale disposizione non incide sulla determinazione degli effetti nonché delle condizioni e capacità matrimoniali che, anche ai fini della legge applicabile, sono regolate dal criterio della legge nazionale dei contraenti (art. 27). Quest’ultima, ove diversa, darà luogo ad ambiti di riferimento giuridico diverso, rispetto ai quali non viene indicato un criterio di prevalenza.
Nel caso di specie, la non contrarietà all’ordine pubblico internazionale, così come interpretato dal legislatore dellaL. n. 76 del 2016e dei decreti delegati, del riconoscimento del matrimonio e delle unioni civili o istituti analoghi contratti all’estero, è consacrata dallaL. n. 218 del 1995,artt.32 bise quinquies. Gli atti di matrimonio e di unioni riconosciute producono senz’altro effetti giuridici nel nostro ordinamento secondo il regime di convertibilità stabilito dalle nuove norme.
13.3 L’esame del quadro giuridico di riferimento.
La norma cardine per stabilire entro che limiti può essere riconosciuto nel nostro ordinamento l’atto di matrimonio dedotto nel presente giudizio è laL. n. 218 del 1995,art.32 bis.
La norma dispone che “Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana.” La formulazione vigente è frutto di una modifica del testo iniziale, dovuta all’intervento correttivo sollecitato dalle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia sul testo precedente che non prevedeva la limitazione della conversione in unione civile ai matrimoni contratti da “cittadini italiani” all’estero ma si riferiva genericamente ai matrimoni contratti all’estero, comprendendovi anche i cittadini stranieri. Tale estensione è stata ritenuta ingiustificata rispetto alla ratio antielusiva posta a base della nuova norma. In particolare si è ritenuto che quando il matrimonio è stato contratto all’estero da cittadini stranieri non può ravvisarsi in esso alcun intento di aggiramento dellaL. n. 76 del 2016e del modello di unione civile vigente nel nostro ordinamento, così da doversi escludere la necessità di derogare alle regole generalmente applicabili di diritto internazionale privato in relazione alla legge applicabile a tale relazione coniugale. In tale peculiare ipotesi non può essere ignorato il carattere intrinsecamente transnazionale del rapporto matrimoniale contratto tra cittadini stranieri, in quanto caratterizzato da un sufficiente grado di estraneità rispetto al nostro ordinamento, con conseguente operatività dei criteri di collegamento stabiliti negli artt.da 26 a 30dellal. n. 218 del 1995o, ove applicabili, dei regolamenti UE in materia matrimoniale (Regolamento CE n. 2201 del 2003 e 1259 del 2010).
L’art. 32 bis, in conclusione, non trova applicazione diretta nell’ipotesi in cui venga richiesto il riconoscimento di un’unione coniugale contratta all’estero tra due cittadini stranieri. Il matrimonio dovrebbe essere trascritto, in questa ipotesi, come tale, senza operare alcuna conversione ancorché ilR.D. n. 1238 del 1939,art.63, così come modificato dalD.Lgs. n. 5 del 2017, non preveda un registro dei matrimoni contratti da cittadini stranieri dello stesso sesso all’estero ma, al contrario, per questa ipotesi stabilisca, verosimilmente per un difetto di coordinamento con l’altroD.Lgs. n. 7 del 2017, all’art. 63, comma 2, lett. c-bis, che anche tali atti vadano trascritti nel registro delle unioni civili. Tale profilo critico, tuttavia non incide sull’applicazione della regola sostanziale della lex fori, in considerazione della funzione meramente certificativa della trascrizione di un atto che sia idoneo a produrre effetti nell’ordinamento ove ciò sia stato richiesto in forza di una norma di legge o di un provvedimento giurisdizionale.
Il testo dell’art. 32 bis lascia tuttavia irrisolta la questione, formante oggetto del presente giudizio, relativa alla trascrizione in Italia del matrimonio tra persone dello stesso sesso, di cui una sia cittadino italiano e l’altro cittadino straniero, contratto all’estero.
Come già rilevato, le nuove norme regolative della trascrizione (e della conseguente produzione degli effetti nel nostro ordinamento) delle unioni matrimoniali (o delle unioni civili) omoaffettive contratte all’estero sono l’art. 32 bis e l’art. 32 quinquies.
Dall’esame coordinato di esse può essere ricavato in primo luogo il principio, definito efficacemente dalla dottrina di ordine pubblico “positivo” di netto favor in ordine al riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive ed all’accesso alle unioni civili exL. n. 76 del 2016. L’art. 32 quinquies contiene una clausola di salvaguardia secondo la quale le unioni civili o altri istituti analoghi, anche se non dotati di un complesso di strumenti di tutela equiparabili a quelli contenuti nellaL. n. 76 del 2016, producono gli stessi effetti delle unioni civili regolate dalla legge italiana. La norma stabilisce la prevalenza della legge italiana rispetto a leggi straniere che non tutelino in maniera equivalente tali unioni e costituisce uno degli indicatori della centralità e l’esclusività della scelta adottata dal legislatore italiano in ordine al riconoscimento delle unioni omoaffettive.
L’art. 32 bis completa, pertanto, il quadro degli effetti che possono produrre le diverse tipologie di unioni formate da coppie omoaffettive nel nostro ordinamento, in quanto stabilisce anche per l’ipotesi dell’unione coniugale contratta all’estero quantomeno la produzione degli effetti dell’unione civile exL. n. 76 del 2016.
Deve, in conclusione, ritenersi che il legislatore italiano abbia inteso esercitare pienamente la libertà di scelta del modello di riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive coerentemente con il quadro convenzionale (artt. 8 e 12 Cedu) e con quello derivante dal sistema anche costituzionale dell’Unione Europea (art. 9 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
È stato prefigurato un sistema di riconoscimento delle unioni omoaffettive, contratte all’estero, fondato sulla preminenza del modello adottato nel diritto interno delle unioni civili. Con laL. n. 76 del 2016il legislatore ha colmato il vuoto di tutela che caratterizzava l’ordinamento interno, così come richiesto dalla Corte Cost. con la sentenza n. 170 del 2014 e dalla Corte Europea dei diritti umani nella sentenza Oliari contro Italia (sentenza del 21 luglio 2105 ricorsi n. 18766 e 36030 del 2011), operando una scelta diversa da quella di molti altri Stati, fondata, invece sull’adozione del modello matrimoniale. Tale scelta è stata il frutto dell’esercizio di una discrezionalità legislativa del tutto rientrante nel “potere di apprezzamento degli Stati” indicato dalla giurisprudenza della Corte Edu proprio con riferimento all’interpretazione dell’art. 12 (Sentenza Schalk e Kopf del 3 giugno 2010, ricorso n. 30141 del 2004) e della precisa indicazione proveniente dalla citata sentenza n. 170 del 2014. Per le unioni omoaffettive è stato scelto un modello di riconoscimento giuridico peculiare, ancorché in larga parte conformato, per quanto riguarda i diritti ed i doveri dei componenti dell’unione, al rapporto matrimoniale. Alla diversità della “forma” dell’unione civile rispetto al matrimonio corrisponde, peraltro, un’ampia equiparazione degli strumenti di regolazione, realizzata attraverso la tecnica del rinvio alla disciplina codicistica del rapporto matrimoniale da ritenersi, anche in ordine alla funzione adeguatrice della giurisprudenza, il parametro di riferimento antidiscriminatorio.
13.4 Il riconoscimento del matrimonio formato all’estero da cittadino italiano e cittadino straniero.
Prima di procedere all’esame del nuovo sistema di diritto internazionale privato relativo agli effetti dei matrimoni e delle unioni contratte all’estero da cittadini dello stesso sesso, è necessario ribadire che all’esito del rifiuto della trascrizione dell’atto (o in virtù dell’opposizione al riconoscimento di un titolo giurisdizionale estero), il sindacato giurisdizionale riguarda gli effetti dell’atto o del provvedimento e non è limitato alla forma dello stesso. Il riconoscimento dell’atto determina il regime giuridico applicabile secondo le norme di collegamento di diritto internazionale privato elaborate dalD.Lgs. n. 7 del 2017(prevalentemente coerenti con quelle preesistenti salve le esigenze di adeguamento dovute al nuovo istituto dell’unione civile).
Nel caso di specie occorre stabilire se trova applicazione la limitazione degli effetti stabilita nell’art. 32 bis alla fattispecie peculiare dedotta in giudizio o se l’atto in oggetto può essere trascritto come unione matrimoniale (e non come unione civile).
La specialità della normazione introdotta con ilD.Lgs. n. 7 del 2017, nel sistema previgente di diritto internazionale privato, determina l’applicazione di questo peculiare regime giuridico degli effetti degli atti formati all’estero, nell’ambito delle unioni omoaffettive. La disciplina generale contenuta nella L. n. 219 del 1995, artt. 24 e segg. è integrata da quella puntuale sopra indicata e il rispetto del limite costituito dall’ordine pubblico internazionale non deve essere oggetto di un esame specifico, essendo già stato oggetto della valutazione operata dal legislatore all’interno del nuovo regime giuridico di carattere specialeL. n. 76 del 2016, ex art. 1, comma 28. Le unioni omoaffettive nel nostro ordinamento non contrastano con l’ordine pubblico internazionale e, conseguentemente, anche quelle contratte all’estero devono essere riconosciute ed assistite da un sistema di tutele adeguato. La compatibilità dei modelli adottati all’estero (matrimonio od unione civile) nel nostro ordinamento trova una regolazione puntuale con i meccanismi di conversione elaborati dal legislatore delD.Lgs. n. 7 del 2016. Tale complesso di regole definisce, tuttavia, anche il perimetro all’interno del quale tali unioni producono effetti nel nostro ordinamento. La libertà di scelta del modello di unione omoaffettiva rimessa ai singoli Stati si estende, a fini antielusivi e di coerenza antiscriminatoria del sistema di regolazione interna, anche alla produzione degli effetti degli atti formati all’estero, salva l’ipotesi della totale transnazionalità di essi (matrimonio contratto all’estero da cittadini entrambi stranieri).
All’interno del quadro che si è delineato non risulta disagevole l’interpretazione della L. n. 219 del 1995, art. 32 bis.
Sul piano strettamente testuale, come è stato rilevato anche dalla dottrina, si può cogliere una differenza rilevante tra la formulazione dell’art. 32 bis e quella dell’art. 32 quinquies. Nella prima norma l’ambito soggettivo di applicazione del nuovo regime riguarda in generale “il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani” mentre l’art. 32 quinquies, che estende il sistema di tutele previsto dallaL. n. 76 del 2016anche ad istituti analoghi, si riferisce ad unioni costituite all’estero “tra cittadini italiani”, oltre a richiedere l’ulteriore requisito dell’abituale residenza in Italia. La differenza testuale ha un significato logico-giuridico chiaro. L’art. 32 bis esprime la nettezza della scelta legislativa verso il modello dell’unione civile, limitando gli effetti della circolazione di atti matrimoniali relativi ad unioni omoaffettive a quelle costituite da cittadini entrambi stranieri, come rileva l’indicatore costituito dall’uso del “da”, rispetto alla diversa opzione adottata dall’art. 32 quinquies che ha una ratio estensiva del regime giuridico di riconoscimento e tutela contenuto nellaL. n. 76 del 2016a tutti i cittadini italiani, ancorché abbiano dato vita all’estero ad un vincolo munito di un grado inferiore di diritti.
La soluzione indicata è coerente anche con il regime giuridico di diritto internazionale privato relativo alla capacità e alle condizioni per contrarre matrimonio. L’art. 27, applicabile nella specie, rinvia alla legge nazionale di ciascuno dei nubendi. Tale criterio nella specie creerebbe un conflitto non risolvibile in ordine alla forma ed agli effetti della trascrizione dell’atto contratto all’estero ove non si adottasse la soluzione interpretativa dell’art. 32 bis cui si è acceduto.
Si deve, inoltre, rilevare, che se l’art. 32 bis si applicasse anche ai cd. matrimoni “misti”, ovvero contratti da un cittadino italiano e da un cittadino straniero, si determinerebbe una discriminazione cd. “a rovescio” tra i cittadini italiani che hanno contratto matrimonio all’estero e possono “trasportare” forma ed effetti del vincolo nel nostro ordinamento e quelli che hanno contratto un’unione civile in adesione al modello legislativo applicabile nel nostro ordinamento.
13. 5 Le eccezioni d’illegittimità costituzionale.
Alla luce del quadro costituzionale, convenzionale e di diritto interno delineato, non possono essere accolte le eccezioni d’illegittimità costituzionale formulate dall’interveniente Associazione Rete Lenford. Premessa l’applicabilità diretta della L. n. 219 del 1995, art. 32bis in quanto norma diretta proprio a regolare la circolazione ed il riconoscimento degli effetti degli atti di matrimonio contratti da coppie omoaffettive all’estero, così come richiesto dalla delega contenuta nellaL. n. 76 del 2016,art.1, comma 28, la non trascrivibilità dell’atto di matrimonio formato da un cittadino straniero ed un cittadino italiano non costituisce il frutto di un quadro discriminatorio per ragioni di orientamento sessuale o un’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente incompatibile con il limite antidiscriminatorio, dal momento che la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli stati membri, salva la definizione di uno standard di tutele coerenti con l’interpretazione del diritto alla vita familiare ex art. 8 fornita dalla Corte Edu. La discriminazione tra cittadini italiani non è ravvisabile ed anzi, come rilevato, un profilo di discriminazione inversa potrebbe individuarsi nella scelta ermeneutica contraria. La discriminazione per orientamento sessuale dei cittadini stranieri in ordine alla libertà di circolazione e di stabilimento è del pari non rilevabile dal momento che l’unione omoaffettiva riconosciuta all’estero secondo il paradigma matrimoniale non è priva di effetti nel nostro ordinamento e la regolazione dei rapporti personali e patrimoniali tra i componenti dell’unione rimane disciplinata dal sistema generale di diritto internazionale privato (artt. 26 e ss.).
Infine la specialità del nuovo regime giuridico come illustrato evidenzia, da un lato, che non può essere valutato il limite dell’ordine pubblico internazionale in astratto, disancorato dalle norme di diritto internazionale privato concretamente in vigore, e, dall’altro, che la scelta legislativa è del tutto compatibile con tale parametro.
13.6 In conclusione il ricorso deve essere rigettato. La assoluta novità della questione impone la compensazione delle spese processuali del presente giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Compensa le spese processuali del presente giudizio.
In caso di diffusione omettere le generalità e i riferimenti geografici.

La competenza nel reato di maltrattamenti si individua nel luogo della condotta al momento della presentazione della denuncia

Cass. pen. Sez. VI, 28 aprile 2018, n. 18175
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
V.G., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 21/09/2017 della CORTE APPELLO di PALERMO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ANNA CRISCUOLO;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FILIPPI Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. VETRO Antonia, che si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.

Svolgimento del processo
1. Il difensore di V.G. ha proposto ricorso avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa in data 21 giugno 2016 dal Tribunale di Agrigento che aveva condannato l’imputato alla pena di anni 2 di reclusione per il delitto di maltrattamenti in danno della convivente, riconosciute attenuanti generiche equivalenti alla recidiva specifica reiterata infraquinquennale contestata.
Ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi:
1.1 violazionedell’art. 8 c.p.p., comma 1, in materia di competenza territoriale nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione: deduce che la Corte di appello ha confermato la decisione del primo giudice, che aveva respinto l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata, modificando la motivazione del giudice di primo grado, il quale aveva ritenuto che i fatti oggetto di distinte denunce, la prima sporta a (OMISSIS), la seconda a (OMISSIS), fossero in continuazione e di pari gravità con conseguente radicamento della competenza nel luogo di commissione del primo reato ai sensidell’art. 16 c.p.p., mentre la Corte di appello ha giustificato la competenza del giudice di Agrigento erroneamente assimilando il reato abituale al reato permanente, al quale unicamente si applica il criterio di cuiall’art. 8 c.p.p., comma 3. Il reato di maltrattamenti si consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti e nel caso di specie ciò è avvenuto in (OMISSIS), dove fu sporta la denuncia per l’ultimo episodio del luglio 2010, mentre nella precedente denuncia la persona offesa riferiva un unico episodio, senza menzionare condotte precedenti di maltrattamento, cosicché prima della seconda denuncia non era emersa l’abitualità della condotta;
1.2 errata applicazionedell’art. 572 c.p., e vizio di motivazione, mancando nel caso in esame gli elementi tipici dl reato, in quanto manca l’abitualità della condotta e la persona offesa non è stata in grado di riferire alcun episodio specifico di ingiurie, minacce o violenza, limitandosi ad affermare che il compagno la picchiava spesso e la ingiuriava dicendole che gli aveva rovinato la vita; anche dopo la separazione, la riconciliazione e la nuova separazione non ha indicato fatti specifici, cosicché è stata in grado di circostanziare solo i due episodi denunciati; manca lo stato di vessazione psicologica della vittima, non risultando che la persona offesa abbia vissuto in una condizione di soggezione o timore del compagno, tant’è che appena un mese dopo il primo allontanamento da casa, ritornò insieme al compagno a (OMISSIS) e anche dopo la seconda denuncia condusse la figlia presso il padre;
1.3 violazionedell’art. 530 c.p.p., comma 1 e 2, e vizio di motivazione, mancando la prova della responsabilità dell’imputato; è errata la valutazione delle dichiarazioni della persona offesa e della loro efficacia probatoria, non essendo la persona offesa attendibile per le lacune e contraddittorietà presenti nelle dichiarazioni rese in dibattimento, riportate nel ricorso, e per assenza di riscontri esterni, atteso che la madre della stessa non ha potuto riferire che un solo episodio né risultano episodi successivi a quello del 2009 né risultano acquisiti referti, annotazioni di p.g. o dichiarazioni testimoniali, mentre è stato trascurato l’unico documento prodotto dalla difesa, il verbale degli assistenti sociali presso il Tribunale per i minorenni, ai quali la persona offesa dichiarò che la conflittualità tra i coniugi era alta e l’aggressività reciproca;
1.4 erronea applicazione degliartt. 581, 612 e 660 c.p., e mancanza di motivazione sulla richiesta riqualificazione dei fatti;
1.5 manifesta illogicità della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio, essendo stata applicata una pena di gran lunga superiore al minimo edittale previsto all’epoca dei fatti.

Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato per i motivi di seguito illustrati.
2. L’eccezione preliminare relativa alla competenza territoriale è infondata, nonostante risulti erroneo il criterio utilizzato dai giudici di appello.
A differenza del giudice di primo grado, che aveva ritenuto le due denunce sporte dalla persona offesa, la prima il 18 luglio 2009 a (OMISSIS), la seconda il 14 luglio 2010 a (OMISSIS), indicative di due episodi di maltrattamenti distinti ed in continuazione tra loro, con conseguente applicazione del criterio previstodall’art. 16 c.p.p., comma 1, la Corte di appello ha ritenuto erronea la valutazione in ragione della natura abituale del reato di maltrattamenti, caratterizzato da una serie di condotte verificatesi in un apprezzabile lasso di tempo, che isolatamente considerate potrebbero anche essere non punibili o non perseguibili, ma acquistano rilevanza penale per effetto della reiterazione nel tempo, cosicché le condotte devono essere considerate unitariamente e non sono scindibili né frazionabili in relazione al mutamento del luogo e al diverso contesto temporale in cui vengono poste in essere: pertanto, ha ritenuto applicabile la disciplina prevista per il reato permanente.
Pur muovendo da una premessa esatta, la Corte di appello è pervenuta ad un’errata conclusione, in quanto, se è vero che l’antigiuridicità delle condotte nel reato di maltrattamenti è correlata alla reiterazione di più atti lesivi dell’integrità fisica e morale della vittima ovvero da una serie di atti lesivi, in cui ogni singola azione è elemento della serie, al realizzarsi della quale si perfeziona il reato, ne discende che la struttura del reato è perdurante e continuativa, in quanto ogni azione si salda alla precedente, dando vita ad un reato unitario, definito “reato di durata”, che mutua la disciplina della prescrizione dai reati permanenti, ma che si perfeziona con il compimento dell’ultimo atto della serie.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che è erronea l’equiparazione tra reato abituale e reato permanente al fine di individuare il luogo di consumazione del reato e quindi, il giudice competente, in quanto nel reato permanente l’azione è unica ed assume autonoma valenza antigiuridica fin dal primo atto della sua esecuzione, e protraendosi nel tempo, assume la qualità di condotta permanente, mentre nel reato abituale si è in presenza di singole condotte, da sole non idonee ad integrare quel determinato reato, che perdono la loro individualità come percosse, minacce, o quali condotte non rilevanti penalmente, per assumere la diversa configurazione giuridica per effetto della reiterazione. In tal caso è del tutto irrilevante giuridicamente individuare il momento iniziale della consumazione, in relazione ad una condotta di cui non può prevedersi l’inquadramento futuro, o improcedibile per mancanza di una condizione di punibilità, ma che assume rilevanza penale nella considerazione del comportamento complessivo. In tale ipotesi, il luogo del commesso reato ai fini della determinazione della competenza è quello in cui l’azione diviene complessivamente riconoscibile e qualificabile come maltrattamento, e si identifica nel luogo in cui la condotta viene consumata all’atto della presentazione della denuncia (Sez. 6, n. 52900 del 04/11/2016, Rv. 268559; Sez. 6, n. 43221 del 25/09/2013, Rv. 257461).
Conseguentemente, deve ritenersi corretta la valutazione del giudice di primo grado, atteso che, contrariamente alla prospettazione difensiva, il reato risulta contestato dal maggio 2009 al settembre 2010, dunque, da epoca precedente alla presentazione della prima denuncia, sporta nel luglio 2009, ed evidentemente riferita ad una serie di episodi pregressi, connotati da abitualità ed integranti il reato di maltrattamenti, come ritenuto dai giudici di primo grado e dimostrato dagli elementi valorizzati dai giudici di merito.
2. Anche nel merito il ricorso è infondato, ai limiti dell’inammissibilità, nella misura in cui ripropone pedissequamente, come si evince dalla lettura della sentenza impugnata, e con argomentazioni in fatto, le censure già formulate in appello, disattese dai giudici di secondo grado con motivazione puntuale, lineare e completa, che si salda a quella di primo grado, ancor più analitica, con la quale il ricorrente non si confronta.
3. Quanto all’attendibilità della persona offesa, concordemente ritenuta dai giudici di merito con apprezzamento in fatto, non censurabile in questa sede in assenza di incongruenze e di incoerenze valutative, è stato sottolineato che non vi è motivo di dubitare delle dichiarazioni rese dalla stessa, non essendo emerso alcun proposito vendicativo o gratuitamente calunniatorio della G. né la tendenza ad esasperare o esagerare nella narrazione delle liti e del regime di vita, progressivamente deterioratosi per le difficoltà economiche e per la dipendenza dal gioco del ricorrente.
Tale circostanza ha trovato conferma nelle dichiarazioni della madre della G., costretta ad inviarle periodicamente danaro, come ritenuto dai giudici di merito, i quali hanno anche dato atto dell’attendibilità della testimone, avendo la stessa ammesso di non aver assistito a litigi o atti di violenza nei confronti della figlia, residente in Sicilia, ma di aver appreso dalla stessa della critica situazione e del mortificante regime di vita cui era sottoposta e di aver visto i segni sul corpo della figlia in occasione della prima separazione, quando, dopo aver sporto denuncia, la figlia si era trasferita con la bambina presso di lei.
L’episodio, puntualmente ricostruito in sentenza e riscontrato dal referto medico, dà conto della gravità dello stesso, coinvolgente la figlia minore, e ben spiega la ragione della presentazione della denuncia, collocatasi al culmine di una serie di precedenti violenze, vessazioni e prevaricazioni, mai prima denunciate: a tal proposito, il giudice di primo grado ha dato atto che la persona offesa aveva riferito delle abituali minacce di morte rivoltele dal ricorrente, che minacciava anche di farle revocare la custodia della figlia, così da indurla ad evitare di sporgere denuncia.
Non rileva, contrariamente alla prospettazione del ricorrente, ai fini dell’attendibilità della persona offesa, il comportamento della persona offesa, determinatasi a riprendere la convivenza dopo poco tempo, nella speranza di un cambiamento dell’atteggiamento del compagno e di ricomporre il nucleo familiare, trattandosi di dinamiche frequenti e di motivazioni apprezzabili, che, tuttavia, non annullano le condotte maltrattanti precedenti, come ritenuto dai giudici di merito.
Tale argomentazione sostiene anche la valutazione del comportamento della persona offesa successivo alla nuova separazione ed al definitivo trasferimento presso la madre in Calabria: i giudici hanno infatti, rimarcato che le ragioni dell’allontanamento dalla casa familiare erano state ritenute valide anche dal Tribunale per i minorenni, che aveva dichiarato non luogo a provvedere in ordine alla denuncia, sporta dal ricorrente nei confronti della compagna per sottrazione della minore nel febbraio 2010.
In relazione a tale periodo sono state sottolineate le condotte del ricorrente, trasferitosi in Calabria in un paese vicino a quello di residenza della compagna per controllarla, minacciarla, seguirla, appostandosi sotto casa e raggiungendola anche presso il luogo di lavoro, ove si verificava il litigio denunciato: in merito a tali condotte, di cui il ricorrente lamenta la mancanza di riscontri, la sentenza di primo grado dà conto delle dichiarazioni rese dallo stesso imputato circa le minacce telefoniche e degli elementi, che ne smentiscono la versione – v. pag. da 6 a 8 -.
Anche la rilevanza del contenuto del verbale degli assistenti sociali del Tribunale per i Minorenni di Palermo, asseritamente trascurata in sentenza, trova invece, puntuale valutazione nella sentenza di primo grado- pag. 6-, laddove si precisa che la persona offesa aveva riferito in dibattimento di essere stata istruita dal ricorrente sulle risposte da rendere anche con intimidazioni e minacce.
A fronte di tale ricostruzione analitica ed esaustiva risulta del tutto infondata la prospettata insussistenza del reato di maltrattamenti, dovendosi invece, ritenere corretta la valutazione dei giudici di merito, che hanno ravvisato nei fatti descritti la serialità e ripetitività degli atti lesivi descritti dalla persona offesa, tali da imporre un regime di vita mortificante, angosciante ed umiliante nonché di soggezione e timore nella persona offesa, indotto dalla gravità delle minacce di portarle via la figlia.
3. Manifestamente infondato è il dedotto vizio di motivazione in ordine alla richiesta derubricazione del reato nei reati di percosse, minaccia e molestia, disattesa dai giudici di merito con motivazione corretta ed ineccepibile in ragione della riconducibilità ad unità delle condotte in forza dell’abitualità dei comportamenti, non valutabili singolarmente ed isolatamente, bensì nella loro serialità, che li connota di ben maggiore gravità.
4. Generico è l’ultimo motivo, relativo al trattamento sanzionatorio, avendo i giudici giustificato la ritenuta congruità della pena inflitta, determinata in misura superiore al minimo edittale in ragione della pervicacia dimostrata dall’imputato nel seguire la persona offesa anche in Calabria nonchè delle modalità e della non trascurabile durata della condotta, tenuto anche conto del benevolo riconoscimento di attenuanti generiche, equivalenti alla recidiva specifica reiterata infraquinquennale contestata.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La breve durata del matrimonio e l’assenza di stabile convivenza incidono nella quantificazione dell’assegno di mantenimento

Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2018, n. 10304
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18674/2015 proposto da:
M.P., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato C.C., giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
F.G., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Marcucci Pilli Daniela, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 90/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, pubblicata il 19/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/03/2018 dal Cons. Dott. TRICOMI LAURA.

Svolgimento del processo
che:
M.P. ricorre con due motivi per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Firenze, in epigrafe indicata, che aveva confermato la prima decisione in controversia concernente la separazione giudiziale da F.G., con la quale in data 13/11/2012 era stato posto a carico del marito un contributo al mantenimento della moglie per Euro. 750,00 mensili, oltre ISTAT. La Corte di appello, dopo avere considerato anche che la breve durata del matrimonio non era preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento in presenza degli altri elementi costitutivi, ossia la non addebitabilità della separazione e la non titolarità di adeguati redditi propri che consentissero di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, ha osservato che, comunque, la durata del matrimonio ed il contributo apportato da un coniuge alla formazione del patrimonio dell’altro erano elementi valutabili al fine della determinazione dell’importo.
Sulla scorta di tali premesse, sottolineato che nelle more era intervenuto il divorzio e considerati gli esiti della CTU disposta in corso di causa, la Corte di appello ha ravvisato che la redditualità dei coniugi era pressoché equivalente ed assestata su un importo di circa Euro 82.000,00 annui, derivanti per la M. da attività professionale di odontoiatra, tenuto conto degli studi di settore, e per il F. da rendite finanziarie ed immobiliari. Di contro la capacità di spesa di ciascuno era differente, in quanto quella della M. si attestava intorno ad Euro 50.000,00 annui, mentre quella del F. intorno ad Euro 200.000,00 annui, soddisfatta, come già nel corso del matrimonio, attraverso anche la liquidazione di quote del notevole patrimonio immobiliare personale pervenutogli quale eredità paterna; la Corte rimarcava pure che le parti sostanzialmente concordavano sulla situazione economica risultante dall’indagine tecnica d’ufficio (fol. 7 della sent.).
Sulla scorta di tali elementi e dell’evidenziato andamento della breve vita coniugale, durante la quale le parti non avevano stabilmente coabitato, la Corte di appello ha escluso che la M. avesse diritto seppure tendenzialmente a mantenere l’alto tenore di vita in concreto fruito in costanza di matrimonio, essendo questo tenore anche derivato oltre che dai redditi del F., pressoché equivalenti a quelli della moglie ed all’epoca della separazione addirittura inferiori, dalla maggiore liquidità dallo stesso procuratasi a seguito di gestione dismissiva del suo patrimonio immobiliare personale, che all’epoca e tuttora gli consentiva di vivere al di sopra delle sue possibilità reddituali. La Corte ha tuttavia confermato l’assegno di mantenimento in favore della moglie, valutando la maggiore stabilità dei redditi del F. ed il fatto che quelli della M. avevano subito una flessione ed erano più esposti alla aleatorietà della professione.
F.G. replica con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensidell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis c.p.c., comma 1.
Le parti hanno depositato memorie exart. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
che:
1. Preliminarmente osserva la Corte che la controversia concerne esclusivamente la quantificazione dell’assegno di mantenimento, posto che sul suo riconoscimento vi è stata acquiescenza del F.. 2.1. Primo motivo – Violazione e/o falsa applicazionedell’art. 156 c.c., in relazione agliartt. 113, 115 e 116 c.p.c.(art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
La ricorrente lamenta che la Corte di appello, erroneamente, ha attribuito al criterio del precedente tenore di vita una valenza impropria, identificandolo non già con lo standard reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse economiche dei coniugi (la loro capacità economica), ma escludendo i benefici economici connessi alla gestione del patrimonio personale del marito e dalla vendita di cespiti immobiliari perché definite “frutto di entrate straordinarie”. Sostiene che la verifica dell’esistenza di adeguati redditi propri deve prendere in considerazione la situazione patrimoniale complessiva del richiedente, comprensiva non solo dei redditi in senso stretto, ma anche dei cespiti di cui abbia il diretto godimento e di ogni altra utilità suscettibile di valutazione economica (fol. 45/46 del ricorso).
2.2. Secondo motivo – Omessa esame di fatti decisivi del giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5): segnatamente, la circostanza che il F., cointestatario con la madre di immobili e conto correnti bancari, ne godrebbe come meglio crede; le disponibilità finanziarie del marito; il fatto che questi non lavori; il fatto che, in costanza di matrimonio, aveva usufruito anche delle persone di servizio del marito, presso le residenze a (OMISSIS) e a (OMISSIS) (fol. 46/47 del ricorso).
3.1. I motivi possono essere trattati congiuntamente per connessione e vanno respinti perché infondati.
3.2. Osserva la Corte che, alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, “La separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensidell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio” (Cass. n. 12196 del 16/05/2017) e che “L’art. 156 c.c., comma 2, stabilisce che il giudice debba determinare la misura dell’assegno tenendo conto non solo dei redditi delle parti ma anche di altre circostanze non indicate specificatamente, né determinabili “a priori”, ma da individuarsi in tutti quegli elementi fattuali di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito ed idonei ad incidere sulle condizioni economiche delle parti, la cui valutazione, peraltro, non richiede necessariamente l’accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi.” (Cass. n. 605 del 12/01/2017).
3.3. Orbene, la Corte di appello si è attenuta a questi principi nel procedere alla valutazione dei fatti dedotti in merito alle contrapposte richieste delle parti.
Dalla lettura della sentenza impugnata emerge infatti che inizialmente non era stato previsto l’assegno di mantenimento a favore della M., attesa la elevata redditualità goduta dalla stessa in ragione della professione di dentista esercitata, e che l’attribuzione economica era intervenuta solo all’esito del giudizio di primo grado con la sentenza depositata il 13/12/2012 e confermata in appello alla luce di un repentino calo del reddito della moglie, anche se sospetto per la coincidenza con la procedura di separazione, e della disponibilità economiche significativamente maggiori accertate per il F.; si rileva altresì che nelle more, e prima della pronuncia di secondo grado, è intervenuta anche la sentenza di divorzio (sent. imp. fol. 6).
Sulla scorta di tali dati la Corte di appello ha proceduto ad una valutazione delle molteplici circostanze in linea con i principi prima enunciati ed ha ancorato la decisione della conferma dell’assegno in Euro 750,00 mensili alla valutazione delle precipue risultanze, tra cui la breve durata del matrimonio e l’assenza di stabile convivenza coniugale, gli esiti della CTU e la considerazione delle modalità di creazione da parte del F. del surplus di tenore di vita coniugale al di sopra delle comuni possibilità reddituali (ossia tramite depauperamento del suo patrimonio immobiliare), tenore di vita altrimenti più contenuto e garantito da introiti pressoché paritari, anche se dotati di una diversa stabilità, di cui si è tenuto conto nel riconoscimento alla M. dell’assegno e nella sua quantificazione.
3.4. Non si ravvisa nemmeno l’omesso esame di fatti decisivi, tali non risultando quelli indicati dalla ricorrente, peraltro presi anche in considerazione dalla Corte di appello, come già si è visto, ove ritenuti significativi e decisivi.
La doglianza si risolve sostanzialmente nella richiesta a questa Corte di legittimità di una revisione, inammissibile in questa sede, del giudizio di fatto sulla determinazione dell’assegno di mantenimento, richiesta che appare implicita nella prospettazione di un nuovo ed alternativo percorso valutativo delle risultanze probatorie e che si risolve in una critica della motivazione.
4. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
Si dà atto, – ai sensiD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52.

P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità a favore del controricorrente che liquida nel compenso di Euro 3.700,00, comprensivo di esborsi, oltre spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;
– Dà atto, ai sensiD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

Non è nulla la donazione di un immobile da parte di un coniuge (debitore di Equitalia) a favore dell’altro con contestuale costituzione del bene stesso in fondo patrimoniale

Cass. civ. Sez. III, 4 maggio 2018, n. 10576
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10080-2016 proposto da:
EQUITALIA SUD SPA, (OMISSIS) in persona del legale rappresentante p.t. procuratore speciale Dott. D.G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA PINETA SACCHETTI, 482, presso lo studio dell’avvocato EMANUELA VERGINE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIA ROSARIA SAVOIA giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
S.M., domiciliato ex lege in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato S.M. difensore di sè medesimo, B.C.I., domiciliata ex lege in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO LEZZI giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 815/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 20/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/10/2017 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’accoglimento.
Svolgimento del processo
Equitalia sud S.p.A. ricorre avverso la sentenza della Corte d’Appello di Lecce del 20/10/2015 che, a conferma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la sua domanda di accertamento della simulazione assoluta del contratto di donazione con contestuale costituzione di fondo patrimoniale, stipulato tra S.M., debitore di Equitalia per un preteso importo di Euro 2.095.405,66, e la moglie B.C.I..
Il Tribunale di Lecce aveva dichiarato la domanda sprovvista di prova, non essendo a tal fine sufficiente la produzione degli estratti delle cartelle dichiarati conformi all’originale da parte dello stesso concessionario; aveva, altresì, affermato che gli atti non potevano essere dichiarati nulli per mancato accertamento del motivo unico, comune alle parti, ed identificabile con una finalità vietata dall’ordinamento perché contraria all’ordine pubblico e al buon costume, non rinvenendosi una norma che sancisca l’invalidità in frode dei terzi ai quali sono accordati rimedi specifici correlati alle varie ipotesi di pregiudizio.
La Corte d’Appello di Lecce, con la sentenza impugnata dinanzi a questa Corte, ha affermato che un contratto stipulato per eludere norme comunitarie e fiscali può ricadere nello schema del contratto in frode alla legge laddove emerga che sia stato posto in essere per conseguire un’agevolazione o un risparmio di spesa ma che, nel caso concreto, non possa ravvisarsi l’esclusivo intento elusivo della norma tributaria in quanto il riferimento, contenuto nell’atto di donazione, all’esistenza di un mutuo ipotecario gravante sull’abitazione coniugale, lasciava emergere un intento estraneo all’esposizione con il fisco e ben manifestato con la costituzione del fondo patrimoniale destinato a vincolare i beni nell’interesse della famiglia, eventualmente in frode non al fisco ma ai creditori privati. Ha dunque riconosciuto la liceità del motivo comune che aveva spinto le parti a concludere un contratto ed ha escluso che detto motivo fosse quello elusivo ai danni di Equitalia. Il Giudice d’Appello ha dichiarato assorbiti i motivi relativi alla prova della simulazione ed ha rigettato gli altri motivi condannando l’appellante alle spese del grado.
Avverso la sentenza l’Equitalia Sud S.p.A. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso S.M..

Motivi della decisione
Con il primo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degliartt. 1344, 1414, 2729, 2808 c.c.edell’art. 53 Cost., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riguardo al capo di sentenza che ha individuato l’eventuale intento fraudolento nel sottrarre i beni ai creditori ipotecari senza tener conto del fatto che la donazione del bene ipotecato e l’inserimento del medesimo nel fondo patrimoniale non avrebbe potuto comportare alcun nocumento alle garanzie del creditore ipotecario titolare, ai sensidell’art. 2808 c.c., di un diritto di espropriare i beni vincolati a garanzia del proprio credito anche in confronto dei terzi acquirenti.
Nella prospettazione dell’istituto ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe dovuto dedurre la prova della simulazione assoluta del contratto di donazione, anche mediante presunzioni, tenendo in considerazione il rapporto di coniugio e di convivenza del donante e del donatario, la gratuità dell’atto, il “periodo temporale sospetto” in cui gli atti erano stati posti in essere e la contestualità dell’atto di donazione con la costituzione del fondo patrimoniale.
Quest’ultimo, contestualmente all’atto di donazione, non altro scopo poteva avere se non quello di configurare un’illecita garanzia di inespropriabilità e di invulnerabilità patrimoniale ad hoc, del bene immobile, nei confronti del fisco.
Il motivo è infondato. Come ben argomentato nella sentenza impugnata, l’esistenza del mutuo e la conoscenza dello stesso ha reso lecito l’atto di donazione ed ha escluso che l’unico motivo determinante di cuiall’art. 788 c.c., fosse quello di frodare il fisco.
Nella fattispecie, anche nell’ipotesi in cui il donante abbia inteso disporre del proprio bene al fine di diminuire le garanzie di altri creditori, Equitalia avrebbe dovuto agire con l’azione revocatoria ordinaria e non anche agire per la nullità della donazione per l’esistenza di un motivo unico illecito comune alle parti. Come legittimamente ritenuto dall’impugnata sentenza, proprio il riferimento, contenuto nell’atto di donazione, all’esistenza di un mutuo ipotecario gravante sull’abitazione coniugale, ha dato prova che il motivo, comune alle parti della donazione, fosse la destinazione della casa a fondo patrimoniale, e la precostituzione di una garanzia “blindata” della proprietà dell’abitazione rispetto ai terzi creditori ipotecari.
La sentenza impugnata deve essere certamente corretta laddove richiama la finalità di elusione della garanzia patrimoniale dei creditori e non tiene in considerazione l’esistenza dell’ipoteca quale titolo privilegiato nell’espropriazione del bene, ma ciò non incide sulla legittimità della ratio decidendi che è quella di distinguere l’ipotesi dell’elusione della garanzia patrimoniale nei confronti dei terzi dalla frode alla legge tributaria: distinzione che viene, invece, del tutto meno nell’erronea prospettazione del primo motivo di ricorso che adatta la giurisprudenza di questa Corte, relativa alla frode alla legge, alla violazione della garanzia patrimoniale.
Il primo motivo deve, pertanto, essere rigettato.
Con il secondo motivo l’istituto ricorrente denuncia la nullità della sentenza per omessa statuizione sul primo, secondo e quarto motivo di appello, ritenuti erroneamente assorbiti dal terzo motivo. Denuncia la violazionedell’art. 112 c.p.c.edell’art. 24 Cost., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
L’argomentazione della ricorrente è la seguente: se il Giudice d’Appello non avesse erroneamente ritenuto assorbiti i motivi indicati, avrebbe pronunciato sulla sufficienza della cartella esattoriale e del ruolo ai fini della prova del credito, anche alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte, avrebbe dichiarato la simulazione assoluta della donazione, ritenendo raggiunta la prova della medesima, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti in ragione dell’interesse personale della B. ad accettare la donazione, al fine di non essere privata della propria casa di abitazione, in virtù della consapevolezza dell’esistenza dei debiti del marito.
Il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi, sicché la ricorrente non avrebbe avuto ragione di dolersi di ciò di cui si duole. Il primo, secondo e quarto motivo di appello afferiscono, infatti, all’omessa considerazione della documentazione atta a costituire la prova del credito e la prova della simulazione. Essi sono stati esaminati e correttamente ritenuti assorbiti dalla decisione in diritto sul terzo motivo di appello, in quanto, come correttamente argomentato dalla impugnata sentenza (p. 6) “la conoscibilità del debito, l’interesse del coniuge ad evitare azioni esecutive sono tutti elementi che riguardano un eventuale atteggiamento soggettivo di mala fede, ma non sono idonei ad incidere sulla liceità del motivo comune che ha spinto le parti a concludere quegli atti perché resta sempre il fatto che proprio il richiamo al mutuo ipotecario gravante sul bene, esclude in radice che il motivo determinante esclusivo sia stato quello elusivo ai danni di Equitalia.” È evidente dall’argomentazione della sentenza che l’accoglimento del terzo motivo di appello rendeva del tutto irrilevante l’esame degli altri motivi, il cui esame non avrebbe potuto modificare la ratio decidendi della sentenza. Ne consegue che il motivo non censurando adeguatamente la ratio decidendi, deve essere dichiarato inammissibile.
Con il terzo motivo chiede la cassazione della sentenza anche nella parte in cui ha disposto la condanna alle spese e competenze di lite di Equitalia Sud S.p.A. in favore delle parti resistenti, in applicazione del principio di soccombenza. Anche questo motivo è rigettato per le ragioni intrinseche al rigetto o all’inammissibilità dei primi due.
Conclusivamente il ricorso va rigettato con la condanna dell’istituto ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, e al raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna Equitalia S.p.A. a pagare, in favore del resistente, le spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 8.200 (inclusi Euro 200 per esborsi), oltre accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2017.

L’aumento dell’assegno di mantenimento in favore dei figli decorre dalla data della domanda

Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2018, n. 10788
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11030/2016 R.G. proposto da:
P.P., rappresentata e difesa dall’Avv. Brunella Bertani e dall’Avv. Camilla Bovelacci, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, Via Quintino Sella n. 41;
– ricorrente –
contro
S.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Stefano Della Vittoria e dall’Avv. Luca Iannaccone, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. Luca Carinci in Roma, Via G.P. da Palestrina n. 19;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 1917/2015 pubblicata il 23 novembre 2015;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 novembre 2017 dal Consigliere Carlo De Chiara.

Svolgimento del processo
Con la sentenza di separazione dei coniugi sig.ri S.M. e P.P. era stato determinato un contributo a carico del primo di Euro 300,00 mensili per il mantenimento di ciascuna delle due figlie della coppia, conviventi con la madre.
Nel successivo giudizio di divorzio il Tribunale di Rimini, in sede di definizione delle questioni economiche dopo la sentenza di scioglimento del matrimonio, determinò in Euro 550,00 mensili, oltre il 50 % delle spese straordinarie, il contributo per il mantenimento della figlia C. dovuto dal padre alla madre, dichiarando cessato l’obbligo del contributo relativo alla figlia B., divenuta economicamente autosufficiente (peraltro già a decorrere dal luglio 2013 il giudice istruttore aveva disposto il versamento diretto alla stessa del contributo).
Adita con appello principale dalla sig.ra P., che insisteva per l’aumento del contributo per il mantenimento della figlia C. ad Euro 700,00 mensili, oltre al 50 % delle spese straordinarie, con decorrenza dalla domanda (proposta con la memoria di costituzione nel giudizio di divorzio depositata il 16 maggio 2007), e con appello incidentale del sig. S., che chiedeva la revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla ex moglie, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato il primo gravame ed ha accolto il secondo (la stessa sig.ra P. aveva dichiarato di non essere più interessata all’assegnazione della ex casa coniugale).
La Corte ha confermato la statuizione del Tribunale relativa alla decorrenza dell’aumento del contributo per la giovane C. dalla data della sentenza di primo grado (2 luglio 2014), anziché dalla data della domanda, per le medesime ragioni indicate dal Tribunale, da essa individuate nel richiamo di Cass. 18538/2013, la quale fa derivare dal carattere determinativo della sentenza sul contributo l’impossibilità della stessa di “operare per il passato, per il quale continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agliartt. 708 e 709 c.p.c.”.
La sentenza di appello ha inoltre negato il diritto dell’appellante principale all’aumento del contributo rispetto all’ultima determinazione in Euro 400,00 mensili per ciascuna figlia, oltre alla metà delle spese straordinarie, operata in costanza di separazione dalla medesima Corte d’appello di Bologna conprovvedimento del 21 giugno 2007, emesso in sede di reclamo ai sensidell’art. 710 c.p.c., sul diniego di modifica delle condizioni della separazione stessa da parte del Tribunale; e ciò perché non era stato allegato alcun rilevante mutamento delle circostanze di fatto in base alle quali era stato emesso tale ultimo provvedimento determinativo, né comunque era stato provato alcunché “in ordine alla capacità reddituale dell’ex coniuge, asseritamente di molto maggiore rispetto a quella risultante dalle sue dichiarazioni dei redditi”.
La sig.ra P. ha proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, illustrati anche con memoria. Il sig. S. si è difeso con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, la ricorrente censura la statuizione relativa alla decorrenza dell’aumento del contributo per il mantenimento della figlia C., sostenendo che tale decorrenza non coincide con la data di emissione della sentenza, ma, in ossequio al principio che la durata del processo non può andare a pregiudizio della parte che ha ragione, retroagisce alla data della domanda o comunque alla data del venire in essere delle ragioni giustificative dell’aumento.
1.1. Il motivo è fondato.
Il richiamo della Corte d’appello a Cass. 18538/2013 ed al principio, in essa enunciato, secondo cui la nuova determinazione del contributo con la sentenza non può operare per il passato, per il quale invece continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agliartt. 708 e 709 cod. proc. civ., non è appropriato. Tale precedente, infatti, riguarda il rapporto tra le statuizioni della sentenza e quelle dei provvedimenti provvisori emessi dal giudice nel corso del medesimo processo. Nel caso che ci occupa, invece, la determinazione del contributo per il mantenimento della giovane C. non è stata oggetto, prima della sentenza, di alcun provvedimento provvisorio ai sensi dei richiamati artt. 708 e 709, bensì di provvedimenti determinativi definitivi adottati all’esito di giudizi diversi dal presente giudizio di divorzio, ossia il giudizio di separazione e quello di modifica delle condizioni della separazione ai sensidell’art. 710 c.p.c..Tali provvedimenti sono pacificamente modificabili nel successivo, distinto processo di divorzio, nel quale trova piena applicazione il principio della decorrenza delle statuizioni della sentenza dalla data della domanda, in ossequio all’esigenza che la durata del giudizio non pregiudichi la parte che ha ragione, conformemente alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., fra le molte, Cass. 3348/2015, 19382/2014, 10119/2006, 21087/2004, tutte in tema di contributo al mantenimento dei figli).
Peraltro, sempre secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, soltanto nel caso in cui, con la sentenza, venga escluso l’assegno in favore del coniuge, già riconosciuto in via provvisoria ai sensidell’art. 708 c.p.c., o sia ridotto l’ammontare dello stesso, è prevista la salvezza degli effetti di tale determinazione provvisoria, in considerazione della natura cautelare di questa funzionale al diritto al mantenimento del coniuge beneficiario (Cass. 2411/1980, 5384/1990, 9728/1991, 8977/1993, 3415/1994).
Va pertanto affermato che gli effetti della sentenza, emessa in sede di definizione delle questioni economiche relative al divorzio, modificativa dell’ammontare – già determinato con precedente provvedimento definitivo emesso in sede di separazione o di modifica delle condizioni economiche della separazione – del contributo di uno degli ex coniugi per il mantenimento dei figli collocati presso l’altro ex coniuge, retroagiscono alla data della domanda o comunque alla data, se successiva, del verificarsi delle ragioni giustificative della modifica.
Va inoltre rilevato che nella specie la domanda di determinazione del contributo per il mantenimento dei figli è stata proposta, nel giudizio di divorzio, con la memoria di costituzione della sig.ra P. davanti al Tribunale il 16 maggio 2007, data anteriore a quella dell’ultima determinazione del medesimo contributo in sede di separazione, effettuata con ilprovvedimento del 21 giugno 2007emesso in sede di reclamo nel procedimento ai sensidell’art. 710 c.p.c., di cui si è detto in narrativa. Tuttavia la decorrenza della nuova determinazione del contributo in sede di divorzio, tendenzialmente coincidente con la data della domanda per quanto si è appena detto, non può essere anteriore alla determinazione del medesimo contributo con il richiamato provvedimento dl 21 giugno 2007, che ha carattere definitivo e può essere modificato soltanto per l’avvenire, al verificarsi dei necessari presupposti.
2. Con il secondo motivo di ricorso, denunciando violazione di norme di diritto, si contesta che, ai fini della rideterminazione del contributo per il mantenimento della prole, in sede di divorzio, sia necessario il mutamento delle condizioni fattuali precedenti, essendo tale contributo modificabile in ogni momento.
2.1. Il motivo è inammissibile.
La statuizione censurata, infatti, è stata assunta dalla Corte d’appello al fine di respingere la domanda di ulteriore aumento del contributo per il mantenimento della giovane C.. Sennonché il rigetto di tale domanda è retto, nella sentenza impugnata, da due autonome rationes decidendi: quella appena indicata e quella secondo cui “comunque” l’appellante principale non aveva fornito la prova della “capacità reddituale dell’ex coniuge, asseritamente di molto maggiore rispetto a quella risultante dalle sue dichiarazioni dei redditi”.
Questa seconda ratio non viene censurata dalla ricorrente, con la conseguenza che anche l’eventuale accoglimento della censura rivolta alla prima, sollevata con il motivo in esame, non sarebbe sufficiente per cassare la decisione di rigetto della domanda, la quale continuerebbe a reggersi sulla ratio non censurata; sicché il motivo in esame è privo di decisività.
3. Inammissibili, per la stessa ragione, sono anche il terzo e il quinto motivo di ricorso, con i quali la ricorrente lamenta che non si sia tenuto conto, rispettivamente, del decorso del tempo e della revoca dell’assegnazione in suo favore della casa coniugale, quali nuove circostanze sopravvenute che avrebbero giustificato la modifica della misura del contributo per il mantenimento della figlia C..
4. Il quarto motivo di ricorso, con il quale si invoca la decorrenza della nuova misura del contributo al mantenimento della figlia quantomeno dall’anno 2008 (epoca alla quale risale l’accertamento dei redditi dell’obbligato da parte del Tribunale), è assorbito dall’accoglimento del primo motivo.
5. In conclusione, in accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale si atterrà ai principi di diritto enunciati negli ultimi due capoversi del paragrafo 1.1, che precede, e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibili il secondo, il terzo e il quinto e assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2018

NONNI

Di Gianfranco Dosi

I. La categoria parentale degli ascendenti
II. I nonni (dopo la parificazione della filiazione)
III. La tutela delle relazioni tra nonni e nipoti
1) I procedimenti di tutela
a) Il procedimento per abuso della responsabilità genitoriale davanti al tribunale per i minorenni (art. 330 e seguenti c.c.)
b) Il contrasto tra i genitori sui rapporti tra nonni e nipoti (art. 316 c.c.)
c) Il procedimento davanti al tribunale per i minorenni azionato dai nonni (art. 317-bis c.c.)
IV. La tutela delle relazioni tra nonni e nipoti in caso di separazione dei genitori
a) Il diritto dei nipoti a conservare rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti
b) È possibile l’intervento dei nonni nel processo di separazione?
V. I nonni nel procedimento di adottabilità di un minore
VI. Il punto di vista rigoroso della Corte europea dei diritti dell’uomo
VII. I nonni come parenti affidatari del minore
VIII. I nonni sono tenuti a mantenere i nipoti?
IX. La tutela dei nonni in condizione di bisogno
a) I diritti di natura alimentare
b) La sanzione in caso di violazione degli obblighi alimentari verso i nonni
c) Altri reati commessi contro i nonni
X. Il risarcimento del danno per morte del nonno cagionata da fatto illecito altrui
I La categoria parentale degli ascendenti
I nonni non sono mai nominati con questo nome nei codici. L’art. 74 c.c. li colloca nell’ambito della parentela, categoria con cui indistintamente la legge si riferisce al vincolo che unisce le persone che discendono da uno stesso stipite. La filiera parentale in cui i nonni sono inseriti è quella della linea retta che lega i figli ai propri genitori e ai genitori dei genitori (appunto i nonni). Considerato dal punto di vista del nipote i nonni sono parenti di secondo grado. Infatti, come ricorda l’art. 76 c.c. “nella linea retta si computano altrettanti gradi quante sono le generazioni, escluso lo stipite”. Ciascuno dei nonni (paterni o materni) è, appunto, lo stipite.
Nonno paterno Nonna paterna Nonno materno Nonna materna
Papà Mamma
Figlio Figlia
Tra fratelli vi è un rapporto di parentela di secondo grado in linea collaterale (art. 76 c.c.: “nella linea collaterale i gradi si computano dalle generazioni, salendo da uno dei parenti fino allo stipite comune e da questo discendendo all’altro parente, sempre restando escluso lo stipite”).
I nonni sono quindi parenti di secondo grado in linea retta. Gli zii sono parenti di terzo grado in linea collaterale. I cugini sono parenti di quarto grado in linea collaterale.
Tra i nonni paterni e quelli materni non vi è alcun rapporto neanche di affinità. Infatti secondo l’art. 78 c.c. “l’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro”, non quindi un vincolo tra i parenti dei due coniugi.
I nonni sono suoceri se visti dall’angolo visuale del coniuge del loro figlio. Ma solo nella parentela matrimoniale. La convivenza non induce alcun vincolo di affinità tra uno dei due conviventi e i parenti dell’altro. Ugualmente non vi è vincolo di affinità nell’unione civile, in quanto il comma 20 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 non richiama espressamente l’art. 78 c.c. e quindi, stante il principio di tassatività nel rinvio alle norme del codice civile, indicato nello stesso comma, tra un partner dell’unione civile e i genitori dell’altro partner non vi è rapporto di affinità.
La categoria giuridica specifica in cui i nonni sono collocati nell’ambito della parentela è quella degli ascendenti.
A questa categoria (nella quale sono accomunati genitori, nonni, bisnonni, trisavoli) fanno riferi¬mento innanzitutto le norme sulla successione. L’art. 565 c.c. inserisce gli ascendenti tra i succes¬sibili anche se poi l’art. 569 c.c. li ammette alla successione solo nel caso, in verità infrequente, in cui chi muore non lascia figli, né genitori, né fratelli o sorelle, né altri discendenti. In tale raro concorrono tra loro gli ascendenti della linea paterna insieme a quelli della linea materna. Se però con i nonni vi sono i bisnonni l’eredità si devolve solo ai nonni (art. 569, cpv, c.c.). Questa collo¬cazione confinata ai margini dei chiamati alla successione è in minima parte compensata anche da una collocazione dei nonni tra i legittimari (art. 536 c.c.). Nel caso, infatti, in cui chi muore non lascia figli ma ascendenti, a questi è riservato complessivamente un terzo del patrimonio che scende alla misura di un quarto se invece dei figli chi muore lascia, insieme agli gli ascendenti, il coniuge (art. 544 c.c.). Nonostante l’allungamento della vita media, a differenza degli ascendenti, maggiori chances di succedere hanno i discendenti. È sempre statisticamente più frequente che nella successione vi siano discendenti, anziché ascendenti.
II I nonni (dopo la parificazione della filiazione)
La nozione di parentela dopo la riforma della filiazione operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 non è più solo riferita alla parentela che nasce dal matrimonio. L’art. 7 della legge citata, infatti, ha modificato la nozione di parentela contenuta nell’art. 74 c.c. riconoscendo l’esistenza di vincoli parentali “sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso”. E d’altro lato la riforma in questione ha anche modificato l’art. 258 c.c. (Effetti del riconoscimento) precisando che “il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso”. La precedente versione della norma esclude¬va questi effetti. Pertanto sia i figli nati nel matrimonio che quelli nati fuori dal matrimonio hanno il medesimo vincolo parentale con i rispettivi nonni.
Non solo. Poiché il vigente articolo 74 c.c. riconosce il rapporto di parentela anche tra i figli (minori) e i relativi genitori adottivi, ha fatto ingresso nel nostro sistema giuridico familiare anche la figura del nonno adottivo, il cui vincolo parentale con i nipoti è identico a quello di tutti gli altri nonni.
Si aggiunga che l’estensione del vincolo parentale anche al rapporto tra nonni e nipoti nati fuori dal matrimonio pone certamente alcuni problemi di carattere, non strettamente di tipo giuridico, una volta assenti. Se, infatti, uno dei genitori – separato, divorziato o vedovo – ha con un successivo partner un altro figlio, nella famiglia ricomposta potranno essere visibili non soltanto più figure ge¬nitoriali acquisite ma anche più nonni acquisiti (quelli paterni e materni originari e quelli ulteriori re¬lativi alla seconda unione) con un ampliamento della rete parentale cosiddetta sociale significativa.
III La tutela delle relazioni tra nonni e nipoti al di fuori della separazione dei genitori
I nonni sono tali se esiste quanto meno un nipote. La categoria dei nipoti in verità non è di esclu¬siva pertinenza dei nonni in quanto anche gli zii hanno i nipoti. I nipoti e i nonni sono però tra loro parenti in linea retta di secondo grado, mentre invece i nipoti e gli zii sono parenti in linea collaterale di terzo grado.
La legge protegge il rapporto tra nonni e nipoti nell’ambito di due contesti normativi differenziati: uno di carattere generale e l’altro connesso alla separazione dei genitori.
Il primo contesto normativo è quello della tutela dei diritti dei figli in generale. L’art. 315-bis del codice civile, come introdotto con la riforma della filiazione (art. 1, comma 8, della legge 10 dicem¬bre 2012, n. 219) al secondo comma espressamente ricorda che “il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”. Si tratta della protezione di un vero e proprio diritto dei figli e, come si vede, in questo ambito normativo di carattere generale, la tutela è anche diretta alla protezione del rapporto tra nipoti e zii, nonché, s’intende, tra fratelli e cugini (evocando la norma la categoria dei parenti in generale). Sono previste, a tutela del rapporto nonno-nipoti, tre tipi di procedure giudiziarie.
a) Il procedimento per abuso della responsabilità genitoriale davanti al tribunale per i minorenni (art. 330 e seguenti c.c.)
È evidente che, trattandosi di un vero e proprio diritto dei figli al rapporto parentale, la sua compressione da parte di un genitore potrebbe essere configurato un vero e proprio abuso della responsabilità genitoriale, con legittimo eventuale intervento del tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 333 (limitazione) o 330 (decadenza) del codice civile, su impulso di parte ma anche su impulso del Pubblico ministero (art. 336 c.c.).
Problematiche di questo tipo si pongono di frequente soprattutto in caso di allontanamento e ab¬bandono da parte di uno dei genitori o di morte di un genitore. Questi eventi possono determinare nel genitore rimasto o superstite reazioni tese alla colpevolizzazione dell’altro ramo parentale così come possono anche produrre da parte dei parenti del genitore allontanatosi o deceduto vere e proprie pretese di eccessiva intrusività nella vita dei nipoti.
Si legge per esempio in Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24423 che i nonni, ai quali è impedita dai genitori la frequentazione del nipote minorenne, possono adire il giudice minorile per ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 333 c.c., che consenta loro di incontrare il nipote. Sebbene il provvedimento giurisdizionale “innominato” non possa imporre serenità di rapporti del minore con i propri parenti, è compito del giudice minorile intervenire al fine di garantire, nell’in¬teresse del minore, serenità ed equilibrio in detti rapporti.
L’intervento dei tribunali per i minorenni è sempre guidato, in questi casi, da molta prudenza, nel timore di creare situazioni di ulteriore difficoltà relazionale. Tuttavia in molti casi i provvedimenti sono tesi correttamente a garantire il più possibile il diritto alla relazione nonno-nipote, nell’inte¬resse del minore e tenendo conto naturalmente di tutte le circostanze del caso concreto.
L’art. 336 c.c. – cioè la norma che disciplina il procedimento di contrasto agli abusi della respon¬sabilità genitoriale davanti al tribunale per i minorenni – prevede che i provvedimenti del giudice possono essere adottati “su ricorso dell’altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero”. Il che significa che lo stesso nonno potrebbe ricorrere direttamente a questo tipo di procedura, nono¬stante che, come si vedrà tra breve, l’articolo 317-bis c.c. mette a sua disposizione uno strumento ad hoc di natura sostanzialmente identica. La differenza tra i due procedimenti (se proprio la si vuole trovare) sta solo nel fatto che il focus dell’articolo 317-bis (la cui procedura è azionabile solo dai nonni) è posto soprattutto sul diritto dei nonni, che le riforma della filiazione ha inteso qualifi¬care espressamente come tale, mentre il focus delle procedure in tema di abusi della responsabi¬lità genitoriale (azionabile anche dal pubblico ministero) è quello dell’esclusiva tutela dei diritti del minore contro comportamenti a lui pregiudizievoli.
È a questa specifica situazione di abuso (nella specie art. 333 c.c.) che si riferiscono i principi indicati dall’importante Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5097 che ha avuto modo di affermare che nel procedimento finalizzato all’accertamento del diritto del minore a conservare rapporti signi¬ficativi con gli ascendenti ed i parenti del genitore scomparso (che nella specie era stato azionato nel 2010 dai parenti della madre defunta, prima dell’introduzione del nuovo art. 317-bis c.c. di cui si dirà più oltre) il comportamento ostativo del genitore superstite costituisce una condotta pre¬giudizievole secondo la previsione degli artt. 330 e segg. cod. civ., poiché comporta la rescissione, nella fase evolutiva della formazione della personalità del ragazzo, di una sfera affettiva e identitaria assolutamente significativa, e lo espone a una vicenda esistenziale particolarmente dolorosa.
In tale procedimento – afferma, tuttavia, la decisione in questione richiamando la riforma della filiazione che era intervenuta nel frattempo nel 2012 – l’oggetto del procedimento, non è l’accer¬tamento di un diritto dei nonni, ma l’accertamento del diritto del minore a conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Come si vede, nonostante il giudizio severo verso il comportamento ostativo dei genitori al rappor¬to tra i nonni e i nipoti, la linea interpretativa della giurisprudenza sembra restare quella segnata dai testi normativi precedenti all’entrata in vigore del nuovo art. 317-bis c.c. che attribuisce ai nonni un diritto specifico.
Per la giurisprudenza, insomma, parlare di “diritto dei nonni” pare ancora un linguaggio inaccettabile.
Nella giurisprudenza precedente al nuovo testo dell’art. 317-bis c.c. era usuale parlare di “diritto dei minori” e non certo di “diritto dei nonni”.
Così per esempio App. Roma Sez. minori, 8 giugno 2011 afferma che (a quella data) il nostro ordinamento non garantisce in via immediata e diretta l’aspirazione dei nonni alla frequentazione dei nipoti, ma offre una tutela soltanto indiretta all’interesse dei parenti ad avere rapporti con i minori, mediante il riconoscimento della loro legittimazione a sollecitare il controllo giurisdizionale, ai sensi dell’art. 336 c.c., sull’esercizio della potestà dei genitori, i quali non possono senza motivo plausibile impedire i rapporti dei figli con detti congiunti; ciò non esclude l’intervento del giudice nel riconoscere e regolamentare i rapporti predetti, in quanto, dovendo i provvedimenti giurisdi¬zionali essere ispirati sempre all’interesse del minore e rientrando la tutela del vincolo affettivo e di sangue nell’ambito di un tale interesse, il rifiuto del genitore può ritenersi giustificato solo in presenza di serie e comprovate ragioni che sconsiglino di assicurare e regolamentare i rapporti dei nonni con il minore, potendo negarsi il diritto di visita unicamente quando il rapporto dei nonni con il nipote appare pregiudizievole. Ugualmente si esprime Trib. Minorenni Catanzaro, 7 febbraio 2011 affermando che non sussiste nell’ordinamento italiano un vero e proprio diritto dì visita dei nonni e degli altri parenti, ma solo un interesse del minore ad una crescita sana ed equilibrata, alla cui realizzazione possono contribuire anche le figure dei nonni, a meno che non sussistano ragioni che ostano al mantenimento di tale rapporto. Anche secondo Trib. Minorenni Milano Decreto, 1 ottobre 2010, pur non spettando ai nonni, ed agli altri parenti, un vero e proprio diritto di visita, il loro interesse legittimo è tutelato solo in maniera indiretta, mediante il riconoscimento della legittimazione, ex art. 336 c.c., a sollecitare il controllo giudiziario sull’eser¬cizio della potestà dei genitori, i quali non possono, senza un plausibile motivo, vietare i rapporti dei figli con i parenti più stretti.
b) Il contrasto tra i genitori sui rapporti tra nonni e nipoti (art. 316 c.c.)
È prospettabile, nella famiglia unita, anche il ricorso di uno dei genitori (ma non da parte dei nonni) a tutela del rapporto tra nonni (o zii) e nipoti, non sulla base delle norme in materia di responsabilità genitoriale, ma sulla base della norma generale che consente ad uno dei genitori in caso di “contrasto [con l’altro genitore] su questioni di particolare importanza” di ricorrere al giudice, anche nella famiglia unita, indicando i provvedimenti che ritiene più idonei.
Si tratta di uno dei due casi (l’altro è previsto nell’art. 145 c.c. a tutela del disaccordo tra coniugi sull’indirizzo della vita familiare in generale) in cui il codice prevede l’intervento del giudice nel¬la famiglia unita e non tra coniugi separati. Si tratta di procedure assai infrequenti, per la loro intrinseca debolezza, come si capisce anche dal fatto che la disposizione prevede che il giudice, sentite le parti ed il figlio, non decide alcunché, ma “suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio” e “se il contrasto permane, attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene più idoneo a curare l’interesse del figlio”.
Non è affatto da escludere che un contrasto “di particolare importanza” tra i genitori anche nella famiglia unita possa avere proprio ad oggetto le difficoltà frapposte da uno dei due genitori al rap¬porto tra il figlio e i parenti dell’altro genitore.
La competenza, però, per il procedimento ai sensi dell’art. 316 c.c. (così come quella per il pro¬cedimento ai sensi dell’art. 145 c.c.) non appartiene al tribunale per i minorenni, ma al tribunale ordinario (art. 38 disposizioni di attuazione del codice civile).
c) Il procedimento davanti al tribunale per i minorenni azionato dai nonni (art. 317-bis c.c.)
La riforma sulla filiazione del 2012 ha previsto un intervento del giudice – proprio a salvaguardia del rapporto tra nonni e nipoti (ma, irragionevolmente, non tra zii e nipoti, o tra cugini) – tarato sostanzialmente sul procedimento di contrasto agli abusi della responsabilità genitoriale – nel qua¬le però l’intervento di protezione si configura come intervento, indirettamente sempre a tutela del diritto del figlio, ma esplicitamente diretto alla tutela anche di un vero e proprio diritto dei nonni. Si tratta dell’art. 317 bis c.c. (Rapporti con gli ascendenti) – nel testo introdotto ex novo dall’art. 42 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – dove si prevede che “Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni”.
Qui il focus è incentrato sul diritto dei nonni. Come si vede è esclusa l’attribuzione di un diritto del genere agli zii (che non sono ascendenti) a protezione del cui rapporto con i nipoti potrebbero, però, certamente trovare applicazione le norme sugli abusi sopra richiamate (articoli 330, 333 c.c.). Spesso, infatti, i rapporti tra gli zii e i nipoti – così come i rapporti tra cugini – sono altrettanto significativi e importanti di quelli tra i nonni e i nipoti.
Secondo le indicazioni procedimentali contenute nello stesso art. 317 bis c.c. l’ascendente al quale è impedito l’esercizio del diritto a rapporti significativi con i nipoti “può ricorrere al giudice del luo¬go di residenza abituale del minore affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore. Si applica l’art. 336, secondo comma” e quindi, come si è detto, si seguirà la procedura camerale descritta nella norma richiamata.
La competenza per materia appartiene al tribunale per i minorenni in base a quanto espressamen¬te dispone l’art. 38, primo comma, ultima parte, delle disposizioni di attuazione del codice civile (nel testo aggiunto dall’art. 96, comma 1, lett. c del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) dove si legge che “sono altresì di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile”.
L’attribuzione della competenza al tribunale per i minorenni – troppo decentrato – è stata criticata da parte di molti, anche perché la riforma del 2012 ha spostato al tribunale ordinario la maggior parte dei procedimenti che concernono la famiglia e i minori. Sono anche state sollevate sul punto questioni di legittimità costituzionale (Trib. minorenni Bologna, 5 maggio 2014; Trib. mino¬renni Napoli 25 luglio 2014 e 10 novembre 2014) che però la Corte costituzionale non ha ritenuto di dover accogliere (Corte cost. 24 settembre 2015, n. 194) ritenendo non irragione¬vole la scelta del legislatore.
Perciò il nonno al quale sia impedito l’esercizio del suo diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni può ricorrere egli stesso al tribunale per i minorenni.
Si deve osservare che in questo procedimento – essendo richiamato solo il secondo comma dell’art. 336 c.c. – non trovano applicazione le altre disposizioni dell’art. 336 e in particolare quella dell’ultimo comma in cui si prevede anche la difesa tecnica del minore. Qui, come è molto chiaro, non siamo in presenza di un contenzioso tra nonni e nipoti – cioè di un procedimento tra posizioni contrapposte tra nonni e nipoti – ed il minore non è considerato parte processuale. Si tratta di un procedimento con una parte soltanto, appunto il nonno, il quale chiede al giudice l’attuazione di un proprio diritto, mentre la tutela del minore è assicurata dal suo ascolto. Natu-ralmente – come d’altronde previsto dal secondo comma dell’art. 336 c.c. – devono anche essere sentiti i genitori i quali però non assumono la veste di parti processuali contrapposte al nonno.
Una decisione di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 2015, n. 752) ha, ribadito l’impostazio¬ne tradizionale sul punto del bilanciamento tra il diritto dei nonni e il diritto dei nipoti, occupandosi del ricorso di una nonna avverso un provvedimento della Corte d’appello di Roma che aveva rigettato una istanza della nonna – già respinta dal tribunale per i minorenni – tesa ad ottenere un diritto di frequentazione della nipote. La Corte d’appello in ordine alla lamentata violazione del diritto della reclamante a mantenere rapporti significativi con la nipote affermava di dover richiamare, come condivisibile e meritevole di pieno recepimento, l’insegnamento della Suprema Corte, secondo cui le norme sul diritto dei minori di conservare rapporti significativi con gli ascendenti non attribuisco¬no a questi ultimi un autonomo diritto di visita, ma introducono un elemento ulteriore di indagine e di valutazione nella scelta e nell’articolazione dei provvedimenti da adottare nella prospettiva di una rafforzata tutela del diritto del minore ad una crescita serena ed equilibrata. In altri termini era la prospettiva del minore, e non quella dell’ascendente, a dovere essere apprezzata e tutelata, in conformità ai principi generali vigenti in materia di provvedimenti relativi ai minori. Proponendo una censura per violazione e falsa applicazione della legge n. 219 del 2012, art. 2, in punto di legittima¬zione degli ascendenti a far valere il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minori, la ricorrente sosteneva che i nonni sono ormai legittimati a fare valere il loro diritto a mantenere rap¬porti significativi coi nipoti e che, dunque, lei ha il diritto di mantenere le preesistenti frequentazioni con la nipotina, onde anche garantirle il sano sviluppo dell’importante, rapporto parentale. Il motivo – affermano i giudici della Cassazione deve essere disatteso. La legittimazione ad agire della M. non è stata negata, per cui sul punto le censure sono inammissibile per difetto interesse; per il resto i giudici di merito hanno irreprensibilmente valorizzato l’interesse preminente della minore in riferi¬mento alla situazione attuale, destinata ad evolversi nel tempo, con auspicabili diversi e positivi esiti.
Questa sentenza è il segnale di come la giurisprudenza soprattutto minorile fatichi a leggere la nuova norma di cui all’art. 317-bis c.c. (ancorché molto chiara nella sua formulazione) come un diritto attribuito ai nonni. Per esempio in Trib. Venezia Sez. minori, 24 dicembre 2015 si legge che l’art. 317-bis c.c., pur non attribuendo ai nonni un diritto autonomo di visita dei nipoti, nel prevedere che debbano essere assicurati tra gli stessi rapporti significativi, riconosce l’importanza che assume, nella vita e nella formazione educativa dei minori, la conoscenza e frequentazione dei nonni, in funzione di una loro crescita serena ed equilibrata, quali componenti della famiglia allargata, nel cui interno essi sono collocati.
Come si avrà modo di vedere tra breve, ben diversa è l’impostazione della Corte europea dei diritti dell’uomo in ordine al rispetto del diritto dei nonni.
IV La tutela delle relazioni tra nonni e nipoti in caso di separazione dei genitori
a) Il diritto dei nipoti a conservare rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti
Il rapporto tra i parenti in generale (nonni e zii) e i nipoti è poi espressamente tutelato nell’ambito delle norme sulla separazione e sul divorzio dei genitori nonché in tutte le procedure di scissione della coppia genitoriale anche non matrimoniale.
Effettivamente la scissione della vita di coppia può determinare – e determina di frequente – l’in¬sorgere di reazioni conflittuali genitoriali con ricadute sul rapporto tra i figli e i parenti dell’uno o dell’altro genitore.
La norna di riferimento – nell’ambito delle disposizioni unificate che disciplinano l’esercizio della responsabilità genitoriale in caso di separazione, divorzio o scissione della coppia genitoriale non matrimoniale (capo II del titolo IX del primo libro del codice civile) – è l’art. 337-ter (Provvedi¬menti riguardo ai figli) dove si enuncia il principio generale che anche in caso di separazione dei genitori il figlio minore, non solo ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, ma anche il diritto “di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
Qui è la relazione con la rete parentale complessiva del figlio minore che deve essere tutelata, come gli stessi giudici spesso precisano testualmente. Per esempio in App. Milano, 11 febbraio 2008 si legge che “i nipoti hanno diritto a frequentare i nonni, soprattutto quando hanno con gli stessi relazioni significative… il bagaglio di memoria e di affetto di cui i nonni sono portatori va preservato, valorizzato e distinto da quello genitoriale, anche in situazioni di particolare difficoltà, ricorrendo all’ausilio di personale specializzato, per il superamento di situazioni di disagio nell’in¬teresse dei minori”.
Il legislatore ha riconosciuto da tempo tale diritto alla più ampia tutela parentale, con la L. 8 feb¬braio 2006, n. 64, art. 1, comma 1, (con il quale era stato modificato il previgente art. 155 cod. civ. e attribuito al giudice un elemento ulteriore di indagine e di valutazione nella scelta e nell’arti¬colazione di provvedimenti da adottare in tema di affidamento), nella prospettiva di una rafforzata tutela del diritto ad una crescita serena ed equilibrata che si pone con evidenza nel caso in cui il minore perda prematuramente un genitore (così Cass. Civ. Sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22081 e Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17191).
La linea interpretativa è quella tradizionale secondo cui queste disposizioni attribuiscono al minore il diritto di conservare rapporti significativi con gli ascendenti, nel quadro del mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con i propri genitori e con la medesima finalità di evitare, per quanto possibile, che la separazione produca traumi nello sviluppo della personalità del minore stesso ma non attribuiscono ai nonni un diritto di visita dei nipoti autonomamente tutelabile (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17191).
Il minore nei procedimenti in questione che concernono i rapporti tra genitori, non assume la qua¬lità di parte e la sua tutela è assicurata dalle norme sull’ascolto obbligatorio in quanto l’’art. 336, ultimo comma, c.c. (“per i provvedimenti di cui ai commi precedenti i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) trova applicazione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della responsabilità genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra ge¬nitori e minore e non in una controversia relativa al regime di affidamento e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita (nel matrimonio o fuori del matrimonio). In tale ipotesi, la partecipazione del minore nel conflitto genitoriale deve espri¬mersi, ove ne ricorrano le condizioni di legge, solo se ne ravvisi la corrispondenza agli interessi del minore medesimo e si riscontri un grado di discernimento adeguato, mediante il suo ascolto, oltre che mediante l’esercizio dei poteri istruttori officiosi di cui il giudice può usufruire in virtù della natura e della preminenza dell’interesse da tutelare (Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 e Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100)1
1 Per un approfondimento di questi aspetti si rinvia alla voce Ascolto del minore e alla voce Conflitto di interessi tra genitori e figli. .
Non è affatto escluso che i provvedimenti del tribunale sulla tutela del rapporto tra nonni e nipoti adottati nel corso del procedimento di separazione possano anche assumere, su istanza di parte, la forza e la valenza di provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale in quanto l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile attribuisce al giudice ordinario in caso di separazione il potere (esclusivo) di adottare tali provvedimenti.
b) È possibile l’intervento dei nonni nel processo di separazione?
Il problema che si deve affrontare è se, nell’ipotesi in cui sia in corso una causa di separazione tra i genitori del minore, i nonni, anziché ricorrere al tribunale per i minorenni (ai sensi dell’art. 317 bis c.c. sopra esaminato), possano invece intervenire direttamente nel processo di separazione (art. 105 c.p.c.) chiedendo al giudice della separazione particolari garanzie sul loro rapporto con i nipoti. Con ciò evitando una duplicazione delle procedure.
È pur vero che nel processo di separazione potranno essere gli stessi genitori ad introdurre nella causa, ove necessario, il tema dei rapporti del figlio con i rispettivi rami parentali (nonni, zii, cugini) e non vi è dubbio che il giudice della separazione abbia pieno titolo per occuparsi di questi aspetti considerato che le norme sulla separazione prevedono espressamente, come detto, che “il figlio minore ha diritto… di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 337-ter c.c. e già prima art. 155 c.c.), ma è altrettanto vero che la qualificazione molto chiara del “diritto” dei nonni operata dalla riforma sulla filiazione rafforza il convincimento che i nonni possano anche intervenire ex art. 105 c.p.c. nel processo di separazione secondo i principi generali. Prima della riforma del 2012 della filiazione poteva essere plausibile ritenere, relativamente ai rapporti tra il minore e gli ascendenti, come precisava anche l’art. 155 c.c. nel testo introdotto dalla legge 54/2006, che non si trattava di un diritto dei nonni ma di un diritto del minore e che di conseguenza i nonni non potessero essere ammessi ad intervenire nel processo di separazione dei genitori.
Tuttavia la giurisprudenza ha sempre ritenuto che i nonni non abbiamo un diritto di intervento, con motivazioni che sembrano prescindere dalla titolarità o meno di un diritto o meno in capo ai nonni alla relazione con i nipoti.
Si scrive per esempio in Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22081 che, in mancanza di una espressa previsione normativa, non è possibile ritenere che altri soggetti diversi dai coniugi siano legittimati ad essere parti nel giudizio di separazione” e si precisa che la legittimazione all’inter¬vento ad adiuvandum presuppone la titolarità nel terzo di una situazione giuridica in relazione di connessione – da individuarsi in termini di pregiudizialità dipendenza – con il rapporto dedotto in giudizio, tale da esporlo ai cosiddetti effetti riflessi del giudicato. Ciò posto – si conclude – anche alla luce della novella di cui alla legge n. 54 del 2006 che notevolmente valorizza la posizione degli ascendenti e degli altri parenti di ciascun ramo genitoriale nei confronti del minore, non pare po¬tersi riconoscere la sussistenza di una posizione siffatta in capo ai menzionati soggetti nell’ambito dei giudizi di separazione o divorzio, poiché immutati quanto alla natura, all’oggetto, ai diritti ed alle posizioni anche in seguito alla citata novella. Pertanto nel giudizio di separazione personale la legittimazione ad agire spetta – secondo la sentenza da ultimo richiamata – unicamente ai coniugi, non potendosi ravvisare la sussistenza di diritti relativi all’oggetto o dipendenti dal titolo dedotto nel processo che possano legittimare un intervento di terzi ovvero un interesse di terzi a sostenere le ragioni di una delle parti sul quale fondare un intervento ad adiuvandum.
Gli stessi principi sono stati ribaditi in Cass. civ. Sez. I, 27 dicembre 2011, n. 28902 dove si osserva che in assenza di un dato normativo che autorizzi un’iniziativa sul piano giudiziario degli ascendenti, come avviene nei giudizi de potestate (art. 336 c.c., comma 1), non è consentito l’intervento degli stessi nei giudizi di separazione e di divorzio, nei quali la posizione dei minori è tutelata sotto forme che non prevedono la loro assunzione della qualità di parte, né uno specifico diritto di difesa, come avviene nei procedimenti di adozione. D’altra parte, una lettura sistemati¬ca del quadro normativo, alla luce delle norme che disciplinano la revisione delle condizioni della separazione e che sono intese a dirimere i conflitti fra genitori, induce a ritenere che questi ultimi siano gli unici soggetti cui è affidata la legittimazione sostitutiva all’esercizio dei diritti dei minori. Pertanto anche in seguito alla novella dell’art. 155, comma 1, c.c., operata dalla legge n. 54/2006 gli ascendenti non sono titolari di alcun diritto a conservare rapporti e relazioni con i nipoti, ma solo di un mero interesse di natura morale o affettiva, il quale non legittima gli ascendenti stessi a intervenire nei giudizi di separazione e di divorzio.
La giurisprudenza di merito è allineata con quella di legittimità nel ritenere l’inammissibilità dell’in¬tervento dei nonni nel procedimento di separazione (Trib. Bari Sez. I, 27 gennaio 2009).
Nessuna decisione risulta ancora edita dopo la riforma della filiazione che indubbiamente ha qua¬lificato espressamente come diritto quello dei nonni alla conservazione dei rapporti con i nipoti minorenni (nuovo art. 317-bis c.c.). Pertanto in base a questa nuova chiarissima qualificazione potrebbero venire meno i dubbi sulla possibilità di intervento dei nonni nel processo di separa¬zione. L’intervento potrebbe essere considerato ammissibile con la stessa motivazione con cui è stato ritenuto ammissibile l’intervento dei figli maggiorenni (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296) sussistendo una connessione od un collegamento implicante l’opportunità di un simul¬taneus processus (Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398; Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844).
V Il punto di vista rigoroso della Corte europea dei diritti dell’uomo
Con una decisione molto significativa la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte europea di¬ritti dell’uomo, 20 gennaio 2015, caso Manuello e Nevi c/ Italia) ha affermato che le autorità giudiziarie e amministrative hanno il dovere di adottare sollecitamente tutte le misure, positive e negative, volte a favorire il riavvicinamento e gli incontri tra i minori e i loro familiari, compresi i nonni e che, pertanto, vìola l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sotto il pro¬filo del rispetto della vita familiare, la condotta delle autorità giudiziarie italiane nei confronti dei nonni cui sono stati di fatto preclusi gli incontri con la nipote per circa dodici anni, incontri in un primo momento autorizzati, ma mai attuati, nonostante la collaborazione prestata ai servizi sociali da parte dei nonni medesimi, e infine vietati, con l’argomentazione che ne poteva derivare turba¬mento alla minore, il cui padre, figlio dei ricorrenti, nelle more era stato assolto dall’imputazione di abusi sessuali a suo danno.
Un uomo e una donna si erano uniti in matrimonio nel 1996 e nel 1997 nasceva la loro figlia; abitano per molto tempo in una casa appartenente ai nonni paterni, vicino al domicilio di questi ultimi; anche dopo il trasloco in un altro appartamento, la minore continua a frequentare rego¬larmente i nonni nella cui casa conserva una camera e i suoi giochi. Nel 2002 la moglie chiedeva la separazione con addebito al marito; quest’ultimo veniva anche subito dopo denunciato dalla scuola materna frequentata dalla bambina, per sospette molestie sessuali. Contemporaneamente, la moglie chiedeva la decadenza dalla potestà al tribunale per i minorenni.
Da questo momento in poi sostanzialmente i nonni paterni non riescono più ad incontrare la nipo¬te. Il padre, nel 2006, veniva assolto dall’accusa penale perché il fatto non sussiste.
I nonni paterni ricorrevano al tribunale per i minorenni chiedendo di incontrare la nipote. Per due anni i contatti tra la bambina e i nonni avvengono solo tramite i servizi sociali con telefonate e let¬tere, in seguito i nonni chiedono di poterla incontrare, dichiarandosi disponibili a frequentare corsi appositi per prepararsi all’evento. A febbraio 2006 il Tribunale autorizza gli incontri ogni quindici giorni alla presenza dei servizi sociali incaricando i servizi stessi e la psicologa di relazionare entro giugno 2006. Nel giugno 2006, la psicologa chiede al giudice di sospendere la decisione sugli in¬contri con i nonni, motivando sulla circostanza che la minore avrebbe mostrato un senso di paura e di angoscia nei confronti del padre e poiché la figura dei nonni era ancora associata a quella del padre, aveva espresso il proprio rifiuto di incontrarli; segnala anche che i nonni avevano mostrato difficoltà ad avere una posizione autonoma rispetto al figlio e a comprendere le ragioni del disagio della nipote. Analoghe richieste formulano i servizi sociali.
Nel 2007 il tribunale per i minorenni di Torino dichiara non luogo a provvedere in ordine alla do¬manda di decadenza del padre dalla potestà genitoriale sulla figlia minore proposta dalla madre ex art. 330 c.c., ma dispone la sospensione dei rapporti della minore con i nonni paterni.
Contro il provvedimento, questi ultimi propongono reclamo sostenendo che il tribunale aveva omesso di valutare che nel maggio 2006 il padre era stato assolto dalle accuse di abuso sessuale e contestano che la bambina abbia manifestato un’effettiva volontà di non incontrarli. Con decreto del 29 aprile 2008, la Corte di Appello di Torino respinge il reclamo, in quanto l’assoluzione del padre non cambia la valutazione dei traumi subiti dalla minore in relazione alla figura paterna e di riflesso anche nei confronti dei nonni, la cui figura la bambina non riesce a scindere da quella del padre. I nonni ricorrono, infine, in Cassazione che dichiara inammissibile la domanda.
A questo punto i nonni paterni si rivolgono alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo denunciando la violazione dell’art. 8 della Convenzione sul rispetto della vita familiare, per l’eccessiva durata del procedimento davanti al tribunale per i minorenni ma anche per il mancato intervento delle auto¬rità italiane contro la condotta ostativa dei servizi sociali che non avrebbero messo in esecuzione la decisione del tribunale che autorizzava gli incontri. La Corte accoglie il ricorso ribadendo che l’art. 8 non si limita a prevenire ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici nella vita familiare ma impone agli stessi di intraprendere azioni positive e che garantiscano il rispetto effettivo della vita familiare nonché di predisporre strumenti giuridici volti a garantire l’effettività dei diritti degli interessati e in particolare il rapporto con i minori, anche nella crisi della coppia.
Tali principi – afferma la Corte – valgono non solo nel rapporto tra genitori e figli ma anche nel rapporto tra nonni e nipoti poiché anche queste relazioni rientrano nei legami familiari protetti dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella specie l’impossibilità di vedere i nipoti da parte dei nonni è dipesa, da un lato, da mancanza di diligenza delle autorità competenti e, in secondo luogo, dalla decisione delle stesse di sospendere gli incontri.
Nel caso di specie – si legge in sentenza – i ricorrenti non hanno potuto vedere la nipote per dodici anni, e hanno costantemente cercato un riavvicinamento con la bambina, attenendosi alle prescri¬zioni dei servizi sociali e degli psicologi. E’ chiaro che non è stato sufficiente mantenere una qual¬che forma di contatto tra nonni e nipote e il ritardo nel riavvicinamento ha avuto una conseguenza molto grave: la rottura totale del loro rapporto.
La Corte ritiene dunque che le autorità nazionali non abbiano compiuto sforzi adeguati e sufficienti per preservare il rapporto di parentela tra i ricorrenti e la loro nipote.
VI I nonni nel procedimento di adottabilità del minore
L’art. 8 della legge che disciplina l’adozione dei minori (legge 4 maggio 1983, n 184 come mo¬dificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149) attribuisce al tribunale per i minorenni il compito di dichiarare lo stato di adottabilità dei minori che si trovano in stato di abbandono “perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi” salvo che tale mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio. L’accerta¬mento di questa condizione di abbandono avviene attraverso un procedimento del quale la legge disciplina accuratamente i passaggi e nel quale al minore, ai genitori e ai parenti è riconosciuto e garantito il diritto di partecipazione e di difesa. Al termine di questo procedimento il tribunale dichiara lo “stato di adottabilità” del minore di cui è accertata la condizione di abbandono e – di¬ventata definitiva la decisione dopo l’eventuale fase di impugnazione – pronuncia successivamente l’adozione a favore di una coppia che sia stata preventivamente riconosciuta idonea sempre dal tribunale per i minorenni.
Interessa in questa sede soffermarsi sulla nozione di abbandono che costituisce il presupposto di tutto il procedimento. Non è sufficiente, come si è visto, che il minore sia abbandonato dai suoi genitori in quanto la legge richiede che vi sia privazione di assistenza morale e materiale del mi¬nore anche da parte dei “parenti tenuti a provvedervi”. Se vi è assistenza morale e materiale da parte di uno di questi parenti non può essere mai pronunciato lo stato di adottabilità del minore.
La legge non indica qui quali siano questi parenti “tenuti a provvedervi” ma si può fare riferimento alla categoria delle persone obbligate agli “alimenti” (art. 433 c.c.) dove ci si riferisce tra gli altri, oltre ai genitori, agli “ascendenti prossimi”. Nella stessa legge sull’adozione, all’art. 11 si fa riferi¬mento ai “parenti entro i quarto grado”.
D’altro lato la legge che disciplina l’adozione si apre proprio con l’affermazione di principio che ogni minore ha diritto di essere educato nella propria famiglia e la nozione di famiglia comprende certamente il ramo parentale prossimo.
Quindi la dichiarazione di adottabilità non può essere pronunciata se il minore – ancorché abban¬donato dai suoi genitori – risulti assistito adeguatamente dai parenti entro il quarto grado per esempio dagli zii oppure, appunto, dai nonni.
Deve trattarsi, però, di assistenza morale e materiale adeguata e credibile (Cass. civ. Sez. I, 24 novembre 2015, n. 23979; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2014, n. 16280; Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2006, n. 4407) e naturalmente prestata da parenti che – come si precisa nel successi¬vo art. 12 della legge – “abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore” (in caso contrario sarebbe plausibile la dichiarazione di adottabilità del minore: Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2018, n. 9021).
A queste condizioni i nonni sono riconosciuti come figure parentali rilevanti per escludere lo stato di adottabilità, relativamente a minori i cui genitori non siano stati in grado di garantire assistenza morale e materiale (per esempio Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11758 ha annullato la sentenza di merito con cui, in ragione di patologie di carattere mentale e dello stato di tossico¬dipendenza dei genitori biologici, si era erroneamente dichiarato lo stato di adottabilità dei figli, omettendo di valutare l’idoneità dei nonni paterni a provvedere all’assistenza ed alla cura dei nipoti, in violazione del diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia) ma anche per esempio nei confronti di un minore i cui genitori siano entrambi deceduti.
Nel caso in cui il procedimento di adottabilità venga, quindi, aperto i nonni hanno diritto di es¬sere convocati e ascoltati (art. 12) e di impugnare eventualmente i provvedimenti del tribunale (art.17 ss).
VII I nonni come parenti affidatari del minore
Le figure parentali sono in genere quelle più adatte a garantire assistenza ad un minore che si trovi temporaneamente privo di una tutela genitoriale idonea.
La legge prevede espressamente che i nonni – così come gli altri parenti entro il quarto grado, in-differentemente in linea retta o collaterale (tra cui gli zii) – possano assumere liberamente funzioni vicarianti rispetto a quelle genitoriali.
Fatta salva naturalmente l’adeguatezza della collocazione (che potrebbe essere sempre oggetto di accertamento giurisdizionale nell’ambito delle consuete procedure di contrato agli abusi della responsabilità genitoriale) la legge prevede che qualsiasi parente entro il quarto grado può acco¬gliere stabilmente nella propria abitazione un minore senza limiti di tempo. L’art. 9, sesto comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 fa obbligo solo a chi non è parente entro il quarto grado di segnalare all’autorità giudiziaria il protrarsi di una ospitalità di un minore oltre un periodo di sei mesi, in quanto evidentemente questo prolungarsi dell’ospitalità potrebbe essere indizio di un ab¬bandono di un minore da parte dei sui genitori.
I nonni possono essere pertanto legittimi affidatari di fatto di un minore senza limiti di tempo. E, come si è detto, mai potrebbe essere legittimamente dichiarata l’adottabilità di un minore al quale i nonni garantiscono adeguata assistenza.
La legittimazione dei nonni quali parenti affidatari è anche una legittimazione riconosciuta e ga¬rantita spesso dallo stesso tribunale in funzione sostituiva della collocazione presso i genitori nei casi in cui venga aperto dallo stesso tribunale un procedimento di controllo della responsabilità genitoriale. Può infatti accadere che il tribunale per i minorenni o il tribunale ordinario nel corso di una causa di separazione o divorzio (art. 38 disp. att. c.c.) ritengano necessario disporre misure limitative (art. 333 c.c.) o di decadenza (art. 330 c.c.) della responsabilità genitoriale. Non è af¬fatto raro che tali misure si sostanzino nell’affidamento del minore ai nonni anche per periodi di tempo prolungati.
Il giudice della separazione, nel suo potere di adottare i provvedimenti che ritiene più adeguati può senz’altro affidare il figlio nel corso o all’esito della causa di separazione anche ai nonni (Trib. Reggio Emilia, 24 agosto 2009) o comunque regolare i rapporti tra i nonni e il nipote anche d’ufficio (Trib. Reggio Emilia Sez. I, 17 maggio 2007).
VIII I nonni sono tenuti a mantenere i nipoti?
Una specifica disposizione del codice civile contenuta nell’ambito delle norme sulla responsabilità genitoriale (titolo IX del primo libro) dispone che “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro pro¬fessionale o casalingo” precisando subito dopo che “Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli” (art. 316-bis inserito dall’art. 40, comma 1, del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. n. 154).
Questa norma – che prima della riforma del 2013 era contenuta nell’art. 148 c.c. – prevede quindi l’obbligo dei nonni di occuparsi del mantenimento dei nipoti “quando i genitori non hanno mezzi sufficienti”. Sennonché l’obbligazione non è indicata come un’obbligazione direttamente verso i nipoti, ma come obbligo dei nonni (in generale degli ascendenti in ordine di prossimità) di “fornire ai genitori stessi i mezzi necessari”.
Innanzitutto è da osservare che ove i genitori siano privi di mezzi economici, i parenti in linea collaterale (e cioè gli zii) non possono essere condannati a fornire loro quanto necessario ad adem¬piere ai doveri imposti dalla legge nei confronti dei figli, atteso che la disposizione fa riferimento esclusivamente agli “ascendenti” e, quindi, ai soli parenti in linea retta. (Cass. civ. Sez. I, 24 novembre 2015, n. 23978).
Ai fini dell’interpretazione corretta della disposizione sono fondamentali Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 1995, n. 3402, Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509 e Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509 dove si è precisa che l’obbligo di provvedere al mantenimento del minore grava sugli ascendenti prossimi soltanto in via succedanea e sostitutiva rispetto ai ge¬nitori, e solo quando questi ultimi non siano in grado di adempiere al loro obbligo in via primaria e integrale.
L’obbligo di mantenimento dei figli minori spetta primariamente e integralmente ai loro genitori sicché, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimo¬niali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’i¬nadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui; pertanto l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adem¬piere i loro doveri nei confronti dei figli – che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli; così come il diritto agli alimenti ex art.433 cod. civ., legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità di reperire attività lavorativa, sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo.
Le decisioni richiamate suggeriscono quindi anche una interpretazione dell’art. 433 c.c. che rico¬nosce un’obbligazione principale ai genitori e solo sussidiaria ai nonni (“All’obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti nell’ordine… 3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi…”).
La giurisprudenza di merito si è adeguata a questa interpretazione Trib. Parma, 26 maggio 2014; Trib. Monza Sez. IV, 14 febbraio 2012; Trib. Trani, 13 aprile 2010; Trib. Vicenza 4 settembre 2009).
Si è discostato da questa line interpretativa Trib. Mantova, 22 novembre 2012 secondo l’art. 148, comma 2, c.c., va interpretato nel senso che l’obbligo di concorso degli ascendenti deve ritenersi sussistente non solo nei casi di impossibilità oggettiva di provvedere al mantenimento della prole da parte dei genitori ma anche in quello di omissione volontaria da parte di costoro nei confronti dei figli posto che scopo della norma è quello di salvaguardare in modo assoluto i minori e con la necessaria celerità.
Non presenta particolare problematicità il procedimento previsto. La disposizione sopra richiamata prevede che In caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento da parte dei genitori o dei nonni il presidente del tribunale, su istanza di chiunque vi ha interesse, sentito l’inadempiente ed assunte informazioni, può ordinare con decreto (non solo un obbligo diretto di mantenimento) ma anche che una quota dei redditi dell’obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata direttamente all’altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione della prole. Il decreto, notificato agli interessati ed al terzo debitore, costituisce titolo esecutivo, ma le parti ed il terzo debitore possono proporre opposizione nel termine di venti giorni dalla notifica. L’opposizione è regolata dalle norme relative all’opposizione al decreto di ingiunzione, in quanto applicabili. Le parti ed il terzo debitore possono sempre chiedere, con le forme del processo ordi¬nario, la modificazione e la revoca del provvedimento.
IX La tutela dei nonni in condizione di bisogno
a) I diritti di natura alimentare
I nipoti hanno verso i nonni obblighi di natura alimentare; così come i figli verso i genitori (art. 433 c.c.)2
2 Cfr la voce ASCENDENTI IN CONDIZIONE DI BISOGNO .
Le problematiche giuridiche connesse agli obblighi di natura alimentare verso gli ascendenti sono soprattutto riferibili alle persone anziane. Le difficoltà economiche sono molto frequenti in età avanzata, quando anche i legami familiari possono indebolirsi e lasciare soprattutto i più anziani privi di assistenza, emarginati o isolati. Non sono rari i casi in cui una persona anziana viene ad es¬sere privata non solo dell’affetto ma anche del sostegno dei figli, dei fratelli o di altri parenti stretti.
Sono due i presupposti previsti per l’insorgere di doveri di natura alimentare.
Si verifica lo stato di bisogno allorché mancano le risorse economiche occorrenti per soddisfare le essenziali e primarie esigenze di vita valutate non con riferimento alle norme dettate da leggi speciali per finalità di ordine generale di sostegno dell’indigenza, bensì in relazione al contesto socio-economico del richiedente (Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2012, n. 1253).
L’altro presupposto consiste nell’impossibilità da parte dell’interessato di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento, cioè – come è stato precisato con riguardo a qualsiasi persona – di trovare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali (Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509), situazione che per una persona anziana è evidentemente in re ipsa.
Su questi punti la giurisprudenza è sempre stata concorde (per esempio Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3334; Cass. civ. Sez. I, 6 ottobre 2006, n. 21572; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2004, n. 9185; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 1990, n. 1099).
Allorché, quindi, queste circostanze si verificano l’art. 433 del codice civile indica con precisione le persone tenute a soddisfare le necessità alimentari. Queste persone sono (oltre al coniuge ed ai fratelli se esistenti) i figli e, in loro mancanza i discendenti prossimi (cioè i figli dei figli).
Quindi non solo i figli devono occuparsi delle necessità dei loro genitori ma, se i figli non hanno la possibilità anche i nipoti prossimi (che quindi rispondono in via sussidiaria). Anche i generi e le nuore sono obbligati all’adempimento dell’obbligazione alimentare verso l’anziano (benché non siano stretti al beneficiario da alcun vincolo di parentela).
L’obbligo alimentare si suddivide tra tutti gli obbligati a seconda delle possibilità di ciascuno. L’art. 438 del codice civile lo prevede espressamente allorché prevede che gli alimenti “devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli”.
La proporzionalità comporta che l’obbligazione va considerata “parziaria” in contrapposizione a quella “solidale” in cui ciascuno degli obbligati è tenuto all’adempimento dell’intera obbligazione (art. 1292 codice civile).
L’anziano che si trova nella necessità di essere mantenuto – perché non è assistito spontaneamen¬te da nessuna delle persone a lui più vicine o da nessuno dei suoi familiari – può invitare per iscritto la persona obbligata o anche tutti gli obbligati a corrispondergli un assegno periodico. La persona obbligata potrebbe anche offrirsi di ospitare e mantenere in casa con sé il beneficiario (art. 443 codice civile), ma in caso di mancato accordo la decisione spetta al giudice.
L’obbligo di mantenimento – come molto opportunamente prevede l’art. 445 del codice civile – decorre dalla data dell’inoltro della richiesta scritta (che vale come messa in mora) purché l’inte¬ressato inizi il procedimento davanti al tribunale del foro di propria residenza entro i successivi sei mesi. Altrimenti, decorso questo termine, l’obbligo decorrerà dalla data della domanda giudiziale. La causa è regolata dalle norme del processo ordinario davanti al tribunale in composizione mo¬nocratica.
Il presidente del tribunale può anche ordinare agli obbligati il versamento di un assegno provviso¬rio (art. 446 codice civile) fino a che non sopravvenga la sentenza del tribunale. In considerazione della particolare natura della prestazione alimentare la persona obbligata a pagare il mantenimen¬to non può mai opporre in compensazione un proprio credito verso il beneficiario degli alimenti (art. 447 codice civile). L’obbligo di pagare gli alimenti ha natura personale; non si trasmette ai propri eredi e cessa quindi con la morte della persona obbligata (art. 448 codice civile).
b) La sanzione in caso di violazione degli obblighi alimentari verso i nonni
L’art. 570 del codice penale punisce con la reclusione fino a un anno congiuntamente ad una multa chiunque “fa mancare i mezzi di sussistenza … [anche] agli ascendenti”.
Nella importante decisione delle Sezioni Unite sull’articolo 570 del codice penale (Cass. pen. Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866) si è affermato che la condotta sanzionata dall’art. 570, com¬ma secondo, codice penale presuppone uno stato di bisogno, nel senso che l’omessa assistenza deve avere l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza, che comprendono quanto è necessario per la sopravvivenza, situazione che non si identifica né con l’obbligo di mantenimento né con quello alimentare, aventi una portata più ampia.
Si propone, così, una tripartizione delle obbligazioni di natura economica verso i congiunti (man¬tenimento, alimenti, mezzi di sussistenza) intendendo per mezzi di sussistenza” però – come ha ben precisato Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 2012, n. 49755 – “non più solo i mezzi per la sopravvivenza vitale (quali il vitto e l’alloggio), ma anche gli strumenti che consentano, in rap¬porto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del soggetto obbligato, un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana (quali, ad es., abbigliamento, libri di istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione)”.
c) Altri reati commessi contro i nonni
Non esistono naturalmente figure di reato tipiche verso i nonni, cioè reati che hanno come persone offese i nonni in quanto tali. Si tratta quindi di reati contro le persone anziane in generale.
Nel nostro sistema penale allorché un reato è commesso in danno di persone anziane non era prevista fino al 2009 nessuna specifica aggravante e la giurisprudenza utilizzava la circostanza aggravante di cui all’articolo 61, n. 5 codice penale (cosiddetta “minorata difesa” che consisteva nell’”aver profittato di circostanze di tempo, di luogo o di tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”) ritenendo però che “ l’età non può di per sé costituire condizione autosufficiente ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 codice penale, dovendo essere accom¬pagnata da fenomeni di decadimento o di indebolimento delle facoltà mentali o da ulteriori condi¬zioni personali, quali il basso livello culturale del soggetto passivo, che determinano un diminuito apprezzamento critico della realtà” (Cass. pen. Sez. II, 17 settembre 2008, n. 39023). Si trattava di una interpretazione, come è evidente, eccessivamente indulgente nei confronti dei reati contro gli anziani.
La legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha modificato il testo dell’articolo 61 n. 5 del codice penale che prevede ora come aggravante “l’avere profittato di cir¬costanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”.
Anche la giurisprudenza ne ha preso atto precisando ora che “a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 94 del 2009, l’aggravante della “minorata difesa” deve essere specificamente valutata anche in riferimento all’età senile della persona offesa, avendo voluto il legislatore assegnare rile¬vanza ad una serie di situazioni che denotano nel soggetto passivo una particolare vulnerabilità della quale l’agente trae consapevolmente vantaggio. Pertanto ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, l’età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative è rilevante nel senso che impone al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta criminosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di orientarsi da parte della vittima nella comprensione degli eventi secondo crite¬ri di normalità (Cass. pen. Sez. V, 13 luglio 2011, n. 38347; Cass. pen. Sez. II, 23 settembre 2010, n. 35997).
Benché si sia fatta finora applicazione di questa aggravante soprattutto nel caso di truffe o furti in danno di anziani, non è affatto escluso che anche il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare possa essere largamente agevolato dalla scarsa resistenza della vittima o dalla ridotta capacità di valutare i propri diritti.
L’anziano deve proporre però querela, in quanto il reato previsto nell’articolo 570 del codice penale è perseguibile solo a querela di parte. Si tratta di una palese privazione di garanzia per le vittime anziane di questi comportamenti che spesso non sono in condizione di venire a conoscenza della necessità legale di presentare una querela. Soltanto nel caso in cui la persona anziana sia inferma di mente potrebbe scattare il meccanismo previsto dalla legge per la nomina, da parte del giudice penale – su richiesta del pubblico ministero – di un curatore speciale per l’esercizio del diritto di querela (art. 121 codice penale) e quindi per l’attivazione di una maggiore tutela della vittima.
X Il risarcimento del danno per morte del nonno cagionata da fatto illecito altrui
La giurisprudenza negli anni passati ha espresso posizioni differenziate in ordine al tema della risar¬cibilità del danno non patrimoniale in seguito alla morte di un nonno cagionata dal fatto illecito altrui.
Le decisioni più recenti che hanno affrontato il tema dei presupposti del risarcimento a favore die nipoti in seguito alla morte del nonno per fatto illecito altrui sono Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21230 e Cass. civ. Sez. III, 7 dicembre 2017, n. 29332 che, ribaltando l’orienta¬mento precedente, affermano la piena risarcibilità del danno non patrimoniale da uccisione anche nel caso in cui non vi sia convivenza tra nonni e nipoti.
Si legge in queste importanti decisioni che in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione, proposta iure proprio dai congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., all’ambito ristretto della sola cd. “famiglia nucleare”, il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.
In senso analogo in passato si era espressa Cass. civ. Sez. III, 15 luglio 2005, n. 15019 che aveva ritenuto ammissibile il risarcimento “allorché sussista un legame affettivo basato su una frequentazione in atto e sulla consapevolezza della presenza in vita di una persona cara” indipen¬dentemente dalla convivenza.
Analoga era stata la soluzione proposta dalla giurisprudenza di legittimità per il caso in cui i nonni intendano chiedere il risarcimento dei danni a seguito della morte del nipote, cagionata da fatto illecito altrui. Cass. pen. Sez. III, 4 giugno 2013, n. 29735 ha ritenuto infatti che i nonni della vittima di un incidente stradale sono legittimati “iure proprio” a costituirsi parte civile per il risar¬cimento dei danni patrimoniali e morali, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di convivenza con la vittima medesima Si afferma, quindi, che ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale in favore dei nonni di una persona deceduta a seguito della commissione di un reato, costituitisi parti civili nel processo penale a carico del responsabile, non è indispensabile il requisito della convivenza con il nipote.
In passato aveva prevalso, invece, un orientamento fortemente contrario che dava rilevanza diri¬mente alla convivenza tra nonni e nipoti ai fini del risarcimento del danno.
Nella decisione su questo argomento più lontana nel tempo (Cass. civ. Sez. III, 23 giugno 1993, n. 6938) si era affermato che la risarcibilità dei danni morali per la morte di un nonno causata da atto illecito penale presuppone, oltre al rapporto di parentela, anche la perdita, in con¬creto, di un effettivo e valido sostegno morale, non riscontrabile in mancanza di una situazione di convivenza. L’orientamento era stato poi confermato da Cass. civ. Sez. III, 11 maggio 2007, n. 10823 in cui sé affermato che per il risarcimento dei danni morali conseguenti alla morte di un nonno a seguito di investimento stradale non è necessaria la prova specifica della sua sussisten¬za, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presunzione. La prova del danno morale è, infatti, correttamente desunta dalle indubbie sofferenze patite dai parenti, sulla base dello stretto vincolo familiare, di coabitazione e di frequentazione, che essi avevano avuto, quando ancora la vittima era in vita.
Ugualmente sulla necessità della convivenza ai fini del risarcimento del danno si era fondata Cass. civ. Sez. III,16 marzo 2012, n. 4253. In un sinistro stradale aveva petrso la vita un uomo di 71 anni. I nipoti agivano – insieme a figli del deceduto – per il risarcimento dei danni. Il tribunale di Ravenna riconosceva il danno non patrimoniale ai figli ma non ai nipoti. La decisione veniva confermata dalla Corte di appello di Bologna. Avverso la sentenza tutti i congiunti ricorrevano per cassazione.
Con uno dei motivi di ricorso motivo si deduceva la violazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056, 2059 cod. civ. in riferimento al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale ai nipoti. La Corte di cassazione rigettava il ricorso entrando nel merito della questione posta e cioè se, nell’ambito del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale per la morte di un con¬giunto, il rapporto (reciproco) nonni-nipoti debba essere, o meno, ancorato alla convivenza per essere giuridicamente qualificato e rilevante, dovendosi escludere, nel caso lo si ritenga ancorato alla convivenza e questa non via sia, la possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti, co¬stanti e caratterizzati da affetto reciproco e solidarietà, con il familiare defunto. Ritiene il Collegio che al quesito debba darsi risposta positiva. Infatti “la giurisprudenza di legittimità – si afferma – non ha avuto molte occasioni per affrontare specificamente il problema. Si discutono quindi i due orientamenti contrapposti. Da un lato quello che ritiene necessaria la convivenza. Dall’altro quello che individua il fondamento del danno non patrimoniale, per tutti i superstiti, nella lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili, costituendo la perdita dell’unità familiare perdita di affetti e di solidarietà inerenti alla famiglia come società naturale, ritenendosi quindi sufficiente l’emersione, sul piano probatorio, di “normali rapporti” che, specie in assenza di coabitazione, lasciano intendere come sia rimasto intatto, e si sia rafforzato nel tempo, il legame affettivo e parentale tra prossimi congiunti. Ritiene il Collegio- si afferma nella sentenza qui esa¬minata – che debba darsi continuità all’indirizzo più risalente. A favore di una posizione qualificata giuridicamente, affinché possa essere configurato il diritto al risarcimento del danno non patrimo¬niale da lesione del rapporto parentale per la morte del nonno o del nipote, militano: la configura¬zione della famiglia, emergente dalla Costituzione come famiglia nucleare; la posizione dei nonni nell’ordinamento giuridico; il bilanciamento, che il dato esterno e oggettivo della convivenza con¬sente, tra l’esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari e la necessità, costituzionalmente imposta dall’art. 2 Cost., di dare rilievo all’esplicarsi dei diritti della personalità nelle formazioni sociali e, quindi, nella famiglia dei conviventi, come proiezione sociale e dinamica della personalità dell’individuo.
Dai precetti costituzionali dedicati alla famiglia (artt. 29, 30 e 31 Cost.), anche alla luce del modo come essi si sono inverati nell’ordinamento, attraverso l’opera congiunta della giurisprudenza del Giudice delle leggi e del legislatore ordinario, emerge una famiglia (anche di fatto) nucleare, incentrata su coniuge, genitori e figli, rispetto alla quale soltanto è delineata la trama dei diritti e doveri reciproci. Deve ritenersi, quindi, che il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, dia luogo a danno non patrimoniale, consistente nella perdita del rapporto parentale, quando col¬pisce soggetti legati da un vincolo parentale stretto, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota la vita familiare nucle¬are. Mentre, affinché possa ritenersi leso il rapporto parentale di soggetti al di fuori di tale nucleo (nonni, nipoti, genero, nuora) è necessaria la convivenza, quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, anche allargati, caratterizzati da reciproci vincoli affettivi, di pratica della solidarietà, di sostegno economico.
La giurisprudenza di merito si era allineata a questa soluzione. Così per esempio Trib. Taranto Sez. III, 13 gennaio 2015, Trib. Bologna Sez. III, 3 novembre 2014, Trib. Firenze, 13 marzo 2014 e Trib. Alessandria, 26 aprile 2013 secondo cui affinché il risarcimento possa essere at¬tribuito a soggetti estranei al ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico.
Come si è sopra detto le più recenti Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21230 e Cass. civ. Sez. III, 7 dicembre 2017, n. 29332 hanno ribaltato questo orientamento.
I
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2018, n. 9021 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di rapporti significativi tra nonni e nipoti e di un legame familiare, è legittima l’esclusione di questi dall’affidamento dei minori e la conseguente dichiarazione di adottabilità.
Cass. civ. Sez. III, 7 dicembre 2017, n. 29332 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da uccisione”, proposta iure proprio dai con¬giunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno.
Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21230 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da uccisione”, proposta “iure proprio” dai con¬giunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., all’ambito ristretto della sola cd. “famiglia nucleare”, il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.
Trib. Lucca, 4 maggio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito alla questione della risarcibilità del danno da perdita del rapporto parentale, lamentato da parenti non facenti parte del nucleo familiare ristretto (come i nonni), si ritiene che “la convivenza costituisca il connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali anche allargati”, e quindi necessario ai fini del riconoscimento risarcitorio.
Trib. Venezia Sez. minori, 24 dicembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 317-bis c.c., pur non attribuendo ai nonni un diritto autonomo di visita dei nipoti, nel prevedere che deb¬bano essere assicurati tra gli stessi rapporti significativi, riconosce l’importanza che assume, nella vita e nella formazione educativa dei minori, la conoscenza e frequentazione dei nonni, in funzione di una loro crescita sere¬na ed equilibrata, quali componenti della famiglia allargata, nel cui interno essi sono collocati.
Cass. civ. Sez. I, 24 novembre 2015, n. 23979 (Nuova Giur. Civ., 2016, 5, 669, nota di CINQUE)
Il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia di origine comporta che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità sia praticabile unicamente come soluzione estrema. In tale contesto, la ribadita e seria disponibilità dei nonni a prendersi cura del minore, quali figure sostitutive dei genitori, può valere ad inte¬grare, se concretamente accertata e verificata, il presupposto giuridico per escludere la situazione di abbandono ai sensi dell’art. 8 della legge n. 184/83 e, quindi, la dichiarazione di adottabilità del medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 24 novembre 2015, n. 23978 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove i genitori siano privi di mezzi economici, i parenti in linea collaterale (nella specie, le zie paterne) non pos¬sono essere condannati a fornire loro quanto necessario ad adempiere ai doveri imposti dalla legge nei confronti dei figli, atteso che l’art. 148, comma 2, c.c. (nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, antecedente alle modifiche di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 154 del 2013) fa riferimento esclusivamente agli “ascendenti” e, quindi, ai soli parenti in linea retta.
Corte cost. 24 settembre 2015, n. 194 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, primo comma, delle disposizioni di attuazione del codice civile, come modificato dall’art. 96, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 76, 77 e 111 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Bologna e dal Tribunale per i minorenni di Napoli.
Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 336, ultimo comma c.c. che prevede la nomina di un difensore del minore, trova applicazione solo relativa¬mente ai provvedimenti limitativi della potestà genitoriale, nel caso in cui si ravvisi un concreto profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore, e non anche alle controversie relative al regime di affidamento e di visita del minore, nelle quali la partecipazione del minore si esprime mediante l’ascolto dello stesso, quale adempimento già previsto dall’art. 155-sexies c.c., divenuto necessario ai sensi dell’art. 315-bis c.c., in tutte le questioni e procedure che lo riguardano, in attuazione dell’art. 2 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.
Corte europea diritti dell’uomo, 20 gennaio 2015 (Foro It., 2015, 3, 4, 126)
In caso di separazione personale dei genitori, l’effettivo esercizio del diritto di visita ai figli minori deve essere ri¬conosciuto anche agli ascendenti, rientrando pure le relazioni tra nonni e nipoti nell’ambito di protezione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ne discende l’obbligo degli Stati di adottare nel minor tempo possibile le misure necessarie a riunire i parenti ed i minori.
Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 2015, n. 752 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti con i nipoti non vuol dire che questi abbiano sempre e comunque diritto di visita del minore: l’interesse preminente del fanciullo, infatti, prevale comunque nel bilanciamento degli interessi in gioco.
Trib. Taranto Sez. III, 13 gennaio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, ai fini del riconoscimento del pregiudizio conseguente alla morte del congiunto, il requisito della convivenza non è necessario tra soggetti in relazione di stretta parentela, cioè appartenenti alla stessa famiglia di origine, quali fratelli o genitori e figli, mentre è impre¬scindibile tra parenti non stretti (quali nipoti, nonni, generi e nuore).
Trib. Bologna Sez. III, 3 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il danno non patrimoniale conseguente ad un fatto illecito presunto e consistente nella perdita del rapporto parentale, può essere riconosciuto a soggetti legati da uno stretto vincoli di parentela che subiscono una lesio¬ne del diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. Non parimenti allorquando la medesima domanda venga avanzata da soggetti ritenuti estranei a tale ristretto nucleo familiare quali i nonni, i nipotini, il genero o la nuora in quanto, in tali casi, è necessaria la presenza di un ulteriore fattore rappresentato da una situazione di convivenza attraverso il quale si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, da reciproci legami affettivi, solidarietà e so¬stegno economico che facciano assumere rilievo giuridico al collegamento tra danneggiato primario e secondario e alla famiglia intesa come luogo ove si esplica la personalità di ciascuno ai sensi dell’art. 2 della Costituzione.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2014, n. 16280 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione di stato di adottabilità del minore, ai fini dell’accertamento della situazione di abban¬dono, la dichiarata disponibilità di uno dei parenti entro il quarto grado (nella specie, i nonni) ad occuparsi dello stesso non è sufficiente, di per sé, ad escludere detta situazione, dovendo la stessa essere suffragata da ele¬menti oggettivi che la rendano credibile.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11758 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di adozione di minori, la prioritaria esigenza per il figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i genitori biologici e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia, alla stregua del legame naturale oggetto di tutela ai sensi dell’art. 1 della legge 4 maggio 1983, n. 184, impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità ai fini del perseguimento del suo superiore interesse. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito con cui, in ragione di patologie di carattere mentale e dello stato di tossicodipendenza dei genitori bio¬logici, si era erroneamente dichiarato lo stato di adottabilità dei figli, omettendo di valutare l’idoneità dei nonni paterni a provvedere all’assistenza ed alla cura dei nipoti, in violazione del diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia).
Trib. Parma, 26 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori di fornire a questi i mezzi necessari per adempiere al loro dovere nei confronti dei figli, ex art. 147 c.c., deve ritenersi sussistente non solo nei casi di impossibilità oggettiva di provvedere al mantenimento della prole da parte dei genitori, ma anche in quello di omissione volontaria da parte di entrambi o di uno solo di essi, laddove l’altro non sia in grado di provvedervi da solo. Scopo della norma di cui all’art. 148 c.c. è, invero, quello di salvaguardare i minori con la necessaria celerità ed in modo assoluto. In tale contesto, il riferimento legislativo relativo al non avere i genitori mezzi sufficienti al mantenimento va inteso nel senso che l’insufficienza dei mezzi ammette anche una integrazione parziale e non la sola sostituzione di una categoria all’altra.
Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione di cui all’art. 336, ultimo comma, c.c. – che richiede l’assistenza di un difensore – trova applica¬zione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della potestà genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore, e non già in una controversia relativa al regime di affidamen¬to e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita.
Trib. Firenze, 13 marzo 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il danno non patrimoniale derivante dalla perdita di un congiunto a seguito di un fatto illecito è di norma rico¬nosciuto ai soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. Affinché possa, in generale, tale risarcimento essere attribuito anche a soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contrad¬distinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico. Solo in tal modo assume rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell’art. 2 Costituzione.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento finalizzato all’accertamento del diritto del minore a conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti del genitore scomparso, il comportamento ostativo del genitore superstite costituisce una condotta pregiudizievole secondo la previsione degli artt. 330 e segg. cod. civ., poiché comporta la rescissione, nella fase evolutiva della formazione della personalità del ragazzo, di una sfera affettiva e identitaria assolu¬tamente significativa, e lo espone a una vicenda esistenziale particolarmente dolorosa. In tale procedimento il minore assume la qualità di parte e, in quanto tale, come affermato anche dall’art. 315 bis cod. civ., introdotto dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, ha diritto di essere ascoltato, purché abbia compiuto gli anni dodici, ov¬vero, sebbene di età inferiore, sia comunque capace di discernimento, cosicché la sua audizione non può – anche nel caso in cui il giudice disponga, secondo il suo prudente apprezzamento, che l’audizione avvenga a mezzo di consulenza tecnica – in alcun modo rappresentare una restrizione della sua libertà personale ma costituisce, al contrario, un’espansione del diritto alla partecipazione nel procedimento che lo riguarda, quale momento formale deputato a raccogliere le sue opinioni ed i suoi effettivi bisogni.
E’ inammissibile perché investe statuizioni destinate ad assumere un mero carattere strumentale e non deciso¬rio. Inoltre, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, i provvedimenti, emessi in sede di volontaria giurisdizione, che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell’art. 333 c.c., in quanto privi dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale, non sono impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione di cui all’art. 111 Cost., comma 7, neppure se il ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale, quali espressione del diritto di azione, in quanto la pronunzia sull’osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all’esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito (Cass. civ. sezione I n. 11756 del 14 maggio 2010). 21.
E’ errato ritenere che il minore non sia parte del processo in quanto la sua partecipazione al giudizio avviene mediante il suo rappresentante legale e in caso di conflitto di interesse a mezzo del curatore speciale (cfr. Cass. civ. sezione I, n. 3804 del 17 febbraio 2010).
E’ ravvisabile un conflitto d’interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale (nella specie, figlio minore e genitore), ogni volta che l’incompatibilità delle rispettive posizioni è anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività; ne consegue che la relativa verifica va compiuta in astratto ed ex ante secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio, anzichè in concreto ed a posteriori alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa. Pertanto, in caso di omessa nomina di un curatore speciale, il giudizio è nullo per vizio di costituzione del rapporto processuale e per violazione del principio del contraddittorio.
Cass. pen. Sez. III, 4 giugno 2013, n. 29735 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I nonni della vittima di un incidente stradale sono legittimati “iure proprio” a costituirsi parte civile per il risar¬cimento dei danni patrimoniali e morali, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di convivenza con la vittima medesima.
Trib. Alessandria, 26 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consi¬stente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. Perché, invece, possa ritenersi risarcibile la lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora) è necessa¬rio che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell’art. 2 Costituzione. E’ dunque risarcibile il danno non patrimoniali per i nipoti, in caso di uccisione della nonna, nel caso in cui sia stato provato, nel processo, che questi trascorrevano buona parte della giornata con l’ascendente, che li accudiva, provvedendo al soddisfacimento dei loro bisogni materiali ed affettivi, essendo i genitori impegnati in attività lavorativa
Cass. pen. Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La previsione di cui all’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 delinea una fattispecie di reato, nella parte precettiva, del tutto autonoma rispetto all’art. 570 codice penale. Trattasi, in particolare, di un reato omissivo proprio, di carattere formale, essendo individuato il soggetto attivo unicamente in colui che è tenuto alla pre¬stazione dell’assegno di divorzio e consistendo la condotta nell’inadempimento dell’obbligo economico stabilito dal provvedimento del Giudice. Il rinvio operato dalla richiamata norma di legge all’art. 570 codice penale è, pertanto, unicamente limitato alla pena ivi prevista.
La condotta sanzionata dall’art. 570, comma secondo, codice penale presuppone uno stato di bisogno, nel senso che l’omessa assistenza deve avere l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza, che comprendono quanto è necessario per la sopravvivenza, situazione che non si identifica né con l’obbligo di mantenimento né con quello alimentare, aventi una portata più ampia.
Nel reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile previsto dall’art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970 il generico rinvio, “quoad poenam”, all’art. 570 cod. pen. deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo di quest’ultima disposizione.
Il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile è procedibile d’ufficio e non a querela della persona offesa, in quanto il rinvio contenuto nell’art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970 all’art. 570 cod. pen.si riferi¬sce esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità.
Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 2012, 49755 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, nella nozione penalistica di “mezzi di sussistenza” debbono ritenersi compresi non più solo i mezzi per la sopravvivenza vitale (quali il vitto e l’alloggio), ma anche gli strumenti che consentano, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del sogget¬to obbligato, un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana (quali, ad es., abbigliamento, libri di istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione).
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 (Giur. It., 2012, 6, 1288, nota di SAVI)
È ammissibile nei giudizi di separazione e divorzio l’intervento del figlio maggiorenne che abbia diritto al mantenimento, in tale veste legittimato in via prioritaria a ottenere il versamento diretto del contributo. L’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controver¬sia, o eventualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento del contributo al mantenimento sulla base di un’appro¬fondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
Nei giudizi di separazione o di divorzio, alla luce della introduzione dell’art. 155-quinquies c.c., l’intervento in giudizio, per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia, o eventualmente in via adesiva, del figlio maggiorenne, il quale, in quanto economicamente dipendente e sotto certi aspetti assimilabile al minorenne (in ordine al quale, proprio in epoca recente, in attuazione del principio del giusto processo, si tende a realizzare forme di partecipazione e di rappresentanza sempre più incisive), assolve, latusensu, una funzione di amplia¬mento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento – anche in forma ripartita – del contributo al mantenimento, sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
È legittimo l’intervento in giudizio ex art. 105 c.p.c. sia principale che litisconsortile, del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economi¬camente, nella causa di separazione coniugale dei propri genitori, volto ad ot¬tenere il contributo al proprio mantenimento, per proseguire gli studi universitari; detto intervento, inquadrabile nella fattispecie sostanziale di cui all’art. 155 quinquies, comma 1, c.c., concerne un diritto relativo all’og¬getto della lite ed ampliando il contraddittorio consente un simultaneusprocessus avanti al giudice del merito che deve decidere in ordine all’entità e al versamento dell’assegno di mantenimento, sulla base dell’analisi delle istanze proposte da tutti gli interessati.
Cass. civ. Sez. III,16 marzo 2012, n. 4253 (Danno e Resp., 2013, 1, 35 nota di ROSSETTI)
Il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consi¬stente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. Perché, invece, possa ritenersi risarcibile la lesione del rapporto paren¬tale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneg¬giato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione.
Trib. Monza Sez. IV, 14 febbraio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari per adempiere al loro dovere nei confronti dei figli previsto dall’art. 148 c.c. si concretizza solo in via sussidiaria. Altresì, siffatto obbligo si determina non già se uno dei due genitori sia rimasto inadempiente al proprio dovere, ma se ed in quanto l’altro genitore non abbia i mezzi per provvedervi.
Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 2012, n. 1253 (Fam. Pers. Succ. on line, 2012, 3)
In materia di alimenti l’entità del bisogno deve essere valutata non già con riferimento alle norme dettate da leggi speciali per finalità di ordine generale di sostegno dell’indigenza, bensì in relazione al contesto socio-econo¬mico del richiedente e del “de cuius”, in analogia a quanto previsto dall’art. 438 cod. civ. in materia di alimenti.
Cass. civ. Sez. I, 27 dicembre 2011, n. 28902 (Famiglia e Diritto, 2012, 4, 348, nota di VULLO)
Anche in seguito alla novella dell’art. 155, comma 1, c.c. operata dalla legge n. 54/2006, gli ascendenti non sono titolari di alcun diritto a conservare rapporti e relazioni con i nipoti, ma solo di un mero interesse di natura morale o affettiva, il quale non legittima gli ascendenti stessi a intervenire nei giudizi di separazione e di divorzio.
Cass. civ. sez. I, 11 agosto 2011, n. 17191 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 1, co. 1 della L. 8 febbraio 2006, n. 54, che ha novellato l’art. 155 c.c., nel prevedere il diritto dei mino¬ri, figli di coniugi separati, di conservare rapporti significativi con gli ascendenti (ed i parenti di ciascun ramo genitoriale), non attribuisce ad essi un autonomo diritto di visita, ma affida al giudice un elemento ulteriore di indagine e di valutazione nella scelta e nell’articolazione di provvedimenti da adottare in tema di affidamento, nella prospettiva di una rafforzata tutela del diritto ad una crescita serena ed equilibrata del minore.
In questa prospettiva al giudice è affidato il potere di emettere provvedimenti che tengano conto dell’interesse prevalente del minore e che si prestino alla maggiore flessibilità e modificabilità possibile in relazione alla finalità di attuare la miglior tutela in favore del minore.
Ne deriva che il giudice di merito deve evitare al minore di trovarsi al centro di un conflitto interfamiliare (nella specie, tra nonni paterni e genitori) la cui risoluzione non spetta certamente a quest’ultimo.
Cass. pen. Sez. V, 13 luglio 2011, n. 38347 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, l’età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative introdotte dalla legge n. 94 del 2009, rileva in misura maggiore attribuendo al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta criminosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di orientarsi da parte della vittima nella comprensione degli eventi secondo criteri di normalità.
App. Roma Sez. minori, 8 giugno 2011 (Corriere del Merito, 2011, 11, 1037, nota di ATTADEMO)
Il nostro ordinamento non garantisce in via immediata e diretta l’aspirazione dei nonni alla frequentazione dei nipoti, ma offre una tutela soltanto indiretta all’interesse dei parenti ad avere rapporti con i minori, mediante il riconoscimento della loro legittimazione a sollecitare il controllo giurisdizionale, ai sensi dell’art. 336 c.c., sull’esercizio della potestà dei genitori, i quali non possono senza motivo plausibile impedire i rapporti dei figli con detti congiunti; ciò non esclude l’intervento del giudice nel riconoscere e regolamentare i rapporti predetti, in quanto, dovendo i provvedimenti giurisdizionali essere ispirati sempre all’interesse del minore e rientrando la tutela del vincolo affettivo e di sangue nell’ambito di un tale interesse, il rifiuto del genitore può ritenersi giusti¬ficato solo in presenza di serie e comprovate ragioni che sconsiglino di assicurare e regolamentare i rapporti dei nonni con il minore, potendo negarsi il diritto di visita unicamente quando il rapporto dei nonni con il nipote appare pregiudizievole.
Trib. Minorenni Catanzaro, 7 febbraio 2011 (Corriere del Merito, 2011, 11, 1038 nota di ATTADEMO)
Non sussiste nell’ordinamento italiano un vero e proprio diritto dì visita dei nonni e degli altri parenti, ma solo un interesse del minore ad una crescita sana ed equilibrata, alla cui realizzazione possono contribuire anche le figure dei nonni, a meno che non sussistano ragioni che ostano al mantenimento di tale rapporto.
Trib. Minorenni Milano, 1 ottobre 2010 (Famiglia e Diritto, 2011, 4, 416)
Pur non spettando ai nonni, ed agli altri parenti, un vero e proprio diritto di visita, il loro interesse legittimo è tutelato solo in maniera indiretta, mediante il riconoscimento della legittimazione, ex art. 336 c.c., a sollecitare il controllo giudiziario sull’esercizio della potestà dei genitori, i quali non possono, senza un plausibile motivo, vietare i rapporti dei figli con i parenti più stretti.
Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I genitori hanno l’obbligo di mantenere i propri figli, secondo il disposto di cui all’art. 147 c.c. Tale obbligo grava su entrambi i genitori in senso primario ed integrale, con la conseguenza che, laddove uno di essi, non volesse o non potesse ottemperarvi, l’altro è tenuto a farvi fronte, ricorrendo a tutte le proprie risorse economiche, sfruttando le proprie capacità di lavoro, salvo poi agire contro l’inadempiente per ottenere un contributo pro¬porzionale alle sue condizioni economiche. Ne deriva che l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari per adempiere al loro dovere di mantenimento ha natura sussidiaria, dunque, succedanea e che trova applicazione non già perché uno dei due genitori è inadempiente all’obbligo de quo, ma se ed in quanto l’altro genitore non è in grado di provvedervi. Ciò premesso, nel caso concreto, si è ritenuta corretta la sentenza im¬pugnata laddove aveva ritenuto che la ricorrente non avesse diritto ad ottenere dai nonni paterni, in luogo del padre inadempiente, un assegno per il mantenimento del proprio figlio, dal momento che la stessa, in base alle risultanze probatorie, risultava in grado di assolvere al suo personale dovere di mantenimento.
Il diritto agli alimenti previsto dall’art. 433 c.c. sussiste se risulta provato lo stato di bisogno nonché l’impos¬sibilità dell’alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento mediante la propria attività lavorativa. Qualora quest’ultimo sia in grado di trovare un’occupazione confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali, nulla può pretendere dai soggetti indicati nell’art. 433 citato. In tal senso, nel caso concreto, è stata corretta la sentenza gravata laddove aveva negato alla ricorrente il diritto di percepire un con¬tributo economico per il mantenimento del figlio da parte dei nonni paterni, in luogo del padre inadempiente, in quanto, secondo il disposto dell’art. 433, comma 1, n. 3 c.c., gli ascendenti prossimi sono tenuti a versare gli alimenti in via succedanea e sostitutiva solo se (circostanza non rinvenuta nel caso di specie) i genitori non sono nelle condizioni di adempiere al loro personale obbligo di mantenimento dei figli.
Cass. pen. Sez. II, 23 settembre 2010, n. 35997 (Dir. Pen. e Processo, 2010, 12, 1422)
A seguito della modifica introdotta dalla legge n. 94 del 2009, l’aggravante della “minorata difesa” deve essere specificamente valutata anche in riferimento all’età senile della persona offesa, avendo voluto il legislatore as¬segnare rilevanza ad una serie di situazioni che denotano nel soggetto passivo una particolare vulnerabilità della quale l’agente trae consapevolmente vantaggio.
Trib. Trani, 13 aprile 2010 (Corriere del Merito, 2010, 8-9, 815)
L’obbligo degli ascendenti legittimi o naturali di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché questi ultimi possano provvedere ai loro doveri nei confronti dei figli previsto dall’art. 148 c.c. è di natura sussidiaria e presuppone che nessuno dei genitori abbia i mezzi sufficienti per il mantenimento dei figli.
Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’ammissibilità dell’intervento di un terzo in un giudizio pendente tra altre parti è sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento implicante l’opportunità di un “simultaneuspro¬cessus”. In particolare, la facoltà di intervento in giudizio, per far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto in causa, deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della “legitimatio ad causam”, attenendo questa alle condizioni dell’azione e non ai presupposti processuali.
Cass. civ. sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22081 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
La legittimazione all’intervento ad adiuvandum presuppone la titolarità nel terzo di una situazione giuridica in relazione di connessione – da individuarsi in termini di pregiudizialità dipendenza – con il rapporto dedotto in giudizio, tale da esporlo ai cd. effetti riflessi del giudicato. Ciò posto, anche alla luce della novella di cui alla L. n. 54 del 2006 che notevolmente valorizza la posizione degli ascendenti e degli altri parenti di ciascun ramo geni¬toriale nei confronti del minore, non pare potersi riconoscersi la sussistenza di una posizione siffatta in capo ai menzionati soggetti nell’ambito dei giudizi di separazione o divorzio, poiché immutati quanto alla natura, all’og¬getto, ai diritti ed alle posizioni anche in seguito alla citata novella. (Fattispecie re¬lativa al riconoscimento in appello della sussistenza di un interesse giuridicamente protetto in capo ai nonni, legittimante i medesimi ad un intervento ad adiuvandum ex art. 105, comma secondo, c.p.c. nel giudizio di separazione. Il Giudice di legittimità cassa senza rinvio la pronuncia impugnata).
Trib. Vicenza, 4 settembre 2009 (Famiglia e Diritto, 2010, 6, 589 nota di LONG)
L’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi per mantenere la prole è assimilabile all’obbligo di cor¬rispondere gli alimenti, disciplinato dagli artt. 433-448 c.c.. Il dovere dei nonni di concorrere al mantenimento sussiste dunque solo qualora i redditi e i patrimoni dei genitori non siano, nel complesso, sufficienti a far fronte alle esigenze primarie dei figli. Il contributo a carico degli ascendenti, inoltre, deve essere assegnato sia in pro¬porzione del bisogno di chi li domanda, sia delle condizioni economiche di chi deve somministrarlo.
Trib. Reggio Emilia, 24 agosto 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Considerata l’inadeguatezza genitoriale delle parti, incapaci di collaborare tra di loro per il benessere dei minori, di prendersi cura dei figli e di preservarli dal conflitto, il giudice istruttore della causa separazione può disporre in via provvisoria l’affidamento dei minori agli ascendenti attribuendo ad essi il potere di assumere le decisioni sia ordinarie che – previa consultazione coi genitori – straordinarie nell’interesse dei minori ed il compito di favorire i rapporti dei ragazzi con entrambi i genitori (nella specie, il giudice istruttore ha affidato i due minori ai nonni paterni, che si erano dichiarati disponibili ad accogliere i nipoti presso la loro abitazione, ed ha posto a carico di ciascuno dei genitori l’obbligo di versare un assegno mensile agli affidatari, disponendo inoltre la vigilanza servizio sociale).
Trib. Bari Sez. I, 27 gennaio 2009 (Corriere del Merito, 2009, 5, 504 nota di NATALI)
È inammissibile l›intervento adesivo degli avi nel procedimento di separazione personale tra i coniugi in quanto, dall›individuazione dell›oggetto del giudizio e dalla regola della legittimazione esclusiva ad agire dei coniugi, deriva che non esistono diritti relativi all›oggetto o dipendenti dal titolo dedotto nel processo di separazione né interesse a sostenere le ragioni di una delle parti che possano legittimare l›intervento dei terzi. L›aspirazione dei nonni ad avere rapporti con i nipoti riceve una tutela indiretta, mediante il riconoscimento della legittimazione ex art. 336 c.c. a sollecitare il controllo giudiziario sull›esercizio della potestà dei genitori da parte del Tribunale per i minorenni.
Cass. pen. Sez. II, 17 settembre 2008, n. 39023 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di minorata difesa, l’età non può di per sé costituire condizione autosufficiente ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 codice penale, dovendo essere accompagnata da fenomeni di decadimento o di indebolimento delle facoltà mentali o da ulteriori condizioni personali, quali il basso livello culturale del sog¬getto passivo, che determinano un diminuito apprezzamento critico della realtà.
App. Milano, 11 febbraio 2008 (Famiglia e Diritto, 2008, 4, 357, nota di PANUCCIO DATTOLA)
I nipoti hanno diritto a frequentare i nonni, soprattutto quando hanno con gli stessi relazioni significative. Il bagaglio di memoria e di affetto di cui i nonni sono portatori va preservato, valorizzato e distinto da quello genitoriale, anche in situazioni di particolare difficoltà, ricorrendo all’ausilio di personale specializzato, per il superamento di situazioni di disagio nell’interesse dei minori.
Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24423 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I nonni, ai quali è impedita dai genitori la frequentazione del nipote minorenne, possono adire il giudice minorile per ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 333 c.c., che consenta loro di incontrare il nipote. Sebbene il provvedimento giurisdizionale “innominato” non possa imporre serenità di rapporti del minore con i propri paren¬ti, è compito del giudice minorile intervenire al fine di garantire, nell’interesse del minore, serenità ed equilibrio in detti rapporti.
Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’intervento principale o dell’intervento litisconsortile nel processo, anche se l’articolo 105 cod. proc. civ. esige che il diritto vantato dall’interveniente non sia limitato ad una meramente generica comunanza di riferimento al bene materiale in relazione al quale si fanno valere le antitetiche pretese delle parti, la diversa natura delle azioni esercitate, rispettivamente, dall’attore in via principale e dal convenuto in via riconvenzionale rispetto a quella esercitata dall’interveniente, o la diversità dei rapporti giuridici con le une e con l’altra dedotti in giudizio, non costituiscono elementi decisivi per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente a farlo ritenere ammissibile la circostanza che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.
Trib. Reggio Emilia Sez. I, 17 maggio 2007 (Fam. Pers. Succ. 2008, 3, 227, nota di TEDIOLI)
Il giudice anche d’ufficio, avuto riguardo all’esclusivo interesse del minore, può disciplinare i rapporti tra nipoti ed avi, disponendo che il minore possa trascorrere una parte del tempo anche presso i nonni materni o paterni. Il comma 1 dell’art. 155 c.c. attribuisce solo al minore il diritto di conservare rapporti significativi con i prossimi congiunti (ascendenti e parenti di ciascun ramo genitoriale), mentre questi ultimi hanno solo un interesse a che le condizioni di separazione vengano fissate (consensualmente o giudizialmente) in modo tale da consentire loro di avere rapporti personali con la prole dei coniugi separandi.
Cass. civ. Sez. III, 11 maggio 2007, n. 10823 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di danno morale dovuto ai parenti della vittima – nella specie, figlio e nipoti conviventi con la donna deceduta a causa di un investimento stradale -, non è necessaria la prova specifica della sua sussistenza, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presun¬zione. La prova del danno morale è, infatti, correttamente desunta dalle indubbie sofferenze patite dai parenti, sulla base dello stretto vincolo familiare, di coabitazione e di frequentazione, che essi avevano avuto, quando ancora la vittima era in vita.
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3334 (Foro It., 2008, 6, 1, 2009)
Il riconoscimento del diritto agli alimenti è subordinato alla dimostrazione della sussistenza di un duplice presup¬posto, costituito, da una parte, dallo stato di bisogno, dall’altra, dalla impossibilità da parte dell’alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di attività lavorativa confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali.
Cass. civ. Sez. I, 6 ottobre 2006, n. 21572 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provve¬dere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa, sicché, ove l’alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l’impossibilità, per circostanze a lui non imputabile, di trovarsi un’occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata.
Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2006, n. 4407 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione di stato di adottabilità del minore, ai fini dell’accertamento della situazione di abban¬dono, la dichiarata disponibilità di uno dei parenti entro il quarto grado (nella specie, i nonni) ad occuparsi dello stesso non è sufficiente, di per sé, ad escludere detta situazione, dovendo la stessa essere suffragata da ele¬menti oggettivi che la rendano credibile.
Cass. civ. Sez. III, 15 luglio 2005, n. 15019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di morte di un familiare è ammissibile il risarcimento del danno non patrimoniale ai congiunti non con¬viventi con la vittima, allorché sussista un legame affettivo basato su una frequentazione in atto e sulla consa¬pevolezza della presenza in vita di una persona cara (nel caso di specie, si è ammesso il risarcimento del danno ai nipoti per la morte del nonno).
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2004, n. 9185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’assegno a carico dell’eredità, previsto dall’art. 9 della legge 1 dicembre 1970 n.898, in favore dell’ex coniuge in precedenza beneficiario dell’assegno di divorzio che versi in stato di bisogno, va quanti¬ficato in relazione al complesso degli elementi espressamente indicati nello stesso art. 9-bis, cioè tenendo conto, oltre che della misura dell’assegno di divorzio, dell’entità del bisogno, dell’eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. Ad un tal riguardo, l’entità del bisogno deve essere valutata non già con riferimento alle norme dettate da leggi speciali per finalità di ordine generale di sostegno dell’indigenza – le quali sono prive di ogni collegamento con ragioni di solidarietà familiare, che costituiscono, invece, il fondamento della norma in esame -, bensì in relazione al contesto socio – economico del richiedente e del “de cuius”, in analogia a quanto previsto dall’art. 438 cod. civ. in materia di alimenti.
Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 1995, n. 3402 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di mantenimento dei figli minori, siano essi legittimi o naturali, spetta primariamente e integralmente ai loro genitori sicchè, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un con¬tributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui; pertanto l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinchè possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli – che investe contempora¬neamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli.
Cass. civ. Sez. III, 23 giugno 1993, n. 6938 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La risarcibilità dei danni morali per la morte di un congiunto causata da atto illecito penale presuppone, oltre al rapporto di parentela, anche la perdita, in concreto, di un effettivo e valido sostegno morale, non riscontrabile in mancanza di una situazione di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per il tipo di parentela, non abbia diritto di essere assistito anche moralmente dalla vittima (nella specie, la suprema corte, in base all’indicato principio ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il diritto al risarcimento dei danni morali per i nonni non conviventi con la vittima).
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 1990, n. 1099 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche dell’impossibilità da parte dell’alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di at¬tività lavorativa, deve essere rigettata la domanda di alimenti ove l’alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica, e la impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un’occupazione confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali.

La violazione dell’autodeterminazione in quanto lesione di un bene già di per sé autonomamente apprezzabile giustifica di per sè il risarcimento del danno inferto sulla base di una liquidazione equitativa

Cass. civ. Sez. III, 23 marzo 2018, n. 7260
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13959-2015 proposto da:
M.A., D.P.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ATERNO 9, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO PELLICCIARI, che li rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
MA.MA.FR., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO LAURI, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
T.A., LLOYD ADRIATICO SPA, ASSITALIA LE ASSICURAZION D’ITALIA SPA, GROUPAMA ASSICURAZIONI SPA, LLOYD’S OF LONDON, AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE ROMA (OMISSIS);
– intimati –
Nonché da:
T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI TRE OROLOGI 20, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA FUSCO, che lo rappresenta e difende in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrente incidentale –
contro
M.A., D.P.F., AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE ROMA (OMISSIS), LLOYD’S OF LONDON, GROUPAMA ASSICURAZIONI SPA ASSITALIA LE ASSICURAZION D’ITALIA SPA, LLOYD ADRIATICO SPA, MA.MA.FR.;
– intimati –
nonché da:
GENERALI ITALIA SPA, in persona dei suoi procuratori speciali Dott. C.P. E Dott. P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CILIBERTI, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrente incidentale –
contro
MA.MA.FR., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO LAURI, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente all’incidentale –
contro
M.A., D.P.F., T.A., ALLIANZ SPA, GROUPAMA ASSICURAZIONI SPA LLOYD’S OF LONDON, AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE ROMA (OMISSIS), MA.MA.FR.;
– intimati –
Nonché da:
MA.MA.FR., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO LAURI, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrente incidentale –
contro
T.A., LLOYD ADRIATICO SPA, AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE ROMA (OMISSIS), GROUPAMA ASSICURAZIONI SPA, LLOYD’S OF LONDON, ASSITALIA LE ASSICURAZION D’ITALIA SPA, M.A., D.P.F.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 6638/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 29/10/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/01/2018 dal Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. TOMMASO BASILE, che ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza resa in data 29/10/2014, la Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello proposto da Ma.Ma.Fr. e da T.A., e in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da M.A. e da D.P.F. diretta alla condanna della Ma. e del T. al risarcimento dei danni subiti dalle attrici a seguito del decesso del proprio marito e padre, D.F., quale conseguenza del colpevole inadempimento in cui erano incorsi i convenuti nell’esercizio della propria attività medica.
2. Al giudizio avevano altresì preso parte l’Azienda Unità Sanitaria Locale Roma (OMISSIS), l’Ina Assitalia s.p.a., la Lloyd’s of London, la Lloyd Adriatico s.p.a. e la Gan Italia s.p.a., tutte chiamate a fini di manleva.
3. A sostegno della decisione assunta, la corte territoriale, in dissenso rispetto alla decisione del primo giudice, ha rilevato come, benché la Ma. e il T. si fossero resi effettivamente responsabili della tardiva diagnosi dell’adenocarcinoma polmonare sofferto da D.F., colpevolmente trascurando di avviarlo ai necessari approfondimenti diagnostici, era comunque emersa l’insussistenza di alcun nesso di causalità tra l’omissione dei medici convenuti e il decesso di D.F..
4. Sotto altro profilo, la corte territoriale ha sottolineato come le attrici avessero totalmente omesso di allegare alcunché in ordine alle scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute, dovendo pertanto escludersi l’avvenuta dimostrazione di alcuna conseguenza risarcibile in favore delle stesse.
5. Avverso la sentenza d’appello, M.A. e D.P.F. propongono ricorso per cassazione sulla base di tre motivi d’impugnazione, illustrati da successiva memoria.
6. T.A. resiste con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso principale, affidato a un unico motivo di censura.
7. Ma.Ma.Fr. resiste con tre distinti controricorsi, proponendo altresì ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso incidentale del T., sulla base di due motivi d’impugnazione.
8. La Generali Italia s.p.a. (già Ina Assitalia s.p.a.) resiste con controricorso, proponendo ricorso incidentale sulla base di due motivi d’impugnazione.
9. Nessun altro intimato ha svolto difese in questa sede.
10. Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha depositato memoria, concludendo per il rigetto del ricorso principale, l’assorbimento dei ricorsi incidentali di T.A. e di Ma.Ma.Fr. e il rigetto del ricorso incidentale proposto da Generali Italia s.p.a..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, le ricorrenti principali censurano la sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degliartt. 1218 e 2043 c.c.(in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente escluso l’effettiva allegazione e dimostrazione, da parte delle attrici, del danno consistito nella perdita delle chances legate all’esecuzione delle terapie palliative di cui D.F. avrebbe potuto anticipatamente usufruire, al fine di alleviare le gravi sofferenze patite sin dai primi contatti avuti con i medici originariamente convenuti: sofferenze la cui sussistenza (peraltro incontestata tra le parti) doveva ritenersi ben documentata dalle evidenze probatorie complessivamente acquisite al giudizio.
2. Con il secondo motivo, le ricorrenti principali censurano la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo controverso (in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 5), per avere la corte territoriale omesso di esaminare il fatto consistito nella mancata fruizione, da parte di D.F., delle terapie palliative delle quali lo stesso avrebbe potuto beneficiare (con conseguente alleviamento delle sofferenze patite) ove i medici convenuti avessero tempestivamente indirizzato lo stesso agli approfondimenti diagnostici indispensabili per la diagnosi della patologia neoplastica sofferta.
3. Con il terzo motivo, le ricorrenti principali si dolgono della nullità della sentenza impugnata per violazionedell’art. 132 c.p.c., n. 4 (in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale omesso di dettare un’adeguata motivazione circa l’affermata irrisarcibilità della perdita delle chances terapeutiche (anche solo palliative) da parte di D.F..
4. Le censure illustrate dalle ricorrenti principali – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte – devono ritenersi fondate nei termini di seguito indicati.
5. Il profilo critico di principale rilievo delle doglianze avanzate dalle odierne ricorrenti appare con immediatezza riconducibile alla contestazione dell’erroneità della decisione del giudice a quo nella parte in cui ha ritenuto non adeguatamente allegate e comprovate, dalle attrici, le circostanze di fatto concernenti il danno consistito nell’imposizione, a carico di D.F., di una condizione esistenziale di materiale impedimento a scegliere cosa fare nell’ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, ovvero di programmare il suo essere persona e, dunque, l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell’esito; e tanto, in conformità agli arresti della giurisprudenza di questa Corte, correttamente richiamati dai giudici d’appello (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23846 del 18/09/2008, Rv. 604661 – 01).
Le censure in esame attirano dunque l’attenzione del Collegio sulla contestata legittimità del passaggio della sentenza impugnata in cui si evidenzia il difetto di (necessaria) allegazione, in cui sarebbero incorse le attrici, per non avere le stesse dedotto alcunché “in ordine alle scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso” (id est, se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute) (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata).
6. In relazione a tale ultimo punto, dev’essere preliminarmente osservato come, dall’esame delle deduzioni contenute negli scritti difensivi delle originarie attrici, risulta che le stesse ebbero ad allegare, sin dall’iniziale instaurazione del giudizio, tanto la denuncia, da parte di D.F., di forti dolori alla base dell’emitorace destro in occasione della prima visita radiologica cui lo stesso fu sottoposto dalla dott.ssa Ma., quanto la costante accusa della ridetta rilevante e persistente sintomatologia dolorosa in occasione delle diverse visite specialistiche effettuate dal dott. T..
Deve pertanto ritenersi che le circostanze di fatto consistenti nella sopportazione di una condizione esistenziale di forte o rilevante dolore fisico (e dunque di materiale apprezzabile sofferenza) sin dal primo contatto con i convenuti, fossero state debitamente dedotte in giudizio dalle originarie attrici.
Proprio con riguardo a tali (incontestate) circostanze di fatto, le originarie attrici ebbero ad argomentare la rimproverabilità del comportamento colposo dei medici convenuti, per avere gli stessi compromesso – non avviando tempestivamente il paziente ai doverosi approfondimenti diagnostici -, non tanto (o non solo) l’evitabilità dell’evento letale, quanto (e soprattutto) le possibilità di un apprezzabile prolungamento della vita residua (quale possibile effetto di un’eventuale terapia avviata in epoca anteriore), o anche solo la qualità di tale ridotta prospettiva esistenziale, che non sarebbe stata certamente pregiudicata da una tempestiva (e dunque anteriore) conoscenza, da parte del paziente, delle proprie effettive e reali condizioni di salute.
7. Fermo il riscontro di tali puntuali allegazioni circostanziali (da ritenere, peraltro, altresì comprovate, exart. 115 c.p.c., trattandosi di fatti e circostanze nei cui confronti non risultano mai opposte, neppure in questa sede, specifiche contestazioni di controparte), occorre convenire con le ricorrenti principali là dove denunciano l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto indispensabile, al fine di procedere alla valutazione delle relative rivendicazioni risarcitorie, la specifica deduzione, da parte delle attrici, di quali sarebbero state “le scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso”, non potendo accedersi a una considerazione in re ipsa del danno denunciato (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata).
8. Sul punto, osserva il Collegio come la corte territoriale sia incorsa in un evidente equivoco, atteso che il danno nella specie denunciato dalle attrici non può in nessun modo farsi consistere nella perdita di specifiche possibilità esistenziali alternative, necessariamente legate alle particolari scelte di vita non potute compiere dal paziente (un discorso solo impropriamente, e in larga misura erroneamente, tradotto con l’equivoco richiamo al tema della perdita di chances), bensì con la perdita diretta di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo, non configurabile alla stregua di un quantum (eventualmente traducibile in termini percentuali) di possibilità di un risultato o di un evento favorevole (secondo la definizione elementare della chance comunemente diffusa nei discorsi sulla responsabilità civile), ma apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto; e dunque quale situazione soggettiva suscettibile di darsi ben prima (al di qua) di qualunque (arbitraria) scelta personale che si voglia già compiuta, o di là da compiere; e ancora, al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta.
9. Il senso della compromissione della ridetta situazione soggettiva di libertà appare d’immediata comprensione non appena si rifletta sulla circostanza per cui, non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali che il velo d’ignoranza illecitamente indotto dalla colpevole condotta dei medici convenuti ha per sempre impedito che si attuassero come espressioni di una scelta personale. Poiché anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose. Rilievo che vale a tradursi in una specifica percezione del sé quale soggetto responsabile, e non mero oggetto passivo, della propria esperienza esistenziale; e tanto, proprio nel momento della più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine.
10. La tutela (risarcitoria) della situazione soggettiva in esame si risolve, pertanto, nell’immediata protezione giuridica di una specifica forma dell’autodeterminazione individuale (quella che si esplica nella particolare condizione della vita affetta da patologie ad esito certamente infausto) e, dunque, del valore supremo della dignità della persona in questa sua ulteriore dimensione prospettica; una situazione soggettiva che deve ritenersi fatalmente e direttamente violata dal colpevole ritardo diagnostico della patologia ad esito certamente infausto di cui si sia reso autore il sanitario chiamato a risponderne.
11. Sulla base delle considerazioni che precedono, pertanto, deve ritenersi che, una volta attestato il colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica ad esito certamente infausto – nonché il dato (di per sé, peraltro, non indispensabile) della condizione di materiale (rilevante o, comunque, apprezzabile) sofferenza del paziente derivante dalla ridetta patologia – (come ritualmente comprovato, rispetto al D., secondo la valutazione del giudice a quo), la conseguente violazione del diritto del paziente di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una simile condizione di vita, vale a integrare la lesione di un bene già di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno così inferto sulla base di una liquidazione equitativa.
12. Dalle indicate premesse discende l’accertamento dell’avvenuta falsa applicazione, ad opera della Corte d’appello di Roma, degliartt. 1218 e 2043 c.c., là dove la stessa ha ritenuto che, alla luce delle evidenze incontestate, non potesse farsi luogo all’accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalle attrici (odierne ricorrenti), sul presupposto che le stesse si sarebbero sottratte all’assolvimento degli oneri di necessaria allegazione argomentativa e probatoria in ordine alle scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute.
13. Con l’unico motivo del proposto ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso principale, T.A. censura la sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degliartt. 1218 e/o 2043 c.c., degliartt. 2727 e 2729 c.c., delD.M. 21 febbraio 1997,art. 1 (in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato la violazione, da parte del T., delle norme cautelari nella specie applicabili in relazione al mancato avviamento del paziente ai necessari approfondimenti diagnostici, al fine di anticipare l’accertamento della patologia neoplastica dallo stesso sofferta, attesa l’inesigibilità, nei confronti del T., di una capacità interpretativa dei referti radiografici allo stesso consegnati dal paziente, al momento della relativa visita, suscettibile di consentirgli l’effettivo avviamento dello stesso ai ridetti approfondimenti, tenuto conto del ragionevole affidamento riposto, dallo stesso T., nella competenza dei colleghi radiologi che avevano provveduto alla previa creazione e interpretazione della documentazione radiografica acquisita, dalle quali ultime era emersa l’insussistenza di alcuna obiettiva esigenza di ulteriori accertamenti, come peraltro confermato in occasione delle indagini tecniche eseguite nel corso del giudizio.
14. Il motivo – il cui esame s’impone a seguito della ritenuta fondatezza del ricorso principale – è inammissibile.
15. Al riguardo, rileva preliminarmente il Collegio come l’odierno ricorrente incidentale – nel rivendicare l’erroneità della sentenza impugnata là dove ha trascurato di considerare l’inesigibilità di una capacità interpretativa della documentazione radiografica in esame, o la legittimità dell’affidamento nella competenza dei colleghi radiologi che avevano provveduto alla previa creazione e interpretazione di detta documentazione – dimostri di non aver integralmente colto la ratio effettiva della decisione fatta propria dal giudice a quo.
Sul punto, varrà ribadire come la corte territoriale abbia ravvisato lo specifico profilo di rimproverabilità del comportamento del T., non già in relazione alla mancata comprensione di ciò che era comprensibile, bensì nell’aver trascurato – dinanzi al carattere, per così dire, muto della documentazione radiografica – i segnali clinici (e, in primo luogo, il significativo rilievo della persistente, inspiegata, sintomatologia dolorosa accusata dal paziente) che apparivano tali da imporre, secondo un criterio di normalità, una più scrupolosa prudenza nell’approfondimento della ricerca delle relative cause, non avviando il D. al compimento di quelle ulteriori forme di accertamento specialistico che gli avrebbero consentito (come di fatto in seguito avvenuto) una più tempestiva diagnosi delle cause effettive della sofferenza nella specie avvertita con tanta persistente continuità.
Quanto a tale ultimo aspetto, le censure in questa sede avanzate dal T. devono ritenersi per altro verso inammissibili, atteso che, con il motivo in esame, il ricorrente – lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, delle fattispecie astratte recate dalle norme richiamate – allega un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma giuridica, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr., ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica del ricorrente, l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sé incontroverso, insistendo propriamente il T. nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice a quo.
Nel caso di specie, infatti, ritiene il ricorrente di poter ridiscutere, in sede di legittimità, i termini dell’oggettiva perspicuità della documentazione diagnostica e, più in generale, dei segni clinici illo tempore esaminati dal T., al fine di trarne la conseguenza dell’inesigibilità, dallo stesso, del compito di indirizzare il paziente a un più adeguato approfondimento diagnostico; là dove, viceversa, la combinata valutazione delle circostanze di fatto indicate dalla corte territoriale a fondamento del ragionamento in concreto eseguito (secondo il meccanismo presuntivo di cuiall’art. 2729 c.c.) non può in alcun modo considerarsi fondata su indici privi, icto oculi, di quella minima capacità rappresentativa suscettibile di giustificare l’apprezzamento ricostruttivo che il giudice del merito ha ritenuto di porre a fondamento del ragionamento argomentato in sentenza.
Ne consegue che, al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam delle censure sollevate dall’odierno ricorrente deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti, dei fatti di causa o dei rapporti tra le parti ritenuti rilevanti.
Si tratta, come appare manifesto, di un’argomentazione critica con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato.
Ciò posto, il motivo d’impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile, non essendo consentito alla parte censurare come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi (Sez. 3, Sentenza n. 10385 del 18/05/2005, Rv. 581564; Sez. 5, Sentenza n. 9185 del 21/04/2011, Rv. 616892), non potendo ritenersi neppure soddisfatti i requisiti minimi previstidall’art. 360 c.p.c., n. 5 ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti.
16. Con il primo motivo del ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso incidentale del T., Ma.Ma.Fr. si duole della nullità della sentenza impugnata per violazionedell’art. 132 c.p.c., n. 4 (in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale omesso di dettare alcuna motivazione con riferimento alle obiezioni sollevate dalla Ma. in relazione alle contraddizioni rilevabili nella relazione tecnica d’ufficio acquisita in sede d’appello, circa le difficoltà concernenti l’interpretazione della documentazione radiografica sottoposta alla valutazione della stessa Ma..
17. Con il secondo motivo, la Ma. si duole della nullità della sentenza impugnata per violazionedell’art. 132 c.p.c., n. 4 (in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale trascurato di dettare alcuna motivazione con riguardo alle contestazioni sollevate dalla Ma. in relazione alle modalità di valutazione (ex ante-ex post) della radiografia del 30/10/97 dalla stessa refertata.
18. Con riguardo al ricorso incidentale della Ma., osserva il Collegio non esservi luogo a provvedere, avendo la ricorrente condizionato la proposizione di detto ricorso all’eventuale accoglimento del ricorso incidentale del T., nella specie ritenuto inammissibile.
19. Con il primo e il secondo motivo del proprio ricorso incidentale, la Generali Italia s.p.a. si duole della nullità della sentenza impugnata per violazionedell’art. 112 c.p.c.(in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 4), nonché per omesso esame di fatti decisivi controversi (in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 5), per avere la corte territoriale totalmente omesso di pronunciarsi sulla domanda ritualmente e tempestivamente avanzata da Generali Italia s.p.a. (già Ina Assitalia s.p.a.) per la condanna delle originarie attrici alla restituzione di quanto alle stesse corrisposto in esecuzione della condanna pronunciata dalla sentenza di primo grado, successivamente riformata in appello.
20. La rilevata fondatezza dei motivi del ricorso principale (e il conseguente accoglimento di quest’ultimo) valgono a giustificare l’assorbimento della rilevanza del ricorso incidentale proposto da Generali Italia s.p.a., dovendo riservarsi al successivo giudizio di rinvio il compito di affrontare le questioni di merito concernenti la sussistenza e/o la misura dell’eventuale dovere di restituzione delle somme pagate dall’assicurazione ricorrente incidentale in esecuzione della sentenza di primo grado.
21. Sulla base del complesso delle argomentazioni che precedono, rilevata la fondatezza del ricorso principale proposto da M.A. e D.P.F., e l’inammissibilità di quello incidentale condizionato proposto da T.A., assorbita la rilevanza del ricorso incidentale proposto dalla Generali Italia s.p.a. (escluso il rilievo di quello della Ma.), dev’essere disposta, con l’accoglimento del ricorso principale, la cassazione della sentenza impugnata, in relazione al ricorso accolto, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Roma, cui è rimesso di provvedere, sulla base degli elementi di fatto acquisiti al processo, al riscontro della consistenza effettiva del danno denunciato dalle originarie attrici, in applicazione del seguente principio di diritto:
La violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di chances connesse allo svolgimento di singole specifiche scelte di vita non potute compiere, ma nella lesione di un bene già di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere, una volta attestato il colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica ad esito certamente infausto (da parte dei sanitari convenuti), l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno così inferto sulla base di una liquidazione equitativa.
Al giudice del rinvio è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale proposto da M.A. e D.P.F..
Dichiara inammissibile il ricorso incidentale proposto da T.A..
Dichiara assorbita la rilevanza del ricorso incidentale proposto dalla Generali Italia s.p.a..
Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi al principio di diritto di cui in motivazione, oltre a provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

La Consulta rigetta l’istanza volta a introdurre un’ulteriore modalità di assunzione della testimonianza del minore mediante incidente probatorio al di fuori delle garanzie di salvaguardia già previste dall’ordinamento

Corte cost., 27 aprile 2018, n. 92
PROCEDIMENTO PENALE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degliartt. 398, comma 5, e 133 del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce nel procedimento penale a carico di G. R., con ordinanza del 1 dicembre 2015, iscritta al n. 109 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018 il Giudice relatore Franco Modugno.
1.- Con ordinanza del 1 dicembre 2015, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimentoall’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 3 e 4 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva conL. 27 maggio 1991, n. 176, degliartt. 398, comma 5, e 133 del codice di procedura penale, nella parte in cui “non prevedono che, laddove la mancata comparizione del testimone minorenne sia dovuta a situazioni di disagio che ne compromettono il benessere, e sia possibile ovviare ad esse procedendo all’esame del minore presso il tribunale competente in relazione al luogo della sua dimora, … possa ritenersi giustificata la sua mancata comparizione e rogarsi il compimento dell’incidente al giudice per le indagini preliminari del tribunale nel cui circondario risiede il minore”.
1.1.- Il rimettente riferisce che, nel giudizio a quo, si procede nei confronti di una persona imputata del delitto di maltrattamenti in danno del figlio minorenne della propria convivente. Riferisce, altresì, che su istanza dell’imputato, formulata nel corso dell’udienza preliminare – come consentito a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 1994 – era stata disposta l’assunzione della testimonianza del minore nelle forme dell’incidente probatorio, ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen.
Il difensore della persona offesa aveva ripetutamente chiesto che l’incidente probatorio fosse rinviato o sospeso, ovvero delegato al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avellino – città nella quale il minore risiedeva con il padre -, ovvero ancora che vi procedesse lo stesso GIP di Lecce, ma sempre nel luogo di residenza del minore. Le istanze erano state motivate con lo stress accumulato da quest’ultimo, già esaminato più volte in sede di giudizio civile, con i problemi che la trasferta gli avrebbe recato sul piano della frequentazione e del rendimento scolastico, nonché con il disagio, manifestato dal minore, “a venire a Lecce, ove non si sentiva tranquillo per il timore di incontrare l’imputato”.
Il giudice a quo aveva disatteso, tuttavia, tali istanze con ordinanza del 30 settembre 2015, fissando al 27 novembre 2015 l’udienza per l’espletamento dell’incidente probatorio avanti a sé. Nell’occasione, il rimettente aveva rilevato come il “pur comprensibile” disagio lamentato dal minore non potesse condurre ad un apprezzamento di pericolosità dell’atto processuale per la sua salute, tale da giustificare la revoca dell’incidente probatorio. Con un precedente incidente probatorio era stata, infatti, espletata una perizia proprio per verificare la capacità a testimoniare del minore e l’esistenza di “problematicità” connesse alla sua sottoposizione ad esame: “problematicità” che il perito aveva escluso, stante “l’elevata maturità del minore” – ormai sedicenne – “e l’assenza di segni di fragilità”. Nella medesima ordinanza si era rilevato, altresì, come non ricorressero nemmeno i presupposti per un esame del minore “a domicilio”. Il comma 5-bisdell’art. 398 cod. proc. pen.consente, infatti, che l’udienza per l’espletamento dell’incidente probatorio si tenga in luogo diverso dal tribunale, allorché occorra assumere la testimonianza di un minore, prevedendo, tuttavia, l’esame presso l’abitazione della persona interessata solo qualora non esistano “strutture specializzate di assistenza”: strutture, di contro, reperibili nel circondario di Lecce presso il Tribunale per i minorenni, che disponeva di locali appositamente attrezzati. La finalità della citata disposizione non sarebbe, d’altra parte, quella di limitare i disagi di una eventuale trasferta, ma l’altra – da essa espressamente richiamata – di salvaguardare le “esigenze di tutela delle persone”: e ciò segnatamente a fronte dei pregiudizi di ordine emotivo e psicologico che possono derivare al minore da un esame in udienza a diretto contatto con le parti, compresi i soggetti che avrebbero eventualmente abusato di lui. Nella specie, peraltro, il minore era già stato sentito in diverse occasioni presso il Tribunale per i minorenni di Lecce, senza mai manifestare alcun disagio per il trasferimento. Il perito aveva, inoltre, chiarito che il minore, in ragione del suo “sviluppo evolutivo e psicologico”, poteva essere senz’altro esaminato direttamente dalle parti. Lo svolgimento dell’incidente probatorio ad Avellino, anziché a Lecce, non avrebbe offerto, d’altronde, alcuna garanzia in più sotto il profilo della tutela del minore, posto che, ai sensidell’art. 401, comma 3, cod. proc. pen., l’imputato – autore dei presunti maltrattamenti – avrebbe avuto, comunque sia, il diritto di assistere all’assunzione della testimonianza. Non sussistevano, pertanto, “controindicazioni” all’esame del minore in Lecce, laddove, invece, l’espletamento dell’incombente nel suo luogo di residenza avrebbe comportato “anche ostacoli al piano esercizio del diritto di difesa, al cui servizio si pone … il principio che assegna la competenza … territoriale al giudice del locus commissi delicti”. Proprio in questa prospettiva,l’art. 398, comma 5, cod. proc. pen., nell’individuare i casi nei quali l’incidente probatorio può essere delegato ad altro giudice, fa riferimento alle ipotesi nelle quali il mezzo di prova debba essere necessariamente assunto fuori del circondario del giudice che lo dispone, richiedendo, altresì, che ricorrano “ragioni di urgenza”, nella specie non ravvisabili.
Il giudice rimettente aveva, quindi, conclusivamente ritenuto che le preoccupazioni e i disagi manifestati dal minore imponessero soltanto di fare in modo che il suo esame avvenisse “con modalità protette”, tali da evitargli il contatto, anche solo visivo, con l’imputato prima, durante e dopo l’incidente probatorio, in maniera da tutelare la sua “tranquillità emotiva”. In quest’ottica, il rimettente – oltre a richiedere l’assistenza di uno psicologo – aveva disposto una serie di cautele, stabilendo, in particolare, differenti orari di arrivo per i due interessati e il divieto, per l’imputato, di comparire prima di un certo orario, così da consentire al minore di raggiungere la sala destinata all’escussione senza incrociarlo. Aveva disposto, infine, che l’imputato fosse ammesso ad assistere all’esame dietro uno “schermo/specchio”, in modo da non essere visto dal testimone.
1.2.- All’udienza fissata per l’espletamento dell’incidente probatorio, il minore non era, peraltro, comparso. Confermando quanto preventivamente comunicato dai servizi sociali del Comune di Avellino, il difensore della persona offesa e il padre di quest’ultima, comparsi in udienza, avevano rappresentato la volontà “particolarmente intensa e ferma” del minore di essere sentito ad Avellino, e non a Lecce, per il “forte timore” di un possibile incontro con l’imputato e l'”elevato disagio” generato in lui dall’idea di un ritorno nel territorio salentino.
Il rimettente esclude che una simile volontà – in assenza di una “seria controindicazione” per la salute del minore – possa integrare una situazione di “legittimo impedimento”, atta a giustificare la mancata ottemperanza all’obbligo di comparire ai sensi degliartt. 133 e 198 cod. proc. pen.Ribadisce, altresì, come non ricorra una condizione di urgenza atta a giustificare la delega dell’incidente probatorio al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avellino, “non essendo in pericolo la ripetibilità della prova”, né sussistendo “il rischio che il decorso del tempo … comprometta la possibilità di assumerla in condizioni di genuinità” (la prova sarebbe, infatti, senz’altro ripetibile, anche dopo l’ormai prossimo raggiungimento della maggiore età da parte del teste). Conferma, ancora, l’insussistenza dei presupposti per l’assunzione dell’atto a domicilio, tanto ai sensi dell’art. 398, comma 5-bis, cod. proc. pen., quanto ai sensidell’art. 502 cod. proc. pen.Rileva, infine, come non ricorrano neppure le “gravi difficoltà ad assicurare la comparizione della persona da sottoporre ad esame”, in presenza delle quali l’art. 147-bis, comma 5, delD.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271(Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) consente l’esame a distanza del testimone: modalità che, per la loro “povertà empatica”, sarebbero d’altronde – secondo il rimettente – “ben poco adatte all’esame del minore”.
A fronte di ciò, il giudice a quo si troverebbe, dunque, a dover disporre l’accompagnamento coattivo del minore a mezzo della forza pubblica, ai sensidell’art. 133 cod. proc. pen.
1.3.- Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale del “complesso normativo” che imporrebbe di adottare un simile provvedimento, al quale andrebbe ascritta “una non minima capacità traumatizzante sul minore”.
Nella specie, potrebbe in effetti “darsi per acquisito” che il minore avverta “effettivamente, e con estrema verosimiglianza”, un forte disagio nel far ritorno in luoghi che associa alla persona dell’imputato e ai fatti di maltrattamento che gli attribuisce: e ciò anche a voler supporre l’infondatezza delle accuse, posto che – se pure non nella città di Lecce, ma in un paese della provincia – l’imputato ha svolto nei confronti del minore stesso il ruolo di padre per diversi anni.
In simile situazione, lo svolgimento dell’incidente probatorio in Lecce, e ancor più l’accompagnamento coattivo del minore, comporterebbero la prevalenza delle “esigenze di razionale distribuzione degli affari e delle competenze” e di agevolazione dell’esercizio del diritto di difesa (di cui sarebbero espressione anche le norme sulla competenza territoriale) rispetto a quelle di tutela della serenità e dell’equilibrio del minore, che, “non per capriccio”, ma per ragioni di effettivo disagio psichico non voglia comparire davanti al giudice di un determinato luogo, con totale soccombenza delle seconde (e conseguente rischio di pregiudizio anche per la genuinità della prova).
In simili frangenti, l’impossibilità di delegare l’esecuzione dell’incidente probatorio al giudice per le indagini preliminari del luogo di residenza del teste minorenne, e la conseguente necessità di disporne l’accompagnamento coattivo, si porrebbero in contrasto con gli obblighi internazionali derivanti dagli artt. 3 e 4 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e, di riflesso, conl’art. 117 Cost.Il citato art. 3 impone, infatti, agli Stati parti, in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di attribuire un rilievo preminente all'”interesse superiore del fanciullo” (intendendosi, per tale, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, il minore degli anni diciotto) e di assicurare al medesimo “la protezione e le cure necessarie al suo benessere”: concetto, quello di “benessere”, da ritenere più ampio di quello di “salute” e comprensivo anche dell’esigenza di evitare “gli stati d’ansia o stress che possono essere prodotti dall’applicazione delle norme processuali”. A sua volta, l’art. 4 della Convenzione impegna gli Stati parti ad adeguare i propri ordinamenti interni a tali principi, anche tramite provvedimenti legislativi.
Sulla base di tali considerazioni, il giudice a quo ritiene, quindi, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degliartt. 398, comma 5, e 133 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono che – quando la mancata comparizione del testimone minorenne sia dovuta a situazioni di disagio che ne compromettono il benessere, alle quali si possa “ovviare” procedendo all’esame del minore presso il tribunale nel cui circondario egli dimora – il giudice competente possa ritenere giustificata la sua mancata comparizione e delegare per l’esecuzione dell’incidente probatorio il giudice per le indagini preliminari del luogo di residenza del minore.
2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa dell’interveniente, la questione sarebbe inammissibile sia per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, sia in quanto ipotetica. Dall’ordinanza di rimessione emerge, infatti, chiaramente che, nel caso di specie, l’assenza del minore non risulta giustificata da un effettivo impedimento a comparire, né da difficoltà gravi, e che il problema sarebbe risolvibile tramite l’accompagnamento coattivo, con sacrificio non grave delle ragioni del minore.
La questione sarebbe, in ogni caso, infondata nel merito.
L’incidente probatorio è un istituto processuale finalizzato ad evitare, durante le indagini preliminari, il rischio di dispersione di prove non rinviabili al dibattimento. Con riguardo ad esso, il legislatore avrebbe operato un corretto bilanciamento tra la tutela dei diritti dell’imputato e quelli del testimone minore, stabilendo regole particolari a salvaguardia della serenità di quest’ultimo, in quanto soggetto vulnerabile.
L’intervento richiesto dal giudice rimettente attenuerebbe invece ingiustificatamente lo stretto legame tra giudice e luogo di commissione del fatto, postulato dal principio del giudice naturale, di cuiall’art. 25, primo comma, Cost., quale limite alla discrezionalità legislativa nella determinazione della competenza territoriale. Come posto in evidenza dalla giurisprudenza costituzionale, “il predicato della “naturalità” assume nel processo penale un carattere del tutto particolare, in ragione della “fisiologica” allocazione di quel processo nel locus commissi delicti” (è citata la sentenza n. 168 del 2006). L’attribuzione della competenza al giudice di tale luogo risponde, in effetti, non solo all’esigenza “simbolica” di riaffermare il diritto e la giustizia proprio nel luogo in cui sono stati violati, ma anche a considerazioni di ordine pratico, essendo, di norma, tale sede giudiziaria quella più idonea all’accertamento del fatto, in particolare nella prospettiva di una più agevole e rapida raccolta del materiale probatorio.
La deroga agli ordinari criteri di competenza territoriale che il giudice a quo vorrebbe introdurre in nome della tutela dei diritti del fanciullo, prevista nella Convenzione di New York, comporterebbe un sacrificio del tutto sproporzionato del principio del giudice naturale rispetto all’obiettivo di non incidere sul benessere del minore, che, nel caso di specie, non sembrerebbe in pericolo e che risulterebbe, comunque sia, salvaguardato dalle speciali garanzie previste dall’ordinamento a tutela del minore stesso.

Motivi della decisione
1.- Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce dubita della legittimità costituzionale degliartt. 398, comma 5, e 133 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che – quando la mancata comparizione del minore chiamato a rendere testimonianza in sede di incidente probatorio sia dovuta a “situazioni di disagio che ne compromettono il benessere”, alle quali sia possibile “ovviare” esaminandolo presso il tribunale del luogo della sua dimora – il giudice competente possa ritenere giustificata la mancata comparizione e delegare l’incidente probatorio al giudice per le indagini preliminari nel cui circondario il minore risiede.
Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate violerebberol’art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con le previsioni degli artt. 3 e 4 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva conL. 27 maggio 1991, n. 176, in forza delle quali gli Stati parti debbono considerare “preminente” l'”interesse superiore” del fanciullo (intendendosi, per tale, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, il minore degli anni diciotto) in tutte le decisioni che lo riguardano – e, dunque, anche nella disciplina degli atti processuali – al fine di garantire il “benessere” del fanciullo stesso. Non consentendo di delegare, nei casi considerati, l’incidente probatorio al giudice del luogo di residenza del minore e imponendo, di conseguenza, l’accompagnamento coattivo di quest’ultimo, le disposizioni sottoposte a scrutinio farebbero, per converso, prevalere le esigenze di razionale distribuzione degli affari e di agevolazione del diritto di difesa – delle quali sarebbero espressione le norme sulla competenza territoriale – su quelle di tutela della serenità e dell’equilibrio del minore, “con totale soccombenza” delle seconde.
2.- L’eccezione di inammissibilità della questione formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri non è fondata.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato la questione sarebbe inammissibile sia per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, sia per il suo carattere ipotetico: ciò, in quanto dall’ordinanza di rimessione emergerebbe chiaramente che, nel caso di specie, l’assenza del minore non è giustificata da un impedimento a comparire o da gravi difficoltà e che il problema sarebbe risolvibile tramite l’accompagnamento coattivo, con un sacrificio “non grave” delle ragioni del minore.
Evitare, tuttavia, il sacrificio anche “non grave” delle ragioni del minore è proprio ciò a cui mira il giudice rimettente con la questione sollevata.
3.- Nel merito, la questione non è, tuttavia, fondata.
La tematica su cui verte l’odierno quesito di legittimità costituzionale è quella dell’assunzione, mediante incidente probatorio, della testimonianza di una persona minorenne. A tal riguardo, il giudice a quo sottopone congiuntamente a scrutinio due norme, cui addebita la creazione di una situazione di mancata tutela del minore, contrastante con le evocate previsioni degli artt. 3 e 4 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e, di riflesso, conl’art. 117 Cost., nella parte in cui, al primo comma, impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Le censure investono, in primo luogo, il dispostodell’art. 398, comma 5, cod. proc. pen., che disciplina le condizioni di esperibilità dell’incidente probatorio per rogatoria, stabilendo che “quando ricorrono ragioni di urgenza e l’incidente probatorio non può essere svolto nella circoscrizione del giudice competente, quest’ultimo può delegare il giudice per le indagini preliminari del luogo dove la prova deve essere assunta”.
Viene censurata, altresì, la disposizionedell’art. 133 cod. proc. pen., che abilita il giudice a ordinare l’accompagnamento coattivo delle persone diverse dall’imputato – tra cui, anzitutto, il testimone – che, dopo essere state regolarmente citate, omettono di comparire senza legittimo impedimento nel luogo, giorno e ora stabiliti.
In rapporto a tali previsioni, il giudice a quo formula un petitum a carattere additivo, fortemente “ritagliato” sulle peculiarità della vicenda concreta sottoposta al suo esame, concernente l’assunzione, mediante incidente probatorio, della testimonianza di un minore ultrasedicenne, asserita vittima di maltrattamenti da parte del convivente della madre: vicenda che ha visto il rimettente respingere, con un primo provvedimento – sorretto da ampia e analitica motivazione – le istanze di espletamento della prova nel luogo di residenza del minore, esterno al circondario del Tribunale ordinario di Lecce. Nell’occasione, il giudice a quo aveva ritenuto non soltanto che non ricorressero gli stringenti presupposti ai quali il citatoart. 398, comma 5, cod. proc. pen.subordina la delega dell’incidente probatorio (impossibilità di compimento dell’atto nel circondario del giudice competente e ragioni di urgenza), ma che non sussistessero neppure, e comunque sia, apprezzabili “controindicazioni” all’esame del minorenne in Lecce, tali da giustificare l'”abbandono”, da parte di esso giudice rimettente, “della sua sede – e dei continuativi impegni giurisdizionali che ivi svolge – per recarsi in altro circondario”.
Non essendo peraltro il teste comparso senza addurre un legittimo impedimento, il giudice a quo – all’esito di una nuova e diversa valutazione della vicenda – chiede ora a questa Corte di dichiarare illegittime le disposizioni censurate nella parte in cui non prevedono che – quante volte la mancata comparizione del testimone minorenne si ricolleghi a “situazioni di disagio che ne compromettono il benessere”, rimovibili esaminandolo presso il tribunale nel cui circondario egli dimora – il giudice competente possa ritenere giustificata la mancata comparizione e delegare per l’esecuzione dell’incidente probatorio il giudice per le indagini preliminari del luogo di residenza del minore.
4.- Va osservato che le censure del giudice a quo poggiano su una visione eccessiva dell’obbligo dello Stato italiano – scaturente dalle evocate, generalissime previsioni degli artt. 3 e 4 della Convenzione di New York – di accordare “una considerazione preminente” all'”interesse superiore del fanciullo” in tutte le decisioni che lo riguardano e di assicurare il suo “benessere”. Nell’idea del rimettente, tali disposizioni impegnerebbero il legislatore nazionale a congegnare le norme processuali penali in modo da evitare al minore qualsiasi tipo di “disagio” di ordine psicologico: anche quello – riscontrabile, secondo il giudice a quo, nel caso di specie – derivante dal fatto che la città in cui il minore dovrebbe deporre risvegli in lui ricordi sgradevoli, in quanto associata alla persona dell’imputato e ai fatti di reato a questo attribuiti (fatti che, per quanto si evince dall’ordinanza di rimessione, non sono stati commessi neppure in Lecce, ma in un paese della sua provincia). Per affermazione dello stesso rimettente, si tratta di “disagio”, non solo certamente inidoneo a incidere sulla salute del minore interessato, ma neppure tale da comportare un “sacrificio … grave” per il medesimo (nell’ordinanza di rimessione, il minore viene d’altronde descritto, sulla scorta delle risultanze di una perizia, come soggetto di “elevata maturità” ed esente da “segni di fragilità”, e si riferisce, altresì, di come egli fosse stato già sentito, in fatto, più volte in precedenza presso il Tribunale per i minorenni del capoluogo salentino).
Ragionando in questi termini, tuttavia, nessun minore, vittima di determinati reati, dovrebbe essere mai assunto come testimone. Per il minore vittima, ad esempio, di abusi sessuali – ma anche di maltrattamenti, come si ipotizza dalla pubblica accusa nel giudizio a quo – dover rievocare in ambito giudiziario le vicende che lo hanno coinvolto è sempre, e comunque sia, fonte di marcato “disagio”.
Risulta evidente, in realtà, come in materia occorra necessariamente procedere al bilanciamento di valori contrapposti: da un lato, la tutela della personalità del minore, obiettivo di sicuro rilievo costituzionale (sentenza n. 262 del 1998); dall’altro, i valori coinvolti dal processo penale, quali quelli espressi dai principi, anch’essi di rilievo costituzionale, del contraddittorio e del diritto di difesa – in forza dei quali l’accusato deve essere posto in grado di confrontarsi in modo diretto con il materiale probatorio e, in specie, con le prove dichiarative – nonché, per quanto qui particolarmente interessa, dalle regole sulla competenza territoriale.
Come ricorda il Presidente del Consiglio dei ministri, questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza il particolare collegamento che, nella materia penale, sussiste tra dette regole e il principio del giudice naturale (art. 25 Cost.). Nel processo penale, infatti, “il predicato della “naturalità” assume … un carattere del tutto particolare, in ragione della “fisiologica” allocazione di quel processo nel locus commissi delicti. Qualsiasi istituto processuale, quindi, che producesse … l’effetto di “distrarre” il processo dalla sua sede, inciderebbe su un valore di elevato e specifico risalto per il processo penale; giacché la celebrazione di quel processo in “quel” luogo, risponde ad esigenze di indubbio rilievo, fra le quali, non ultima, va annoverata anche quella … per la quale il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati” (sentenza n. 168 del 2006). Tale sede giudiziaria è, peraltro, in linea di massima, anche quella più idonea all’accertamento del fatto, in particolare nella prospettiva di una più agevole e rapida raccolta del materiale probatorio: e ciò – come riconosce lo stesso rimettente – anche in ottica servente al diritto di difesa dell’imputato.
5.- Ciò posto, il bilanciamento tra i contrapposti valori operato dalla normativa processuale vigente non può essere reputato inadeguato, sul versante della protezione del minore: e ciò particolarmente in rapporto a procedimenti per reati quale quello oggetto del giudizio a quo.
L’esigenza che si pone in materia non è, evidentemente, quella di evitare al minore i “disagi” inevitabilmente connessi al fatto di dover rendere testimonianza, apprezzabili in rapporto alla generalità dei testi, ma l’altra di preservarlo dagli effetti negativi che la prestazione dell’ufficio di testimone può produrre in rapporto alla peculiare condizione del soggetto.
È un dato acquisito, in effetti, che i minori, in quanto soggetti in età evolutiva, possono subire un trauma psicologico a seguito della loro esperienza in un contesto giudiziario penale. I fattori atti a provocare una maggiore tensione emozionale sono il dover deporre in pubblica udienza nell’aula del tribunale, l’essere sottoposti all’esame e al controesame condotto dal pubblico ministero e dai difensori e il trovarsi a testimoniare di fronte all’imputato, la cui sola presenza può suggestionare e intimorire il dichiarante. Se il minore è vittima del reato, d’altra parte, il dover testimoniare contro l’imputato si presta a innescare un meccanismo di cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, per il quale egli è portato a rivivere i sentimenti di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione del fatto. Il trauma cui il minore è esposto durante l’esame testimoniale si ripercuote, d’altronde, negativamente sulla sua capacità di comunicare e di rievocare correttamente e con precisione i fatti che lo hanno coinvolto, o ai quali ha assistito, rischiando così di compromettere la genuinità della prova. Far sì che la testimonianza del minorenne venga acquisita in condizioni tali da tutelare la serenità del teste è, dunque, necessario anche al fine di una più completa e attendibile ricostruzione dell’accaduto.
Di tale esigenza il nuovo codice di procedura penale del 1988 si era fatto originariamente carico solo in ristretti limiti. In risposta ad essa, si erano previste, da un lato, la possibilità di svolgere l’esame testimoniale del minore a porte chiuse (art. 472, comma 4, cod. proc. pen.), facoltà trasformata poi in obbligo, ove il minore sia vittima di determinati reati (art. 472, comma 3-bis, cod. proc. pen.); dall’altro, una deroga alle ordinarie forme dell’esame incrociato, con l’affidamento in via prioritaria al giudice del compito di condurre l’esame del minore “su domande e contestazioni proposte dalle parti”, avvalendosi, se del caso, dell’ausilio di un familiare del minore stesso o di un esperto in psicologia infantile: salva la possibilità di disporre, sentite le parti, che la deposizione prosegua nelle forme consuete “se ritiene che l’esame diretto del minore non possa nuocere alla serenità del teste” (art. 498, comma 4, cod. proc. pen.).
In prosieguo di tempo, tuttavia, il ventaglio degli strumenti di salvaguardia del minore si è progressivamente e sensibilmente arricchito per effetto di una serie di interventi innovativi. Nel procedere in tale direzione, il legislatore ha tenuto conto, tra l’altro, anche della necessità di uniformare l’ordinamento interno alle previsioni di norme sovranazionali attinenti, in modo specifico, alle modalità di assunzione della testimonianza del minore vittima di reati o, amplius, alla tutela del testimone “vulnerabile”: norme molto più pertinenti alla tematica in esame rispetto ai generalissimi enunciati della Convenzione di New York su cui il rimettente fonda invece le proprie censure. Previsioni di tal fatta si rinvengono, in specie, oltre che in talune raccomandazioni, nella Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, ratificata e resa esecutiva conL. 1 ottobre 2012, n. 172(artt. 30, 31 e 35), nonché, quanto al diritto dell’Unione europea, nella decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (artt. 2, paragrafo 2; 3, paragrafo 3; 8, paragrafi 3 e 4), e indi nelladirettiva 2012/29/UEdel Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI (artt. 19, paragrafo 1; 22, paragrafo 4; 23).
6.- Il processo di implementazione dei presidi a tutela del minorenne chiamato a rendere testimonianza ha preso concretamente avvio con laL. 15 febbraio 1996, n. 66(Norme contro la violenza sessuale), il cui art. 13 ha aggiuntoall’art. 392 cod. proc. pen.un comma 1-bis, ove si stabiliva che, nei procedimenti per fatti riconducibili alle più gravi tra le nuove figure di reato introdotte dalla stessa legge, le parti potessero “chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minore degli anni sedici, anche al di fuori delle ipotesi previste dal comma 1”, ossia a prescindere dalle condizioni di indifferibilità della prova cui è ordinariamente subordinata la possibilità di una sua assunzione anticipata rispetto alla naturale sede dibattimentale. La disposizione è stata oggetto di ripetute modifiche ad opera di successive novelle legislative, che ne hanno via via dilatato il perimetro applicativo, tanto con riguardo ai reati – nel cui catalogo figura, a partire dal 2009, anche il delitto di maltrattamenti (art. 572 del codice penale), per cui si procede nel giudizio a quo – quanto in relazione al novero dei soggetti tutelati, che, sempre a partire dal 2009, abbraccia tutti i minori, anche ultrasedicenni (siano o meno persone offese dal reato), nonché le persone offese maggiorenni. Proprio sulla base della previsione del citato art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen. è stata, del resto, disposta l’assunzione mediante incidente probatorio della testimonianza del minore nel giudizio a quo.
Secondo quanto emerge dai lavori parlamentari relativi alla citataL. n. 66 del 1996, l’introduzione della ricordata nuova ipotesi di incidente probatorio cosiddetto speciale o atipico – proprio perché svincolato dall’ordinario presupposto della non rinviabilità della prova al dibattimento – era sorretta anche e soprattutto da una finalità di tutela della personalità del minore, consentendogli di uscire al più presto dal circuito processuale per aiutarlo a liberarsi più rapidamente dalle conseguenze psicologiche dell’esperienza vissuta. Tale ratio extraprocessuale è stata resa maggiormente evidente dallaL. 3 agosto 1998, n. 269(Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù), che, aggiungendoall’art. 190-bis cod. proc. pen.un comma 1-bis, ha stabilito che il minore infrasedicenne, già escusso in sede di incidente probatorio, non potesse essere chiamato a deporre nuovamente in dibattimento, se non quando ciò apparisse “assolutamente necessario” (condizione poi solo in parte attenuata, in nome dell’esigenza di assicurare l’attuazione del principio del contraddittorio, dallaL. 1 marzo 2001, n. 63, recante “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riformadell’articolo 111 della Costituzione”).
7.- In parallelo all’ampliamento dei casi di incidente probatorio, laL. n. 66 del 1996ha dettato, con il nuovo comma 5-bisdell’art. 398 cod. proc. pen., anche speciali regole per l’acquisizione della testimonianza del minore. Anziché integrare la disposizionedell’art. 498 cod. proc. pen., relativa alla deposizione dibattimentale – applicabile anche in sede di incidente probatorio in virtù del richiamo alle “forme stabilite per il dibattimento”, contenutonell’art. 401, comma 5, cod. proc. pen.- il legislatore preferì collocare le regole in questione nell’ambito della disciplina dell’incidente probatorio, limitandone così (in origine) la portata applicativa all’esame del minore condotto in tale sede.
Inizialmente circoscritta ai casi in cui si procedesse per i più gravi tra i delitti contro la libertà sessuale e si discutesse di minori infrasedicenni, la disposizione è stata interessata, negli anni a seguire, da un progressivo ampliamento del suo campo applicativo, in larga misura omologo a quello che ha investito l’ipotesi di incidente probatorio atipico di cui al comma 1-bisdell’art. 392 cod. proc. pen.In base al testo attuale della norma, nel caso di indagini che riguardino la quasi totalità dei reati menzionati dal citato art. 392, comma 1-bis (tra cui anche il delitto di maltrattamenti), “il giudice, ove fra le persone interessate all’assunzione della prova vi siano minorenni” (anche ultrasedicenni), con l’ordinanza che lo ammette, “stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all’incidente probatorio, quando le esigenze di tutela delle persone lo rendono necessario od opportuno”. A tal fine, l’udienza di assunzione della prova può svolgersi “anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso l’abitazione della persona interessata all’assunzione della prova”.
La disposizione abilita, quindi, il giudice a conformare discrezionalmente le modalità di escussione del minore alla luce delle concrete esigenze di tutela -apprezzabili non solo in termini di “necessità”, ma anche di semplice “opportunità” – ferma restando, s’intende, la contrapposta esigenza di rispetto del principio del contraddittorio. Tale discrezionalità investe anzitutto il “luogo” dell’assunzione della prova, potendo il giudice disporre che l’esame del minore avvenga extra moenia, cioè in luoghi alternativi e di minore impatto emotivo rispetto alle aule di tribunale, ed eventualmente – quando ciò sia richiesto dalle contingenze – anche in località diversa da quella in cui ha sede l’ufficio giudiziario. Il giudice può calibrare, altresì, discrezionalmente il “tempo” dell’esame, fissando l’udienza di là dal limite temporale di dieci giorni previsto dall’art. 398, comma 2, lettera c), cod. proc. pen., in accordo con le specifiche esigenze di tutela del minore. Da ultimo, il giudice può stabilire “modalità particolari” di escussione, adeguate alle circostanze: formula ampia e generica, che abbraccia la generalità delle forme di acquisizione della prova.
Quanto, poi, all’originaria, incongrua limitazione delle regole speciali alla sola testimonianza del minore assunta con incidente probatorio, essa è stata rimossa già con laL. n. 269 del 1998, che, aggiungendo il nuovo comma 4-bisall’art. 498 cod. proc. pen., ha esteso le “modalità protette” anche all’escussione dibattimentale.
La medesima legge ha inserito, inoltre,nell’art. 498 cod. proc. pen.un comma 4-ter (anch’esso più volte novellato in prosieguo), in forza del quale, nei procedimenti per determinati reati (tra cui, attualmente, anche quello di maltrattamenti), l’esame del minore vittima del reato ha luogo, su richiesta del minore stesso o del suo difensore, “mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico”. In questo modo, si evita all’interessato di dover deporre dinanzi a numerose persone, e in particolare al presunto autore del reato commesso ai suoi danni.
Tale disposizione – relativa al dibattimento – risulta applicabile anche alla testimonianza assunta con incidente probatorio, in virtù del ricordato richiamo di cuiall’art. 401, comma 5, cod. proc. pen.Lo stesso rimettente, con il precedente provvedimento di cui si è parlato, aveva del resto disposto, nel caso di specie, il ricorso al cosiddetto esame schermato.
8.- In conclusione, dunque, il sistema processuale vigente offre al giudice un ampio e duttile complesso di strumenti di salvaguardia della personalità del minore chiamato a rendere testimonianza, a fronte del quale deve escludersi l’asserita necessità costituzionale di introdurre quello ulteriore congegnato dall’odierno rimettente.
Per completezza, va aggiunto che il giudice a quo non esclude di potersi recare, quando ciò occorra, fuori dal proprio circondario per assumere la testimonianza del minore. A fronte di ciò, la pretesa di delegare l’incombenza al giudice per le indagini preliminari del luogo, anche in assenza dei rigorosi presupposti indicatinell’art. 398, comma 5, cod. proc. pen., si rivela affatto eccentrica rispetto alle norme convenzionali evocate. Sul piano della salvaguardia del “benessere” del fanciullo, alla quale fa riferimento l’art. 3 della Convenzione di New York, risulta del tutto indifferente che la sua testimonianza venga assunta dal giudice che ha disposto l’incidente probatorio o dal giudice del luogo in cui la prova deve essere espletata.
9.- Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va dichiarata, dunque, non fondata.
Visti gli artt.26, secondo comma, dellaL. 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degliartt. 398, comma 5, e 133 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimentoall’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 3 e 4 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva conL. 27 maggio 1991, n. 176, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza in epigrafe.

Il nuovo orientamento della Cassazione sul tenore di vita non è sufficiente a modificare gli impianti decisori di giudicati precedenti

Tribunale di Mantova, I sez, sent del 24 aprile 2018.
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale
Civile e Penale di Mantova Sezione
Prima Il Tribunale di Mantova
riunito in Camera di Consiglio e composto da: dott.
Mauro Bernardi Presidente Rel. dott. Alessandra
Venturini Giudice dott. Maria Magrì
Giudice – letti gli atti del procedimento n. 1557/18
R.G. Vol.; – sentita la relazione del Giudice Relatore;
– visto il parere espresso dal P.M.;
• Fatto
– rilevato che
A. M. (nato a M. il 21-12-1946), ha chiesto con ricorso presentato ex art. 9 della legge n.
898/1970, che venga revocato o comunque ridotto l’assegno di mantenimento posto a suo
carico e in favore della ex moglie R. R. (nata a C. il 13-3-1948) e stabilito al momento del
divorzio -con sentenza emessa da questo Tribunale n. 451/05 in data 9
febbraio/4 aprile 2005 (quanto alle statuizioni economiche essendo stata in precedenza
emessa sentenza parziale sullo status n. 1289/02)- in E 350,00 mensili annualmente
rivalutabile secondo gli indici ISTAT (e ora pari a E 411,47), importo determinato tenendo
conto che la moglie, in costanza di matrimonio, aveva goduto di un tenore di vita
notevolmente superiore rispetto a quello esistente al momento del divorzio;
– osservato che l’istante ha motivato la richiesta asserendo 1) che dal 1-4-2004 è in
pensione e percepisce un assegno di E 2.500,00; 2) che egli è usufruttuario dell’immobile in
cui vive con l’attuale coniuge; 3) che la ex moglie è economicamente autosufficiente sicché
sarebbero venuti meno i presupposti per la attribuzione in suo favore dell’assegno divorzile,
alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale inaugurato da Cass. n. 11504/2017, posto
che costei i- è pensionata dal 2008 con un assegno pari a circa E 1.300,00 mensili; ii- che
ha ricevuto da esso istante, entro il 2010, la somma di E 25.183,70 quale quota parte del
t.f.r.; -iii che è proprietaria della abitazione in cui vive, pur gravata da rata di mutuo
(destinato a estinguersi nel 2031) pari a E 210,69 mensili; -iiii che essa conduce in
locazione, da molti anni, una casa di vacanza sita sul lago di Como ove trascorre lunghi
periodi;
– rilevato che R. R., costituitasi, ha chiesto il rigetto del ricorso deducendo 4) che essa
percepisce una pensione di soli E 835,00; 5) che l’immobile in cui abita è gravato da mutuo;
6) che l’immobile condotto in locazione e sito sul lago di Como era stato occupato in origine
dai suoi genitori e che alle spese di locazione (pari a E 2.000,00 annui) concorrono la sorella
e gli zii che, a turnazione, godono di tale appartamento; 7) che nudo proprietario
dell’immobile in cui vive il ricorrente (acquistato nel 2005) è la sua attuale moglie e che la
intestazione ad essa è stata fatto al solo scopo di non figurare come titolare di tale cespite;
8) che non è chiaro se il ricorrente sia proprietario di un immobile sito in località Zuoz di St.
Moritz; 9) che essa, tenendo conto delle ordinarie spese da sopportare, non è
economicamente indipendente non essendo più in grado, per ragioni anagrafiche, di
dedicarsi a un’attività lavorativa;
– considerato che sono stati acquisiti sufficienti elementi per la decisione e che, pertanto,
non è necessario disporre ulteriori indagini sulle condizioni economiche delle parti;
– osservato che presupposto per disporre la revisione dell’assegno divorzile è il
sopraggiungere di un giustificato motivo laddove siffatto presupposto deve intendersi come
fatto nuovo sopravvenuto modificativo della situazione economica in relazione alla quale
erano stati adottati i provvedimenti concernenti il mantenimento del coniuge (cfr., ex
multis, Cass. n. 787/2017) non essendo consentito, nel giudizio in questione, addurre fatti
pregressi o ragioni giuridiche non prospettate nel procedimento di divorzio e ciò alla stregua
del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile (v. art. 2909 c.c.; cfr.,
ex multis, Cass. n. 2953/2017);
– rilevato che il ricorrente non ha dimostrato un peggioramento delle proprie condizioni
economiche successivamente alla pronuncia di divorzio risultando anzi, secondo quanto
emerso nel corso del giudizio, un miglioramento delle stesse atteso che a) egli non è più
gravato dell’assegno di mantenimento per la figlia, a seguito di statuizione
del Tribunale di Mantova del 8-11-2006; b) ha instaurato un nuovo rapporto di coniugio con
persona che percepisce uno stipendio di E 1.900,00 mensili e di cui, almeno in parte, può
presumibilmente usufruire; c) è divenuto titolare del diritto di usufrutto sull’immobile in cui
attualmente vive con la moglie per acquisto effettuato dopo il divorzio (il rogito è del 12-9-
2005);
– rilevato, quanto alla erogazione dell’importo di E 25.183,70 quale quota parte del t.f.r.,
che ciò è avvenuto in esecuzione di accordi fra le parti intervenuti al momento del divorzio
sicché tale fatto non può considerarsi circostanza sopravvenuta;
– osservato che non sono migliorate le condizioni economiche della resistente rispetto al
momento del divorzio;
– considerato che non può qualificarsi come giustificato motivo ai sensi dell’art. 9 legge
divorzio il mero mutamento di giurisprudenza in ordine ai criteri con cui deve attualmente
essere commisurato l’assegno di divorzio -e cioè con esclusione della rilevanza del tenore di
vita goduto in costanza di matrimonio (cfr. sul tema Cass. n. 11504/2017)- atteso che, in
caso contrario, si verrebbe ad estendere a rapporti esauriti, perché coperti dal giudicato,
una diversa interpretazione della regola giuridica a suo tempo applicata ma con efficacia
retroattiva ciò che non è consentito nemmeno alla legge (perlomeno in via generale: v. art.
11 disp prel cc) e che produrrebbe un risultato valutato come irragionevole dalla
giurisprudenza di legittimità (cfr. sul tema Cass. n. 15144/2011);
– ritenuto inoltre che non può neppure essere invocato il principio del c.d. “prospective
overruling” atteso che il mutamento di giurisprudenza ha riguardato una norma di carattere
sostanziale e non processuale (cfr. Cass. n. 6862/2014); – considerato pertanto che il
ricorso non è meritevole di accoglimento;
– ritenuto che la natura della controversia, il recente mutamento dell’indirizzo interpretativo
da parte della giurisprudenza di legittimità in tema di assegno divorzile e il sorgere, per
effetto di esso, di questioni applicative su cui non si è ancora consolidato un orientamento
giurisprudenziale, giustificano l’integrale compensazione fra le parti delle spese di lite (cfr.
Corte cost 19.4.2018);
PQM
– rigetta il ricorso e compensa integralmente fra le parti le spese di lite.