PROVA DELLA PROPRIETÀ IN REGIME DI SEPARAZIONE DEI BENI

Di Gianfranco Dosi

I. Il quadro giuridico di riferimento: l’art. 219 c.c.
II. La tutela del coniuge non proprietario
III. La prova della proprietà dei beni
IV. La disciplina dei conti correnti bancari cointestati tra coniugi
V. Fruizione comune e comproprietà di un bene mobile
I Il quadro giuridico di riferimento
Nell’ambito delle norme che disciplinano il regime patrimoniale della separazione dei beni l’art. 219 c.c. (prova della proprietà dei beni) prevede che
Il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene.
I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di pro¬prietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi.
La disposizione trova applicazione anche alle unioni civili (art. 1, comma 13, legge 20 maggio 2016, n. 76) laddove i partner scelgano il regime della separazione dei beni, ma non alle convi¬venze di fatto in cui i conviventi sono in situazione di reciproca autonomia patrimoniale e in cui semmai, con l’adozione di un contratto di convivenza, il regime patrimoniale potrebbe essere solo quello della comunione dei beni.
Il senso della norma è quello di rendere possibile tra i coniugi (ed anche nelle controversie eredi¬tarie), senza alcuna limitazione, la prova della proprietà di beni mobili nel corso della vita matri¬moniale e, soprattutto, al momento della cessazione del regime quando può porsi un problema di riacquisizione delle proprietà di rispettiva pertinenza ovvero di divisione dei beni comuni.
Al momento del matrimonio oppure nel corso della vita coniugale avvengono da parte di ciascuno acquisti che nel regime di separazione, in linea di principio, restano di proprietà di chi li effettua.
Del regime di separazione dei beni – che oggi costituisce statisticamente il regime patrimoniale più diffuso nelle famiglie coniugali – sono sopravvissute nel codice civile, dopo la riforma del 75, soltanto quattro norme1
1 Cfr la voce SEPARAZIONE DEI BENI : l’art. 215 che esplicita il meccanismo distributivo su cui il regime si fonda (ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva dei beni che acquista durante il matrimonio); l’art. 217 che disciplina l’amministrazione e il godimento dei beni acquistati; l’art. 218 che assimila le obbligazioni del coniuge che partecipa al godimento delle proprietà dell’altro a quelle dell’usufrut¬tuario e, infine, l’art. 219 che detta la disciplina della prova nel contenzioso sulla proprietà dei beni.
Quindi i coniugi possono scegliere il regime della separazione dei beni. Se non effettuano alcuna scelta rimarranno nel regime legale della comunione dei beni (art. 159 c.c.).
Gli acquisti quindi che ciascun coniuge effettua in regime di separazione dei beni, rimangono di esclusiva proprietà del coniuge acquirente. Il bene, invece, acquistato e pagato da entrambi i co¬niugi, entra naturalmente in comunione ordinaria.
Il regime di separazione dei beni comporta, perciò, in linea di principio, l’esclusiva proprietà dei beni in capo al coniuge che li acquista. Correttamente quindi l’art. 217 c.c. prevede che il coniuge titolare della proprietà del bene “ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare”. Titolo di proprietà e diritti di godimento e di amministrazione coincidono.
II La tutela del coniuge non proprietario
Il regime di separazione dei beni sembra porre il coniuge proprietario in una condizione di potere assoluto. La legge gli attribuisce infatti la proprietà, il godimento e l’amministrazione dei beni ci cui è proprietario (art. 217 c.c.).
L’applicazione rigida delle regole della proprietà potrebbe quindi condurre nelle relazioni coniugali a risultati iniqui, se solo si riflette sulla circostanza che il coniuge non proprietario finirebbe per non avere alcuna tutela rispetto ai poteri del proprietario ovvero anche solo di godimento e di ammini¬strazione esercitati dal coniuge proprietario. Forse che il coniuge non proprietario non sia titolare di nulla solo perché non ha acquistato un certo bene fruito da entrambi? O che debba subire tutte le decisioni dell’altro sui beni goduti da entrambi? Il coniuge proprietario può fare tutto quello che vuole sui beni di cui ha la titolarità esclusiva? O ci sono dei limiti? Può, per esempio, il coniuge proprietario decidere di vendere la casa familiare di cui ha la proprietà anche senza il consenso dell’altro coniuge? Può vendere tutti i mobili di casa sul semplice presupposto che, avendoli acqui¬stati con denaro proprio, ne ha la esclusiva proprietà?
Un potere assoluto del coniuge proprietario potrebbe porsi potenzialmente in grave conflitto con le regole della solidarietà coniugale e cioè dell’obbligo di entrambi i coniugi “di contribuire ai bisogni della famiglia” (art. 143 c.c..). Per questo motivo si ritiene pacificamente che il regime primario della solidarietà coniugale (espresso nelle regole fondamentali degli articoli 143 e 144 del codice civile) non può non permeare anche il regime secondario di tipo patrimoniale, in particolare so¬prattutto della separazione dei beni (considerato che il regime di comunione legale esprime certa¬mente un potenziale di compartecipazione più accentuato).
Per questo motivo in dottrina si ritiene giustamente – a commento di questo regime patrimoniale – che non può certo negarsi il potere di godimento del bene comune al coniuge non proprietario e che il bene acquistato per esigenze comuni o di fruizione comune, ovvero acquistato in base ad un accordo tra i coniugi, non possa che essere considerato appartenente ad entrambi.
In altri ordinamenti (Francia, Germania) il coniuge proprietario non può vendere la casa familiare o i mobili che l’arredano senza il consenso del coniuge non proprietario che la abiti insieme. Il nostro sistema giuridico non prevede una limitazione del genere.
La giurisprudenza si è occupata del problema del potere assoluto del coniuge proprietario affer¬mando che la condotta del coniuge che dispone o intende disporre dei beni di sua proprietà esclu¬siva senza tener conto del parere e dei desideri dell’altro coniuge potrebbe dare spazio all’addebito della separazione ma non a poteri di carattere inibitorio dell’altro coniuge, neppure se si configu¬rasse una violazione di un accordo dei coniugi, ad eccezione dei casi però in cui l’atto costituisca una violazione dell’obbligo di contribuzione o di quelli della solidarietà coniugale o costituisca addi¬rittura espediente per sottrarsi a tali regole (Cass. sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415 che non ha ravvisato questa violazione in un caso in cui il marito aveva espresso la volontà di trasferire in un quartiere ritenuto più adatto la casa coniugale di sua proprietà).
III La prova della proprietà dei beni
L’art. 219 c.c. costituisce uno dei correttivi legali al potere assoluto del coniuge proprietario. Il primo comma della norma, ai fini della presunzione di comproprietà indicata nel secondo comma, consente ad un coniuge di provare con ogni mezzo – e quindi senza alcuna delle limitazioni previste dal codice di procedura civile – di essere proprietario di un particolare bene. Perciò la norma viene considerata una deroga espressa agli articoli 2721 e seguenti c.c. e all’art. 2729, co. 2, c.c. (che in materia di prova dei contratti stabiliscono limiti alla testimonianza e alla prova per presunzioni).
La norma si riferisce naturalmente alle controversie su beni mobili (Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554; Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494) ed intende agevolare la prova in tali controversie proprio in ragione del principio, collegato al regime primario di solidarietà, di comune fruizione dei beni acquistati da un coniuge nel corso del matrimonio. Pertanto è volta principalmen¬te a derogare alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione dei beni mobili.
Il secondo comma dell’art. 219 c.c. chiarisce la conseguenza di questa deroga. Infatti seguendo i principi tradizionali del processo civile chi non riesce a provare la proprietà di un bene dovrebbe soc¬combere nella causa di rivendica. In questo caso invece, proprio in relazione al condizionamento del regime primario solidaristico, le regole dell’onere della prova subiscono una compressione e il bene di cui non si riesce a provare la proprietà si considera di proprietà indivisa di ciascuno dei coniugi.
Nessuna deroga, invece, l’art. 219 c.c. configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari (Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554; Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327; Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494) dove peraltro la prova della proprietà risulta da titoli non equivoci. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’ob¬bligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto (Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494; Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1995, n. 1482; Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 1990, n. 2540; Trib. Catania, 11 luglio 1986; Trib. Milano, 19 settembre 1983).
La specifica disposizione che consente tra coniugi di provare senza limitazioni di prova la proprie¬tà di un bene vale naturalmente nei soli rapporti tra coniugi – ovvero tra un coniuge e gli eredi dell’altro ovvero tra gli eredi dell’uno e gli eredi dell’altro – e non nei rapporti con i terzi. La pre¬cisazione è stata fatta molto opportunamente in giurisprudenza dove si è affermato che l’art. 219 c.c. non può essere esteso ai rapporti di ciascun coniuge con i terzi, con la conseguenza – per esempio – che, in tema di opposizione all’esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di prova previsti dal codice di procedura (Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 1998, n. 6589). Naturalmente il terzo creditore del coniuge può giovarsi della presunzione di comproprietà come se ne potrebbe giovare il coniuge stesso.
IV La disciplina dei conti correnti bancari cointestati tra coniugi
Per quanto concerne i depositi sui conti correnti bancari cointestati la giurisprudenza ha ritenuto che i coniugi intestatari, nei rapporti tra i correntisti e la banca, debbono essere ritenuti creditori o debitori in solido del saldo del conto (in base a quanto prevede espressamente l’art. 1854 c.c.) mentre nei rapporti interni troverà applicazione l’art. 1298, co. 2, c.c. a mente del quale “le parti di ciascuno si presumono uguali se non risulta diversamente” (Cass. civ. 9 settembre 1989, n. 3241; Trib. Verona, 8 aprile 1994) Pertanto qualora si dimostri che il saldo attivo del conto cointestato è dovuto unicamente ai versamenti e alle rimesse di uno dei due coniugi, l’altro nei rapporti interni non potrà avanzare alcuna pretesa. Analogamente è stato deciso nel caso in cui uno dei due coniugi aveva provato di aver egli da solo acquistato con proprio denaro un quan¬titativo di buoni del tesoro depositati in banca (Cass. Civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327). L’orientamento è stato confermato da un’altra decisione (Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479) nella quale, nonostante il raggiungimento della prova circa la partecipazione di entrambi al soddisfacimento delle esigenze familiari e, nello specifico, alla creazione di riserve finanziarie, il coniuge non era stato in grado di dimostrare con esattezza l’entità del proprio contributo e per¬tanto il giudice aveva provveduto alla suddivisione pro quota delle somme di denaro oggetto di controversia. Se questa prova vi fosse stata il coniuge non titolare avrebbe perso ogni diritto sul denaro depositato nel corso della vita familiare.
Il che dimostra – essendo palese la mortificazione della tutela verso il coniuge più debole non titolare della proprietà – come vi siano ancora zone d’ombra nell’applicazione dei principi solida¬ristici primari (articoli 143 e 144 c.c.) al regime della separazione dei beni. Per questo motivo la giurisprudenza – anche se non sempre in passato in modo lineare2
2 Cfr la voce CONTO CORRENTE BANCARIO COINTESTATO – ammette il coniuge non proprietario a provare l’eventuale liberalità indiretta della cointestazione (Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682; Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809; Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983; Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552; Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010; Trib. Palermo, sez. I, 9 luglio 2001).
V Fruizione comune e comproprietà di un bene mobile
Sempre nell’ottica di tutela del coniuge non proprietario, si deve qui affrontare un problema parti¬colare che potrebbe offrire rilevante protezione nella situazione in cui uno dei coniugi (per esempio la moglie casalinga) non abbia alcun provento che gli consenta di acquistare beni e che, al momen¬to, del conflitto potrebbe, conseguentemente, trovarsi nella assoluta impossibilità di dimostrare di aver acquistato qualcosa.
La questione che si intende affrontare non è, naturalmente, se la fruizione comune di un bene possa comportare l’acquisto della proprietà di quel bene, dal momento che la fruizione comune non costituisce un modo di acquisto della proprietà, ma se l’acquisto da parte un coniuge di un bene destinato all’uso comune possa essere considerato donazione indiretta all’altro coniuge della comproprietà di quel bene.
Naturalmente se due coniugi si trovano in regime di comunione legale è evidente che l’acquisto di un bene (mobile o immobile) effettuato da un coniuge determina l’acquisizione di quel bene alla comunione (art. 177 lett. a c.c.) fatti salvi gli acquisti di beni personali alle condizioni previste (art. 179 c.c.).
Se però i coniugi sono in regime di separazione non c’è una norma che disponga la stessa cosa e l’acquisto di un bene da parte di un coniuge non determina quindi a vantaggio dell’altro l’effetto comunione.
Ipotizzando che solo uno dei coniugi in regime di separazione disponga di proventi, l’altro non sarà mai proprietario di nulla. Ed è proprio questa situazione che potrebbe determinare una condizione di iniquità al termine del regime patrimoniale non potendo il coniuge privo di proventi rivendicare oggettivamente la proprietà di nulla (salvo quanto acquistato per donazione o successione), non avendo mai avuto proventi per acquistare direttamente alcunché.
Questa iniquità può essere superata facendo ricorso all’istituto della donazione indiretta relativa¬mente ai beni di fruizione comune.
Va premesso che ovviamente la donazione (diretta) formale (art. 769 c.c.) tra coniugi è piena¬mente ammissibile. Inoltre un coniuge, al di fuori del contratto formale di donazione, può sempre provare che l’altro gli ha donato direttamente un bene (per esempio nelle forme della liberalità d’uso di cui al secondo comma dell’art. 770 c.c. o della donazione di modico valore di cui all’art. 783 c.c.). Si pensi al marito che regala alla moglie un computer, un orologio o una bicicletta. In questi casi la moglie ai sensi dell’art. 219 c.c. è ammessa certamente a provare che il bene è di sua proprietà. La moglie potrebbe anche provare, però, che un bene mobile acquistato con i proventi del marito e fruito da entrambi nel corso della vita matrimoniale sia in comproprietà in seguito a donazione indiretta del bene comune (come i beni destinati ad arredo della casa comune). Quale altro spirito, se non quello di liberalità, potrebbe animare nel corso della vita familiare un coniuge nell’acquisto di un bene da fruire in comune?
Esattamente come si potrebbe dimostrare – come sopra detto – che il denaro immesso dal marito nel conto cointestato venga considerata una donazione indiretta.
L’istituto dell’usucapione non sarebbe invocabile in quanto la tolleranza nell’uso di un bene (evi¬dente soprattutto tra coniugi e parenti) è notoriamente ostativa all’usucapione di quel bene.
PROVA DELLA PROPRIETÀ IN REGIME DI SEPARAZIONE DEI BENI
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari – può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointesta¬zione, altro scopo che quello della liberalità. Nella donazione indiretta la liberalità si realizza, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via indiretta, l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare emerge non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall’esame, neces¬sariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse.
Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298 c.c., comma 2), ma tale presunzione da luogo soltanto all’inversione dell’o¬nere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
L’animus donandi non può essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione di un conto corrente. Il giudice deve motivare sullo spirito di liberalità che assiste ogni versamento.
Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 219 cod. civ. – riconoscendo al coniuge di poter provare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene, ed aggiungendo che quelli di cui nessuno di essi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa, per pari quota, di entrambi – riguarda essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel secondo comma, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna eccezione configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge, che alleghi l’interposizione reale, non può provarla con giuramento, nè con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In applicazione dell’art. 219 c.c. i beni mobili – ivi comprese le somme di denaro – di cui ciascun coniuge non può dimostrare la proprietà esclusiva devono essere, in sede di separazione, divisi pro quota. Qualora, quindi, nonostante il raggiungimento della prova circa la partecipazione di entrambi al soddisfacimento delle esigenze familiari e, nello specifico, alla creazione di riserve finanziarie, il coniuge non sia in grado di dimostrare con esattezza l’entità del proprio contributo, il giudice, sulla scorta del mancato superamento di detta presunzione semplice di comproprietà, non potrà che provvedere nel senso di una divisione pro quota delle somme di denaro oggetto di controversia.
Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 709, nota di CORDIANO)
La cointestazione di un conto corrente bancario, relativa a somme già depositate e originariamente appartenenti ad uno dei cointestatari, non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione do¬nativa, nella specie integrata da un atto di rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate, che indichi una dismissione dei diritti sorretta da un intento liberale.
Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della coin¬testazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – può sussistere solo quando sia verificata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Trib. Palermo, sez. I, 9 luglio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un cospicuo patrimonio mobiliare del marito in favore della moglie dimostra indiscutibilmen¬te l’intento liberale di attribuire, non fittiziamente o artificiosamente, ma piuttosto in via stabile e definitiva, al¬meno la metà degli importi investiti in fondi alla comunione legale dei coniugi; e pertanto le domande restitutorie avanzate dagli attori vanno disattese in quanto si dimostrano contrarie a diritto oltre che alla morale corrente (nella specie il marito pretendeva, dopo che il matrimonio stava definitivamente naufragando, la restituzione di quanto in precedenza era stato messo a totale disposizione della moglie).
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 (Giur. It., 2001, 757, nota di DIMARTINO)
Dalla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circostanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione.
Cass. Civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327 (Foro It. 2000, I, 2920)
In caso di deposito presso un istituto di credito di titoli al portatore (nella specie: buoni ordinari del Tesoro), cointestato a coniugi in regime di separazione dei beni, i rapporti interni tra i depositanti sono regolati dall’art. 1298, comma 2, c.c., onde il credito si divide in quote uguali solo se non risulti diversamente. Correttamente, pertanto, qualora rimanga accertato che le somme utilizzate per l’acquisto di tali titoli provengono da un conto corrente di corrispondenza intestato ad un solo coniuge, il giudice del merito ritiene quest’ultimo proprietario esclusivo dei titoli.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 1998, n. 6589 (Giur. It., 1999, 1170 nota di FRATINI)
Il comma 2 dell’art. 219 c.c. (che, con riferimento alla ipotesi di separazione di beni tra coniugi, sancisce una presunzione semplice di comproprietà per i beni mobili dei quali nessuno di essi sia in grado di dimostrare la proprietà esclusiva), pur non contenendo una esplicita limitazione dell’efficacia della presunzione di comunione ai soli rapporti interni tra i coniugi (a differenza di quanto stabilito al comma 1, contenente un espresso riferimento ai rapporti predetti), va interpretato secondo criteri ermeneutici di tipo logico unitario, non meno che storici, e non consente, pertanto, di estendere gli effetti della presunzione in parola anche ai rapporti di ciascun coniuge con i terzi, con la conseguenza che, in tema di opposizione all’esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di prova previsti, in linea generale, dall’art. 621 c.p.c. (che esclude, in particolare, l’efficacia probatoria di qualsiasi forma di presunzione).
Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327 (Rivista notarile, 1998, 182)
L’art. 219 c.c. – che riconosce al coniuge la facoltà di provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (comma 1) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel comma 2, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari.
Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1995, n. 1482 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 219 c.c. (nel testo novellato dalla l. 19 maggio 1975 n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (comma 1) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel comma 2, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga congiura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Trib. Verona, 8 aprile 1994 (Dir. Famiglia, 1995, 558 nota di CONTE)
Se il saldo attivo di un conto corrente bancario cointestato a coniugi in regime di separazione di beni risulta discendere da versamenti effettuati solo dal marito e con somme provenienti dal proprio reddito da lavoro, de¬vesi escludere che l’altro coniuge, casalingo e privo di redditi propri, nel rapporto interno tra correntisti, possa avanzare diritti di partecipazione al saldo predetto.
Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415 (Giur. It., 1993, I,1, 1318 nota di FITTANTE)
Non è configurabile, in costanza di matrimonio, alcun potere in capo al coniuge non proprietario sull’immobile adibito a residenza familiare di appartenenza esclusiva dell’altro, ove questi intenda, senza il consenso del primo, alienare il bene e trasferire altrove l’abitazione della famiglia; e ciò anche nell’eventualità in cui l’atto di disposi¬zione concretizzi la violazione di un preesistente accordo.
Il sistema delineato dal diritto di famiglia non attribuisce, in costanza di matrimonio, al coniuge non proprietario alcun potere sulla proprietà esclusiva dell’altro coniuge, né gli conferisce il potere di impedirgli il compimento di atti eventualmente contrari a precedenti intese; ne deriva che la condotta del coniuge che disponga dei beni di sua proprietà esclusiva senza tener conto del parere o dei desideri dell’altro coniuge e degli altri membri della famiglia, può costituire, se del caso, soltanto motivo per addebitargli una eventuale separazione personale, ma non può formare oggetto di un provvedimento giudiziale coercitivo-inibitorio, salvo che gli atti di disposizione comportino la concreta violazione degli obblighi di assistenza economico-materiale della famiglia incombenti sul coniuge proprietario, o costituiscano addirittura attuazione di un disegno preordinato a sottrarsi alla loro osser¬vanza, nel qual caso i familiari, suoi creditori, sono legittimati all’esercizio di azioni cautelari o di conservazione delle garanzie patrimoniali (fattispecie nella quale il marito aveva manifestato l’intenzione di vendere la casa familiare, di sua esclusiva proprietà, per trasferirsi con i familiari in altro alloggio, contro la volontà della moglie).
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 1990, n. 2540 (Arch. Civ., 1990, 782)
L’art. 219 c. c. (nel testo novellato dalla l. 19 maggio 1975, n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di pro¬vare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (primo comma) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (2° comma) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel 2° comma, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei con¬tratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari; pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei co¬niugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Cass. civ. Sez. I, 9 luglio 1989, n. 3241 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni tra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c. c., che riguarda i rapporti tra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, 2° comma, c. c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; pertanto, ove il saldo attivo del conto cointestato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi (nella specie, trattandosi dell’indennità di buonuscita riscossa con il collocamento a riposo), si deve escludere che l’altro coniuge, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
Trib. Catania, 11 luglio 1986 (Dir. Famiglia, 1987, 228)
Qualora uno dei coniugi alleghi di essere comproprietario di un bene immobile, acquistato dall’altro, per il fatto di avere sborsato metà del denaro impiegato per l’acquisto, egli deduce la sussistenza di una interposizione reale, da dimostrare con atto scritto, essendo consentita la prova testimoniale soltanto nei casi di cui agli art. 2724 e 2725 c. c.; né può farsi ricorso all’art. 219 c. c., che si applica essenzialmente alle controversie relative a beni mobili.
Trib. Milano, 19 settembre 1983 (Dir. Famiglia, 1984, 159)
L’art. 219 c. c., secondo cui il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene, si applica soltanto alle controversie relative ai beni mobili, perché la prova della proprietà degli immobili risulta di solito da un titolo non equivoco; ne consegue che, allorquando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo di acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale, non può provarla né con testimoni e neppure con giuramento, giacché l’obbligo dell’interposto di trasmettere il bene all’interponente deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto.
Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494 (Foro It., 1982, I, 1895 nota di JANNARELLI)
L’art. 219 cod. civ. (nel testo novellato dalla legge 19 maggio 1975, n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di “provare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene” (primo comma) ed aggiun¬ge che “i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi” (secondo comma) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, siccome la prova della proprietà degli immobili risulta di solito da un titolo non equivoco, ed è volto principalmen¬te a derogare, attraverso la presunzione posta nel secondo comma, alla regola generale sull’Onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento, né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto.

La cessione di immobile in cambio delle prestazioni di cura, assistenza, vitto ed alloggio da parte della cessionaria rappresenta vitalizio assistenziale avente natura aleatoria

Cass. civ. Sez. VI – 2, 22 gennaio 2018, n. 1467
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16184/2016 proposto da:
C.A., CA.AN., C.S., C.R., elettivamente domiciliati in ROMA, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, e rappresentati e difesi dall’avvocato MASSIMILIANO SPITALERI in virtù di procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
C.G., CA.GA.;
– intimate –
avverso la sentenza n. 1867/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 14/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/10/2017 dai Consigliere Dott.
MAURO CRISCUOLO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’Appello di Catania con la sentenza n. 1867 del 14 dicembre 2015 rigettava l’appello proposto da Ca.An., C.S., Ca.Ga., C.A. e C.R. nei confronti della sorella C.G., avverso la sentenza del Tribunale di Catania che aveva rigettato la domanda di nullità del contratto di vitalizio del 6 marzo 2002 con il quale la defunta P.O. aveva ceduto all’appellata un appartamento in (OMISSIS), in cambio delle prestazioni di cura, assistenza, vitto ed alloggio da parte della cessionaria.
I giudici di appello rilevavano che risultava infondata la deduzione di parte appellante secondo cui il contratto era privo di alea al momento della stipula, dovendosi ritenere che le complessive difese dell’appellata fossero volte anche a contestare l’affermazione contraria degli attori.
Nel caso di specie risultava che la vitaliziata al momento della conclusione del contratto non era affetta da particolari malattie che ne facessero presagire la prossima scomparsa, come confermato anche dal fatto che era poi deceduta cinque anni dopo.
Non era invero prevedibile la durata della vita della cedente, così che ben poteva individuarsi l’alea necessaria per la validità del vitalizio.
Una volta disattesa la domanda di nullità del contratto, doveva quindi escludersi che si fosse venuta a creare una comunione ereditaria sul bene, ormai già fuoriuscito dal patrimonio della de cuius alla data della sua morte, dovendo quindi essere rigettata la domanda di divisione.
Quanto invece alla domanda di rendiconto, la Corte distrettuale riteneva che la stessa era stata formulata in maniera generica, mancando la stessa allegazione del titolo in base al quale la convenuta avrebbe gestito i beni materni.
C.A., An., S. e R. hanno proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza.
Le intimate non hanno svolto difese in questa fase.
Preliminarmente occorre rilevare che ancorché a pag. 5 del ricorso risultino individuati 6 motivi di ricorso, in base alle lettere da A) ad F), lo sviluppo argomentativo dell’atto in questione consente di individuarne solo tre, di cui due (quello concernente il rigetto della domanda di scioglimento della comunione e quello relativo al carico delle spese di lite) formulati chiaramente in via conseguenziale all’auspicato accoglimento del primo motivo che invece verte sul rigetto della domanda di nullità del vitalizio assistenziale.
Ed, infatti, il fulcro delle doglianze di parte ricorrente è rappresentato proprio dalla affermazione della erroneità, sotto vari profili, della decisione di rigetto della domanda in questione.
In primo luogo si sottolinea l’illogicità della motivazione della Corte d’Appello nella parte in cui non ha ritenuto che vi fosse stata una non contestazione da parte della convenuta in merito all’affermazione degli attori in punto di assenza di alea.
Successivamente, dopo aver sostanzialmente ritenuto corretta la qualificazione del contratto quale vitalizio assistenziale, si deduce che la decisione gravata non avrebbe fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali elaborati in merito a tale figura contrattuale, pervenendo all’affermazione circa la natura aleatoria del contratto, senza nemmeno avvalersi dell’ausilio di una consulenza tecnica d’ufficio, che avrebbe permesso di riscontrare in maniera obiettiva la presenza o meno di una equivalenza tra le prestazioni a carico delle parti.
Il motivo è infondato.
Quanto all’apprezzamento della condotta processuale della convenuta, la doglianza, oltre a far richiamo alla nozione di motivazione illogica che riecheggia l’ormai abrogata formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si risolve in una non consentita contestazione del potere del giudice di merito di interpretazione delle difese della convenuta, dovendosi escludere che sia connotata da illogicità la lettura offerta dalla Corte di appello, secondo cui il tenore della comparsa di risposta, lungi dal voler confermare l’assenza di alea, era volta piuttosto a ribadire che dal contratto erano scaturite delle ben precise obbligazioni a carico della cessionaria del bene, sebbene la durata e l’entità delle prestazioni fossero legate alla variabile aleatoria rappresentata dalla sopravvivenza della alienante.
Per quanto invece attiene alla valutazione in merito all’esistenza dell’alea, reputa il Collegio che la decisione abbia fatto corretta applicazione dei principi di diritto elaborati sul punto da questa Corte.
Anche di recente (cfr. Cass. n. 15904/2016) si è riconosciuta l’ammissibilità del contratto atipico di vitalizio improprio o assistenziale che si differenzia dalla donazione per l’elemento dell’aleatorietà, essendo caratterizzato dall’incertezza obiettiva iniziale circa la durata di vita del beneficiario e il conseguente rapporto tra valore complessivo delle prestazioni dovute dall’obbligato e valore del cespite patrimoniale cedutogli in corrispettivo, sicché solo l’originaria macroscopica sproporzione del valore del cespite rispetto al minor valore delle prestazioni fa presumere lo spirito di liberalità tipico della donazione, eventualmente gravata da “modus”.
In tal senso è stato poi ribadito che (Cass. n. 22009/2016) l’alea contrattuale appare correlata non solo alla durata della vita del beneficiario ma anche alla variabilità e discontinuità delle prestazioni suddette, suscettibili di modificarsi secondo i bisogni (anche in relazione all’età ed alla salute del beneficiario), sicché il giudizio di presumibile equivalenza o di palese sproporzione, deve essere compiuto con riferimento al momento di conclusione del contratto nonché al grado ed ai limiti di obiettiva incertezza all’epoca esistenti in ordine alla durata della vita ed alle esigenze assistenziali del vitaliziato (conf. ex multis Cass. n. 15848/2011).
Con specifico riferimento a tale valutazione hanno avuto modo di pronunciarsi anche le Sezioni Unite con la sentenza n. 6532/1994, citata anche dalla difesa dei ricorrenti, nella quale si è affermato che l’indicata comparazione e l’indagine circa l’incertezza dell’alea rappresentano apprezzamenti di fatto, incensurabili in sede di legittimità se congruamente motivati.
Trattasi di affermazioni maturate nella previgente formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, laddove era dato censurare il ragionamento del giudice di merito per insufficienza ovvero contraddittorietà della motivazione, laddove oggi, alla luce della novella del 2012, è da escludersi che la valutazione compiuta in sentenza possa esser sindacata semplicemente allegando la non corretta valutazione di elementi di fatto invece presi in considerazione dal giudice di merito.
Ciò chiarito, la decisione gravata, con un evidente apprezzamento in fatto, come tale insuscettibile di sindacato in questa sede, ha rilevato che la de cuius al momento della stipula del contratto non era affetta da alcuna particolare patologia (non apparendo a tal fine rilevante una frattura del femore avvenuta circa un anno prima, alla quale era conseguita la completa guarigione), sicché, proprio avendo riguardo alle aspettative di vita, alle quali fanno riferimento gli stessi ricorrenti come indice primario per la valutazione della ricorrenza dell’alea, non era dato prevedere un’immediata dipartita dell’alienante (fattore questo che ha invece in altri casi indotto la giurisprudenza a concludere per la nullità del contratto di vitalizio per assenza di alea).
Peraltro, secondo l’apprezzamento in fatto della decisione impugnata, l’età avanzata della P., se non faceva presagire una morte imminente, tuttavia prospettava un indubbio fattore di rischio collegato alla necessità di un impegno maggiore da parte della figlia, potendo ipotizzarsi l’insorgenza di malattie tipiche dell’anzianità, con la necessità di dover sostenere rilevanti oneri economici per far fronte agli impegni assunti in contratto.
Il ricorso, che peraltro appare carente del requisito della specificità, laddove pur richiamando il contenuto di alcuni elaborati peritali, omette di riprodurne, sia pure per sintesi il contenuto, in violazione di quanto prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, appare evidentemente volto a sollecitare un diverso apprezzamento in fatto ad opera di questa Corte, in violazione dei limiti posti al sindacato di legittimità, e quindi non può trovare accoglimento, soprattutto in presenza di una valutazione del giudice di merito connotata da intrinseca logicità e coerenza.
Il rigetto del primo motivo volto specificamente a contestare il rigetto della domanda di nullità del contratto di vitalizio, determina poi l’infondatezza degli altri due motivi, come detto, avanzati logicamente in via conseguenziale all’accoglimento del primo motivo, restando esclusa, quanto al secondo, l’insorgenza di una comunione ereditaria.
La conferma del rigetto delle domande attoree dà altresì contezza della corretta applicazione del principio della soccombenza in punto di spese di lite.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Nulla per le spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte delle intimate.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Nella separazione, ai fini dell’assegno, se è vero che opera ancora il criterio del tenore di vita è altrettanto vero che il richiedente deve dimostrare i requisiti che lo legittimano

Cass. civ. sez. VI – 1 Ord., 20 marzo 2018, n. 6886
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23210-2016 proposto da:
S.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 60, presso lo studio dell’avvocato PAOLO CIUFFA, rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA DE PASQUALE;
– ricorrente –
contro
O.S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 29, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO BEVILACQUA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROSALBA BIANCHI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 975/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 11/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/02/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO
LAMORGESE.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Torino, con sentenza dell’11 giugno 2016, ha revocato l’assegno di mantenimento, quantificato in Euro 800,00 mensili, che il tribunale aveva posto a carico di O.S.M. in favore della moglie separata S.G. “fino a quando la signora non reperirà un’attività lavorativa” ed ha confermato il contributo di mantenimento in favore della figlia C..
Avverso questa sentenza la S. ha proposto ricorso per cassazione, illustrato da memoria, cui si è opposto l’ O. con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
Con un unico motivo la S. ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., per avere ritenuto insussistente il proprio diritto al pagamento dell’assegno di mantenimento, avendo la sentenza impugnata posto a suo carico l’onere di dimostrare l’inadeguatezza dei suoi redditi a conservare il tenore di vita matrimoniale, mentre era l’ O. che doveva dimostrare il possesso di redditi adeguati, e per avere omesso di considerare che essa aveva tentato di trovare un’occupazione lavorativa, mediante stages di lavoro, ma senza esito positivo.
Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata, pur avendo ritenuto sussistente il divario tra le capacità economiche delle parti, ha ritenuto che lo stato di disoccupazione della S., già accertato dal Tribunale, non fosse incolpevole e, quindi, non giustificasse l’attribuzione dell’assegno di mantenimento, non avendo essa dimostrato di essersi attivata per reperire un’occupazione lavorativa, tenuto conto della sua giovane età (circa 35 anni), del titolo di studio di cui era in possesso (laurea), della mancanza di patologie invalidanti e del tempo (circa sei anni) trascorsi dalla data del deposito del ricorso per separazione.
Si tratta di un plausibile accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità con il mezzo proposto né, a norma del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, sono stati indicati fatti decisivi il cui esame sia stato omesso dai giudici di merito, risolvendosi il motivo in un’inammissibile istanza di riesame dell’esito della valutazione delle risultanze probatorie acquisite nel giudizio di merito.
Infondata è la doglianza ex art. 2697 c.c. di erronea applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova. Se è vero che nella separazione personale i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (Cass. n. 12196/2017), è anche vero che la prova della ricorrenza dei presupposti dell’assegno incombe su chi chiede il mantenimento (v., tra le tante, Cass. n. 1691/1987) e che tale prova ha ad oggetto anche l’incolpevolezza del coniuge richiedente, quando – come nella specie – sia accertato in fatto che, pur potendo, esso non si sia attivato doverosamente per reperire un’occupazione lavorativa retribuita confacente alle sue attitudini, con l’effetto di non poter porre a carico dell’altro coniuge le conseguenze della mancata conservazione del tenore di vita matrimoniale.
Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese, liquidate in Euro 3200,00, di cui Euro 100,00 per esborsi.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2018

Il criterio della residenza abituale del minore (determinante ai fini dell’individuazione del giudice competente) va stabilito in base ad “indicatori di natura proiettiva”

Cass. civ. Sez. Unite, 30 marzo 2018, n. 8042
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 19541/2016 proposto da:
D.L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato RAFFAELE PACILIO;
– ricorrente –
contro
R.K., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE SANTO 10/A, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO ORSINI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI COMINI;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, emesso il 3/05/2016 (r.g. n. 404/2013);
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/12/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Dott. SALVATO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato Alessandro Orsini.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di l’Aquila, confermando la pronuncia di primo grado, ha ritenuto il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore di quello del Regno Unito in ordine alle domande proposte da D.L.G. di affidamento congiunto della figlia minore, di diversa regolamentazione del diritto di visita e di accertamento della debenza e della determinazione del contributo al mantenimento della medesima.
1.1 A sostegno della decisione la Corte d’Appello ha affermato: la madre e la figlia risiedono a (OMISSIS) e la residenza è conforme all’iscrizione all’A.I.R.E.;
la minore è iscritta presso un medico di base che esercita a Londra; per l’anno 2013/2014 è stata iscritta ad un asilo nido londinese. Tutti questi elementi concordanti ed in particolare l’iscrizione all’asilo nido inducono a ritenere che la residenza abituale debba essere individuata in (OMISSIS);
la circostanza che la minore trascorra anche periodi di tempo in Italia presso i nonni non esclude che quella estera sia la residenza abituale.
2. Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il padre della minore, affidandosi a due motivi.
Ha resistito con controricorso la madre della minore.
La prima sezione civile ha rimesso al ricorso alle sezioni Unite dal momento che entrambi i motivi attengono alla giurisdizione.
Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

3. Nel primo motivo viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo consistente nel fatto che alla data di presentazione del ricorso la minore viveva presso i nonni materni nella provincia di (OMISSIS) non essendo nella condizione giuridica di espatriare mancando il consenso del padre. Tale residenza aveva i caratteri dell’abitualità in quanto la minore aveva sempre trascorso lunghi periodi con i nonni e non era mai rimasta più di tre mesi consecutivi a (OMISSIS) presso il domicilio inglese della madre la quale, pur avendo la residenza ed un’attività d’impresa nella città inglese si divideva tra il regno Unito e l’Italia. La residenza de iure della minore nel regno Unito dipende esclusivamente dal fatto che i genitori non sono sposati ma ai fini della giurisdizione rileva la residenza di fatto.
Infine l’iscrizione all’asilo in (OMISSIS) per l’anno successivo non costituisce circostanza rilevante ed inoltre, la residenza di fatto della minore è stata indicata nel comune di (OMISSIS) in un procedimento penale a carico del padre, occasionato da una denuncia della madre in relazione a reati che si configurano solo nel luogo di residenza della minore. Ciò costituisce un riconoscimento implicito della residenza della minore.
Nel secondo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 8, 13, 14, 15 e 20 del Reg. CE n. 2210 del 2003 per non avere la Corte d’Appello accertato effettivamente il luogo di residenza della minore sulla base degli indicatori indicati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia quali la durata, la regolarità, le condizioni e le ragioni del soggiorno, l’età del minore, l’origine geografica e familiare dei genitori, i rapporti familiari e sociali che genitore e minore intrattengono in quello stesso stato, il luogo, le condizioni di frequenza scolastica e le conoscenze linguistiche del minore.
Nella specie, la minore è cittadina italiana, nata in Italia da cittadini italiani con legami familiari in Italia ed ha trascorso gran parte della sua vita in Italia. Non può pertanto essere indicata la residenza abituale sulla base delle risultanze anagrafiche formali, tanto più che per un errore burocratico la minore al momento della presentazione del ricorso risultava avere fin dalla nascita due residenze, una nella provincia di (OMISSIS) ed una nel comune di (OMISSIS).
Infine la minore è seguita da un pediatra anche in Italia.
Occorre preliminarmente esaminare le eccezioni d’inammissibilità del ricorso prospettata dalla parte controricorrente.
In ordine alla prima deve osservarsi che il ricorso proposto ha natura decisoria alla luce del costante orientamento di questa Corte, instaurato dalla pronuncia n. 23032 del 2009 e rafforzatosi, all’esito della riforma della filiazione intervenuta con la Legge Delega n. 219 del 2012 e il D.Lgs. n. 154 del 2013, con la sentenza n. 6132 del 2015 così massimata:
“Il decreto della corte d’appello, contenente i provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio e le disposizioni relative al loro mantenimento, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché già nel vigore della L. 8 febbraio 2006, n. 54 – che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio – ed a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – che ha abolito ogni distinzione – al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile “rebus sic stantibus” a quella del giudicato. Il principio è stato confermato di recente dalla pronuncia n. 3192 del 2017.
E’ ammissibile anche in ordine all’accertamento dei fatti perchè ai fini della giurisdizione la Cassazione è giudice del fatto.
La parte controricorrente ha formulato un’eccezione d’inammissibilità anche con riferimento al primo motivo di censura ritenendo che in esso fosse contenuta la richiesta di riesame della insindacabile valutazione dei fatti svolti dal giudice del merito.
Anche tale eccezione deve essere disattesa. L’accertamento della giurisdizione, nella specie, secondo il criterio normativo applicabile, fondato sulla residenza abituale del minore, tratto dall’art. 8 del Regolamento CE n. 2201 del 2003, e consistente nella residenza abituale del minore impone al giudice l’esame di una “quaestio facti” ai fini della decisione. A tale valutazione non si sottrae la Corte di Cassazione cui spetta la definitiva determinazione della giurisdizione, al pari di quel che si verifica in sede di regolazione della competenza. Ne consegue l’ammissibilità della censura formulata in quanto diretta a porre in luce circostanze ed elementi di fatto, a giudizio della parte ricorrente non considerati od insufficientemente valutati ai fini del versante di natura fattuale del criterio normativo della residenza abituale.
Ancorché ammissibile il motivo è da respingere. Non essendo in contestazione la collocazione della minore de iure presso la madre, in attesa della definizione del regime giuridico di affidamento della stessa, e non essendo altresì contestata la residenza de iure della madre a (OMISSIS), non rileva ai fini della determinazione della giurisdizione la dedotta mancanza di un consenso espresso del padre per l’espatrio. Quanto al rilievo fattuale della coabitazione della minore con i nonni materni al momento della proposizione della domanda, la circostanza può assumere rilievo solo se ancorata a fattori di radicamento effettivi. Al riguardo deve integralmente condividersi la valutazione della Corte d’Appello che ha valorizzato, attesa la tenerissima età della minore e la mancanza di fattori di radicamento esterni ai nuclei familiari materno e paterno, indicatori di natura proiettiva, quali l’iscrizione all’asilo a (OMISSIS) e l’incardinamento nel sistema sanitario pediatrico inglese della minore, peraltro in coerenza con il regime giuridico relativo alla residenza ad essa applicabile in quanto nata fuori del matrimonio ed in assenza di statuizioni specifiche al riguardo prese consensualmente o giudizialmente. Gli elementi fattuali posti in luce nel motivo di ricorso, consistenti, in particolare nei periodi non brevi trascorsi dalla minore in Italia, presso i nonni, in particolare materni ma anche paterni, sono stati ritenuti fondatamente recessivi rispetto a quelli sopra indicati, in quanto coerenti con l’ampiezza e l’elasticità, riscontrabile in fatto, delle relazioni familiari delle quali fruisce la minore ma non idonei ad incidere sul radicamento della giurisdizione, proprio per la peculiarità della situazione della stessa, dell’età di soli due anni al momento dell’instaurazione del presente giudizio. Non possono che venire in rilievo, di conseguenza la residenza materna a (OMISSIS), fondata su precise ragioni professionali e lavorative e la volontà espressa mediante l’iscrizione a scuola della figlia minore e quella relativa all’assistenza pediatrica, di conservare tale residenza per il proprio, attuale, nucleo familiare.
In conclusione, in mancanza di elementi univocamente contrastanti la pluralità d’indicatori relativi alla residenza abituale a (OMISSIS), quali, a titolo esemplificativo, la permanenza dalla nascita e senza sostanziale soluzione di continuità della minore in Italia, non possono ritenersi prevalenti le circostanze di fatto ritenute decisive dalla parte ricorrente.
Il secondo motivo è sostanzialmente riproduttivo delle ragioni poste a base della prima censura. I criteri elaborati dalla Corte di Giustizia al fine di determinare la residenza abituale devono essere adeguati alla peculiarità dell’accertamento di fatto da svolgere. Nel caso di specie alcuni di essi sono inapplicabili, non potendo essere esaminati fattori di radicamento oggettivo ed esterno rispetto all’ambiente familiare attesa l’età della minore. Gli altri non conducono a conclusioni univoche non essendo contestato che la madre della minore, cittadina italiana e con famiglia di origine residente in Italia, abbia invece stabile residenza a (OMISSIS) e là abbia radicato il proprio nucleo familiare, formato da lei e sua figlia, come gli indicatori proiettivi pongono in evidenza quanto meno fino a che non verrà determinato un regime giuridico ad hoc relativo all’affidamento della minore. Le altre allegazioni di parte ricorrente, come sottolineato anche dal Procuratore Generale in udienza, hanno natura ipotetica e non sono fondate sulla situazione de iure e de facto attuale o riguardano fatti del tutto irrilevanti quali l’aver provveduto ad un medico di riferimento anche in Italia.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese processuali del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio da liquidarsi in Euro 3000 per compensi, Euro 200 per esborsi oltre accessori di legge.

Il conflitto di interesse legittimante la nomina del curatore in favore del minore non si ravvisa quando l’atto da compiere corrisponde al vantaggio di entrambi (genitore e figlio)

Cass. civ. sez. VI – 3, 5 aprile 2018, n. 8438
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7159/2017 proposto da:
F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato DARIO SEMINARA;
– ricorrente –
contro
ISLAND REFINANCING SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARCHIMEDE 44, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO TARTAGLIA, rappresentata e difesa dagli avvocati VINCENZO FAZZINO, MARIALETIZIA FAZZINO:
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
F.R., T.F., T.A., F.C.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1763/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 23/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/01/2018 dalConsigliere Dott. DANILO SESTINI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
pronunciando sulla domanda proposta dal Banco di Sicilia s.p.a., il Tribunale di Siracusa dichiarò l’inefficacia, ex art. 2901 cod. civ., dell’atto con cui i coniugi F.R. e T.F. avevano donato alle figlie F.A. e C. un terreno sito in (OMISSIS);
la Corte di Appello di Catania ha rigettato l’appello con cui F.A. aveva dedotto la nullità del giudizio di primo grado per vizio di costituzione del rapporto processuale (conseguente al fatto che, essendo ella ancora minorenne, l’atto di citazione era stato indirizzato – quali legali rappresentanti – ai suoi genitori che, tuttavia, si trovavano in conflitto di interessi con la figlia);
la F. ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi;
ha resistito, a mezzo della procuratrice speciale Cerved Credit Management s.p.a., la Island Refinancing s.r.l. (già succeduta nella posizione processuale del Banco di Sicilia), la quale ha proposto ricorso incidentale e ricorso incidentale condizionato;
i ricorsi sono stati rimessi all’adunanza camerale, ex art. 380 bis c.p.c., con proposta di manifesta infondatezza del ricorso principale e di inammissibilità di quello incidentale;
entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che:
il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 320 c.c., u.c., artt. 78 e 102 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost., e censura la Corte per non aver considerato la sussistenza di un conflitto di interessi fra la ricorrente e i genitori;
il motivo è infondato, alla luce del principio espresso da Cass. n. 1721/2016 (secondo cui la verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo”), al quale il Collegio intende dare continuità e che, pur enunciato in riferimento all’ipotesi in cui il legale rappresentante si sia costituito in giudizio anche in nome e per conto del rappresentato, risulta ovviamente applicabile anche all’ipotesi in cui il legale rappresentante si sia limitato a ricevere la notifica (e non abbia ritenuto di costituirsi in nome e per conto del rappresentato);
è pur vero che Cass. n. 1294/1975 ebbe a ritenere sussistente il conflitto di interessi in un’ipotesi in cui il curatore del fallimento dei genitori aveva proposto azione revocatoria nei confronti dei figli minori, in relazione ad una donazione fatta a questi ultimi dai falliti, e che analogo principio venne espresso da Cass. n. 1586/1990 (anch’essa relativa ad un’ipotesi di azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento dei genitori), individuando la ragione del conflitto di interessi fra genitore fallito e minore nel “vantaggio che deriverebbe al primo dall’accoglimento della domanda, con un incremento dell’attivo fallimentare”;
tale indirizzo – espresso in relazione alla peculiare ipotesi del fallimento del genitore – è stato tuttavia superato da successivi arresti di legittimità, che hanno evidenziato che “il conflitto d’interessi tra padre e figlio minore che legittima la nomina di un curatore speciale sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto, nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concili con quello del rappresentato”, cosicché “il conflitto in questione non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponda al vantaggio comune di entrambi, per cui i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, siano tra loro concorrenti e compatibili” (Cass. n. 5591/1981; conforme Cass. n. 599/1982).
tale principio è stato ribadito e sviluppato dalla citata Cass. n. 1721/2016 che, affermando la necessità di un accertamento in concreto sulla sussistenza del conflitto, ha superato i precedenti che avevano ritenuto rilevante una incompatibilità di interessi “anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività”, postulando la necessità di una verifica “in astratto ed “ex ante” secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio, anziché in concreto e “a posteriori” alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa” (Cass. n. 13507/2002; conforme a Cass. n. 10822/2001);
in linea con tali principi, la sentenza impugnata ha rilevato come nello specifico e alla luce dell’atteggiamento processuale concretamente assunto dai genitori, non fossero ravvisabili situazioni di conflitto, a fronte di un interesse del tutto convergente fra i medesimi genitori e la figlia; peraltro, non può sottacersi che un conflitto non si sarebbe profilato sussistente neppure secondo una valutazione ex ante, giacché, a fronte dell’azione revocatoria proposta dall’istituto bancario, l’interesse dei genitori e quello della figlia risultavano coincidenti nel fine di sottrarre l’atto di donazione alla revocatoria;
né può ritenersi che la mera possibilità che la nomina di un curatore speciale consentisse alla minore di svolgere difese o eccezioni ulteriori rispetto a quelle sviluppate dai genitori valga a concretizzare, di per sé, una situazione di conflitto di interessi;
il secondo motivo (che deduce, “in subordine”, l’omesso esame circa un fatto decisivo) è inammissibile poiché non evidenzia fatti (principali o secondari) decisivi di cui sia stato omesso l’esame, ma si limita a reiterare considerazioni funzionali all’affermazione della ricorrenza del conflitto di interessi negato dalla Corte;
il “ricorso incidentale” dell’Island Refinancing è inammissibile in quanto formulato in modo estremamente generico e proposto come reiterazione di un motivo di appello incidentale condizionato che, come tale, non è stato esaminato dalla Corte a seguito del rigetto dell’appello principale e non può “rivivere” per il solo fatto che la sentenza sia stata impugnata per cassazione;
il “ricorso incidentale condizionato” – enunciato in modo assolutamente generico – risulta assorbito;
la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di lite;
in relazione ad ambedue i ricorsi, proposti successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale, compensando le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, non si identifica con l’inadempimento civile e presuppone l’elemento psicologico della volontaria sottrazione agli obblighi imposti

Cass. pen. Sez. VI, 14 marzo 2018, n. 11635
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 18/04/2016 della Corte di appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa CALVANESE Ersilia;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa PICARDI Antonietta, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udito il difensore, avv. VECCHIO Giovanni Sisto, che ha concluso, insistendo nell’accoglimento dei motivi di ricorso, con conseguente annullamento della sentenza impugnata.
Svolgimento del processo
1. C.G. ricorre avverso la sentenza, indicata in epigrafe, della Corte di appello di Milano, nella parte in cui ha confermato la condanna inflittagli in primo grado per i reati di cui ai capi A) (riqualificati i fatti in appello ai sensi degli artt. 660 e 612 cod. pen.) e B) (art. 570 c.p., comma 2).
In particolare, la Corte di appello, pur ritenendo attendibile il racconto della persona offesa, escludeva che i comportamenti molesti tenuti dall’imputato nei confronti nella moglie G.S., consistiti in telefonate e messaggi minacciosi ed ingiuriosi, configurassero il reato di atti persecutori, posto che difettava la prova della produzione degli eventi richiesti dall’art. 612-bis cod. pen., ovvero di un perdurante e grave stato di ansia o di paura in danno della donna e la alterazione delle abitudini di vita di quest’ultima.
La Corte di appello riteneva peraltro che le citate comunicazioni, in quanto includenti minacce (secondo il primo giudice, l’imputato aveva chiamato sull’utenza del figlio, che azionava il viva voce, dicendo che l’avrebbe ammazzata e che gliela avrebbe fatta pagare), venivano ad integrare il reato di cui all’art. 612 cod. pen., nonché quello di cui all’art. 660 cod. pen., stante l’insistenza della loro verificazione.
La Corte territoriale escludeva, in considerazione della reiterazione del comportamento ed il coinvolgimento se pur indiretto del minore, l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen..
Confermava altresì la penale responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, (per aver omesso di fornire al figlio minore i mezzi di sussistenza), ritenendo destituite di fondamento le censure difensive, in quanto in parte non pertinenti al periodo temporale di contestazione e in parte irrilevanti (quanto allo stato di bisogno del minore e alla contribuzione da parte di altri), non risultando neppure che l’imputato avesse richiesto in sede civile la modifica dell’assegno di mantenimento.
La Corte distrettuale rilevava che dalla documentazione prodotta risultava il versamento soltanto parziale dell’assegno, sia perché non sempre versato o perché versato in entità inferiore al dovuto, non essendo necessario l’accertamento della sufficienza delle somme corrisposte al sostentamento del minore. In ogni caso, non risultava provata l’impossibilità non colpevole dell’imputato di adempiere integralmente all’obbligo di mantenimento.
2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre l’imputato, deducendo i seguenti motivi (come sintetizzati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p.):
– violazione di legge in relazione agli artt. 192 e 210 cod. proc. pen., perché le dichiarazioni della persona offesa erano da ritenersi inutilizzabili, in quanto le stesse dovevano essere assunte con le modalità previste per il testimone “assistito”, ex art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), risultando pendente a carico della dichiarante, come si dava atto nella stessa sentenza impugnata, un procedimento penale per elusione del provvedimento del giudice civile in ordine al diritto di visita nei confronti del loro figlio minore;
– vizio di motivazione, in relazione all’art. 603 cod. proc. pen., non avendo espresso alcuna motivazione in ordine alla richiesta di riapertura della istruttoria dibattimentale richiesta dalla difesa con l’appello, quanto alla perizia di trascrizione sul materiale audio proveniente dalla parte civile, rilevante per risolvere i dubbi processuali e prospettare una differente ricostruzione dei fatti;
– vizio di motivazione in ordine alla valutazione delle dichiarazioni dibattimentali rese dalla persona offesa, non avendo la Corte di appello addotto alcuna motivazione sui rilievi sollevati dalla difesa quanto alla mancanza di coerenza delle stesse, al comportamento non edificante tenuto dalla persona offesa e alla mancanza di riscontri in ordine ai denunciati maltrattamenti;
– vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità penale per i fatti riqualificati ai sensi degli artt. 594, 612 e 660 cod. pen., in quanto la Corte di appello avrebbe da un lato escluso la sussistenza del reato di atti persecutori, ritenendo “soggettive” le valutazioni offerte dalla persona offesa, dall’altro avrebbe utilizzato le stesse dichiarazioni, ritenendo credibile il racconto per configurare altre ipotesi di reato, di qui la necessità di procedere con perizia alla trascrizione dei cd audio prodotti dalla persona offesa per la verifica degli eventi; la motivazione risulterebbe illogica e contraddittoria anche con riferimento ai fatti di minaccia aggravata, non essendo stati accertata la ritenuta aggravante; non risulterebbe provato neppure il reato di cui all’art. 660 cod. pen.;
– vizio di motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, non avendo considerato la Corte di appello che in ogni caso non erano mai mancati al figlio minore i mezzi di sussistenza (avendo il ricorrente provveduto sporadicamente a rimettere il mantenimento) e che il ricorrente versava in una situazione di difficoltà economica precaria fino a collassare; il ricorrente avrebbe provato di aver fornito al figlio il mantenimento costante, di cui avrebbe dato la stessa Corte di appello quanto ai versamenti parziali dell’assegno mensile;
– vizio di motivazione per la mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., fondata sulla reiterazione dei comportamenti ed il coinvolgimento sia pure indiretto del minore, non considerando i rilievi difensivi, ovvero che il numero e la durata degli sms e delle telefonate era circoscritta.
Con motivi nuovi depositati il 15 dicembre 2017, il difensore deduce altresì:
– l’inutilizzabilità delle dichiarazioni della persona offesa, in quanto non assunte con le garanzie prescritte dall’art. 197-bis cod. proc. pen.;
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., commi 2 e 3, e art. 546 c.p.p., comma 1, e alla credibilità della persona offesa, non avendo la Corte di appello risposto alle censure difensive;
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., commi 2 e 3, e art. 546 c.p.p., comma 1, e alla ritenuta responsabilità per il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, avendo la Corte di appello fatto discendere la penale responsabilità del ricorrente dal mero inadempimento civilistico, non rispondendo alle censure difensive circa la capacità economica dell’obbligato (come d’altronde accertato in sede civile con la modifica dell’assegno di mantenimento).

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.
2. Il primo motivo è generico.
Perché discenda l’incompatibilità a testimoniare prevista dall’art. 197-bis cod. proc. pen. è pur sempre necessaria la rilevabilità dello status di indiziato/imputato del testimone al momento dell’assunzione della prova.
Le Sezioni Unite (sentenza n. 15208 del 25/02/2010, Mills), hanno ancorato a precisi e stringenti requisiti la possibilità di sindacato successivo di tale status: è stato infatti ribadita, come già in precedenza affermato (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 24341701 e Sez. U, n. 21832 del 22/02/2007, Morea, Rv. 236370), la necessità che il giudice che procede all’assunzione della prova sia a conoscenza già prima dell’esame o dell’escussione di elementi già sussistenti in quel momento qualificabili quali indizi non equivoci di reità, che se non risultanti dagli atti, possono essere dedotti dalle parti.
Inoltre, occorre ai fini dell’incompatibilità richiamata dalla difesa, derivante dal collegamento di cui all’art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), che si versi in una delle ipotesi ivi indicate.
Orbene, in ordine alla prima questione, l’unico dato fornito dalla difesa in sede di appello era la pendenza ex art. 335 cod. proc. pen. nel 2012 di un procedimento penale a carico della persona offesa per il reato di cui all’art. 388 cod. pen.; mentre, quanto alla seconda questione, la difesa nulla ha dedotto, limitandosi ad indicare soltanto la norma sopra citata.
Anche a voler tacere della genericità del rilievo, che rende già di per sè inammissibile la censura, la questione appare anche del tutto infondata laddove venga in considerazione, in ipotesi, il collegamento tra reati commessi “in danno reciproco”.
Questi ultimi infatti devono intendersi quei reati commessi ai danni l’uno dell’altro nel medesimo contesto spazio-temporale, in stretto collegamento naturalistico (tra tante Sez. 2, n. 4128 del 09/01/2015, Cecoro, Rv. 262369; Sez. 5, n. 599 del 17/12/2008, dep. 2009, Mastroianni, Rv. 242384; Sez. 5, n. 47363 del 13/11/2008, Petrelli, Rv. 242305).
Nella specie, tale condizione non sussiste, posto che il reato ex art. 388 cod. pen., per il quale si deduce la pendenza del procedimento a carico della G., risulterebbe commesso in epoca prossima al 2 luglio 2014, mentre il reato del presente procedimento ai danni della predetta è stato commesso anni addietro.
3. Sono all’evidenza prive di fondamento le censure relative alla dedotta violazione dell’art. 603 cod. proc. pen..
La Corte di appello ha ritenuto infatti di poter decidere allo stato degli atti, rigettando la richiesta del ricorrente di rinnovare l’istruttoria dibattimentale per disporre una perizia di trascrizione del contenuto di un cd audio prodotto dalla persona offesa.
L’obbligo di motivazione del giudice appello va posto in correlazione con la genericità della suddetta richiesta, non supportata da argomentazioni specifiche sull’apporto probatorio della perizia rispetto alla prova documentale così acquisita (cd audio).
A riguardo va rammentato che la registrazione fonografica di una conversazione telefonica effettuata da uno dei partecipi al colloquio costituisce una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile in dibattimento quale prova documentale, rispetto alla quale la trascrizione rappresenta una mera trasposizione del contenuto del supporto magnetico contenente la registrazione (tra le tante, Sez. 2, n. 50986 del 06/10/2016, Occhineri, Rv. 268730; Sez. 5, n. 4287 del 29/09/2015, dep. 2016, Pepi, Rv. 265624).
4. Identica sorte va assegnata alle censure versate nel terzo e quarto motivo, che denunciano deficit motivazionali all’evidenza infondati (quanto alle ingiurie, va in ogni caso rilevato che la Corte di appello aveva dichiarato l’avvenuta depenalizzazione delle relative condotte).
In ordine alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, va osservato che i fatti che avrebbero dovuto essere valutati ai fini della credibilità della persona offesa erano in realtà elementi presentati nell’appello per escludere il reato ex art. 612-bis cod. pen., in particolare per far risaltare che non vi fosse stato un grave e perdurante stato di ansia e paura (quindi un profilo accolto dalla Corte di appello).
Quel che rileva in questa sede è che il ricorrente non aveva contestato il fatto oggettivo (le telefonate e i messaggi inviati), ma lo aveva giustificato in funzione dell’interesse di sentire il minore, a fronte dell’ostruzionismo della donna. E il riscontro delle dichiarazioni della persona offesa, quanto al contenuto minaccioso delle comunicazioni, era stato già in primo grado rinvenuto nelle registrazioni audio versate dalla persona offesa e nelle dichiarazioni della sorella di quest’ultima che aveva assistito ai fatti.
Non è ravvisabile inoltre alcuna contraddizione nella valutazione delle dichiarazioni della persona offesa: la Corte di appello ha ritenuto non sussistente il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. sol perchè era mancata la prova degli eventi tipici del reato e non perché era inaffidabile il narrato della persona offesa.
Quanto alla minaccia grave, è sufficiente rilevare che era stato il primo giudice ad aver accertato le minacce di morte avanzate dal ricorrente alla persona offesa e sul punto nell’appello il ricorrente si era soltanto difeso escludendo di averle effettuate.
Lo stesso dicasi in ordine alle molestie, posto che la reiterazione delle comunicazioni era stata accertata in primo grado, sulla base delle stesse prove di cui si è detto sopra.
5. Sono manifestamente infondate anche le censure relative all’art. 131-bis cod. pen..
La motivazione della sentenza impugnata in ordine all’inapplicabilità per il capo A) della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., risulta all’evidenza adeguata e priva di vizi logico-giuridici.
La Corte di appello ha infatti valorizzato a dimostrazione della non particolare tenuità del fatto sia il dato obiettivo della reiterazione dei comportamenti illeciti sia la loro offensività, in considerazione del coinvolgimento sia pure indiretto del minore, che venivano pertanto ad assorbire logicamente i rilievi difensivi, limitati a far valere la durata e il numero circoscritti delle comunicazioni contestate.
6. Fondato è invece il motivo relativo alla ritenuta responsabilità per il reato di cui all’art. 570 cod. pen..
È assorbente rilevare che la Corte di appello, pur avendo accertato il parziale adempimento da parte del ricorrente dell’obbligo di mantenimento del figlio minore, ha applicato un principio di diritto in realtà affermato in sede di legittimità in ordine ad altra fattispecie di reato che sanziona il mero inadempimento dell’assegno nella misura disposta dal giudice (L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies).
Quanto alla configurabilità del reato previsto dall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, questa Suprema Corte ha invece affermato che il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, tenendo inoltre conto di tutte le altre circostanze del caso concreto, dovendosi escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale (tra le tante, Sez. 2, n. 24050 del 10/02/2017, P. A, Rv. 270326).
Al riguardo, si è osservato che, come si evince dalla stessa formulazione letterale della disposizione ora menzionata, non vi è equiparazione tra il fatto penalmente sanzionato e l’inadempimento civilistico, poiché la norma non fa riferimento a singoli mancati o ritardati pagamenti, bensì ad una condotta di volontaria inottemperanza con la quale il soggetto agente intende specificamente sottrarsi all’assolvimento degli obblighi imposti con la separazione. Ciò corrisponde alla funzione assegnata dal legislatore a tale disposizione, che è quella di garantire che il soggetto obbligato assista con continuità i figli e gli altri soggetti tutelati. Se da un lato, quindi, non può ritenersi che la condotta delittuosa sia integrata da qualsiasi forma di inadempimento, dall’altro lato, trattandosi di reato doloso, la stessa deve essere accompagnata dal necessario elemento psicologico.
In particolare, sul piano oggettivo, deve trattarsi di un inadempimento serio e sufficientemente protratto (o destinato a protrarsi) per un tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire.
Ne discende che il reato non può ritenersi automaticamente integrato con l’inadempimento della corrispondente normativa civile e, ancorché la violazione possa conseguire anche al ritardo, il giudice penale deve valutarne in concreto la “gravità”, ossia l’attitudine oggettiva ad integrare la condizione che la norma tende, appunto, ad evitare.
In tal senso, se, di regola, non può essere considerata sufficiente un’arbitraria affermazione del diritto alla autoriduzione dell’assegno, dovendo la parte in ogni caso rivolgersi al giudice civile per ottenere eventuali revisioni dell’importo (Sez. 6, n. 16458 del 05/04/2011, B., Rv. 250090), la situazione è diversa in tutti quei casi in cui in cui ci si trovi dinanzi ad un limitato ritardo, ad un parziale adempimento, ovvero ad una omissione dei pagamenti, che trovino ben precise giustificazioni nelle peculiari condizioni dell’obbligato ed appaiano agevolmente collocabili entro un breve, o comunque ristretto, lasso temporale, quando a fronte di un più ampio periodo preso in considerazione risulti accertata la piena regolarità nel soddisfacimento dei relativi obblighi.
Nella motivazione della sentenza impugnata non viene compiutamente affrontato il tema delle reali modalità della condotta posta in essere dall’imputato, né viene correttamente applicata la norma penale laddove si opera una automatica equiparazione dell’inadempimento alla sua effettiva violazione.
7. Sulla base delle su esposte considerazioni, conclusivamente, l’impugnata sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio limitatamente al reato di cui all’art. 570 cod. pen., che dovrà porre rimedio alle rilevate carenze motivazionali, uniformandosi al quadro dei principii di diritto stabiliti da questa Suprema Corte.
Con riferimento ai reati di cui agli artt. 612 e 660 cod. pen. il ricorso va dichiarato inammissibile, con conseguente irrevocabilità delle relative statuizioni della sentenza ai sensi dell’art. 624 c.p.p., comma 2.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 570 cod. pen. e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
Dichiara inammissibile il ricorso con riferimento ai reati di cui agli artt. 612 e 660 cod. pen., statuizioni della sentenza che dichiara irrevocabili ai sensi dell’art. 624 c.p.p., comma 2.

CONVIVENZA DI FATTO E ASSEGNO DI DIVORZIO

di Gianfranco Dosi

I. Se la convivenza di fatto del beneficiario dell’assegno divorzile possa essere equiparata alle nuove nozze
II. La rilevanza della convivenza di fatto del beneficiario dell’assegno divorzile
a) La giurisprudenza sulla possibile riduzione dell’assegno in caso di convivenza more uxorio del beneficiario
b) La giurisprudenza innovativa sulla quiescenza dell’assegno nel caso in cui il beneficiario costituisca una stabile “famiglia di fatto”
c) La giurisprudenza attuale sulla definitività del venir meno del diritto all’assegno in caso di “stabile” convivenza di fatto
III. La coabitazione come primo presupposto della convivenza di fatto rilevante
IV. Il presupposto della “stabilità” della convivenza
a) La giurisprudenza sul concetto di “stabilità” del matrimonio
b) La “stabilità” della convivenza di fatto secondo la legge 20 maggio 2016, n. 76
c) La prova della convivenza stabile

I Se la convivenza di fatto del beneficiario dell’assegno divorzile possa essere equiparata alle nuove nozze
Il penultimo comma dell’articolo 5 della legge sul divorzio (legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel testo modificato dapprima dalla legge 1° agosto 1978, n. 436 e successivamente dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) prevede la cessazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile se il beneficiario dell’assegno divorzile passa a nuove nozze.
Automaticamente e di conseguenza vengono meno anche tutti gli altri benefici connessi all’as¬segno divorzile, come la pensione di reversibilità (art. 9), l’eventuale assegno periodico a carico dell’eredità (art. 9-bis) e l’eventuale quota di indennità di fine rapporto (art. 12-bis).
Il motivo di questo azzeramento dei diritti post-coniugali va ricercato nelle norme stesse che di¬sciplinano il matrimonio, essendo evidente che il nuovo nucleo familiare formatosi con le nuove nozze del beneficiario dell’assegno, diventa unico riferimento dei diritti e dei doveri coniugali di assistenza e di contribuzione reciproca indicati per i coniugi nell’art. 143 del codice civile.
La perdita quindi dei diritti post-coniugali di mantenimento si verifica per il semplice fatto della celebrazione del nuovo matrimonio, indipendentemente dalle condizioni economiche del nuovo coniuge.
Nelle strategie personali che caratterizzano le vicende post-coniugali la decisione se contrarre nuovo matrimonio può essere anche, quindi, largamente influenzata dalle conseguenze delle nuove nozze sui diritti di natura economica. Così il beneficiario dell’assegno divorzile per evitare la perdita del diritto al mantenimento e i benefici ad esso direttamente collegati può determinar¬si, nel caso in cui si leghi ad un nuovo partner, a non contrarre un nuovo matrimonio, decidendo invece soltanto di convivere di fatto.
Il problema che la giurisprudenza si è, quindi, trovata a dover affrontare – in assenza di una dispo¬sizione legislativa che attribuisca alla convivenza di fatto gli stessi effetti delle nuove nozze – è se la convivenza di fatto intrattenuta dal beneficiario dell’assegno divorzile possa avere la medesima conseguenza di determinare ugualmente il venir meno del diritto al mantenimento.
Per giungere ad una soluzione del genere occorrerebbe considerare omogenee le due situazioni: il matrimonio e la convivenza di fatto.
La Corte costituzionale, però, non ha mai ritenuto plausibile questa assimilazione ritenendo che la situazione del convivente more uxorio sia del tutto diversa da quella cui dà vita il matrimonio, essen¬do la convivenza soltanto un mero rapporto di fatto, privo del carattere della stabilità, suscettibile di venir meno in qualsiasi momento e improduttivo di quei diritti e doveri reciproci nascenti dal matri¬monio e propri della famiglia legittima. La diversità che caratterizza la convivenza more uxorio – fon¬data sull’affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile – rispetto al rapporto coniugale caratterizzato da stabilità e certezza giuridica e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri- è tale, secondo la Corte costituzionale, da impedire l’automatica parificazione delle due situazioni, ai fini di una identità di trattamento fra i rispettivi regimi giuridici. La famiglia di fatto, quindi, non può essere ricondotta nell’ambito della protezione offerta dall’art. 29 della Costituzione (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”) e quindi non è di per sé incostituzionale la mancata estensione alla famiglia di fatto della disciplina giuridica prevista per la famiglia coniugale. Convivenza more uxorio e matrimonio sono dunque due situazioni diverse.
Questo punto di vista – pur mai espressamente affermato dalla Corte costituzionale con riferimen¬to al penultimo comma dell’art. 5 della legge sul divorzio che dispone, come detto, la cessazione del diritto al mantenimento coniugale nel caso di nuove nozze – è stato, però, sistematicamente ribadito in tutte le sentenze con le quali la Corte ha negato l’estensione alla convivenza more uxo¬rio delle norme che disciplinano il rapporto coniugale.
È stata, così, esclusa l’applicabilità al convivente more uxorio della causa di giustificazione dello stato di necessità (art. 384 codice penale) di chi commette determinati reati “per salvare sé me¬desimo o un prossimo congiunto dal pericolo di un grave e inevitabile nocumento nella libertà” perché il convivente more uxorio non può essere omologato al “prossimo congiunto” (Corte cost. 18 novembre 1986, n. 237; Corte cost. 18 gennaio 1996, n. 8).
È stata esclusa l’estensione al convivente more uxorio della causa di non punibilità prevista nell’art. 649 del codice penale per i reati contro il patrimonio commessi in danno del proprio coniuge (Cor¬te cost. 17 aprile 1988, n. 423; Corte cost. 25 luglio 2000, n. 352).
Si è esclusa la possibilità di parificare il convivente more uxorio al coniuge nella successione le¬gittima (Corte cost. 26 maggio 1989, n. 310) o per ciò che concerne il requisito del rapporto matrimoniale da oltre tre anni previsto per gli adottanti nell’originario testo della legge 4 maggio 1983, n. 184 sull’adozione dei minori (Corte cost. 6 luglio 1994, n. 281). Questa norma è stata poi modificata dal legislatore consentendo di tenere conto nel triennio in questione anche della eventuale convivenza che abbia preceduto il matrimonio.
È stato escluso che la sospensione della prescrizione tra coniugi prevista nell’art. 2941 codice civile possa essere applicata anche alla convivenza more uxorio (Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2).
Si è escluso che per i conviventi possano trovare applicazione le regole processuali della separa¬zione coniugale (Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166).
Si è affermato che il divieto di espulsione dello straniero coniugato, salvo che per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 17 legge 6 marzo 1998, n.40, attuale art. 19 Testo Unico 286/1998) non vale per lo straniero convivente more uxorio (Corte cost. 20 luglio 2000, n. 313).
Si è escluso che il convivente more uxorio abbia diritto alla pensione di reversibilità prevista per il coniuge (Corte cost. 3 novembre 2000, n. 461) anche se, in caso di più beneficiari, la quota di pensione di reversibilità all’ex coniuge titolare di assegno divorzile può anche essere conteggiata tenendo conto dell’eventuale periodo di convivenza more uxorio con il coniuge deceduto (Corte cost. 14 novembre 2000, n. 491).
Si è escluso che in caso di cessazione della convivenza more uxorio possa succedere al conduttore il convivente rimasto ad abitare nell’immobile (Corte cost. 11 luglio 2003, n. 204; Corte cost. 14 gennaio 2010, n. 7: diritti oggi però riconosciuti al dalla legge 20 maggio 2016, n. 765) men¬tre Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404 aveva ammesso il convivente more uxorio a succedere nel contratto di locazione in caso di morte del conduttore (quando vi sono figli: oggi anche senza figli secondo quanto previsto nella legge 20 maggio 2016, n. 76).
Pertanto si può concludere che in base all’orientamento consolidato della Corte costituzionale sulla impossibilità di considerare la convivenza more uxorio assimilabile al matrimonio, non è ipotizza¬bile che la convivenza more uxorio del beneficiario dell’assegno divorzile possa determinare auto¬maticamente, come le nuove nozze, la cessazione del diritto al mantenimento divorzile.
II La rilevanza della convivenza di fatto del beneficiario dell’assegno divorzile
È stata la giurisprudenza a riconoscere gradualmente rilevanza giuridica alla convivenza di fatto intrapresa dal beneficiario dell’assegno divorzile.
Tale rilevanza si è espressa all’inizio con il principio che la convivenza more uxorio, nella misura in cui può ridurre lo stato di bisogno di chi percepisce l’assegno divorzile, può portare ad una ridu¬zione dell’importo dell’assegno. Successivamente con il principio che l’assegno divorzile entra in uno stato di quiescenza ed infine, come la giurisprudenza più recente sostiene, che la convivenza di fatto possa portare ad una revoca definitiva del diritto all’assegno divorzile.
a) La giurisprudenza sulla possibile riduzione dell’assegno in caso di convivenza more uxorio del beneficiario
Occorre subito osservare che sul tema dei rapporti tra convivenza more uxorio e assegno di divor¬zio la giurisprudenza non ha mai dato rilevanza alla convivenza non duratura. Si è affermato a tale proposito che la convivenza del coniuge con altre persona, avente carattere occasionale o temporaneo, non incide di per sé direttamente ed in astratto sull’assegno di man¬tenimento (Cass. civ. Sez. I, 25 novembre 2010, n. 23968 in un caso in cui la convivenza era addirittura durata solo cinque mesi) in quanto la convivenza “occasionale” o “temporanea” con un terzo non consente di presumere il miglioramento delle condizioni economiche di chi conviva con lo stesso e a ritenere la stessa da sola sufficiente ad esonerare il coniuge dal contributo di mante¬nimento (Cass. civ. Sez. I, 10 novembre 2006, n. 24056).
Nonostante la chiarezza di queste decisioni, si comprende bene dal loro contenuto come la que¬stione centrale non sembra essere tanto la breve durata della convivenza more uxorio, quanto la inidoneità di una convivenza non stabile nel migliorare le condizioni economiche del convivente beneficiario dell’assegno divorzile.
Questa stretta connessione tra convivenza more uxorio e miglioramento economico del convivente beneficiario del mantenimento divorzile emerge molto chiaramente in Cass. civ. Sez. I, 10 ago¬sto 2007, n. 17643 secondo cui il diritto all’assegno di divorzio non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra per¬sona, ma tale convivenza può influire sulla misura dell’assegno riducendone l’importo, ove si dia la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza influisce in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto.
L’impostazione alla quale queste sentenze si richiamano è molto chiara. Nella misura in cui si prova che la convivenza more uxorio (con persona per esempio benestante) abbia determinato un miglioramento delle condizioni economiche del convivente titolare dell’assegno divorzile (o di separazione) è consentito al giudice ridurre l’assegno di mantenimento che grava sull’obbligato (Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1096; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709; Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593; Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2007, n. 14921; Cass. civ. Sez. I, 9 febbraio 2002, n. 13060) oppure addirittura azzerarlo se, in connessione con la convivenza more uxorio, è venuto meno del tutto lo stato di bisogno di chi ne godeva (Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328).
Il principio di fondo cui questo orientamento si ispira è sintetizzato da una notissima – e molto spessa richiamata – decisione (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024) dove si afferma che “la prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente more uxorio, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione”.
Già anni prima decisioni analoghe nel contenuto avevano espresso autorevolmente in sostanza gli stessi principi (Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1993, n. 4761; Cass. civ. Sez. I, 17 ottobre 1989, n. 4158 ed altre).
In questa originaria prospettiva interpretativa sono due, pertanto i presupposti in virtù dei quali potrebbe essere attribuita rilevanza alla convivenza more uxorio sull’assegno divorzile.
Il primo presupposto è certamente la stabilità della convivenza che deve quindi essere non una convivenza occasionale ma di una certa solidità e durata tale da potersi parlare di famiglia di fatto. Altrimenti la stessa condizione di miglior benessere che ne ricava il convivente titolare dell’assegno sarebbe connotata dall’incertezza e dalla precarietà.
Serve, però un secondo presupposto (esplicitamente messo in evidenza da tutte le sentenze sopra ricordate) e cioè che la convivenza more uxorio apporti al convivente titolare dell’assegno divorzile un miglioramento delle condizioni economiche tale da ridurre o azzerare la situazione di bisogno o da comportare un risparmio di spesa e perciò idonea a costituire motivo di ridimensionamento o di cessazione dell’obbligazione di mantenimento.
L’orientamento di cui si è detto va considerato superato, come ora si dirà, dalle decisioni che su questo tema la giurisprudenza della Corte di cassazione ha adottato negli ultimi anni orientandosi verso l’assimilazione della famiglia di fatto alla famiglia fondata sul matrimonio.
b) La giurisprudenza innovativa sulla quiescenza dell’assegno nel caso in cui il benefi¬ciario costituisca una stabile “famiglia di fatto”
Alla fine degli anni novanta fece un certo scalpore una decisione della Corte di cassazione (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503), allora del tutto isolata, in una vicenda in cui la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la donna, successivamente alla separazione, aveva intrattenuto una convivenza sia pure non stabile con altro uomo, a seguito della quale era anche nato un figlio.
La Cassazione annullò la sentenza affermando il principio secondo cui, nel caso in cui alla convi¬venza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevan¬te sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati. Sulla base di questo principio la Corte chiese al giudice di rinvio di accertare se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito.
La decisione restò, come detto, allora isolata, ma era chiaro che stava nascendo un orientamento che– superando l’interpretazione severa della Corte costituzionale più sopra esaminata – faceva leva sulla assimilabilità al matrimonio della famiglia di fatto “che ha soppiantato – così si scriveva in quella sentenza – la convivenza more uxorio, e ancor di più il concubinato… La diffusione del fenomeno della famiglia di fatto pone l’esigenza di rivalutare il matrimonio-rapporto, da tenere ben distinto dal matrimonio-atto, in funzione della rilevanza di un’autonoma formazione sociale che si sviluppa anche in assenza di un momento iniziale di spessore istituzionale. Il mutato atteggiamen¬to nei confronti della convivenza stabile scaturisce da una pluralità di esigenze: quella di tutelare il rapporto di coppia e di regolamentare i connessi profili patrimoniali, e quella, del tutto diversa, ma ancor più pressante, della tutela dei figli nati fuori dal matrimonio”.
Quindi l’accento veniva messo sul matrimonio-rapporto (non sul matrimonio-atto) al quale la con¬vivenza more uxorio può assimilarsi ove abbia i caratteri della solidità e della stabilità.
Nel 2003 il tema dei rapporti tra l’assegno divorzile e la convivenza more uxorio del coniuge beneficiario veniva ripreso da un’altra sentenza (Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) che indagando il concetto di “adeguatezza dei mezzi” del coniuge richiedente l’assegno – cui fa riferimento l’art. 5 della legge sul divorzio per ricollegarvi il diritto o meno al mantenimento divor¬zile – affermava che “fra i fattori capaci di incidere su tale nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico) fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esistenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convivenza) – ogni plausibile connes¬sione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi”.
Per la prima volta si dava rilievo molto esplicito alla famiglia di fatto del coniuge beneficiario del diritto al mantenimento, quale elemento che avrebbe potuto “escludere ogni presupposto per il riconoscimento dell’assegno divorzile”. Il fatto di vivere in una nuova famiglia, in altre parole, ta¬glia ogni collegamento con il tenore di vita goduto nel corso del precedente matrimonio venendo meno la plausibilità di mantenere attraverso l’assegno un collegamento con la precedente vita matrimoniale.
Per alcuni anni non vi furono più decisioni significative sul punto o che richiamavano la decisione di cui si è sopra detto.
Nel 2011 giunse all’attenzione dei giudici della Cassazione una vicenda nella quale la Corte d’ap¬pello di Roma, a modifica di quanto aveva stabilito il tribunale di Roma, aveva concesso un as¬segno divorzile ad una donna che aveva in corso da anni una stabile convivenza more uxorio. La Cassazione annullò la decisione (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195) ribadendo da un lato il principio secondo cui “la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento” ma aggiungendo che ove “tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poi¬ché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso”.
I principi di questa importante decisione – che come detto si riallacciava al precedente del 2003 – sono stati ripresi e ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 nella cui motivazione si legge che” recentemente (Cass., 11 agosto 2011, n. 17195), si è sostenuto che, in caso di ces¬sazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. Si è precisato che in detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
La nozione di famiglia di fatto – continua la sentenza – richiede, tuttavia, al fine di considerare rescissa – sia pure temporaneamente – ogni connessione con il tenore ed il modello di vita carat¬terizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, che i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimo¬nio). Si richiede, pertanto, un arricchimento e un potenziamento reciproco della personalità dei conviventi, la trasmissione di valori educativi ai figli, per altro ormai quasi del tutto assimilati a quelli legittimi.
In definitiva – concludono i giudici – in base al richiamato orientamento di questa Corte, non è sufficiente l’instaurazione di un rapporto di mera convivenza, essendo necessario, per il fine che qui interessa, che la stessa assuma i caratteri di una vera e propria famiglia di fatto. Del resto, questa Corte aveva da tempo affermato che, ove la convivenza more uxorio si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità, tanto da venire ad assumere i connotati della c.d. “famiglia di fatto”, connotata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e modelli di vita (per ciò stesso anche economici), il parametro di valutazione dell’”adeguatezza” dei mezzi economici a disposizione dell’ex conìuge non possa che registrare una tale evoluzione, recidendo – finchè duri tale convivenza e ferma rimanendo, in questa fase la perdurante rilevanza del solo eventuale “stato di bisogno” in sé, ove “non compensato” all’interno della convivenza – ogni plau¬sibile connessione con il tenore ed il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, e – con ciò stesso – ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione di esso (Cass., 8 agosto 2003, n. 11975)”.
Questo orientamento ha trovato conferma in altre recenti decisioni.
Per esempio Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 si è occupata di una vicenda piutto¬sto singolare. Un avvocato aveva chiesto la liquidazione del compenso per attività professionale prestata a favore di una donna in una causa civile di risarcimento per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Il giudice aveva rigettato la richiesta sul presupposto che la donna, non essendo coniugata con l’uomo che le aveva asseritamente arrecato danno, non avrebbe avuto diritto alla tutela dell’art. 570 codice penale. L’avvocato presentava al Presidente del tribunale il reclamo previsto dal Testo Unico sulle spese di giustizia ma anche il Presidente gli dava torto e quindi ricorreva per cassazione la quale accoglieva il suo ricorso sostenendo nella motivazione che “la violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla ir¬rinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo. Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Tra l’altro attribuendo rilievo – notano i giudici – ai fini della quiescenza del diritto all’assegno di man¬tenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto. Né può, infine, sottacersi l’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, fornita dalla Corte EDU, che ha chiarito che la nozione di famiglia cui fa riferimento tale disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio”.
Molto esplicito nel senso di prevedere l’insussistenza di un diritto all’assegno divorzile da parte del coniuge che abbia instaurato una convivenza di fatto è Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 che ha ribadito il principio secondo cui in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni pre¬supposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.
Si deve fare attenzione all’espressione usata nella sentenza: la Corte afferma che il beneficiario dell’assegno perde il diritto “quand’anche non definitivamente”.
Il principio è stato ribadito anche nella giurisprudenza di merito (App. Bologna Sez. I, 2 marzo 2015 che parla di interruzione “ma in via non definitiva dal momento che la nuova convivenza potrebbe cessare così comportando una riviviscenza dello stesso assegno solo momentaneamente non dovuto”; Trib. Torre Annunziata, 10 marzo 2014 dove si afferma che la cessazione del di¬ritto all’ assegno divorzile non è definitiva, potendo la nuova convivenza anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’ assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza).
Quindi la giurisprudenza ha unanimemente affermato fino al 2013 il principio che la convivenza di fatto caratterizzata da serietà e stabilità costituisce motivo di quiescenza dell’assegno divorzile.
c) La giurisprudenza attuale sulla definitività del venir meno del diritto all’assegno in caso di “stabile” convivenza di fatto
Si deve a Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 l’affermazione che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta defi¬nitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero defi¬nitivo da ogni obbligo.
Quindi secondo questo nuovo orientamento la formazione di una nuova famiglia di fatto da parte del coniuge divorziato determina la perdita definitiva dell’assegno divorzile di cui il medesimo beneficiava. La perdita dell’assegno è definitiva e non si realizza una fase di quiescenza (che può terminare con la fine della convivenza). Infatti, una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli deve essere caratterizzata dalla assunzione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi (ferma restando evidentemente la permanenza di ogni obbligo verso i figli).
Il principio viene ribadito poi da Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 settembre 2015, n. 17856 dove si af¬ferma che l’instaurazione da parte del coniuge separato di una convivenza more uxorio che, carat¬terizzandosi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità, dia luogo alla formazione di una famiglia di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità a suo favore dell’assegno di separazione.
In seguito si adeguano all’orientamento Cass. civ. Sez. VI – 1, 16 novembre 2015, n. 23411
Molto chiare Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2016, n. 2466; Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 lu¬glio 2017, n. 18111 e Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 settembre 2016, n. 19345 secondo cui l’in¬staurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso.
Secondo Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 maggio 2017, n. 12879 con l’instaurazione di una convi¬venza stabile e caratterizzata dalla relazione affettiva cessa l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile per effetto della cessazione della solidarietà che caratterizza i rapporti tra gli ex coniugi.
Ugualmente secondo Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25074 in caso di intervenuta convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario, la convivenza non dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio e come tale in grado di far venire meno il diritto all’ assegno di mantenimento ove adeguatamente motivato è incensurabile in sede di giudizio di legittimità.
Ultimamente il principio è stato riaffermato in Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 febbraio 2018, n. 2732 secondo cui la scelta dell’ex coniuge di costituire una convivenza more uxorio stabile e duratura, all’evidenza ben diversa da una mera coabitazione tra soggetti estranei, fa venir meno definitiva¬mente il diritto all’ assegno.
III La coabitazione come primo presupposto della convivenza di fatto rilevante
La legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso ses¬so e disciplina delle convivenze) all’art. 1, comma 36, prevede che “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per: «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabil¬mente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” .
Benché questa definizione di “convivenza di fatto” sia espressamente data “ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67” essa può essere utile per determinare i requisiti di stabilità che la con¬vivenza di fatto deve avere, anche ai fini della questione che qui si esamina e cioè della rilevanza della convivenza di fatto dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile ai fini della perdita dell’assegno stesso.
Il primo presupposto è quello del convivere. Infatti la convivenza (il vivere insieme), ancorché per motivi diversi possa naturalmente non essere continuativa, costituisce un elemento impre¬scindibile, sebbene naturalmente il legislatore non abbia previsto – né avrebbe certamente potuto prevedere – che alla decisione di vivere insieme possa conseguire un obbligo di coabitazione, simmetricamente a quanto previsto per l’obbligo di coabitazione coniugale o nell’unione civile. Pur non avendo un obbligo di coabitazione, tuttavia i conviventi di fatto sono secondo la legge 76/2016 quelli che coabitano insieme e cioè che hanno una medesima dimora abituale nello stesso Comune come chiarisce bene il comma 37 che, ai fini dell’individuazione dell’inizio della “stabile conviven¬za”, fa riferimento agli articoli 4 e 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repub¬blica 30 maggio 1989, n. 223. Effettivamente l’elemento della necessaria coabitazione emerge da quanto previsto nell’art. 4 del regolamento anagrafico (DPR 30 maggio 1989, n. 223 come modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) dove si precisa che agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, “coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”.
La stessa giurisprudenza di legittimità ha bene enfatizzato questa condizione di comunanza e di vicinanza affettiva (Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214; Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) affermando che per potersi parlare di convivenza di fatto more uxorio – nello specifico ai fini della tutela possessoria – è necessaria la presenza di una situazione interpersonale di natura affettiva con carattere di tendenziale stabilità, con un minimo di durata temporale e che si esplichi “in una comunanza di vita” e di interessi.
Pertanto per parlarsi di “convivenza di fatto” non è sufficiente che due persone si vogliano bene senza convivere stabilmente sotto lo stesso tetto. La famiglia di fatto non si forma tra persone che hanno legami sentimentali o anche rapporti continuativi sessuali, ma che per motivi diversi non decidono di abitare stabilmente insieme. Anche due persone che abbiano un figlio comune e che quindi esercitano la responsabilità genitoriale non sono “famiglia di fatto” se non convivono stabil¬mente. È perciò necessario per parlarsi di “convivenza di fatto” rilevante che vi sia l’elaborazione di un progetto di vita che – analogamente al matrimonio o all’unione civile – si fonda sulla decisione di costituire una famiglia. Che si tratti, come detto, di eterosessuali o di persone dello stesso sesso non rileva. Ciò che conta è la decisione di “metter su famiglia”.
IV Il presupposto della “stabilità” della convivenza
Come si è visto, in giurisprudenza l’elemento della stabilità della convivenza è sempre stato consi¬derato imprescindibile ai fini dell’applicazione dei principi elaborati nell’ambito della questione dei rapporti tra convivenza di fatto e assegno divorzile (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503 in cui si afferma il principio secondo cui, nel caso in cui alla convivenza “more uxorio” siano ricon¬nesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati; Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 secondo cui ha rilevanza la sola convivenza “more uxorio”, che si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto”; Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 che ribadisce la rilevanza della sola convivenza che assume i conno¬tati di stabilità e continuità, con la quale i conviventi instaurano tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio; Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 che dà rilievo anch’essa alla sola convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. Si è precisato che in detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza; Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 che parla di famiglia, ancorché di fatto, caratterizzata da serietà e stabilità; Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25074 secondo cui è convivenza di fatto soltanto quella dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio; App. Bologna Sez. I, 19 febbraio 2015 dove si parla di comune residenza dei conviventi che consente di poter individuare nel rapporto di fatto in essere una regolarità di condotta ed una condivisione di modelli di vita tale da poter essere definito quale “famiglia di fatto”, ciò che esclude quindi quanto sia riconducibile ad occasionalità, casualità, transitorietà).
Quanto deve durare la convivenza per essere considerata stabile?
a) La giurisprudenza sul concetto di “stabilità” del matrimonio
La giurisprudenza ha affrontato il problema della “stabilità” del rapporto (sia pure “matrimoniale” e non di “convivenza”), con riferimento al tema della delibazione delle sentenze ecclesiastiche1
1 Cfr la voce DELIBAZIONE DELLE SENTENZE ECCLESIASTICHE che dichiarano la nullità del matrimonio e ha precisato che la convivenza matrimoniale per un periodo minino di tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, se eccepita dal convenuto nel giudizio di delibazione, impedisce la delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio con¬cordatario (Cass. civ. Sez. unite, 17 luglio 2014, n. 1637). Nella sentenza si afferma che la convivenza “come coniugi” deve intendersi quale elemento essenziale del “matrimonio – rapporto”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari. Tale convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolar¬mente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordi¬narie, di “ordine pubblico italiano” e, pertanto, anche in applicazione dell’art. 7 Cost., comma 1, e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’”ordine canonico” nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.
Secondo le Sezioni Unite la nozione di “convivenza coniugale” richiede una duplice specificazione per la sua corretta individuazione sul piano giuridico. Tali specificazioni riguardano: l’”esteriorità” – o, più precisamente, la sua “riconoscibilità esteriore” – e la determinazione, secondo ragionevo¬lezza, del periodo di tempo necessario perché essa possa qualificarsi “stabile”.
Quanto alla prima specificazione, concernente l’”esteriorità” della convivenza coniugale, è suffi¬ciente osservare che la convivenza coniugale deve essere esteriormente riconoscibile attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondano in modo non equivoco e, perciò, essere anche dimo¬strabile in giudizio, da parte dell’interessato, mediante idonei mezzi di prova, ivi comprese le pre¬sunzioni semplici assistite dai noti requisiti di cui all’art. 2729 c.c., comma 1.
Quanto alla seconda specificazione, concernente la “stabilità” della convivenza, v’è da osservare, innanzitutto, che tale qualità non è temporalmente determinata. Appare indispensabile indivi¬duare, secondo diritto e ragionevolezza, il periodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio, trascorso il quale dalla convivenza coniugale con dette caratteristiche può legittimamente inferirsi anche una piena ed effettiva “accettazione del rapporto matrimoniale”, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l’”atto” di matrimonio, che si considerano perciò “sanati” dall’accettazione del rapporto. E’ proprio questa – il favor ma¬trimonii, conseguente alla consapevole, piena ed effettiva assunzione e prosecuzione del rapporto matrimoniale -, in sostanza, la ratio sottesa a quelle norme del codice civile che sanciscono la decadenza dalle azioni di annullamento del matrimonio (art. 119, comma 2, art. 120, comma 2, art. 122, comma 4), allorquando, venute meno le cause del vizio dell’atto (revoca dell’interdizione, recupero della “capacità naturale”, cessazione della violenza morale, scoperta dell’errore), “vi è stata coabitazione per un anno”. Norme queste, relativamente alle quali è significativo notare – nel senso della valorizzazione del fatto della “coabitazione successiva” – il progressivo ampliamento del termine di decadenza da parte del legislatore: da quello di un mese del codice civile del 1865 a quello di tre mesi del codice del 1942, fino all’attuale termine di un anno stabilito dalla riforma del diritto di famiglia del 1975.
E la medesima ratio sta anche alla base dell’art. 123 – concernente gli accordi simulatori degli sposi relativi al contraendo matrimonio -, il quale, al secondo comma, stabilisce che “L’azione di annullamento non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”. La differenza di tale fattispecie rispetto alle precedenti sta in ciò, che – trattandosi di accordi simulatori convenuti da entrambi gli “sposi” prima del matrimonio, ed esclusivamente “tra gli stessi”, senza coinvolgimento di terzi – la decadenza dall’azione di annullamento per ciascuno dei coniugi è individuata o nel decorso del termine di un anno dalla “celebrazione del matrimonio”, oppure – sine die – “nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”: ciò, in quanto il legislatore ha ritenuto che il tempo di un anno dalla celebrazione del matrimonio o la “convivenza come coniugi” dopo tale data siano fatti idonei a far legittimamente presumere il sopravvenuto consenso degli stessi sull’inefficacia di detti accor¬di. L’elemento comune sta, invece, nella valorizzazione – espressa più nitidamente nell’art. 123, comma 2, alla luce delle considerazioni che precedono – della capacità “sanante” dei vizi genetici (accordi simulatori) dell’atto matrimoniale, attribuita proprio alla “convivenza come coniugi”.
Ciò posto, affermano le Sezioni Unite, resta da individuare la ragionevole durata della convivenza coniugale, decorrente dalla data di celebrazione del matrimonio, idonea a far legittimamente pre¬sumere la raggiunta stabilità del rapporto matrimoniale: “al riguardo, il Collegio ritiene di poter prendere a riferimento la legge 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo 8 del libro primo del codice civile), secondo i quali: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto (…). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto” (cfr. anche la stessa L. n. 184 del 1983, art. 29 – bis, comma 1, che richiede per gli adottanti, ai fini dell’adozione internazionale, le medesime condizioni soggettive di cui all’art. 6).
Il testo originario della L. n. 184 del 1983, art. 6, comma 1, prevedeva: “L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni tra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che in¬tendono adottare”.
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, in riferimento all’art. 2 Cost., di tale disposizione originaria – nella parte (rimasta sostanzialmente immutata) in cui dispone (va) che, ai fini dell’idoneità ad adottare, i coniugi aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, in un caso in cui tali coniugi vantavano una convivenza prematrimoniale di dieci anni, con la sentenza n. 281 del 1994, nel dichiarare non fondata tale questione, ha affermato, tra l’altro, che la norma censurata “è coerente col principio, riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 89/1993; n. 310/1989; n. 404/1988; nn. 198 e 237 del 1986; n. 11/1981; n. 45/1980), secondo cui l’i¬stituto dell’adozione è finalizzato alla tutela prevalente dell’interesse del minore. Tale principio comporta, fra l’altro, che, ai fini della complessa opera di selezione dei soggetti idonei a svolgere il delicatissimo compito di educare ed accogliere un bambino abbandonato, costituisce criterio fondamentale quello che la doppia figura genitoriale sia unita dal “vincolo giuridico che garantisce stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto”(sentenza n. 310 del 1989)”; ha inoltre sostanzialmente avallato “la scelta adottata dal legislatore italiano, che, al pari di numerosi legislatori Europei, intende il matrimonio, a tal fine, non solo come “atto costitutivo” ma anche come “rapporto giuridico “, vale a dire come vincolo raf-forzato da un periodo di esperienza matrimoniale, in cui sia perdurante la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri”; ed ha precisato infine che “il criterio dei tre anni successivi alle nozze si configura come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale(…)” (n. 2. del considerato in diritto; da notare che l’introduzione del comma 4 dell’art. 6 ad opera della L. n. 149 del 2001, art. 6, comma 1, deriva proprio dalle osser¬vazioni svolte dalla Corte, nel n. 4. del considerato in diritto, favorevoli alla prolungata convivenza prematrimoniale, stabile e continuativa, come requisito legittimante all’adozione).
Dalla piana lettura del su riprodotto vigente testo della legge n. 184 del 1983, art. 6, commi 1 e 4, e delle affermazioni della Corte costituzionale ora riportate risulta del tutto evidente, naturalmente mutatis mutandis, la loro ragionevole riferibilità anche alla fattispecie in esame: a ben vedere, con¬vergono infatti in tal senso tutti gli argomenti fondati sia sulla distinzione tra “matrimonio – atto” e “matrimonio – rapporto”, sia sugli elementi essenziali del rapporto matrimoniale come sintesi di diritti, di doveri e di responsabilità, sia sulla valorizzazione della convivenza coniugale con le indi¬viduate caratteristiche, segnatamente di “stabilità” e di “continuità”, sia e soprattutto – per quanto ora specificamente rileva – sul “criterio dei tre anni successivi alle nozze” quale “requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale”.
Tutte le considerazioni che precedono consentono, perciò, di affermare in modo compiuto che la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disci¬plinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
b) La “stabilità” della convivenza di fatto secondo la legge 20 maggio 2016, n. 76
Potrebbe essere del tutto ragionevole ipotizzare, da quanto si è sopra detto con riferimento al tema della convivenza matrimoniale, che anche con riguardo al problema della individuazione del periodo minimo necessario per parlarsi di convivenza “stabile” possa essere adottato il termine triennale individuato dalle Sezioni Unite per riferirsi al periodo minimo di convivenza coniugale (matrimonio-rapporto) cui consegue il rigetto della domanda di delibazione della nullità matrimo¬niale.
Ciononostante, ai fini del requisito della “stabilità” della convivenza, può essere utile riferirsi anche alla legge 20 maggio 2016, n. 76 che non indica una durata minima ma contiene alcune indicazioni da cui desumerla.
Vi è, infatti, un elemento normativo nella nuova legge che depone per una interpretazione che considera la durata minima di due anni per potersi parlare di “stabile” convivenza.
Infatti il comma 42 dell’art. 1 della legge 76/2016 sul diritto del convivente superstite a continua¬re ad abitare nella casa familiare (di proprietà del convivente deceduto) prevede che egli abbia il diritto di continuare ad abitarvi “per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni” con ciò lasciando intendere che anche solo due anni di convivenza possano costituire un periodo sufficiente all’attribuzione del diritto.
Pertanto, ferma la validità dei principi elaborati dalla giurisprudenza, deve concludersi che il requi¬sito della stabilità della convivenza resta integrato certamente – secondo la legge 20 maggio 2016, n. 76 – anche solo da una durata minima di due anni di convivenza.
c) La prova della convivenza stabile
Come si prova la convivenza?
Se la convivenza non risultasse all’anagrafe della popolazione residente del Comune, gli interessati la potranno provare con ogni altro mezzo.
La legge 76/2016 indica il criterio legale di prova relativo alla convivenza e all’inizio della convivenza 2
2 Art. 1, comma 37. “Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”. (così come della sua cessazione) ma non esclude che la convivenza in sé possa essere provata an¬che in altro modo. Così come si potrà provare naturalmente che la convivenza non sussiste ove non fossero state effettuate le previste dichiarazioni di mutazione previste dal regolamento anagrafico.
L’iscrizione all’anagrafe determina solo un elemento di prova della convivenza e del suo inizio.
Un problema analogo si è posto e continua a porsi nell’applicazione dell’art. 5 della legge 4 maggio 1983, n. 184 che, dopo aver previsto per le coppie aspiranti all’adozione piena il requisito dell’es¬sere uniti in matrimonio da almeno tre anni senza che sia intervenuta separazione personale nep¬pure di fatto, aggiunge che tale requisito di stabilità del rapporto “può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto”. Uno dei modi per accertarla è appunto la dichiarazione all’anagrafe prevista già da tempo nel regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
L’“iscrizione” anagrafica (a norma degli articoli 4 e 33 del regolamento anagrafico n. 223/198) co¬stituisce non il presupposto per l’accesso ad una condizione giuridica specifica ma solo un elemen¬to probatorio ai fini dell’individuazione dell’inizio della stabile convivenza. Pertanto i diritti e doveri previsti nella legge scattano unicamente per il fatto di trovarsi in una condizione di convivenza di fatto stabile.
Pertanto la prova della convivenza ed anche del suo inizio può essere certamente raggiunta legal¬mente attraverso le certificazioni anagrafiche alle quali si è fatto riferimento ma, in assenza, anche con ogni mezzo idoneo.
Secondo Trib. Milano Sez. IX, 31 maggio 2016 la prova della convivenza può ricavarsi cer¬tamente dal certificato anagrafico che attesta lo stato di famiglia, ma avendo la convivenza una natura “fattuale”, e cioè traducendosi in una formazione sociale non esternata dai partners a mezzo di un vincolo civile formale, la dichiarazione anagrafica è strumento privilegiato di prova e non anche elemento costitutivo della convivenza medesima e pertanto è richiesta dalla legge n. 76 del 2016” per l’accertamento della stabile convivenza” ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale.
CONVIVENZA DI FATTO E ASSEGNO DI DIVORZIO
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 febbraio 2018, n. 2732 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La scelta dell’ex coniuge di costituire una convivenza more uxorio stabile e duratura, all’evidenza ben diversa da una mera coabitazione tra soggetti estranei, fa venir meno il diritto all’ assegno. Ciò del tutto indipendentemente dalla posizione economica di ciascun convivente.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25074 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema della cessazione dell’ assegno divorzile in caso di intervenuta convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario, la convivenza non dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio e come tale in grado di far venire meno il diritto all’ assegno di mantenimento ove adeguatamente motivato è incensurabile in sede di giu¬dizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 luglio 2017, n. 18111 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescinde ogni connes¬sione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’ assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Conseguentemente è irrilevante la successiva cessazione della convivenza giacché il collegamento con il precedente rapporto matri¬moniale è già stato reciso in modo definitivo sicché non può tornare a rivivere il precedente diritto all’ assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 maggio 2017, n. 12879 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con l’instaurazione di una convivenza stabile e caratterizzata dalla relazione affettiva cessa l’obbligo di corri¬spondere l’ assegno divorzile per effetto della cessazione della solidarietà che caratterizza i rapporti tra gli ex coniugi.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 marzo 2017, n. 6009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A fronte della pacifica ammissione del coniuge richiedente l’assegno divorzile, di aver lasciato l’abitazione coniu¬gale e di essersi stabilmente trasferita nella casa del nuovo compagno, nonché di contribuire al ménage familiare, non può fondatamente sostenersi, da parte del giudice del merito, che l’anzidetto trasferimento costituirebbe prova di una mera coabitazione e non anche di una convivenza more uxorio, in assenza di elementi idonei a distinguere la prima situazione dalla seconda. Né può ragionevolmente porsi a carico dell’obbligato l’onere di dimostrare il grado di intimità che intercorre tra la sua ex coniuge ed il nuovo compagno della stessa. (Nel caso concreto ricorre, pertanto, una ipotesi di motivazione meramente apparente, tale da integrare un’anomalia mo¬tivazionale che si traduce in una violazione di legge.)
Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 settembre 2016, n. 19345 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa veni¬re definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’ assegno divorzile a carico dell’altro coniuge.
Trib. Milano Sez. IX, 31 maggio 2016 (Famiglia e Diritto, 2017, 10, 891 nota di Pellegatta)
Con riguardo alla prova della convivenza di fatto, il fatto stesso che i conviventi abbiano avuto figli è sintomo di un habitat familiare formatosi al di fuori di un vincolo matrimoniale. La prova della convivenza può ricavarsi comunque dal certificato anagrafico che attesta lo stato di famiglia. Avendo la convivenza una natura “fattuale”, e cioè traducendosi in una formazione sociale non esternata dai partners a mezzo di un vincolo civile formale, la dichiarazione anagrafica è strumento privilegiato di prova e non anche elemento costitutivo [della convivenza medesima]. Ciò si ricava, oggi, dall’art. 1, comma 36, L. n. 76 del 2016, in materia di “regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”. La definizione normativa che il legisla¬tore ha introdotto per i conviventi è scevra da ogni riferimento ad adempimenti formali: “si intendono per “con¬viventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. In altri termini, il convivere è un “fatto” giuridicamente rilevante da cui discendono effetti giuridici ora oggetto di regolamentazione normativa. La dichiarazione anagrafica è richiesta dalla L. n. 76 del 2016”per l’ac-certamento della stabile convivenza”, quanto a dire per la verifica di uno dei requisiti costitutivi [- cioè sul piano della prova -] ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2016, n. 2466 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniugo divorziato di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’ assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicchè il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dall’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 16 novembre 2015, n. 23411 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presenza di sperequazione economica fra coniugi non determina in maniera assoluta ed incontrastata la determinazione di un assegno divorzile in favore del più debole. Qualora sia dimostrato che lo stesso, infatti, abbia contratto una nuova relazione more uxorio, iniziando una convivenza ed acquistando un nuovo immobile contraendo un mutuo cointestato con la nuova compagna, l’obbligo di corrispondergli l’ assegno divorzile viene senz’altro meno.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 settembre 2015, n. 17856 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniuge separato di una convivenza more uxorio che, caratterizzandosi per i conno¬tati della stabilità, continuità e regolarità, dia luogo alla formazione di una famiglia di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità a suo favore dell’assegno di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 553 nota di FERRANDO)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa veni¬re definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’ assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consape¬vole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
App. Bologna Sez. I, 2 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di corresponsione dell’ assegno di divorzio , deve ritenersi che lo stesso versi in una sorta di stato di quiescenza nel caso in cui uno dei coniugi instauri una famiglia ancorché di fatto. Ne consegue che il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi e trasfuso nell’ assegno suddetto, si riterrà interrotto ma in via non definitiva dal momento che la nuova convivenza potrebbe cessare così comportando una riviviscenza dello stesso assegno solo momentaneamente non dovuto.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 luglio 2014, n. 16379 (Foro It., 2015, 2, 1, 588)
La convivenza tra i coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio, intesa come consuetudine di vita coniu¬gale, stabile e continua nel tempo, esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti fatti specifici e compor¬tamenti dei coniugi e che si sia protratta per almeno tre anni, è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico inter¬no, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, qualunque ne sia il vizio.
Trib. Torre Annunziata, 10 marzo 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’ assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto; la conseguente cessazione del diritto all’ assegno divorzile, a carico dell’altro coniuge, non è però definitiva, potendo la nuova convivenza , anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’ assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza.
Trib. Bologna Sez. I, 18 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza more uxorio stabile e duratura in cui si sia evoluta la condizione sentimentale dell’ex coniuge divorziato (in ispecie : della moglie), e ciò coabitando insieme alla propria prole (una figlia) con il nuovo partner, è indice presuntivo della sussistenza di una fonte di sostegno economico – con riguardo ai bisogni dell’abitazione e dei beni primari -, convergendo così nell’escludere il carattere di fondatezza dell’istanza di assegno divorzile quantomeno in termini (o nei limiti) della presenza certa di una fonte di beneficio reddituale sul piano delle ne¬cessità essenziali del vivere.
Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In questa sede di legittimità è stato anche di recente reiteratamente ed argomentatamente ribadito (cfr cass. n. 17195 del 2011; n. 3923 del 2012) il risalente principio (cfr tra le altre, cass. nn. 5560 e 11975 del 2003; nn. 3074 e 4765 del 2002) secondo cui in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessa¬zione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di que¬sti, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’in¬dividuo (v., in tal senso, Cass., sent. n. 4184 del 2012). Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Siffatto percorso è stato in qualche misura indicato, e sollecitato, dalla giurisprudenza costituzionale. Analoghe considerazioni sono alla base delle pronunce della Cassazione che hanno, tra l’altro, attribuito rilievo, ai fini della cessazione (rectius: quiescenza) del diritto all’assegno di man¬tenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto (v. sentt. n. 3923 del 2012, n. 17195 del 2011).
Trib. Milano Sez. IX, 14 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione di un rapporto stabile e duraturo di convivenza altera o rescinde la relazione con il tenore ed il modello di vita caratterizzante la pregressa convivenza matrimoniale, così invalidando anche il presupposto per la riconoscibilità di un assegno di divorzio.
Cass. pen. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti dell’art. 572 c.p., deve considerarsi famiglia ogni consorzio di persone tra cui, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione. Ne consegue che sono da conside¬rare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo.
Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214 (Giur. It., 2013, 12, 2491 nota di FERRETTI)
Per potersi parlare di convivenza di fatto more uxorio è necessaria la presenza di una situazione interpersonale di natura affettiva con carattere di tendenziale stabilità e con un minimo di durata temporale e che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. In detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quie¬scenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 (Famiglia e Diritto, 2012, 1, 25, nota di FIGONE)
La mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimen¬to. Qualora, tuttavia, tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la rico¬noscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso.
Cass. civ. Sez. I, 25 novembre 2010, n. 23968 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza del coniuge con altre persona, avente carattere occasionale o temporaneo, non incide di per sé direttamente ed in astratto sull’assegno di mantenimento.
Cass. civ. Sez. I Sent., 22 gennaio 2010, n. 1096 (Fam. Pers. Succ., 2010, 11, 754, nota di ACHILLE)
La nascita di un figlio da un altro compagno e la convivenza con quest’ultimo, non escludono, se la fase di di¬vorzio è ancora aperta, il diritto della ex moglie ad ottenere l’assegno di mantenimento. In sede di revisione possono prendersi in considerazione solo le circostanze sopravvenute e nel caso di specie non possono conside¬rarsi tali né la relazione extraconiugale né la nascita di una figlia dal nuovo compagno in quanto fatti precedenti la pronuncia di divorzio.
Corte cost. 14 gennaio 2010, n. 7 (Famiglia e Diritto, 2011, 11, 981, nota di CILIBERTO)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, 3° comma, legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede che, in caso di cessazione della convivenza more uxorio, al conduttore di immobile ad uso abitativo succeda nel contratto di locazione il convivente rimasto ad abitare nell’immobile locato, pure in mancanza di prole comune, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’eventuale nascita di un figlio non costituisce elemento di prova di per sé sufficiente e idoneo a dimostrare l’esistenza di una situazione di convivenza more uxorio tra il coniuge beneficiario dell’assegno ed un terzo, avente nel tempo i caratteri di stabilità e continuità tali, da far presumere che il beneficiario dell’assegno tragga da tale convivenza vantaggi economici che giustifichino la revisione dell’assegno medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593 (Giur. It., 2009, 5, 1155, nota di SUBRANI)
La circostanza che l’ex coniuge – titolare dell’assegno di divorzio – abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, non è idonea ad escludere automaticamente il diritto all’assegno; tale convivenza incide solo sulla misura dell’assegno qualora venga fornita la prova, da parte dell’obbligato, che la convivenza stessa, ben¬ché non assistita da garanzie giuridiche di stabilità, sia in grado di influire in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di apprezzabili risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza.
In tema di assegno di divorzio, la circostanza che il titolare abbia iniziato una convivenza more uxorio può giustificare la riduzione dell’assegno se abbia determinato un miglioramento delle sue condizioni economiche.
Cass. civ. Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17643 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione, quanto all’incidenza della convivenza “more uxorio” di un coniuge sul diritto all’as¬segno di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge, in riferimento alla persistenza delle condizioni per l’at¬tribuzione dello stesso, deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità, che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente.
Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2007, n. 14921 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 257, nota di VISALLI)
Il diritto all’assegno divorzile, in linea di principio, non può essere automaticamente negato in presenza di una convivenza “more uxorio”, rappresentando quest’ultima solo un elemento valutabile al fine di accertare se la parte che richiede l’assegno disponga o meno di mezzi adeguati rispetto al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. La convivenza more uxorio, infatti, pur ove acquisti carattere di stabilità, non dà luogo ad un obbligo di mantenimento reciproco fra i conviventi e può essere instaurata anche con persona priva di redditi o di patri¬monio, conseguentemente l’incidenza economica della convivenza deve essere valutata in relazione all’insieme delle circostanze che la caratterizzano.
Cass. civ. Sez. I, 10 novembre 2006, n. 24056 (Famiglia e Diritto, 2007, 4, 329, nota di ASTIGGIANO)
Il diritto all’assegno di divorzio non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza “more uxorio” con altra persona, influendo tale convivenza solo sulla sua misura, ove si dia la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza influisca in “melius” sulle condizioni eco¬nomiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di apprezzabili risparmi di spesa derivantigli dalla convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 (Famiglia e Diritto, 2004, 195)
Tra i fattori capaci di incidere sulla nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico). Ciò fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esistenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convivenza) – ogni plausibile connessione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi.
Corte cost. 11 giugno 2003, n. 204 (Foro It., 2003, 1, 2222)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 L. 392/78 nella parte in cui non prevede che, in caso di cessazione della convivenza more uxorio, il convivente rimasto nella detenzione dell’immobile adibito ad abitazione succeda al conduttore nel contratto di locazione anche in mancanza di prole comune, in riferimento all’art. 3 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 9 settembre 2002, n. 13060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “more uxorio” di un coniuge separato, che abbia acquisito carattere di stabilità, pur se non esclu¬de – di per sé – il diritto dello stesso all’assegno di divorzio, influisce comunque sulla determinazione della sua entità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, ai fini della determinazione della misura dell’assegno di divorzio, aveva attribuito rilievo ad una convivenza “more uxorio” di durata pari a quella del matrimonio).
Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “more uxorio” ove abbia carattere di stabilità e dia luogo, nei confronti del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, a prestazioni di assistenza economica di tipo familiare da parte del convivente, può spie¬gare rilievo, a seconda dei casi, sia sul diritto sia sulla misura dell’assegno di divorzio.
La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente “more uxorio”, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Corte cost. 14 novembre 2000, n. 491 (Nuova Giur. Civ., 2001, I, 176, nota di QUADRI)
È manifestamente infondata, con riferimento all’art. 3 cost., la q.l.c. dell’art. 9 comma 3 l. 1 dicembre 1970 n. 898, nella parte in cui, ai fini della determinazione delle quote della pensione di reversibilità, spettanti al coniuge divorziato o superstite, non esclude dal computo della durata del rapporto matrimoniale il periodo di separazione personale e non include il periodo di convivenza “more uxorio” precedente la celebrazione del secondo matrimo¬nio, in quanto non può certo ritenersi manifestamente irragionevole, l’aver accomunato convivenza coniugale e stato di separazione – costituendo quest’ultima, in conformità alla sua natura ed alle sue origini storiche, una semplice fase del rapporto coniugale – mentre rimane punto fermo di tutta la giurisprudenza costituzionale la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo; ed in quanto gli eventuali riflessi negativi del criterio della durata del matrimonio sulla posizione del soggetto economicamente più debole, possono e debbono essere superati mediante l’applicazione di altri e differenti criteri concorrenti, quale, “in pri¬mis”, quello dello stato di bisogno degli aventi titolo alla pensione di reversibilità.
Corte cost. 3 novembre 2000, n. 461 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È infondata la questione di legittimità costituzionale in riferimento agli art. 2 e 3 cost., dell’art. 13 r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, conv. in l. 6 luglio 1939 n. 1272 e dell’art. 9 commi 2 e 3 l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostitu¬ito dall’art. 13 l. 6 marzo 1987 n. 74, nella parte in cui non includono il convivente “more uxorio” tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità, ancorché la convivenza presenti i caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale. La mancata inclusione del convivente “more uxorio” tra i soggetti be¬neficiari del trattamento pensionistico di riversibilità trova infatti una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale trattamento si collega geneticamente ad un preesistente rapp-orto giuridico che nel caso “de quo” manca, con la conseguenza che la diversità delle situazioni poste a raffronto rende non illegittima una differenziata disciplina delle stesse (sent. n. 8 del 1996). Nemmeno può dirsi violato il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana in quanto la riferibilità del principio alla convivenza di fatto purché caratterizzata da un grado accertato di stabilità (sentt. n. 310 del 1989 e 237 del 1986) non comporta un necessario riconoscimento al convivente del trattamento pensionistico di riversibilità, che non appartiene certo ai diritti inviolabili dell’uomo presidiati dall’art. 2 cost.
Corte cost. 25 luglio 2000, n. 352 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice penale, nella parte in cui non stabilisce la non punibilità dei reati previsti dal titolo XIII del libro II dello stesso codice commessi in danno del convivente “more uxorio”. Non è infatti irragionevole od arbitrario che – particolarmente nella disciplina di cause di non punibilità, quale quella in esame, basate sul “bilanciamento” tra contrapposti interessi (quello alla repressione degli illeciti penali e quello del valore dell’unità della famiglia, che potrebbe essere pregiudicato dalla repressione) – il legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’art. 29 della Costituzione, e per la convivenza “more uxorio”: venendo in rilievo, con riferimento alla prima, a differenza che rispetto alla seconda, non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive individuali, ma anche quella della protezione dell’”istituzione familiare”, basata sulla stabilità dei rapporti, di fronte alla quale soltanto si giustifica l’affievolimento della tutela del singolo componente. Né rileva in contrario la (peraltro non totale) parificazione del convivente al coniuge riguardo alla facoltà di asten¬sione dalla testimonianza, operata dall’art. 199 cod. proc. pen., non potendosi far discendere dalla norma così invocata dal giudice “a quo” come termine di raffronto un principio di assimilazione dotato di “vis” espansiva fuori del caso considerato.
Corte cost. 20 luglio 2000, n. 313 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ritenuto che il Pretore di Vibo Valentia, con ordinanza emessa il 12 marzo 1999, ha sollevato questione di legit¬timità costituzionale dell’art. 17 della legge 6 marzo 1998, n. 40, comma 2, lett. c) (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero convivente more uxorio con un cittadino italiano, per violazione dell’art. 3 della Costituzione (ora 19 Testo Unico 286/1998).
Non è consentito estendere alla convivenza di fatto, attraverso un semplice giudizio di equivalenza, la disciplina prevista per la famiglia legittima, costituendo il primo un rapporto privo dei caratteri della stabilità e della cer¬tezza, nonché della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri, nascenti soltanto dal matrimonio, in seno, appunto, alla famiglia legittima.
Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166 (Nuova Giur. Civ., 1998, I, 678, nota di FERRANDO)
La convivenza “more uxorio” rappresenta l’effetto di una scelta di libertà dalle regole costruite dal legislatore per il matrimonio, donde l’impossibilità, pena la violazione della libera determinazione delle parti, di estendere alla famiglia di fatto, per la diversità delle situazioni raffrontate, le regole anche processuali connesse all’istituto matrimoniale; pertanto, è manifestamente infondata, in relazione agli art. 2, 3, 24 e 30 cost. la questione di costituzionalità del combinato disposto degli art. 151 comma 1 e 155 c.c., nella parte in cui, per l’appunto, non consente l’applicabilità alla cessazione della convivenza di fatto degli art. 706-709 c.p.c., dettati per il caso di separazione dei coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 333, nota di DE PAOLA)
Nel caso in cui alla convivenza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che con¬ferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati ed, in particolare, con riferimento alla persistenza delle condizioni per l’attribuzione dell’assegno di separazione (nella specie, la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la stessa, successiva¬mente alla separazione, aveva intrattenuto una periodica convivenza con altro uomo, a seguito della quale era nato un figlio. La S.C. ha cassato la sentenza impugnata perché il giudice di merito, adeguandosi all’enunciato principio, accertasse se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito).
Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2 (Famiglia e Diritto, 1998, 214, nota di FIGONE)
L’art. 2941 n. 1 c.c. nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio, non contrasta con l’art. 2 cost., in quanto, per un verso, la disposizione codicistica si riferisce a rapporti di carattere patrimoniale, difficilmente ricadenti sotto il parametro costituzionale che presuppone l’inviolabilità dei diritti, e, per altro verso, l’assimilazione della convivenza di fatto alle formazioni sociali si risolve in un’esplicitazione della pretesa violazio¬ne del principio di eguaglianza, insussistente per difetto di un adeguato “tertium comparationis”.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024 (Famiglia e Diritto, 1997, 4, 305, nota di CARBONE)
La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente more uxorio, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Corte cost. 18 gennaio 1996, n. 8 (Famiglia e Diritto, 1996, 2, 107, nota di FERRANDO)
È infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 384, comma 1, 378 e 307, comma 4, c.p. in riferimento all’art. 29 Cost. che tutela la famiglia fondata sul matrimonio, perché la convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana di ciascuna delle parti, revocabile liberamente ed in qualsiasi momento, è nettamente diversa dal rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità, certezza e reciprocità di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio.
Corte cost. 6 luglio 1994, n. 281 (Famiglia e Diritto, 1994, 485, nota di DOGLIOTTI)
Posta la conformità della normativa italiana in materia di adozione di minori, di cui alla legge n. 184 del 1983 ai principi contenuti nella Convenzione internazionale firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967 (resa esecutiva con legge n. 357 del 1974) e riconosciuti anche dalla giurisprudenza della Corte, circa l’imprescindibilità del vincolo matrimoniale tra gli adottanti, quale requisito che possa opportunamente garantire la stabilità familiare, nell’in¬teresse prevalente del minore, deve escludersi che l’aver il legislatore fissato – con l’art. 6, primo comma, della legge n. 184 del 1983 detta – in tre anni il periodo minimo di durata del vincolo, senza prevedere la fungibilità di tale requisito con un uguale o diverso periodo di convivenza “more uxorio” precedente al matrimonio, costituisca violazione dell’art. 2 Cost., per la tutela che deve riconoscersi alla famiglia di fatto come formazione sociale. L’aspirazione dei singoli ad adottare non può, infatti, ricomprendersi tra i diritti inviolabili dell’uomo e, del resto, anche qualificando la famiglia di fatto come formazione sociale, non per questo deriverebbe che alla stessa sia riconosciuto il diritto all’adozione, come previsto per la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.). Rientra nella discrezionalità del legislatore riconoscere alla convivenza “more uxorio” alcune conseguenze giuridiche; pertanto, è inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 comma 1 l. 4 maggio 1983 n. 184, sollevata con riferimento all’art. 3 cost., sotto il profilo che esso non prevede che, ai fini dell’idoneità ad adottare i minori, il periodo di convenienza “more uxorio”, antecedente al matrimonio, sia equiparato alla unione matri¬moniale da almeno tre anni, richiesta per l’adozione di minori.
Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1993, n. 4761 (Giur. It., 1994, I,1, 1831, nota di OCCHINO)
La convivenza more uxorio di una delle parti rileva in solo (e nei limiti) in cui incida sulla loro reale e concreta situazione economica, risolvendosi, sul piano fattuale, in una condizione e fonte (non aleatoria) di reddito per il coniuge convivente (cfr. n. 1477 del 1982, n. 5717 del 1985, per tutte). La relazione more uxorio della mo¬glie non fa, quindi venir meno per il marito l’obbligo di corrisponderle l’assegno di mantenimento fissato in via provvisoria dal presidente del tribunale o dalla sentenza di primo grado, ma rileva comunque nei limiti in cui detta relazione incida sulla reale e concreta situazione economica della donna, risolvendosi per questa in una condizione e fonte, effettiva e non aleatoria, di reddito, posto che la convivenza extraconiugale non comporta alcun diritto al mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 17 ottobre 1989, n. 4158 (Giur. It., 1990, I,1, 587, nota di GENTILI)
In tema di valutazione delle condizioni economiche dei coniugi ai fini della determinazione dell’assegno di di¬vorzio, concorrono a formare la situazione reddituale del coniuge avente diritto all’assegno anche eventuali elargizioni non meramente saltuarie, ma continuative e protraentisi nel tempo, ricevute dal terzo con il quale lo stesso coniuge conviva.
Corte cost. 26 maggio 1989, n. 310 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565 e 582 c.c., nella parte in cui non includono fra i successibili ab intestato, parificandolo al coniuge, il convivente more uxorio. Ad avviso del giudice remittente la mancata equiparazione del convivente al coniuge ai fini della successione legittima si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza, o quanto meno con l’art. 2 Cost., non potendosi negare alla convivenza more uxorio natura di formazione sociale meritevole di riconoscimento e tutela. Ma sotto il profilo della eguaglianza deve ribadirsi che la situazione del convivente more uxorio è netta¬mente diversa da quella del coniuge (cfr. sentenze n. 45 del 1980 e 404 del 1988). Invero l’art. 20 Cost. non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, ma ricono¬sce alla famiglia legittima una dignità superiore in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio. Il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all’eredità contrasterebbe con i principi del diritto successorio il quale esige che le categorie di successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestati, comportando nei rapporti fra i due partners conseguenze incompatibili con la stessa natura della convivenza che è un rapporto di fatto per definizione rifuggente da qualificazioni giuridiche di diritti ed obblighi reciproci, sicché le norme non meritano censura neppure sotto il profilo del principio di razionalità. Non giova richiamare l’art. 2 Cost. perché, anche ad ammettere che tale norma si applichi alle convivenze di fatto, ciò non implica che ai conviventi debba essere assicurato il reciproco diritto di successione mortis causa, non rientrando tale diritto nel novero di quelli inviolabili. In ordine alla determinazione delle categorie dei successibili la discrezionalità lasciata al legislatore ordinario dall’art. 42 comma 4 Cost. incontra soltanto il vincolo scaturente dall’art. 30 comma 3 Cost. della equiparazione dei figli naturali e quelli legittimi nei confronti dei genitori.

Il danno da perdita di congiunto non può essere diminuito dall’essere il danneggiato persona straniera e non convivente

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA-3 CIVILE
Ordinanza 15 febbraio 2018, n. 3767
Presidente Amendola
Relatore Rossetti
Fatti di causa
1. Nel 2009 P.M.E.M., P.V.C., C.P.L., P.T.E., P.N.A. e I. convennero dinanzi al Tribunale
di Milano S.P. , C.G. e la Fondiaria-SAI s.p.a. (che in seguito muterà ragione sociale in
UnipolSai s.p.a.) esponendo:
-) di essere, rispettivamente, moglie, figli, madre e fratelli di P.V.;
-) l’(omissis) P.V. venne investito da un autocarro condotto da S.P., di proprietà di C.G. ed
assicurato dalla UnipolSai;
-) in conseguenza dell’investimento P.V. perse la vita.
Gli attori chiesero pertanto la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni
rispettivamente patiti.
2. Con sentenza 26.2.2014 n. 2785 il Tribunale rigettò la domanda.
Con sentenza 24.7.2015 n. 3223 la Corte d’appello di Milano, in accoglimento parziale del
gravame proposto dai soccombenti, ha:
(-) rigettato la domanda proposta dalla madre e dai fratelli della vittima, ritenendo non
provata una “effettiva compromissione di un rapporto affettivo in essere al momento del
fatto”;
(-) accolto la domanda di risarcimento proposta dalla moglie e dai figli della vittima,
addossando tuttavia a quest’ultima un concorso di colpa del 50%;
(-) ritenuto che il danno non patrimoniale patito dalla moglie e dai figli della vittima
dovesse essere “ragguagliato alla realtà socioeconomica in cui vivono i soggetti
danneggiati”; sicché, accertato che gli attori risiedevano tutti in Romania, ha ridotto del
30% il risarcimento che avrebbe altrimenti liquidato a persone residenti in Italia.
3. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da tutti i congiunti della vittima,
con ricorso fondato su tre motivi.
Ha resistito la UnipolSai con controricorso illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo i ricorrenti assumono, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., che la Corte
d’appello avrebbe violato gli artt. 2043 e 1223 c.c., per avere ridotto il risarcimento in
considerazione del loro luogo di residenza, ovvero la Romania.
1.2. La società UnipolSai ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, sostenendo che esso
sarebbe irrispettoso dei precetti di cui all’art. 366, nn. 3 e 6, c.p.c..
Tale eccezione è infondata.
Quanto alla esposizione dei fatti (richiesta dall’art. 366, n. 3, c.p.c.), essi sono chiaramente
riassunti alle pp. 4 e 5 del ricorso, ove si dà conto dell’evento mortale, della proposizione
della domanda di risarcimento, e del contenuto della sentenza appellata (trascritto anche
alle pp. 6 e 7). Quanto all’onere di indicazione degli atti su cui il ricorso si fonda (richiesto
dall’art. 366, n. 6, c.p.c.), nel nostro caso v’era ben poco da indicare, posto che il primo
motivo di ricorso pose una questione di puro diritto: ovvero se il risarcimento del danno
debba o no variare in funzione del luogo di residenza del danneggiato.
1.3. Nel merito, il ricorso è fondato.
Questa Corte, infatti, ha già ripetutamente affermato che “la realtà socioeconomica nella
quale vive la vittima d’un fatto illecito è del tutto irrilevante ai fini della liquidazione del
danno aquiliano” (così Sez. 3, Sentenza n. 7932 del 18/05/2012; nello stesso senso Sez. 3,
Sentenza n. 12146 del 14/06/2016; Sez. 3, Sentenza n. 12221 del 12/6/2015; Sez. 3,
Sentenza n. 24201 del 13/11/2014).
Alle motivazioni poste a fondamento di tale consolidato orientamento sarà dunque
sufficiente, in questa sede, richiamarsi.
1.4. Le deduzioni in senso contrario svolte dalla difesa della UnipolSai nel controricorso
(pp. 5-7) e nella memoria (pp. 2-5) non possono essere condivise.
Tali deduzioni sono quattro, e sono così riassumibili:
(a) il risarcimento del danno non patrimoniale ha lo scopo di compensare la vittima del
dolore sofferto con utilità sostitutive; esso dunque dovrà essere tanto minore, quanto
minore sarà il costo necessario per procacciarsi tali utilità;
(b) la Corte di giustizia UE, con la sentenza 10.12.2015, in causa C-350/14, Lazar, ha
affermato che il danno patito dai prossimi congiunti di una persona deceduta in
conseguenza di un fatto illecito costituisce una “conseguenza indiretta” di quest’ultimo, ai
sensi dell’art. 4, paragrafo 1, del Regolamento (CE) n. 864/2007 del Parlamento Europeo e
del Consiglio, dell’11 luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni
extracontrattuali (“Roma II”); da questo rilievo la controricorrente vorrebbe trarre la
conclusione che nella liquidazione del danno si dovrebbe tenere conto del luogo in cui le
conseguenze indirette del danno si sono verificate;
(c) “più solidi”, rispetto all’orientamento recente di questa Corte, si sarebbero dovuti
ritenere gli argomenti posti a fondamento del contrario orientamento espresso da Sez. 3,
Sentenza n. 1637 del 14/02/2000; al contrario, gli argomenti posti a fondamento
dell’orientamento più recente sarebbero “privi di adeguato approfondimento”, ed in
particolare erronea sarebbe l’affermazione secondo cui il luogo dove la vittima spenderà il
suo denaro è estraneo all’illecito, perché la misura del risarcimento “non riguarda l’illecito
in sé”;
(d) non ridurre il risarcimento ai danneggiati residenti in Paesi poveri -questa la tesi della
UnipolSai – “costituirebbe una burla per gli italiani”, perché “si concede tutto agli stranieri
e niente, nella condizione inversa, viene dato agli italiani”.
Dopo avere esposto queste tesi, la controricorrente formula istanza affinché il presente
ricorso venga rimesso al Primo Presidente, affinché ne disponga l’assegnazione alle
Sezioni Unite.
1.5. L’argomento riassunto sub (a) nel 5 che precede non può essere condiviso.
Può ammettersi che il risarcimento del danno non patrimoniale abbia una funzione
compensativa, ma da ciò non discende affatto che il pretium doloris sia funzione della
residenza del danneggiato. Ciò sia per una ragione giuridica, sia per una ragione logica.
1.5.1. La ragione giuridica è che nella stima di ogni danno non patrimoniale si deve tenere
conto delle conseguenze dell’illecito, come si desume dall’art. 1223 c.c..
Le conseguenze risarcibili dell’illecito consistono nei pregiudizi che la vittima, in assenza
del fatto illecito, avrebbe evitato.
I pregiudizi risarcibili vanno stimati in base alla natura ed alla consistenza dell’interesse
che li sottende: quel che un tempo si definiva l’id quod interest, secondo la celebre
espressione usata dall’imperatore Giustiniano nell’epistola al prefetto del pretorio
Giovanni (Codex Iustiniani, VII, XLVII, De sententiis), e che una noto economista definì
“ofelimità “.
Se questa è la nozione di “danno” per la nostra legge, il risarcimento che lo monetizza non
potrà mai variare in funzione della residenza del danneggiato:
– sia perché il luogo dove la vittima vive non è una “conseguenza” del fatto illecito;
– sia perché tra le “conseguenze” del danno non rientra l’impiego che la vittima farà del
denaro dell’offensore;
– sia perché un risarcimento in denaro non necessariamente è destinato ad essere speso:
esso potrebbe essere tesaurizzato od investito, ed in questi casi non è affatto vero che nei
Paesi più ricchi il capitale investito sia remunerato più proficuamente che nei Paesi poveri
(ma anzi è vero spesso il contrario, noto essendo che i Paesi meno sviluppati, per attrarre
capitali, emettono titoli del debito pubblico remunerati con interessi ben maggiori di quelli
offerti dalle economie più solide);
– sia, infine, perché col pagamento del risarcimento l’obbligazione si estingue, e tutto quel
che avviene dopo è un post factum giuridicamente irrilevante. Che il creditore-danneggiato
tesaurizzi il suo denaro, lo spenda, lo doni o lo disperda, queste sono circostanze
giuridicamente irrilevanti. Al diritto, e tanto meno al giudice, non interessa quel che il
creditore farà col suo denaro, interessa di che natura ed entità fu il pregiudizio causato dal
fatto illecito.
1.5.2. Erronea giuridicamente, la tesi propugnata dalla società controricorrente diviene
paradossale dal punto di vista della logica formale. Se, infatti, dalla natura compensativa
del risarcimento si fa discendere la pretesa di variarlo in funzione della residenza
dell’avente diritto, ne seguirebbe che:
(a) la regola dovrebbe valere anche in bonam partem, con la conseguenza che il creditore
potrebbe artificiosamente trasferirsi in Paesi dall’elevato reddito pro capite, per pretendere
un risarcimento maggiore;
(b) se il risarcimento dovesse davvero variare in funzione della quantità di beni materiali
che, con esso, il creditore intende acquistare, si perverrebbe all’assurdo che il prodigo
andrebbe risarcito più dell’avaro (perché il secondo non comprerebbe mai nulla), e lo
stoico meno dell’epicureo (posto che solo per il secondo il “sommo bene” è la
soddisfazione dei bisogni materiali);
(c) se davvero il risarcimento dovesse variare in funzione della quantità di beni materiali
che, con esso, il creditore può acquistare, si perverrebbe all’assurdo che a parità di
sofferenza il risarcimento dovrebbe essere più elevato in tempi di rialzo generalizzato dei
prezzi, e più modesto in epoche di stagnazione economica; e dovrebbe essere più elevato
se la vittima fosse appassionata di automobili di pregio, e meno se la vittima fosse
appassionata di piante e fiori.
L’evidente insostenibilità di tali conclusioni rende palese, in virtù del principio della
reductio ad absurdum, l’inaccettabilità della premessa su cui esse si fondano: e cioè che la
residenza della vittima incida sulla misura del risarcimento del danno.
1.6. L’argomento riassunto sub (b) al 5 1.4 che precede (ovvero il decisum di Corte di
giustizia UE, con la sentenza 10.12.2015, in causa C350/14, Lazar) è irrilevante ai nostri
fini.
Con la ricordata decisione la Corte di Lussemburgo ha stabilito quale debba essere la legge
regolatrice del risarcimento del danno nel caso di fatti illeciti avvenuti in uno Stato
membro, e consistiti nella morte d’una persona avente parenti in un altro Stato membro.
La Corte Europea, dunque, non s’è affatto occupata dei criteri di monetizzazione del
risarcimento, né del resto avrebbe potuto farlo, essendo quest’ultima materia riservata alla
legislazione degli Stati membri, e sottratta alla competenza comunitaria.
1.7. L’argomento riassunto sub (c) al § 1.4 che precede (ovvero la preferibilità degli
argomenti sostenuti da questa Corte nella sentenza n. 1637/00, cit., rispetto a quelli
affermati dall’orientamento più recente) non è pertinente ai nostri fini.
Con la sentenza appena ricordata questa Corte cassò, per difetto di motivazione ex art. 360,
n. 5, c.p.c., la decisione di merito che, liquidando 50 milioni di lire ad una donna per la
perdita del figlio diciassettenne, aveva giustificato tale importo con riferimento alla “realtà
socioeconomica” dove viveva la danneggiata (cioè la città di Chieti).
Questa Corte osservò in quel caso, nella motivazione della sentenza 1637/00, che la
variazione del risarcimento in funzione della realtà socioeconomica dove viva il
danneggiato potrebbe teoricamente essere condivisibile per aumentare il risarcimento (e
non per ridurlo), ma nel caso di specie il giudice di merito non aveva spiegato attraverso
quale calcolo era pervenuto a determinare la misura base del risarcimento, e poi il suo
aumento.
Ne segue che:
(a) il decisum di quella sentenza non consistette nell’affermazione d’un principio di diritto,
ma nel rilievo d’un difetto di motivazione, e le argomentazioni giuridiche pur contenute
nella sua motivazione costituiscono un mero obiter dictum;
(b) in quella decisione il richiamo al criterio della “realtà socioeconomica” venne svolto
per ampliare, invece che ridurre, il quantum del risarcimento;
(c) nelle occasioni in cui questa Corte è stata chiamata a stabilire in iure se il risarcimento
possa variare in funzione della residenza della vittima, l’ha recisamente e costantemente
negato.
Sicché, da un lato, non sembra sussistere un vero e proprio contrasto, ove si ponga mente
ai decisa di questa Corte e non alle massime che ne sono state estratte; dall’altro lato,
anche ad ammettere che davvero sia esistito un contrasto, questo sarebbe ormai
definitivamente superato, e ciò rende superfluo sottoporre la questione di cui si discute alle
Sezioni Unite.
1.8. Nell’argomento riassunto sub (d) al § 1.4 che precede (secondo cui il consolidato
orientamento di questa Corte “costituirebbe una burla per gli italiani”, perché “si concede
tutto agli stranieri e niente, nella condizione inversa, viene dato agli italiani”), infine,
questa Corte non riesce a ravvisare alcunché di giuridico.
Sarà dunque sufficiente ricordare come ogni ordinamento giuridico sia superiorem non
recognoscens, sicché la misura del risarcimento da liquidare in Italia non può farsi
dipendere dal quantum liquidato, per il medesimo pregiudizio, in altri Paesi; e che il
risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di diritti fondamentali della persona non è
soggetto alla condizione di reciprocità di cui all’art. 16 disp. prel. c.c. (Sez. 3, Sentenza n.
8212 del 04/04/2013).
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., la
violazione degli artt. 1224, 1226, 2056 c.c..
Sostengono che la Corte d’appello, dopo avere liquidato il danno in conto capitale, non ha
provveduto ad accordar loro il danno da mora (c.d. interessi compensativi), così violando
le norme sopra ricordate.
2.2. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo e, per quanto si dirà, del terzo
motivo di ricorso.
I ricorrenti infatti lamentano in sostanza (al di là dell’erroneo richiamo all’art. 1224 c.c.,
inapplicabile alle obbligazioni di valore qual è quella avente ad oggetto il risarcimento del
danno da fatto illecito) che non sia stato loro liquidato il danno da mora ex art. 1219 c.c.,
convenzionalmente liquidato in casi simili nella forma dei c.d. interessi compensativi.
Nelle obbligazioni di valore, tuttavia, i cc.dd. interessi compensativi non costituiscono dei
frutti civili, e quindi una obbligazione accessoria rispetto al capitale, ma rappresentano una
delle possibili voci di danno causate dall’illecito, che va accertata e liquidata anche
d’ufficio (ex permultis, da ultimo, Sez. 1 -, Sentenza n. 4028 del 15/02/2017). Pertanto il
giudice di rinvio, dovendo provvedere a liquidare i danni patiti dagli odierni ricorrenti (ex
novo per la madre ed i fratelli della vittima; e previa eliminazione dell’abbattimento
praticato agli altri congiunti per tenere conto della loro realtà socioeconomica), dovrà
necessariamente provvedere, oltre che alla aestimatio, anche alla taxatio del credito
risarcitorio, secondo i criteri stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte con la nota
sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., che la Corte
d’appello avrebbe violato gli artt. 2043, 2059, 2727 c.c.; 115 e 116 c.p.c., nel rigettare la
domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta dalla madre e dai fratelli
della vittima.
Espongono che la Corte d’appello ha rigettato tale domanda sul presupposto che non fosse
provata l’esistenza d’un vincolo affettivo tra la vittima da un lato, la madre ed i fratelli
dell’altro. Sostengono tuttavia che:
(a) l’esistenza di tale vincolo affettivo non era stata contestata dalla società convenuta, che
anzi l’aveva ammessa;
(b) in ogni caso, la semplice esistenza del rapporto di filiazione o di fratellanza era di per
sé idonea a far presumere, ex art. 2727 c.c., l’esistenza d’un vincolo affettivo tra la vittima
da un lato, la madre ed i fratelli dall’altro.
3.2. Il motivo è fondato.
La Corte d’appello ha rigettato la domanda proposta da P.T.E. (madre della vittima),
P.N.A. e I. (fratelli della vittima) affermando che la vittima si era trasferita dalla Romania
in Italia sin dal 1992, e “non vi è prova alcuna del permanere di rapporti con la famiglia di
origine”.
Così giudicando, la Corte d’appello ha addossato ad una madre l’onere di provare di avere
sofferto per la morte d’un figlio, ed altrettanto ha fatto per i fratelli.
3.3. Questa statuizione non è conforme a diritto.
In linea generale, non v’è dubbio che spetti alla vittima d’un fatto illecito dimostrare i fatti
costitutivi della sua pretesa, e di conseguenza l’esistenza del danno.
Tale prova tuttavia può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, ovvero
invocando massime di esperienza e l’id quod plerumque accidit.
Nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza
stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit,
la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza è,
di norma, connaturale all’essere umano.
Naturalmente si tratterà pur sempre d’una praesumptio hominis, con la conseguente
possibilità per il convenuto di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete
dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.
Ne consegue che, nel presente giudizio, non spettava alla madre ed ai fratelli della vittima
provare di avere sofferto per la morte del rispettivo figlio e fratello, ma sarebbe stato onere
dei convenuti provare che, nonostante il rapporto di parentela, la morte di P.V. lasciò
indifferente la madre ed i fratelli della vittima.
3.4. La semplice lontananza, tuttavia, non è una circostanza di per sé idonea a far
presumere l’indifferenza d’una madre alla morte del figlio.
Lo insegna la psicologia (dalla quale apprendiamo che la lontananza, in determinati casi,
rafforza i vincoli affettivi, a misura che la mancanza della persona cara acuisce il desiderio
di vederla); lo testimonia la storia (qui gli esempi sono sterminati: dal carteggio di
Abelardo ed Eloisa alle lettere dei condannati a morte della Resistenza); e lo attesta
sinanche il mito: quello di Penelope ed Ulisse non sarebbe certo sopravvissuto intatto per
ventotto secoli, se non rispondesse ad una costante dell’animo umano la conservazione
degli affetti più cari anche a distanza di tempo e di spazio.
La Corte d’appello ha dunque effettivamente violato sia l’art. 2727 c.c., perché ha negato
rilievo ad un fatto di per sé sufficiente a dimostrare l’esistenza del danno (il rapporto di
filiazione e di fratellanza); sia le regole sul riparto dell’onere della prova, addossando agli
attori l’onere di provare l’assenza di fatti impeditivi della propria pretesa.
3.5. La sentenza impugnata va dunque cassata anche su questo punto, in virtù del seguente
principio di diritto cui si atterrà il giudice di rinvio: “L’uccisione di una persona fa
presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori,
al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il
superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali
potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere
del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che
di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta
al secondo”.
4. Le spese.
Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso; dichiara assorbito il secondo; cassa la
sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa
composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità

Non sussiste vincolo di pregiudizialità fra nullità canonica e scioglimento civile del matrimonio

Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 marzo 2018, n. 5670
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –
ORDINANZA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Il Tribunale di Salerno, con sentenza n. 616/2014 ha dichiarato la cessazione degli effetti
civili del matrimonio contratto da P.M. e M.G. il (OMISSIS). Ha posto a carico del M. un
assegno mensile di mantenimento di 800 Euro e compensato integralmente le spese di lite.
2. La Corte di appello di Salerno, con sentenza n. 29/2015, ha confermato la decisione di
primo grado e condannato l’appellante M.G. al pagamento delle spese processuali.
3. Ricorre per cassazione M.G. deducendo: violazione e falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c.;
omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio; b) motivazione apparente.
4. Si difende con controricorso P.M..
5. Il ricorrente deposita memoria difensiva.
Ritenuto che:
6. Il primo motivo deve essere respinto alla luce della giurisprudenza di legittimità secondo cui
il motivo di ricorso per cassazione con il quale si denunzi la violazione del diritto del coniuge,
quale cattolico praticante, a sottoporre esclusivamente al tribunale rotale la questione dello
scioglimento del suo matrimonio, è inammissibile, atteso che nell’ordinamento giuridico italiano
non sussiste alcun diritto di tal fatta, nè un rapporto di pregiudizialità tra il giudizio di nullità
del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello
stesso, trattandosi di procedimenti autonomi, sfocianti in decisioni di natura diversa ed aventi
finalità e presupposti distinti (cfr. Cass. civ., sez. 1, n. 17969 dell’11 settembre 2015; Cass. civ.
sez 6-1 n. 2089 del 30 gennaio 2014).
7. Il secondo motivo è anch’esso inammissibile perché non conforme ai requisiti richiesti dalla
giurisprudenza di legittimità per la proposizione del ricorso per cassazione ai sensidell’art. 360
c.p.c., n. 5 (Cass. civ. Sezioni Unite n. 8053 del 7 aprile 2014).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali liquidate in complessivi Euro 3.100, di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e
1
spese forfettarie. Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse
le generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello
stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018.

Il miglioramento delle condizioni economiche di un coniuge non porta automaticamente alla riduzione dell’assegno di mantenimento della prole a carico dell’altro genitore

Cassazione civile Sez. VI – 1 Ordinanza n. 3926 del 19/02/2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10507-2017 proposto da:
P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 229, presso lo
studio dell’avvocato RAFFAELE BONFIGLIO, che la rappresenta unitamente all’avvocato
NUNZIA COPPOLA LODI;
– ricorrente –
contro
PA.AL., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato SERGIO BALZARETTI;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 254/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il
16/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/01/2018 dal
Consigliere Dott. SAMBITO MARIA GIOVANNA C..
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza del 16.2.2017: a) ha ridotto in Euro 400,00 mensili
l’assegno dovuto dal padre, Pa.Al., avvocato civilista in Milano, a P.M. per il mantenimento del
figlio minore Sa. (classe (OMISSIS)); b) ha ritenuto inammissibile la domanda di revisione della
ripartizione delle spese straordinarie, in quanto il richiamato protocollo AIAF, vigente presso il
Tribunale di Bergamo, costituiva un atto non avente valore normativo ed era sconosciuto
all’Ufficio; c) ha ritenuto inammissibile la domanda volta alla condanna alla restituzione di
somme già sborsate a titolo di spese straordinarie per il figlio, in quanto la madre disponeva al
riguardo di un titolo esecutivo; d) ha rigettato la domanda di ripetizione avanzata dal Pa.,
ritenendola preclusa in considerazione del carattere alimentare delle prestazioni relative al
mantenimento del figlio. P.M. ricorre sulla base di sei motivi, resistiti dal Pa. con controricorso,
con cui deduce un motivo di ricorso incidentale condizionato.
Motivi della decisione
1. Il Collegio ha deliberato la redazione della motivazione in forma semplificata.
2. Col primo motivo, si censura la statuizione sub a) di parte narrativa.
3. Va, anzitutto, disattesa l’eccezione d’inammissibilità sollevata dal controricorrente, essendo
consentita nell’ambito di un unico motivo la deduzione congiunta di distinte sub censure,
quando, come nella specie, sia chiaro il collegamento tra le statuizioni della sentenza impugnata
e le ragioni per le quali se ne chieda la cassazione, irrilevante essendo l’esatta indicazione
numerica di una delle ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c. (cfr. Cass SU n. 17931 del 2013).
4. Nel merito, il motivo è fondato. Dopo aver ritenuto indimostrato il dedotto peggioramento delle
condizioni economiche dal padre, rilevando l’inattendibilità delle dichiarazioni dei redditi da lui
presentate – più consone a quelle di un praticante avvocato, che ad un professionista di 49 anni –
ed evidenziando l’acquisto da parte dello stesso di un appartamento più costoso di quello
posseduto (con possibilità di accollo del relativo mutuo), la Corte d’appello ha dato atto delle
maggiori esigenze del figlio (adolescente di 13 anni e non più un infante), il tempo di
permanenza col padre (fine settimana alternati e tre settimane e mezzo in tutto l’anno, tra
festività e vacanze estive), ed ha, ciononostante, disposto la riduzione dell’assegno in favore del
minore sulla scorta delle migliorate condizioni della madre (prima disoccupata ed ora titolare di
reddito da lavoro dipendente, circa Euro 20.000,00 lordi annui) in dichiarata applicazione del
principio di cui a Cass. n. 18538 del 2013, secondo cui la determinazione del contributo che per
legge grava su ciascun genitore per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione della prole non
si fonda su di una rigida comparazione della situazione patrimoniale di ciascun obbligato e,
pertanto, le maggiori potenzialità economiche del genitore affidatario concorrono a garantire al
minore un migliore soddisfacimento delle sue esigenze di vita, ma non comportano una
proporzionale diminuzione del contributo posto a carico dell’altro genitore.
5. Così operando, i giudici a quo non solo hanno esposto una motivazione che è viziata da
manifesta ed irriducibile contraddittorietà, come le imputa la ricorrente, non essendo le
conclusioni coerenti con le premesse poste, ma sono incorsi al contempo nella falsa applicazione
del condivisibile principio da loro stessi richiamato (in precedenza, affermato da Cass. n. 1607
del 2007).
6. I motivi dal secondo al quinto censurano la statuizione sub b) di parte narrativa. Il quinto
motivo, con cui si deduce l’omessa pronuncia sulla richiesta di regolamentazione delle spese
straordinarie, a carattere più liquido, è fondato: la circostanza che l’invocato protocollo AIAF,
vigente presso il Tribunale di Bergamo per la ripartizione tra i genitori delle spese straordinarie,
fosse un atto non normativo a lei ignoto, non esimeva la Corte dal valutare, secondo parametri
confacenti, la domanda avanzata dalla madre di modificare (con la chiesta previsione della quota
del 70% a carico del padre) la distribuzione delle spese straordinarie tra i genitori, ripartite in
ragione della metà ciascuno.
7. Il sesto motivo, con cui la ricorrente critica la statuizione sub c) di parte narrativa, è
infondato. Anzitutto la pronuncia non si fonda sul principio di non contestazione, ma, come
esposto in narrativa, afferma, correttamente, che la previsione del precedente provvedimento in
materia di spese straordinarie (secondo l’anzidetta ripartizione del 50%) costituiva, di per sè,
titolo per procedere in via esecutiva. Nè l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., per
conseguire un altro titolo può essere ravvisato in quello di prevenire una possibile futura
opposizione a precetto, in ragione delle singole voci che dovessero esser contestate.
8. Il ricorso incidentale, volto a censurare la statuizione sub d) di parte narrativa, è
inammissibile. Pur facendo riferimento alla statuizione relativa all’accoglimento delle domande
di ripartizione delle spese straordinarie già sostenute, con esso si chiede in realtà la restituzione,
a titolo di indebito o di ingiustificato arricchimento, di parte dell’assegno mensile, in ragione del
maggior reddito della madre, richiesta che, in sede di nuova determinazione del quantum da lui
dovuto, è stata rigettata dalla Corte territoriale in considerazione dell’irripetibilità degli assegni
alimentari, secondo le considerazioni riassunte in narrativa, e tale ratio non è stata impugnata.
9. Il giudice del rinvio, che si indica nella Corte d’Appello di Brescia in diversa composizione,
provvederà, anche, a regolare le spese del presente giudizio di legittimità. Trattandosi di processo
esente, non va disposto a carico del ricorrente incidentale l’obbligo del versamento di un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater.
P.Q.M.
Accoglie il primo ed il quinto motivo del ricorso principale, assorbiti il secondo, terzo e quarto,
rigetta il sesto; dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa e rinvia, anche per le spese
alla Corte d’Appello di Brescia in diversa composizione. In caso di diffusione del presente
provvedimento, dispone omettersi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma
del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Motivazione Semplificata.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2018.