PRESCRIZIONE (civile)

di Gianfranco Dosi

I. La prescrizione nell’ambito del diritto di famiglia
II. I diritti indisponibili (imprescrittibili)
a) I casi di azione e di intervento del Pubblico Ministero
b) Il regime primario contributivo
c) I provvedimenti riguardanti i figli minori
III. I diritti patrimoniali disponibili (imprescrittibili)
a) Diritti patrimoniali disponibili e imprescrittibilità
b) La tesi della giurisprudenza sulla indisponibilità
c) La tesi della giurisprudenza sulla disponibilità
d) Disponibilità e negozialità
e) La riforma del 2014 sugli accordi al di fuori dei tribunali
IV. Il principio in base al quale i diritti patrimoniali diventano prescrittibili dopo la loro regolamentazione legale
V. La prescrizione in materia di mantenimento coniugale e per i figli
a) Il mantenimento coniugale
b) Il mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti
c) L’azione di regresso in caso di riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio
VI. La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
VII. La prescrizione nelle azioni di status
I La prescrizione nell’ambito del diritto di famiglia
La prescrizione è un istituto generale disciplinato – insieme alla decadenza – nel titolo V del VI sesto libro del codice civile e le problematiche che vi sono connesse sono numerose.
Il principio di fondo che l’istituto richiama è quello secondo cui i diritti si estinguono se non vengono esercitati, in quanto il mancato esercizio ingenera nella collettività il convincimento che ad essi il titolare abbia rinunciato. E’ una questione di certezza nei rapporti giuridici. Fanno eccezione a questa regola “i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge” (art. 2934 c.c.), tra questi ultimi, per esempio, l’azione di rivendicazione della proprietà (art. 948 c.c.) e l’azione di nullità del contratto (art. 1422 c.c.) che non si estinguono mai e che sono, quindi, imprescrittibili.
In questa sede si tratteranno le questioni che, in tema di prescrizione, si pongono nell’ambito del diritto di famiglia dove valgono, tuttavia, i medesimi principi generali applicabili negli altri settori del diritto e cioè che la prescrizione comincia a decorrere da quando il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.); che è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina della prescrizione (art. 2936 c.c.); che si può rinunciare alla prescrizione solo dopo che questa si è compiuta (art. 2937 c.c.); che la prescrizione non può mai essere rilevata d’ufficio (art. 2938 c.c.) – al pari della decadenza (art.2969 c.c. il quale però precisa che il rilievo d’ufficio della decadenza è possibile per le materie sottratte alla disponibilità delle parti) – e che in ogni caso essa può sempre essere opposta dai creditori e da chiunque vi abbia interesse ove l’interessato non la faccia valere (art. 2939 c.c.); infine che l’adempimento spontaneo di un debito prescritto non consente l’azione di ripetizione (art. 2940 c.c.).
Nel contesto delle norme sulle persone e sulla famiglia una prima questione problematica, di carattere generale, è collegata al tema della imprescrittibilità dei diritti indisponibili (art. 2934, secondo comma, c.c.) che proprio nel diritto di famiglia costituiscono un’area particolarmente affollata. Si tratta di verificare quale sia in concreto nel diritto di famiglia la distinzione più plausibile tra diritti disponibili e diritti indisponibili per collegare solo a questi ultimi la loro imprescrittibilità. E in questa analisi non potrà non tenersi conto della rilevante incidenza apportata dalla normativa sulla negoziazione assistita che ha relativizzato la natura tradizionalmente indisponibile delle norme sui rapporti tra coniugi consentendo accordi di negoziazione anche in sede di separazione e divorzio con il solo intervento del Pubblico Ministero (art. 6, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162) e perfino accordi davanti all’ufficiale di stato civile, senza alcun intervento di controllo giudiziario (art. 12, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162)1.
La seconda area da indagare è costituita dal tema della prescrizione nel settore delle azioni di status della filiazione dove la riforma operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo di attuazione (D.Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) ha apportato notevoli e significative modificazioni.
Il terzo settore problematico è quello della sospensione della prescrizione in relazione alla qualità delle parti (art. 2941 c.c.), soprattutto della sospensione della prescrizione tra coniugi dove la giurisprudenza con alcune decisioni a sorpresa del 2014 ha apportato cambiamenti di rilevo rispetto a principi che apparivano ormai consolidati.
Ulteriore area problematica che verrà qui indagata è quella della prescrizione in materia di assegno di mantenimento trattandosi di un settore nel quale, anche a causa di alcune decisioni della giurisprudenza non del tutto lineari, si è creata qualche confusione che non ha reso sufficientemente intellegibile la disciplina.
Infine si parlerà delle interferenze tra la disciplina della prescrizione e quella della mediazione (art. 5, comma 6m D. Lgs 4 marzo 2010, n. 28) e della negoziazione assistita da avvocati (art. 8, D. L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella legge 10 novembre 2014, n. 162).
II I diritti indisponibili
a) I casi di azione e di intervento del Pubblico Ministero
Il diritto di famiglia, come si è accennato, costituisce certamente il settore nel quale tradizionalmente sono allocati i diritti indisponibili (che, quindi, sono imprescrittibili in base a quanto prevede l’art. 2934, secondo comma, c.c.).
Hanno certamente natura indisponibile e imprescrittibile i diritti per i quali è previsto il potere di azione (art. 69 c.p.c.) o il dovere di intervento (art. 70 c.p.c.) del Pubblico Ministero, considerati sintomatici dell’esistenza di diritti che la legge non lascia alla completa libertà dell’autonomia privata.
Il potere di azione del Pubblico Ministero è previsto in materia di famiglia nelle ipotesi di nomina di un curatore alla persona incapace (art. 79 c.p.c.), o in caso di scomparsa (art. 48 c.c.) e di morte presunta (art. 58 c.c.), per l’interdizione (art. 417 c.c.) o l’amministrazione di sostegno (art.406 c.c.), per l’annullamento del matrimonio contratto in violazione di legge (art. 117 c.c. nei limiti indicati dalla norma) o contratto dall’interdetto (art. 119 c.c. nei limiti indicati dalla norma), per la nomina di un curatore al minorenne in caso di inerzia dei genitori (art. 321 c.c.), per la richiesta di provvedimenti de potestate in materia di abusi della responsabilità genitoriale (art. 336 c.c.) o per la dichiarazione di adottabilità (art. 9, legge 4 maggio 1984, n. 183).
Il potere di intervento del Pubblico Ministero si esercita in tutte le cause in cui egli ha anche il potere di azione (art. 70, n. 1 c.p.c.), nelle cause matrimoniali, compresa la separazione dei coniugi (art. 70, n. 2 c.p.c.), nelle cause riguardanti lo stato o la capacità delle persone (art. 70, n. 3 c.p.c.) come la nullità e il divorzio.
Ogni volta che la legge prevede la presenza nella causa del Pubblico Ministero, sotto forma di potere di azione o di dovere di intervento, si è, quindi, necessariamente in presenza di un diritto indisponibile (e pertanto imprescrittibile).
Con la precisazione importante che, non essendovi impedimenti di natura costituzionale, al legislatore non è interdetto prevedere – come avvenuto con l’art. 6 e con l’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162 – che in presenza di determinate circostanze i rapporti personali e patrimoniali anche relativi ai figli e lo stesso status coniugale possano essere oggetto di autonomi accordi e di regolamentazione (con la separazione o con il divorzio) da parte dei coniugi anche senza passare per il tribunale ovvero direttamente davanti all’ufficiale di stato civile. Non si può non osservare in ogni caso che sia pure all’interno di precisi confini normativi qui la tradizionale indisponibilità dei diritti sullo status resta oggettivamente fortemente ridimensionata.
b) Il regime primario contributivo
L’art. 143 del codice civile dopo aver disposto nei primi due commi che con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri e che dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione, al terzo comma prevede che “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.
Simmetricamente l’art. 1, comma 11, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) dopo aver chiarito che con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri e che dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione, espressamente dispone che “Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”.
Il nostro sistema giuridico prevede, perciò, un’obbligazione contributiva a carico dei coniugi (tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia) e delle parti dell’unione civile (tenute a contribuire ai bisogni comuni) e dà per scontato che essa, sia pure sotto la forma del dovere morale, esita anche tra conviventi di fatto.
L’importanza fondamentale del principio contributivo2 è rimarcata dalla constatazione che esso fonda il regime primario della famiglia indipendentemente dal regime patrimoniale scelto. La solidarietà e la reciproca assistenza materiale sono alla base della stessa vita matrimoniale senza subire nessun condizionamento derivante dal regime secondario scelto per disciplinare la distribuzione della ricchezza.
Alla base del principio contributivo solennemente previsto nel terzo comma dell’art. 143 c.c. sta la regola fondamentale della parità del lavoro professionale (cioè del lavoro che produce redditi monetari) e di quello casalingo (domestico), quest’ultimo da intendersi come il lavoro di cura della famiglia e dei figli prestato nell’ambito della vita familiare, in via esclusiva o aggiuntiva rispetto al lavoro professionale. Le condizioni e il tenore di vita della famiglia dipendono dalla distribuzione dei compiti attraverso i quali i coniugi realizzano l’obbligazione contributiva.
Il dovere di contribuzione (giuridico per i coniugi e per le unioni civili e morale per i conviventi di fatto) è quindi strettamente collegato al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) ed ha natura di diritto indisponibile. Tutto il regime primario è per forza di cose indisponibile.
I coniugi possono, invece, liberamente determinare, modificare e regolamentare il proprio regime patrimoniale coniugale che è questione che attiene non al regime primario (contributivo) ma al regime secondario (distributivo) del matrimonio, cioè alle modalità con cui i coniugi scelgono di distribuire la futura ricchezza. L’espansione dell’autonomia privata è qui riconosciuta ampiamente nei limiti, s’intende, che la legge stessa dichiara non superabili (art. 160 c.c. che esclude la derogabilità ai diritti e ai doveri – sostanzialmente richiamati dall’art. 143 c.c. – previsti dalla legge per effetto del matrimonio). Pertanto anche le controversie che hanno ad oggetto l’adempimento o l’attuazione dei regimi patrimoniali di tipo secondario – si pensi alla divisione dei beni in comunione (articoli 191, 192 c.c.) o all’accertamento delle rispettive proprietà in regime di separazione dei beni (art. 219 c.c.) – sono controversie su diritti disponibili (possibile oggetto di mediazione e di negoziazione) soggetti alla prescrizione ordinaria, tenendo naturalmente presente che tra i coniugi prescrizione è sospesa (art. 2941 c.c.).
c) I provvedimenti riguardanti i figli minori
La giurisprudenza costituzionale nell’ambito delle procedure della crisi familiare ha sempre ritenuto obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero (Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416; Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214) a riprova che tale intervento è sintomatico dell’esistenza di diritti indisponibili. Ed è certamente questo miminum di garanzia che ha indotto il legislatore a mantenere tale controllo sugli accordi negoziati tra coniugi in presenza di figli a carico (art. 6 e con l’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162).
Già nel 1985 una prima sentenza storica della Corte costituzionale (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185) ebbe a chiarire che era da escludere che fosse costituzionalmente illegittima l’omessa previsione della nomina di un curatore speciale per la rappresentanza in giudizio dei figli minori, nei procedimenti contenziosi relativi allo scioglimento (od alla cessazione degli effetti civili) del matrimonio ed alla separazione dei coniugi, “dovendosi ritenere idonee e sufficienti alla tutela degli interessi dei predetti minori nei procedimenti suindicati, le misure già previste in loro favore (intervento obbligatorio in giudizio del Pubblico Ministero, amplissime facoltà istruttorie del giudice, potere del collegio di decidere, in ordine ai provvedimenti relativi alla prole, ultra petitum). Gli stessi principi vennero in sostanza ribaditi in due successive sentenze della corte costituzionale. Una prima volta (Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416) nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 710 del codice di procedura civile, anche nel testo novellato dalla legge 29 luglio 1988, n. 331, che non prevede(va) l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero nei procedimenti di modificazione dei provvedimenti riguardanti i figli minori in caso di separazione personale tra coniugi, essendo invece tale intervento prescritto nei procedimenti di modificazione dei provvedimenti riguardanti i figli minori in caso di divorzio dall’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898; la Corte precisò in quella occasione che l’intervento del Pubblico Ministero nel caso di modifica dei provvedimenti relativi ai figli minori di genitori divorziati risponde alla particolare esigenza di tutela di questi ultimi (come già rimarcato da questa Corte nella sent. n. 185 del 1986 con riguardo più in generale ai giudizi per lo scioglimento del matrimonio e per la separazione fra coniugi) ed analogo (se non ancor più pressante) interesse sussiste nel caso dei provvedimenti modificativi delle condizioni della separazione riguardanti la prole. In entrambe le ipotesi la “ratio” ispiratrice è “l’esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”. Nella seconda sentenza (Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214) la questione discussa era stabilire se nelle controversie tra genitori non coniugati, per l’adozione dei “provvedimenti relativi ai figli”, debba intervenire il Pubblico Ministero, similmente a quanto prescritto dai citati art. 9 della legge n. 878 del 1970 e art. 710 del codice di procedura civile. La risposta fu positiva e la questione di costituzionalità venne ritenuta fondata in quanto il parametro costituzionale (art. 30, comma terzo, Cost.), correttamente invocato, effettivamente postula che ai figli nati fuori dal matrimonio sia assicurata tutela uguale a quella attribuita ai figli legittimi, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima. Ed appunto l’intervento del Pubblico Ministero, nei giudizi tra coniugi (separati o divorziati) che comportino provvedimenti relativi ai figli, innegabilmente risponde – come del resto già ritenuto con sentenza n. 416 del 1992 – ad una particolare esigenza di tutela degli interessi di questi ultimi. Identica tutela va quindi garantita ai figli nati fuori dal matrimonio, non ricorrendo, nella specie, ragione alcuna di incompatibilità, ostativa ad una siffatta equiparazione. Venne pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70 del codice di procedura civile nella parte in cui non prescrive l’intervento del Pubblico Ministero nei giudizi tra genitori naturali che comportino l’adozione di “provvedimenti relativi ai figli”.
Espressione della tutela è nell’art. 158 c.c. la previsione del possibile rifiuto di omologazione degli accordi ritenuti contrastanti con l’interesse dei figli.
La tutela si estende alla previsione della possibile impugnazione da parte del Pubblico Ministero dei provvedimenti concernenti i figli (art. 5, comma 5, della legge sul divorzio).
III I diritti patrimoniali disponibili (e imprescrittibili)
a) Diritti patrimoniali disponibili e imprescrittibilità
Il fatto che i diritti indisponibili siano certamente imprescrittibili (art.2934, secondo comma, c.c.) non comporta che i diritti disponibili debbano essere per forza di cose tutti prescrittibili. Il secondo comma dell’art. 2934 include tra i diritti imprescrittibili anche “gli altri diritti indicati dalla legge”. Se si leggono l’art. 156 c.c. e l’art. 5, comma 8, della legge sul divorzio nonché l’art. 710 c.p.c. e l’art. 9 della legge sul divorzio, ci si avvede che le parti possono sempre chiedere un assegno di separazione o divorzile. Il che vuol dire che il diritto all’assegno di separazione o di divorzio è imprescrittibile. Da questo però non deriva che debba anche essere un diritto indisponibile.
Il regime primario contributivo indisponibile si trasforma in diritto patrimoniale disponibile in sede di separazione (in vista o nel corso della separazione) e in sede di divorzio (in vista e nel corso del divorzio). In mancanza di accordi sarà il giudice a decidere.
In effetti la dottrina più sensibile alla valorizzazione dell’autonomia privata ha in passato più volte affermato l’inclusione, nell’area della disponibilità, dei diritti patrimoniali connessi ai regimi secondari e dei diritti patrimoniali postconiugali.
La tesi è stata proposta più volte soprattutto nell’approfondimento dei contratti della crisi coniugale, ritenendosi che la possibilità offerta dal legislatore ai coniugi di accordarsi sul loro assetto patrimoniale post-matrimoniale (di separazione o di divorzio) debba essere considerato indizio chiaro della piena autonomia privata e quindi di una sostanziale disponibilità dei diritti.
b) La tesi della giurisprudenza sulla indisponibilità
La giurisprudenza nel suo complesso tende ancora a connotare il tema dell’assegno di separazione e di divorzio in chiave di indisponibilità derivante dalla natura assistenziale dell’assegno, traendone anche la conseguenza della irrinunciabilità. (Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076). In questi casi si afferma in sostanza il principio che gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa “avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo”.
La connotazione del diritto all’assegno come diritto indisponibile serve alla giurisprudenza per giustificare la non liceità dei patti transattivi preventivi di divorzio.
c) La tesi della giurisprudenza sulla disponibilità
La tesi invece della piena e valida negozialità tra coniugi sui diritti patrimonialità coniugali stata sostenuta da Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 e da Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319, che l’hanno affermata nell’ambito di due decisioni in cui si è sostenuta l’inammissibilità dell’impugnazione della separazione consensuale per simulazione. Nelle premesse si afferma che la questione “investe i delicati problemi relativi alla natura giuridica dell’accordo che sorregge la separazione consensuale, al rapporto tra siffatto accordo ed il decreto di omologazione, alla natura e funzione dell’intervento giurisdizionale. Tali problemi – precisano – hanno lungamente impegnato la dottrina e la giurisprudenza di merito, anche per le implicazioni in ordine alla possibilità di revoca del consenso alla separazione prima del provvedimento di omologazione, ed hanno trovato negli anni soluzioni diverse, ritenendosi da alcuni, orientati per una impostazione pubblicistica dell’istituto, che il consenso costituisca mero presupposto del provvedimento giudiziale, cui va attribuito il ruolo di unico fatto costitutivo della separazione, configurandosi da altri la separazione consensuale come fattispecie a formazione progressiva, nell’ambito della quale consenso dei coniugi ed omologazione del tribunale costituiscono elementi parimenti necessari e concorrenti per il conseguimento dello stato di coniuge separato, sostenendosi ancora da altri, nell’ambito di una prospettiva privatistica della fattispecie, ispirata ad una accentuata valorizzazione dell’autonomia dei coniugi, desunta dall’intero sistema delle relazioni matrimoniali tracciato nella legge di riforma del diritto di famiglia, che la causa della separazione sta nella volontà dei coniugi, mentre l’omologazione agisce come mera condizione legale di efficacia dell’accordo. Tale ultima posizione – si legge – appare condivisa dalla più recente giurisprudenza di legittimità, orientata nel senso che la separazione trova la sua unica fonte nel consenso manifestato dai coniugi dinanzi al presidente del tribunale e che la successiva omologazione è unicamente diretta ad attribuire efficacia dall’esterno all’accordo di separazione, assumendo la funzione di condizione sospensiva della produzione degli effetti delle pattuizioni stipulate tra i coniugi, già integranti un negozio giuridico perfetto ed autonomo. A fondamento di detto orientamento – che deve essere in questa sede riaffermato – si è richiamato il chiaro tenore letterale del primo comma dell’art. 158 c.c. e del quarto comma dell’art. 711 c.p.c. In tale prospettiva questa Corte ha in più occasioni qualificato l’accordo di separazione come atto essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, tanto da definirlo, riprendendo una efficace espressione della dottrina, come uno dei momenti di più significativa emersione della negozialità nel diritto di famiglia (così Cass. 1994 n. 657, 1993 n. 2270; v. altresì, sulla definizione della separazione consensuale come negozio di diritto familiare, Cass. 1997 n. 4306; 1991 n. 2788; nonché la più remota Cass. 1978 n. 4277, che ha ricondotto l’accordo alla categoria dei negozi o convenzioni di diritto familiare. Una linea di tendenza nel senso del riconoscimento del pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi e dell’espansione della sfera di operatività dell’autonomia privata anche in relazione ai negozi di diritto familiare è peraltro chiaramente ravvisabile nella giurisprudenza di questa sezione orientata a riconoscere, entro determinati e penetranti limiti ed in termini differenziati, la validità degli accordi non trasfusi nell’accordo omologato e di quelli successivi all’omologazione. Negli accordi si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclusione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma ed in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi momenti ed aspetti della dinamica familiare.
Gli accordi tra coniugi quindi sono pienamente validi anche prima dell’omologazione che gli attribuisce efficacia.
Ora, poiché un accordo non sarebbe possibile in materia di diritti indisponibili (si veda per esempio l’art. 1966, secondo comma, c.c. sulla nullità della transazione avente ad oggetto diritti indisponibili) o se contrario a norme imperative (art. 1418 c.c.), ne risulta che la Corte di cassazione in queste decisioni e in quelle in esse richiamate ritiene del tutto valido un accordo anche a prescindere dall’omologazione. La negozialità esclude, insomma, l’indisponibilità.
d) Disponibilità e negozialità
La sostanziale disponibilità dei diritti patrimoniali post-coniugali è confermata quindi dalla loro possibile negozialità.
Per questo la giurisprudenza ritiene che le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c. possono ritenersi valide ed efficaci anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall’art. 710 c.p.c. sia pure a condizione che non violino diritti fondamentali delle persone (Cass. sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20290) e ugualmente anche i patti a latere della separazione o antecedenti non omologati sempre a condizione che non siano lesivi dei diritti primari connessi al rapporto coniugale (Cass. sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829; Cass. sez. I, 22 aprile 1982, n. 2481).
L’esclusione della validità degli accordi predivorzili (sia pure con qualche significativa apertura più recente: Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713 Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304) è stata predicata più volte in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2000, n. 15349; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109; Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1997, n. 5244; Cass. civ. Sez. I, 06/12/1991, n. 13128; Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 1991, n. 9840) collegata, però, non solo alla ritenuta natura assistenziale dell’assegno ma anche alla possibile violazione del diritto di difesa che ne deriverebbe per il soggetto che con la sottoscrizione dell’accorso rinuncia di fatto a difendersi in modo diverso nella futura causa di divorzio. In altra parte3 si è affrontato il tema dei limiti di validità dei patti prematrimoniali e specificamente della rinuncia all’assegno divorzile (che trova confine insormontabile nel diritto agli alimenti ove sopraggiunga uno stato di bisogno) negli ordinamenti dove tali patti sono disciplinati ed anche nelle proposte di legge in materia presentate in Parlamento.
3 Cfr la voce ACCORDI PREMATRIMONIALI
e) La riforma del 2014 sugli accordi possibili al di fuori del tribunale
La tesi tradizionale della natura indisponibile dei diritti (personali e patrimoniali) collegati allo status coniugale è stata fortemente incrinata, come si è detto, dalla normativa sulla negoziazione assistita (articoli 6 e 12, D. L. 12 settembre 2014, n. 132, nel testo modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162). Secondo l’art. 6 della nuova normativa la convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati può essere conclusa tra i coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione o di divorzio (nella sola ipotesi di divorzio richiesto dopo la separazione) ovvero per accordarsi su una modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Il decreto legge 132/2014 prevedeva la limitazione della negoziazione assistita alle sole separazioni o divorzi tra coniugi senza figli. La legge di conversione ha esteso la negoziazione assistita anche alle ipotesi di separazione e divorzio (e rispettivi procedimenti di modifica) con figli minori o non autosufficienti economicamente e questa estensione ha costituito certamente la componente più eversiva rispetto ai principi tradizionali. La legge prevede il passaggio (non in tribunale ma) nell’ufficio del Pubblico Ministero chiamato ad autorizzare l’accordo di separazione nel caso in cui vi siano figli a carico (se l’accordo viene ritenuto non in contrasto con i diritti dei figli) e a rilasciare un nulla osta nel caso in cui non ve ne siano.
Con questa riforma l’autonomia privata trova nel diritto di famiglia una valorizzazione piena che mette il giurista di fronte al problema di una ridefinizione complessiva dei limiti e dei confini tradizionali dell’indisponibilità dei diritti nell’ambito del diritto di famiglia.
Decisamente eversiva dei principi generali in materia di indisponibilità dello status coniugale è la normativa prevista nell’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, nel testo modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162. Con tale norma si è introdotta la possibilità per i coniugi di chiedere congiuntamente la separazione, il divorzio (limitatamente al divorzio che consegue alla separazione) ovvero la modifica di condizioni di separazione e di divorzio direttamente rivolgendosi, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, agli uffici di stato civile del Comune di residenza di uno di loro o di quello in cui è stato iscritto o trascritto il matrimonio. L’unica condizione è che non vi siano figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti. L’ufficiale di stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate ovvero che intendono modificare le condizioni di separazione o di divorzio. L’atto contenente l’accordo – che vale come se fosse una decisione del tribunale – è compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni. Nell’accordo può anche essere indicata la misura di un assegno di separazione o di divorzio.
La portata eversiva dei principi in tema di indisponibilità dei diritti coniugali, specificamente quelli sullo status coniugale, è molto evidente. La possibilità che viene lasciata ai coniugi di procedere alla separazione o al divorzio senza l’intervento del tribunale costituisce decisamente un elemento di novità molto significativo che rimette in discussione i confini tradizionali dell’autonomia privata nel diritto di famiglia.
IV Il principio in base al quale i diritti diventano prescrittibili dopo la loro regolamentazione legale
Una volta intervenuto il provvedimento che definisce il contenzioso tra le parti o che attribuisce piena validità agli accordi raggiunti (decisione giudiziaria, decreto di omologa, sentenza su accordo delle parti anche relativo all’una tantum, registrazione all’ufficio di stato civile dell’accordo di separazione o divorzio tra i coniugi) i diritti patrimoniali si trasformano da diritti (disponibili) imprescrittibili in diritti (disponibili) prescrittibili.
Il diritto imprescrittibile al mantenimento, una volta che la decisione del giudice o l’accordo legale hanno dichiarato la spettanza dell’assegno e lo hanno quantificato nel suo importo periodico, si trasforma in un diritto prescrittibile. Nello specifico prescrittibile nel termine di cinque anni previsto per “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” (art. 2948 c.c.).
Il fenomeno della trasformazione in diritto prescrittibile si verifica anche per i diritti indisponibili (per esempio quelli relativi al mantenimento dei figli) dopo la regolamentazione che ne ha fatto il giudice o che gli interessati hanno concordato.
V La prescrizione in materia di mantenimento coniugale e per i figli
a) Il mantenimento coniugale
Il diritto imprescrittibile all’assegno di separazione o di divorzio si trasforma con la decisione legale in diritto quantificato che una parte può pretendere anche coattivamente dall’altra. La prescrizione è certamente quinquennale se il mantenimento è costituito da un assegno periodico (art. 2048 c.c.: “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”) mentre sarà decennale se si tratta di una corresponsione in unica soluzione (art. 2946 c.c.: “salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”) non essendo rinvenibili nella disciplina della prescrizione indicazioni diverse.

Nel caso di assegno periodico la decorrenza della prescrizione, cioè il dies a quo dal quale decorre il termine prescrizionale, è quello delle singole scadenze periodiche “in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a ciascun adempimento” (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975); ove invece si trattasse di un assegno una tantum il termine prescrizionale non potrebbe che decorrere dalla decisione (imposta o concordata) che lo ha previsto. Per ogni altra pretesa tra coniugi vale il principio generale secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (art. 2935 c.c.) e sempre che non si verifichi quanto dispone in materia risarcitoria da fatto illecito (dove la prescrizione è di cinque anni) l’ultimo capoverso dell’art. 2947 c.c. per l’ipotesi in cui il fatto illecito costituisca reato: in tal caso troverà applicazione l’eventuale più lungo periodo di prescrizione stabilito per il reato.
b) Il mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti
In caso di procedimenti relativi ai figli minori o maggiorenni non autosufficienti il giudice è titolare di un potere-dovere improntato alla tutela dell’interesse superiore del figlio e perciò il diritto al mantenimento del figlio (art. 315-bis c.c.) ha certamente, come si è detto, natura di diritto indisponibile (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196; Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022; Cass. sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043). Pertanto anche in questo caso il diritto al mantenimento non è soggetto a prescrizione.
Anche per quanto concerne il mantenimento dei figli minori è opportuno ancora una volta ribadire che il diritto al mantenimento fa parte del regime primario familiare (art. 143,147 e 148 c.c.) e che pertanto configura un sistema di norme, principi e diritti indisponibili e imprescrittibili. Tuttavia, come si è sopra detto, dopo che il diritto al mantenimento è stato regolamentato in sede legale (sentenza, omologa, registrazione all’ufficio di stato civile dopo la negoziazione assistita) il diritto così determinato diventa prescrittibile. Pertanto anche in materia di assegno periodico per i figli minori valgono le stesse regole sopra viste. Si tratta di una corresponsione periodica per la quale trova applicazione il termine prescrizionale di cinque anni dalle singole scadenze (art. 2948 c.c.) entro il quale il genitore titolare del potere di pretendere l’assegno deve richiederlo (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975).
Come si è fatto notare in dottrina, con riferimento al mantenimento dei figli – ma con considerazioni pienamente valide anche per il mantenimento coniugale – l’art. 2948 c.c. è inteso soprattutto a liberare in tempo relativamente breve il debitore tenuto a prestazioni periodiche per effetto di una causa debendi unica e continuativa. Il titolo che fonda i versamenti periodici è la sentenza del giudice. La prescrizione quinquennale si riferisce alle obbligazioni (periodiche) cioè a quelle caratterizzate dal fatto che la prestazione è suscettibile di adempimento solo col decorso del tempo, in modo che solo con il protrarsi dell’adempimento nel tempo può essere soddisfatto l’interesse del creditore attraverso più prestazioni, aventi un titolo unico, ma ripetute nel tempo ed autonome le une dalle altre. Pertanto il titolo è unico ma l’adempimento è periodico. Perciò mentre il diritto ad ottenere il titolo è imprescrittibile, il diritto successivo alla pretesa del mantenimento periodico si prescrive in cinque anni dalle singole scadenze. In questa linea sono, come già detto, Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975, Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 e Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 dove si legge che in tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, distinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Nella giurisprudenza di merito si sono adeguati all’orientamento consolidato sulla prescrizione quinquennale Trib. Milano Sez. III, 9 giugno 2012, Trib. Monza Sez. III, 16 settembre 2010, Trib. Trani, 22 aprile 2009 nonché Trib. Napoli, 28 gennaio 2000 e Trib. Roma Sez. I, 5 luglio 2011 che affrontano, giungendo a conclusioni contrastanti, anche il tema della conversione ex art. 2953 c.c. del termine prescrizionale quinquennale in quello decennale allorché sopraggiunga una sentenza di condanna passata in giudicato4: la decisione del tribunale di Napoli applica il principio della conversione anche alle sentenze di separazione mentre la decisione del tribunale di Roma lo esclude. In effetti sembra del tutto logico escludere la conversione nel caso delle sentenze confermative di obbligazioni di mantenimento dal momento che ne deriverebbe sempre inevitabilmente la disapplicazione pacifica del termine quinquennale di prescrizione ma soprattutto perché la sentenza di condanna non modifica la natura periodica dell’obbligazione.
Proprio a proposito della conversione del termine quinquennale in quello più lungo che segue alle sentenze (penali) di condanna viene spesso citata una decisione la cui affrettata lettura può portare a considerazioni errate relativamente alla prescrizione quinquennale dell’assegno di mantenimento. Si tratta di Cass. civ. Sez. III, 12 settembre 2005, n. 18097 che ha escluso che possa invocarsi la conversione prevista dall’art. 2953 c.c. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna escludendo, quindi, la conseguente applicabilità del termine di ordinaria prescrizione decennale. Si legge nella decisione che “la sentenza penale passata in giudicato che, ai sensi dell’art. 570 cod. pen. condanni l’obbligato in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento con riferimento ai mesi per i quali fu sporta
4 Art. 2953 c.c “I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”.

denunzia penale comporta che sono soggetti a prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. soltanto i crediti oggetto del giudicato penale e non anche quelli successivi a tale data. Infatti tali prestazioni, avendo natura periodica, sono assimilabili alla nozione di “pensioni alimentari” e soggette alla prescrizione quinquennale decorrente dalle singole scadenze, in relazione alle quali sorge l’interesse all’adempimento”. Nella vicenda che fa da sfondo alla sentenza un coniuge era stato condannato penalmente per non aver corrisposto gli assegni stabiliti in sede civile. Il diritto al mantenimento scaturente dalla sentenza civile si sarebbe prescritto quindi secondo l’articolo 2948 c.c. in cinque anni dalle singole scadenze periodiche. Sennonché la sentenza di condanna penale rendeva applicabile il termine più lungo previsto nell’art. 2953 c.c. Pertanto correttamente i giudici hanno applicato il termine lungo prescrizionale per i diritti sui quali era intervenuto il giudicato penale ma non per quelli successivi per i quali riprendeva a valere la prescrizione quinquennale dalle scadenze periodiche. La sentenza appare del tutto corretta ma nella massima ufficiale che la sintetizza si parla di “prescrizione quinquennale del mantenimento” e per questo la sentenza viene utilizzata talvolta a sproposito per paralizzare la pretesa creditoria ultraquinquennale del diritto al mantenimento dei figli minori quando anche quando ancora manca un titolo che lo stabilisca, non considerando (o semplicemente ignorando) che la sentenza 18097/2005 fa riferimento ad una vicenda in cui il giudice aveva già stabilito con sentenza il diritto al mantenimento. L’azione con cui si chiede il mantenimento a favore di un figlio può iniziare fino a che non sia prescritto il relativo diritto (e fino all’autosufficienza del figlio il diritto è imprescrittibile) ma la prescrizione diventa quinquennale solo dopo la sentenza dal momento che il mantenimento stabilito in sentenza deve essere corrisposto a scadenze periodiche.
Corretta invece appare, sullo stesso punto, la decisione di Trib. Palermo Sez. I, 13 aprile 2011 nella quale si chiarisce che poiché la sentenza penale di condanna concerne esclusivamente i ratei dell’assegno di mantenimento non pagati, per i quali sia stata sporta denuncia penale, consegue che si sottraggono alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2953 c.c. rimanendo assoggettati alla prescrizione decennale solo i crediti per i quali sia stata sporta denuncia e non anche quelli maturati successivamente a tale data.
c) L’azione di regresso in caso di riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio
Nl caso di riconoscimento tardivo di un figlio nato fuori dal matrimonio il genitore che intende promuovere iure proprio un’azione di regresso di mantenimento nei confronti del genitore inadempiente è soggetto alla prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. anche se è discussa in giurisprudenza la decorrenza di tale prescrizione. Secondo la Corte di cassazione il diritto di regresso è collegato al giudicato (pur potendo la domanda di regresso essere azionata contestualmente a quella di riconoscimento giudiziale della genitorialità: Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17914) e pertanto la decorrenza della prescrizione decennale non può che essere quella del giudicato sullo status (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596, Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124). In altre parole pur avendo l’accertamento della filiazione natura dichiarativa, la pronuncia sullo status manterrebbe la sua efficacia costituiva dei diritti patrimoniali conseguenziali. In consapevole contrasto con questo orientamento si è posta una pronuncia del tribunale di Roma (Trib. Roma, Sez. I, 1 aprile 2014) la quale, prendendo spunto dall’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’obbligazione di mantenimento decorre dalla nascita indipendentemente dall’accertamento della genitorialità (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5633) ha ritenuto che la prescrizione dell’azione di regresso, che spetta al genitore che ha sostenuto in via esclusiva sin dalla nascita gli oneri del mantenimento del figlio, decorre dal momento in cui ogni singola spesa è stata effettuata e non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza sullo status. Questo perché, avendo il genitore, la facoltà di azionare il diritto al regresso anche prima che sia promosso l’accertamento della genitorialità, non sarebbe giusto addossare al genitore che tardivamente viene ritenuto tale il peso economico di pretese creditorie che potrebbero anche essere molto lontana nel tempo. Altre decisioni di merito (lo stesso Trib. Roma Sez. I, 17 settembre 2013 e Trib. Benevento, 22 gennaio 2008 hanno, però, ritenuto di doversi adeguare all’orientamento prevalente della Cassazione circa la decorrenza del termine prescrizionale dal giudicato sullo status.
VI La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
L’art. 2941 c.c. prevede che la prescrizione rimane sospesa in relazione a particolari rapporti tra le parti, per esempio tra i coniugi, tra chi esercita la responsabilità genitoriale e le persone minori che vi sono sottoposte, tra il tutore e il minore ed altre ipotesi. Insomma tutte le volte in cui per la particolare relazione che sussiste tra le parti non si può pretendere che una di esse agisca nei confronti dell’altra. L’istituto della sospensione in questi casi serve a conservare in capo ad una parte il potere di agire finché dura la relazione in questione.
Il termine è certo per quanto riguarda la relazione di responsabilità genitoriale tra il genitore e il minore e quella di tutela tra il tutore e il minore ed è il raggiungimento della maggiore età del soggetto incapace.
In passato si riteneva che anche nel caso della sospensione tra coniugi il termine fosse certo e che coincidesse con il divorzio. Fino al giudicato di divorzio insomma due coniugi rimangono tali e pertanto fino al giudicato di divorzio la prescrizione tra coniugi rimane sospesa.
Questa era perlomeno l’opinione della Corte costituzionale e della giurisprudenza prevalente fino al 2014.
In particolare la Corte costituzionale era intervenuta sul tema della sospensione della prescrizione tra coniugi due volte. Una prima volta allorché proprio sul tema specifico che qui interessa ebbe a dichiarare che anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini (Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 35) e una seconda volta allorché escluse l’incostituzionalità dell’art. 2941 n. 1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio (Corte cost., 29 gennaio 98, n. 2).
A questa interpretazione aveva finora sempre aderito la giurisprudenza sia di legittimità (Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 e, in passato, Cass. civ., 23 agosto 1985, n. 4502 secondo cui l’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione della prescrizione, trova applicazione anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniuge, ma solo una attenuazione del vincolo) che la giurisprudenza di merito (Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004; Trib. Milano, 10 febbraio 1999). Di contrario avviso Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 che ha affermato che la sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c. si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazione che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione.
Quest’ultima è diventata ora anche l’opinione prevalente della giurisprudenza di legittimità che con due sentenze del 2014 (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 e Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078) si è assunta la responsabilità di escludere la sospensione della prescrizione tra coniugi separati. In particolare si è affermato che l’originaria idea che “lo stato di separazione, pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981) e che, quindi, la sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941 c.c., n. 1 non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi alla luce dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare, con la conseguente tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 c.c. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione (Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078).
Pertanto allo stato attuale l’interpretazione prevalente in giurisprudenza prevede che la sospensione della prescrizione tra coniugi prevista nell’art. 2941, n. 1, c.c. non si applichi ai coniugi separati, anche se non viene chiarito nelle due sentenze sopra richiamate quale sia il termine finale del periodo di sospensione e cioè da dove cominci (o ricominci) a decorrere la prescrizione (se dalla domanda di separazione, dai provvedimenti provvisori e urgenti che autorizzano i coniugi a vivere sperati ovvero dal giudicato di separazione). Parrebbe plausibile ritenere che il termine sia costituito dal giudicato sulla separazione analogamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza in materia di interruzione della prescrizione (Cass. civ. Sez., I, 7 giugno 2013, n. 14427).
Naturalmente la sospensione della prescrizione non impedisce ad un coniuge di azionare la sua pretesa anche nel corso della vita matrimoniale allorché si verifichi l’evento sul quale fondare la pretesa restitutoria o creditoria.
VII La prescrizione nelle azioni di status
Nella versione riformata dalla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 dell’azione di disconoscimento della paternità e dell’azione di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, risulta completamente modificato l’impianto dei termini di prescrizione delle azioni di status tendenti alla eliminazione di status difformi dalla verità biologica.
Il nuovo art. 244 c.c. prevede sempre che l’azione da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio (ovvero dal giorno in cui la madre è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento) mentre l’azione promossa dal marito di lei deve essere esercitata nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio in caso contrario dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare; se il marito prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. La novità più significativa in materia di prescrizione dell’azione sta nel fatto che sia la madre che il marito di lei non possono in ogni caso proporre più l’azione oltre cinque anni dal giorno della nascita mentre per il figlio l’azione è diventata imprescrittibile. Prima della riforma del 2013 sulla filiazione il figlio era ammesso ad esercitare l’azione “entro un anno dal compimento dalla maggiore età o dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il riconoscimento”).
L’ultimo comma dell’art. 244 c.c. prevede inoltre ora, dopo la riforma, che “l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni [sedici prima della riforma del 2013] ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore”. Quindi oltre il quattordicesimo anno l’iniziativa non può che essere assunta dal figlio.
Poiché la legge prevede che il minore possa attivarsi per l’azione di disconoscimento (richiedendo addirittura egli stesso, se ultraquattordicenne, la nomina di un curatore) è evidente che in tal caso la rappresentanza processuale del minore non può essere lasciata alla madre o al marito di lei (cioè al padre legittimo del minore). Il conflitto di interessi è in re ipsa. Si tratta di un conflitto di interessi in verità più ampio a cui la legge con questo meccanismo pone riparo ed è il conflitto tra il diritto (imprescrittibile) attribuito al figlio e il diritto (prescrittibile) attribuito alla madre e al marito di lei. Se la madre e il marito di lei non promuovono l’azione o lasciano decorrere i termini di prescrizione, il figlio maggiorenne potrà in seguito sempre promuovere il disconoscimento mentre nel periodo della minore età la nomina di un curatore per il promovimento dell’azione può essere richiesta direttamente dal figlio ultraquattordicenne ovvero – sotto i quattordici anni – dal “Pubblico Ministero” o “dall’altro genitore”.
L’altra azione che nel contesto della filiazione (ma fuori dal matrimonio) è destinata ad eliminare lo status non veritiero è l“impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità”. Si tratta della principale – non l’unica – azione di caducazione dello status di figlio nato fuori dal matrimonio. Il primo comma dell’art. 263 c.c. prevede che “il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse”. Chi asserisce di essere il padre biologico, in quanto soggetto che vi ha certamente interesse, è, quindi, tra i soggetti che può promuovere l’azione e partecipare poi a pieno titolo al processo.
Gli altri commi dell’art. 263 c.c. (introdotti dall’art. 18 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) prevedono che l’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita ovvero dal giorno in cui egli ne ha avuto conoscenza. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento. L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Riguardo al figlio l’azione è, invece, imprescrittibile.
La scadenza del termine massimo di cinque anni previsto per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio renderà inattaccabile lo status a meno che il figlio non ritenga di dover esercitare il diritto imprescrittibile che la legge gli attribuisce. È anche questo un modo di risolvere un conflitto di interessi dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
Sulla imprescrittibilità per il figlio dell’azione di accertamento della paternità la Corte di Cassazione ha escluso di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale (Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960).
È anche opportuno fare un accenno alla regolamentazione della prescrizione contenuta nelle norme transitorie della riforma sulla filiazione (titolo V del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) dove si prevede all’art. 104 che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, sono legittimati a proporre azioni di petizione di eredità, ai sensi dell’articolo 533 del codice civile, coloro che, in applicazione dell’articolo 74 dello stesso codice, come modificato dalla medesima legge, hanno titolo a chiedere il riconoscimento della qualità di erede” (primo comma), che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, possono essere fatti valere i diritti successori che discendono dall’articolo 74 del codice civile, come modificato dalla medesima legge” (secondo comma) e che “i diritti successori che discendono dall’articolo 74 del codice civile, come modificato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, sulle eredità aperte anteriormente al termine della sua entrata in vigore si prescrivono a far data da suddetto termine”.
Pertanto tutti coloro che per effetto della nuova nozione di parentela (art. 74 c.c.) acquistano la qualifica di parenti e che come tali hanno acquistato con la riforma titolo alla eventuale successione, possono azionare le loro pretese nel termine prescrizionale di dieci anni decorrente dall’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e cioè dal 1° gennaio 2013, sulle successioni apertesi prima di tale data concorrendo con coloro che prima di tale data avevano già acquistato un titolo ereditario, e quindi con effetti potenzialmente molto problematici, anche se la legge fa salvo l’eventuale giudicato già formatosi a tale data.

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Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l›imprescrittibilità dell›azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l›effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, atteso che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l›aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell›identità personale del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 31 luglio 2015, n. 16222 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’identità personale e sociale costituisce un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la sua lesione, per ef¬fetto di un riconoscimento della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, implica il risarcimento del danno non patrimoniale così arrecato, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costi¬tuisca o meno reato. Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni conseguenti ad un riconosci¬mento di paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, decorre dal giorno dell’azione di impugnazione dell’atto per difetto di veridicità.
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologa¬zione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, l’accordo di separazione dei coniugi omologato non è impugnabile per simulazione, poiché l’iniziativa proces¬suale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale di coniugi separati, è volta ad assicurare efficacia alla separazione, così da superare il precedente accordo simulatorio, rispetto al quale si pone in antitesi dato che è logicamente insostenibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a tale condizione.
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sospensione della prescrizione non opera tra coniugi separati legalmente.
L’originaria idea che “lo stato di separazione… pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” (così Corte cost. n. 35/1976 cit.), è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (così Cass. n. 7981/2014). I
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decor¬renza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, cod. civ. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turba¬re l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 (Foro It., 2014, 7-8, 1, 2124)
La regola della sospensione del decorso della prescrizione dei diritti tra i coniugi, prevista dall’art. 2941, primo comma, n. 1, cod. civ., deve ritenersi operante sia nel caso che essi abbiano comunanza di vita, sia ove si trovino in stato di separazione personale, implicando questa solo un’attenuazione del vincolo.
Trib. Roma, sez. I civile, 1 aprile 2014 (Giur. It., 1988, I,1, 1112)
L’esistenza degli obblighi previsti dagli artt. 148, 315-bis e 316-bis c.c. si riconnette al solo fatto della procre¬azione, a prescindere dal riconoscimento formale dello status. L’azione di regresso del genitore che abbia prov¬veduto da solo al mantenimento del figlio e quella di concorso negli oneri di mantenimento può essere azionata nei confronti dell’altro genitore a prescindere da una pronuncia sullo status passata in giudicato. La prescrizione dell’azione decorre da ogni singola spesa effettuata e il termine è quello decennale non vertendosi in materia di alimenti ma di regresso in materia di obbligazioni solidali.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così de¬terminandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consa¬pevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Trib. Roma Sez. I, 17 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi in cui il figlio, alla nascita, sia riconosciuto da uno soltanto dei genitori, da un lato il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi all’obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, essendo tenuto a provvedervi, sin dal momento della nascita e per altro verso il genitore che abbia provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio può agire nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso pro quota, delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è però, utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304 (Nuova Giur. Civ., 2014, 94, nota di TAGLIASACCHI)
È valida ed efficace la clausola, apposta ad un contratto di mutuo concluso tra coniugi, mediante la quale la restituzione della somma ricevuta viene sospensivamente condizionata alla separazione personale.
È valido il mutuo tra coniugi nel quale l’obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell’evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli effetti dell’art. 1354, primo comma, cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2013, n. 14427 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La proposizione di una domanda giudiziale ha effetto interruttivo della prescrizione, protraentesi fino al pas¬saggio in giudicato della sentenza che definisca il giudizio decidendo il merito o eventuali questioni processuali di carattere pregiudiziale, con riguardo a tutti i diritti da essa coinvolti o che si ricolleghino, con stretto nesso di causalità, al rapporto cui essa inerisce, sicché una siffatta efficacia, relativamente al termine decennale di prescrizione afferente il conguaglio della indennità di espropriazione e di occupazione giudizialmente invocato, può essere attribuita alla precedente domanda di opposizione alla stima solo in presenza di una correlazione so¬stanziale o processuale tra le decisioni che abbiano definito i rispettivi giudizi. (Nella specie la S.C., confermando la sentenza impugnata, ha escluso una tale correlazione avendo il giudizio di opposizione alla stima riguardato, originariamente, indennità relative a porzioni di terreno diverse da quella per la quale era stato successivamente richiesto il suddetto conguaglio, ed essendo, altresì, rimasto incensurato il diniego di valenza interruttiva della prescrizione attribuito alla statuizione di inammissibilità concernente la domanda tardivamente ivi formulata anche con riguardo a quest’ultima).
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2013, n. 11985 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di applicazione degli artt. 2943, primo comma, e 2945, secondo comma, cod. civ., la nullità della noti¬ficazione dell’atto introduttivo del giudizio impedisce l’interruzione della prescrizione e la conseguente sospen¬sione del suo corso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, a nulla rilevando, in senso contrario, la mera possibilità che la nullità sia successivamente sanata, e fermo restando che, qualora la sanatoria processuale abbia poi effettivamente luogo, i relativi effetti sul corso della prescrizione decorrono dal momento della sanatoria medesima, senza efficacia retroattiva.
Trib. Milano Sez. III, 9 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I ratei mensili degli assegni di mantenimento per i figli, così come gli assegni di separazione e di divorzio per il coniuge, rappresentando prestazioni che debbono essere pagate periodicamente in termini inferiori all’anno, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. si prescrivono in cinque anni. In tal senso, è irrilevante, al fine dell’operatività della citata norma, anziché di quella dell’art. 2953 c.c., il fatto che essi siano dovuti in forza di sentenza di separazione o divorzio passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di una stretta solidarietà tra i coniugi, può ipotizzarsi che i rapporti di dare e avere patrimoniale subiscano, sul loro accordo, una sorta di quiescenza, una sospensione che cesserà in caso di “fallimento” del ma¬trimonio, e con il venir meno, provvisoriamente con la separazione, e definitivamente con il divorzio, dei doveri e diritti coniugali. Ciò detto, ove venga stipulato un contratto “atipico”, quale espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi, con il quale questi abbiano stabilito che, in caso di fallimento del matrimonio l’uno dovrà cedere all’altro un suo immobile, quale indennizzo delle spese sostenute da quest’ultimo per la ristrutturazione di altro immobile da adibirsi a casa coniugale, esso deve sicuramente considerarsi volto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c. e la condizione del “fallimento” di certo lecita.
Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla riscossione dell’assegno alimentare soggiace al termine di prescrizione breve quinquennale, ver¬tendosi in un’ipotesi di prestazioni periodiche in termini inferiori all’anno, disciplinate dall’art. 2948, n. 4 c.c. La sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c., invece, si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazio¬ne che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione non costituendo la separazione un definitivo momento di rottura dell’unità familiare che poteva sempre ricostituirsi.
Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196 (Famiglia e Diritto, 2013, 2, 174, nota di SERRA)
Il provvedimento relativo al mantenimento del figlio minore delle parti nel giudizio di separazione può essere assunto d’ufficio e, pertanto, la domanda del genitore, per la prima volta, nel giudizio di secondo grado, non contrasta con il disposto dell’art. 345 c.p.c., trattandosi di allegazione di omessa pronuncia.
Trib. Roma Sez. I, 5 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla percezione dei ratei scaduti dell’assegno di mantenimento tanto del coniuge quanto dei figli, si prescrive dalle singole scadenze delle prestazioni dovute nel termine quinquennale disposto dall’ art. 2948 c.c, in quanto assimilabile – come tutte le prestazioni volte al sostentamento di terzi da eseguirsi periodicamente – alle pensioni alimentari, senza che possa invocarsi, trattandosi di credito scaturente da decreto di omologa delle condizioni della separazione consensuale ovvero da sentenza esecutiva, la conversione prevista dall’art. 2953 c.c. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e la conseguente applicabilità del termine di ordinaria prescrizione decennale.
Trib. Palermo Sez. I, 13 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito all’opposizione a decreto ingiuntivo, proposta in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli minori, è fondata l’eccezione di prescrizione quinquennale, sollevata dall’op¬ponente, limitatamente ai ratei maturati successivamente alla sentenza penale di condanna emessa in seguito all’accertamento del reato previsto e punito dall’art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970 La sentenza penale, concernendo esclusivamente i ratei dell’assegno di mantenimento non pagati, per i quali sia stata sporta denun¬cia penale, ne consegue che si sottraggono alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2953 c.c. rimanendo assoggettati alla prescrizione decennale. Difatti, la sentenza penale che condanni l’obbligato ai sensi dell’art. 570 c.p. comporta che sono soggetti alla prescrizione decennale solo i crediti per i quali sia stata sporta denuncia e non anche quelli maturati successivamente a tale data.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impresa familiare i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimo¬niale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ.
Trib. Monza Sez. III, 16 settembre 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento va assimilato alle prestazioni con scadenza periodica di cui all’art. 2948 c.c. e come tale soggetto alla prescrizione breve quinquennale.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17914 (Famiglia e Diritto, 2011, 2, 129, nota di ORTORE)
In materia di mantenimento del figlio naturale, la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale, mentre
l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richie¬dono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello “status”.
Trib. Trani, 22 aprile 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ art. 2953 c.c. prevede espressamente che siano soggetti alla prescrizione breve quinquennale i ratei relativi alle pensioni alimentari alle quali vanno assimilati le prestazioni alimentari di natura periodica inferiori all’anno, quali l’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione o divorzio.
Trib. Bologna Sez. I, 16 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento stabilito dal giudice in sede di separazione dei coniugi, come tutte le prestazioni che devono essere pagate periodicamente, ha un termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.c..
Trib. Benevento, 22 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto di filiazione, sia esso legittimo o naturale, pone a carico di entrambi i genitori l’obbligo di provvedere al mantenimento del figlio, perdurante fino alla intervenuta completa autosufficienza economica dello stesso. In particolare, nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore, per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò con¬segue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale atteso che soltanto per effetto di tale pronuncia si costituisce lo status di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita, con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 (Foro It., 2007, 1, 1, 86)
Il termine decennale di prescrizione del diritto del genitore naturale al rimborso da parte dell’altro genitore, coobbligato, delle spese sostenute per il mantenimento del figlio decorre dal riconoscimento da parte di detto coobbligato ovvero dal passaggio in giudicato della sentenza di accertamento giudiziale della paternità o della maternità che, in quanto attributiva dello “status” di figlio naturale, costituisce il presupposto per l’accoglimento della domanda in oggetto.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2006, n. 20692 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del diritto, agli effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell’art. 2944 cod. civ. pur non richiedendo formule speciali, deve tuttavia consistere in una ricognizione chiara e specifica del diritto altrui, uni¬voca e incompatibile con la volontà di non riconoscere il diritto stesso, e l’indagine diretta a stabilire se una certa dichiarazione costituisca riconoscimento, ai sensi della norma richiamata, rientra nei poteri del giudice di merito, il cui accertamento non è sindacabile in sede di legittimità quando è sorretto da una motivazione sufficiente e non contraddittoria.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico – , non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati “secundum ius”, non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di mantenere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori. Con¬seguentemente, il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere sin dal momento della nascita, attesa la natura dichiarativa della pronuncia che accerta la filiazione naturale. Il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la con¬seguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2005, n. 20290 (Fam. Pers. Succ., 2007, 2, 107, nota di ZUCCHI)
In tema di separazione personale consensuale, le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omo¬logazione trovano fondamento nell’art. 1322 c.c., e devono ritenersi valide ed efficaci anche a prescindere dal controllo dell’Autorità giudiziaria, sempre che i loro contenuti si mantengano nei limiti dei diritti e dei doveri inderogabili delineati dall’art. 160 c.c.
Cass. civ. Sez. III, 12 settembre 2005, n. 18097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza penale passata in giudicato che, ai sensi dell’art. 570 cod. pen., condanni l’obbligato in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento con riferimento ai mesi per i quali fu sporta denunzia penale comporta che sono soggetti a prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.. soltanto i crediti oggetto del giudicato penale e non anche quelli successivi a tale data. Infatti tali prestazioni, avendo natura periodica, sono assimilabili alla nozione di “pensioni alimentari” e soggette alla prescrizione quinquennale decor¬rente dalle singole scadenze, in relazione alle quali sorge l’interesse all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 (Guida al Diritto, 2005, 16, 39, nota di FIORINI)
Il diritto di percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di divorzio, all’ex coniuge da sentenze pas¬sate in giudicato per i figli minori a lui affidati può essere modificato, ovvero estinguersi del tutto, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. (oltre che per accordo tra le parti), con la conseguenza che la raggiunta maggiore età e la raggiunta autosufficienza economica del figlio non sono, di per sé, condizioni sufficienti a le¬gittimare, “ipso facto”, la mancata corresponsione dell’assegno.
Il diritto a percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, con sentenze passate in giudicato, può essere modificato o estinguersi, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. con la conseguenza che la raggiunta maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono condizioni sufficienti a legittimare, ipso fatto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno.
In tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, di¬stinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Foro It., 1986, I, 2679)
Il riconoscimento del figlio naturale comporta l’assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legit¬tima, ivi compreso l’obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece, avviene con riguardo a quest’ultima, a norma dell’art. 317-bis c.c.., la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostan¬ze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali, come si desume, in particolare, dall’art. 148 c.c., richiamato dall’art. 261 c.c., che prevede l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui. L’obbligo in esame, non avendo natura alimentare, e decorrendo dalla nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato “pro quota”.
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercitabile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004 (Guida al Diritto, 2005, 2, 78)
L’articolo 2941 del c.c. che dispone la sospensione della prescrizione tra coniugi deve applicarsi, attesa la tas¬satività dei casi di sospensione previsti dagli articoli 2941 e 2942 del c.c., sia nel caso che i coniugi abbiano comunanza di vita sia allorché si trovino in stato di separazione personale. Al coniuge non proprietario dei beni per i quali sono stati effettuati esborsi con denaro comune ovvero con suo esclusivo, compete un diritto di credito quantificabile, in assenza di prova contraria, nella metà della spesa sostenuta a vantaggio del bene non facente parte della comunione ma in proprietà esclusiva dell’altro coniuge, sul quale trattandosi di debito di valuta, sono dovuti i soli interessi legali dalla messa in mora, sino al saldo effettivo.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio, in quanto avente ad oggetto più prestazioni periodiche, distinte ed autonome, si prescrive non a decorrere da un unico termine costituito dalla sentenza che ha pro¬nunciato sul diritto stesso, ma dalle scadenze delle singole prestazioni imposte dalla pronuncia giudiziale, in relazione alle quali sorge di volta in volta l’interesse del creditore all’adempimento. Ne consegue che, dovendo tali prestazioni essere erogate alle scadenze fissate e sino al momento della diversa determinazione del giudice in sede di revisione, ovvero fino alla morte dell’ex coniuge onerato, non può profilarsi al momento del decesso una prescrizione del diritto all’ultimo assegno spettante, tale da estinguere il diritto alla sua percezione, e quindi da impedire il sorgere del diritto alla quota della pensione di reversibilità.
Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 (Famiglia e Diritto, 2004, 473 nota di CONTE)
Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologa¬zione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, è da escludere l’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione una volta omologato, giacché l’ini¬ziativa processuale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale dei coniugi separati, con le conseguenti implicazioni giuridiche, si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione che vale a superare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso, essendo logicamente insoste¬nibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione.
L’accordo di separazione ha natura negoziale e a esso possono applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del consenso e di capacità delle parti. È tuttavia inammissibile l’impugnazione della separazione per simulazione quando i coniugi abbiano chiesto al tribunale l’omologazione della loro (simulata) separazione. In tal caso, la volontà di conseguire lo status di separati – dal quale la legge fa derivare effetti irretrattabili tra le parti e nei confronti dei terzi, salve le ipotesi della riconcilia¬zione e dello scioglimento definitivo del vincolo – è effettiva e non simulata.
L’atto che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale ha natura negoziale. In tale accordo, infatti, si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclu¬sione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma e in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi mo¬menti e aspetti della dinamica familiare. Quanto precede non esclude, peraltro, che non è ammissibile dedurre la natura simulata di un siffatto accodo. Nel momento, infatti, in cui i coniugi convengono, nello spirito e nella pro¬spettiva della loro intesa simulatoria, di chiedere al tribunale l’omologazione della loro apparente separazione esse in realtà concordano nel volere conseguire il riconoscimento di un nuovo status e la volontà di conseguire quest’ultimo è effettiva e non simulata, per cui appare logicamente insostenibile che i coniugi possano disvolere con detto accordo la condizione di separati e, al tempo stesso, volere l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione: l’antinomia tra tali determinazioni non può trovare altra composizione che nel considerare l’iniziativa processuale come atto incompatibile con la volontà di avvalersi della simulazione.
Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo; è consentito, invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espres¬samente che, in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum con conseguente richiesta il giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in assenza di tale inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolalo i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum potendo le parti avere regolato diversa¬mente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patri¬moniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra. (Nella fattispecie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, escluso che i coniugi avessero dichiarato l’avvenuta corresponsione una tantum dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente operazione di trasfe¬rimento immobiliare, aveva proceduto alla determinazione dell’assegno medesimo su richiesta di modifica delle condizioni di cui alla sentenza di divorzio presentata da uno degli ex coniugi).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079 (Famiglia e Diritto, 2003, 344)
Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniu¬ge economicamente più debole, la cui domanda di assegnazione dell’assegno divorzile potrebbe essere da detti accordi paralizzata o ridimensionata. (Nella specie si trattava della dichiarazione del coniuge economicamente più debole che liberava, in vista del divorzio, l’altro coniuge da ogni obbligazione patrimoniale nei suoi confronti).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076 (Famiglia e Diritto, 2003, 4, 344, nota di PICCALUGA)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando, al momento del divorzio, l’inadegua¬tezza dei mezzi del coniuge richiedente in rapporto al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, non essendo necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto e rilevando, invece, l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche. Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, la cui domanda di assegnazione dell’assegno di¬vorzile potrebbe essere da detti accordi paralizzata o ridimensionata. (Nella specie si trattava della dichiarazione del coniuge economicamente più debole che liberava, in vista del divorzio, l’altro coniuge da ogni obbligazione patrimoniale nei suoi confronti).
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2000, n. 15349 (Giust. Civ. 2001, I, 1592)
La nullità, per illiceità della causa, degli accordi economici con cui i coniugi, in occasione della loro separazione, fissano il regime del loro futuro ed eventuale divorzio può essere invocata esclusivamente in sede di divorzio, a tutela di chi richiede le prestazioni economiche, nel caso che il coniuge onerato invochi quegli accordi al fine di escludere il diritto dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rito adottato dal legislatore, con l’art. 9 della legge sul divorzio, ai fini della modificazione dell’assegno divorzi¬le, risulta regolato, in via generale, dagli art. 737 e ss. del c.p.c., e, quanto alle forme, in parte risulta disciplinato espressamente da tale normativa, mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento – che è attuato con impulso di ufficio – alla disciplina concretamente dettata dal giudice la quale dovrà garantire il rispet¬to del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa. Da ciò deriva, quanto al procedimento di primo grado, che in esso non vigano le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario, con la conseguenza che in esso: 1) potranno essere proposte per tutto il corso di esso domande nuove, anche riconvenzionali, in con¬formità delle direttive dettate dal giudice nella gestione del processo, senza con ciò peraltro che la loro eventuale mancata proposizione possa impedirne la proposizione in separato giudizio; 2) potranno essere ammesse altresì prove nuove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo; fatti che – peraltro – anche in questo caso il giudice dovrà e potrà prendere in esame se ed ove dedotti e sempre nei limiti delle domande proposte. Più in particolare trattasi di un procedimento svolgentesi nell’interesse delle parti ed anche nel quale – diversamente da quanto accade nel caso in cui si tratti di modifica dell’assegno di mantenimento di figli minori – vige il principio della domanda e della corrispondenza fra il “chiesto” ed il “pronunciato”, investendo l’”officiosità del procedimento” unicamente il profilo dell’impulso al suo svolgimento, ed, in certa misura (ai sensi dell’art. 738, comma 3) l’acquisizione di materiale probatorio. Quanto poi al giudizio di secondo grado nascente dal “reclamo”, fermo che quest’ultimo costituisce un mezzo di impugnazione avente carattere “devolutivo” e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del “devolutum” e delle censure formulate ed in correlazione alle domande formulate in quella sede, in esso giudizio, mentre possono essere allegate – stante la libertà di forme proprie del procedimento – fatti nuovi, non possono essere proposte domande nuove, in quanto queste ultime snaturerebbero la natura del reclamo quale mezzo di impugnazione e, come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento.
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109 (Foro It., 2001, I, 1318 nota di RUSSO, CECCHERINI)
Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi, diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, la cui domanda di attribuzione dell’assegno divorzile potrebbe essere da detti ac¬cordi paralizzata o ridimensionata. Il richiamato principio, pertanto, non trova applicazione, ove invocato, al fine di ottenere l’accertamento negativo del diritto dell’altro coniuge, da quello che dall’accordo preventivo potrebbe ricevere un aggravio dell’onere cui sia tenuto. Né può essere fatta valere, in sede di divorzio, la nullità di un accordo transattivo, ancorché parzialmente trasfuso nella separazione consensuale, già raggiunto tra i coniugi al solo scopo di porre fine ad una controversia di natura patrimoniale, tra gli stessi insorta, senza alcun riferimento, esplicito od implicito, al futuro assetto dei rapporti economici conseguenti all’eventuale pronuncia di divorzio. Siffatto accordo, peraltro, acquisterebbe rilievo su detti rapporti, sotto il profilo della necessaria considerazione, da parte del giudice, della complessiva situazione reddituale delle parti, risultante, tra l’altro, dal credito di uno dei coniugi cui corrisponde il debito dell’altro.
Trib. Napoli, 28 gennaio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto al mantenimento del minore o del figlio maggiorenne non autosufficiente è, di per sé, imprescrittibile, ma non è imprescrittibile il diritto ai singoli ratei scaduti dell’assegno di mantenimento, trovando applicazione il termine quinquennale di cui all’art. 2948 c.c., ovvero, allorché il diritto in parola discende da una sentenza divor¬zile passata in giudicato, il termine decennale di cui all’art. 2953 c.c. (fermo che per i ratei e gli interessi scaduti successivamente alla sentenza continua ad applicarsi la prescrizione breve ex art. 2948 cit.).
Trib. Milano, 10 febbraio 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione tra coniugi è sospesa di diritto durante il matrimonio e tale regola trova applicazione anche durante la separazione personale, che non implica il venire meno del rapporto di coniugio, ma soltanto un’atte¬nuazione del vincolo.
Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi e di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento, in quanto avente ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, si prescrive non a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di sepa¬razione o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, bensì dalle singole scadenze di pagamento, in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a ciascun adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829 (Guida al Diritto, 2004, 38, 45)
Le modificazioni degli accordi, convenuti tra i coniugi, successive all’omologazione della separazione ovvero alla pronuncia presidenziale di cui all’art. 708 c.p.c., trovando legittimo fondamento nel disposto dell’art. 1322 c.c. devono ritenersi valide ed efficaci, a prescindere dall’intervento del giudice ex art. 710 c.p.c., qualora non superino il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c. e, in particolare, quando non interferiscano con l’accordo omologato ma ne specifichino il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti, all’evidenza, con gli interessi ivi tutelati.
Corte cost., 29 gennaio 1998, n. 2 (Famiglia e Diritto, 1998, 214, nota di FIGONE)
L’art. 2941 n. 1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio, non contrasta con l’art. 2 cost., in quanto, per un verso, la disposizione codicistica si riferisce a rapporti di carattere patrimoniale, difficilmente ricadenti sotto il parametro costituzionale che presuppone l’inviolabilità dei diritti, e, per altro verso, l’assimilazione della convivenza di fatto alle formazioni sociali si risolve in un’esplicitazione della pretesa violazio¬ne del principio di eguaglianza, insussistente per difetto di un adeguato “tertium comparationis”.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1997, n. 5244 (Famiglia e Diritto, 1997, 6, 576)
Gli accordi economici intervenuti fra i coniugi al momento della separazione non possono spiegare efficacia pre¬clusiva alla determinazione giudiziale dell’assegno di divorzio, atteso che, ove la causa di tali accordi fosse la li¬quidazione preventiva e forfettaria dell’assegno di divorzio, essi sarebbero nulli, sia per l’indisponibilità dell’asse¬gno di divorzio (rafforzata dalla legge n. 74 del 1987 che ha conferito al suddetto assegno natura eminentemente assistenziale), sia per illiceità della causa (avendo tali accordi sempre l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno “status”); diverso è il caso delle intese economiche prospettate dalle parti con la domanda congiunta di divorzio ai sensi dell’art. 4 l. n. 74 del 1987, poichè tali intese (che vanno pur sempre sottoposte ad una valutazione giudiziale) si riferiscono ad un divorzio che le parti hanno già deciso di conseguire e non semplicemente prefigurato.
Corte cost., 25 giugno 1996, n. 214 (Famiglia e Diritto, 1996, 5, 424, nota di CARBONE)
È costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 30 comma 3 cost. – l’art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del p.m. nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli art. 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898 e 710 c.p.c., come risulta a seguito della sentenza n. 416 del 1992.
Corte cost., 9 novembre 1992, n. 416 (Giur. It., 1993, I,1, 1152, nota di DALMOTTO)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 710 c.p.c., nel testo precedente a quello sostituito dall’art. 1 l. 29 luglio 1988 n. 331, nella parte in cui non prevede l’intervento del p.m. per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole dei coniugi separati.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 1991, n. 13128 (Giust. Civ., 1992, I, 1239, nota di CAVALLO)
Il carattere di indisponibilità dell’assegno di divorzio è stato rafforzato a seguito della nuova disciplina di cui alla l. n. 74 del 1987; essa ha infatti conferito a tale assegno natura eminentemente assistenziale e ha quindi escluso per i soggetti interessati il potere di determinare in via preventiva e autonoma gli effetti patrimoniali del divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 1991, n. 9840 (Dir. Famiglia, 1992, 562)
L’accordo fra coniugi separati, con cui si preveda la persistente operatività di patti aventi contenuto economico anche in regime di divorzio, è nullo per illiceità della causa pure in riferimento al godimento della casa familiare, non assumendo rilievo la circostanza che questa sia oggetto di comproprietà fra i coniugi medesimi, purché si verta in tema di convenzione sui rapporti correlati al matrimonio e non di contratto modificativo dell’assetto dominicale o costitutivo di diritti reali implicanti detto godimento.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5633 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel quadro normativo delineato dall’art. 30 cost., dall’art. 279 c. c. e dalle convenzioni internazionali ratificate e rese esecutive in Italia, l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio trova la sua fonte immediata nel fatto della procreazione, anche se accertato incidenter tantum e non nello status formale del figlio naturale; pertanto, non ha causa illecita per contrarietà a norme imperative o all’ordine pubblico, bensì è pienamente valido, in quanto informato alla detta normativa, il contratto con il quale un genitore naturale, am¬mettendo che un soggetto è stato da lui procreato, si obblighi a mantenerlo, in una misura convenzionalmente determinata, indipendentemente dal suo riconoscimento formale.
Cass. civ. Sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contributo di mantenimento cui il coniuge non affidatario è tenuto a favore dei figli in caso di separazione o di divorzio non è governato né dal principio di disponibilità né dal principio della domanda, presupposti dell’ordina¬rio processo civile, essendo il giudice titolare al riguardo di un potere-dovere improntato a difesa di un superiore interesse dello stato alla tutela e alla cura dei minori; nell’esercizio di tale potere, pertanto, il giudice non ha bisogno di domanda, né è vincolato dagli accordi fra i coniugi, sia per la determinazione dell’assegno, sia per la sua eventuale indicizzazione, potendo procedere d’ufficio alla sua rivalutazione anche in appello
Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, in riferimento agli art. 3, 1° e 2° comma, 24, 2° comma, e 30 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 1° comma (in relazione all’art. 6, 2° comma) l. 1° dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 708 c. p. c. (in relazione all’art. 155 c. c., nella parte in cui, rispet¬tivamente nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e nel giudizio di separazione personale dei coniugi, non prevedono la nomina di un curatore speciale che rappresenti in giudizio il minore figlio delle parti, in ordine alla pronuncia sull’affidamento e ad ogni altro provvedimento che lo riguardi; i giudizi in questione, infatti, non attengono né si riflettono sullo status dei figli, ed inoltre, essendo preordinati a scegliere la soluzione migliore per gli interessi del minore, gli interessi di quest’ultimo non rimangono senza tutela, ma sono garantiti da una serie non indifferente di misure.
Cass. civ., 23 agosto 1985, n. 4502 (Dir. Famiglia, 1985, 934)
L’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione della prescrizione, trova applicazio¬ne anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniuge, ma solo una attenuazione del vincolo.
Cass. civ., 22 aprile 1982, n. 2481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I patti modificativi delle condizioni economiche previste in sede di separazione consensuale sono validi ed ef¬ficaci, anche senza la omologazione del tribunale, qualora essi non siano lesivi del diritto di mantenimento o di alimenti, riconducibile al diritto-dovere di assistenza (art. 143 c. c.), avente natura inderogabile (art. 160 c. c.), ma la parte che lamenta tale lesione per il superamento dei limiti della derogabilità, che non è ravvisabile quando tale diritto sia maggiormente tutelato, può provocare il relativo accertamento giudiziale (nella specie: il marito aveva convenuto di corrispondere alla moglie consensualmente separata una somma mensile doppia rispetto a quella fissata in sede di omologazione a titolo di mantenimento, ma successivamente aveva dedotto la nullità di tale pattuizione; il giudice del merito aveva ritenuto valido il patto modificativo e la suprema corte ha confermato tale pronuncia).
Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 35 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini.