CONVIVENZA DI FATTO E ASSEGNO DI DIVORZIO

di Gianfranco Dosi

I. Se la convivenza di fatto del beneficiario dell’assegno divorzile possa essere equiparata alle nuove nozze
II. La rilevanza della convivenza di fatto del beneficiario dell’assegno divorzile
a) La giurisprudenza sulla possibile riduzione dell’assegno in caso di convivenza more uxorio del beneficiario
b) La giurisprudenza innovativa sulla quiescenza dell’assegno nel caso in cui il beneficiario costituisca una stabile “famiglia di fatto”
c) La giurisprudenza attuale sulla definitività del venir meno del diritto all’assegno in caso di “stabile” convivenza di fatto
III. La coabitazione come primo presupposto della convivenza di fatto rilevante
IV. Il presupposto della “stabilità” della convivenza
a) La giurisprudenza sul concetto di “stabilità” del matrimonio
b) La “stabilità” della convivenza di fatto secondo la legge 20 maggio 2016, n. 76
c) La prova della convivenza stabile

I Se la convivenza di fatto del beneficiario dell’assegno divorzile possa essere equiparata alle nuove nozze
Il penultimo comma dell’articolo 5 della legge sul divorzio (legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel testo modificato dapprima dalla legge 1° agosto 1978, n. 436 e successivamente dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) prevede la cessazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile se il beneficiario dell’assegno divorzile passa a nuove nozze.
Automaticamente e di conseguenza vengono meno anche tutti gli altri benefici connessi all’as¬segno divorzile, come la pensione di reversibilità (art. 9), l’eventuale assegno periodico a carico dell’eredità (art. 9-bis) e l’eventuale quota di indennità di fine rapporto (art. 12-bis).
Il motivo di questo azzeramento dei diritti post-coniugali va ricercato nelle norme stesse che di¬sciplinano il matrimonio, essendo evidente che il nuovo nucleo familiare formatosi con le nuove nozze del beneficiario dell’assegno, diventa unico riferimento dei diritti e dei doveri coniugali di assistenza e di contribuzione reciproca indicati per i coniugi nell’art. 143 del codice civile.
La perdita quindi dei diritti post-coniugali di mantenimento si verifica per il semplice fatto della celebrazione del nuovo matrimonio, indipendentemente dalle condizioni economiche del nuovo coniuge.
Nelle strategie personali che caratterizzano le vicende post-coniugali la decisione se contrarre nuovo matrimonio può essere anche, quindi, largamente influenzata dalle conseguenze delle nuove nozze sui diritti di natura economica. Così il beneficiario dell’assegno divorzile per evitare la perdita del diritto al mantenimento e i benefici ad esso direttamente collegati può determinar¬si, nel caso in cui si leghi ad un nuovo partner, a non contrarre un nuovo matrimonio, decidendo invece soltanto di convivere di fatto.
Il problema che la giurisprudenza si è, quindi, trovata a dover affrontare – in assenza di una dispo¬sizione legislativa che attribuisca alla convivenza di fatto gli stessi effetti delle nuove nozze – è se la convivenza di fatto intrattenuta dal beneficiario dell’assegno divorzile possa avere la medesima conseguenza di determinare ugualmente il venir meno del diritto al mantenimento.
Per giungere ad una soluzione del genere occorrerebbe considerare omogenee le due situazioni: il matrimonio e la convivenza di fatto.
La Corte costituzionale, però, non ha mai ritenuto plausibile questa assimilazione ritenendo che la situazione del convivente more uxorio sia del tutto diversa da quella cui dà vita il matrimonio, essen¬do la convivenza soltanto un mero rapporto di fatto, privo del carattere della stabilità, suscettibile di venir meno in qualsiasi momento e improduttivo di quei diritti e doveri reciproci nascenti dal matri¬monio e propri della famiglia legittima. La diversità che caratterizza la convivenza more uxorio – fon¬data sull’affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile – rispetto al rapporto coniugale caratterizzato da stabilità e certezza giuridica e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri- è tale, secondo la Corte costituzionale, da impedire l’automatica parificazione delle due situazioni, ai fini di una identità di trattamento fra i rispettivi regimi giuridici. La famiglia di fatto, quindi, non può essere ricondotta nell’ambito della protezione offerta dall’art. 29 della Costituzione (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”) e quindi non è di per sé incostituzionale la mancata estensione alla famiglia di fatto della disciplina giuridica prevista per la famiglia coniugale. Convivenza more uxorio e matrimonio sono dunque due situazioni diverse.
Questo punto di vista – pur mai espressamente affermato dalla Corte costituzionale con riferimen¬to al penultimo comma dell’art. 5 della legge sul divorzio che dispone, come detto, la cessazione del diritto al mantenimento coniugale nel caso di nuove nozze – è stato, però, sistematicamente ribadito in tutte le sentenze con le quali la Corte ha negato l’estensione alla convivenza more uxo¬rio delle norme che disciplinano il rapporto coniugale.
È stata, così, esclusa l’applicabilità al convivente more uxorio della causa di giustificazione dello stato di necessità (art. 384 codice penale) di chi commette determinati reati “per salvare sé me¬desimo o un prossimo congiunto dal pericolo di un grave e inevitabile nocumento nella libertà” perché il convivente more uxorio non può essere omologato al “prossimo congiunto” (Corte cost. 18 novembre 1986, n. 237; Corte cost. 18 gennaio 1996, n. 8).
È stata esclusa l’estensione al convivente more uxorio della causa di non punibilità prevista nell’art. 649 del codice penale per i reati contro il patrimonio commessi in danno del proprio coniuge (Cor¬te cost. 17 aprile 1988, n. 423; Corte cost. 25 luglio 2000, n. 352).
Si è esclusa la possibilità di parificare il convivente more uxorio al coniuge nella successione le¬gittima (Corte cost. 26 maggio 1989, n. 310) o per ciò che concerne il requisito del rapporto matrimoniale da oltre tre anni previsto per gli adottanti nell’originario testo della legge 4 maggio 1983, n. 184 sull’adozione dei minori (Corte cost. 6 luglio 1994, n. 281). Questa norma è stata poi modificata dal legislatore consentendo di tenere conto nel triennio in questione anche della eventuale convivenza che abbia preceduto il matrimonio.
È stato escluso che la sospensione della prescrizione tra coniugi prevista nell’art. 2941 codice civile possa essere applicata anche alla convivenza more uxorio (Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2).
Si è escluso che per i conviventi possano trovare applicazione le regole processuali della separa¬zione coniugale (Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166).
Si è affermato che il divieto di espulsione dello straniero coniugato, salvo che per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 17 legge 6 marzo 1998, n.40, attuale art. 19 Testo Unico 286/1998) non vale per lo straniero convivente more uxorio (Corte cost. 20 luglio 2000, n. 313).
Si è escluso che il convivente more uxorio abbia diritto alla pensione di reversibilità prevista per il coniuge (Corte cost. 3 novembre 2000, n. 461) anche se, in caso di più beneficiari, la quota di pensione di reversibilità all’ex coniuge titolare di assegno divorzile può anche essere conteggiata tenendo conto dell’eventuale periodo di convivenza more uxorio con il coniuge deceduto (Corte cost. 14 novembre 2000, n. 491).
Si è escluso che in caso di cessazione della convivenza more uxorio possa succedere al conduttore il convivente rimasto ad abitare nell’immobile (Corte cost. 11 luglio 2003, n. 204; Corte cost. 14 gennaio 2010, n. 7: diritti oggi però riconosciuti al dalla legge 20 maggio 2016, n. 765) men¬tre Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404 aveva ammesso il convivente more uxorio a succedere nel contratto di locazione in caso di morte del conduttore (quando vi sono figli: oggi anche senza figli secondo quanto previsto nella legge 20 maggio 2016, n. 76).
Pertanto si può concludere che in base all’orientamento consolidato della Corte costituzionale sulla impossibilità di considerare la convivenza more uxorio assimilabile al matrimonio, non è ipotizza¬bile che la convivenza more uxorio del beneficiario dell’assegno divorzile possa determinare auto¬maticamente, come le nuove nozze, la cessazione del diritto al mantenimento divorzile.
II La rilevanza della convivenza di fatto del beneficiario dell’assegno divorzile
È stata la giurisprudenza a riconoscere gradualmente rilevanza giuridica alla convivenza di fatto intrapresa dal beneficiario dell’assegno divorzile.
Tale rilevanza si è espressa all’inizio con il principio che la convivenza more uxorio, nella misura in cui può ridurre lo stato di bisogno di chi percepisce l’assegno divorzile, può portare ad una ridu¬zione dell’importo dell’assegno. Successivamente con il principio che l’assegno divorzile entra in uno stato di quiescenza ed infine, come la giurisprudenza più recente sostiene, che la convivenza di fatto possa portare ad una revoca definitiva del diritto all’assegno divorzile.
a) La giurisprudenza sulla possibile riduzione dell’assegno in caso di convivenza more uxorio del beneficiario
Occorre subito osservare che sul tema dei rapporti tra convivenza more uxorio e assegno di divor¬zio la giurisprudenza non ha mai dato rilevanza alla convivenza non duratura. Si è affermato a tale proposito che la convivenza del coniuge con altre persona, avente carattere occasionale o temporaneo, non incide di per sé direttamente ed in astratto sull’assegno di man¬tenimento (Cass. civ. Sez. I, 25 novembre 2010, n. 23968 in un caso in cui la convivenza era addirittura durata solo cinque mesi) in quanto la convivenza “occasionale” o “temporanea” con un terzo non consente di presumere il miglioramento delle condizioni economiche di chi conviva con lo stesso e a ritenere la stessa da sola sufficiente ad esonerare il coniuge dal contributo di mante¬nimento (Cass. civ. Sez. I, 10 novembre 2006, n. 24056).
Nonostante la chiarezza di queste decisioni, si comprende bene dal loro contenuto come la que¬stione centrale non sembra essere tanto la breve durata della convivenza more uxorio, quanto la inidoneità di una convivenza non stabile nel migliorare le condizioni economiche del convivente beneficiario dell’assegno divorzile.
Questa stretta connessione tra convivenza more uxorio e miglioramento economico del convivente beneficiario del mantenimento divorzile emerge molto chiaramente in Cass. civ. Sez. I, 10 ago¬sto 2007, n. 17643 secondo cui il diritto all’assegno di divorzio non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra per¬sona, ma tale convivenza può influire sulla misura dell’assegno riducendone l’importo, ove si dia la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza influisce in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto.
L’impostazione alla quale queste sentenze si richiamano è molto chiara. Nella misura in cui si prova che la convivenza more uxorio (con persona per esempio benestante) abbia determinato un miglioramento delle condizioni economiche del convivente titolare dell’assegno divorzile (o di separazione) è consentito al giudice ridurre l’assegno di mantenimento che grava sull’obbligato (Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1096; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709; Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593; Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2007, n. 14921; Cass. civ. Sez. I, 9 febbraio 2002, n. 13060) oppure addirittura azzerarlo se, in connessione con la convivenza more uxorio, è venuto meno del tutto lo stato di bisogno di chi ne godeva (Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328).
Il principio di fondo cui questo orientamento si ispira è sintetizzato da una notissima – e molto spessa richiamata – decisione (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024) dove si afferma che “la prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente more uxorio, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione”.
Già anni prima decisioni analoghe nel contenuto avevano espresso autorevolmente in sostanza gli stessi principi (Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1993, n. 4761; Cass. civ. Sez. I, 17 ottobre 1989, n. 4158 ed altre).
In questa originaria prospettiva interpretativa sono due, pertanto i presupposti in virtù dei quali potrebbe essere attribuita rilevanza alla convivenza more uxorio sull’assegno divorzile.
Il primo presupposto è certamente la stabilità della convivenza che deve quindi essere non una convivenza occasionale ma di una certa solidità e durata tale da potersi parlare di famiglia di fatto. Altrimenti la stessa condizione di miglior benessere che ne ricava il convivente titolare dell’assegno sarebbe connotata dall’incertezza e dalla precarietà.
Serve, però un secondo presupposto (esplicitamente messo in evidenza da tutte le sentenze sopra ricordate) e cioè che la convivenza more uxorio apporti al convivente titolare dell’assegno divorzile un miglioramento delle condizioni economiche tale da ridurre o azzerare la situazione di bisogno o da comportare un risparmio di spesa e perciò idonea a costituire motivo di ridimensionamento o di cessazione dell’obbligazione di mantenimento.
L’orientamento di cui si è detto va considerato superato, come ora si dirà, dalle decisioni che su questo tema la giurisprudenza della Corte di cassazione ha adottato negli ultimi anni orientandosi verso l’assimilazione della famiglia di fatto alla famiglia fondata sul matrimonio.
b) La giurisprudenza innovativa sulla quiescenza dell’assegno nel caso in cui il benefi¬ciario costituisca una stabile “famiglia di fatto”
Alla fine degli anni novanta fece un certo scalpore una decisione della Corte di cassazione (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503), allora del tutto isolata, in una vicenda in cui la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la donna, successivamente alla separazione, aveva intrattenuto una convivenza sia pure non stabile con altro uomo, a seguito della quale era anche nato un figlio.
La Cassazione annullò la sentenza affermando il principio secondo cui, nel caso in cui alla convi¬venza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevan¬te sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati. Sulla base di questo principio la Corte chiese al giudice di rinvio di accertare se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito.
La decisione restò, come detto, allora isolata, ma era chiaro che stava nascendo un orientamento che– superando l’interpretazione severa della Corte costituzionale più sopra esaminata – faceva leva sulla assimilabilità al matrimonio della famiglia di fatto “che ha soppiantato – così si scriveva in quella sentenza – la convivenza more uxorio, e ancor di più il concubinato… La diffusione del fenomeno della famiglia di fatto pone l’esigenza di rivalutare il matrimonio-rapporto, da tenere ben distinto dal matrimonio-atto, in funzione della rilevanza di un’autonoma formazione sociale che si sviluppa anche in assenza di un momento iniziale di spessore istituzionale. Il mutato atteggiamen¬to nei confronti della convivenza stabile scaturisce da una pluralità di esigenze: quella di tutelare il rapporto di coppia e di regolamentare i connessi profili patrimoniali, e quella, del tutto diversa, ma ancor più pressante, della tutela dei figli nati fuori dal matrimonio”.
Quindi l’accento veniva messo sul matrimonio-rapporto (non sul matrimonio-atto) al quale la con¬vivenza more uxorio può assimilarsi ove abbia i caratteri della solidità e della stabilità.
Nel 2003 il tema dei rapporti tra l’assegno divorzile e la convivenza more uxorio del coniuge beneficiario veniva ripreso da un’altra sentenza (Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) che indagando il concetto di “adeguatezza dei mezzi” del coniuge richiedente l’assegno – cui fa riferimento l’art. 5 della legge sul divorzio per ricollegarvi il diritto o meno al mantenimento divor¬zile – affermava che “fra i fattori capaci di incidere su tale nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico) fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esistenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convivenza) – ogni plausibile connes¬sione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi”.
Per la prima volta si dava rilievo molto esplicito alla famiglia di fatto del coniuge beneficiario del diritto al mantenimento, quale elemento che avrebbe potuto “escludere ogni presupposto per il riconoscimento dell’assegno divorzile”. Il fatto di vivere in una nuova famiglia, in altre parole, ta¬glia ogni collegamento con il tenore di vita goduto nel corso del precedente matrimonio venendo meno la plausibilità di mantenere attraverso l’assegno un collegamento con la precedente vita matrimoniale.
Per alcuni anni non vi furono più decisioni significative sul punto o che richiamavano la decisione di cui si è sopra detto.
Nel 2011 giunse all’attenzione dei giudici della Cassazione una vicenda nella quale la Corte d’ap¬pello di Roma, a modifica di quanto aveva stabilito il tribunale di Roma, aveva concesso un as¬segno divorzile ad una donna che aveva in corso da anni una stabile convivenza more uxorio. La Cassazione annullò la decisione (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195) ribadendo da un lato il principio secondo cui “la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento” ma aggiungendo che ove “tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poi¬ché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso”.
I principi di questa importante decisione – che come detto si riallacciava al precedente del 2003 – sono stati ripresi e ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 nella cui motivazione si legge che” recentemente (Cass., 11 agosto 2011, n. 17195), si è sostenuto che, in caso di ces¬sazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. Si è precisato che in detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
La nozione di famiglia di fatto – continua la sentenza – richiede, tuttavia, al fine di considerare rescissa – sia pure temporaneamente – ogni connessione con il tenore ed il modello di vita carat¬terizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, che i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimo¬nio). Si richiede, pertanto, un arricchimento e un potenziamento reciproco della personalità dei conviventi, la trasmissione di valori educativi ai figli, per altro ormai quasi del tutto assimilati a quelli legittimi.
In definitiva – concludono i giudici – in base al richiamato orientamento di questa Corte, non è sufficiente l’instaurazione di un rapporto di mera convivenza, essendo necessario, per il fine che qui interessa, che la stessa assuma i caratteri di una vera e propria famiglia di fatto. Del resto, questa Corte aveva da tempo affermato che, ove la convivenza more uxorio si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità, tanto da venire ad assumere i connotati della c.d. “famiglia di fatto”, connotata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e modelli di vita (per ciò stesso anche economici), il parametro di valutazione dell’”adeguatezza” dei mezzi economici a disposizione dell’ex conìuge non possa che registrare una tale evoluzione, recidendo – finchè duri tale convivenza e ferma rimanendo, in questa fase la perdurante rilevanza del solo eventuale “stato di bisogno” in sé, ove “non compensato” all’interno della convivenza – ogni plau¬sibile connessione con il tenore ed il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, e – con ciò stesso – ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione di esso (Cass., 8 agosto 2003, n. 11975)”.
Questo orientamento ha trovato conferma in altre recenti decisioni.
Per esempio Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 si è occupata di una vicenda piutto¬sto singolare. Un avvocato aveva chiesto la liquidazione del compenso per attività professionale prestata a favore di una donna in una causa civile di risarcimento per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Il giudice aveva rigettato la richiesta sul presupposto che la donna, non essendo coniugata con l’uomo che le aveva asseritamente arrecato danno, non avrebbe avuto diritto alla tutela dell’art. 570 codice penale. L’avvocato presentava al Presidente del tribunale il reclamo previsto dal Testo Unico sulle spese di giustizia ma anche il Presidente gli dava torto e quindi ricorreva per cassazione la quale accoglieva il suo ricorso sostenendo nella motivazione che “la violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla ir¬rinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo. Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Tra l’altro attribuendo rilievo – notano i giudici – ai fini della quiescenza del diritto all’assegno di man¬tenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto. Né può, infine, sottacersi l’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, fornita dalla Corte EDU, che ha chiarito che la nozione di famiglia cui fa riferimento tale disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio”.
Molto esplicito nel senso di prevedere l’insussistenza di un diritto all’assegno divorzile da parte del coniuge che abbia instaurato una convivenza di fatto è Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 che ha ribadito il principio secondo cui in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni pre¬supposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.
Si deve fare attenzione all’espressione usata nella sentenza: la Corte afferma che il beneficiario dell’assegno perde il diritto “quand’anche non definitivamente”.
Il principio è stato ribadito anche nella giurisprudenza di merito (App. Bologna Sez. I, 2 marzo 2015 che parla di interruzione “ma in via non definitiva dal momento che la nuova convivenza potrebbe cessare così comportando una riviviscenza dello stesso assegno solo momentaneamente non dovuto”; Trib. Torre Annunziata, 10 marzo 2014 dove si afferma che la cessazione del di¬ritto all’ assegno divorzile non è definitiva, potendo la nuova convivenza anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’ assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza).
Quindi la giurisprudenza ha unanimemente affermato fino al 2013 il principio che la convivenza di fatto caratterizzata da serietà e stabilità costituisce motivo di quiescenza dell’assegno divorzile.
c) La giurisprudenza attuale sulla definitività del venir meno del diritto all’assegno in caso di “stabile” convivenza di fatto
Si deve a Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 l’affermazione che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta defi¬nitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero defi¬nitivo da ogni obbligo.
Quindi secondo questo nuovo orientamento la formazione di una nuova famiglia di fatto da parte del coniuge divorziato determina la perdita definitiva dell’assegno divorzile di cui il medesimo beneficiava. La perdita dell’assegno è definitiva e non si realizza una fase di quiescenza (che può terminare con la fine della convivenza). Infatti, una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli deve essere caratterizzata dalla assunzione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi (ferma restando evidentemente la permanenza di ogni obbligo verso i figli).
Il principio viene ribadito poi da Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 settembre 2015, n. 17856 dove si af¬ferma che l’instaurazione da parte del coniuge separato di una convivenza more uxorio che, carat¬terizzandosi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità, dia luogo alla formazione di una famiglia di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità a suo favore dell’assegno di separazione.
In seguito si adeguano all’orientamento Cass. civ. Sez. VI – 1, 16 novembre 2015, n. 23411
Molto chiare Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2016, n. 2466; Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 lu¬glio 2017, n. 18111 e Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 settembre 2016, n. 19345 secondo cui l’in¬staurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso.
Secondo Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 maggio 2017, n. 12879 con l’instaurazione di una convi¬venza stabile e caratterizzata dalla relazione affettiva cessa l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile per effetto della cessazione della solidarietà che caratterizza i rapporti tra gli ex coniugi.
Ugualmente secondo Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25074 in caso di intervenuta convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario, la convivenza non dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio e come tale in grado di far venire meno il diritto all’ assegno di mantenimento ove adeguatamente motivato è incensurabile in sede di giudizio di legittimità.
Ultimamente il principio è stato riaffermato in Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 febbraio 2018, n. 2732 secondo cui la scelta dell’ex coniuge di costituire una convivenza more uxorio stabile e duratura, all’evidenza ben diversa da una mera coabitazione tra soggetti estranei, fa venir meno definitiva¬mente il diritto all’ assegno.
III La coabitazione come primo presupposto della convivenza di fatto rilevante
La legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso ses¬so e disciplina delle convivenze) all’art. 1, comma 36, prevede che “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per: «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabil¬mente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” .
Benché questa definizione di “convivenza di fatto” sia espressamente data “ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67” essa può essere utile per determinare i requisiti di stabilità che la con¬vivenza di fatto deve avere, anche ai fini della questione che qui si esamina e cioè della rilevanza della convivenza di fatto dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile ai fini della perdita dell’assegno stesso.
Il primo presupposto è quello del convivere. Infatti la convivenza (il vivere insieme), ancorché per motivi diversi possa naturalmente non essere continuativa, costituisce un elemento impre¬scindibile, sebbene naturalmente il legislatore non abbia previsto – né avrebbe certamente potuto prevedere – che alla decisione di vivere insieme possa conseguire un obbligo di coabitazione, simmetricamente a quanto previsto per l’obbligo di coabitazione coniugale o nell’unione civile. Pur non avendo un obbligo di coabitazione, tuttavia i conviventi di fatto sono secondo la legge 76/2016 quelli che coabitano insieme e cioè che hanno una medesima dimora abituale nello stesso Comune come chiarisce bene il comma 37 che, ai fini dell’individuazione dell’inizio della “stabile conviven¬za”, fa riferimento agli articoli 4 e 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repub¬blica 30 maggio 1989, n. 223. Effettivamente l’elemento della necessaria coabitazione emerge da quanto previsto nell’art. 4 del regolamento anagrafico (DPR 30 maggio 1989, n. 223 come modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) dove si precisa che agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, “coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”.
La stessa giurisprudenza di legittimità ha bene enfatizzato questa condizione di comunanza e di vicinanza affettiva (Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214; Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) affermando che per potersi parlare di convivenza di fatto more uxorio – nello specifico ai fini della tutela possessoria – è necessaria la presenza di una situazione interpersonale di natura affettiva con carattere di tendenziale stabilità, con un minimo di durata temporale e che si esplichi “in una comunanza di vita” e di interessi.
Pertanto per parlarsi di “convivenza di fatto” non è sufficiente che due persone si vogliano bene senza convivere stabilmente sotto lo stesso tetto. La famiglia di fatto non si forma tra persone che hanno legami sentimentali o anche rapporti continuativi sessuali, ma che per motivi diversi non decidono di abitare stabilmente insieme. Anche due persone che abbiano un figlio comune e che quindi esercitano la responsabilità genitoriale non sono “famiglia di fatto” se non convivono stabil¬mente. È perciò necessario per parlarsi di “convivenza di fatto” rilevante che vi sia l’elaborazione di un progetto di vita che – analogamente al matrimonio o all’unione civile – si fonda sulla decisione di costituire una famiglia. Che si tratti, come detto, di eterosessuali o di persone dello stesso sesso non rileva. Ciò che conta è la decisione di “metter su famiglia”.
IV Il presupposto della “stabilità” della convivenza
Come si è visto, in giurisprudenza l’elemento della stabilità della convivenza è sempre stato consi¬derato imprescindibile ai fini dell’applicazione dei principi elaborati nell’ambito della questione dei rapporti tra convivenza di fatto e assegno divorzile (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503 in cui si afferma il principio secondo cui, nel caso in cui alla convivenza “more uxorio” siano ricon¬nesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati; Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 secondo cui ha rilevanza la sola convivenza “more uxorio”, che si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto”; Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 che ribadisce la rilevanza della sola convivenza che assume i conno¬tati di stabilità e continuità, con la quale i conviventi instaurano tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio; Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 che dà rilievo anch’essa alla sola convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. Si è precisato che in detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza; Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 che parla di famiglia, ancorché di fatto, caratterizzata da serietà e stabilità; Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25074 secondo cui è convivenza di fatto soltanto quella dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio; App. Bologna Sez. I, 19 febbraio 2015 dove si parla di comune residenza dei conviventi che consente di poter individuare nel rapporto di fatto in essere una regolarità di condotta ed una condivisione di modelli di vita tale da poter essere definito quale “famiglia di fatto”, ciò che esclude quindi quanto sia riconducibile ad occasionalità, casualità, transitorietà).
Quanto deve durare la convivenza per essere considerata stabile?
a) La giurisprudenza sul concetto di “stabilità” del matrimonio
La giurisprudenza ha affrontato il problema della “stabilità” del rapporto (sia pure “matrimoniale” e non di “convivenza”), con riferimento al tema della delibazione delle sentenze ecclesiastiche1
1 Cfr la voce DELIBAZIONE DELLE SENTENZE ECCLESIASTICHE che dichiarano la nullità del matrimonio e ha precisato che la convivenza matrimoniale per un periodo minino di tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, se eccepita dal convenuto nel giudizio di delibazione, impedisce la delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio con¬cordatario (Cass. civ. Sez. unite, 17 luglio 2014, n. 1637). Nella sentenza si afferma che la convivenza “come coniugi” deve intendersi quale elemento essenziale del “matrimonio – rapporto”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. Tale convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolar¬mente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordi¬narie, di “ordine pubblico italiano” e, pertanto, anche in applicazione dell’art. 7 Cost., comma 1, e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’”ordine canonico” nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.
Secondo le Sezioni Unite la nozione di “convivenza coniugale” richiede una duplice specificazione per la sua corretta individuazione sul piano giuridico. Tali specificazioni riguardano: l’”esteriorità” – o, più precisamente, la sua “riconoscibilità esteriore” – e la determinazione, secondo ragionevo¬lezza, del periodo di tempo necessario perché essa possa qualificarsi “stabile”.
Quanto alla prima specificazione, concernente l’”esteriorità” della convivenza coniugale, è suffi¬ciente osservare che la convivenza coniugale deve essere esteriormente riconoscibile attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondano in modo non equivoco e, perciò, essere anche dimo¬strabile in giudizio, da parte dell’interessato, mediante idonei mezzi di prova, ivi comprese le pre¬sunzioni semplici assistite dai noti requisiti di cui all’art. 2729 c.c., comma 1.
Quanto alla seconda specificazione, concernente la “stabilità” della convivenza, v’è da osservare, innanzitutto, che tale qualità non è temporalmente determinata. Appare indispensabile indivi¬duare, secondo diritto e ragionevolezza, il periodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio, trascorso il quale dalla convivenza coniugale con dette caratteristiche può legittimamente inferirsi anche una piena ed effettiva “accettazione del rapporto matrimoniale”, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l’”atto” di matrimonio, che si considerano perciò “sanati” dall’accettazione del rapporto. E’ proprio questa – il favor ma¬trimonii, conseguente alla consapevole, piena ed effettiva assunzione e prosecuzione del rapporto matrimoniale -, in sostanza, la ratio sottesa a quelle norme del codice civile che sanciscono la decadenza dalle azioni di annullamento del matrimonio (art. 119, comma 2, art. 120, comma 2, art. 122, comma 4), allorquando, venute meno le cause del vizio dell’atto (revoca dell’interdizione, recupero della “capacità naturale”, cessazione della violenza morale, scoperta dell’errore), “vi è stata coabitazione per un anno”. Norme queste, relativamente alle quali è significativo notare – nel senso della valorizzazione del fatto della “coabitazione successiva” – il progressivo ampliamento del termine di decadenza da parte del legislatore: da quello di un mese del codice civile del 1865 a quello di tre mesi del codice del 1942, fino all’attuale termine di un anno stabilito dalla riforma del diritto di famiglia del 1975.
E la medesima ratio sta anche alla base dell’art. 123 – concernente gli accordi simulatori degli sposi relativi al contraendo matrimonio -, il quale, al secondo comma, stabilisce che “L’azione di annullamento non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”. La differenza di tale fattispecie rispetto alle precedenti sta in ciò, che – trattandosi di accordi simulatori convenuti da entrambi gli “sposi” prima del matrimonio, ed esclusivamente “tra gli stessi”, senza coinvolgimento di terzi – la decadenza dall’azione di annullamento per ciascuno dei coniugi è individuata o nel decorso del termine di un anno dalla “celebrazione del matrimonio”, oppure – sine die – “nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”: ciò, in quanto il legislatore ha ritenuto che il tempo di un anno dalla celebrazione del matrimonio o la “convivenza come coniugi” dopo tale data siano fatti idonei a far legittimamente presumere il sopravvenuto consenso degli stessi sull’inefficacia di detti accor¬di. L’elemento comune sta, invece, nella valorizzazione – espressa più nitidamente nell’art. 123, comma 2, alla luce delle considerazioni che precedono – della capacità “sanante” dei vizi genetici (accordi simulatori) dell’atto matrimoniale, attribuita proprio alla “convivenza come coniugi”.
Ciò posto, affermano le Sezioni Unite, resta da individuare la ragionevole durata della convivenza coniugale, decorrente dalla data di celebrazione del matrimonio, idonea a far legittimamente pre¬sumere la raggiunta stabilità del rapporto matrimoniale: “al riguardo, il Collegio ritiene di poter prendere a riferimento la legge 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo 8 del libro primo del codice civile), secondo i quali: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto (…). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto” (cfr. anche la stessa L. n. 184 del 1983, art. 29 – bis, comma 1, che richiede per gli adottanti, ai fini dell’adozione internazionale, le medesime condizioni soggettive di cui all’art. 6).
Il testo originario della L. n. 184 del 1983, art. 6, comma 1, prevedeva: “L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni tra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che in¬tendono adottare”.
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, in riferimento all’art. 2 Cost., di tale disposizione originaria – nella parte (rimasta sostanzialmente immutata) in cui dispone (va) che, ai fini dell’idoneità ad adottare, i coniugi aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, in un caso in cui tali coniugi vantavano una convivenza prematrimoniale di dieci anni, con la sentenza n. 281 del 1994, nel dichiarare non fondata tale questione, ha affermato, tra l’altro, che la norma censurata “è coerente col principio, riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 89/1993; n. 310/1989; n. 404/1988; nn. 198 e 237 del 1986; n. 11/1981; n. 45/1980), secondo cui l’i¬stituto dell’adozione è finalizzato alla tutela prevalente dell’interesse del minore. Tale principio comporta, fra l’altro, che, ai fini della complessa opera di selezione dei soggetti idonei a svolgere il delicatissimo compito di educare ed accogliere un bambino abbandonato, costituisce criterio fondamentale quello che la doppia figura genitoriale sia unita dal “vincolo giuridico che garantisce stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto”(sentenza n. 310 del 1989)”; ha inoltre sostanzialmente avallato “la scelta adottata dal legislatore italiano, che, al pari di numerosi legislatori Europei, intende il matrimonio, a tal fine, non solo come “atto costitutivo” ma anche come “rapporto giuridico “, vale a dire come vincolo raf-forzato da un periodo di esperienza matrimoniale, in cui sia perdurante la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri”; ed ha precisato infine che “il criterio dei tre anni successivi alle nozze si configura come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale(…)” (n. 2. del considerato in diritto; da notare che l’introduzione del comma 4 dell’art. 6 ad opera della L. n. 149 del 2001, art. 6, comma 1, deriva proprio dalle osser¬vazioni svolte dalla Corte, nel n. 4. del considerato in diritto, favorevoli alla prolungata convivenza prematrimoniale, stabile e continuativa, come requisito legittimante all’adozione).
Dalla piana lettura del su riprodotto vigente testo della legge n. 184 del 1983, art. 6, commi 1 e 4, e delle affermazioni della Corte costituzionale ora riportate risulta del tutto evidente, naturalmente mutatis mutandis, la loro ragionevole riferibilità anche alla fattispecie in esame: a ben vedere, con¬vergono infatti in tal senso tutti gli argomenti fondati sia sulla distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto”, sia sugli elementi essenziali del rapporto matrimoniale come sintesi di diritti, di doveri e di responsabilità, sia sulla valorizzazione della convivenza coniugale con le indi¬viduate caratteristiche, segnatamente di “stabilità” e di “continuità”, sia e soprattutto – per quanto ora specificamente rileva – sul “criterio dei tre anni successivi alle nozze” quale “requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale”.
Tutte le considerazioni che precedono consentono, perciò, di affermare in modo compiuto che la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disci¬plinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
b) La “stabilità” della convivenza di fatto secondo la legge 20 maggio 2016, n. 76
Potrebbe essere del tutto ragionevole ipotizzare, da quanto si è sopra detto con riferimento al tema della convivenza matrimoniale, che anche con riguardo al problema della individuazione del periodo minimo necessario per parlarsi di convivenza “stabile” possa essere adottato il termine triennale individuato dalle Sezioni Unite per riferirsi al periodo minimo di convivenza coniugale (matrimonio-rapporto) cui consegue il rigetto della domanda di delibazione della nullità matrimo¬niale.
Ciononostante, ai fini del requisito della “stabilità” della convivenza, può essere utile riferirsi anche alla legge 20 maggio 2016, n. 76 che non indica una durata minima ma contiene alcune indicazioni da cui desumerla.
Vi è, infatti, un elemento normativo nella nuova legge che depone per una interpretazione che considera la durata minima di due anni per potersi parlare di “stabile” convivenza.
Infatti il comma 42 dell’art. 1 della legge 76/2016 sul diritto del convivente superstite a continua¬re ad abitare nella casa familiare (di proprietà del convivente deceduto) prevede che egli abbia il diritto di continuare ad abitarvi “per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni” con ciò lasciando intendere che anche solo due anni di convivenza possano costituire un periodo sufficiente all’attribuzione del diritto.
Pertanto, ferma la validità dei principi elaborati dalla giurisprudenza, deve concludersi che il requi¬sito della stabilità della convivenza resta integrato certamente – secondo la legge 20 maggio 2016, n. 76 – anche solo da una durata minima di due anni di convivenza.
c) La prova della convivenza stabile
Come si prova la convivenza?
Se la convivenza non risultasse all’anagrafe della popolazione residente del Comune, gli interessati la potranno provare con ogni altro mezzo.
La legge 76/2016 indica il criterio legale di prova relativo alla convivenza e all’inizio della convivenza 2
2 Art. 1, comma 37. “Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”. (così come della sua cessazione) ma non esclude che la convivenza in sé possa essere provata an¬che in altro modo. Così come si potrà provare naturalmente che la convivenza non sussiste ove non fossero state effettuate le previste dichiarazioni di mutazione previste dal regolamento anagrafico.
L’iscrizione all’anagrafe determina solo un elemento di prova della convivenza e del suo inizio.
Un problema analogo si è posto e continua a porsi nell’applicazione dell’art. 5 della legge 4 maggio 1983, n. 184 che, dopo aver previsto per le coppie aspiranti all’adozione piena il requisito dell’es¬sere uniti in matrimonio da almeno tre anni senza che sia intervenuta separazione personale nep¬pure di fatto, aggiunge che tale requisito di stabilità del rapporto “può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto”. Uno dei modi per accertarla è appunto la dichiarazione all’anagrafe prevista già da tempo nel regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
L’“iscrizione” anagrafica (a norma degli articoli 4 e 33 del regolamento anagrafico n. 223/198) co¬stituisce non il presupposto per l’accesso ad una condizione giuridica specifica ma solo un elemen¬to probatorio ai fini dell’individuazione dell’inizio della stabile convivenza. Pertanto i diritti e doveri previsti nella legge scattano unicamente per il fatto di trovarsi in una condizione di convivenza di fatto stabile.
Pertanto la prova della convivenza ed anche del suo inizio può essere certamente raggiunta legal¬mente attraverso le certificazioni anagrafiche alle quali si è fatto riferimento ma, in assenza, anche con ogni mezzo idoneo.
Secondo Trib. Milano Sez. IX, 31 maggio 2016 la prova della convivenza può ricavarsi cer¬tamente dal certificato anagrafico che attesta lo stato di famiglia, ma avendo la convivenza una natura “fattuale”, e cioè traducendosi in una formazione sociale non esternata dai partners a mezzo di un vincolo civile formale, la dichiarazione anagrafica è strumento privilegiato di prova e non anche elemento costitutivo della convivenza medesima e pertanto è richiesta dalla legge n. 76 del 2016” per l’accertamento della stabile convivenza” ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale.
CONVIVENZA DI FATTO E ASSEGNO DI DIVORZIO
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 febbraio 2018, n. 2732 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La scelta dell’ex coniuge di costituire una convivenza more uxorio stabile e duratura, all’evidenza ben diversa da una mera coabitazione tra soggetti estranei, fa venir meno il diritto all’ assegno. Ciò del tutto indipendentemente dalla posizione economica di ciascun convivente.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25074 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema della cessazione dell’ assegno divorzile in caso di intervenuta convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario, la convivenza non dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio e come tale in grado di far venire meno il diritto all’ assegno di mantenimento ove adeguatamente motivato è incensurabile in sede di giu¬dizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 luglio 2017, n. 18111 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescinde ogni connes¬sione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’ assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Conseguentemente è irrilevante la successiva cessazione della convivenza giacché il collegamento con il precedente rapporto matri¬moniale è già stato reciso in modo definitivo sicché non può tornare a rivivere il precedente diritto all’ assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 maggio 2017, n. 12879 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con l’instaurazione di una convivenza stabile e caratterizzata dalla relazione affettiva cessa l’obbligo di corri¬spondere l’ assegno divorzile per effetto della cessazione della solidarietà che caratterizza i rapporti tra gli ex coniugi.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 marzo 2017, n. 6009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A fronte della pacifica ammissione del coniuge richiedente l’assegno divorzile, di aver lasciato l’abitazione coniu¬gale e di essersi stabilmente trasferita nella casa del nuovo compagno, nonché di contribuire al ménage familiare, non può fondatamente sostenersi, da parte del giudice del merito, che l’anzidetto trasferimento costituirebbe prova di una mera coabitazione e non anche di una convivenza more uxorio, in assenza di elementi idonei a distinguere la prima situazione dalla seconda. Né può ragionevolmente porsi a carico dell’obbligato l’onere di dimostrare il grado di intimità che intercorre tra la sua ex coniuge ed il nuovo compagno della stessa. (Nel caso concreto ricorre, pertanto, una ipotesi di motivazione meramente apparente, tale da integrare un’anomalia mo¬tivazionale che si traduce in una violazione di legge.)
Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 settembre 2016, n. 19345 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa veni¬re definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’ assegno divorzile a carico dell’altro coniuge.
Trib. Milano Sez. IX, 31 maggio 2016 (Famiglia e Diritto, 2017, 10, 891 nota di Pellegatta)
Con riguardo alla prova della convivenza di fatto, il fatto stesso che i conviventi abbiano avuto figli è sintomo di un habitat familiare formatosi al di fuori di un vincolo matrimoniale. La prova della convivenza può ricavarsi comunque dal certificato anagrafico che attesta lo stato di famiglia. Avendo la convivenza una natura “fattuale”, e cioè traducendosi in una formazione sociale non esternata dai partners a mezzo di un vincolo civile formale, la dichiarazione anagrafica è strumento privilegiato di prova e non anche elemento costitutivo [della convivenza medesima]. Ciò si ricava, oggi, dall’art. 1, comma 36, L. n. 76 del 2016, in materia di “regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”. La definizione normativa che il legisla¬tore ha introdotto per i conviventi è scevra da ogni riferimento ad adempimenti formali: “si intendono per “con¬viventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. In altri termini, il convivere è un “fatto” giuridicamente rilevante da cui discendono effetti giuridici ora oggetto di regolamentazione normativa. La dichiarazione anagrafica è richiesta dalla L. n. 76 del 2016”per l’ac-certamento della stabile convivenza”, quanto a dire per la verifica di uno dei requisiti costitutivi [- cioè sul piano della prova -] ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2016, n. 2466 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniugo divorziato di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’ assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicchè il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dall’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 16 novembre 2015, n. 23411 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presenza di sperequazione economica fra coniugi non determina in maniera assoluta ed incontrastata la determinazione di un assegno divorzile in favore del più debole. Qualora sia dimostrato che lo stesso, infatti, abbia contratto una nuova relazione more uxorio, iniziando una convivenza ed acquistando un nuovo immobile contraendo un mutuo cointestato con la nuova compagna, l’obbligo di corrispondergli l’ assegno divorzile viene senz’altro meno.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 settembre 2015, n. 17856 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniuge separato di una convivenza more uxorio che, caratterizzandosi per i conno¬tati della stabilità, continuità e regolarità, dia luogo alla formazione di una famiglia di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità a suo favore dell’assegno di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 553 nota di FERRANDO)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa veni¬re definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’ assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consape¬vole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
App. Bologna Sez. I, 2 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di corresponsione dell’ assegno di divorzio , deve ritenersi che lo stesso versi in una sorta di stato di quiescenza nel caso in cui uno dei coniugi instauri una famiglia ancorché di fatto. Ne consegue che il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi e trasfuso nell’ assegno suddetto, si riterrà interrotto ma in via non definitiva dal momento che la nuova convivenza potrebbe cessare così comportando una riviviscenza dello stesso assegno solo momentaneamente non dovuto.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 (Foro It., 2015, 2, 1, 588)
La convivenza tra i coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, intesa come consuetudine di vita coniu¬gale, stabile e continua nel tempo, esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti fatti specifici e compor¬tamenti dei coniugi e che si sia protratta per almeno tre anni, è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico inter¬no, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, qualunque ne sia il vizio.
Trib. Torre Annunziata, 10 marzo 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’ assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto; la conseguente cessazione del diritto all’ assegno divorzile, a carico dell’altro coniuge, non è però definitiva, potendo la nuova convivenza , anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’ assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza.
Trib. Bologna Sez. I, 18 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza more uxorio stabile e duratura in cui si sia evoluta la condizione sentimentale dell’ex coniuge divorziato (in ispecie : della moglie), e ciò coabitando insieme alla propria prole (una figlia) con il nuovo partner, è indice presuntivo della sussistenza di una fonte di sostegno economico – con riguardo ai bisogni dell’abitazione e dei beni primari -, convergendo così nell’escludere il carattere di fondatezza dell’istanza di assegno divorzile quantomeno in termini (o nei limiti) della presenza certa di una fonte di beneficio reddituale sul piano delle ne¬cessità essenziali del vivere.
Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In questa sede di legittimità è stato anche di recente reiteratamente ed argomentatamente ribadito (cfr cass. n. 17195 del 2011; n. 3923 del 2012) il risalente principio (cfr tra le altre, cass. nn. 5560 e 11975 del 2003; nn. 3074 e 4765 del 2002) secondo cui in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessa¬zione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di que¬sti, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’in¬dividuo (v., in tal senso, Cass., sent. n. 4184 del 2012). Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Siffatto percorso è stato in qualche misura indicato, e sollecitato, dalla giurisprudenza costituzionale. Analoghe considerazioni sono alla base delle pronunce della Cassazione che hanno, tra l’altro, attribuito rilievo, ai fini della cessazione (rectius: quiescenza) del diritto all’assegno di man¬tenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto (v. sentt. n. 3923 del 2012, n. 17195 del 2011).
Trib. Milano Sez. IX, 14 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione di un rapporto stabile e duraturo di convivenza altera o rescinde la relazione con il tenore ed il modello di vita caratterizzante la pregressa convivenza matrimoniale, così invalidando anche il presupposto per la riconoscibilità di un assegno di divorzio.
Cass. pen. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti dell’art. 572 c.p., deve considerarsi famiglia ogni consorzio di persone tra cui, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione. Ne consegue che sono da conside¬rare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo.
Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214 (Giur. It., 2013, 12, 2491 nota di FERRETTI)
Per potersi parlare di convivenza di fatto more uxorio è necessaria la presenza di una situazione interpersonale di natura affettiva con carattere di tendenziale stabilità e con un minimo di durata temporale e che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. In detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quie¬scenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 (Famiglia e Diritto, 2012, 1, 25, nota di FIGONE)
La mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimen¬to. Qualora, tuttavia, tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la rico¬noscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso.
Cass. civ. Sez. I, 25 novembre 2010, n. 23968 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza del coniuge con altre persona, avente carattere occasionale o temporaneo, non incide di per sé direttamente ed in astratto sull’assegno di mantenimento.
Cass. civ. Sez. I Sent., 22 gennaio 2010, n. 1096 (Fam. Pers. Succ., 2010, 11, 754, nota di ACHILLE)
La nascita di un figlio da un altro compagno e la convivenza con quest’ultimo, non escludono, se la fase di di¬vorzio è ancora aperta, il diritto della ex moglie ad ottenere l’assegno di mantenimento. In sede di revisione possono prendersi in considerazione solo le circostanze sopravvenute e nel caso di specie non possono conside¬rarsi tali né la relazione extraconiugale né la nascita di una figlia dal nuovo compagno in quanto fatti precedenti la pronuncia di divorzio.
Corte cost. 14 gennaio 2010, n. 7 (Famiglia e Diritto, 2011, 11, 981, nota di CILIBERTO)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, 3° comma, legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede che, in caso di cessazione della convivenza more uxorio, al conduttore di immobile ad uso abitativo succeda nel contratto di locazione il convivente rimasto ad abitare nell’immobile locato, pure in mancanza di prole comune, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’eventuale nascita di un figlio non costituisce elemento di prova di per sé sufficiente e idoneo a dimostrare l’esistenza di una situazione di convivenza more uxorio tra il coniuge beneficiario dell’assegno ed un terzo, avente nel tempo i caratteri di stabilità e continuità tali, da far presumere che il beneficiario dell’assegno tragga da tale convivenza vantaggi economici che giustifichino la revisione dell’assegno medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593 (Giur. It., 2009, 5, 1155, nota di SUBRANI)
La circostanza che l’ex coniuge – titolare dell’assegno di divorzio – abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, non è idonea ad escludere automaticamente il diritto all’assegno; tale convivenza incide solo sulla misura dell’assegno qualora venga fornita la prova, da parte dell’obbligato, che la convivenza stessa, ben¬ché non assistita da garanzie giuridiche di stabilità, sia in grado di influire in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di apprezzabili risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza.
In tema di assegno di divorzio, la circostanza che il titolare abbia iniziato una convivenza more uxorio può giustificare la riduzione dell’assegno se abbia determinato un miglioramento delle sue condizioni economiche.
Cass. civ. Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17643 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione, quanto all’incidenza della convivenza “more uxorio” di un coniuge sul diritto all’as¬segno di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge, in riferimento alla persistenza delle condizioni per l’at¬tribuzione dello stesso, deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità, che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente.
Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2007, n. 14921 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 257, nota di VISALLI)
Il diritto all’assegno divorzile, in linea di principio, non può essere automaticamente negato in presenza di una convivenza “more uxorio”, rappresentando quest’ultima solo un elemento valutabile al fine di accertare se la parte che richiede l’assegno disponga o meno di mezzi adeguati rispetto al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. La convivenza more uxorio, infatti, pur ove acquisti carattere di stabilità, non dà luogo ad un obbligo di mantenimento reciproco fra i conviventi e può essere instaurata anche con persona priva di redditi o di patri¬monio, conseguentemente l’incidenza economica della convivenza deve essere valutata in relazione all’insieme delle circostanze che la caratterizzano.
Cass. civ. Sez. I, 10 novembre 2006, n. 24056 (Famiglia e Diritto, 2007, 4, 329, nota di ASTIGGIANO)
Il diritto all’assegno di divorzio non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza “more uxorio” con altra persona, influendo tale convivenza solo sulla sua misura, ove si dia la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza influisca in “melius” sulle condizioni eco¬nomiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di apprezzabili risparmi di spesa derivantigli dalla convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 (Famiglia e Diritto, 2004, 195)
Tra i fattori capaci di incidere sulla nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico). Ciò fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esistenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convivenza) – ogni plausibile connessione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi.
Corte cost. 11 giugno 2003, n. 204 (Foro It., 2003, 1, 2222)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 L. 392/78 nella parte in cui non prevede che, in caso di cessazione della convivenza more uxorio, il convivente rimasto nella detenzione dell’immobile adibito ad abitazione succeda al conduttore nel contratto di locazione anche in mancanza di prole comune, in riferimento all’art. 3 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 9 settembre 2002, n. 13060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “more uxorio” di un coniuge separato, che abbia acquisito carattere di stabilità, pur se non esclu¬de – di per sé – il diritto dello stesso all’assegno di divorzio, influisce comunque sulla determinazione della sua entità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, ai fini della determinazione della misura dell’assegno di divorzio, aveva attribuito rilievo ad una convivenza “more uxorio” di durata pari a quella del matrimonio).
Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “more uxorio” ove abbia carattere di stabilità e dia luogo, nei confronti del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, a prestazioni di assistenza economica di tipo familiare da parte del convivente, può spie¬gare rilievo, a seconda dei casi, sia sul diritto sia sulla misura dell’assegno di divorzio.
La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente “more uxorio”, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Corte cost. 14 novembre 2000, n. 491 (Nuova Giur. Civ., 2001, I, 176, nota di QUADRI)
È manifestamente infondata, con riferimento all’art. 3 cost., la q.l.c. dell’art. 9 comma 3 l. 1 dicembre 1970 n. 898, nella parte in cui, ai fini della determinazione delle quote della pensione di reversibilità, spettanti al coniuge divorziato o superstite, non esclude dal computo della durata del rapporto matrimoniale il periodo di separazione personale e non include il periodo di convivenza “more uxorio” precedente la celebrazione del secondo matrimo¬nio, in quanto non può certo ritenersi manifestamente irragionevole, l’aver accomunato convivenza coniugale e stato di separazione – costituendo quest’ultima, in conformità alla sua natura ed alle sue origini storiche, una semplice fase del rapporto coniugale – mentre rimane punto fermo di tutta la giurisprudenza costituzionale la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo; ed in quanto gli eventuali riflessi negativi del criterio della durata del matrimonio sulla posizione del soggetto economicamente più debole, possono e debbono essere superati mediante l’applicazione di altri e differenti criteri concorrenti, quale, “in pri¬mis”, quello dello stato di bisogno degli aventi titolo alla pensione di reversibilità.
Corte cost. 3 novembre 2000, n. 461 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È infondata la questione di legittimità costituzionale in riferimento agli art. 2 e 3 cost., dell’art. 13 r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, conv. in l. 6 luglio 1939 n. 1272 e dell’art. 9 commi 2 e 3 l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostitu¬ito dall’art. 13 l. 6 marzo 1987 n. 74, nella parte in cui non includono il convivente “more uxorio” tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità, ancorché la convivenza presenti i caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale. La mancata inclusione del convivente “more uxorio” tra i soggetti be¬neficiari del trattamento pensionistico di riversibilità trova infatti una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale trattamento si collega geneticamente ad un preesistente rapp-orto giuridico che nel caso “de quo” manca, con la conseguenza che la diversità delle situazioni poste a raffronto rende non illegittima una differenziata disciplina delle stesse (sent. n. 8 del 1996). Nemmeno può dirsi violato il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana in quanto la riferibilità del principio alla convivenza di fatto purché caratterizzata da un grado accertato di stabilità (sentt. n. 310 del 1989 e 237 del 1986) non comporta un necessario riconoscimento al convivente del trattamento pensionistico di riversibilità, che non appartiene certo ai diritti inviolabili dell’uomo presidiati dall’art. 2 cost.
Corte cost. 25 luglio 2000, n. 352 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice penale, nella parte in cui non stabilisce la non punibilità dei reati previsti dal titolo XIII del libro II dello stesso codice commessi in danno del convivente “more uxorio”. Non è infatti irragionevole od arbitrario che – particolarmente nella disciplina di cause di non punibilità, quale quella in esame, basate sul “bilanciamento” tra contrapposti interessi (quello alla repressione degli illeciti penali e quello del valore dell’unità della famiglia, che potrebbe essere pregiudicato dalla repressione) – il legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’art. 29 della Costituzione, e per la convivenza “more uxorio”: venendo in rilievo, con riferimento alla prima, a differenza che rispetto alla seconda, non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive individuali, ma anche quella della protezione dell’”istituzione familiare”, basata sulla stabilità dei rapporti, di fronte alla quale soltanto si giustifica l’affievolimento della tutela del singolo componente. Né rileva in contrario la (peraltro non totale) parificazione del convivente al coniuge riguardo alla facoltà di asten¬sione dalla testimonianza, operata dall’art. 199 cod. proc. pen., non potendosi far discendere dalla norma così invocata dal giudice “a quo” come termine di raffronto un principio di assimilazione dotato di “vis” espansiva fuori del caso considerato.
Corte cost. 20 luglio 2000, n. 313 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ritenuto che il Pretore di Vibo Valentia, con ordinanza emessa il 12 marzo 1999, ha sollevato questione di legit¬timità costituzionale dell’art. 17 della legge 6 marzo 1998, n. 40, comma 2, lett. c) (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero convivente more uxorio con un cittadino italiano, per violazione dell’art. 3 della Costituzione (ora 19 Testo Unico 286/1998).
Non è consentito estendere alla convivenza di fatto, attraverso un semplice giudizio di equivalenza, la disciplina prevista per la famiglia legittima, costituendo il primo un rapporto privo dei caratteri della stabilità e della cer¬tezza, nonché della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri, nascenti soltanto dal matrimonio, in seno, appunto, alla famiglia legittima.
Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166 (Nuova Giur. Civ., 1998, I, 678, nota di FERRANDO)
La convivenza “more uxorio” rappresenta l’effetto di una scelta di libertà dalle regole costruite dal legislatore per il matrimonio, donde l’impossibilità, pena la violazione della libera determinazione delle parti, di estendere alla famiglia di fatto, per la diversità delle situazioni raffrontate, le regole anche processuali connesse all’istituto matrimoniale; pertanto, è manifestamente infondata, in relazione agli art. 2, 3, 24 e 30 cost. la questione di costituzionalità del combinato disposto degli art. 151 comma 1 e 155 c.c., nella parte in cui, per l’appunto, non consente l’applicabilità alla cessazione della convivenza di fatto degli art. 706-709 c.p.c., dettati per il caso di separazione dei coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 333, nota di DE PAOLA)
Nel caso in cui alla convivenza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che con¬ferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati ed, in particolare, con riferimento alla persistenza delle condizioni per l’attribuzione dell’assegno di separazione (nella specie, la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la stessa, successiva¬mente alla separazione, aveva intrattenuto una periodica convivenza con altro uomo, a seguito della quale era nato un figlio. La S.C. ha cassato la sentenza impugnata perché il giudice di merito, adeguandosi all’enunciato principio, accertasse se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito).
Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2 (Famiglia e Diritto, 1998, 214, nota di FIGONE)
L’art. 2941 n. 1 c.c. nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio, non contrasta con l’art. 2 cost., in quanto, per un verso, la disposizione codicistica si riferisce a rapporti di carattere patrimoniale, difficilmente ricadenti sotto il parametro costituzionale che presuppone l’inviolabilità dei diritti, e, per altro verso, l’assimilazione della convivenza di fatto alle formazioni sociali si risolve in un’esplicitazione della pretesa violazio¬ne del principio di eguaglianza, insussistente per difetto di un adeguato “tertium comparationis”.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024 (Famiglia e Diritto, 1997, 4, 305, nota di CARBONE)
La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente more uxorio, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Corte cost. 18 gennaio 1996, n. 8 (Famiglia e Diritto, 1996, 2, 107, nota di FERRANDO)
È infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 384, comma 1, 378 e 307, comma 4, c.p. in riferimento all’art. 29 Cost. che tutela la famiglia fondata sul matrimonio, perché la convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana di ciascuna delle parti, revocabile liberamente ed in qualsiasi momento, è nettamente diversa dal rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità, certezza e reciprocità di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio.
Corte cost. 6 luglio 1994, n. 281 (Famiglia e Diritto, 1994, 485, nota di DOGLIOTTI)
Posta la conformità della normativa italiana in materia di adozione di minori, di cui alla legge n. 184 del 1983 ai principi contenuti nella Convenzione internazionale firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967 (resa esecutiva con legge n. 357 del 1974) e riconosciuti anche dalla giurisprudenza della Corte, circa l’imprescindibilità del vincolo matrimoniale tra gli adottanti, quale requisito che possa opportunamente garantire la stabilità familiare, nell’in¬teresse prevalente del minore, deve escludersi che l’aver il legislatore fissato – con l’art. 6, primo comma, della legge n. 184 del 1983 detta – in tre anni il periodo minimo di durata del vincolo, senza prevedere la fungibilità di tale requisito con un uguale o diverso periodo di convivenza “more uxorio” precedente al matrimonio, costituisca violazione dell’art. 2 Cost., per la tutela che deve riconoscersi alla famiglia di fatto come formazione sociale. L’aspirazione dei singoli ad adottare non può, infatti, ricomprendersi tra i diritti inviolabili dell’uomo e, del resto, anche qualificando la famiglia di fatto come formazione sociale, non per questo deriverebbe che alla stessa sia riconosciuto il diritto all’adozione, come previsto per la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.). Rientra nella discrezionalità del legislatore riconoscere alla convivenza “more uxorio” alcune conseguenze giuridiche; pertanto, è inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 comma 1 l. 4 maggio 1983 n. 184, sollevata con riferimento all’art. 3 cost., sotto il profilo che esso non prevede che, ai fini dell’idoneità ad adottare i minori, il periodo di convenienza “more uxorio”, antecedente al matrimonio, sia equiparato alla unione matri¬moniale da almeno tre anni, richiesta per l’adozione di minori.
Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1993, n. 4761 (Giur. It., 1994, I,1, 1831, nota di OCCHINO)
La convivenza more uxorio di una delle parti rileva in solo (e nei limiti) in cui incida sulla loro reale e concreta situazione economica, risolvendosi, sul piano fattuale, in una condizione e fonte (non aleatoria) di reddito per il coniuge convivente (cfr. n. 1477 del 1982, n. 5717 del 1985, per tutte). La relazione more uxorio della mo¬glie non fa, quindi venir meno per il marito l’obbligo di corrisponderle l’assegno di mantenimento fissato in via provvisoria dal presidente del tribunale o dalla sentenza di primo grado, ma rileva comunque nei limiti in cui detta relazione incida sulla reale e concreta situazione economica della donna, risolvendosi per questa in una condizione e fonte, effettiva e non aleatoria, di reddito, posto che la convivenza extraconiugale non comporta alcun diritto al mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 17 ottobre 1989, n. 4158 (Giur. It., 1990, I,1, 587, nota di GENTILI)
In tema di valutazione delle condizioni economiche dei coniugi ai fini della determinazione dell’assegno di di¬vorzio, concorrono a formare la situazione reddituale del coniuge avente diritto all’assegno anche eventuali elargizioni non meramente saltuarie, ma continuative e protraentisi nel tempo, ricevute dal terzo con il quale lo stesso coniuge conviva.
Corte cost. 26 maggio 1989, n. 310 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565 e 582 c.c., nella parte in cui non includono fra i successibili ab intestato, parificandolo al coniuge, il convivente more uxorio. Ad avviso del giudice remittente la mancata equiparazione del convivente al coniuge ai fini della successione legittima si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza, o quanto meno con l’art. 2 Cost., non potendosi negare alla convivenza more uxorio natura di formazione sociale meritevole di riconoscimento e tutela. Ma sotto il profilo della eguaglianza deve ribadirsi che la situazione del convivente more uxorio è netta¬mente diversa da quella del coniuge (cfr. sentenze n. 45 del 1980 e 404 del 1988). Invero l’art. 20 Cost. non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, ma ricono¬sce alla famiglia legittima una dignità superiore in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio. Il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all’eredità contrasterebbe con i principi del diritto successorio il quale esige che le categorie di successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestati, comportando nei rapporti fra i due partners conseguenze incompatibili con la stessa natura della convivenza che è un rapporto di fatto per definizione rifuggente da qualificazioni giuridiche di diritti ed obblighi reciproci, sicché le norme non meritano censura neppure sotto il profilo del principio di razionalità. Non giova richiamare l’art. 2 Cost. perché, anche ad ammettere che tale norma si applichi alle convivenze di fatto, ciò non implica che ai conviventi debba essere assicurato il reciproco diritto di successione mortis causa, non rientrando tale diritto nel novero di quelli inviolabili. In ordine alla determinazione delle categorie dei successibili la discrezionalità lasciata al legislatore ordinario dall’art. 42 comma 4 Cost. incontra soltanto il vincolo scaturente dall’art. 30 comma 3 Cost. della equiparazione dei figli naturali e quelli legittimi nei confronti dei genitori.