Ai fini della giurisdizione i fattori di radicamento prevalenti attengono all’ambiente familiare

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 19 dicembre 2017 – 30 marzo 2018, n. 8042
Presidente Rordorf – Relatore Acierno
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di l’Aquila, confermando la pronuncia di primo grado, ha ritenuto il difetto di
giurisdizione del giudice italiano in favore di quello del Regno Unito in ordine alle domande proposte da
D.L.G. di affidamento congiunto della figlia minore, di diversa regolamentazione del diritto di visita e di
accertamento della debenza e della determinazione del contributo al mantenimento della medesima.
1.1 A sostegno della decisione la Corte d’Appello ha affermato: la madre e la figlia risiedono a Londra e la
residenza è conforme all’iscrizione all’A.I.R.E.;
la minore è iscritta presso un medico di base che esercita a Londra; per l’anno 2013/2014 è stata iscritta
ad un asilo nido londinese. Tutti questi elementi concordanti ed in particolare l’iscrizione all’asilo nido
inducono a ritenere che la residenza abituale debba essere individuata in Londra;
la circostanza che la minore trascorra anche periodi di tempo in Italia presso i nonni non esclude che
quella estera sia la residenza abituale.
2. Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il padre della minore, affidandosi a due
motivi.
Ha resistito con controricorso la madre della minore.
La prima sezione civile ha rimesso al ricorso alle sezioni Unite dal momento che entrambi i motivi
attengono alla giurisdizione.
Il ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
3. Nel primo motivo viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo consistente nel fatto che alla data
di presentazione del ricorso la minore viveva presso i nonni materni nella provincia di Chieti non essendo
nella condizione giuridica di espatriare mancando il consenso del padre. Tale residenza aveva i caratteri
dell’abitualità in quanto la minore aveva sempre trascorso lunghi periodi con i nonni e non era mai
rimasta più di tre mesi consecutivi a Londra presso il domicilio inglese della madre la quale, pur avendo la
residenza ed un’attività d’impresa nella città inglese si divideva tra il regno Unito e l’Italia. La residenza
de iure della minore nel regno Unito dipende esclusivamente dal fatto che i genitori non sono sposati ma
ai fini della giurisdizione rileva la residenza di fatto.
Infine l’iscrizione all’asilo in Londra per l’anno successivo non costituisce circostanza rilevante ed inoltre,
la residenza di fatto della minore è stata indicata nel comune di Lanciano in un procedimento penale a
carico del padre, occasionato da una denuncia della madre in relazione a reati che si configurano solo nel
luogo di residenza della minore. Ciò costituisce un riconoscimento implicito della residenza della minore.
Nel secondo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 8, 13, 14, 15 e 20 del Reg. CE n. 2210 del
2003 per non avere la Corte d’Appello accertato effettivamente il luogo di residenza della minore sulla
base degli indicatori indicati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia quali la durata, la regolarità, le
condizioni e le ragioni del soggiorno, l’età del minore, l’origine geografica e familiare dei genitori, i
rapporti familiari e sociali che genitore e minore intrattengono in quello stesso stato, il luogo, le condizioni
di frequenza scolastica e le conoscenze linguistiche del minore.
Nella specie, la minore è cittadina italiana, nata in Italia da cittadini italiani con legami familiari in Italia
ed ha trascorso gran parte della sua vita in Italia. Non può pertanto essere indicata la residenza abituale
sulla base delle risultanze anagrafiche formali, tanto più che per un errore burocratico la minore al
momento della presentazione del ricorso risultava avere fin dalla nascita due residenze, una nella
provincia di Chieti ed una nel comune di Giugliano.
Infine la minore è seguita da un pediatra anche in Italia.
Occorre preliminarmente esaminare le eccezioni d’inammissibilità del ricorso prospettata dalla parte
controricorrente.
In ordine alla prima deve osservarsi che il ricorso proposto ha natura decisoria alla luce del costante
orientamento di questa Corte, instaurato dalla pronuncia n. 23032 del 2009 e rafforzatosi, all’esito della
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riforma della filiazione intervenuta con la legge delega n. 219 del 2012 e il d.lgs n. 154 del 2013, con la
sentenza n. 6132 del 2015 così massimata:
“Il decreto della corte d’appello, contenente i provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal
matrimonio e le disposizioni relative al loro mantenimento, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art.
111 Cost. poiché già nel vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54 – che tendeva ad assimilare la
posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio – ed a maggior ragione
dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – che ha abolito ogni distinzione – al predetto
decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto
soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile “rebus sic stantibus” a quella del giudicato.
Il principio è stato confermato di recente dalla pronuncia n. 3192 del 2017.
È ammissibile anche in ordine all’accertamento dei fatti perché ai fini della giurisdizione la Cassazione è
giudice del fatto.
La parte controricorrente ha formulato un’eccezione d’inammissibilità anche con riferimento al primo
motivo di censura ritenendo che in esso fosse contenuta la richiesta di riesame della insindacabile
valutazione dei fatti svolti dal giudice del merito.
Anche tale eccezione deve essere disattesa. L’accertamento della giurisdizione, nella specie, secondo il
criterio normativo applicabile, fondato sulla residenza abituale del minore, tratto dall’art. 8 del
Regolamento CE n. 2201 del 2003, e consistente nella residenza abituale del minore impone al giudice
l’esame di una “quaestio facti” ai fini della decisione. A tale valutazione non si sottrae la Corte di
Cassazione cui spetta la definitiva determinazione della giurisdizione, al pari di quel che si verifica in sede
di regolazione della competenza. Ne consegue l’ammissibilità della censura formulata in quanto diretta a
porre in luce circostanze ed elementi di fatto, a giudizio della parte ricorrente non considerati od
insufficientemente valutati ai fini del versante di natura fattuale del criterio normativo della residenza
abituale.
Ancorché ammissibile il motivo è da respingere. Non essendo in contestazione la collocazione della
minore de iure presso la madre, in attesa della definizione del regime giuridico di affidamento della
stessa, e non essendo altresì contestata la residenza de iure della madre a Londra, non rileva ai fini della
determinazione della giurisdizione la dedotta mancanza di un consenso espresso del padre per l’espatrio.
Quanto al rilievo fattuale della coabitazione della minore con i nonni materni al momento della
proposizione della domanda, la circostanza può assumere rilievo solo se ancorata a fattori di radicamento
effettivi. Al riguardo deve integralmente condividersi la valutazione della Corte d’Appello che ha
valorizzato, attesa la tenerissima età della minore e la mancanza di fattori di radicamento esterni ai nuclei
familiari materno e paterno, indicatori di natura proiettiva, quali l’iscrizione all’asilo a Londra e
l’incardinamento nel sistema sanitario pediatrico inglese della minore, peraltro in coerenza con il regime
giuridico relativo alla residenza ad essa applicabile in quanto nata fuori del matrimonio ed in assenza di
statuizioni specifiche al riguardo prese consensualmente o giudizialmente. Gli elementi fattuali posti in
luce nel motivo di ricorso, consistenti, in particolare nei periodi non brevi trascorsi dalla minore in Italia,
presso i nonni, in particolare materni ma anche paterni, sono stati ritenuti fondatamente recessivi
rispetto a quelli sopra indicati, in quanto coerenti con l’ampiezza e l’elasticità, riscontrabile in fatto, delle
relazioni familiari delle quali fruisce la minore ma non idonei ad incidere sul radicamento della
giurisdizione, proprio per la peculiarità della situazione della stessa, dell’età di soli due anni al momento
dell’instaurazione del presente giudizio. Non possono che venire in rilievo, di conseguenza la residenza
materna a Londra, fondata su precise ragioni professionali e lavorative e la volontà espressa mediante
l’iscrizione a scuola della figlia minore e quella relativa all’assistenza pediatrica, di conservare tale
residenza per il proprio, attuale, nucleo familiare.
In conclusione, in mancanza di elementi univocamente contrastanti la pluralità d’indicatori relativi alla
residenza abituale a Londra, quali, a titolo esmplificativo, la permanenza dalla nascita e senza sostanziale
soluzione di continuità della minore in Italia, non possono ritenersi prevalenti le circostanze di fatto
ritenute decisive dalla parte ricorrente.
Il secondo motivo è sostanzialmente riproduttivo delle ragioni poste a base della prima censura. I criteri
elaborati dalla Corte di Giustizia al fine di determinare la residenza abituale devono essere adeguati alla
peculiarità dell’accertamento di fatto da svolgere. Nel caso di specie alcuni di essi sono inapplicabili, non
potendo essere esaminati fattori di radicamento oggettivo ed esterno rispetto all’ambiente familiare
attesa l’età della minore. Gli altri non conducono a conclusioni univoche non essendo contestato che la
madre della minore, cittadina italiana e con famiglia di origine residente in Italia, abbia invece stabile
residenza a Londra e là abbia radicato il proprio nucleo familiare, formato da lei e sua figlia, come gli
indicatori proiettivi pongono in evidenza quanto meno fino a che non verrà determinato un regime
giuridico ad hoc relativo all’affidamento della minore. Le altre allegazioni di parte ricorrente, come
sottolineato anche dal Procuratore Generale in udienza, hanno natura ipotetica e non sono fondate sulla
situazione de iure e de facto attuale o riguardano fatti del tutto irrilevanti quali l’aver provveduto ad un
medico di riferimento anche in Italia.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con applicazione del principio della soccombenza in ordine
alle spese processuali del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio da liquidarsi in Euro
3000 per compensi, Euro 200 per esborsi oltre accessori di legge.

Nella divisione giudiziale di eredità il criterio dell’estrazione a sorte previsto dall’art. 729 c.c., non ha carattere assoluto, ma è derogabile in base a valutazioni discrezionali

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2754/2014 proposto da:
D.F., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE 87, presso lo studio dell’avvocato
BRUNO BELLI, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
D.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 26, presso lo studio dell’avvocato MARIA CRISTINA
PIERETTI, che la rappresenta e difende in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5167/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/11/2017 dal Consigliere Dott. MAURO
CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate da entrambe le parti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con citazione notificata il 23 luglio 2004 D.P. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Viterbo la sorella D.F. deducendo che in data (OMISSIS) era deceduto ab intestato il padre D.G. al quale erano succedute le figlie P. e F. e la madre M.A., successivamente deceduta in data (OMISSIS), la quale con testamento olografo aveva attribuito alla figlia F. la quota di legittima e la disponibile, riservando la sola legittima all’altra figlia.
Assumeva che la convenuta occupava in maniera esclusiva gli appartamenti caduti in successione siti in
(OMISSIS), e per l’effetto chiedeva procedersi allo scioglimento delle comunioni ereditarie.
Si costituiva in giudizio la convenuta la quale evidenziava che la de cuius in vita aveva alienato alcuni dei diritti vantati sui beni in successione a C.M., marito della convenuta, e che nella successione andava incluso anche un immobile intestato all’attrice, ma acquistato con denaro del padre, e con l’intesa che l’attrice avrebbe dovuto trasferire alla convenuta la metà dello stesso.
Disposta CTU, il Tribunale con la sentenza n. 142 del 2010 accoglieva la domanda di divisione procedendo allo scioglimento delle comunioni secondo il progetto di divisione di cui all’ipotesi n. 1 formulata dal CTU,
condannando D.P. al pagamento del conguaglio in favore della sorella nella misura determinata dallo stesso
progetto divisionale approvato.
A seguito di appello proposto da D.F., la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 5167/2013 del 2/10/2013 rigettava il gravame, rilevando che non poteva esser accolto l’unico motivo di appello proposto.
Ed, infatti, pur dovendosi ribadire che le quattro diverse ipotesi divisionali formulate dal CTU erano in grado di assicurare una divisibilità in natura del patrimonio relitto, la scelta del Tribunale in favore della prima soluzione divisionale non violava le norme in tema di scioglimento delle comunioni, assicurando il risultato di contenere al minimo la misura del conguaglio dovuta tra i condividenti.
Inoltre era altresì possibile derogare alla regola del sorteggio, sussistendo in sentenza una valida indicazione di una ragione volta a favorire l’attribuzione diretta delle quote.
A ciò andava anche aggiunto che la soluzione prescelta consentiva alle condividenti di ricevere beni anche
qualitativamente omogenei a differenza della soluzione preferita dall’appellante, che avrebbe escluso
l’appellata dall’assegnazione di immobili urbani.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre D.F. sulla base di un motivo.
D.P. resiste con controricorso.
2. L’unico articolato motivo sviluppato dalla ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt.
713, 720, 727, 728 e 729 c.c., nonché degli artt. 112 e 277 c.p.c., oltre che l’irrazionalità ed illogicità della
motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Deduce la parte che l’asse ereditario si componeva di vari immobili, alcuni dei quali rappresentati da
appartamenti in (OMISSIS), con due locali garage e vari appezzamenti di terreno.
Il progetto di divisione approvato da parte del Tribunale, e confermato dalla Corte d’Appello, prevede
l’attribuzione ad ognuna delle condividenti di quote sia degli appartamenti che dei terreni, impedendo in tal modo, a detta della ricorrente, che si pervenga allo scioglimento della comunione, in quanto anche gli
appartamenti non verrebbero assegnati in proprietà esclusiva ad ognuna delle due assegnatarie, ma
rimarrebbero in comunione, determinando quindi la permanenza di uno stato di indivisione foriero di rilevanti problemi di gestione, anche in vista delle spese da affrontare per la ristrutturazione degli immobili.
Inoltre, essendo gli appartamenti ubicati nella medesima palazzina, residuerebbe la necessità di conservare dei beni comuni ex art. 1117 c.c., soluzione questa palesemente illogica, e che verrebbe scongiurata aderendo alla diversa ipotesi divisionale indicata come n. 3, per effetto della quale alla ricorrente verrebbero attribuiti in via esclusiva gli immobili urbani, cessando quindi la comunione.
Inoltre la soluzione alla quale sono pervenuti i giudici di merito viola altresì l’art. 713 c.c., artt. 112 e 277
c.p.c., in quanto non assicura il conseguimento del risultato cui tende il giudizio di divisione, e cioè lo
scioglimento della comunione.
Ancora, risulta violato l’art. 720 c.c., che in caso di beni non comodamente divisibili impone, prima della
vendita, che i beni debbano essere assegnati preferibilmente ad uno dei condividenti che ne faccia richiesta, e nel caso di specie alla ricorrente, quale titolare della maggiore quota.
Del pari risulta violata la previsione di cui all’art. 727 c.c., non essendo previsto come criterio preferenziale
quello che porti a preferire la soluzione divisoria che contenga al minimo il conguaglio, nonché l’art. 729 c.c., non essendo giustificata l’assegnazione diretta delle quote, in luogo del ricorso al criterio di assegnazione legale del sorteggio.
2.1 Il motivo è infondato e deve essere disatteso.
Il ragionamento di parte ricorrente, laddove denunzia l’irrazionalità ed illegittimità della decisione alla quale è pervenuto il giudice di merito non tiene in adeguata considerazione la circostanza che nella fattispecie si
controverte in tema di divisione di masse plurime, essendo oggetto della domanda attorea lo scioglimento della comunione scaturente sia dalla successione materna che da quella paterna, ancorché entrambe incidano sugli stessi beni.
Ne deriva da ciò che a seguito dell’apertura delle due successioni non è dato più discorrere di una comunione che investa la piena proprietà di entrambi i beni, non avendo le parti acconsentito nelle forme imposte dalla costante giurisprudenza di questa Corte alla riunione delle due autonome masse (e cioè solo con il consenso di tutte le parti, consenso che non può risultare da una manifestazione tacita o da un semplice comportamento processuale non oppositivo avverso la domanda di divisione unitaria, ma deve materializzarsi in uno specifico e apposito negozio giuridico, da cui possa evincersi in modo inequivocabile tale comune volontà, così ex multis Cass. n. 3029/2009), essendo altresì evidente che la successione della madre si compone unicamente di quote indivise, pervenute alla moglie a seguito del decesso del marito (quote delle quali aveva in parte anche disposto con atto inter vivos in favore del coniuge della ricorrente).
Attesa la peculiare consistenza dell’asse relitto, e tenuto conto che per alcuni dei beni i diritti successori ancora in comunione tra le condividenti concernevano a loro volta quota indivise, essendo la proprietà dell’immobile in comunione con il C.M., è evidente che lo scioglimento della comunione non poteva che riguardare l’assegnazione alle condividenti di quote indivise sui singoli beni, assegnazione questa che avrebbe favorito lo scioglimento della comunione ereditaria, rimanendo comunque in piedi la comunione ordinaria sui beni interessati, nata per effetto delle varie vicende traslative che li hanno interessati (a conferma di tale assunto, e come si ricava dalla lettura dello stesso ricorso, alle pagg. 6 e 7, nella descrizione delle quote di proprietà sui beni nn. 2 e 4 si specificava che la ricorrente vantava una quota di 2/3, di cui 1/3 pervenuta per successione ed 1/3 per atto di vendita, sicché nella soluzione divisionale n. 1, si prevedeva appunto che all’attrice fosse assegnata la quota di 1/3 sui detti beni spettante alla convenuta, trattandosi appunto della quota che questa vantava iure successionis).
Alla luce di tale puntualizzazione risulta evidente l’inconsistenza della critica mossa da parte ricorrente,
essendosi in ogni caso pervenuti alla divisione delle componenti che facevano effettivamente parte delle
comunioni ereditarie, risultando quindi esclusa la dedotta violazione dell’art. 713 c.c. (in tal senso si consideri anche che, ove volesse accedersi alla soluzione indicata dalla ricorrente, l’attribuzione alla stessa di tutte le quote relative agli immobili urbani comunque lascerebbe in piedi la comunione con il C., risultando irrilevante ai fini giuridici che lo stesso sia il coniuge della ricorrente, essendo quindi escluso che la soluzione auspicata assicuri l’acquisto in proprietà esclusiva dei beni da parte di una delle condividenti).
Ne consegue che deve essere ribadito il principio anche richiamato dai giudici di merito, circa la non
sindacabilità in questa sede della scelta compiuta in sede di merito in ordine al progetto di divisione da
approvare (cfr. Cass. n. 6134/2010, a mente della quale, rientra nei poteri del giudice di merito, ed è perciò
incensurabile in cassazione, accertare se, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da
dividere, il diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità
immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo il conguaglio in
favore degli altri).
2.2 La soluzione accolta non incorre nemmeno nelle altre censure dedotte in ricorso.
Ed, invero, attesa la consistenza degli assi, composti come detto anche da quote indivise, l’assegnazione delle quote relative a bei in parte urbani ed in parte agricoli, ed in favore di entrambe le condividenti assicura il rispetto del criterio di omogeneità delle quote di cui all’art. 727 c.c., non potendo nemmeno condividersi l’assunto secondo cui la ridotta entità del conguaglio non sia criterio ispiratore della scelta più appropriata del giudice.
In tal senso si veda Cass. n. 7961/2003 secondo cui, ancorché ai fini della valutazione della comoda divisibilità del bene comune, ai sensi dell’art. 720 c.c., si è ritenuta ostativa alla divisione in natura l’elevata misura dei conguagli altrimenti dovuti fra le quote da attribuire, affermandosi quindi un principio suscettibile di trovare applicazione anche al caso in esame, dovendosi per l’appunto limitare al massimo la misura dei conguagli, assicurando che la quota sia prevalentemente formata in natura, riservando al conguaglio la funzione di perequare le contenute differenze di valore tra le quote stesse, posto che una quota formata in prevalenza da denaro a titolo di conguaglio sortirebbe l’effetto sostanziale di assicurare la cessione di una quota in natura (e precisamente del beneficiario del conguaglio) a favore del soggetto tenuto a versarlo, negando, sempre nella sostanza, il conseguimento dell’obiettivo della divisione in natura.
Anche la denunzia della violazione dell’art. 720 c.c., appare fuorviata dall’erronea individuazione dell’oggetto delle componenti cadute in successione, riferendosi il giudizio di non comoda divisibilità alla piena proprietà degli immobili (per i quali come detto già sussiste una comunione con un terzo) anziché alle quote rimaste in comunione.
Infine va esclusa anche la dedotta violazione dell’art. 729 c.c., in quanto oltre a doversi ricordare il principio di recente ribadito da questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 4426/2017) il criterio dell’estrazione a sorte
previsto, nel caso di uguaglianza di quote, dall’art. 729 c.c., a garanzia della trasparenza delle operazioni
divisionali contro ogni possibile favoritismo, non ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale, e, pertanto, è derogabile in base a valutazioni discrezionali, che possono attenere non soltanto a ragioni oggettive, legate alla condizione funzionale ed economica dei beni, ma anche a fattori soggettivi di apprezzabile e comprovata opportunità, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del difetto di motivazione, non solo ove il giudice di merito abbia ritenuto di derogare al criterio suddetto, ma anche se abbia scelto di respingere la richiesta di deroga avanzata dalla parte, deve considerarsi che quanto meno in relazione alla successione materna manca il requisito dell’identità quantitativa delle quote vantate dalle condividenti, essendo stata la ricorrente favorita dal testamento della madre.
Ne consegue che vertendosi in materia di quote diseguali (come confermato anche dagli stessi prospetti di
calcolo eseguiti dal CTU e riportati in ricorso, dai quali si evince il maggior valore della quota ideale di D.F.),
correttamente il giudice di merito è pervenuto all’attribuzione diretta delle quote.
3. Il ricorso va, pertanto, rigettato, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
4. Ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, applicabile ratione
temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), per il raddoppio del
versamento del contributo unificato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 5.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge.
Dichiara la ricorrente tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2018

Il conflitto d’interessi genitori-figli va valutato in concreto nella fattispecie, non può evincersi in astratto

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza 16 gennaio – 5 aprile 2018, n. 8438
Presidente Frasca – Relatore Sestini
Fatto e diritto
Rilevato che:
pronunciando sulla domanda proposta dal Banco di Sicilia s.p.a., il Tribunale di Siracusa dichiarò
l’inefficacia, ex art. 2901 cod. civ., dell’atto con cui i coniugi F.R. e T.F. avevano donato alle figlie F.A. e C.
un terreno sito in (…);
la Corte di Appello di Catania ha rigettato l’appello con cui F.A. aveva dedotto la nullità del giudizio di
primo grado per vizio di costituzione del rapporto processuale (conseguente al fatto che, essendo ella
ancora minorenne, l’atto di citazione era stato indirizzato – quali legali rappresentanti – ai suoi genitori
che, tuttavia, si trovavano in conflitto di interessi con la figlia);
la F. ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi;
ha resistito, a mezzo della procuratrice speciale Cerved Credit Management s.p.a., la Island Refinancing
s.r.l. (già succeduta nella posizione processuale del Banco di Sicilia), la quale ha proposto ricorso
incidentale e ricorso incidentale condizionato;
i ricorsi sono stati rimessi all’adunanza camerale, ex art. 380 bis cod. proc. civ., con proposta di
manifesta infondatezza del ricorso principale e di inammissibilità di quello incidentale;
entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che:
il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 320, ult. co.
cod. civ., 78 e 102 cod. proc. civ., 24 e 111 Cost. e censura la Corte per non aver considerato la
sussistenza di un conflitto di interessi fra la ricorrente e i genitori;
il motivo è infondato, alla luce del principio espresso da Cass. n. 1721/2016 (secondo cui la verifica del
conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale
va operata in concreto e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il
principio della ragionevole durata del processo”), al quale il Collegio intende dare continuità e che, pur
enunciato in riferimento all’ipotesi in cui il legale rappresentante si sia costituito in giudizio anche in nome
e per conto del rappresentato, risulta ovviamente applicabile anche all’ipotesi in cui il legale
rappresentante si sia limitato a ricevere la notifica (e non abbia ritenuto di costituirsi in nome e per conto
del rappresentato);
è pur vero che Cass. n. 1294/1975 ebbe a ritenere sussistente il conflitto di interessi in un’ipotesi in cui il
curatore del fallimento dei genitori aveva proposto azione revocatoria nei confronti dei figli minori, in
relazione ad una donazione fatta a questi ultimi dai falliti, e che analogo principio venne espresso da
Cass. n. 1586/1990 (anch’essa relativa ad un’ipotesi di azione revocatoria promossa dal curatore del
fallimento dei genitori), individuando la ragione del conflitto di interessi fra genitore fallito e minore nel
“vantaggio che deriverebbe al primo dall’accoglimento della domanda, con un incremento dell’attivo
fallimentare”;
tale indirizzo – espresso in relazione alla peculiare ipotesi del fallimento del genitore – è stato tuttavia
superato da successivi arresti di legittimità, che hanno evidenziato che “il conflitto d’interessi tra padre e
figlio minore che legittima la nomina di un curatore speciale sussiste soltanto quando i due soggetti si
trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto, nel senso che l’interesse proprio del
rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concili con quello del rappresentato”, cosicché “il
conflitto in questione non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al
compimento dell’atto, questo corrisponda al vantaggio comune di entrambi, per cui i due interessi,
secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente
motivato, siano tra loro concorrenti e compatibili” (Cass. n. 5591/1981; conforme Cass. n. 599/1982).
tale principio è stato ribadito e sviluppato dalla citata Cass. n. 1721/2016 che, affermando la necessità di
un accertamento in concreto sulla sussistenza del conflitto, ha superato i precedenti che avevano ritenuto
rilevante una incompatibilità di interessi “anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività”,
postulando la necessità di una verifica “in astratto ed “ex ante” secondo l’oggettiva consistenza della
1
materia del contendere dedotta in giudizio, anziché in concreto e “a posteriori” alla stregua degli
atteggiamenti assunti dalle parti nella causa” (Cass. n. 13507/2002; conforme a Cass. n. 10822/2001);
in linea con tali principi, la sentenza impugnata ha rilevato come nello specifico e alla luce
dell’atteggiamento processuale concretamente assunto dai genitori, non fossero ravvisabili situazioni di
conflitto, a fronte di un interesse del tutto convergente fra i medesimi genitori e la figlia; peraltro, non
può sottacersi che un conflitto non si sarebbe profilato sussistente neppure secondo una valutazione ex
ante, giacché, a fronte dell’azione revocatoria proposta dall’istituto bancario, l’interesse dei genitori e
quello della figlia risultavano coincidenti nel fine di sottrarre l’atto di donazione alla revocatoria;
né può ritenersi che la mera possibilità che la nomina di un curatore speciale consentisse alla minore di
svolgere difese o eccezioni ulteriori rispetto a quelle sviluppate dai genitori valga a concretizzare, di per
sé, una situazione di conflitto di interessi;
il secondo motivo (che deduce, “in subordine”, l’omesso esame circa un fatto decisivo) è inammissibile
poiché non evidenzia fatti (principali o secondari) decisivi di cui sia stato omesso l’esame, ma si limita a
reiterare considerazioni funzionali all’affermazione della ricorrenza del conflitto di interessi negato dalla
Corte;
il “ricorso incidentale” dell’Island Refinancing è inammissibile in quanto formulato in modo estremamente
generico e proposto come reiterazione di un motivo di appello incidentale condizionato che, come tale,
non è stato esaminato dalla Corte a seguito del rigetto dell’appello principale e non può “rivivere” per il
solo fatto che la sentenza sia stata impugnata per cassazione;
il “ricorso incidentale condizionato” – enunciato in modo assolutamente generico – risulta assorbito;
la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di lite;
in relazione ad ambedue i ricorsi, proposti successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per
l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale, compensando le spese di
lite.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti
per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma del comma 1-bis dello stesso
articolo 13.

Per il riconoscimento dell’assegno non si guarda alla comparazione dei redditi fra le parti

Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 2018, n. 6663
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –
ORDINANZA
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Ancona, con sentenza del 7 agosto 2013, ha accolto il gravame di M.D.
avverso la sentenza impugnata nella parte in cui aveva posto a suo carico l’obbligo di
pagamento di un contributo di mantenimento di un figlio maggiorenne e – per quanto ancora
interessa – lo ha rigettato nella parte in cui gli aveva imposto il pagamento dell’assegno
divorzile, quantificato in Euro 150,00 mensili, in favore dell’ex moglie Ma.Na., con la quale si
era sposato il 23 gennaio 1982.
La Corte ha ritenuto che i redditi della Ma. non fossero adeguati a farle conservare un tenore di
vita analogo a quello goduto durante il rapporto matrimoniale, tenuto conto che i suoi redditi
(di Euro 21.511,00 nel 2010) erano inferiori seppur di poco a quelli del M. (di Euro 30.171,00),
differenza che peraltro si riduceva al netto delle imposte, e delle spese che essa avrebbe
dovuto sostenere per procurarsi la disponibilità di un alloggio; ad avviso della Corte, non
rilevavano gli oneri sopportati dal M. per la locazione dell’appartamento ove abitava, per il
pagamento del residuo del mutuo sulla casa familiare (ancora abitata dalla ex moglie) e per la
nascita di un altro figlio dalla convivenza intrapresa con altra persona, essendo quest’ultima
dotata di disponibilità economiche.
Avverso questa sentenza il M. ha proposto ricorso, illustrato da memoria; la Ma. non ha svolto
attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il M. ha denunciato violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del
1970, art. 5, comma 6, mod. dalla L. n. 74 del 1987, per avere la Corte d’appello confermato
la sentenza del Tribunale che aveva attribuito l’assegno divorzile alla ex moglie in ragione di
vaghe finalità compensative, senza tuttavia indicare in alcun modo le fonti di prova a
dimostrazione della cura e dell’educazione dei figli cui essa si sarebbe prodigata durante la vita
matrimoniale, mentre era vero il contrario, poiché era stato lui a seguire maggiormente i figli
nella crescita; inoltre, la Ma. disponeva di un reddito fisso da lavoro dipendente (di Euro
1.850,00 mensili) ed aveva ancora in via di fatto la disponibilità della casa coniugale, fino a
quando questa sarà divisa tra gli ex coniugi, mentre su di lui incombevano pesanti oneri
derivanti dalla nascita di un figlio e dalla convivenza con una donna che, contrariamente a
quanto sostenuto dalla controparte, percepiva una modesta retribuzione inferiore a Euro
800,00.
Il motivo in esame è fondato.
La sentenza impugnata ha giustificato l’attribuzione dell’assegno divorzile in ragione della
inadeguatezza dei mezzi a disposizione della Ma., intesa come inidoneità a conservare un
1
tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, dimostrata dal pur modesto
squilibrio delle condizioni economiche e patrimoniali tra le parti, all’epoca della cessazione degli
effetti civili del matrimonio.
Queste argomentazioni collidono con i principi, enunciati da questa Corte (a partire dalla
sentenza n. 11504 del 2017, seguita dalla giurisprudenza successiva: tra le più recenti Cass.
nn. 2042, 2043, 3015 e 3016 del 2018), secondo cui il riconoscimento del diritto all’assegno di
divorzio, di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del
1987, art. 10, presuppone una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi,
tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla
seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del
diritto): una prima fase, concernente l'”an debeatur”, il cui oggetto è costituito esclusivamente
dall’accertamento della sussistenza, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex
coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il “quantum debeatur”, improntata al
principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei
confronti dell’altro, quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe
soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
In particolare, il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5,
comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del
relativo giudizio in due fasi: a) deve verificare, nella fase dell'”an debeatur”, se la domanda
dell’ex coniuge richiedente soddisfi le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi
adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), non con riguardo
ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo
riferimento alla “indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali
“indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie
e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato sensu”
imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), della capacità
e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato
del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò
sulla base delle pertinenti allegazioni deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul
quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova
contraria dell’altro ex coniuge; b) deve tener conto, nella fase del “quantum debeatur”, di tutti
gli elementi indicati dalla norma: “condizioni dei coniugi”, “ragioni della decisione”, “contributo
personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del
patrimonio di ciascuno o di quello comune” e “reddito di entrambi”, “tutti i suddetti elementi
anche in rapporto alla durata del matrimonio”.
A giustificare l’attribuzione dell’assegno non è, quindi, lo squilibrio o il divario tra le condizioni
reddituali delle parti, all’epoca del divorzio, né di per sé il peggioramento delle condizioni del
coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, ma la
mancanza della “indipendenza o autosufficienza economica” di uno dei coniugi, intesa come
impossibilità di condurre con i propri mezzi un’esistenza economicamente autonoma e
dignitosa (Cass. n. 23602 del 2017, n. 3015, 3016 e 2042 del 2018).
Infatti, nella fase del giudizio concernente l'”an debeatur” (con la quale in nessun modo può
essere confusa la fase del “quantum debeatur”), il coniuge richiedente l’assegno, per il
principio di autoresponsabilità economica, è tenuto quale “persona singola” a dimostrare la
propria personale condizione di non indipendenza o autosufficienza economica, sulla base degli
indici sopra indicati in via orientativa. Alle condizioni reddituali dell’altro coniuge può aversi
riguardo soltanto nell’eventuale fase della quantificazione dell’assegno (unitamente agli altri
elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma), alla quale è possibile accedere solo nel caso
in cui la fase dell'”an debeatur” si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente
l’assegno.
2
Ad opinare diversamente si finirebbe per invertire l’ordine logico-giuridico, imposto dalla
struttura della norma, tra il criterio di attribuzione (che è quello dell’inadeguatezza dei mezzi o
della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive) e i criteri di quantificazione dell’assegno
nella stessa norma indicati.
Tra questi ultimi è ricompresa la valutazione dei redditi di entrambi gli ex coniugi nel solo caso
in cui – come detto – si sia concluso positivamente il giudizio sull’an debeatur, il quale da
astratto diventa concreto qualora, valutati i suoi redditi, per l’ex coniuge destinatario della
domanda di assegno sia sostenibile l’imposizione di un contributo economico integrativo dei
redditi dell’altro, al solo fine di consentire a quest’ultimo di raggiungere l’autosufficienza
economica.
Il nuovo orientamento è più coerente con il principio di uguaglianza dei coniugi (art. 29 Cost.,
comma 2 e art. 143 c.c., comma 2) anche nella fase post-matrimoniale che segue quella del
rapporto matrimoniale, essendosi superata la concezione paternalistica che, nel passato,
imponeva al marito di somministrare alla moglie tutto quanto necessario ai bisogni della vita
“in proporzione alle sue sostanze” (come previsto nel testo originario dell’art. 144 c.c.), (Cass.
n. 2042/2018).
Analogamente, il criterio del “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla
conduzione familiare e alla formazione del patrimonio personale di ciascun coniuge e di quello
comune” è indicato nell’art. 5, comma 6, della Legge del 1970 ai fini della quantificazione (e
non dell’attribuzione) dell’assegno e costituisce pur sempre oggetto di prova nel giudizio,
seppure in via presuntiva, di cui è onerata la parte che richiede l’assegno (Cass. n. 3015 e
3016 del 2018). Come rilevato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11490 del 1990, se
“è richiesto soltanto sulla base del riconoscimento del contributo personale ed economico dato
dal coniuge richiedente al patrimonio dell’altro, senza alcun riferimento all’inadeguatezza dei
mezzi dello stesso richiedente (…), l’assegno (divorzile), avendo natura esclusivamente
assistenziale, non potrà essere riconosciuto”.
La sentenza impugnata è incorsa nella violazione dei principi sopra enunciati, avendo attribuito
l’assegno divorzile nella fase dell’an debeatur” sulla base di criteri riguardanti, invece, la
quantificazione dello stesso, come la valutazione comparativa dei redditi dei coniugi tra l’altro
sostanzialmente equivalenti, considerando anche i sopravvenuti oneri del M. per la nascita di
un altro figlio – e il contributo personale ed economico dato alla conduzione familiare dal
coniuge richiedente l’assegno, tra l’altro a prescindere dalla necessaria prova – di cui è onerata
la parte richiedente l’assegno dell’esistenza e dell’entità del suddetto contributo dato dalla Ma.
alla vita familiare.
Pertanto, in accoglimento del primo motivo, la sentenza impugnata è cassata, restando
assorbito il secondo motivo riguardante la valutazione delle disponibilità economiche del M..
La causa, non essendovi ulteriori accertamenti di fatto da svolgere, può essere decisa nel
merito nel senso dell’insussistenza del diritto della Ma. a percepire l’assegno divorzile, non
risultando, infatti, una condizione di non autosufficienza economica che potrebbe giustificare
l’attribuzione dell’assegno in suo favore.
Le spese dell’intero giudizio devono essere integralmente compensate, in considerazione
dell’evoluzione giurisprudenziale che ha interessato la materia.
P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza
impugnata e, decidendo nel merito, dichiara non dovuto l’assegno divorzile richiesto da
Ma.Na.; compensa le spese dell’intero giudizio.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati
identificativi delle parti e dei soggetti menzionati.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2018.

L’adottabilità del minore può essere dichiarata solo quando sono stati esperiti tutti i tentativi possibili con i servizi pubblici

Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2018, n. 7559
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21594/2017 proposto da:
T.S., E.H.N., domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione,
rappresentati e difesi dall’avvocato Frank Andrea, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia;
– intimata –
contro
N.S., quale tutore legale del minore T.R., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la
Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Agostinelli Franco, giusta
procura speciale alle liti;
– resistente –
avverso la sentenza n. 11/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 07/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/02/2018 dal Cons. Dott. DI MARZIO
MAURO.
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza del 7 febbraio 2017 la Corte d’appello di Venezia, sezione minorenni, ha respinto l’appello
proposto da T.S. nei confronti di N.S., nella qualità di tutore di E.H.T.R.J., di E.H.N. e del pubblico ministero,
contro la sentenza con cui il Tribunale per i minorenni di Venezia aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore E.H.T.R.J..
La Corte territoriale ha osservato:
-) che la T. aveva motivato la propria impugnazione sull’assunto che la condotta addebitatale dal Tribunale,
consistita nell’allontanamento dalla comunità ove si trovava con il minore, era in realtà giustificata dalla sua
condizione di gravidanza a rischio;
-) che la relazione aggiornata dei servizi affidatari non lasciava spazio a giustificazioni della condotta materna, confermando l’inaffidabilità, la debolezza e la propensione della donna, il suo compagno e la famiglia materna allargata a porre in essere condotte devianti e pregiudizievoli per la prole;
-) che, difatti, anche il secondogenito della T. aveva manifestato le stesse gravi e preoccupanti condizioni di
trascuratezza, malnutrizione, ritardo psicomotorio e della maturazione ossea, scarsa crescita staturo-ponderale del fratello, con certificata esposizione all’assorbimento di sostanze stupefacenti (cocaina e cocaetilene, metabolita generato dalla assunzione combinata di alcol e cocaina) rinvenute attraverso gli esami tossicologici cui si erano sottoposti i genitori;
-) che la T. aveva confermato nel tempo di possedere una personalità fragile, insicura, completamente
dipendente dal compagno D.G.F., il quale aveva a propria volta manifestato nei rapporti con gli operatori
sociali tratti caratteriali fortemente impulsivi, di scarso controllo e provocazione denigratoria;
-) che la medesima T. persisteva nel negare ogni propria responsabilità per le situazioni di pericolo e
deprivazione cui erano risultati esposti entrambi i figli;
-) che la donna non aveva alcun progetto abitativo e lavorativo concreto, mentre la sua famiglia allargata,
come risultante da atti penali acquisiti al giudizio, mancava di risorse vicarianti e, al contrario, necessitava a
propria volta del sostegno dei servizi sociali;
-) che ai servizi sociali era stato riferito che la T. avrebbe “venduto” l’identità del primogenito ad E.H.N., tanto che la nonna materna aveva chiesto l’annullamento del riconoscimento di paternità da parte sua, rinunciando poi alla registrazione dell’istanza;
-) che il quadro delle condizioni dell’appellante e della famiglia naturale allargata del minore era tale da
giustificare ampiamente la decisione impugnata, ed appariva tanto più incompatibile con l’ipotesi di un rientro del minore presso la madre in considerazione delle gravi condizioni, certificate in atti da operatori sanitari e medici, in cui il bambino era stato accolto e riparato dapprima in comunità, e poi in ambito etero-familiare, tanto da rendere ancora necessarie terapie specifiche e sostegno psicoterapeutico, secondo quanto risultante da relazioni di un neuropsichiatra, di uno psicologo e dell’assistente sociale.
2. – Per la cassazione della sentenza T.S. e E.H.N. hanno proposto ricorso per due motivi.
Il tutore ha depositato la procura alle liti rilasciata al proprio difensore.
Motivi della decisione
1. – Il ricorso contiene due motivi.
1.1. – Il primo motivo è svolto da pagina 8 a pagina 21 del ricorso sotto la rubrica: “Violazione o falsa
applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione della L. n. 184 del 1983, artt. 8 e 21, ed in
relazione all’art. 111 Cost., sui principi del giusto processo”.
I ricorrenti, richiamati alcuni principi affermati da questa Corte e dalla Corte Edu in tema di adozione,
sostengono che la Corte territoriale avrebbe attribuito alla T. un vero e proprio disturbo comportamentale,
desunto tuttavia non già da un accertamento tecnico medico-legale, bensì da valutazioni compiute dai servizi sociali, senza che risultasse la loro specifica competenza tecnica e senza che dette valutazioni, raccolte in assenza di contraddittorio, fossero state sottoposte ad alcun vaglio critico.
Inoltre, la sentenza impugnata neppure si era misurata con lo scrutinio della irreversibilità del disturbo
diagnosticato alla T. e sulla possibilità di interventi conservativi che potessero porre rimedio alla situazione
rilevata, tanto più che, anche ad ammettere una qualche criticità del rapporto genitoriale, ciò non poteva
giustificare il definitivo sradicamento del minore dalla famiglia di origine.
Né il giudizio espresso dalla Corte d’appello poteva fondarsi sull’allontanamento da parte della T. dalla
comunità, giacché ella aveva comprovato che tale allontanamento era stato necessitato dalla gravidanza a
rischio, che l’aveva indotta a fare ritorno a casa, ove era accudita dalla propria famiglia, essendo peraltro
contrario al vero che, successivamente a detto allontanamento, avesse interrotto i rapporti con il minore,
rapporti che, al contrario, erano stati impediti dal comportamento ostruzionistico dei servizi sociali, venuti
meno al loro compito di adottare programmi volti a verificare e migliorare la sua capacità genitoriale.
D’altro canto nessuna indagine era stata compiuta per appurare od escludere la capacità genitoriale del padre, ritenuto aprioristicamente inadeguato per il solo fatto di essere stato per un certo tempo ristretto in carcere in forza di una misura cautelare in seguito cessata.
1.2. – Il secondo motivo è svolto da pagina 21 a pagina 35 del ricorso sotto la rubrica: “Nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, per difetto di motivazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 161 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost.”.
Secondo i ricorrenti, la sentenza sarebbe sostenuta da argomentazioni fumose ed inconsistenti, prive di
fondamento nell’istruttoria espletata e che non avrebbero risposto alle censure indirizzate contro la sentenza d’appello, pervenendo così a confermare la dichiarazione di adottabilità in violazione della regola secondo cui tale soluzione costituisce extrema ratio, e senza considerare che eventuali malattie mentali dei genitori, ove pure sussistenti, non sono sufficienti a giustificare la dichiarazione di adottabilità, se non si dimostri che esse convergono a determinare lo stato di abbandono che costituisce il suo presupposto.
2. – Il ricorso è fondato nel senso che segue.
2.1. – Va accolto il primo motivo.
Come questa Corte ha più volte ribadito, della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 1 (nel testo novellato dalla L. 28 marzo 2001, n. 149) attribuisce al diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine un carattere prioritario – considerandola l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico – e mira a garantire tale diritto attraverso la predisposizione di interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare. Ne consegue che, per un verso, compito del servizio sociale non è solo quello di rilevare le insufficienze in atto del nucleo familiare, ma, soprattutto, di concorrere, con interventi di sostegno, a rimuoverle, ove possibile, e che, per altro verso, ricorre la “situazione di abbandono” sia in caso di rifiuto ostinato a collaborare con i servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la rescissione del legame familiare sia l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva (Cass. n. 7115/2011).
Movendo dal rilievo che il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, quale
ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 1, è
stato affermato che il giudice di merito deve, prioritariamente, verificare se possa essere utilmente fornito un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare, e, solo ove risulti
impossibile, quand’anche in base ad un criterio di grande probabilità, prevedere il recupero delle capacità
genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è
legittimo e corretto l’accertamento dello stato di abbandono (Cass. n. 6137/2015), quale premessa
dell’adozione.
Il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia d’origine comporta dunque che il
ricorso alla dichiarazione di adottabilità sia praticabile solo come “soluzione estrema”, quando, cioè, ogni altro rimedio appaia inadeguato con l’esigenza dell’acquisto o del recupero di uno stabile ed adeguato contesto familiare in tempi compatibili con l’esigenza del minore stesso. Il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve allora, per quanto rileva in questa sede: a) verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero dei genitori, sia con riferimento alle condizioni economico-abitative, senza però che l’attività lavorativa svolta e il reddito percepito assumano valenza discriminatoria, sia con riferimento alle condizioni psichiche, queste ultime da valutare, se del caso, con una indagine peritale; b) estendere tale verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, anche se, allo stato, mancanti (Cass. n. 6552/2017). E’ stato ulteriormente ribadito che il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve in primo luogo esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero, attraverso un percorso di crescita e sviluppo, delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento, in primo luogo, alla elaborazione, da parte dei genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta della responsabilità genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore, ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi, ed avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali (Cass. n. 14436/2017).
Nel caso in esame, allora, è agevole osservare anzitutto che, mentre alla T. sono state attribuite condizioni di fragilità psichica senza che si sia proceduto ad un’indagine affidata a tecnici della materia, la posizione di
E.H.N. non è stata neppure vagliata, non potendosi certo desumere un giudizio di idoneità genitoriale dalla
circostanza, di per sé sola considerata, che il medesimo sia stato sottoposto a misure restrittive della libertà
personale.
Ed inoltre, il giudizio riservato alla T., peraltro esclusivamente fondato su risultanze provenienti dai servizi
sociali, in mancanza, come si è detto, di un accertamento esperito a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio, pure sollecitata, non si è in alcun modo esteso alla valutazione prognostica della recuperabilità della medesima al suo ruolo genitoriale, valutazione che non può ritenersi compiuta dalla Corte territoriale neppure per implicito.
Ciò è tanto più vero ove si consideri che la circostanza dell’abbandono da parte della T. della comunità ove era ricoverata con il minore, circostanza che ha assunto un rilievo centrale nel giudizio della Corte d’appello, non è stata valutata in relazione al suo assunto, pure menzionato della sentenza impugnata, quale oggetto di apposito motivo d’appello, secondo cui tale allontanamento si era reso necessario in presenza di una gestazione a rischio, essendo d’altronde mancata ogni verifica della fondatezza della tesi della T. secondo cui ella avrebbe inteso riprendere i rapporti col minore, ma sarebbe stata in ciò è impedita dal comportamento ostruzionistico dei servizi sociali.
Sicché, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla medesima Corte d’appello in diversa composizione perché, attenendosi ai principi di diritto poc’anzi richiamati, effettui i necessari accertamenti come sopra indicati, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
2.2. – Il secondo motivo è assorbito.
3. – Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Venezia. Dispone che, in caso di utilizzazione della
presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti
elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 21 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2018

L’assegno divorzile tra ‘tenore di vita’ e mancanza di ‘mezzi adeguati’: criteri per la individuazione in concreto

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MATERA
riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:
Giorgio PICA Presidente, relatore
Tiziana CARADONIO Giudice
Mariadomenica MARCHESE Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile in primo grado iscritta al n. 776/2015 R.G.A.C.,
T R A
D.L., nato a Potenza il dd-mm-aaaa ed ivi residente a Xxxxxxxxxx, n. xx, rappresentato e difeso dagli avv.ti Leonardo Pinto e Cesare Pinto, in virtù di mandato a margine del ricorso introduttivo; RICORRENTE
E
B.E., nata a Potenza il gg-mm-yyyy ed ivi residente al Yyyyyyy, n. yy, rappresentata e difesa dall’avv. Cristiana Coviello, in virtù di mandato in calce alla comparsa di costituzione; RESISTENTE
NONCHE’
PUBBLICO MINISTERO, INTERVENUTO ex lege
OGGETTO: cessazione degli effetti civili di matrimonio concordatario.
CONCLUSIONI: all’udienza del 6-4-2017 i procuratori delle parti si riportano alle conclusioni rassegnate nei rispettivi atti, e precisate all’udienza.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 7-5-2015 D.L., premesso:
di avere contratto matrimonio civile a B. (Paese Estero) il dd-m-Aaaa con B.E., dal quale era nata la figlia _. il gg-mm-aaaa;
che con decreto del 7-1-2010, il Tribunale di Potenza aveva omologato la separazione dei coniugi, confermando le condizioni così concordate: «i coniugi vivranno separatamente con l’obbligo del reciproco rispetto e, salvo diversi accordi che assumeranno in specifiche occasioni in rapporto alla volontà della figlia, che essi si impegnano ad assecondare, stabiliscono che:
1) la figlia E., di anni 4, rimarrà in affidamento condiviso ai coniugi, con residenza prevalente presso la madre;
2) il padre dovrà incontrare e tenere con sé la figlia il lunedì e martedì di ogni settimana, a partire dalle ore 15.00 e sino alle ore 20.00, e potrà farlo con la medesima tempistica negli altri giorni (mercoledì, giovedì e venerdì) previa intesa da assumere con l’altro genitore entro il fine settimana precedente in rapporto alle esigenze lavorative di entrambi;
3) il padre, a fine settimana alterni, potrà tenere con sé là figlia, presso il proprio domicilio anche di notte, dal venerdì pomeriggio alla domenica pomeriggio, salvo che ciò sia impossibile per ragioni di salute o per altri gravi motivi;
4) durante le festività natalizie, salvi diversi accordi tra i genitori, ad anni alterni, ciascun genitore terrà con sé la figlia – in deroga a quanto previsto dai punti precedenti – o nei giorni 24, 25, 26 dicembre, ovvero nei giorni 31 dicembre, 1° e 6 gennaio;
5) per la festività di Pasqua, salvi diversi accordi tra i genitori, la figlia trascorrerà la domenica con un genitore e il lunedì con l’altro ad anni alterni, mentre per il compleanno, sempre salvi diversi accordi tra i genitori in rapporto alla volontà della figlia, rimarrà ad anni alterni con ciascuno dei genitori, in entrambi i casi in deroga alle previsioni di cui ai punti che precedono;
6) durante il periodo estivo, a partire dal giorno successivo alla chiusura della scuola e sino alla riapertura di questa, salvi diversi accordi tra i genitori, gli stessi terranno con sé la bambina per periodi venti giorni consecutivi ciascuno;
7) i genitori consentiranno alla figlia dì comunicare con l’altro genitore tutte le volte che ciò sia possibile, permettendo ogni diversa modalità organizzativa e di incontro che dia modo alla piccola E. di vivere con la maggiore serenità possibile la loro separazione;
8) il signor D.L. verserà alla signora B.E., entro il giorno 10 di ogni mese, la somma di € 800,00 (ottocento) di cui € 500,00 (cinquecento) a titolo di contributo per il suo mantenimento ed € 300,00 (trecento) per quello della figlia E., da aggiornare annualmente secondo gli indici Istat e, in occasione del pagamento della 13° e 14° mensilità (marzo e dicembre di ogni anno), verserà alla signora B.E. un ulteriore importo di euro 750,00 (settecentocinquanta) e, perciò, forfettariamente e complessivamente euro 1.500;
9) il signor D.L. si obbliga a garantire alla signora B.E. la copertura assicurativa per spese mediche sino ad un importo di euro 100,00 (cento) mensili;
10) le spese straordinarie necessarie per la minore, ivi comprese quelle necessarie per libri scolastici, occorrente scolastico e viaggi- studio, dovranno essere preventivamente decise congiuntamente dai genitori e la relativa spesa sarà posta a carico del signor D.L.;
11) il genitore gravato dell’assegno di mantenimento mensile potrà eseguire integralmente la detrazione Irpef per “figli a carico»;
e che i coniugi non si erano più riconciliati, chiedeva che il Tribunale adìto:
1) dichiarasse lo scioglimento del matrimonio civile contratto da D.L. e B.E. in data 13-9-2003, trascritto presso l’ufficio dello stato civile del Comune di Potenza al n. XX, P. Il S.C., e conseguentemente ordinasse all’ufficio dello stato civile del predetto Comune l’annotazione dell’emananda sentenza;
2) affidasse la minore E. ad entrambi i genitori con collocamento della medesima presso l’abitazione della madre, in Matera alla Via Xxxxxxxx n. XX.
3) ponesse a carico del ricorrente un assegno mensile di mantenimento di €. 350,00 in favore della minore E. da corrispondere alla madre, convivente, anticipatamente, il primo giorno di ogni mese.
4) ponesse a carico di ciascun genitore le spese straordinarie della figlia minore nella misura del 50%, secondo le indicazioni specificate in ricorso;
5) dichiarasse l’insussistenza del diritto della B.E. all’assegno divorzile;
6) regolasse il diritto di visita della figlia minore, da parte del padre come richiesto in ricorso, in ragione degli impegni lavorativi del genitore;
7) In caso di opposizione della resistente, condannasse la medesima alle spese e competenze di giudizio.
Si costituiva B.E., contestando la domanda, e insistendo per la sussistenza delle condizioni per l’assegno di mantenimento in suo favore e la conferma delle statuizioni decise in sede di separazione, con previsione di un assegno di mantenimento a proprio favore di euro 500, oltre rivalutazione annuale secondo indici ISTAT; nonché per la fissazione di un assegno di mantenimento per la figlia di euro 400 a carico del ricorrente, essendone aumentate le esigenze con l’aumentare dell’età; nonché con attribuzione integrale delle spese straordinarie per la figlia al D.L., almeno finquando la B.E. non avesse recuperato un reddito sufficiente al proprio mantenimento. Infine chiedeva che il Tribunale recepisse l’accordo intervenuto tra le parti in ordine al pagamento da parte del D.L. del pagamento del canone di locazione dell’alloggio della B.E. e della figlia, pari ad euro 650,00 ed ai consumi delle utenze.
Quanto al rapporto della piccola con i genitori, chiedeva che venisse statuito l’obbligo degli ex coniugi ritrovarsi almeno una volta al mese, in pizzeria o altro pubblico locale, per stare insieme al fine di creare un clima di serenità per la bambina, nonché la permanenza della figlia, nei weekend stabiliti, anche per la domenica notte, con onere del padre di accompagnarla a scuola il lunedì mattina. Con vittoria di spese, diritti ed onorari di causa.
All’esito dell’udienza di comparizione delle parti, risultato vano il tentativo di conciliazione, e dopo aver richiesto chiarimenti alle parti, il Presidente con ordinanza in data 2-2-2016 confermava le statuizioni contenute nell’accordo per la separazione coniugale omologato dal Tribunale di Potenza in data 8-1-2010 tra D.L. e B.E., designando sé stesso per l’ulteriore trattazione, e assegnando i termini per la regolarizzazione del contraddittorio in sede contenziosa.
Con sentenza non definitiva del 18-5-2016, depositata il 19-5-2016, era pronunciato lo scioglimento del matrimonio tra i suddetti coniugi e si disponeva per il prosieguo istruttorio con separata ordinanza.
Costituitosi in data 27/9/2016 il nuovo difensore della Sig.ra B.E., con istanza depositata il 4/10/2016, la resistente chiedeva la modifica dell’ordinanza presidenziale limitatamente alle statuizioni economiche. Con ordinanza del 15/11/16 il Presidente, , formulava alle parti una proposta conciliativa ex art.185 bis c.p.c. e fissava l’udienza dell’1/12/16 per la comparizione delle parti, riservan-dosi di provvedere in merito alla predetta istanza. Rifiutata da entrambe le parti la proposta conciliativa, con ordinanza depositata il 14/12/2016, il G.I. onerava le parti di depositare le rispettive dichiarazioni dei redditi per gli anni dal 2013 al 2015. Acquisita la documentazione reddituale, dopo aver riascoltato le parti, es-sendo mutata nel frattempo la persona del presidente – giudice istruttore, era fissa-ta udienza di precisazione delle conclusioni.
Precisate le conclusioni, all’esito della scadenza dei termini per le memorie conclusionali e per le repliche, la causa erra rimessa al Collegio per la decisione. Il Collegio riteneva l’opportunità di un riascolto dei coniugi, avendo prospettato la possibilità di un mutamento di collocamento della figlia, onde verificare se tale ipotesi rispondeva alla reale volontà delle parti e della minore e realizzasse l’interesse della figlia. All’esito era nuovamente riservata per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Le questioni oggetto della presente decisione.
Osserva il Tribunale che residuano da regolare le sole questioni economiche tra le parti, e incidentalmente la questione della collocazione della figlia, sollevata dal ricorrente in comparsa conclusionale, atteso che è già stata pronunciata sentenza non definitiva di scioglimento del matrimonio civile contratto dai coniugi, e pertanto unicamente su questi aspetti deve concentrarsi la decisione.
Il ricorrente ha chiesto, sul piano economico, l’esclusione di un assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, e quanto alla figlia minore, oggi undicenne, la previsione di un assegno di mantenimento di euro 350 mensili. Ha inoltre chiesto una dettagliata regolamentazione delle spese straordinarie per la figlia, da porre a carico di entrambi i genitori, ciascuno per il cinquanta per cento, ma specificando le spese da concordare previamente tra i genitori e quelle che invece possono essere disposte senza previa consultazione del genitore non convivente con la prole.
In comparsa conclusionale il ricorrente ha modificato in parte le precedenti conclusioni, deducendo:
– di essere gravato da un ulteriore onere, (non dedotto nel ricorso introduttivo), costituito dal pagamento mensile della rata di € 359,57 per l’estinzione del prestito concessogli da BancaXxxxx (come da piano di ammortamento in atti, rilasciato dalla banca il 14.10.2015, e quindi non disponibile il 7.5.2015 quando è stato depositato il ricorso per lo scioglimento del matrimonio),
– di aver inoltre, il 17/9/2016, contratto nuovo matrimonio con C.E. (come da certificato di matrimonio allegato alla memoria di parte ricorrente del 9/11/16);
– che l’ex coniuge B.E. lavorerebbe, e quindi percepirebbe un reddito proprio, e che non avrebbe offerto alcuna prova circa la mancanza di mezzi adeguati o dell’oggettiva impossibilità di procurarseli tali da giustificare il riconoscimento del preteso assegno divorzile;
– che sarebbe inammissibile la richiesta di addebitare al D.L. anche il canone di locazione dell’immobile abitato dall’ex coniuge e dalla figlia, avendo peraltro la B.E. stipulato in proprio un nuovo contratto di locazione a Potenza, allorché tra-sferitasi in detta città;
– che comunque la B.E. da quando si è trasferita a Potenza vivrebbe a casa del suo nuovo compagno.
Ha inoltre il ricorrente introdotto un domanda nuova, chiedendo, oltre alla conferma dell’affidamento condiviso, la collocazione della minore presso l’abitazione del padre in Matera, con addebito, in tal caso, alla B.E. di un contri-buto di euro 450 a favore del D.L. per il mantenimento della figlia.
La resistente ha insistito per il riconoscimento di assegno divorzile di euro 500, oltre rivalutazione annuale, e ha chiesto un assegno di mantenimento per la figlia di euro 400 a carico del ricorrente, essendone aumentate le esigenze; nonché l’attribuzione integrale delle spese straordinarie al D.L.; e l’obbligo per questi di corrispondere il canone di locazione dell’alloggio della B.E. e della figlia, ed i consumi.
Il punto di partenza non può che essere il reddito disponibile dalle parti, ed in particolare dal D.L., dal momento che per gli artt. 316-bis c.1, 337-ter c.4, c.c., nonché per il sesto comma dell’art. 5 L. 898/1970, il reddito del genitore/ex-coniuge comunque costituisce in ogni caso il quadro economico ineliminabile entro cui collocare e parametrare tutti gli obblighi di natura economica.
Ma prima di affrontare gli aspetti strettamente economici, è necessario chiarire i profili di diritto relativi alla sussistenza o meno dei diritti ed obblighi dai quali poi discenderebbero gli oneri economici in questione.
2. L’affidamento e la collocazione della figlia minore.
Non vi cono contrasti tra le parti in ordine all’affidamento della figlia, che è stato concordato come condiviso in sede di separazione, e non sono state formulate richieste di modifica di tale regime.
Il ricorrente, dopo aver chiesto, sia in ricorso introduttivo, e sia nella memoria integrativa del 17-2-2016, la conferma del collocamento della figlia, presso la madre, già concordato in sede di separazione consensuale, ha improvvisamente mutato avviso nella comparsa conclusionale, chiedendo la collocazione della figlia presso il padre in Matera.
Ma la nuova domanda appare in stridente contrasto, oltreché con le precedenti richieste, anche con le ripetute asserzioni del ricorrente secondo cui il suo lavoro non gli consente di poter tenere con sé la figlia oltre gli orari e i giorni che vengono indicati in ricorso, giungendo a lamentarsi del fatto che la B.E. avrebbe lasciato la figlia presso l’abitazione della nonna paterna o del D.L. oltre i giorni e orari concordati.
Soprattutto al riguardo evidenziato che i figli non possono essere considerati oggetti, e come tali spostabili indifferentemente da un luogo all’altro, a discrezione degli adulti, ma hanno anch’essi una vita affettiva e sociale, nonché esigenze di continuità scolastica, e quindi non è possibile decidere della loro collocazione senza considerare le loro esigenze ed il loro interesse, che per legge ha rilevanza preminente, e peraltro le loro esigenze necessitano di ancor maggiore attenzione nelle situazioni di crisi familiare, che aggravano insicurezze, disagi e problemi psicologici dei minori.
Pertanto la richiesta di mutamento della collocazione di un figlio minore deve essere sorretta da gravi ragioni e da fatti nuovi che siano sopravvenuti e che esigano il mutamento nell’interesse del minore.
Nella specie nessun motivo specifico né alcun fatto nuovo è stato addotto a sostegno della richiesta del ricorrente. Piuttosto il mutamento della domanda appare chiaramente correlato alla determinazione degli oneri economici a carico del medesimo, che, ove la figlia fosse collocata presso di lui, non dovrebbe più versare la quota di concorso per il suo mantenimento alla B.E., ma anzi potrebbe a sua volta pretendere una partecipazione dell’ex coniuge al mantenimento della figlia.
È però evidente che non è possibile prendere in considerazione tale ultima domanda del ricorrente, al di là della sua tardività rispetto ai tempi di delineazione del thema decidendum, sia perché non supportata da adeguata motivazione in ordine alle esigenze della minore, e sia perché dalle stesse dichiarazioni rese dai coniugi al G.I., a seguito della rimessione in istruttoria per la loro audizione, è emersa con chiarezza la problematicità e l’incongruenza di uno spostamento della figlia minore presso il padre a Matera.
Infatti la B.E. si è trasferita con la figlia a Potenza, dopo la separazione, non per capriccio, ma perché le famiglie di origine (anche del D.L.) sono potentine e ivi risiedono i familiari di entrambi i coniugi, e quindi allo scopo sia di poter contare sull’aiuto non soltanto economico dei propri familiari, e sia di consentire alla figlia di mantenere i rapporti affettivi con entrambe le famiglie.
La figlia attualmente frequenta la scuola a Potenza, e non appare certo coerente con il suo interesse portarla via dalla scuola e dalla cerchia di compagni e amici in cui si è inserita, per giunta in corso di anno scolastico, oltreché allontanarla anche dalle rispettive famiglie di origine, al solo fine di consentire la revisione dei rapporti economici tra i coniugi divorziati a favore del D.L..
Va premesso che qualunque modifica del regime di collocamento e/o affidamento della prole minorenne presuppone per legge il previo suo ascolto obbligatorio, ex artt. 315-bis, 336-bis e 337-octies cod. civ., e prima ancora dall’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003, nonché dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con legge 27 maggio 1991, n. 176.
La madre, B.E., ascoltata dal presidente – G.I. all’udienza dell’8-2-2018, ha chiarito che la figlia è ben inserita a Potenza, che non vuole lasciare l’ambiente e la scuola, e che inoltre non ha buoni rapporti con la nuova moglie del padre, per cui non gradirebbe la convivenza con essa. D’altro lato, anche il D.L., ascoltato dal presidente – G.I., pur avendo egli accennato alla possibilità di vedere la figlia collocata presso di lui, ha però confermato i suoi impegni lavorativi imprevedibili quanto a orari e luoghi, e quindi le scarse possibilità di prendersi in concreto cura – anche – della prima figlia, confermando indirettamente che la nuova domanda era esclusivamente correlata all’esigenza di riduzione dei propri oneri economici.
Alla stregua delle dichiarazioni rese dalle parti, non è quindi risultato necessario ascoltare la minore, non essendo in discussione l’affidamento, ed essendo apparsa palese l’irragionevolezza di un modifica del collocamento della figlia, per il quale comunque il Tribunale aveva voluto riascoltare informalmente i coniugi, a chiarimenti di eventuali modificazioni delle rispettive posizioni nonché della possibilità di raggiungere un accordo sugli aspetti economici, anche alla luce della proposta conciliativa offerta alle parti, purtroppo invano, dal precedente G.I. titolare del processo.
Va in conclusione, all’esito dell’ascolto dei coniugi, confermato il collocamento della figlia presso la madre, che evidentemente, se è stato concordato tra i coniugi in sede di separazione, e ne è stata poi chiesta altresì la conferma negli atti introduttivi e nelle memorie istruttorie, resta, in assenza di fatti nuovi successivi, la collocazione ottimale.
3. La domanda di assegno divorzile.
Il ricorrente ha chiesto l’esclusione di un assegno divorzile per l’ex coniuge, deducendo, riassuntivamente:
a) di godere di un reddito netto di circa 2.900 euro mensili;
b) di essere gravato da un ulteriore onere, per il pagamento mensile dei ratei di un finanziamento acceso presso Bancapulia;
c) di avere, il 17/9/2016, contratto nuovo matrimonio;
d) che l’ex coniuge B.E. lavorerebbe, e quindi sarebbe percettore di reddito proprio, e non avrebbe offerto alcuna prova circa la mancanza di mezzi adeguati o dell’oggettiva impossibilità di procurarseli;
e) l’inammissibilità della pretesa di addebitare al D.L. anche il canone di loca-zione dell’immobile locato di sua iniziativa dalla B.E.;
f) che comunque la B.E. da quando si è trasferita a Potenza vivrebbe a casa del suo nuovo compagno.
Con riferimento all’asserita convivenza della B.E. con altro compagno, si tratta di una circostanza non provata, e peraltro appare anche logicamente incoerente con la locazione da parte della B.E., da quest’ultima confermata, di un immobile, per abitarvi con la figlia. Che senso avrebbe infatti prendere in locazione un appartamento, sia pure di due soli vani, nonostante il minimo budget economico a disposizione della B.E., se lei era convivente con altra persona? E se la figlia, per giunta, non è in età da poter essere lasciata sola in un appartamento diverso da quello in cui vive la madre?
Appare quindi infondata la tesi del ricorrente, per mancanza di prova, oltreché per inconciliabilità logica con la realtà.
Per quanto concerne la tesi del ricorrente secondo cui la B.E. lavorerebbe, o comunque avrebbe capacità lavorativa, va rilevato che le argomentazioni difensive del D.L. appaiono in parte contraddittorie e in parte infondate.
Il D.L. ha ripetutamente asserito che la B.E. lavorerebbe. Di contro, la B.E. ha negato di avere un occupazione, dichiarando, anche in sede di audizione da parte del G.I., a seguito della rimessione sul ruolo istruttorio, che ha tentato ripetutamente varie strade per impegnarsi lavorativamente, ma senza successo, e chiarendo di aver perso il lavoro di promoter pubblicitaria, che aveva allorché si era sposata, proprio a seguito della gravidanza e della nascita della figlia, che non le aveva più consentito di andare continuamente in giro con l’auto tra i clienti della società di pubblicità per cui lavorava. Quindi, in definitiva, la perdita del lavoro della B.E. è dovuto alle esigenze di salvaguardia e assistenza della prole e dalla famiglia.
Le dichiarazioni della B.E., in ordine all’impossibilità di recuperare il lavoro che svolgeva, appaiono plausibili, alla luce degli stravolgimenti che ha subito il mercato della pubblicità con l’avvento di Internet, per cui è credibile che non abbia più potuto reinserirsi nel ruolo lavorativo precedente, che tra l’altro era molto ben retribuito, perché la comunicazione telematica ha da un lato favorito la progressiva concentrazione della gestione del mercato pubblicitario in pochi enti attrezzati tecnologicamente, ed ha dall’altro tagliato fuori le tradizionali agenzie di pubblicità, così come ha fatto scomparire le tecniche di approccio alla clientela, ed i relativi profili professionali, basati sul contatto diretto con la clientela.
Del resto, ove la B.E. avesse realmente oggi un reddito – e a maggior ragione ove svolgesse attività analoga a quella svolta in passato, per la quale i compensi sono in larga parte a provvigione in quanto legati alla produttività, e dunque necessariamente da documentare e non occultabili – se ne troverebbe traccia evidente nella documentazione contabile e fiscale obbligatoria oltreché nelle sue dichiarazioni dei redditi.
Resta valido il principio cardine in materia di prova secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit, e quindi è comunque onere del ricorrente dare la prova della asserzione secondo cui la B.E. lavorerebbe: prova che non è stata offerta.
Infatti parte ricorrente ha chiesto solo di provare che la B.E. avrebbe lasciato la figlia presso il padre oltre i limiti di orario e giorni concordati, “per poter svolgere la sua attività lavorativa”.
Siffatta richiesta di prova è stata ritenuta, e resta, inammissibile, sia perché richiedeva ai testi dichiarazioni di conoscenza de relato, e dunque irrilevanti, ovvero l’enunciazione di mere opinioni; e sia, soprattutto, perché pretendeva di far desumere, attraverso la prova della più frequente presenza della figlia con il padre, un fatto diverso e non collegato causalmente al primo. Infatti la presenza della figlia con il padre non è in correlazione logica necessaria con l’asserito impegno lavorativo della B.E., ben potendo derivare dalla volontà della figlia, ovvero dello stesso padre (non conoscibili da testimoni terzi), oppure da contingenze occasionali, ovvero anche da altrettanto occasionali necessità di tempo della B.E. proprio per la ricerca di una occupazione (come ha confermato la B.E.), attraverso la effettuazione di colloqui, incontri, test o esami, ed anche periodi di prova in attività nelle quali però i costi erano ampiamente superiori ai compensi.
D’altro lato, è evidente che il genitore collocatario della figlia minorenne ha dei limiti di tempo oggettivi – derivanti dalle necessità di cura e assistenza della figlia, che ricadono solo sulle sue spalle e non sono più divisi con l’altro genitore – nelle sue possibilità di allontanarsi dalla casa per lavoro, ed è dunque penalizzato rispetto all’altro coniuge nella ricerca e nelle possibilità di attività lavorativa.
Sono, queste, considerazioni che avrebbe potuto e dovuto fare anche il ricorrente, atteso che con la separazione si è automaticamente liberato dalla partecipazione agli oneri di assistenza e gestione quotidiana della figlia, che normalmente nel matrimonio sono condivisi e ripartiti con l’altro genitore, e che con il divorzio gravano sul solo genitore collocatario.
In ogni caso, la B.E. ha depositato documentazione formale, sottoposta alla A.G.E., attestante la inesistenza di reddito, ed a fronte di questa documentazione, soltanto la prova certa dello svolgimento di una attività lavorativa “a nero” potrebbe validamente smentire la condizione di disoccupazione affermata dalla B.E..
Va data dunque per provata l’attuale condizione di inoccupazione della B.E., ed occorre verificare quale rilevanza può assumere tale condizione in sede di divorzio, anche alla luce della recentissima pronuncia della Corte di legittimità, n. 11504 del 2017.
4. Il nuovo orientamento della Cassazione sull’assegno divorzile: l’eliminazione del riferimento al “tenore di vita”.
La motivazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 11504/2017 si arti-cola sui seguenti punti:
1) che «una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso — sulla base dell’accertamento giudiziale, passato in giudicato, che «la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’articolo 3» (cfr. artt. 1 e 2, mai modificati, nonché l’art. 4, commi 12 e 16, della legge n. 898 del 1970) —, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191, comma 1, cod. civ.) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2, cod. civ.), fermo ovviamente, in presenza di figli, l’esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex-oniugi (cfr. artt. 317, comma 2, e da 337-bis a 337-octies cod. civ.).»;
2) che «Perfezionatasi tale fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale, il diritto all’assegno di divorzio – previsto dall’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, nel testo sostituito dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987 – è condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all’accertamento giudiziale della mancanza di “mezzi adeguati” dell’ex-coniuge richiedente l’assegno o, comunque, dell’impossibilità dello stesso “di procurarseli per ragioni oggettive”.»;
3) che il giudizio relativo all’accertamento della spettanza dell’assegno divorzile si articola «in due fasi, il cui oggetto è costituito, rispettivamente, dall’eventuale riconoscimento del diritto (fase dell’an debeatur) e – solo all’esito positivo di tale prima fase – dalla determinazione quantitativa dell’assegno (fase del quantum debeatur)»; (osservazione, questa della separazione tra presupposti dell’assegno e criteri di determinazione, già comune alla giurisprudenza precedente: cfr., ad es., Cass. sez. 1, n. 6660 del 2001; Cass. sez. 1, n. 4809 del 1998; Cass. n. 10901/1991, etc.).
4) che «La complessiva ratio dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970 …. ha fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di «solidarietà economica» (art. 2, in relazione all’art. 23, Cost.), il cui adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali “persone singole”, a tutela della “persona” economicamente più debole (cosiddetta “solidarietà post-coniugale”): sta precisamente in questo duplice fondamento costituzionale sia la qualificazione della natura dell’assegno di divorzio come esclusivamente “assistenziale” in favore dell’ex-coniuge economicamente più debole (art. 2 Cost.) – natura che in questa sede va ribadita –, sia la giustificazione della doverosità della sua «prestazione» (art. 23 Cost.).»;
5) «Sicché – prosegue la sentenza – , se il diritto all’assegno di divorzio è riconosciuto alla “persona” dell’ex coniuge nella fase dell’an debeatur, l’assegno è “determinato” esclusivamente nella successiva fase del quantum debeatur, non già “in ragione” del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, bensì “in considerazione” di esso nel corso di tale seconda fase (cfr. l’incipit del comma 6 dell’art. 5 cit: «[….] il tribunale, tenuto conto [….]»), avendo lo stesso rapporto, ancorché estinto pure nella sua dimensione economico-patrimoniale, caratterizzato, anche sul piano giuridico, un periodo più o meno lungo della vita in comune («la comunione spirituale e materiale») degli ex-coniugi.»;
6) che «Deve, peraltro, sottolinearsi che il carattere condizionato del diritto all’assegno di divorzio – comportando ovviamente la sua negazione in presenza di “mezzi adeguati” dell’ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità “di procurarseli”, vale a dire della “indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso – comporta altresì che, in carenza di ragioni di “solidarietà economica”, l’eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della “mera preesistenza” di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed inoltre di durata tendenzialmente sine die: il discrimine tra “solidarietà economica” ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio nel giudizio sull’esistenza, o no, delle condizioni del diritto all’assegno, nella fase dell’an debeatur.».
Il significato reale della decisione della Cassazione emerge con chiarezza nell’ultimo periodo della richiamata motivazione, laddove si afferma che il rico-noscimento di un assegno divorzile in assenza dei presupposti indicati dal sesto comma dell’art. 5 L. 898/1970 integra una indebita locupletazione per il coniuge che ne fruisce. Con tale affermazione la sentenza (seguita poi anche da altre: cfr. ad es. Cass. nn. 11504, 15481, 23602, 20525, 25327 del 2017), ha inteso superare l’orientamento giurisprudenziale che ancorava l’assegno divorzile al c.d. “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio: Nel contempo, ha voluto anche sottoli-neare la separazione tra le due fasi del giudizio sulla spettanza dell’assegno divor-zile, la fase dell’an debeatur e quella del quantum debeatur, che nella prassi a vol-te sono state confuse dando luogo ad una commistione di concetti e alla sovrappo-sizione di criteri e presupposti.
5. La inattualità del riferimento al “tenore di vita” goduto ante divor-zio.
Va evidenziato che il collegamento con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio era operato, nella giurisprudenza precedente, non attraverso una estensione dei criteri di quantificazione dell’assegno (nessuno dei quali fa espres-so riferimento al “tenore di vita”) – e dei quali la giurisprudenza ha sempre rico-nosciuto la sudditanza rispetto all’accertamento dei presupposti – ma proprio at-traverso l’interpretazione dei presupposti dell’assegno – a cui la sentenza 11504/2017 ribadisce che si deve guardare esclusivamente per decidere l’an – e cioè del concetto di “adeguatezza” dei mezzi, considerando appunto non adeguati i mezzi che non consentivano di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di
matrimonio (cfr. Cass. sez. 1, n. 3019/1992; Cass. sez. 1, n. 3049/1994; Cass. sez. 1 n. 4809 del 1998).
Quindi non appare sufficiente il richiamo della recente Cassazione a guar-dare in termini tassativi i presupposti dell’assegno fissati dalla legge (adeguatezza dei mezzi e impossibilità oggettiva di procurarseli) per superare il precedente orientamento giurisprudenziale, che ribadisce anch’esso la rilevanza esclusiva dei due presupposti, ma che introduce il parametro del precedente “tenore di vita” proprio attraverso l’interpretazione del concetto di “adeguatezza” dei mezzi.
Per rafforzare il rifiuto del riferimento al “tenore di vita”, la sentenza 11504/2017 si poggia essenzialmente sulla considerazione che ratio dell’assegno divorzile è il principio costituzionale di solidarietà.
Ma, al di là della ratio dell’istituto, è pur sempre nell’interpretazione del-la “adeguatezza” dei mezzi che deve risolversi la questione della riferibilità o me-no al “tenore di vita” precedente.
Per quanto concerne la ratio dell’assegno divorzile, nella giurisprudenza successiva alla novella legislativa del 1987 è pressoché univoco il rilievo che la disciplina introdotta dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, modificativo dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 989, «ha attribuito all’assegno di divor-zio natura esclusivamente assistenziale» (Cass. sez 1, n. 7199/1997; Cass. sez. 1, n. 3049/1994): affermazione che è coerente con l’affermazione, di Cass. 11504/2017, del fondamento dell’assegno insito nel dovere di solidarietà, ben coordinandosi la natura assistenziale con il fondamento dell’obbligo di solidarietà.
Ma l’affermazione della giurisprudenza precedente in ordine alla ratio “meramente assistenziale” dell’istituto risulta in netto contrasto con il contempo-raneo riferimento al tenore di vita prima goduto, perché il concetto di assistenza implica un trattamento economico finalizzato alla sopravvivenza, e non certo in termini di equivalenza alle precedenti condizioni di agiatezza. Analogamente – come ha giustamente rilevato, indirettamente, la sentenza 11504/2017 – la scelta di far riferimento al tenore di vita quo ante risulta in contrasto anche con la fun-zione di solidarietà, che può intendersi in senso solo di poco più ampio della fun-zione assistenziale.
In realtà, la teorica del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ap-pare una traslazione, per via interpretativa, nel nuovo testo dell’art. 5, sesto com-ma, L. 898/1970, di concetti che erano enunciati nel testo previdente del quarto comma dell’art. 5 cit., nel quale si prevedeva l’obbligo del coniuge più abbiente di versare un assegno divorzile “in proporzione alle proprie sostanze e ai propri red-diti” al coniuge meno abbiente. Traslazione che, non consentendolo più la lettera della norma introdotta dalla legge 74/1987, è stata attuata attraverso l’interpretazione del concetto di “mezzi adeguati”.
Non vi è dubbio che tale orientamento giurisprudenziale sia stato motivato dall’esigenza di salvaguardia del coniuge più debole.
Come per la verità non può negarsi che anche la nuova norma preveda una proporzionalità rispetto alle «condizioni» ed ai «redditi», ma di entrambi i coniugi, e non più in funzione di equiparazione delle rispettive condizioni economiche.
Per cui l’interpretazione perpetuante l’esigenza di adeguamento al benesse-re dell’ex coniuge risulta effettivamente non coerente, oltreché con la nuova pre-visione normativa introdotta con la riforma del 1987, con la disciplina generale del divorzio, oltreché contraddittoria con l’incontroversa funzione assistenziale dell’assegno divorzile.
Per superare questa discrasia interpretativa la sentenza 11504/2017 prende le mosse dalla considerazione che «una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso ….. il rap-porto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191, comma 1, cod. civ.) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2, cod. civ.), fermo ovviamente, in presenza di figli, l’esercizio della responsabili-tà genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex-coniugi (cfr. artt. 317, comma 2, e da 337-bis a 337-octies cod. civ.)».
Se sono venuti meno gli obblighi derivanti dal matrimonio, perché si deve riconoscere – attraverso una forzatura interpretativa quale l’intendere l’adeguatezza riferita al tenore quo ante – al coniuge meno abbiente un assegno divorzile che ripristini una situazione economica di cui egli non ha più diritto di fruire?
La mancata previsione tra i presupposti dell’assegno (ma anche tra i criteri di quantificazione) del precedente «tenore di vita» – espressione con la quale si intende il livello di agiatezza di vita goduto dalla famiglia in costanza di matrimo-nio – è agevolmente spiegabile, ove si consideri che il «tenore di vita» della fami-glia non è espressione della semplice somma aritmetica delle capacità produttive dei singoli coniugi (come in qualche sentenza si è affermato: ad es. Cass. 4764/2007, che lo individua nell’«ammontare complessivo dei loro redditi … e di-sponibilità patrimoniali»), ma è la scaturigine dell’apporto dato alla famiglia da tutti i suoi componenti, in primis dai coniugi (ovvero anche dagli ascendenti od al-tri familiari conviventi, e a volte, successivamente, anche dai figli) i quali, dando concreta e spontanea attuazione ai principi di assistenza morale e materiale, di col-laborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione, nonché di contribuzione ai bisogni della famiglia, in base alla propria capacità lavorativa ed alle proprie sostanze, costruiscono appunto il «tenore di vita» comune della famiglia.
Il venir meno dell’unione e della comunione familiare necessariamente fa venir meno quel tenore di vita, perché viene meno il concorso degli apporti dei coniugi, riportando inevitabilmente ciascuno dei coniugi alla dimensione econo-mica e sociale che aveva prima del matrimonio, salvo appunto il correttivo del soccorso solidaristico dell’ex coniuge, finquando l’ex-coniuge non recuperi una propria autonomia reddituale ovvero si costruisca un nuovo tenore di vita com-plesso, costituendo una nuova unione.
Dunque non sarebbe possibile, in linea di principio, per valutare il diritto al mantenimento di un coniuge, fare riferimento ad un livello di vita che è stato pur sempre frutto dell’apporto complesso di entrambi, e dal quale non appare age-volmente scorporabile l’apporto di ciascuno, considerato che apporto vi è anche qualora il coniuge non abbia prodotto e aggiunto reddito in termini economici, ma si sia dedicato alle attività domestiche e di gestione della casa, e/o di cura dei figli: apporto che comunque ha un valore economico, quantomeno (ma non solo) in termini di risparmio del pagamento di persone incaricate di tali incombenze, e di cui si giova l’economia familiare ed anche l’altro coniuge che produce reddito: e di cui è anche giusto tener conto nel caso sussistano i presupposti per l’assegno, ma che non può assurgere al livello di mantenimento del tenore di vita matrimo-niale.
D’altro lato, è la stessa disposizione normativa, allorché menziona tra i criteri di calcolo dell’assegno «il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune», ad evidenziare da un lato la fusione degli apporti individuali che da luogo al tenore di vita matrimoniale, e dall’altro ad escluderne la rilevanza tra i presupposti dell’assegno divorzile, confinandolo tra i criteri di computo.
In definitiva, dall’enunciazione normativa dei criteri di quantificazione si evince che il tenore di vita è il frutto della cooperazione materiale e spirituale dei coniugi, e quindi, in quanto connaturato al matrimonio, non solo è naturale che venga meno con la separazione prima, e poi definitivamente con il divorzio, ma il suo venir meno è altresì consapevole e voluto dai coniugi, nel momento in cui de-cidono di separare le loro vite e di non cooperare più fra loro, per prendere ciascu-no la sua strada.
Sulla base di tali considerazioni, l’adeguatezza dei mezzi non può essere rapportata al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, che non è ricostrui-bile cessato il matrimonio, e non avrebbe senso che si protraesse finita la coopera-zione tra i coniugi, rischiando ogni statuizione legata a tale concetto di tradursi, come osserva la citata sentenza 11504/2017, in una indebita locupletazione a dan-no del coniuge più abbiente.
Il venir meno dell’unione matrimoniale, in conclusione, giustifica il ritorno alle rispettive differenti posizioni economiche godute da ciascun coniuge prima del matrimonio, fatti salvi i rispettivi diritti derivanti dalla divisione del patrimo-nio comune (che non trovando ingresso in sede di procedimento di famiglia, per la diversa natura dell’azione e la diversità del rito, spesso non vengono considerati), con l’eccezione dei casi previsti dall’art. 5, sesto comma, L. 898/1970.
Pur risultando condivisibile la valenza attribuita alla cesura del vincolo matrimoniale nella definizione dei rapporti tra i coniugi, forse andrebbero conside-rati, in particolare per i casi di condizioni economiche meno abbienti, gli effetti, spesso negativi, della progressiva riduzione dei tempi tra separazione e divorzio, che spiega un’incidenza rilevante sui rapporti economici.
E’ noto che la giurisprudenza costantemente ha affermato l’indipendenza delle statuizioni economiche della separazione da quelle del divorzio, sulla base da un lato della ribadita diversità di funzione e di disciplina dei due assegni (ad es. Cass. 1758/2008; Cass. 25010/2007; Cass. 11575/2001), e dall’altro per la necessità per il giudice di procedere ad una verifica delle attuali condizioni economiche delle parti (Cass. 1758/2008), pur se non mancano decisioni che affermano che «anche l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi» (pur riferendo la funzione del raffronto alla superata concezione dell’adeguamento al tenore di vita) (Cass. 11686/2013).
Le recenti riforme, riducendo e pressoché azzerando il lasso di tempo che in origine intercorreva per legge tra separazione e divorzio, hanno finito per ridurre – e quasi azzerare – di fatto anche la differenza tra i due regimi economici, sia perché che i due istituti sono ormai temporalmente ravvicinatissimi, ed a volte si sovrappongono, sopraggiungendo la pronuncia di divorzio persino mentre è ancora in corso il giudizio di separazione; e sia perché con l’abbreviazione dei tempi è venuta meno la funzione di “cuscinetto” del periodo di separazione, che consentiva di graduare nel tempo l’assestamento, anche economico, dei rapporti tra i coniugi e concedeva i tempi per il recupero, quando possibile, di una rispettiva autonomia economica.
Probabilmente si potrebbe cercare di operare una correzione, nei casi più critici, attraverso i criteri di quantificazione indicati dal sesto comma. Ma forse sarebbe opportuno un intervento legislativo che ridefinisca meglio i confini tra i due istituti.
6. I presupposti dell’assegno divorzile. I “mezzi adeguati”.
Chiarita la funzione dell’art. 5, sesto comma, L. 898/1970, che è deroga-toria degli effetti rescissori naturali del divorzio, e la tassatività dei casi in ci tale deroga può operare, occorre definire i presupposti dell’assegno divorzile, che il legislatore ha indubbiamente espresso in termini piuttosto vaghi, e quindi chiarire i criteri di determinazione, onde poterne verificare la sussistenza del diritto invo-cato dalla resistente nella vicenda in esame.
Recita testualmente il sesto comma dell’art. 5 cit. che «con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del ma-trimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a fa-vore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.».
Dal tenore letterale e sintattico della disposizione del sesto comma, è evi-dente che il presupposto che giustifica la spettanza dell’assegno divorzile è costi-tuito dalle sole due condizioni racchiuse nel periodo finale della norma in esame («quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive»), dal momento che la congiunzione temporale “quando” in-dica appunto il momento, e implicitamente anche il caso, in cui spetta il diritto.
Per quanto esposto in precedenza l’adeguatezza dei mezzi non può essere individuata con riferimento al precedente tenore di vita matrimoniale, che indica un concetto non più attuale, essendosi sciolta già con la separazione l’unione co-niugale, e che non può rappresentare un parametro per le esistenze individuali, es-sendo il frutto unico e irripetibile della cooperazione materiale e spirituale dei co-niugi in costanza di matrimonio, si possono prospettare diverse ipotesi.
La giurisprudenza a volte ha preso in considerazione – quale paragone per l’adeguatezza – il reddito e/o la condizione patrimoniale del coniuge più ab-biente, pur se mascherata attraverso circonlocuzioni o enunciazioni surrettizie, come ad esempio allorché si è chiede al ricorrente «la prova della propria impos-sidenza o della mancanza di mezzi economici e altresì la prova dell’ammontare dei redditi e delle sostanze dell’obbligato» (Cass. sez. 1, n. 7199/1997). Paradig-matica dell’indirizzo giurisprudenziale che considera quale riferimento il reddito del coniuge più abbiente risulta la sentenza n. 13169/2004, nella quale si osserva, quanto al secondo presupposto (della impossibilità di procurarsi mezzi adeguati) che si deve «trattare di impossibilità di ottenere mezzi tali da consentire il rag-giungimento non già della mera autosufficienza economica, ma di un tenore di vi-ta sostanzialmente non diverso rispetto a quello goduto in costanza di matrimo-nio».
A parte il fatto che nel momento in cui si considera il reddito del coniuge più abbiente, e si gravasse quest’ultimo di un assegno a favore del meno abbiente allo scopo di bilanciare ed equiparare i due redditi, automaticamente il reddito del primo non sarebbe più quello considerato, ma dovrebbe essere nuovamente apprezzato detratto l’importo dell’assegno che gli viene tolto per essere attribuito all’altro, e dunque dovrebbe essere riveduto al ribasso anche l’assegno, siffatto modo di ragionare produce effettivamente una ingiusta locupletazione a favore del coniuge beneficiario, come ha rilevato Cass. 11504/2017, poiché, andando ben ol-tre la soglia – che è già oltre la funzione assistenziale – della autosufficienza eco-nomica, attua un riequilibrio economico coattivo che è privo di causa, stante il ve-nir meno dell’unione coniugale e dell’obbligo dei coniugi di reciproca assistenza e cooperazione nell’interesse comune, e di conseguente condivisione del benessere economico.
Si tratta, quindi, di un ragionamento non condivisibile, perché:
– la differenza di redditi viene già in considerazione tra i criteri di valutazione enunciati dalla prima parte del sesto comma, e non può integrare anche il presup-posto di fatto dell’assegno;
– il paragone con il reddito del coniuge abbiente confliggerebbe con la natura assi-stenziale dell’assegno, trasformandolo in uno strumento di compensazione di un divario economico, ma in mancanza di un obbligo di legge che imponga tale com-pensazione;
– configgerebbe altresì con il principio del venir meno – con il divorzio – dell’obbligo di cooperazione materiale e morale dei coniugi, e del conseguente di-ritto alla condivisione del benessere economico.
Se la funzione dell’assegno, come appare corretto ritenere anche secondo la costante giurisprudenza, è assistenziale (cfr. ad es. Cass. 3049/1994: «ha carat-tere esclusivamente assistenziale»; idem: Cass. 7199/1997; Cass. 8183/1999; Cass. 3101/2000; Cass. 8109/2000; Cass. 6660/2001; Cass. 1809/1991; Cass. 10901/1991; Cass. 12682/1992; Cass. 3049/1994; Cass. 11117/1994; Cass. 13017/1995), ed è posto a carico dell’ex-coniuge in attuazione del dovere di soli-darietà (solidarietà che si spiega per essersi il coniuge più abbiente giovato, per la durata del matrimonio, dell’apporto del coniuge meno abbiente), allora il parame-tro di riferimento per stabilire l’adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge più debole non può più essere quello della ricchezza dell’altro coniuge, bensì la condizione oggettiva del coniuge più debole, che deve essere tale da non poter vi-vere un’esistenza dignitosa.
Il principio della «mancanza di mezzi adeguati», letto in chiave assisten-ziale, deve allora essere interpretato con riferimento alla disposizione costituzio-nale che esplicitamente considera l’ipotesi della mancanza di mezzi adeguati, e cioè l’art. 38, secondo comma, Cost., per il quale «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita, in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».
Gli eventi in tale articolo contemplati quali generatori della mancanza di mezzi adeguati coincidono con la larghissima parte dei casi in cui uno dei coniugi divorziati si trova in condizioni di indigenza. Nel concetto di «disoccupazione in-volontaria» ben rientrano le ipotesi in cui la condizione di disoccupazione è dovu-ta al fatto di essersi il coniuge dedicato in maniera totalitaria alle esigenze della famiglia, ovvero all’impossibilità di cercare un lavoro, per dovere il coniuge me-no abbiente ancora dedicarsi – oltre la fine del matrimonio – alla cura di figli non autonomi o gravati da inabilità. Altrettanto rilevanti sono i casi di vecchiaia o ina-bilità, che impediscono il lavoro (e dunque rilevano anche ai sensi dell’ulteriore presupposto, esplicativo del precedente), nonché di malattia o infortuni, finquando perdurino le conseguenze ostative di una attività lavorativa.
L’espressione normativa, parlando di mancanza di “mezzi adeguati”, in-globa in sé non solo le ipotesi di assoluta mancanza di qualunque provento eco-nomico, ma anche i casi in cui il coniuge indigente goda di proventi minimi, ma non sufficienti a costituire “mezzi adeguati” di sussistenza. Ben vi rientrano quin-di, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno (da parametrare, però secondo i criteri e i limiti che si esaminano oltre), anche i casi di svolgimento di prestazio-ni lavorative occasionali e casuali, la cui retribuzione è in termini talmente mini-mi, che non può garantire la possibilità di procurarsi il minimo quotidianamente necessario per vivere.
Il problema concreto è a quale soglia di valore ancorare il livello minimo di “mezzi adeguati”, al di sotto del quale, pur in presenza di redditi, si possa pre-vedere un assegno divorzile “integrativo”.
Stante la natura assistenziale dell’assegno divorzile, alla stregua della normativa di settore, il parametro reddituale standard minimo deve ritenersi l’importo dell’assegno sociale, (che in prospettiva dovrebbe essere sostituito dal ReI, reddito di inclusione, di cui alla D.Lgs n. 147 del 15 settembre 2017), che ammonta, oggi, ad euro 453 mensili, (ma su tredici mensilità, ed ovviamente la previsione di una tredicesima mensilità nell’assegno divorzile potrebbe essere congrua solo se anche nel reddito del coniuge più abbiente fosse prevista tale voce retributiva).
Ovviamente ciò non vuol dire che deve essere sempre riconosciuto un importo di tale valore, poiché tale valore funge da parametro minimo, ma va poi corretto sulla base dei criteri di determinazione indicati nella prima parte del sesto comma, e ben può essere variato: in aumento, se sulla base delle condizioni rispet-tive dei coniugi e dei redditi rispettivi, nonché attesi gli altri criteri, l’importo ap-pare troppo basso (ma pur sempre nei limiti di un’ottica assistenziale), oppure an-che in diminuzione, se il reddito dell’altro coniuge si limita anch’esso ad un asse-gno o ad una pensione sociale, o di invalidità, etc. (ipotesi tutt’altro che infrequen-te), e dunque sarebbe impossibile imporgli il versamento anche della soglia mini-ma predetta.
Nel caso di redditività di gran lunga superiore dell’altro coniuge, e sem-pre che lo giustifichino i criteri di determinazione fissati nella prima parte del se-sto comma, ben potrebbe
Per quanto riguarda il secondo inciso «o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive», in giurisprudenza lo si è inteso non come un’alternativa al primo presupposto (ed in effetti non lo è, perché in realtà i due concetti non si escludono tra loro, ma spesso coesistono, sE.i considerando due diversi aspetti della condizione di inferiorità, uno “statico” e l’altro “dinamico”), ma come un’ipotesi «esplicativa» della prima (Cass. n. 294/1991; Cass. n. 13169/2004).
L’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sussistenza deve essere oggettiva e dunque derivare non dalla volontà di non impegnarsi lavorativamente (che configgerebbe tra l’altro con i principi costituzionali di rilevanza del lavoro quale parametro di dignità e qualità oltreché diritto-dovere dell’individuo: artt. 1 c.1, 2, 35-38, Cost.) ma dall’impossibilità di lavorare: ad es. perché si deve «dedi-care con continuità all’assistenza di due figli minori handicappati a lei affidati» (Cass. sez. 1, n. 294 del 14/1/1991); oppure perché per l’età della persona non è più possibile il suo reinserimento nel mondo del lavoro, o perché soffre di un han-dicap fisico, ovvero nella zona in cui vive non è possibile trovare l’occupazione corrispondente alla qualifica o al settore professionale, o alle sue capacità, o infine perché è una zona (e non sono affatto rare, specie nel meridione), priva di offerta lavorativa e comunque la persona non può allontanarsene per avere lì la casa e/o familiari da assistere.
L’interpretazione dell’adeguatezza nel senso di considerarla in rapporto alle risorse sufficienti ai bisogni minimi dell’esistenza esprime un concetto più coerente con la finalità assistenziale enunciata concordemente dalla giurispruden-za, con le correzioni apportabili sulla base dei criteri della prima parte del sesto comma dell’art. 5 in esame.
7. I criteri di determinazione dell’assegno.
In assenza di “mezzi adeguati” il sesto comma dell’art. 5, nella prima par-te, afferma – recependo alcuni dei criteri già enunciati nel testo dell’art. 5 prece-dente la novella – che il Tribunale deve determinare l’assegno «tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del pa-trimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio».
I criteri sono enunciati in successione, con la sola crasi di una virgola, e dunque devono intendersi elencati non secondo un ordine di prevalenza, ma ap-paiono tutti egualmente rilevanti, salvo i collegamenti logici che li legano.
Va osservato che probabilmente alcuni dei criteri indicati rivestivano ben maggiore utilità nel regime normativo precedente, che perseguiva l’esigenza di pe-requazione delle rispettive condizioni degli ex-coniugi, non prevedendo il presup-posto – oggi vigente – della mancanza di mezzi (che ha ravvicinato l’assegno di-vorzile all’assegno di mantenimento nella separazione). Ma, atteso che la finalità di perequazione è stata espunta già dal legislatore, ed evidenziata dalla giurispru-denza più recente, e che rileva quale presupposto dell’assegno solo la condizione di indigenza, alcuni dei criteri, trasfusi nella nuova disposizione dal testo prece-dente, appaiono ultronei.
Il riferimento alle «condizioni dei coniugi» ripete in parte un criterio già contemplato nel testo precedente, nel quale però le condizioni erano integrate dal-la specificazione «economiche». L’eliminazione dell’aggettivo lascia intendere che non vanno considerate solo le condizioni economiche, ma anche quelle perso-nali, e cioè di salute o di età, mentre il plurale «coniugi» evidenzia che il criterio non riguarda solo il coniuge bisognoso, ma entrambi, e dunque impone all’interprete di operare un raffronto tra le rispettive condizioni. Ma se – come ap-pare corretto – non è più l’equiparazione delle rispettive condizioni patrimoniali il fine dell’assegno divorzile, qual è la funzione della verifica delle condizioni di en-trambi i coniugi nel momento della quantificazione dell’assegno?
La funzione del criterio appare da un lato rivolta ad inquadrare la fascia socio-economica delle parti, e di invitare il giudice alla massima elasticità nella valutazione concreta delle situazioni, trattandosi di una materia in cui la comples-sità è sovrana e la diversità di situazioni soggettive è enorme.
Proprio il riferimento della norma alle condizioni dei coniugi non solo economiche, ma nel senso più ampio del termine, includendo aspetti strettamente personali, affettivi, di rapporti con il coniuge e con i figli, di collocazione spaziale e abitativa, di natura e modalità della attività lavorative svolte e/o cercate, di capa-cità lavorativa, di distanze dei luoghi di lavoro, di compatibilità con le esigenze dei figli, etc., non può non esigere una specifica ed attenta – quanto difficile, an-che per il frequente tentativo delle parti in lite di occultare le reali condizioni – personalizzazione della decisione del giudice.
Il criterio del «reddito di entrambi» i coniugi costituisce la “cornice” entro la quale può e deve muoversi il giudice, nel senso che qualunque pretesa del co-niuge meno abbiente deve comunque rapportarsi al reddito dell’altro coniuge e, con particolare riguardo ai casi – molto più frequenti – di redditi bassi di entrambi i coniugi, non potrebbe mai trovare riconoscimento in termini economici tali da che comportare l’eccessivo depauperamento dell’ex coniuge che ha mantenuto una capacità reddituale.
Il criterio delle «ragioni della decisione» (che non può essere riferito ai motivi della decisione, e cioè alle argomentazioni che supportano la decisione del giudice, perché in tal caso si verificherebbe una inversione logica, non potendo l’argomento motivazionale, che è successivo alla decisione costituire contempora-neamente il criterio di decisione) è stato interpretato sin dall’inizio dalla giuri-sprudenza come riferibile alla responsabilità per il fallimento del matrimonio (Cass. sez. un. 26-4-1974 n. 1194; Cass. 270/1982; Cass. 405/1975; Cass. 2934/1977), ed ovviamente – così inteso – il criterio rileva nei casi in cui la sepa-razione e quindi il divorzio siano scaturiti da gravi inadempienze del coniuge, ov-vero da una delle cause indicate nell’art. 3 della legge 898/1970. Si è però obbiet-tato che non esistendo un divorzio per colpa, né una addebitabilità formale del di-vorzio, come invece per la separazione, una simile indagine sarebbe ultronea, atte-so anche il limite generale costituito dal presupposto dell’assegno, e cioè la man-canza di mezzi adeguati. Per cui le ragioni della decisione, e cioè della pronuncia di divorzio, andrebbero riferite alla casistica di ipotesi che giustificano il divorzio, contenuta nell’art. 3 della legge 898/1970, casistica che però esprime in larga parte una valenza comunque simile alle cause di addebito nella separazione.
Pur volendo ritenere che, attraverso tale criterio, «ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio, il giudice non può omettere di considerare, quanto alla responsabilità per il fallimento del matrimonio, le risultanze della causa di separa-zione personale per colpa, nè la circostanza che uno dei coniugi sia stato condan-nato per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare» (Cass. 1, n. 2934/1977), e dunque che nella quantificazione dell’assegno devono entrare valu-tazioni indennitarie/risarcitorie (Cass. 11490/1990, Cass. 11491/1990 e Cass. 11492/1990, richiamate in motivazione da Cass. 7199/1997, per la quale «i criteri indennitario e risarcitorio, a seguito della riforma del 1987 non costituiscono più elementi per il riconoscimento dell’assegno, ma solo criteri utilizzabili, al massimo, per la sua parametrazione») il problema per l’interprete resta comun-que la verifica di quanto possa incidere questo criterio, come pure gli altri, nella determinazione dell’assegno, se non è più parametro il riferimento il precedente “tenore di vita” in costanza di matrimonio, se il presupposto del riconoscimento è pur sempre e solo la “mancanza di mezzi adeguati”, e se l’assegno non ha funzio-ne ristoratoria e/o risarcitoria ma assistenziale (Cass. 7199/1997).
Il «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune» ri-flette pressoché pedissequamente il criterio enunciato nel testo normativo ante ri-forma, con l’aggiunta del riferimento al patrimonio di ciascun coniuge oltre che a quello comune, ed era pienamente funzionale alla finalità della perequazione della ricchezza considerata nel regime precedente, ma anche alla rilevanza al lavoro en-dofamiliare del coniuge, prima del 1975 neppure considerato dall’ordinamento.
Il criterio ha una effettiva utilità al fine della quantificazione dell’assegno divorzile, ancora una volta in funzione equitativa, per elevare l’importo dell’assegno – pur sempre però da rapportarsi alla finalità assistenziale – a compensazione del fatto che il coniuge meno abbiente non abbia potuto provvedere a crearsi una propria capacità reddituale perché si è dedicato prevalentemente o to-talmente alle esigenze familiari, a volte – caso tutt’altro che infrequente – per la insuperabile pretesa in tal senso dell’altro coniuge, che si è voluto assicurare la sua dedizione assoluta alla famiglia e a sé stesso. In tale ultimo caso, in cui alla genesi della situazione di indigenza post-matrimoniale ha dato causa il comporta-mento del coniuge più abbiente, appare non solo equo, ma doveroso, attribuirgli un obbligo maggiore, anche se pur sempre in rapporto alla sua capacità reddituale (Cass. 1, n. 2934/1977: il giudice «deve, inoltre, considerare l’apporto dato dalla moglie alla formazione del patrimonio comune, anche con la sola attività di casa-linga»). L’elevazione dell’assegno in base a tale criterio non può però non tener conto del limite generale imposto dall’altro criterio del reddito del coniuge più ab-biente.
Infine, il «rapporto alla durata del matrimonio» sembra poter fungere anch’esso da criterio correttivo – in senso ampliativo o riduttivo, a seconda della durata, ma pur sempre limitato dalla “cornice” della disponibilità reddituale del coniuge più abbiente – quando la situazione di indigenza post-divorzio è scaturita, come si è detto, dalla dedizione prevalente o totale del coniuge alle esigenze della famiglia.
In definitiva, pur se i predetti criteri di determinazione dell’assegno sono considerati dalla giurisprudenza come esplicativi, e non graduati gerarchicamente, e si è ritenuto che ciascuno di essi possa essere da solo sufficiente a fondare la quantificazione (cfr. in tal senso Cass. 10201/2005, per la quale deve escludersi che il giudice debba dare adeguata giustificazione della decisione, con la puntuale considerazione di tutti parametri di riferimento enunciati dal sesto comma dell’art. 5), tuttavia un rapporto di precedenza o di sudditanza, e in definitiva di gerarchia, emerge tra loro sul piano logico. Tutti sono in grado di svolgere un ruolo preciso nel guidare la quantificazione, ma appare evidente che i criteri delle «condizioni dei coniugi» e dei «redditi» di entrambi costituiscono la «cornice» entro cui inevi-tabilmente si deve muovere il giudice nella quantificazione, sulla base degli altri criteri indicati, non potendo onerare alcuno dei coniugi di obblighi insostenibili in base alla sua obbiettiva condizione economica e reddituale. assolvendo anche in-direttamente – qualora non considerati direttamente nella valutazione – una fun-zione di delimitazione del rischio di sproporzione della quantificazione, non do-vendo comunque la liquidazione operata confliggere con uno di essi.
8. Considerazioni conclusive sui principi normativi.
Sulla base delle considerazioni svolte, sulla scorta delle chiarificazioni rese dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 11504/2017, nonché Cass. n. 15481, 23602, 20525, 25327 del 2017), è possibile sintetizzare i seguenti principi in materia di assegno divorzile:
1) il divorzio, recidendo in nuce il vincolo matrimoniale, recide tutti gli obblighi che da esso derivano, sia di natura personale che patrimoniale, fatti salvi quegli obblighi di cui la legge medesima afferma la persistenza oltre il divorzio.
2) Vengono conseguentemente meno gli obblighi di reciproca coopera-zione materiale e morale per la famiglia, e quindi anche il conseguente reciproco diritto alla condivisione del benessere economico prodotto con il comune apporto.
3) Il sesto comma dell’art. 5 L. 898/1970 introduce una eccezione al prin-cipio generale del venir meno di ogni legame personale e patrimoniale tra i coniu-gi divorziati, solo ed unicamente in quei casi in cui il coniuge più debole, nel ritornare alla dimensione economico-patrimoniale individuale, venga a trovarsi in una condizione di «mancanza di mezzi adeguati o di impossibilità oggettiva di procurarseli»: previsione che, stante la sua natura eccezionale, non può essere ap-plicata oltre i casi in esso considerati, né può essere estesa interpretativamente.
4) Il “tenore di vita” matrimoniale non è contemplato tra i presupposti tassativi che giustificano la concessione di un assegno divorzile, né può rientrarvi per via interpretativa, per la tassatività dei casi oltreché per incompatibilità logica; e non può rientrare tra i criteri di quantificazione, perché in conflitto con il limite posto dai predetti presupposti e perché in contrasto con la finalità assistenziale.
5) I criteri di quantificazione dell’assegno hanno pari rilevanza, anche se con diversa funzione logica, e possono essere utilizzati anche singolarmente;
6) Il reddito del coniuge più abbiente costituisce il criterio cornice entro il quale, ed in proporzione al quale deve essere quantificato l’assegno, non potendo il soddisfacimento della finalità assistenziale del coniuge indigente provocare l’impoverimento l’altro coniuge, e neppure dovendo realizzare una equiparazione patrimoniale, che stante la fine dell’unione familiare ha più ragion d’essere.
7) Le esigenze della prole non vanno ovviamente considerate nella de-terminazione dell’assegno divorzile, poiché ne è ben diverso il fondamento, ed il mantenimento dei figli segue altri criteri di determinazione: se l’assegno divorzile non va proporzionato al reddito del coniuge più abbiente, il mantenimento dei figli è invece per legge legato proporzionalmente al reddito di ciascun coniuge (art. 337-ter c.4 c.c.), ed in caso di forti disparità di reddito tra i due genitori i figli hanno pieno diritto di continuare a godere di un tenore di vita proporzionato a quello del genitore più abbiente.
9. La determinazione dell’assegno divorzile e del mantenimento della figlia nella vicenda in esame.
Chiariti nei predetti termini i principi applicabili in materia di assegno di-vorzile, è possibile affrontare l’esame in concreto delle domande delle parti.
Nella vicenda in esame sussiste il presupposto di legge per il riconoscimento dell’assegno divorzile, della mancanza di mezzi adeguati da parte dell’ex coniuge B.E., che, come si è visto, costituisce il presupposto primario, di cui il secondo presupposto («non può procurarseli per ragioni oggettive») per costante affermazione giurisprudenziale rappresenta un’esplicazione e non una nuova ipotesi alternativa alla prima.
E’ evidente che il diritto all’assegno ritornerà in discussione nel momento in cui la B.E. dovesse reperire un’occupazione stabile che le fornisca “mezzi adeguati” per vivere. Ed a tal fine nulla impedisce che il D.L. si attivi per aiutare la B.E. nel reperimento di un’attività lavorativa stabile, e sufficiente ad assicurarle i mezzi minimi adeguati alle esigenze di sussistenza (ma anche confacente alla sua professionalità, che va rispettata e considerata tra le «condizioni dei coniugi», pur se non necessariamente equivalente al precedente), atteso che quest’ultima ha comunque ribadito di voler trovare, anche per propria dignità oltreché per recuperare l’indipendenza economica. Ma fino a quel momento va riconosciuto il diritto a percepire un assegno divorzile.
E’ emerso dagli atti che la B.E. ha perso il lavoro non per suo capriccio o scelta volontaria, ma per essersi messa a disposizione della famiglia, con la maternità, il cui impegno ha certamente ha una valenza essenziale e superiore a qualunque altro impegno sociale od economico, ed ovviamente contando sul sostegno economico del coniuge, e co-genitore, finquando non fosse stata in grado di riprendere l’attività lavorativa. La sopravvenuta frattura dell’unione coniugale ha fatto saltare ogni previsione, relegando la B.E. in una situazione, certamente non voluta, di dipendenza economica dall’ex coniuge, le cui cause sono rimaste occultate dalla definizione dell’accordo per una separazione consensuale.
La B.E. tra l’altro svolgeva un lavoro di promoter pubblicitario che le assicurava un reddito anche superiore a quello del D.L.. Purtroppo l’oggettiva impossibilità della B.E. di recuperare la capacità lavorativa e reddituale quo ante è scaturita dalle innovazioni, radicali e improvvise, introdotte anche nel suo settore dalla comunicazione in rete, che ha reso obsoleta ma anche eccessivamente costosa – al paragone con le modalità di comunicazione on line con la clientela – l’attività che in precedenza era svolta “porta a porta”, ed ha provocato la cancellazione dal mercato del lavoro del profilo professionale rivestito dalla B.E..
Ritiene quindi il Tribunale di dover considerare, ai fini della determinazione dell’assegno: la funzione assistenziale dell’assegno; le condizioni complessive dei due coniugi (la B.E., disoccupata, e con una figlia minore e studentessa convivente, il cui mantenimento è regolato autonomamente; e il D.L., occupato, ma con un nuovo nucleo familiare ed un’altra figlia piccola); il reddito complessivo del D.L. (euro 2.900 mensili circa); l’apporto dato dalla B.E. alla famiglia, con la gravidanza e l’abbandono del lavoro per essa e per curare poi la figlia piccola; le condizioni concordate in sede di separazione consensuale che costituiscono un indice di ragionevole sostenibilità delle obbligazioni ivi assunte, in quanto appunto accettate da entrambi i coniugi; la durata del matrimonio, di anni 7, nei quali la B.E. si è allontanata dal mondo del lavoro per circa cinque anni.
Per cui sulla base di tali elementi, e delle considerazioni svolte in precedenza, ritiene di dover quantificare l’assegno divorzile per la B.E., da corrisponderle fino a che non troverà una occupazione stabile, nel medesimo importo concordato in sede di separazione, e cioè di euro 500 (di poco superiore al valore dell’assegno sociale, pari ad euro 453), considerato anche che, avendolo concordato le parti, evidentemente è stato ritenuto da entrambe, rispettivamente, congruo e sostenibile. Va confermata altresì la clausola con cui, in sede di accordo di separazione, il «D.L. si obbliga a garantire alla signora B.E. la copertura assicurativa per spese mediche sino ad un importo di euro 100,00 (cento) mensili», che deve considerarsi integrazione del predetto assegno.
Per quanto concerne la richiesta della B.E. di ottenere dal D.L. anche il pagamento del canone di locazione dell’appartamento per sé e per la figlia, richiesta di cui il ricorrente sostiene l’inammissibilità, essa poggia sulla tesi secondo cui vi sarebbe stato un accordo informale tra le parti in tal senso, poi non trasfuso in sede di separazione.
È vero, per averlo dichiarato lo stesso D.L. al presidente-G.I., che egli ha pagato per un certo periodo il canone di locazione dell’appartamento dove era rimasta ad abitare la B.E.. Ma è anche vero che nell’accordo di separazione non vi è traccia di tale clausola, e non può desumersi l’esistenza di un tale obbligo dal fatto dell’avvenuto pagamento per un certo periodo da parte del D.L., che ben si potrebbe spiegare con l’intestazione a lui sia del contratto di affitto che delle utenze domestiche, o comunque come un contributo ulteriore volontario.
Per cui non appare accoglibile la pretesa della B.E. di addebitare al D.L. il pagamento dell’intero canone di locazione sulla base di un accordo preesistente tra le parti.
Va tuttavia considerato che la fruizione di una casa di abitazione, oltreché per la B.E., è indispensabile per la figlia minore, non essendovi stata nella specie l’assegnazione della casa familiare, che non era di proprietà di alcuno dei coniugi, e che è stata lasciata dalla B.E. per le menzionate esigenze di avvicinamento ai luoghi ed alle famiglie di origine.
Poiché è evidente che la figlia minore ha bisogno di una casa ove abitare, del cui peso economico non può farsi carico esclusivamente la B.E., non lavorando, ed il relativo onere deve essere posto a carico di entrambi i genitori, afferendo alle irrinunciabili esigenze di mantenimento della figlia, in proporzione del rispettivo reddito (che per la B.E. attualmente non c’è, se non di riflesso sulla base dell’assegno erogato dal D.L.), appare necessario includere nell’assegno di mantenimento per la figlia una quota di partecipazione del padre alle spese di locazione della casa, nella misura del 50 per cento del canone di locazione dell’appartamento, pari ad euro 275.
Per quanto concerne l’assegno dovuto a titolo di concorso nel mantenimento della figlia, premesso che a norma dell’art. 337-ter c.4 c.c., «salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito».
Il principio dell’eguale attribuzione ad entrambi i genitori degli obblighi e degli oneri relativi ai figli, che discende dall’ontologico ed intuitivo ruolo paritario nella famiglia, è l’espressione di una parità giuridica, ma è ancorato alla disponibilità economica di ciascuno (in questo nulla mutando rispetto al regime in corso di matrimonio, in cui evidentemente è il coniuge che ha il maggior reddito a doversi fare maggior carico delle esigenze dei figli), e dunque va corretto sulla base della concreta disponibilità economica dei coniugi.
Al momento, tra i due coniugi, è evidente che è il solo D.L. ad avere un reddito. Ma è anche vero che, avendo avuto un’altra figlia dalla nuova unione, deve operarsi un bilanciamento tra le esigenze delle due figlie, che devono avere paritaria priorità nella considerazione dell’impegno economico del padre.
Pertanto ritiene il Tribunale, considerato il reddito complessivo del D.L., di quantificare l’importo per le esigenze ordinarie di mantenimento della figlia E. in euro 325, che sommate alla partecipazione alle spese della locazione, comportano un assegno mensile di euro 600 complessivi per la figlia, a carico del D.L..
A tale somma va aggiunto l’importo degli assegni familiari, spettante per la minore E., che l’ente datore di lavoro dovrà versare direttamente alla B.E..
Complessivamente quindi, va posto a carico del D.L. l’obbligo di versare euro 1.100 mensili alla B.E., di cui euro 600 per la figlia, ed euro 500 per l’ex coniuge.
In ordine alla regolazione delle spese straordinarie per la figlia, tenuto conto che il D.L. ha anche un’altra figlia cui provvedere, vanno poste a suo totale carico le spese per i libri scolastici e per le necessità scolastiche della figlia E., che sono essenziali per la formazione della figlia e per consentirle di raggiungere in futuro un’autonomia economica, e le spese sanitarie non coperte dal servizio sanitario, finquando la madre non recupererà una autonomia economica: momento dal quale saranno dovute da ciascun genitore per la metà. Mentre le altre spese straordinarie vanno poste a carico del D.L. per la metà, previo accordo tra i coniugi sulla loro necessità (ed in mancanza di accordo, deciderà il Tribunale).
10. Il diritto-dovere di visita della figlia.
Il ricorrente in ordine alla regolazione del diritto di visita ha chiesto che il Tribunale, in considerazione dei suoi impegni di lavoro disponesse che il medesimo possa vedere e tenere con sé la figlia nei seguenti giorni e periodi:
a) il lunedì e martedì di ogni settimana, dalle ore 16,00 alle ore 20,00; potrà, altresì, vederla il mercoledì, giovedì e venerdì, con la medesima tempistica, previe intese da concordare con l’altro genitore entro il fine settimana precedente tenuto conto delle esigenze lavorative di entrambi;
b) a fine settimana alterni, dal venerdì pomeriggio alla domenica pomeriggio, salvo che ciò sia impossibile per motivi di salute, di lavoro o altri gravi motivi;
c) ad anni alterni durante le festività natalizie, salvo diversi accordi tra i genitori, nei giorni 24, 25 e 26 dicembre o nei giorni 31 dicembre, 1 e 6 gennaio;
d) durante le festività di Pasqua, la minore trascorrerà la domenica con un genitore e il lunedì dell’Angelo con l’altro ad anni alterni;
e) il giorno del suo compleanno, la piccola E., sempre salvo diversi accordi tra i genitori e secondo la sua volontà, lo trascorrerà ad anni alterni presso uno o l’altro genitore;
f) durante il periodo estivo, infine, a partire dal giorno successivo alla chiusura della scuola e sino alla riapertura della stessa, ciascun genitore terrà con sé la bambina per un periodo di venti giorni consecutivi, salvo diversi accordi tra i medesimi.
La resistente ha sostanzialmente aderito alle richieste del D.L., che però appaiono eccessive laddove si prevede che egli possa vedere la figlia tutti i giorni della settimana, poiché nel regolare il diritto di visita del genitore non coabitante occorre tener presenti prioritariamente le esigenze della prole, di studio e sociali, oltreché eventuali impedimenti per motivi di salute etc.
D’altro lato la regolazione del diritto di visita ha la funzione di disciplinare i tempi ed orari minimi di permanenza con l’altro genitore, ma non è certo di ostacolo a ulteriori visite in altri momenti, purché siano concordate con il genitore collocatario e con la figlia, ove sia in età da partecipare a tali accordi, nel rispetto degli impegni e delle esigenze di quest’ultima.
Per cui si ritiene di confermare tempi ed orari concordati nella separazione, che potranno essere modificati liberamente, d’accordo tra le parti e con la figlia, ornai dodicenne.
11. Regolazione delle spese processuali.
Il ricorrente ha chiesto in ricorso introduttivo che il Tribunale condanni, in caso di opposizione della resistente, la medesima al pagamento delle spese e competenze di giudizio.
La domanda è mal posta, poiché non è la semplice opposizione alla domanda dell’altra parte, che costituisce espressione del diritto di difesa, non comprimibile né sanzionabile (se non trasmodi nella temerarietà), a poter giustificare la condanna alle spese, bensì la soccombenza, a norma dell’art. 91 c.p.c.
Nella specie, le parti, nel mentre hanno aderito e condiviso entrambe la domanda di declaratoria di scioglimento del matrimonio, sono invece rimaste entrambe soccombenti parzialmente quanto alle rispettive richieste economiche, ed entrambe hanno altresì rifiutato la proposta conciliativa formulata dal G.I. in corso di causa, che peraltro, pur con diversa articolazione delle voci, risulta essere coincidente con la, liquidazione operata in questa sede decisionale.
Conseguentemente appare corretto compensare integralmente tra le parti le spese di questo giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da D.L. con ricorso depositato il 7-5-2015 nei confronti di B.E., preso atto della intervenuta declaratoria di scioglimento del matrimonio con sentenza in data 18-5-2016, così provvede:
1) Dichiara il diritto di B.E. all’assegno divorzile, che quantifica, per quanto esposto in motivazione, in euro 500 mensili, oltre rivalutazione annuale secondo indici Istat;
2) Pone a carico del D.L. l’obbligo di corrispondere alla B.E., a titolo di concorso nel mantenimento della figlia E., l’assegno mensile di euro 600, oltre rivalutazione annuale Istat, ed oltre assegni familiari spettanti al medesimo per la figlia E.;
3) Pone a carico del D.L. le spese le spese per i libri scolastici e per le necessità scolastiche della figlia E., e le spese sanitarie non coperte dal servizio sanitario, finquando la madre recupererà una autonomia economica, momento dal quale saranno divise per la metà tra i coniugi;
4) Pone a carico di entrambi i coniugi per la metà le altre spese straordinarie per la figlia E., purché preventivamente concordate tra i coniugi;
5) Dispone il versamento diretto alla madre B.E., da parte dell’ente datore di lavoro ovvero dell’INPS, degli assegni familiari spettanti al D.L. per la figlia minore E..
6) Compensa integralmente le spese tra le parti.
Così deciso in Matera nella Camera di Consiglio della sezione civile, il 7 Marzo 2018.
Il Presidente, est.

L’accettazione con beneficio di inventario è fattispecie a formazione progressiva che può essere opposta dall’erede nel giudizio di esecuzione per un debito del de cuius

Cass. civ. Sez. II, 26 marzo 2018, n. 7477
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
SENTENZA
sul ricorso 8898-2016 proposto da:
BANCA POPOLARE SONDRIO S.C.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 11, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO PACIFICO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO BONOMO;
– ricorrente –
contro
P.E.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VARRONE 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VANNICELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VERONICA BERTANI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 388/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Del Core Sergio, il quale ha concluso per l’accoglimento del primo e del secondo motivo del ricorso, assorbito il terzo;
uditi gli Avvocati Pacifico, per delega dell’Avvocato Bonomo, e Bertani.
Svolgimento del processo
La società cooperativa per azioni Banca Popolare di Sondrio, sulla base del decreto ingiuntivo n. 569/09 del 9 novembre 2009, pronunciato dal Tribunale di Sondrio, intimò precetto ad P.E.M., quale avente causa, per effetto di successione legittima, del marito V.A..
L’intimata P.E.M. propose opposizione, deducendo di non essere debitrice della somma ingiuntale, atteso che aveva accettato l’eredità del marito con beneficio di inventario e che i beni erano stati rilasciati ai creditori.
Non avendo la Banca provveduto ad intraprendere l’esecuzione minacciata ed essendo perciò cessata l’efficacia del precetto, il Tribunale di Sondrio, quale giudice dell’opposizione, con sentenza n. 338/2014 del 17 settembre 2014, dichiarò cessata la materia del contendere e condannò la creditrice al rimborso delle spese di lite ed al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 388/2016 del 3 febbraio 2016, rigettò il gravame della Banca Popolare di Sondrio, rilevando che P.E.M. aveva accettato l’eredità del marito V.A., morto il (OMISSIS), con beneficio di inventario mediante dichiarazione dell’11 settembre 2009, e che le operazioni di redazione di inventario (anche a seguito di proroga concessa dal Tribunale) erano terminate in data 5 marzo 2010, con successiva designazione del curatore incaricato di procedere alla liquidazione dell’eredità rilasciata ai creditori ed ai legatari.
In data 9 novembre 2009 era stato però emesso, su domanda della Banca Popolare di Sondrio, un decreto ingiuntivo nei confronti di P.E.M., nella qualità di erede del defunto coniuge. L’importo di tale decreto, a seguito del rilascio dei beni, venne poi inserito nello stato di graduazione redatto dal curatore e portato ad esecuzione, una volta divenuto definitivo, con il pagamento in favore dei vari creditori, essendosi quindi pervenuti alla chiusura dell’eredità beneficiata con provvedimento del Presidente del Tribunale di Sondrio del 27 gennaio 2012.
Sostenne la Corte d’Appello che la P. non avesse perciò mai acquisito la qualità di erede pura e semplice e quindi non dovesse rispondere dell’intero ammontare del decreto ingiuntivo. Sebbene alla data dell’emissione del decreto ingiuntivo P.E.M. avesse già dichiarato di accettare l’eredità del marito V.A., fino ancora alla scadenza del termine per proporre la relativa opposizione ex art. 641 c.p.c. non era stata ultimata la redazione dell’inventario, formalità costituente un elemento della fattispecie a formazione progressiva di accettazione con beneficio di inventario. Da ciò i giudici dell’appello conclusero che la limitazione di responsabilità scaturente dal beneficio in questione ben poteva essere fatta valere in sede di opposizione a precetto, sicché la valutazione di soccombenza virtuale in danno della creditrice opposta compiuta dal Tribunale, ai fini della regolamentazione delle spese di lite, doveva reputarsi corretta. Del pari condivisibile risultava per la Corte di Milano la valutazione del primo giudice in merito alla sussistenza della responsabilità ex art. 96 c.p.c. della Banca, la quale non solo aveva intrapreso la procedura monitoria quando era stata resa edotta della volontà degli ingiunti di accettare con beneficio di inventario (missiva del 24 ottobre 2009), ma aveva altresì intimato il precetto una volta che aveva riscontrato il mancato soddisfacimento del proprio credito nell’ambito della liquidazione compiuta dal curatore.
La Banca Popolare di Sondrio s.c.p.a. ha formulato ricorso avverso tale sentenza sulla base di tre motivi.
P.E.M. ha resistito con controricorso.
Su proposta del relatore, che aveva ritenuto il giudizio definibile nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in riferimento all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), era stata dapprima fissata l’adunanza della camera di consiglio. Il Collegio, con ordinanza del 27 marzo 2017, ritenne tuttavia che non ricorressero le ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), e rimise la causa alla pubblica udienza.
Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Il Collegio reputa pregiudizialmente che non sussistono ragioni di economia processuale per disporre la riunione dei ricorsi R.G. n. 8898/2016 e R.G. n. 2355/2017, entrambi discussi all’udienza del 30 gennaio 2018, stante la parziale difformità delle vicende e delle progressioni procedimentali inerenti alla due diverse controversie.
Il primo motivo del ricorso della Banca Popolare di Sondrio lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 459, 470, 484 e 487 c.c., nonché dei “principi generali in tema di acquisto della qualità di erede con beneficio di inventario”.
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 2909 c.c. “in tema dei limiti dei fatti opponibili al giudicato”.
Evidenziano le prime due censure, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente, come il decreto ingiuntivo n. 569/2009 fosse stato emesso allorquando P.E.M. aveva già dichiarato di accettare con beneficio di inventario e come il medesimo provvedimento monitorio, una volta notificato, fosse divenuto definitivo, per la scadenza del termine previsto per l’opposizione, prima che fossero state completate le operazioni di inventario. La ricorrente sostiene così che la P. aveva ormai definitivamente acquistato la qualità di erede ed era perciò subentrata nei debiti del de cuius, senza che su questo potesse incidere la mancata redazione o il non tempestivo completamento dell’inventario. Di tal che, la limitazione di responsabilità, che sarebbe derivata dal perfezionamento della fattispecie a formazione progressiva costituita dall’accettazione con beneficio di inventario, avrebbe dovuto essere fatta valere già in sede di opposizione a decreto ingiuntivo. Il giudicato altrimenti formatosi a seguito della mancata opposizione al provvedimento monitorio precludeva, ad avviso della ricorrente, che la detta limitazione di responsabilità potesse essere fatta valere in sede di opposizione a precetto.
1.1. I primi due motivi, che vanno peraltro soggetti ad un rilievo di carattere pregiudiziale, sono in ogni caso da respingere.
Il Tribunale di Sondrio, nella sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello di Milano, ha dichiarato cessata la materia del contendere tra le parti, in conseguenza della maturata inefficacia del precetto per l’inutile decorso del termine di inizio dell’esecuzione. Tale pronunzia ha pertanto affermato che fosse venuto meno il dovere del giudice di pronunziare sul merito della domanda, essendo svanito l’interesse delle parti alla decisione, con conseguente sentenza finale di rito. Di tale sentenza le parti potevano allora dolersi nel merito in sede di impugnazione solo contestando l’esistenza del presupposto per emetterla, risultando invece precluso per difetto di interesse ogni altro motivo di censura, atteso che è comunque onere della parte, che contesti, appunto, la decisione per questioni di merito, impugnare preliminarmente la declaratoria di cessazione della materia del contendere (Cass. Sez. U, 09/07/1997, n. 6226, Cass. Sez. 3, 01/06/2004, n. 10478; Cass. Sez. 1, 28/05/2012, n. 8448; Cass. Sez. 6 – L, 13/07/2016, n. 14341).
Essendo comunque sottratta all’ambito del devoluto in sede di legittimità, sulla base dei motivi di ricorso, la statuizione di cessazione della materia del contendere, la quale è coperta da giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2, va ulteriormente evidenziato come spetti al giudice del merito, nel caso in cui dichiari cessata la materia del contendere, di deliberare il fondamento della domanda per decidere sulle spese secondo il principio della soccombenza virtuale, con apprezzamento di fatto la cui motivazione non postula certo di dar conto di tutte le risultanze probatorie, e che è sindacabile in cassazione sol quando, a sua giustificazione, siano enunciati motivi formalmente illogici o giuridicamente erronei, cosa che non si evince nel caso di specie (Cass. Sez. 1, 27/09/2002, n. 14023; Cass. Sez. 3, 14/07/2003, n. 10998).
Il primo ed il secondo motivo di ricorso, ove intesi come volti unicamente a contestare la soccombenza della Banca Popolare di Sondrio ai soli fini della regolamentazione delle spese, si rivelano comunque infondati.
Deve essere ribadito l’orientamento di questa Corte (a far tempo da Cass. Sez. 2, 15/07/2003, n. 11030; poi Cass. Sez. 2, 09/08/2005, n. 16739; Cass. Sez. L, 06/08/2015, n. 16514) secondo cui, disponendo che “l’accettazione col beneficio d’inventario si fa mediante dichiarazione… ” e che questa “deve essere preceduta o seguita dall’inventario”, l’art. 484 c.c. chiaramente delinea una fattispecie a formazione progressiva, per la cui realizzazione i due adempimenti sono entrambi indispensabili, come suoi elementi costitutivi. Dunque la dichiarazione di accettazione, ha ex se una propria immediata efficacia, comportando il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato e quindi il suo subentro in universum ius defuncti, compresi i debiti del de cuius, senza però incidere sulla limitazione della relativa responsabilità intra vires hereditatis, la quale è condizionata (anche) alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario, mancando il quale l’accettante “è considerato erede puro e semplice” (artt. 485, 487 e 488 c.c.), come se non avesse conseguito il beneficio ab initio. D’altra parte, l’intempestivo compimento dell’inventario, se non nella eccezionale previsione dell’art. 489 c.c. (che però concerne unicamente la speciale disciplina stabilita per gli incapaci) non è inserito dall’ordinamento tra le ipotesi di decadenza dal beneficio (artt. 493, 494 e 505 c.c., tutte riferite ad altre condotte dell’erede attinenti alla fase della liquidazione e quindi necessariamente successive alla redazione dell’inventario), e ciò conferma che tale formalità ha natura di elemento costitutivo della fattispecie.
Va allora considerata la parallela costante interpretazione giurisprudenziale, ad avviso della quale l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, determinando la limitazione della responsabilità dell’erede per i debiti del “de cuius” entro il valore dei beni a lui pervenuti, va eccepita nel giudizio di cognizione promosso dal creditore del defunto che faccia valere per intero la sua pretesa, in modo da contenere quantitativamente l’estensione e gli effetti dell’invocata pronuncia giudiziale; ne consegue che, ove non sia stata proposta la relativa eccezione nel processo di cognizione (nè tale fatto sia stato rilevato d’ufficio dal giudice: Cass. Sez. U, 07/05/2013, n. 10531), la qualità di erede con beneficio d’inventario e la correlata limitazione della responsabilità non sono deducibili per la prima volta in sede esecutiva, coprendo il giudicato tanto il dedotto quanto il deducibile (Cass. Sez. 3, 16/04/2013, n. 9158; Cass. Sez. L, 15/04/1992, n. 4633; Cass. Sez. 3, 25/11/1988, n. 6345).
Vale tuttavia il più generale principio in forza del quale il titolo esecutivo giudiziale (nella specie, decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo perché non opposto) copre i soli fatti estintivi, modificativi o impeditivi del credito intervenuti anteriormente alla formazione del titolo, non potendo essere rimesso in discussione dinanzi al giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione per fatti anteriori alla sua definitività. Ciò significa che, qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo solo controllare la persistente validità di quest’ultimo ed attribuire rilevanza ai fatti posteriori alla sua formazione (Cass. Sez. L, 14/02/2013, n. 3667; Cass. Sez. L, 21/04/2004, n. 7637).
Ne consegue che allorché al momento della formazione del titolo esecutivo giudiziale nei confronti dell’erede per un debito del cuius (nella specie, al momento della conseguita esecutorietà del decreto ingiuntivo 9 novembre 2009 per mancata opposizione nel termine) non fossero ancora decorsi i termini per il compimento dell’inventario da parte del chiamato all’eredità, il quale abbia dichiarato di accettare col beneficio, la limitazione della responsabilità della responsabilità dell’erede per i debiti entro il valore dei beni a lui pervenuti, ex art. 490 c.c., in quanto effetto del beneficio medesimo subordinato per legge alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario stesso, può essere utilmente eccepita dinanzi al giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione, trattandosi di fatto successivo alla definitività del titolo.
2. Il terzo motivo di ricorso deduce, da ultimo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., per avere i giudici di merito ravvisato la temerarietà dell’azione promossa dalla Banca Popolare di Sondrio. Tale censura è fondata. La sentenza impugnata ha evidenziato come la Banca avesse agito con grave imprudenza, intimando precetto e quindi minacciando l’esecuzione sulla base di un titolo formatosi prima della chiusura delle operazioni di inventario, dopo aver visto le proprie ragioni negate nello stato di graduazione ed allorquando alla creditrice era ben nota la correlata limitazione di responsabilità della quale la signora P. poteva beneficiarsi.
Nell’accertare la responsabilità processuale aggravata della parte precettante, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., per aver intimato il pagamento di somme che sapeva essere non dovute, il giudice dell’opposizione deve comunque valutare, alla stregua della mala fede o dell’ordinaria diligenza, la condotta tenuta dal creditore nel giudizio di esecuzione (arg. da Cass. Sez. 3, 16/04/2013, n. 9152).
Nel caso in esame, allora, l’evidente complessità delle questioni giuridiche che erano ricomprese nell’oggetto del giudizio di opposizione a precetto appare tale da escludere che l’esercizio dell’azione fosse stato del tutto imprudente. D’altro canto, dall’esposizione dei fatti della causa in esame emerge come la Banca non avesse poi provveduto ad intraprendere l’esecuzione minacciata, con conseguente perdita di efficacia del precetto, sicché doveva negarsi la ravvisabilità della coscienza dell’infondatezza della pretesa e delle tesi sostenute, ovvero del difetto della normale diligenza funzionale all’acquisizione di detta consapevolezza.
3. Conseguono l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, il rigetto del primo e del secondo motivo di ricorso, nonché la cassazione della sentenza impugnata nei limiti della censura accolta. Non essendo al riguardo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, accogliendo l’appello proposto dalla Banca Popolare di Sondrio avverso la sentenza del Tribunale di Sondrio n. 338/2014 del 17 settembre 2014 nei limiti del rigetto della domanda di P.E.M. di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., ferma ogni altra statuizione della sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 388/2016 del 3 febbraio 2016, anche quanto alla regolamentazione delle spese processuali, vista la prevalente soccombenza della Banca.
In ragione della prevalente soccombenza della Banca Popolare di Sondrio, alla luce del devoluto, le spese del giudizio di cassazione vanno comunque poste a carico della ricorrente principale nell’importo liquidato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in ragione della censura accolta, e, decidendo nel merito, accoglie l’appello proposto dalla Banca Popolare di Sondrio avverso la sentenza del Tribunale di Sondrio n. 338/2014 del 17 settembre 2014 nei limiti del rigetto della domanda di P.E.M. di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 10.2000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2018

Il minore è parte necessaria nei giudizi de potestate e gode della pienezza dei diritti processuali che impongono la nomina del curatore speciale

Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2018, n. 5256
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SENTENZA
sul ricorso 25608/2016 proposto da:
B.D., M.C., genitori del minore B.M.F., elettivamente domiciliati in ROMA, al CORSO TRIESTE 109, presso lo studio dell’avvocato DONATO MONDELLI, rappresentati e difesi dall’avvocato CATERINA MURGO;
– intimato –
avverso il decreto n. R.G. 462/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositato il 27/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/11/2017 dal Cons. Dott. MAGDA CRISTIANO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Bologna, con decreto del 27.5.016, ha respinto il reclamo proposto da B.D. e M.C. contro il decreto del 23.3.015 del Tribunale per i minorenni della stessa città che, ad istanza del P.M., li aveva dichiarati decaduti dall’esercizio della responsabilità genitoriale sul figlio minore F..
Il provvedimento è stato impugnato dai soccombenti con ricorso straordinario per cassazione affidato a due motivi.
La parte intimata non ha svolto attività difensiva.
La causa, per la quale era stata disposta relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata rimessa all’udienza pubblica dal collegio della sesta sezione civile.
Motivi della decisione
1) Preliminarmente deve essere affermata l’ammissibilità del ricorso.
Infatti, secondo il più recente orientamento di questa Corte, cui il collegio intende dare continuità, il provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale, emesso dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., ha attitudine al giudicato “rebus sic stantibus”, in quanto non revocabile o modificabile salva la sopravvenienza di fatti nuovi; il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, lo conferma, lo revoca o lo modifica è pertanto impugnabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7 (Cass. n. 26633/016).
2) Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 336 c.c., u.c. e la conseguente nullità dell’intero procedimento, per la mancata nomina di un difensore del minore, o, quantomeno di un curatore speciale per la sua rappresentanza legale e processuale.
La censura è fondata nei termini che di seguito si precisano.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il procedimento ex art. 336 cit., pur se non prettamente contenzioso, non ha ad oggetto preminente, o addirittura esclusivo, un’attività di controllo del giudice sull’esercizio della responsabilità genitoriale, che escluda la presenza di parti processuali fra di loro in conflitto: l’articolo in esame (più volte novellato) stabilisce infatti quali sono i soggetti legittimati a promuovere il ricorso, prevede che genitori e minori siano assistiti da un difensore, sancisce l’obbligo di audizione dei genitori nonché (nel testo già applicabile nella specie ratione temporis) l’obbligo di ascolto del minore dodicenne, od anche di età inferiore ove dotato di discernimento. Non si dubita, poi, che il provvedimento adottato dal primo giudice sia immediatamente reclamabile, oltre che revocabile ad istanza del genitore interessato. Infine, ed è argomento che appare dirimente, il decreto che dispone la limitazione o la decadenza della responsabilità genitoriale incide su diritti di natura personalissima, di primario rango costituzionale (Cass. n. 26633/016 cit. n. 12650/015).
Del resto la Corte Costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 1 del 2002, ha chiarito che dalla novità introdotta dalla L. n. 149 del 2001, art. 37, comma 3 (che ha aggiunto all’art. 336 c.c., un comma 4, il quale stabilisce che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti – ovvero adottati ai sensi degli artt. 330, 333 c.c. – i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) si evince l’attribuzione della qualità di parti del procedimento che, in quanto tali, hanno diritto ad averne notizia ed a parteciparvi, non solo dei genitori ma anche del minore; ed ha aggiunto che la necessità che il contraddittorio sia assicurato anche nei confronti del minore, previa eventuale nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., può trarsi anche dall’art. 12, comma 2, della Convenzione sui diritti del fanciullo, resa esecutiva con L. n. 176 del 1991 e perciò dotata di efficacia imperativa nell’ordinamento interno, che prevede che al fanciullo sia data la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente sia tramite un rappresentante o un organo appropriato.
Una volta chiarito che il figlio minore è parte necessaria del procedimento, ne discende, come logica conseguenza, che la mancata integrazione del contraddittorio nei suoi confronti comporterà la nullità del procedimento medesimo, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 354 c.p.c., comma 1.
Occorre a questo punto stabilire a chi spetti la rappresentanza del minore nel processo qualora, come nel caso in esame, questi non sia già rappresentato da un tutore provvisorio, nominato dal giudice in via cautelare ed urgente od all’atto dell’adozione di precedenti provvedimenti meramente limitativi della responsabilità genitoriale.
Ad avviso del collegio, nei cd. giudizi de potestate la posizione del figlio risulta sempre contrapposta a quella di entrambi i genitori, anche quando il provvedimento venga richiesto nei confronti di uno solo di essi, non potendo in questo caso stabilirsi ex ante la coincidenza e l’omogeneità dell’interesse del minore con quello dell’altro genitore (che potrebbe presentare il ricorso, o aderire a quello presentato da uno degli altri soggetti legittimati, per scopi meramente personali, o, per contro, in questa seconda ipotesi, chiederne la reiezione) e dovendo pertanto trovare applicazione il principio, più volte enunciato in materia, secondo cui è ravvisabile il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente e il suo rappresentante legale con conseguente necessità della nomina d’ufficio di un curatore speciale che rappresenti ed assista l’incapace (art. 78 c.p.c., comma 2) – ogni volta che l’incompatibilità delle loro rispettive posizioni è anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività (Cass. nn. 1957/016, 16533/010, 12290/010).
Nel caso di specie, peraltro, in cui la richiesta di adozione del provvedimento proveniva dal P.M. ed era rivolta contro entrambi i genitori, la sussistenza del conflitto era certa ed era pertanto indubitabile che la rappresentanza nel procedimento del piccolo F. dovesse essere affidata ad un curatore speciale, cui il ricorso andava comunicato ed al quale spettava di esaminare gli atti processuali e di formulare le conclusioni ritenute più opportune nell’interesse del minore.
Dall’esame del fascicolo d’ufficio, cui questa Corte ha accesso in ragione della denuncia di un error in procedendo, non risulta che il Tribunale dei minori di Bologna abbia provveduto alla nomina del curatore speciale, nonostante la sollecitazione rivoltagli in tal senso dallo stesso P.M. richiedente.
Al contrario, secondo quanto emerge dalla lettura del decreto con il quale ha dichiarato decaduti M. e B. dalla responsabilità genitoriale, il giudice di primo grado ha sostanzialmente ignorato la qualità del minore di parte del procedimento, limitandosi a sentire gli odierni ricorrenti e ad acquisire informazioni dai servizi sociali.
Va ancora precisato che non risulta che il reclamo proposto dai genitori sia stato notificato al tutore provvisorio del minore, per la prima volta nominato dal tribunale proprio con il provvedimento reclamato, ma che, in ogni caso, un eventuale ordine di integrazione del contraddittorio disposto nei suoi confronti dalla corte d’appello non sarebbe valso a sanare il vizio procedurale verificatosi per effetto della mancata partecipazione del minore al giudizio di prime cure, che avrebbe dovuto essere assicurata attraverso la nomina di un curatore speciale che ne rappresentasse gli interessi.
Il decreto impugnato deve pertanto essere cassato e, ricorrendo l’ipotesi disciplinata dall’art. 383 c.p.c., comma 3, il processo deve essere rinviato al Tribunale dei minori di Bologna, in diversa composizione, perché provveda all’integrazione del contraddittorio nei confronti del minore.
Resta assorbito il secondo motivo del ricorso, che investe la decisione di merito.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo; cassa il provvedimento impugnato e rinvia al Tribunale dei Minori di Bologna, in diversa composizione, per l’integrazione del contraddittorio nei confronti del minore.
Dispone che in caso di diffusione della sentenza siano omessi i nominativi delle parti e degli altri soggetti in essa menzionati.
Così deciso in Roma, il 30 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2018

La dichiarazione di adottabilità è ammissibile solo come “soluzione estrema”

Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2018, n. 7559
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21594/2017 proposto da:
T.S., E.H.N., domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato Frank Andrea, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia;
– intimata –
contro
N.S., quale tutore legale del minore T.R., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Agostinelli Franco, giusta procura speciale alle liti;
– resistente –
avverso la sentenza n. 11/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 07/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/02/2018 dal Cons. Dott. DI MARZIO MAURO.
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza del 7 febbraio 2017 la Corte d’appello di Venezia, sezione minorenni, ha respinto l’appello proposto da T.S. nei confronti di N.S., nella qualità di tutore di E.H.T.R.J., di E.H.N. e del pubblico ministero, contro la sentenza con cui il Tribunale per i minorenni di Venezia aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore E.H.T.R.J..
La Corte territoriale ha osservato:
-) che la T. aveva motivato la propria impugnazione sull’assunto che la condotta addebitatale dal Tribunale, consistita nell’allontanamento dalla comunità ove si trovava con il minore, era in realtà giustificata dalla sua condizione di gravidanza a rischio;
-) che la relazione aggiornata dei servizi affidatari non lasciava spazio a giustificazioni della condotta materna, confermando l’inaffidabilità, la debolezza e la propensione della donna, il suo compagno e la famiglia materna allargata a porre in essere condotte devianti e pregiudizievoli per la prole;
-) che, difatti, anche il secondogenito della T. aveva manifestato le stesse gravi e preoccupanti condizioni di trascuratezza, malnutrizione, ritardo psicomotorio e della maturazione ossea, scarsa crescita staturo-ponderale del fratello, con certificata esposizione all’assorbimento di sostanze stupefacenti (cocaina e cocaetilene, metabolita generato dalla assunzione combinata di alcol e cocaina) rinvenute attraverso gli esami tossicologici cui si erano sottoposti i genitori;
-) che la T. aveva confermato nel tempo di possedere una personalità fragile, insicura, completamente dipendente dal compagno D.G.F., il quale aveva a propria volta manifestato nei rapporti con gli operatori sociali tratti caratteriali fortemente impulsivi, di scarso controllo e provocazione denigratoria;
-) che la medesima T. persisteva nel negare ogni propria responsabilità per le situazioni di pericolo e deprivazione cui erano risultati esposti entrambi i figli;
-) che la donna non aveva alcun progetto abitativo e lavorativo concreto, mentre la sua famiglia allargata, come risultante da atti penali acquisiti al giudizio, mancava di risorse vicarianti e, al contrario, necessitava a propria volta del sostegno dei servizi sociali;
-) che ai servizi sociali era stato riferito che la T. avrebbe “venduto” l’identità del primogenito ad E.H.N., tanto che la nonna materna aveva chiesto l’annullamento del riconoscimento di paternità da parte sua, rinunciando poi alla registrazione dell’istanza;
-) che il quadro delle condizioni dell’appellante e della famiglia naturale allargata del minore era tale da giustificare ampiamente la decisione impugnata, ed appariva tanto più incompatibile con l’ipotesi di un rientro del minore presso la madre in considerazione delle gravi condizioni, certificate in atti da operatori sanitari e medici, in cui il bambino era stato accolto e riparato dapprima in comunità, e poi in ambito etero-familiare, tanto da rendere ancora necessarie terapie specifiche e sostegno psicoterapeutico, secondo quanto risultante da relazioni di un neuropsichiatra, di uno psicologo e dell’assistente sociale.
2. – Per la cassazione della sentenza T.S. e E.H.N. hanno proposto ricorso per due motivi.
Il tutore ha depositato la procura alle liti rilasciata al proprio difensore.
Motivi della decisione
1. – Il ricorso contiene due motivi.
1.1. – Il primo motivo è svolto da pagina 8 a pagina 21 del ricorso sotto la rubrica: “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione della L. n. 184 del 1983, artt. 8 e 21, ed in relazione all’art. 111 Cost., sui principi del giusto processo”.
I ricorrenti, richiamati alcuni principi affermati da questa Corte e dalla Corte Edu in tema di adozione, sostengono che la Corte territoriale avrebbe attribuito alla T. un vero e proprio disturbo comportamentale, desunto tuttavia non già da un accertamento tecnico medico-legale, bensì da valutazioni compiute dai servizi sociali, senza che risultasse la loro specifica competenza tecnica e senza che dette valutazioni, raccolte in assenza di contraddittorio, fossero state sottoposte ad alcun vaglio critico.
Inoltre, la sentenza impugnata neppure si era misurata con lo scrutinio della irreversibilità del disturbo diagnosticato alla T. e sulla possibilità di interventi conservativi che potessero porre rimedio alla situazione rilevata, tanto più che, anche ad ammettere una qualche criticità del rapporto genitoriale, ciò non poteva giustificare il definitivo sradicamento del minore dalla famiglia di origine.
Né il giudizio espresso dalla Corte d’appello poteva fondarsi sull’allontanamento da parte della T. dalla comunità, giacché ella aveva comprovato che tale allontanamento era stato necessitato dalla gravidanza a rischio, che l’aveva indotta a fare ritorno a casa, ove era accudita dalla propria famiglia, essendo peraltro contrario al vero che, successivamente a detto allontanamento, avesse interrotto i rapporti con il minore, rapporti che, al contrario, erano stati impediti dal comportamento ostruzionistico dei servizi sociali, venuti meno al loro compito di adottare programmi volti a verificare e migliorare la sua capacità genitoriale.
D’altro canto nessuna indagine era stata compiuta per appurare od escludere la capacità genitoriale del padre, ritenuto aprioristicamente inadeguato per il solo fatto di essere stato per un certo tempo ristretto in carcere in forza di una misura cautelare in seguito cessata.
1.2. – Il secondo motivo è svolto da pagina 21 a pagina 35 del ricorso sotto la rubrica: “Nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, per difetto di motivazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 161 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost.”.
Secondo i ricorrenti, la sentenza sarebbe sostenuta da argomentazioni fumose ed inconsistenti, prive di fondamento nell’istruttoria espletata e che non avrebbero risposto alle censure indirizzate contro la sentenza d’appello, pervenendo così a confermare la dichiarazione di adottabilità in violazione della regola secondo cui tale soluzione costituisce extrema ratio, e senza considerare che eventuali malattie mentali dei genitori, ove pure sussistenti, non sono sufficienti a giustificare la dichiarazione di adottabilità, se non si dimostri che esse convergono a determinare lo stato di abbandono che costituisce il suo presupposto.
2. – Il ricorso è fondato nel senso che segue.
2.1. – Va accolto il primo motivo.
Come questa Corte ha più volte ribadito, della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 1 (nel testo novellato dalla L. 28 marzo 2001, n. 149) attribuisce al diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine un carattere prioritario – considerandola l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico – e mira a garantire tale diritto attraverso la predisposizione di interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare. Ne consegue che, per un verso, compito del servizio sociale non è solo quello di rilevare le insufficienze in atto del nucleo familiare, ma, soprattutto, di concorrere, con interventi di sostegno, a rimuoverle, ove possibile, e che, per altro verso, ricorre la “situazione di abbandono” sia in caso di rifiuto ostinato a collaborare con i servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la rescissione del legame familiare sia l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva (Cass. n. 7115/2011).
Movendo dal rilievo che il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, quale ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 1, è stato affermato che il giudice di merito deve, prioritariamente, verificare se possa essere utilmente fornito un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare, e, solo ove risulti impossibile, quand’anche in base ad un criterio di grande probabilità, prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittimo e corretto l’accertamento dello stato di abbandono (Cass. n. 6137/2015), quale premessa dell’adozione.
Il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia d’origine comporta dunque che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità sia praticabile solo come “soluzione estrema”, quando, cioè, ogni altro rimedio appaia inadeguato con l’esigenza dell’acquisto o del recupero di uno stabile ed adeguato contesto familiare in tempi compatibili con l’esigenza del minore stesso. Il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve allora, per quanto rileva in questa sede: a) verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero dei genitori, sia con riferimento alle condizioni economico-abitative, senza però che l’attività lavorativa svolta e il reddito percepito assumano valenza discriminatoria, sia con riferimento alle condizioni psichiche, queste ultime da valutare, se del caso, con una indagine peritale; b) estendere tale verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, anche se, allo stato, mancanti (Cass. n. 6552/2017). E’ stato ulteriormente ribadito che il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve in primo luogo esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero, attraverso un percorso di crescita e sviluppo, delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento, in primo luogo, alla elaborazione, da parte dei genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta della responsabilità genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore, ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi, ed avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali (Cass. n. 14436/2017).
Nel caso in esame, allora, è agevole osservare anzitutto che, mentre alla T. sono state attribuite condizioni di fragilità psichica senza che si sia proceduto ad un’indagine affidata a tecnici della materia, la posizione di E.H.N. non è stata neppure vagliata, non potendosi certo desumere un giudizio di idoneità genitoriale dalla circostanza, di per sé sola considerata, che il medesimo sia stato sottoposto a misure restrittive della libertà personale.
Ed inoltre, il giudizio riservato alla T., peraltro esclusivamente fondato su risultanze provenienti dai servizi sociali, in mancanza, come si è detto, di un accertamento esperito a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio, pure sollecitata, non si è in alcun modo esteso alla valutazione prognostica della recuperabilità della medesima al suo ruolo genitoriale, valutazione che non può ritenersi compiuta dalla Corte territoriale neppure per implicito.
Ciò è tanto più vero ove si consideri che la circostanza dell’abbandono da parte della T. della comunità ove era ricoverata con il minore, circostanza che ha assunto un rilievo centrale nel giudizio della Corte d’appello, non è stata valutata in relazione al suo assunto, pure menzionato della sentenza impugnata, quale oggetto di apposito motivo d’appello, secondo cui tale allontanamento si era reso necessario in presenza di una gestazione a rischio, essendo d’altronde mancata ogni verifica della fondatezza della tesi della T. secondo cui ella avrebbe inteso riprendere i rapporti col minore, ma sarebbe stata in ciò è impedita dal comportamento ostruzionistico dei servizi sociali.
Sicché, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla medesima Corte d’appello in diversa composizione perché, attenendosi ai principi di diritto poc’anzi richiamati, effettui i necessari accertamenti come sopra indicati, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
2.2. – Il secondo motivo è assorbito.
3. – Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Venezia. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 21 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2018

È manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 co. 1 c.p. nella parte in cui non prevede la non punibilità di fatti commessi in danno di ex convivente more uxorio

Corte cost. Ord., 16 marzo 2018, n. 57
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, recante “Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della L. 20 maggio 2016, n. 76”, promosso dal Tribunale ordinario di Matera, nel procedimento penale a carico di N. D., con ordinanza del 21 aprile 2017, iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto che, con ordinanza del 21 aprile 2017 (r.o. n. 105 del 2017), il Tribunale ordinario di Matera, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede “la non punibilità anche dei fatti criminosi previsti dal titolo XIII del libro II del Codice Penale commessi in danno di un convivente more uxorio”;
che le questioni di legittimità costituzionale vengono sollevate nell’ambito di un procedimento penale a carico di soggetto “imputato del reato previsto e punito dall’art. 646 c.p. “perché al fine di procurarsi un profitto, avendo il possesso di indumenti, effetti personali e documenti dell’ex convivente … e del loro figlio …, se ne appropriava rifiutandone la restituzione””;
che il giudice rimettente riferisce che l’applicazione dell’art. 649 cod. pen. era stata espressamente invocata dalla difesa dell’imputato, che ne aveva eccepito l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede la non punibilità anche per i fatti commessi in danno del convivente more uxorio, considerando che nel caso di specie tale qualifica soggettiva si sarebbe configurata in capo alla “persona offesa dal reato costituitasi parte civile, avuto riguardo all’accertata sua intercorsa relazione personale di convivenza di fatto con l’imputato … e dalla cui unione è nato il loro figlio minore”;
che il Tribunale ordinario di Matera – dopo aver ricordato che l’art. 649 cod. pen. riconosce la non punibilità in riferimento ai delitti contro il patrimonio di cui al Titolo XIII del Libro II del codice penale (con alcune deroghe relative agli artt. 628, 629 e 630 cod. pen. e di ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alla persona) posti in essere nei confronti del coniuge non legalmente separato, dell’ascendente, del discendente, dell’affine in linea retta, dell’adottante, dell’adottato e del fratello o della sorella conviventi – sottolinea che il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, recante “Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della L. 20 maggio 2016, n. 76”, ha aggiunto in quell’articolo anche il riferimento alla parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.);
che, secondo il giudice rimettente, la ratio originaria della previsione della causa di non punibilità risiederebbe “nell’esigenza di evitare turbamenti nelle relazioni familiari sull’assunto che l’applicazione di una sanzione penale renderebbe irreparabilmente compromessi i rapporti intrafamiliari, così vanificando la riconciliazione del nucleo familiare, inteso e concepito nel rispetto di quanto statuito dall’art. 29 della nostra Carta fondamentale in guisa di “società naturale fondata sul matrimonio””;
che, pur definendo la L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) quale “complesso portato ed agognato punto di approdo della presa d’atto di un mutato costume sociale e dell’esistenza di nuclei familiari ontologicamente differenti dalla classica famiglia fondata sul vincolo matrimoniale con effetti civili”, il giudice a quo ritiene che il legislatore con tale legge abbia inteso “irrazionalmente e/o comunque riduttivamente regolamentare le sole unioni civili tra persone dello stesso sesso”, provvedendo a coordinarne la disciplina attraverso le modificazioni e le integrazioni introdotte con il citato D.Lgs. n. 6 del 2017, che ha aggiunto, all’art. 649, primo comma, cod. pen., il riferimento alla parte dell’unione civile, ma non al convivente more uxorio;
che il giudice rimettente ritiene che alla luce della “sua esegesi letterale e nel perimetro rigoroso del precipuo rispetto del principio di legalità, inteso anche quale tassatività della fattispecie penale”, non sia perciò possibile applicare la disposizione censurata ai fatti commessi in danno del convivente more uxorio, escludendo quindi di poter pervenire a un’estensione analogica della disposizione, pure invocata dalla difesa dell’imputato;
che il Tribunale ordinario di Matera riferisce di non ignorare che la Corte costituzionale, in diverse occasioni, ha dichiarato la non fondatezza di analoga questione, ritenendo la convivenza more uxorio non assimilabile al rapporto di coniugio (vengono citate le sentenze n. 352 del 2000, n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, ciononostante, il giudice rimettente ritiene che la “valutazione della disposizione codicistica … deve, ad ogni buon conto, essere attuata alla stregua dell’attuale realtà sociale, senza alcun dubbio profondamente mutata rispetto a quella esistente ed esaminata dal Legislatore storico, nell’ottica di un’esegesi in sintonia ed al passo con i tempi dello stesso concetto costituzionale di famiglia concepita in guisa di un luogo di sviluppo armonico della persona, fondato ed ispirato da uno stretto e stabile rapporto di solidarietà reciproca”;
che, in particolare, il giudice rimettente concede che, in ragione del “tempo ormai remoto in cui è stata concepita ed emanata” la disposizione censurata, non potevano essere considerati istituti o situazioni di fatto emersi solo successivamente, ma ritiene che sia irragionevole e discriminatorio non ricomprendere fra i soggetti che beneficiano della causa di non punibilità in esame “anche i partecipi di una convivenza more uxorio, ovvero persone di sesso diverso”;
che, a sostegno delle proprie argomentazioni, il giudice a quo richiama l’art. 199, comma 3, lettera a), del codice di procedura penale, che equipara il coniuge a chi conviva o abbia convissuto con l’imputato in relazione alla facoltà di astenersi dal deporre, affinché “vada, re melius perpensa, nuovamente considerato anche il segnalato parallelismo della ratio legis posta a base” di tale disposizione e di quella censurata, che mirerebbero entrambe a salvaguardare la prevalenza dell’unità della famiglia rispetto alle esigenze di giustizia della collettività;
che il giudice rimettente ritiene che, anche alla luce del rilievo assegnato alla convivenza di fatto dalla L. n. 76 del 2016, il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per il convivente more uxorio violi il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché il diritto di difesa (art. 24 Cost.), poiché si precluderebbe “la fruizione, nelle ipotesi di cui alla medesima norma di diritto penale sostanziale, della speciale causa di non punibilità”, risultando “irrazionale il disallineamento della sfera soggettiva e di operatività della norma …, non derivando, di converso, dall’accoglimento del sollevato incidente di costituzionalità alcun vulnus alla protezione della “istituzione familiare” tutelata in via primaria dall’art. 29 della Carta costituzionale”;
che, in questa prospettiva, non si terrebbe conto del fatto che la fisionomia dell’originaria istituzione famigliare fondata sul matrimonio tutelata dall’art. 29 Cost. è “mutata sul piano sociale e culturale e dei costumi al punto da essersi dovuta disciplinare, persino, l’unione civile di persone del medesimo sesso e tanto da sembrare a fortiori meritevole di pari dignità e tutela la posizione di un convivente di fatto more uxorio, anche di sesso diverso dal proprio partner”;
che, da ultimo, nel caso oggetto del giudizio emergerebbe “il dato fattuale di una convivenza more uxorio tra l’imputato e la persona offesa, dalla cui unione è nato, persino, un figlio, a comprova di una pregressa stabilità di rapporti e di una comunanza di vita ed interessi, non suscettibile di affievolimento od inesistenza di tutela, neppure parziale, anche a preservazione di una possibile riconciliazione delle parti”;
che, di conseguenza, sussisterebbe la rilevanza delle questioni, poiché l’art. 649 cod. pen. costituirebbe disposizione di applicazione necessaria, almeno con riguardo alla posizione del figlio dell’imputato, influendo altresì sulla definizione del giudizio, poiché l’eventuale sentenza di accoglimento inciderebbe sulle formule di proscioglimento o quanto meno sulla formula del dispositivo della decisione;
che, con atto depositato il 12 settembre 2017, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale vengano dichiarate inammissibili e comunque infondate;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’inammissibilità delle questioni deriverebbe dalla circostanza che il rimettente invoca un intervento della Corte costituzionale in una materia (quella delle cause di non punibilità) riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata (al riguardo vengono citate le sentenze n. 214 del 2014, n. 134 e n. 36 del 2012, n. 352 del 2000);
che, in questa prospettiva, il legislatore in modo non irragionevole o arbitrario avrebbe espresso una “precisa scelta di politica criminale che ha attribuito prevalenza all’interesse a favorire la riconciliazione rispetto a quello alla punizione del colpevole”, con riferimento a soggetti che siano o siano stati legati da determinati vincoli familiari caratterizzati da una convivenza tendenzialmente duratura e fondata sulla reciproca assistenza, oltre che su comuni ideali e stili di vita (sono richiamate le sentenze n. 352 del 2000 e n. 423 del 1988, oltre che l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sarebbero inammissibili anche alla luce delle censure in punto di irragionevolezza e di violazione del principio di uguaglianza riferite alla previsione di un trattamento sfavorevole per coloro che commettono reati contro il patrimonio in danno dei conviventi di fatto, rispetto a quanti pongono in essere le medesime condotte nei confronti delle parti dell’unione civile ai sensi della L. n. 76 del 2016;
che, a questo proposito, viene citata la sentenza n. 223 del 2015 della Corte costituzionale, con cui – nel dichiarare inammissibile una diversa questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, primo comma, Cost., sullo stesso art. 649, primo comma, cod. pen., nella parte in cui esclude la punibilità dei congiunti della persona offesa dal reato – pur riconoscendosi “l’obsolescenza che la disposizione in esame ormai sconta”, si sarebbe affermato che spetta al legislatore l’indispensabile aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare, con ciò ribadendosi il dovere di rigorosa osservanza dei limiti del sindacato costituzionale;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il recente intervento del legislatore operato con il D.Lgs. n. 6 del 2017, che “il remittente giudica apoditticamente irrazionale e comunque riduttivo”, manifesterebbe la volontà di estendere la causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen. alla sola parte dell’unione civile e non anche al convivente more uxorio, rivelandosi scelta frutto di valutazioni non censurabili;
che la questione sollevata rispetto all’art. 24 Cost. sarebbe inammissibile, perché priva di motivazione e costituente “un mero riflesso della denuncia della norma sospettata sul piano del mancato rispetto del principio di eguaglianza”;
che le questioni di legittimità costituzionale sarebbero comunque non fondate, non potendosi ravvisare alcuna violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., poiché il diverso trattamento riservato a coloro che non siano legati dai rapporti di parentela previsti dalla disposizione censurata non sarebbe irragionevole né ingiustificato;
che l’Avvocatura generale dello Stato ricorda che analoga questione di legittimità costituzionale è già stata dichiarata in diverse occasioni non fondata dalla Corte costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, da ultimo, con la sentenza n. 352 del 2000 la Corte costituzionale avrebbe ribadito che la convivenza di fatto è diversa dal vincolo coniugale e, pertanto, non vi sarebbe alcuna esigenza costituzionale di parificarne il trattamento;
che, ancora, secondo l’Avvocatura generale dello Stato sarebbe arbitrario sostenere “la piena equiparazione del convivente che abbia comunque interrotto il rapporto, instaurato in via di mero fatto, come nel caso sottoposto all’esame del rimettente, al coniuge non legalmente separato”, alla luce della procedibilità a querela prevista in caso di separazione fra i coniugi dall’art. 649 cod. pen.;
che, rispetto all’accostamento operato dal giudice rimettente fra la disposizione censurata e l’art. 199, comma 3, lettera a), cod. proc. pen., l’Avvocatura generale dello Stato richiama la citata sentenza n. 352 del 2000, che non avrebbe ritenuto sufficiente tale riferimento per accogliere analoga questione;
che, infine, manifestamente infondata risulterebbe anche la censura sollevata rispetto all’art. 24 Cost., poiché non sarebbe individuabile alcuna violazione del diritto di difesa del convivente di fatto, derivante dalla mancata estensione della causa di non punibilità.
Considerato che il Tribunale ordinario di Matera ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che la causa di non punibilità ivi prevista operi anche a beneficio del convivente more uxorio;
che, in particolare, il rimettente sottolinea che il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, recante “Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della L. 20 maggio 2016, n. 76”, ha aggiunto, tra i soggetti che beneficiano della causa di non punibilità in esame, la parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.), ma non ha invece ricompreso tra tali soggetti il convivente more uxorio;
che tale omissione, alla luce dell’attuale realtà sociale, risulterebbe anacronistica ed irragionevole, determinando la lesione degli artt. 3 e 24 Cost.;
che le questioni sollevate risultano manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza;
che, infatti, nella stessa ordinanza di rimessione – peraltro assai succinta in punto di descrizione della fattispecie concreta – il soggetto nei cui confronti si procede nel processo a quo è definito esplicitamente “ex convivente”, e si ragiona della convivenza in questione come “pregressa” o “intercorsa” relazione;
che, a mera conferma delle affermazioni contenute nell’ordinanza di rimessione, la circostanza risulta anche dagli atti del giudizio principale (sentenza n. 58 del 2009), dai quali emerge che, in ogni caso, la condotta per la quale si procede sarebbe stata posta in essere in epoca successiva alla cessazione della convivenza;
che da tale circostanza – laddove venisse accertata nel processo a quo la responsabilità dell’imputato in riferimento alle condotte poste in essere nei confronti della ex convivente – consegue inequivocabilmente l’inapplicabilità della disposizione censurata e, perciò, la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate (ex multis, ordinanze n. 93 e n. 92 del 2016 e n. 264 del 2015).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Matera, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2018.