CONFLITTO DI INTERESSI (tra genitori e figli)

Di Gianfranco Dosi
I L’esigenza di una nuova ricostruzione sistematica del tema del conflitto di interessi tra genitori e figli
Il tema del conflitto di interessi tra genitori e figli viene trattato nella manualistica tradizionale quasi esclusivamente nell’ambito delle funzioni genitoriali di rappresentanza dei figli e di amministrazione del loro patrimonio.
Questo approccio tradizionale si deve al fatto che il codice civile colloca la disciplina del “conflitto di interessi” nell’ambito delle norme sulla rappresentanza, specificamente nell’art. 1394 (libro IV sulle obbligazioni, titolo II dei contratti, capo VI della rappresentanza) nel quale si legge che “il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile”. Ipotesi paradigmatica, unica prevista ex lege, del conflitto di interessi è il contratto che il rappresentante conclude con se stesso (art. 1395 c.c.). Il conflitto di interessi è tema, quindi, che attiene nel codice civile alla rappresentanza (volontaria). Ed anche nel diritto di famiglia, conseguentemente, la manualistica tradizionale tratta il tema del conflitto di interessi soprattutto nel contesto delle norme sulla rappresentanza (legale) del figlio minore da parte dei genitori.
Questa collocazione sistematica è oggi assolutamente inadeguata perché mette in risalto nella molteplicità delle funzioni genitoriali solo un aspetto problematico – concernente il lato esterno della rappresentanza (risolvibile con la nomina di un curatore speciale) – mentre trascura del tutto i conflitti di interesse che possono emergere nell’ambito del rapporto genitori – figli collegati ai doveri genitoriali di educazione, istruzione, mantenimento e assistenza (risolvibili non solo attraverso la nomina di un curatore, ma più spesso attraverso diversi e ulteriori strumenti di perseguimento dell’interesse del minore).
In effetti nell’ambito della “responsabilità genitoriale” (art. 316 c.c.) la rappresentanza è solo uno degli aspetti che definiscono le funzioni genitoriali e forse il meno problematico. Nella nozione di “responsabilità genitoriale” sono sovrapposti, infatti, sia il potere di rappresentanza (che dura finché dura la minore età), sia un altro vasto fascio di funzioni educative, di cura, di mantenimento e di assistenza (che supera anche il limite della minore età).
Le disposizioni, quindi, che, in caso di conflitto di interessi tra il figlio minore e i suoi genitori, prevedono la nomina al minore di un curatore speciale e altri strumenti di tutela del figlio (minore ma anche maggiore di età) vanno correttamente ricollocate nel contesto di tutte queste funzioni connesse alla responsabilità genitoriale, costituite sia dai poteri di rappresentanza dei figli minori e di amministrazione del loro patrimonio da parte dei genitori, sia dai poteri di indirizzo collegati alle altre più ampie funzioni genitoriali.
Da un lato vi sono, perciò, funzioni fisiologiche del potere rappresentativo (appunto quelle cui fa riferimento soprattutto la manualistica tradizionale) concernenti quello che costituisce il risvolto esterno della responsabilità genitoriale e cioè il compimento necessario da parte dei genitori di atti o il perseguimento giudiziario di interessi in nome e per conto (e quindi in rappresentanza) del minore e che altrimenti il minore – privo di capacità di agire – non potrebbe compiere. A questo fascio di funzioni fanno riferimento le norme sul conflitto nell’ambito dell’esercizio del potere rappresentativo e di amministrazione (art. 320 c.c., art. 321 c.c.; articoli 78, 79 e 80 c.p.c.; alcuni procedimenti relativi allo status filiationis) per lo più risolvibile con la nomina di un curatore speciale.
Dall’altro lato vi sono, invece, funzioni genitoriali di carattere interno al rapporto genitori-figli, che si esercitano attraverso l’adempimento dei doveri genitoriali collegati ai diritti indicati nell’art. 315- bis c.c. (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) secondo cui “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”. Nelle molteplici situazioni in cui l’ordinamento giuridico chiede ai genitori di garantire questi diritti ai figli (non solo minori di età) si possono determinare altrettante situazioni di conflitto di interessi per le quali la soluzione, in caso di minore età del figlio, può essere la nomina di un curatore speciale (in ambito civile art. 336 c.c.; articoli 8 e 10 della legge 4 maggio 1983, n. 184 nell’interpretazione pacifica in giurisprudenza; in ambito penale art. 121 c.p. e 338 c.p.p.) ma può anche essere diversa. Così in sede di separazione, divorzio e affidamento dei figli la tutela dei diritti dei figli è garantita dall’utilizzazione di altri strumenti come l’ascolto del figlio (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100; Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478).
Pertanto la sistematica del conflitto di interessi tra genitori e figli va oggi completamente ricostruita assumendo come criterio di riferimento non più soltanto l’aspetto esterno della responsabilità genitoriale costituito dai tradizionali poteri di rappresentanza dei figli da parte dei genitori, ma l’intero fascio di poteri e doveri che presiedono all’esercizio delle funzioni genitoriali.
II Il conflitto di interessi nell’esercizio delle funzioni di rappresentanza del figlio minore da parte dei genitori
Premesso quindi che la responsabilità genitoriale si esprime sia attraverso le tradizionali funzioni di rappresentanza e amministrazione, sia attraverso ulteriori e più ampie funzioni di educazione, istruzione, mantenimento e assistenza del figlio, l’indagine sul conflitto di interessi può cominciare dalla verifica del concetto di conflitto di interessi nell’approccio tradizionale legato alle funzioni di rappresentanza dei figli minori da parte dei genitori.
Anche in questo caso, però, come anche in ambito contrattuale (citato art. 1394 c.c.), il concetto di conflitto di interessi non viene esplicitato dal legislatore e pertanto va ricostruito a partire dalle nozioni tradizionali interne al tema della rappresentanza e dalla casistica che si presenta nella prassi.
Con riferimento alle indicazioni che emergono dal codice civile sul conflitto di interessi va detto che l’art. 1394 c.c. secondo cui “il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato è annullabile se tale conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo” ha valore nel solo ambito contrattuale e non è applicabile al conflitto di interessi cui fa riferimento l’art. 320 ultimo comma c.c. per il quale l’inosservanza delle norme sulla sostituzione del rappresentante legale comporta l’annullabilità sempre e indipendentemente dalla riconoscibilità del conflitto da parte del terzo (art. 322 c.c.).
La dottrina riconduce correttamente il conflitto di interessi all’abuso della rappresentanza e ne individua il dato caratteristico nel fatto che si tratta di un esercizio anormale del potere rappresentativo, una deviazione funzionale, una specie di sviamento di potere. L’atto è regolare ma il rappresentante agisce sostanzialmente nel proprio interesse e non nell’interesse del rappresentato. Lo scopo, quindi, delle disposizioni che intendono porre riparo al conflitto di interessi nell’ambito della rappresentanza genitoriale è quello di evitare che i genitori nell’esercizio del potere legale di rappresentanza dei figli minori possano perseguire un loro interesse piuttosto che quello dei loro figli ovvero l’interesse di un figlio a scapito di quello di un altro figlio.
Il rilevamento del conflitto di interessi (in vista del suo superamento) è reso possibile grazie alla previsione dell’obbligo di autorizzazione giudiziaria per il compimento di determinati atti e determinate attività che i genitori possono compiere in nome e per conto dei figli minori. Come meglio si vedrà tra breve, allorché per determinati atti di straordinaria amministrazione si renda necessaria un’autorizzazione in sede giudiziaria, il giudice chiamato ad autorizzare un atto o una iniziativa giudiziaria relativa ad un minore, ove rilevi un conflitto di interessi tra genitori e figli o un qualsiasi altro difetto di rappresentanza deve nominare al figlio minore un curatore speciale in funzione sostitutiva delle funzioni genitoriali.
Proprio per questo motivo – per non estendere oltre il necessario l’attribuzione a terzi delle funzioni genitoriali – la giurisprudenza si è trovata nella necessità di circoscrivere correttamente il concetto di conflitto di interessi ed ha messo in evidenza che il conflitto di interessi tra genitore e il figlio è ipotizzabile allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concilia con quello del rappresentato (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533; Cass. civ. Sez. II, 26 ottobre 1981, n. 5591) o si presenta contrastante con quello del figlio minore (Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869). Ed è anche per questa ragione che per il compimento di atti patrimoniali che appaiono, invece, utili e necessari al minore, non viene ipotizzato tra genitori e figli minori alcun conflitto di interessi con la conseguenza che in questi casi non è necessario nominare un curatore speciale (Trib. Roma, 12 marzo 1991, in Temi Romana, 1991, 428).
Per quanto in particolare concerne il promovimento di un’azione giudiziaria (iniziativa che, come meglio si dirà, il giudice è anche chiamato ad autorizzare) la nomina di un curatore speciale si paleserà necessaria tutte le volte in cui ci si avvede che i genitori esercenti la responsabilità genitoriale, agendo in rappresentanza del figlio, possano perseguire un proprio vantaggio o allorché la causa possa arrecare al minore un pregiudizio, ma non quando il genitore chieda un provvedimento che si presenti oggettivamente vantaggioso per il figlio, quale una pronuncia di risarcimento dei danni sofferti dal minore in conseguenza di un fatto illecito (Cass. civ. Sez. II, 19 gennaio 2012, n. 743; Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981 n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503) ovvero una qualunque altra azione che possa portare vantaggio al minore.
È stato anche precisato che vi è un rapporto di totale autonomia tra la eventuale valutazione negativa sul conflitto di interessi che il giudice tutelare (chiamato ad autorizzare un atto di straordinaria amministrazione) abbia fatto in sede di autorizzazione dell’atto e l’eventuale conflitto di interessi che si dovesse poi palesare concretamente in sede processuale. Con la conseguenza che se anche il giudice tutelare, in sede di autorizzazione di un atto, non abbia ritenuto di nominare un curatore speciale, non è escluso che in sede processuale, ove per esempio il genitore promuova in nome e per conto del figlio minore una causa concernente l’atto autorizzato, venga rilevato in concreto un conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato tale da richiedere – sulla base delle norme generali di cui agli articoli 79, 80 e 81 c.p.c. che saranno più oltre esaminate – la nomina di un curatore speciale al rappresentato. Questo è l’orientamento della giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822) dove il principio è stato prospettato in un caso di conflitto di interessi tra un anziano interdetto e la figlia che ne era tutore, ma viene in motivazione espressamente dichiarato applicabile anche al caso in cui il giudice tutelare, ritualmente richiesto, abbia ritenuto di non nominare un curatore speciale per il promovimento di un’azione giudiziaria per conto di un minore, in quanto il giudice tutelare “pone ad oggetto della propria determinazione la sola valutazione sull’opportunità o meno dell’azione sulla base delle prospettazioni di esito favorevole o meno della stessa, al cui accertamento perviene prendendo in considerazione esclusivamente gli elementi di giudizio prospettati dall’istante o acquisiti a seguito dell’istruttoria su di essi espletata”.
Analogamente – e sempre perché vi è autonomia tra i due differenti contesti normativi – l’eventuale invalidità dell’atto di nomina del curatore speciale (per esempio nominato da giudice incompetente) può essere fatta valere come ragione di annullamento della nomina in sede di reclamo ma non incide sulla validità della eventuale causa promossa da o contro il curatore speciale. Il principio è stato espresso da Cass. civ. Sez. I, 18 febbraio 1985, n. 1357 in una causa che era stata promossa contro un curatore speciale.
Nonostante il chiaro disposto dell’art. 320 c.c. che lo prevede testualmente, la giurisprudenza non sempre ritiene necessario nominare un curatore speciale allorché il genitore promuova un giudizio per il risarcimento di danni cagionati al minore (Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2010, n. 8720; Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2003, n. 3795; Cass. civ. Sez. III, 22 maggio 1997, n. 4562 hanno precisato che l’autorizzazione serve quando “il danno, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato”; Contra in passato Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59 che aveva ritenuto sempre necessaria la nomina di un curatore speciale in caso di transazione).
Il conflitto di interessi, in definitiva, si ricollega alla titolarità, in capo al genitore, di una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo possa essere in contrasto con l’interesse del minore e presuppone che il genitore sia interessato ad un atto di contenuto diverso o ad un esito della lite diverso da quello che avvantaggia il rappresentato (Cass. civ. Sez. III, 15 settembre 1983, n. 5582 in cui la Corte ha escluso una situazione di conflitto di interessi in relazione al genitore che, nella qualità di rappresentante del figlio minore, avendo promosso il giudizio per il risarcimento del danno subito dal figlio, aveva resistito, in appello all’impugnazione del terzo ritenuto responsabile, ancorché il giudice di primo grado avesse affermato un concorso di colpa di esso genitore).
Non si configura, pertanto, alcun conflitto di interessi, e non è conseguentemente necessaria la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c.c., quando il compimento dell’atto, pur avendovi i due soggetti un interesse proprio e distinto, realizza un vantaggio comune di entrambi senza danno reciproco (Cass. civ. Sez. III, 28 febbraio 1992, n. 2489 relativo alla costituzione della madre, in proprio ed in rappresentanza dei figli minori, nel giudizio di risarcimento di danno extracontrattuale instaurato contro il padre, poi deceduto; nello stesso senso anche Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869 e Cass. sez. III, 17 maggio 1985, n. 3020) ovvero quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice di merito, siano tra loro concorrenti e compatibili (Cass. civ. Sez. II, 26 ottobre 1981, n. 5591 nella fattispecie, in cui il genitore resisteva in giudizio nell’interesse proprio di erede e nell’interesse dei figli minori legatari, la Cassazione, enunciando il principio sopra ricordato ha ritenuto escluso, dai giudici di merito, il conflitto di interessi tra i primI ed i secondi). Per questi motivi Cass. civ. Sez. II, 29 gennaio 2016, n. 1721 ha precisato che la verifica del conflitto del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed “ex ante”.
Insomma il conflitto di interessi fra genitore e figlio minore – che legittima la nomina di un curatore speciale – sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, appare contrastante con quello del rappresentato.
Naturalmente, secondo i principi generali, il convincimento circa l’esistenza di un conflitto di interessi e la conseguente nomina del curatore speciale, se correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869).
In base a quanto anche si ritiene in tema di rappresentanza volontaria – dove si ha conflitto di interessi sia quando il rappresentante persegue in interesse proprio (conflitto di interessi diretto) sia quando persegue un interesse non del rappresentato ma di terze persone (conflitto di interessi indiretto) – il conflitto di interessi che comporta l’obbligo di nomina di un curatore speciale può presentarsi anche in forma indiretta allorché i genitori perseguano un interesse non dei figli e nemmeno di essi genitori ma di una terza persona (Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 1981, n. 439).
Non si realizza specificamente una vera e propria situazione di conflitto di interessi nell’art. 321 c.c. (che si avrà modo tra breve di esaminare) dove, invece, ciò che rileva è l’impossibilità o la negligenza nella cura degli interessi del minore. Tuttavia in senso ampio anche la nozione di atti che i genitori non possono o non vogliono compiere può essere assimilata al conflitto di interessi; conflitto appunto tra l’interesse del minore che dovrebbe essere tutelato in una direzione e un fatto (impossibilità di compiere un atto) ovvero un comportamento (negligenza nel compiere un atto) del genitore che si pone in contrasto con quella esigenza.
Nell’ipotesi in cui al minore, rimasto privo dei genitori, sia stato nominato un tutore (art. 343 c.c.), il conflitto di interessi tra il tutore e il minore è risolto preventivamente attraverso la nomina di un protutore il quale “rappresenta il minore nei casi in cui l’interesse di questo è in opposizione con l’interesse del tutore” (art. 360 comma 1). Anche in questo caso residua, però, la possibilità di nomina di un curatore speciale al minore ogni qualvolta il protutore sia in conflitto di interessi con lui (art. 360 comma 2).
III Le caratteristiche del conflitto di interessi nel compimento di atti di straordinaria amministrazione (art. 320 c.c.) e in caso di inerzia dei genitori (art. 321 c.c.)
Il potere sostitutivo di rappresentanza dei figli minori nei confronti dei terzi non è considerato dalla legge del tutto libero. Infatti per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione per conto dei figli minori i genitori devono munirsi dell’autorizzazione del giudice tutelare (art. 320 c.c.) il quale è chiamato, quindi, ad esercitare un controllo di merito sugli atti di potenziale maggiore rischio compiuti dai genitori nell’interesse del figlio minore. L’autorizzazione deve essere preventiva, a pena dell’annullabilità dell’atto (art. 322 c.c.).
Sono esclusi dalla funzione sostitutiva e quindi non sollevano un problema giuridico di conflitto di interessi tra genitore e figli minori – e non possono comportare la nomina di un curatore speciale – sia gli atti personalissimi che un minore intendesse compiere, come il riconoscimento di un figlio, sia gli atti per i quali i figli sono considerati capaci prima del raggiungimento della maggiore età come l’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro cui il minore è abilitato al compimento in genere del quindicesimo anno di età o per l’esercizio dei diritti e delle azioni relative alle opere dell’ingegno da lui create cui il minore è abilitato al sedicesimo anno di età. Ugualmente si ritiene – in conformità, peraltro, a quanto prevede espressamente l’art. 777 c.c. – che il genitore non possa compiere atti a titolo gratuito per conto dei figli minori, posto che la funzione sostitutiva dei genitori ha come limite connaturale l’utilità degli atti compiuti nell’interesse dei figli minori.
L’art. 320 c.c. rubricato rappresentanza e amministrazione collocato, nell’ambito delle norme del codice riservate alla responsabilità genitoriale (libro I, titolo IX, dall’art. 315 all’art. 337-octies dopo la riforma attuata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154), prevede al primo e al secondo comma che “i genitori congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. Gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore. Si applicano in caso di disaccordo o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, le disposizioni di cui all’art. 316”. Il terzo, il quarto e il quinto comma elencano gli atti – di più significativa importanza – che i genitori non possono compiere se non dopo aver richiesto l’autorizzazione del giudice tutelare (atti di straordinaria amministrazione elencati nel terzo comma e la riscossione di capitali cui fa riferimento il quarto comma) ovvero del tribunale (autorizzazione alla continuazione da parte del minore di una impresa commerciale cui si riferisce il quinto comma). Il giudice è chiamato a valutare la corrispondenza dell’atto all’interesse del minore e autorizzare o meno l’atto.
L’ultimo comma prevede che “se sorge conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale o tra essi e i genitori o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale. Se il conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale la rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all’altro genitore”.
L’art. 321 c.c., rubricato nomina di un curatore speciale, chiarisce in un unico comma che “in tutti i casi in cui i genitori congiuntamente o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale non possono o non vogliono compiere uno o più atti nell’interesse del figlio, eccedente l’ordinaria amministrazione, il giudice, su richiesta del figlio stesso, del pubblico ministero o di uno dei parenti che vi abbia interesse, e sentiti i genitori, può nominare al figlio un curatore speciale autorizzandolo al compimento di tali atti”.
La competenza alla nomina del curatore speciale appartiene al giudice tutelare nel caso del conflitto di interessi indicato nell’art. 320 c.c. e – secondo una interpretazione letterale delle norme da parte della giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1992, n. 3079) – al tribunale nel caso previsto dall’art. 321 c.c.
Il curatore speciale ha la funzione (di diritto sostanziale), in sostituzione dei genitori, di compiere nell’interesse del minore quel determinato atto giuridico a contenuto patrimoniale eccedente l’ordinaria amministrazione che i genitori non è opportuno che compiano essendosi evidenziata, appunto, una situazione di conflitto di interessi. Tra gli atti in questione vengono espressamente annoverati dalla disposizione citata i casi in cui occorre promuovere (o transigere) in nome e nell’interesse di un minore una determinata azione giudiziaria concernente gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione ai quali fa riferimento lo stesso art. 320 c.c..
Analogamente prevede l’art. 321 c.c. per quelle situazioni in cui i genitori non possono o non intendono compiere uno o più atti eccedenti l’ordinaria amministrazione nell’interesse del loro figlio minore. Si verifica in questi casi non un conflitto di interessi in senso stretto ma un conflitto di interessi in senso ampio e cioè un difetto di esercizio dei poteri di rappresentanza per mancanza dei genitori o per loro disinteresse.
Gli articoli 320 e 321 c.c. delineano, quindi, sia la figura del curatore speciale ad acta e, nel caso di promovimento di un’azione giudiziaria, quella del curatore speciale ad processum (terminologia che non compare nella giurisprudenza e nemmeno nella dottrina ma che rende bene la differenza tra queste due categorie di curatori speciali). La giurisprudenza ha precisato che il curatore speciale ad acta può anche rappresentare il minore in sede processuale nei giudizi sorti in seguito ed in relazione all’atto per il cui compimento è stato nominato; quindi le funzioni di curatore ad acta possono evolvere verso quelle del curatore ad processum (Cass. civ. Sez. III, 28 marzo 2017, n. 7889; Cass. civ. Sez. unite, 16 ottobre 1985, n. 5073). Il principio è, insomma, che il curatore speciale che venga nominato dal giudice tutelare, ex art. 320 c.c., in una situazione di conflitto di interessi tra il minore e il genitore, ha poteri di rappresentanza del minore identici a quelli del genitore, sicché ha legittimazione processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all’atto per cui sia stata disposta la nomina
Si possono individuare le seguenti caratteristiche:
a) Natura patrimoniale dell’interesse tutelato
La disfunzionalità nella rappresentanza degli interessi del minore al quale entrambe le norme intendono porre riparo attiene ad interessi di natura patrimoniale. È lo stesso ultimo comma dell’art. 320 c.c. a qualificare il conflitto di interessi come avente necessariamente contenuto patrimoniale. Lo si deduce, però, chiaramente anche dal fatto che le norme parlano di “atti” e non di “fatti” o “comportamenti”. Sulla base della circostanza che il conflitto di interessi di cui si parla ha natura eminentemente patrimoniale la giurisprudenza ha ritenuto, per esempio, che non debba ritenersi soggetto all’autorizzazione ai sensi dell’art. 320 c.c. il ricorso giurisdizionale avverso un atto di riprovazione di un alunno di scuola media (TAR Abruzzi, sez. Pescara, 10 maggio 1984, n. 157, in Riv. giuridica scuola, 1986, 845) e della scuola dell’obbligo (TAR Lombardia, sez. III, Milano, 9 giugno 1986, n. 284, in Foro It., 1987, III, 308) involgendo tali controversie interessi non di natura patrimoniale ma di natura personale ancorché ne possano derivare indiretti riflessi economici.
Parte della dottrina non condivide la limitazione del conflitto di interessi richiamato dall’art. 320 c.c. al conflitto di interessi di natura patrimoniale e ritiene che l’espressione “conflitto di interessi patrimoniale” – che testualmente era stata così riformulata dalla riforma del diritto di famiglia del 75 in sostituzione della precedente espressione che semplicemente parlava di “conflitto di interessi”- servirebbe soltanto ad impedire che contrasti di vedute e di opinioni sul modo di condurre l’educazione dei figli, fra questi e i propri genitori, vengano portati davanti al giudice. Tuttavia l’indicazione testuale delle norme è molto chiara e il conflitto di interessi non patrimoniali può trovare posto solo nell’art. 78 c.p.c. limitandosi quest’ultima norma a parlare di “conflitto di interessi con rappresentante” senza alcuna specificazione circa la natura del conflitto.
b) Atto di straordinaria amministrazione
A differenza degli atti di ordinaria amministrazione che possono essere compiuti disgiuntamente da entrambi i genitori (che, in caso disaccordo, potranno attivare lo speciale procedimento previsto nell’art. 316 c.c. di competenza oggi non più del tribunale per i minorenni ma del tribunale ordinario dopo le riforme dell’art. 38 disp. att. c.c. attuata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) viceversa gli “atti” che, sussistendo un conflitto di interessi o un disinteresse dei genitori, giustificano, in sede di autorizzazione, la nomina del curatore speciale del minore sono quelli eccedenti l’ordinaria amministrazione. Tra questi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento (per i quali il primo comma dell’art. 320 c.c. esclude, pur trattandosi di atti di ordinaria amministrazione, che possano applicarsi le regole dell’amministrazione disgiuntiva). Il principio della necessità della autorizzazione per i soli atti di straordinaria amministrazione si desume chiaramente dal fatto che il terzo comma dell’art. 320 c.c. dopo avere elencato nella prima parte gli atti che necessitano della autorizzazione conclude il breve elenco con l’espressione “o compiere altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” con ciò chiaramente intendendo attribuire agli atti subito prima elencati la natura di atti eccedenti, appunto, l’ordinaria amministrazione. L’autorizzazione del giudice tutelare è richiesta – in base al quarto comma dell’art. 320 c.c. – anche per la riscossione di capitali in nome e per conto del minore che potrebbe essere considerato un atto di ordinaria amministrazione in quanto volto al miglioramento del patrimonio del minore; in questa evenienza il conflitto di interessi tra i genitori e il minore viene rimosso in radice in quanto si prevede espressamente che il giudice debba determinare il reimpiego delle somme riscosse (nell’art. 372 c.c. sono indicate le modalità di investimento dei capitali del minore). I medesimi atti di straordinaria amministrazione sono richiamati nell’art. 321 c.c. e per essi è applicabile il meccanismo previsto nell’ultimo comma dell’art. 320 c.c. relativo alla nomina del curatore speciale del minore nel caso in cui si evidenzi il conflitto di interessi. Espressamente, quindi, anche l’inerzia dei genitori, che l’art. 321 c.c. pone a fondamento della nomina ivi prevista del curatore speciale, deve concernere un atto “eccedente l’ordinaria amministrazione”.
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione si fonda tradizionalmente sulla funzione dell’atto; in questa prospettiva sarebbero atti di ordinaria amministrazione quelli che, senza alterare l’integrità del patrimonio sono rivolti al suo mantenimento e che abbiano finalità di conservazione (Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 1999, n. 8484; Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869) oppure quelli che sono tesi al miglioramento del patrimonio. Occorre, però, osservare che anche gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possono avere la funzione di migliorare o incrementare il patrimonio. È difficile individuare, perciò, un criterio unitario. Appare plausibile il riferimento – che si fa anche in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614; Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1982, n. 599) – tra atti che non alterano l’integrità del patrimonio del minore ed atti che, invece, in quanto rischiosi potrebbero incidere su di esso con modificazioni o trasferimenti idonei a mutarne la struttura e la consistenza, sempre, beninteso che si chiarisca che gli atti soggetti ad autorizzazione non possono che essere diretti a migliorare il patrimonio del minore, non certo a recargli pregiudizio. Il “rischio” potrebbe essere pertanto alla base della distinzione tra le due categorie di atti.
Un tentativo di individuare le caratteristiche che fondano la distinzione è stato fatto da Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614 secondo cui vanno considerati di ordinaria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patrimonio predetto. Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre queste caratteristiche.
Per alcuni atti è espressamente l’art. 320 c.c. che indica la necessità dell’autorizzazione previa verifica dell’utilità evidente per il figlio minore e, quindi, l’inclusione nella categoria degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione: alienazione o iscrizione di ipoteca o sottoposizione a pegno di beni pervenuti al figlio minore; accettazione o rinuncia ad eredità o a legati, accettazione di donazioni, scioglimento di comunioni, conclusione di contratti di mutuo (Cass. civ. Sez. III, 28 luglio 1987, n. 6542 la quale, in un caso di concessione di mutuo a minori, nonostante la espressa inclusione di tale tipo di negozio fra gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, ha ritenuto esente tale atto dalla preventiva autorizzazione del giudice tutelare ove venga fornita la prova specifica che il prestito sia suscettibile di restituzione mediante impiego del reddito del minore e senza pericolo di decurtazione dei suoi capitali o di diminuzione del valore del suo patrimonio) o di locazione ultranovennale e, infine, promovimento di azioni, transazione o arbitrato relativamente agli atti elencati.
È stato considerato di ordinaria amministrazione il promovimento da parte dei genitori di un’azione di responsabilità verso terzi per danni subìti dal minore (Trib. Cagliari, 8 agosto 1989, citata in Riv. giuridica sarda, 1995, 53). In tal caso la ritenuta non necessità della nomina viene in genere giustificata non per il fatto che si tratta di un atto di ordinaria amministrazione quanto piuttosto dalla considerazione della vantaggiosità per il figlio che escluderebbe il conflitto di interessi (Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503).
Atto di straordinaria amministrazione, che richiede come tale l’autorizzazione del giudice tutelare, è la confessione giudiziale o stragiudiziale su fatti dalla cui prova il diritto del figlio potrebbe risultare pregiudicato (Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 1995, n. 4015 che fa nella specie riferimento alla confessione – che sarebbe inammissibile senza autorizzazione – da parte del genitore relativamente alla gratuità di un atto di alienazione apparentemente oneroso stipulato senza testimoni; in tal caso, infatti, la confessione avrebbe come conseguenza la nullità dell’atto per difetto di forma).
Ugualmente atto di straordinaria amministrazione è la continuazione (non, quindi, l’inizio) dell’esercizio di una impresa commerciale per il quale, tuttavia, l’art. 320 comma 5 c.c. prevede la competenza all’autorizzazione del tribunale relegando il giudice tutelare – chiamato peraltro ad esprimere un parere non vincolante – alla funzione di autorizzazione solo dell’esercizio provvisorio (Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 1994, n. 7204). L’autorizzazione alla continuazione dell’impresa commerciale presuppone, naturalmente, che l’impresa sia già entrata nel patrimonio del minore, altrimenti, in caso di imprese che non sono ancora di proprietà del minore, l’autorizzazione sarebbe invalida (Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1984, n. 2936). Il genitore, autorizzato dal tribunale ai sensi dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., alla continuazione dell’esercizio dell’impresa commerciale del minore, può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione del giudice tutelare, anche i singoli atti strettamente collegati a tale esercizio, stante il carattere dinamico dell’impresa e la necessità di assumere decisioni pronte e tempestive, le quali sarebbero gravemente ostacolate, o addirittura paralizzate qualora, per ogni singolo atto, occorresse rivolgersi all’autorità giudiziaria (Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 2011, n. 10654; Cass. civ. Sez. II, 5 giugno 2007, n. 13154).
Un’indicazione specifica per la distinzione di natura tra atti potrebbe ricavarsi anche dall’art. 374 c.c. il quale, nel contesto delle norme che disciplinano l’esercizio della tutela, attribuisce al giudice tutelare la funzione di autorizzare alcuni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (acquisto dei beni, riscossione dei capitali, cancellazione di ipoteche, assunzione di obbligazioni, accettazione di eredità e di donazioni, contratti di locazione ultranovennale o che si prolungano oltre un anno dopo il raggiungimento della maggiore età, promovimento di giudizi con le eccezioni previste). L’art. 375 c.c. a sua volta indica altri atti di straordinaria amministrazione la cui competenza per l’autorizzazione spetta al tribunale: alienazione di beni, costituzione di pegni o di ipoteche, divisioni giudiziali o stragiudiziali, compromessi o transazioni. Sebbene nel caso degli art. 374 e 375 c.c. l’elencazione sia certamente tipica, si tratta sostanzialmente degli stessi atti indicati nell’art. 320 c.. con ciò, quindi, mettendosi in evidenza che l’aspetto più problematico consiste proprio nella ritenuta non esaustività delle indicazioni fornite dall’art. 320 c.c. La giurisprudenza ha ritenuto, in ogni caso, che la distinzione tra atti di ordinaria amministrazione ed atti di straordinaria amministrazione prevista negli art. 320, 374 e 394 c.c. si applica soltanto a proposito dei beni degli incapaci e non è applicabile alle società per le quali gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, pur se eccedenti l’ordinaria amministrazione devono ritenersi di competenza degli amministratori mentre sono di competenza dell’assemblea tutti gli atti di alienazione di beni strumentali o suscettibili di modificare la struttura della società (Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 1994, n. 2430; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5353; sul punto anche Cons. Stato Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3402, in Pluris Wolters Kluwer Italia).
Naturalmente, è configurabile, e opponibile al minore rappresentato, la eventuale simulazione assoluta di un atto, eccedente i limiti dell’ordinaria amministrazione, compiuto dal legale rappresentante, preventivamente e regolarmente autorizzato dal giudice tutelare (Cass. civ. Sez. II, 9 giugno 2014, n. 12953).
La competenza ad autorizzare gli atti di straordinaria amministrazione spetta al giudice tutelare del luogo di residenza del minore.
In ordine alla vendita di beni immobili ereditati dal minore Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2012, n. 13520 e Cass. civ. Sez. III, 4 novembre 1998, n. 11071 hanno ribadito questa regola unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio mentre, ai sensi del primo comma dell’art. 747 cod. proc. civ., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell’acquisto “iure hereditario” non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario, in quanto, in tale ipotesi, l’indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell’art. 320 cod. civ., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell’eredità, così evitandosi una disparità di trattamento fra minori “in potestate” e minori sotto tutela, con riguardo alla diversa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 cod. civ.) e i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all’art. 747 cod. proc. civ.).
Come detto non tutti gli atti di straordinaria amministrazione producono un conflitto di interessi. La nomina, quindi, del curatore speciale al minore va disposta solo quando l’atto viene valutato come potenzialmente configgente con l’interesse del genitore che è chiamato ad effettuarlo in rappresentanza del minore.
c) Le quattro tipologie di conflitto di interessi prese in considerazione dall’art. 320 c.c.
Per espressa previsione dell’ultimo comma dell’art. 320, c.c. il conflitto di interessi nell’esercizio dei poteri di rappresentanza e amministrazione può evidenziarsi unicamente in quattro modalità: a) tra figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale (si pensi ad un atto che i genitori intendono compiere in favore di uno tra più figli e che determina, pertanto, un conflitto di interessi tra il beneficiato e i fratelli); b) tra il figlio ed entrambi i genitori che esercitano la responsabilità genitoriale (si pensi ad un lascito ereditario ad un figlio che i genitori sono chiamati ad accettare); c) tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale (per esempio il conflitto di interessi tra il minore e il genitore che ne è affidatario esclusivo); d) è prevista, infine, una quarta ipotesi di conflitto di interessi di natura patrimoniale (la meno problematica) che si verifica quando il conflitto sorge tra il figlio ed uno dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale (si pensi al caso in cui, in costanza di matrimonio o in situazione di convivenza con l’altro genitore ovvero in regime di affidamento condiviso in sede di separazione o divorzio, uno dei genitori intenda donare al figlio un bene). In tale ultimo caso, come si è sopra anticipato, il giudice non deve nominare un curatore speciale in quanto l’ultima parte dell’art. 320 prevede per tale ipotesi (come si è detto meno problematica) che la rappresentanza del figlio spetta esclusivamente all’altro genitore coesercente la responsabilità genitoriale il quale quindi sarà chiamato a rappresentare il minore nell’atto o nell’iniziativa giudiziaria oggetto di autorizzazione. Occorre ricordare – per precisare meglio la terza ipotesi alla quale si è fatto riferimento (conflitto di interessi tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale) – che in base all’art. 317 c.c. l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale da parte di un genitore si verifica sostanzialmente nei casi “di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale” oppure quando l’altro genitore sia deceduto o dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale o rimosso dall’amministrazione oppure quando il genitore esercita la responsabilità genitoriale nella qualità di affidatario esclusivo in sede di separazione o divorzio. Va anche precisato – per quanto attiene alla situazione che si verifica in separazione o divorzio – che per quanto concerne il potere di rappresentanza esso spetta in via esclusiva al genitore affidatario esclusivo anche per quanto concerne le “decisioni di maggiore interesse per i figli” che, in base a quanto dispone l’art.337- quater c.c. “devono essere adottate da entrambi i genitori”. Questa precisazione consente di evitare gravi situazioni di incertezza per i terzi e consente di tenere separata la nozione di “atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” da quella di “decisioni di maggiore interesse” mantenendo separati l’aspetto personale e quello patrimoniale della responsabilità genitoriale. Ne consegue in primo luogo che il genitore affidatario esclusivo (a differenza di quanto deve avvenire per le “decisioni di maggiore interesse”) è abilitato a compiere da solo, senza necessità di farlo congiuntamente all’altro genitore, anche le decisioni relative ad atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e, in secondo luogo, che è proprio in questa ipotesi che può riscontrarsi il conflitto di interessi al quale fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 320 c.c. (conflitto tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale) sorgendo quindi per il compimento di tale atto l’obbligo della nomina di un curatore speciale per garantire la rappresentanza del figlio minore.
d) Il conflitto di interessi indiretto
Per analogia la nomina di un curatore speciale può dirsi necessaria anche quando il conflitto di interessi insorga tra il figlio minore e altra persona alla quale i genitori siano legati da vincoli affettivi od economici tali da far ritenere che il loro interesse sia sentito come proprio dal rappresentante. Il conflitto di interessi non è, quindi, soltanto quello che sussiste direttamente tra i genitori e i figli, ma è anche quello cosiddetto indiretto che si verifica quando i genitori perseguono non un interesse del figlio ma nemmeno un interesse proprio, sebbene l’interesse di un terzo soggetto con il quale quindi l’interesse del figlio entra in collisione.
e) Impossibilità di conflitto di interessi tra genitori e nascituri
Sebbene l’art. 320 c.c. estenda la rappresentanza dei genitori anche agli atti relativi ai nascituri (“I genitori… rappresentano i figli nati e nascituri…”) non è ipotizzabile un conflitto di interessi tra genitori e nascituri. Naturalmente, poiché i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati alla nascita (art. 1 comma 2 c.c.), il conflitto di interessi potrebbe porsi nel momento in cui, dopo la nascita, i genitori o quello che esercita la responsabilità genitoriale fossero chiamati per conto del figlio per esempio ad accettare un lascito testamentario fatto a favore del nascituro o a rinunciarvi.
f) Casi di conflitto di interessi
La giurisprudenza ha ritenuto esistente un conflitto di interessi patrimoniale tra il minore e i suoi genitori:
1) In un caso in cui uno dei figli minorenni aveva causato un danno ad un altro figlio minorenne, ritenendo sussistente un conflitto di interessi tra il figlio minore danneggiato ed entrambi i genitori e ritenendo, quindi, legittima la nomina al figlio minore danneggiato di un curatore speciale per l’esercizio dell’azione civile di danno (Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1999, n. 5694).
2) In casi in cui i genitori avevano stipulato un contratto di compravendita a favore del figlio minore (fattispecie di contratto a favore del terzo inquadrabile nell’art. 1411 c.c.), ritenendo necessaria la nomina di un curatore speciale per rendere in nome del figlio minore la dichiarazione di voler profittare della stipulazione (Pretura Santa Maria Capua Vetere, 19 maggio 1995, in Vita notar. 1995, 663, con nota di GIULIANO). Di contrario avviso è stata, però, la giurisprudenza di legittimità la quale ha ritenuto che nel contratto a favore di terzo la validità ed operatività della convenzione medesima postula soltanto la ricorrenza di un interesse dello stipulante senza che si richieda l’osservanza delle norme sulla rappresentanza del minore ove stipulato dal genitore a vantaggio del figlio minore, non implicando il detto contratto né l’esercizio dei poteri di rappresentanza né l’accettazione da parte del figlio
3) Nel caso di donazione al minore da parte di chi esercita la responsabilità genitoriale, in quanto il conflitto di interessi fra donante e donatario discenderebbe dalla stessa natura contrattuale del negozio. La competenza per la nomina del curatore speciale spetta sempre al giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 c.c. e non al tribunale ai sensi dell’art. 321 del medesimo codice, essendo irrilevante che donanti siano entrambi i genitori, uno soltanto di essi o l’unico che eserciti la responsabilità genitoriale. Così secondo Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 1981, n. 439 in tema di donazione in favore di minore per la cui accettazione è richiesta in ogni caso l’autorizzazione del giudice tutelare, a norma dell’art. 320 comma 3 c.c., qualora la qualità di donante venga assunta da entrambi o anche solo da uno dei genitori investiti della legale rappresentanza del minore stesso, si verifica una ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali, che rientra nella previsione dell’ultimo comma del citato art. 320 c.c. con il conseguente potere dovere del giudice tutelare di nominare un terzo curatore speciale e non nella previsione del successivo art. 321, il quale, con l’intervento del tribunale, regola il diverso caso dell’impedimento o della voluta omissione dei genitori medesimi rispetto all’attività necessaria per la tutela del figlio minore (analogamente nella giurisprudenza di merito Appello Palermo, 7 dicembre 1989, in Vita Notar. 1990, 652; Giudice tutelare di Roma, 12 novembre 1986, in Rivista notar. 1987, 159; Tribunale Roma, 15 gennaio 1987, in Riv. notar. 1987, 152; Contra Pretura Roma, 14 aprile 1984, in Riv. Notar. 1984, 627 secondo cui nella donazione dal padre al figlio minore la rappresentanza del figlio per l’accettazione della donazione spetta all’altro genitore non potendosi configurare con quest’ultimo conflitto di interessi tale da necessitare la nomina di un curatore ad acta).
4) In caso di partecipazione del minore agli utili, ai beni acquistati ed ai proventi, dell’impresa familiare, operazioni per le quali deve procedersi, ai sensi dell’art. 320 comma 6 c.c., alla nomina di un curatore speciale. Nell’impresa familiare la qualifica di imprenditore spetta esclusivamente a chi ha la gestione ordinaria dell’impresa limitandosi i familiari ad una prestazione lavorativa nel suo ambito, pur se partecipano ad essa con poteri anche notevolmente incisivi di collaborazione-direzione, ma non di effettiva gestione. Ne consegue, per l’effetto, che per partecipare a tale impresa è sufficiente la capacità di essere parte di un rapporto di lavoro subordinato senza necessità di alcuna autorizzazione da parte del giudice tutelare. Tale autorizzazione, peraltro, è certamente necessaria per la riscossione delle quote degli utili spettanti ai minori e della liquidazione del loro diritto di partecipazione.
5) In caso di liquidazione della quota sociale spettante al minore “iure ereditario” (Tribunale Ascoli Piceno 26 settembre 1984, Riv. Notar., 1986, 732).
6) In caso di riscossione dell’indennità di fine rapporto devoluto ad un minore di età (Consiglio di Stato, sez. VI 16 giugno 1997 n. 902 in Foro amm., 1997, 1690) anche se la tesi non appare convincente considerato che l’art. 2 comma 2 c.c. abilita il minore che presta attività lavorativa, all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.
7) È stato anche ritenuto che sussiste un inevitabile conflitto di interessi allorché uno dei genitori agisca nei confronti dell’altro con procedimento ex art. 709-ter c.p.c. chiedendo il risarcimento dei danni a favore del figlio minore (Trib. Varese, 7 maggio 2010, in Resp. civ., 2010, 7, 554 dove si sostiene che la domanda di risarcimento del danno, proposta con istanza ex art. 709-ter c.p.c. in favore della prole minore di età deve essere presentata da un curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 78, co. 2, c.p.c. atteso che le istanze di un figlio contro uno dei genitori, se proiettate nell’orbita del giudizio intentato dall’altro, sono inevitabilmente intrise di un conflitto di interessi che solo il terzo rappresentante può evitare).
Non è stato, invece ritenuto esistente un conflitto di interessi:
1) Nel caso di azione per il risarcimento del danno subìto da un minore in quanto, essendo diretta al recupero di somme e alla reintegrazione del patrimonio leso è stata considerata un’attività di ordinaria amministrazione, così come la resistenza in giudizi promossi da altri nei confronti del minore d’età configurandosi in tali casi atti di ordinaria amministrazione che possono essere compiuti anche disgiuntamente da ciascun genitore (Tribunale Cagliari, 8 agosto 1989 citato in Rivista giuridica sarda, 1995, 53). Analogamente la giurisprudenza di legittimità non ritiene necessaria la nomina di un curatore speciale in caso di azione di risarcimento danni ma sotto il diverso profilo che la vantaggiosità dell’atto per il minore escluderebbe senz’altro il conflitto di interessi (Cass. sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503).
2) Nel caso di costituzione di una società in accomandita semplice in seno alla quale il minore assuma la qualità di socio accomandante, non ritenendosi esistente un conflitto di interessi tra genitore e figlio minore (Pretura Roma, 24 gennaio 1995, in Dir. fam. 1997, 1473, con nota di MARROCCO).
3) Nel caso di instaurazione da parte di un minore del giudizio di interdizione nei confronti del genitore in quanto l’oggetto di tale giudizio non è la tutela degli interessi patrimoniali dell’interdicendo in contrapposizione a quelli del minore mancando, perciò, quel conflitto di interessi patrimoniali per il quale l’art. 320 c.c. prevede l’intervento del giudice tutelare a protezione del figlio minore (Tribunale minorenni Palermo, 12 dicembre 1997, in Dir. fam. 1999, 167, con nota di DI MARZIO).
4) Nel caso di impugnazione del riconoscimento di un figlio minore promossa da chi ha effettuato il riconoscimento oggetto dell’impugnazione (nella specie il coniuge del genitore naturale del minore). Si è detto a tale proposito che il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la potestà (responsabilità genitoriale) e figlio è ipotizzabile non già in presenza di un interesse comune, sia pure distinto ed autonomo, di entrambi al compimento di un determinato atto, ma soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concilia con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente presunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la quale non rientra tra le ipotesi, tassativamente indicate dal legislatore nelle quali il giudizio deve essere proposto, in rappresentanza del minore, nei confronti di un curatore speciale nominato al riguardo dal giudice; ne consegue che in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la potestà (responsabilità genitoriale) è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533)
IV Il conflitto di interessi (patrimoniale e non patrimoniale) nel processo civile (art. 78, 79 e 80 c.p.c.)
L’art. 78 c.p.c. prevede al primo comma che “se manca la persona cui spetta la all’incapace, alla persona giuridica o all’associazione non riconosciuta un curatore speciale che lo rappresenti o assista finché subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza”. Il secondo comma aggiunge che “si procede altresì alla nomina di un curatore speciale al rappresentato, quando vi è conflitto di interessi col rappresentante”.
L’art. 79 prevede che la nomina del curatore speciale “può essere in ogni caso chiesta dal pubblico ministero” e “dalla persona che deve essere rappresentata o assistita sebbene incapace, nonché dai suoi prossimi congiunti e, in caso di conflitto di interessi dal rappresentante”. Può anche essere chiesta “da qualunque altra parte in causa che vi abbia interesse”.
L’art. 80 prescrive che l’istanza si propone al presidente del tribunale il quale “assunte le opportune informazioni provvede con decreto”.
Come ha chiarito Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2015, n. 7362, allorquando l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice (monocratico o collegiale nelle ipotesi di cui all’art. 50 bis cod. proc. civ.) della causa pendente, a tanto non ostando la riconducibilità alla giurisdizione volontaria del provvedimento di cui all’art. 80 cod. proc. civ.
Il contesto in cui tali norme sono inserite è quello della capacità processuale delle parti, cioè della loro capacità di partecipare al processo (legitimatio ad processum) riconosciuta, in base alla norma fondamentale di cui all’art. 75 c.p.c., alle persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere. I criteri di legittimazione processuale coincidono, quindi, con la disciplina della capacità processuale e perciò, anche in questo caso intersecano il tema della rappresentanza.
Riferito ai soggetti minori di età l’art. 75 in questione sta a significare che i minori possono stare in giudizio solo se rappresentati “secondo le norme che regolano la loro capacità”, cioè – secondo quanto dispone l’art. 320 c.c. – se rappresentati dai genitori o da chi, comunque, esercita la responsabilità genitoriale.
Il rappresentante non deve necessariamente essere sempre la stessa persona fisica. La giurisprudenza ritiene, infatti, che la persona fisica del rappresentante potrebbe mutare, per qualsiasi ragione, senza che si dia vita ad alcuna interruzione processuale (Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 1998 n. 6292). Si verifica, invece, l’interruzione del processo (art. 299 c.p.c. per il periodo precedente alla costituzione e art. 300 c.p.c. per il periodo successivo alla costituzione) se cessa la rappresentanza e cioè per esempio se il minore diventa maggiorenne. Secondo il codice di procedura civile, infatti, eventi interruttivi del processo sono “la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza”. L’interruzione comporta (ex art. 304 c.p.c.) che non possono più essere compiuti atti processuali (art. 298 c.p.c.) e che il processo si estingue se nei sei mesi successivi non viene ritualmente riassunto (art. 205 c.p.c.). Per evitare queste conseguenze il figlio divenuto maggiorenne prima della costituzione in giudizio potrà costituirsi volontariamente o essere citato in riassunzione. Se invece diventa maggiorenne dopo la costituzione in giudizio, questo evento verrà dichiarato dal genitore o dal curatore speciale e il processo si interrompe salvo che il figlio maggiorenne non si costituisca volontariamente (art. 302 c.p.c.):
Come si è già accennato, essendo il conflitto di interessi cui fanno riferimento gli art. 320 e 321 c.c. un conflitto di interessi espressamente di natura patrimoniale, si può ritenere che il conflitto di interessi al quale fa riferimento l’art. 78 c.p.c., per il caso di conflitto tra genitori e figli minori, possa essere anche di natura non patrimoniale. L’art. 78 c.p.c. trova applicazione per lo più nei casi in cui il minore è convenuto in un giudizio essendo viceversa l’art. 320 c.c. la norma di riferimento per i casi in cui i genitori intendano promuovere l’azione. Non si può escludere, naturalmente, essendoci autonomia tra le norme civilistiche e quelle processuali, che – anche quando i genitori promuovano un’azione e il giudice tutelare abbia ritenuto di non dover nominare un curatore speciale – ove in corso di causa venga ritenuta l’esistenza di un conflitto di interessi possa essere nominato al minore un curatore speciale. Il caso in cui il minore sia convenuto in giudizio è il caso più ricorrente in cui si presenti la situazione di conflitto di interessi che determina la necessità di nomina del curatore speciale. Il giudice ex art. 182 c.p.c. può promuoverne d’ufficio la nomina quando rileva il difetto di rappresentanza.
Va chiarito che la nomina di un curatore speciale al minore ai sensi degli articoli 78, 79 e 80 c.p.c. in caso di conflitto di interessi di natura non patrimoniale tra il minore e i genitori non può considerarsi ammissibile nei casi in cui la nomina stessa si dovesse tradurre in una intrusione nelle scelte di carattere educativo dei genitori. In una vicenda in cui Appello Ancona, 26 marzo 1999 (in Famiglia e diritto, 1999, 467, con nota di LENA) aveva annullato la nomina di un curatore da parte del tribunale per i minorenni in materia di scelta del tipo di cure sanitarie al figlio minore la motivazione è stata che il curatore speciale può essere nominato solo e sempre in caso di conflitti di interesse di natura patrimoniale. Si tratta di un’affermazione, tuttavia, non condivisibile da un punto di vista strettamente sistematico perché l’art. 78 c.p.c. non contiene, come fanno invece gli art. 320 e 321 c.c., una limitazione di questo genere. Tuttavia l’intenzione dei giudici è certamente condivisibile ed è stata sicuramente quella di circoscrivere i casi di nomina di un curatore per impedire una eccessiva dilatazione del potere attribuito al giudice di provocare la sostituzione dei genitori. A questo proposito secondo Trib. Milano Sez. IX Decreto, 19 giugno 2014 il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può sempre procedere alla nomina di un curatore speciale in favore del minore, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 c.p.c., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace.
Come detto la nomina del curatore speciale prescinde da un’istanza di parte e può essere disposta d’ufficio dal giudice.
Nella giurisprudenza meno recente e in parte della dottrina il coordinamento tra le norme di cui agli art. 320 e 321 c.c. e quelle di cui agli articoli 78, 79 e 80 c.p.c. è stato operato, considerando gli articoli 320 e 321 c.c. norme speciali nel settore minorile rispetto agli art. 78, 79 e 80 c.p.c. considerate disposizioni di carattere generale, cioè dirette ad apprestare in via generale – e perciò residuale – una tutela giudiziaria dei diritti dell’incapace ove questi venga a trovarsi in situazione in senso ampio di conflitto di interessi con il suo rappresentante legale e ove non siano rinvenibili norme speciali di composizione del conflitto (Cass. civ. Sez. II, 10 agosto 1982, n. 4491).
La giurisprudenza ritiene che sia configurabile il conflitto di interessi tra genitori e figli “ogni volta che l’incompatibilità delle rispettive posizioni è anche solo potenziale a prescindere dalla sua effettività” e che “la relativa verifica va compiuta in astratto ed ex ante secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio anziché in concreto e a posteriori alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa” con la conseguenza che in caso di omessa nomina del curatore speciale il giudizio è nullo per vizio di costituzione del rapporto processuale e per violazione del contraddittorio a prescindere dal fatto che il conflitto di interessi si sia effettivamente evidenziato nel comportamento processuale delle parti in causa. (Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2003, n. 8803; Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822; Cass. civ. Sez. II, 16 novembre 2000, n. 14866; Cass. civ. Sez. II, 9 luglio 1997, n. 6201). Sulle conseguenze della mancata nomina del curatore speciale ha espresso un convincimento diverso Cass. civ. Sez. III, 9 marzo 2017, n. 6020 ritenendo che la mancata nomina attiene all’esercizio dei poteri processuali e non al contraddittorio con la conseguenza che il giudice di appello, in difetto della suddetta nomina in primo grado per la risoluzione dell’indicato conflitto, deve decidere la causa nel merito, rinnovando eventualmente gli atti nulli.
Va infine precisato che è ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell›art. 111 Cost. contro il decreto di nomina di curatore speciale ex art. 78 c.p.c., perché tale provvedimento non attribuisce o nega un bene della vita, ma assicura la rappresentanza processuale all›incapace che ne sia privo o al rappresentato che sia in conflitto d›interessi con il rappresentante, ha una funzione strumentale al singolo processo, destinata ad esaurirsi nell›ambito del processo medesimo, ed è sempre revocabile o modificabile ad opera del giudice che l›ha pronunciato, anche d›ufficio in primo grado e, successivamente, su gravame di parte, ad opera dei giudici di merito e di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2015, n. 22566).
V La molteplicità di funzioni nella soluzione del conflitto di interessi nei procedimenti relativi alla filiazione (azioni di status ed altri procedimenti)
Si può affermare che le azioni di stato e gli altri procedimenti in materia di filiazione sono collocati al crocevia tra le due diverse concezioni del conflitto di interessi, da un lato come problema della rappresentanza e dall’altro come problema più vasto connesso alla verifica e al perseguimento dell’interesse del minore e dello status di figlio in generale. Per questo motivo di può parlare di molteplicità di funzioni attribuite ai modi di soluzione del conflitto di interessi individuati dal legislatore e dalla giurisprudenza in questi procedimenti.
Nella disciplina giuridica delle azioni di stato e degli altri procedimenti relativi alla filiazione le ipotesi di nomina di un curatore speciale non sono poche. Potrebbe perciò ritenersi che il conflitto di interessi mantenga la sola connotazione tradizionale del conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante (cui consegue la nomina di un curatore speciale) e che quindi si tratti sempre di un conflitto delle funzioni esterne della rappresentanza genitoriale. Vi è, tuttavia, in questo settore una problematicità del conflitto di interessi molto più articolata che consente di riscontrare un sovrapporsi di obiettivi qualcuno raggiunto con modalità finora inedite. In effetti nelle azioni di stato in materia di filiazione sono visibili sia soluzioni tradizionali al problema del difetto di rappresentanza e del conflitto di interessi tra genitori e figli, riconducibili sostanzialmente alle medesime regole processuali che risolvono questi problemi nel processo civile (articoli 79, 80 e 81 c.p.c.), sia motivazioni come detto inedite, sia, ancora, forme di soluzione del conflitto di interessi orientate al controllo di quel fascio di ulteriori funzioni genitoriali connesse al diritto del figlio “di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” (art. 315-bis c.c.) che, come si dirà, costituiscono la motivazione centrale della nomina del curatore speciale nelle procedure di adottabilità e de potestate oltre che in ambito penale nonché l’obiettivo prioritario delle particolari modalità di tutela dell’interesse del minore nelle procedure di separazione, divorzio e affidamento.
Con l’espressione “azioni di stato in tema di filiazione”, ci si riferisce a quei procedimenti che tendono al disconoscimento della paternità (articoli 243-bis – 247 c.c.), alla contestazione o al reclamo dello status (articoli 248 e 249 c.c.), all’impugnazione del riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio (articoli 263 – 268 c.c.) e alla dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità (art. 269 ss c.c.). Non costituiscono, invece, azioni di stato, perché non si concludono con una sentenza costitutiva dello stato di figlio, altri procedimenti sempre concernenti la filiazione quali il procedimento per il riconoscimento tardivo in caso di mancato consenso del genitore che ha effettuato per primo il riconoscimento (art. 250 c.c.), né l’azione per ottenere il mantenimento nei casi in cui non sia possibile o ammissibile proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale (art. 279 c.c.); nel primo caso la sentenza del giudice è solo autorizzativa del riconoscimento, mentre nel secondo caso il procedimento giudiziario prevede solo un accertamento incidentale di compatibilità genetica e non l’attribuzione dello status. Tuttavia per ragioni di completezza sul tema del conflitto di interessi la rassegna sulle azioni di stato in materia di filiazione può anche estendersi a questi due procedimenti.
In particolare:
– In alcune ipotesi di azioni di stato previste nel nuovo libro VII sulla filiazione del codice civile (come riformato dalla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) è prescritta la consueta nomina di un curatore speciale in sostituzione dei genitori per supplire ad una situazione di oggettivo conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante (per il promovimento del disconoscimento nei casi previsti nell’ultimo comma dell’art. 244, per l’integrazione del contradditorio nel disconoscimento ex art. 247; per il promovimento dell’impugnazione del riconoscimento: art. 264; per l’azione di mantenimento ex art. 279 con le riserve cui si è accennato in quanto questa azione non costituisce una azione di stato) ovvero per risolvere un problema di difetto di capacità dell’interessato (nomina del curatore per supplire allo stato di incapacità del figlio nel disconoscimento: art. 245, secondo comma, ovvero nell’azione di contestazione dello stato: art. 248 o di reclamo dello stato:art. 249). Per il promovimento dell’azione di disconoscimento e di impugnazione del riconoscimento la legge attribuisce anche al figlio minore ultraquattordicenne il potere diretto di pretendere la nomina di un curatore speciale in applicazione sia del principio generale indicato nell’art. 79 c.p.c. in base al quale lo stesso rappresentato incapace può richiedere la nomina del curatore sia soprattutto di principi più specifici di tutela proprio dei diritti del minore. Costituisce certamente una ipotesi inedita di reazione ad un evidente conflitto di interessi tra il figlio e i suoi genitori nelle situazioni che legittimerebbero il disconoscimento, l’attribuzione al genitore biologico del potere di richiedere la nomina di un curatore speciale per l’inizio dell’azione (art. 244, ultimo comma, c.c. nel testo modificato dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
– In altre ipotesi la nomina del curatore speciale è prescritta non per sostituire il rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato, ma per consentire all’interessato di poter perseguire, instaurando il contraddittorio con il curatore, il diritto azionato che altrimenti non potrebbe trovare tutela processuale. Si tratta delle ipotesi in cui la nomina di un curatore speciale viene prevista allorché mancano gli eredi – che dovrebbero essere convenuti in giudizio – del soggetto deceduto (così in caso di morte del presunto padre il disconoscimento può promuoversi nei confronti dei discendenti o degli ascendenti e in loro mancanza nei confronti di un curatore speciale: art. 247; il reclamo di stato di figlio se manca il presunto padre può promuoversi nei confronti degli eredi e in mancanza nei confronti di un curatore speciale: art. 249; l’accertamento giudiziale della paternità in caso di morte del presunto genitore e di mancanza di eredi può promuoversi nei confronti di un curatore speciale: art. 276). In queste ipotesi si è in presenza in verità di una situazione di conflitto di interessi piuttosto anomala determinata dal fatto che l’interesse processuale del soggetto titolare del diritto di azione sarebbe frustrato e destinato a soccombere ove non soccorresse la nomina del curatore;
– In altre ipotesi ancora a situazioni di conflitto di interesse tra figli e genitori il codice civile reagisce non prescrivendo la nomina di un curatore speciale, ma attraverso modalità che consentono ugualmente il controllo delle funzioni genitoriali e il perseguimento del migliore interesse del minore (per esempio – con le riserve cui si è accennato circa l’inquadrabilità di questo procedimento tra le azioni di stato – l’art. 250 del codice civile prevede un meccanismo di verifica della plausibilità del dissenso espresso dal genitore che per primo ha riconosciuto il figlio rispetto alla richiesta di riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore nel quale la verifica dell’interesse del minore è imposta attraverso l’ascolto del figlio minore; ugualmente l’ascolto del figlio è previsto per il suo inserimento nella famiglia di uno dei genitori: art. 252 ovvero per l’acquisizione del cognome: art. 262; nel caso di riconoscimento o di accertamento della filiazione in caso di nascita da una relazione incestuosa gli articoli 251 e 278 prevedono una autorizzazione da parte del tribunale per i minorenni). La Corte costituzionale, intervenendo proprio sull’art. 250 c.c. ha irrobustito le garanzie nei confronti del minore prevedendo che in questi procedimenti debba essere nominato un curatore al minore sul presupposto che egli ne è parte processuale (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83; Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101; Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884; App. Napoli, 17 aprile 2013 in Corriere del Merito, 2013, 6, 595).
– Del tutto inedito, infine, è l’utilizzo di un termine massimo di cinque anni per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio (nuovo testo degli articoli 244 e 263 c.c.). Non sarà più possibile alcun procedimento ad iniziativa dei genitori o degli altri legittimati ma solo ad iniziativa del figlio. Il conflitto di interessi è risolto dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
In adesione al principio di tipicità per cui l’accertamento dello stato di filiazione non può essere richiesto se non dai soggetti ai quali il relativo potere è attribuito espressamente, tra le cause riguardanti lo stato di filiazione è previsto che il pubblico ministero (il quale non ha azione per l’accertamento di uno status) possa sollecitare la promozione delle sole azioni di disconoscimento (art. 244 ultimo comma c.c.) e di impugnazione di riconoscimento (art. 264 c.c.) – quindi delle sole azioni con cui si elimina uno status che non corrisponde al vero – attraverso la richiesta di nomina di un curatore speciale. Nelle altre cause di stato della filiazione il pubblico ministero “deve intervenire a pena di nullità rilevabile d’ufficio” (art. 70 n. 3 c.p.c.) ed all’uopo il giudice davanti al quale è proposta la causa ordina che gli atti gli siano comunicati affinché possa intervenire (art. 71 c.p.c.) anche se le regole del contraddittorio nel rito a cognizione piena impongono ovviamente all’attore la notifica dell’atto introduttivo anche al pubblico ministero. Il pubblico ministero quando interviene nelle cause che avrebbe potuto proporre ha gli stessi poteri che competono alle parti e, quindi, per esempio può impugnare la sentenza. Nei casi in cui deve soltanto intervenire – e salvo che ciò avvenga nei giudizi davanti alla Corte di cassazione – può solo produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti (art. 72 c.p.c.).
Tanto premesso in linea generale possono ore essere esaminati alcuni aspetti problematici delle azioni di stato con riferimento al tema specifico del conflitto di interessi includendo per ragioni di completezza anche il procedimento di cui all’art. 250 c.c. e quello di cui all’art. 279 c.c. che non concludendosi con una sentenza attributiva dello status non possono essere considerate azioni di stato.
a) L’azione di disconoscimento della paternità (articoli 243-bis – 247 c.c.)
Con l’azione di disconoscimento di paternità – nella versione riformata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 – è possibile vincere la presunzione generale di paternità del marito di cui al nuovo art. 231 c.c. secondo cui “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”, considerandosi concepito durante il matrimonio “il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 232 c.c. il cui secondo comma conferma che “la presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale o dalla omologazione di separazione consensuale ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente”).
Non sono più indicati presupposti specifici per il disconoscimento è quindi non è più necessaria la prova dei presupposti che erano indicati nel previgente art. 235 c.c. (cioè mancata coabitazione nel periodo del concepimento, impotenza, adulterio: quest’ultimo eliminato da Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266) salvo allorché serva dare la prova dei medesimi presupposti per esercitare l’azione oltre i termini dei sei mesi per la madre e dell’anno per il padre come previsto nell’art. 244 codice civile. Pertanto chi esercita l’azione deve solo a provare che “non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre. La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità” (art. 235 c.c.). Diventa decisiva, in sostanza, in questi procedimenti la prova genetica.
La nomina di un curatore speciale – sintomatica del conflitto di interessi che in materia di disconoscimento il legislatore prende in considerazione – è prevista in quattro casi: a) quando uno dei legittimati passivi è minore età o in condizioni di incapacità piena o ridotta (art. 247 comma 2 e 3 c.c.); b) per la promozione della causa quando lo richiede un minore che abbia compiuto quattordici anni (art. 244 ultimo comma prima parte c.c.) ovvero quando lo richiedono il pubblico ministero o “l’altro genitore” nell’ipotesi in cui il soggetto da disconoscere sia un minore di età inferiore ai quattordici anni (art. 244 ultimo comma ultima parte c.c.); c) allorché il figlio o gli altri legittimati si trovano in stato di interdizione ovvero versano in condizioni di abituale grave infermità di mente, che li rendano incapaci di provvedere ai propri interessi; d) nelle ipotesi di morte degli eredi di uno dei legittimati passivi (art. 247 comma 4 c.c.). In tutti questi casi il contraddittorio non può dirsi validamente instaurato se non viene previamente nominato un curatore speciale.
1) La prima ipotesi di nomina del curatore speciale è quella per così dire fisiologica nel caso in cui l’azione sia promossa dalla madre o dal marito di lei i quali prima di procedere dovranno richiedere, appunto, la nomina di un curatore speciale per il minore. In effetti l’art. 247 c.c. – non modificato dalla riforma sulla filiazione del 2012/2013 – prevede al primo comma che nell’azione di disconoscimento della paternità sono litisconsorti necessari “il presunto padre [cioè il marito], la madre e il figlio”. Pertanto il figlio è inevitabilmente parte processuale del giudizio di disconoscimento e quindi, se si tratta di figlio minore, “l’azione è proposta in contraddittorio con un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso” (secondo comma).
L’art. 244 c.c. – nel testo completamente rivisto dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – prevede che l’azione da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio ovvero dal giorno in cui la madre è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento mentre per il marito il termine è di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. Se il marito non si trovava nel luogo in cui è nato il figlio il giorno della nascita, il termine decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia. La novità più significativa è che sia la madre che il marito non possono in ogni caso proporre più l’azione oltre cinque anni dal giorno della nascita (pertanto in queste cause dopo la riforma del 2013 il figlio sarà sempre inevitabilmente minore e rappresentato dal curatore) mentre per il figlio l’azione è diventata imprescrittibile. Prima della riforma del 2013 sulla filiazione il figlio era ammesso ad esercitare l’azione “entro un anno dal compimento dalla maggiore età o dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il riconoscimento”).
2) L’altra ipotesi di nomina del curatore speciale (istanza del minore quattordicenne ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore) è disciplinato nell’ultimo comma dell’art. 244 c.c. il cui nuovo testo ripropone il meccanismo secondo cui “L’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni [sedici prima della riforma del 2013] ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore”. Quindi oltre il quattordicesimo anno l’iniziativa non può che essere assunta dal figlio.
Una prima considerazione concernente proprio il tema del conflitto di interessi tra minore e suoi genitori legittimi o comunque tra il minore e chi (pubblico ministero o altro genitore) ha sollecitato la promozione dell’azione può essere immediatamente svolta. L’art. 244 c.c. – anche nel testo riformato – non prevede espressamente la previa valutazione dell’interesse del minore al disconoscimento. Ed in effetti il testo della norma non prevede che l’azione possa in alcuni casi configgere con l’interesse del minore (si pensi all’ipotesi in cui a distanza di tempo – oggi comunque non oltre i cinque anni dalla nascita – un’azione di disconoscimento possa compromettere gli equilibri di un bambino all’interno della famiglia senza nessuna certezza che al disconoscimento possa poi seguire il riconoscimento). È stata, però, la Corte costituzionale, esprimendosi sul punto con una sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost. 27 novembre 1991, n. 429), a precisare che il diritto vigente, correttamente interpretato, fornisce strumenti sufficienti per proteggere il minore contro iniziative avventate ed i genitori legittimi contro azioni temerarie o ricattatorie: a) allorquando si tratti di azione di disconoscimento relativa a minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne); infatti dalla ratio della norma si desume la regola per cui la ricerca della paternità, pur quando concorrano specifiche circostanze che la facciano apparire giustificata non è ammessa ove risulti un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo e, rispettivamente, all’assunzione dello stato di figlio naturale nei confronti di colui contro il quale si intende promuovere l’azione; interesse che deve essere apprezzato dal giudice soprattutto in funzione dell’esigenza di evitare che l’eventuale mutamento dello status familiare del minore possa pregiudicare gli equilibri affettivi o l’educazione; b) quando la domanda di nomina del curatore speciale è proposta dal PM nel presunto interesse di un minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne), al giudice è affidato un ufficio di tutela di un soggetto incapace, con la conseguenza che egli deve allargare il campo di acquisizione delle sommarie informazioni, includendovi tutti gli elementi necessari o utili per valutare la sussistenza dell’interesse del minore all’esperimento dell’azione (tra gli altri, audizione dei genitori legittimi ed eventualmente anche delle persone interessate che hanno eccitato l’iniziativa del PM); c) il provvedimento del tribunale – che ai sensi dell’art. 737 c.p.c. ha la forma del decreto motivato – deve giustificare congruamente la valutazione dell’interesse del minore sui cui la decisione si fonda e indicare i mezzi informativi utilizzati. Poiché la legge prevede che il minore possa attivarsi per l’azione di disconoscimento (richiedendo addirittura egli stesso, se ultraquattordicenne, la nomina di un curatore) è evidente che in tal caso la rappresentanza processuale del minore non può essere lasciata alla madre o al marito di lei (cioè al padre legittimo del minore). Il conflitto di interessi è in re ipsa. Si tratta di un conflitto di interessi in verità più ampio a cui la legge con questo meccanismo pone riparo ed è il conflitto tra il diritto (imprescrittibile) attribuito al figlio e il diritto (prescrittibile) attribuito alla madre e al marito di lei. Se la madre e il marito di lei non promuovono l’azione o lasciano decorrere i termini di prescrizione, il figlio maggiorenne potrà in seguito sempre promuovere il disconoscimento mentre nel periodo della minore età la nomina di un curatore per il promovimento dell’azione può essere richiesta direttamente dal figlio ultraquattordicenne ovvero – sotto i quattordici anni – dal “pubblico ministero” o “dall’altro genitore”.
A proposito del potere attribuito al “pubblico ministero” e “all’altro genitore” di sollecitare la nomina di un curatore per l’esercizio del disconoscimento è necessaria qualche ulteriore osservazione. L’art. 247 c.c. – non modificato dalla riforma sulla filiazione del 2012/2013 – prevede al primo comma che nell’azione di disconoscimento della paternità sono litisconsorti necessari “il presunto padre [cioè il marito], la madre e il figlio”. Non vengono menzionati altri soggetti. Tuttavia, come si è detto, l’ultimo comma dell’art. 244 c.c. (nel testo modificato dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) attribuisce la legittimazione a richiedere la nomina di un curatore anche all’altro genitore. L’espressione non si riferisce al genitore decaduto dal diritto di promuovere l’azione per essere trascorso il termine di decadenza di sei mesi per la madre e di un anno per il marito indicati nei primi commi della norma. Se così fosse non è chiaro perché è stata utilizzata l’espressione “l’altro genitore” e non quella di “soggetti di cui ai commi precedenti” cioè la madre e il marito di lei. Ugualmente parlare di “altro genitore” con riferimento al marito della madre è un non senso. E d’altro lato se il legislatore della riforma ha indicato un termine massimo di prescrizione dell’azione di cinque anni per la madre e per il marito della madre (art. 244, quarto comma, c.c.) che senso avrebbe consentire l’aggiramento di questo sbarramento attribuendo a tali soggetti il potere di richiedere al giudice la nomina di un curatore oltre il termine in questione (e cioè fino al compimento dei 14 anni di età del figlio)? Pertanto l’espressione altro genitore sembra riferirsi al padre biologico che è effettivamente l’altro genitore oltre alla madre. La norma cioè attribuisce al genitore biologico (oltre al pubblico ministero) il potere di richiedere direttamente al giudice la nomina del curatore speciale fino al compimento del quattordicesimo anno di età del figlio. Oltre i quattordici anni la decisione resta sempre del figlio.
Prima di questa riforma il ruolo del genitore biologico era assolutamente di secondo piano in quanto il padre biologico poteva solo rivolgersi al pubblico ministero auspicando la presentazione da parte di quest’ultimo della richiesta di nomina del curatore speciale. Pertanto l’asserito padre biologico nell’azione di disconoscimento non ha titolo a promuovere o a partecipare alla causa di disconoscimento ma può richiedere al giudice (presidente del tribunale) di nominare un curatore speciale per l’inizio dell’azione.
Il Presidente del tribunale è tenuto a vagliare l’istanza del pubblico ministero o del padre biologico (“assunte sommarie informazioni”) e di accoglierla o respingerla dopo aver valutato l’interesse del minore infraquattordicenne e quindi l’opportunità dell’azione (Corte cost., 27 novembre 1991, n. 429). In verità l’interesse del minore secondo questa sentenza deve essere necessariamente sempre valutato dal tribunale ma l’ipotesi in cui la valutazione si rende veramente opportuna è soprattutto quella in cui un terzo (cioè il pubblico ministero o l’altro genitore) chiede l’avvio del procedimento. Se l’istanza di nomina del curatore speciale è fatta dal figlio ultraquattordicenne il presidente ha senz’altro l’obbligo di nominare un curatore come la sentenza della corte costituzionale da ultima citata ha espressamente riconosciuto (osservando che in tal caso il giudice non ha il potere di scrutinare un interesse la cui gestione il legislatore ha lasciato al minore che ha superato l’età indicata). Contro il decreto di nomina è sempre possibile il reclamo alla corte d’appello da parte sia della madre (o del marito di lei) che del pubblico ministero o del padre biologico che avessero fatto la richiesta o dello stesso figlio quattordicenne che si vedesse negata la nomina del curatore speciale (il quale però prima dovrebbe chiedere ex articoli 78,79 e 80 c.p.c. la nomina di un apposito curatore per il reclamo).
3) Il terzo caso di nomina del curatore speciale è previsto nell’art. 245 c.c. allorché la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento di paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, la decorrenza del termine indicato nell’articolo 244 è sospesa nei suoi confronti, sino a che duri lo stato di interdizione o durino le condizioni di abituale grave infermità di mente (primo comma) mentre quando il figlio si trova in stato di interdizione ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, l’azione può essere altresì promossa – in base ai principi generali che interessano i soggetti maggiorenni incapaci – da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del pubblico ministero, del tutore, o dell’altro genitore. Per gli altri legittimati l’azione può essere proposta dal tutore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale, previa autorizzazione del giudice (secondo comma).
4) L’ultima ipotesi di nomina del curatore speciale concerne l’azione promossa contro gli eredi (legittimazione passiva) dove si prevede che in mancanza di eredi debba essere nominato un curatore speciale.
La riforma del 2013 sulla filiazione non ha toccato il tema della trasmissibilità (attiva e passiva) dell’azione agli eredi; tema di cui si occupa l’art. 246 c.c. il quale per quanto attiene alla trasmissione del diritto di azione ammette i discendenti e gli ascendenti del marito o della madre oppure il coniuge o i discendenti del figlio ad esercitarla, quando il titolare muore senza averla promossa e prima che siano trascorsi i termini sopra indicati. Il nuovo principio di imprescrittibilità dell’azione per il figlio comporta la conseguenza che anche il coniuge e i discendenti del figlio morto senza aver promosso l’azione saranno anche loro sempre ammessi ad esercitarla senza limiti di tempo.
Anche la legittimazione passiva è trasmissibile agli eredi. L’art. 247 c.c. (come detto non modificato dalla riforma del 2013) indica come legittimati passivi all’azione, e quindi litisconsorti necessari la madre, il marito di lei (cioè il presunto padre) e il figlio. L’ultimo comma dell’art. 247 c.c. prescrive che, in caso di morte dei litisconsorti, l’azione si propone nei confronti delle medesime persone alle quali si trasmette il potere di azione e cioè i discendenti e gli ascendenti (congiuntamente) del presunto madre (marito) o della madre ovvero il coniuge o i discendenti (sempre congiuntamente, anche se viene usata la disgiuntiva o) del figlio; in mancanza degli eredi indicati l’azione è promossa nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
b) L’azione di contestazione dello stato di figlio (nato nel matrimonio) (art. 248)
Il conflitto di interessi che emerge come rilevante in questa azione è quello – al quale si è accennato – in cui la nomina del curatore speciale è prescritta non per sostituire il rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato, ma per consentire all’interessato di poter perseguire, instaurando il contraddittorio con il curatore, il diritto azionato che altrimenti non potrebbe trovare tutela processuale.
Con l’azione prevista nell’art. 248 c.c. (nel testo modificato dall’art. 20 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) e cioè con l’azione di contestazione dello stato di figlio (al quale lo status è stato attribuito in base alla presunzione di paternità per chi nasce nel matrimonio), si intende eliminare per motivi diversi da quelli alla base dell’azione di disconoscimento lo status erroneamente attribuito ad una persona nata nel matrimonio. L’azione tende all’eliminazione di difformità nello status di figlio nato nel matrimonio diverse da quelle connesse alla contestazione della paternità (cioè diverse da quelle poste a base dell’azione di disconoscimento), cioè gli elementi della nascita nel matrimonio documentati dall’atto di nascita, come il parto, la maternità o l’identità del nato.
L’azione “spetta a chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse” ed è è imprescrittibile. Quando l’azione è proposta nei confronti di persone premorte o minori o altrimenti incapaci, si osservano le disposizioni dell’art. 247 e quindi “se una delle parti è minore o interdetta l’azione è proposta in contraddittorio con un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso” (art. 247, secondo comma) e “se una delle parti è un minore emancipato o un maggiorenne inabilitato l’azione è proposta contro la stessa assistita da un curatore parimenti nominato dal giudice” (art. 247, secondo comma), In caso di morte dei litisconsorti, l’azione si propone nei confronti dei discendenti e degli ascendenti (congiuntamente) del presunto padre (marito) o della madre ovvero nei confronti del coniuge o dei discendenti del figlio; in mancanza degli eredi indicati l’azione è promossa nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
c) L’azione di reclamo dello stato di figlio (nato nel matrimonio) (art. 249)
Analogamente a quanto si è osservato per l’azione di contestazione dello stato di figlio, in seguito alle modifiche che il D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 ha apportato anche all’art. 249 c.c. il conflitto di interessi che emerge come rilevante nell’azione di reclamo dello stato di figlio (nato nel matrimonio) è diverso da quello alla base delle regole ordinarie che prevedono la nomina di un curatore speciale allorché si debba instaurare correttamente il contraddittorio quando sono deceduti i litisconsorti della causa (come emergeva dal previgente testo della disposizione).
Per rendersene conto è sufficiente esaminare il nuovo testo dell’art. 249 c.c. nel quale si conferma che l’azione è imprescrittibile e che spetta al figlio medesimo; ma, se egli non l’ha promossa ed è morto in età minore o nei cinque anni dopo aver raggiunto la maggiore età, può essere promossa dai discendenti di lui. Essa deve essere proposta contro entrambi i genitori e, in loro mancanza, contro i loro eredi.
Nel nuovo testo si aggiunge che in mancanza di eredi, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso. Nel testo precedente alla riforma sulla filiazione del 2013 la possibilità di proporre l’azione nei confronti di un curatore, in caso di morte dei genitori e in mancanza di eredi non era prevista e pertanto in mancanza di eredi dei genitori deceduti l’azione restava improponibile. E già questa modifica è sintomatica della soluzione di un conflitto di interessi altrimenti non risolvibile. Vi è però nel nuovo testo qualcosa di più che induce anche ad un’altra considerazione relativa al modo con cui la legge reagisce al conflitto di interessi tra il figlio e i genitori. Infatti si prevede – mediante riferimento al sesto comma dell’art. 244 e al secondo comma dell’art. 245 – rispettivamente che “l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore” e che “quando il figlio si trova in stato di interdizione ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del pubblico ministero, del tutore, o dell’altro genitore. Per gli altri legittimati l’azione può essere proposta dal tutore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale, previa autorizzazione del giudice”.
d) L’impugnazione del riconoscimento del figlio (articoli 263 – 268 c.c.)
Nel contesto della filiazione fuori dal matrimonio l’azione più importante che elimina uno status non veritiero è l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità’. Si tratta della principale azione di caducazione dello status di figlio nato fuori dal matrimonio. Il primo comma dell’art. 263 c.c. – non toccato dalla riforma sulla filiazione che ha interessato però la parte rimanente della disposizione – prevede che “il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse”. Chi asserisce di essere il padre biologico, in quanto soggetto che vi ha certamente interesse, è, quindi, tra i soggetti che può promuovere l’azione e partecipare poi a pieno titolo al processo (come ha precisato Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2005, n. 7924 che ha ritenuto il sistema non lesivo dei principi costituzionali e Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1994, n. 2515).
Gli altri commi dell’art. 263 c.c. (introdotti dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) prevedono che l’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Se l’autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l’impotenza del presunto padre. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento. L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Riguardo al figlio l’azione è, invece, imprescrittibile.
Nell’azione deve essere valutato anche l’interesse del minore alla caducazione dello status (Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272).
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2016, n. 1957 nel giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex artt. 263 e 264 cod. civ., così come nell’azione di disconoscimento di paternità disciplinata agli artt. 243-bis ss. cod. civ., è sempre configurabile un potenziale conflitto di interessi tra il minore ed il genitore cui spetta la rappresentanza processuale, quali soggetti legittimati passivi e litisconsorti necessari, con la conseguenza che il minore ha il diritto di contraddire nel giudizio attraverso la nomina di un curatore speciale, nonostante la lacuna normativa sul punto. La nomina è necessaria a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio.
La giurisprudenza ha anche riflettuto sul conflitto di interessi tra il minore e il genitore esercente la responsabilità genitoriale, nel caso di azione promossa da chi ha effettuato il riconoscimento oggetto dell’impugnazione (nella specie il coniuge del genitore naturale del minore), ritenendo che un conflitto di interessi possa anche non esserci e ammettendo, in questa ipotesi, che il genitore potrebbe legittimamente rappresentare il figlio (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533). Si legge nella decisione che il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la responsabilità genitoriale e figlio è ipotizzabile soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concili con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente presunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità. Ne consegue che in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la responsabilità genitoriale è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato.
La scadenza del termine massimo di cinque anni previsto per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio renderà inattaccabile lo status a meno che il figlio non ritenga di dover esercitare il diritto imprescrittibile che la legge gli attribuisce. E’ anche questo un modo di risolvere un conflitto di interessi dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
Il ruolo di possibile attore della causa che la legge riconosce all’asserito padre biologico nell’impugnazione del riconoscimento si differenzia da quello riconosciutogli nel procedimento di disconoscimento dove l’asserito padre biologico non ha legittimazione alcuna a promuovere o ad intervenire nel disconoscimento di paternità, ma soltanto il potere (nuovo testo dell’art. 244 c.c.) di presentare istanza di nomina di un curatore speciale per il minore infraquattordicenne affinché possa essere iniziata la causa. Questa diversità di poteri del padre biologico nell’azione di disconoscimento e in quella di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità potrebbe porre qualche problema di legittimità costituzionale in quanto in un sistema orientato soprattutto al favor veritatis – che la riforma sulla filiazione del 2013 oggettivamente ha perseguito – il ruolo eventuale di parte processuale del padre biologico non dovrebbe restare illogicamente mortificato di fronte alla famiglia matrimoniale (terreno tradizionalmente permeato dal favor legitimitatis). Non può neanche tacersi, inoltre, che un profilo problematico è certamente costituito dal fatto che l’iniziativa del padre biologico potrebbe stravolgere l’equilibrio psicologico del minore nella famiglia in cui vive (fondata o meno sul matrimonio), senza peraltro che sussista la certezza che alla eliminazione dello status consegua poi l’azione per il riconoscimento da parte del padre biologico. Da questo punto di vista l’introduzione in entrambe le azioni (cfr nuovo quarto comma dell’art. 244 c.c. e nuovo ultimo comma dell’art. 263 c.c.) di un termine massimo di cinque anni dalla nascita per l’esperimento delle rispettive azioni – salva l’imprescrittibilità in entrambi i casi per il figlio – può considerarsi una soluzione soddisfacente.
Per quanto riguarda l’impugnazione da parte del figlio minore il nuovo art. 264 c.c. – anch’esso riformato nel 2013 – prevede che “l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio, quando si tratti di figlio di età inferiore.”.
La possibilità che l’autorità giudiziaria venga a conoscenza della eventuale falsità di riconoscimenti di figli nati fuori dal matrimonio è garantita da tre meccanismi giuridici specifici.
In primo luogo, ed in sede civile, dalla normativa in tema di adozione di minori nella parte in cui prevede che l’ufficiale di stato civile debba trasmettere al tribunale per i minorenni (oggi tribunale ordinario dopo la modifica dell’art. 38 disp. att. c.c. effettuata dalla riforma del 2013 sulla filiazione) “comunicazione, sottoscritta dal dichiarante, dell’avvenuto riconoscimento da parte di persona coniugata di un figlio non riconosciuto dall’altro genitore”(art. 74 della legge 4 maggio 1983 n. 184) e, quindi, in tutte i casi in cui una persona coniugata riconosca un figlio da solo, senza che l’altro genitore biologico ne effettui anche lui il riconoscimento; il tribunale, in base a quanto prevede il secondo comma della norma citata “nel caso in cui vi siano fondati motivi per ritenere che ricorrano gli estremi dell’impugnazione del riconoscimento… assume, anche d’ufficio, i provvedimenti di cui all’art. 264 secondo comma del codice civile” il che significa che, di fronte ad un fondato sospetto di non veridicità del riconoscimento potrebbe, anche senza istanza del pubblico ministero, nominare il curatore speciale perché eserciti l’azione di impugnazione secondo, appunto, quanto prevede l’art. 264 comma 2 c.c.
La conoscibilità dei falsi riconoscimenti è, in secondo luogo, assicurata dall’art. 252 c.c. il quale prevede che quando uno dei coniugi durante il matrimonio riconosca un figlio la decisione circa l’affidamento e l’eventuale inserimento del figlio nella famiglia legittima dell’autore del riconoscimento spetta al tribunale (oggi ordinario secondo il testo attuale dell’art. 38 disp. att. c.c.) il quale, naturalmente – e sempre che la domanda in proposito gli venga inoltrata – potrebbe effettuare quegli accertamenti che, in caso di sospetto di falso riconoscimento, possono condurre alla nomina del curatore speciale per l’esercizio dell’azione. In proposito l’art. 252, comma 1 c.c. prevede espressamente che, a seguito della domanda di affidamento e di inserimento di un figlio naturale nella sua famiglia legittima da parte dell’autore del riconoscimento, il tribunale “valutate le circostanze, decide in ordine all’affidamento del minore e adotta ogni altro provvedimento a tutela del suo interesse morale e materiale”.
L’autorità giudiziaria può, infine, venire a conoscenza della falsità di eventuali riconoscimenti attraverso il meccanismo consueto della segnalazione delle notizie di reato al pubblico ministero da parte della polizia giudiziaria, considerato che il falso riconoscimento di un figlio costituisce reato di alterazione di stato se realizzato in sede di formazione dell’atto di nascita, cioè in sede di prima dichiarazione del riconoscimento (art. 564 c.p. punito con la reclusione da cinque a quindici anni) oppure reato di false attestazioni all’ufficiale di stato civile se realizzato in sede di riconoscimento tardivo (art. 495 c.p. punito con la reclusione non inferiore ad un anno e fino a tre anni).
Oltre all’impugnazione di cui si è parlato, cosiddetta per difetto di veridicità sono previste altre due impugnazioni del riconoscimento: a) per violenza, quando il riconoscimento – che è un atto personalissimo e libero – è stato effettuato sotto la pressione di una violenza anche esercitata da un terzo (art. 265 c.c.); b) per effetto di interdizione, quando il riconoscimento è stato effettuato da una persona interdetta per infermità di mente (art. 266 c.c.).
L’azione di impugnazione del riconoscimento per violenza può essere esercitata entro il termine di decadenza di un anno dal giorno in cui la violenza è cessata o, se l’autore del riconoscimento è minore, entro un anno dal conseguimento della maggiore età (art. 265 c.c.). L’azione di impugnazione del riconoscimento per effetto di interdizione giudiziale può essere esercitata sempre dal rappresentante dell’interdetto e, dopo la revoca dell’interdizione, dall’autore del riconoscimento entro il termine di un anno dalla data della revoca (art. 266 c.c.). In questi due ultimi casi di impugnazione del riconoscimento – che sono anche essi di competenza del tribunale ordinario e che si svolgono sempre con procedura contenziosa – l’azione, in caso di morte dell’interessato, può essere promossa dai suoi discendenti, dagli ascendenti o dagli eredi, sempre però, che non sia scaduto il termine indicato negli art. 265 e 266 c.c.
In base a quanto prevede espressamente l’art. 268 c.c. il tribunale di fronte al quale viene promosso uno dei tre giudizi di impugnazione sopra ricordati, “può dare, in pendenza del giudizio, provvedimenti che ritenga opportuni nell’interesse del figlio”. Il provvedimento al quale evidentemente la norma si riferisce è soprattutto riferibile all’impugnazione di riconoscimento per difetto di veridicità e consiste evidentemente nell’allontanamento del minore dalla persona che ha effettuato falsamente il riconoscimento o dal nucleo familiare nel quale il minore sia stato fraudolentemente inserito.
e) La dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità (articoli 269 – 277 c.c.)
Le norme che disciplinano questa azione non sono state sostanzialmente toccate dalla riforma del 2013 sulla filiazione.
Nel caso di azione promossa nell’interesse del minore dal genitore esercente la responsabilità genitoriale fino alla sentenza con cui la Corte costituzionale dichiarando incostituzionale l’art. 274 c.c. (Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50) ha eliminato la fase di ammissibilità che prima era obbligatoria per poter esercitare l’azione. L’ultimo comma dell’art. 274 c.c prevedeva la facoltà per il giudice (allora il tribunale per i minorenni) di nominare un curatore speciale al minore; non si trattava, però, di un obbligo come la giurisprudenza aveva chiarito (Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1993, n. 2576).
La giurisprudenza ha poi sempre ribadito questa indicazione affermando espressamente che nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità la nomina o il diniego di nomina di un curatore speciale secondo il testuale tenore dell’art. 274 comma 4 c.c. costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito che può farvi luogo anche prima di ammettere l’azione, ai fini della rappresentanza in giudizio. Si tratta di un atto che non incide sui diritti del minore e che non ha alcuna autonomia nell’ambito del procedimento (in quanto la rappresentanza del minore è in ogni caso affidata al genitore esercente la potestà ai sensi dell’art. 273 comma 1 c.c. e che è privo di efficacia decisoria, non spiegando riflessi di sorta sul provvedimento che dichiara ammissibile l’azione. Conseguentemente, trattandosi di un atto a carattere meramente ordinatorio, esso non è ricorribile per cassazione neanche con il ricorso straordinario per violazione di legge previsto nell’art. 111 Cost. (Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 1997, n. 9316).
La Corte di cassazione, chiamata a verificare se la non obbligatorietà della nomina del curatore speciale in caso di azione di riconoscimento della paternità o maternità naturale su un minore, sia in contrasto con i principi costituzionali, ha ritenuto di considerare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art 2 e 24 Cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale, la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito. Infatti l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’azione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 1990; nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c. (Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786). In questa sentenza si legge che nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale l’art. 273 comma 1 c.c. prevede l’autorizzazione del tribunale e, come facoltativa la nomina di un curatore speciale, solo quando l’azione è esercitata dal tutore, ma non prevede tale nomina, neppure come facoltativa, né la necessità di autorizzazione, quando l’azione è esercitata dal genitore che esercita la potestà, configurando una estensione, rispetto ad un diritto strettamente personale del figlio, del potere di rappresentanza ex lege spettante al genitore medesimo; ne deriva che né la nomina di un curatore speciale, disposta al di fuori della previsione normativa, né la valutazione dell’interesse del minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne) da parte del giudice (dopo l’intervento della Corte costituzionale con sentenza n. 341 del 20 luglio 1990), che è da annoverarsi fra le condizioni di ammissibilità dell’azione nel quadro dell’art. 274 c.c., possono riflettersi negativamente sulla legittimazione del genitore esercente la responsabilità genitoriale a promuovere l’azione (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 1992, n. 3416).
Nella prassi – venuta meno la fase di ammissibilità – non sono numerosi i casi di nomina di un curatore speciale al minore nelle cause di riconoscimento della paternità naturale verosimilmente perché è lo stesso giudice che è stato investito in questi procedimenti del compito di valutare l’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 aveva parzialmente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274, comma 1, del codice civile nella parte in cui, se si tratta di minore infrasedicenne [oggi infraquattordicenne] non prevede che l’azione promossa dal genitore esercente la potestà [oggi responsabilità genitoriale] sia ammessa solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio).
L’azione è possibile in tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento della filiazione fuori dal matrimonio (art. 278 c.c.).
La legittimazione ad agire, come detto, spetta al figlio per il quale l’azione è imprescrittibile. L’azione non è, invece, imprescrittibile per i suoi discendenti i quali pure sono ammessi a promuovere l’azione in caso di morte del figlio, ma entro due anni dalla morte. Se il figlio muore dopo averla promossa, i discendenti possono continuare l’azione intrapresa (art. 270 c.c.).
In caso di minore età del figlio – che costituisce l’ipotesi statisticamente più frequente di azione giudiziale per l’accertamento della paternità fuori dal matrimonio – la legittimazione è attribuita, nell’interesse del minore, come si è detto, al solo genitore esercente la responsabilità genitoriale oppure al tutore (art. 273 comma 1 c.c.). Unica differenza tra l’azione promossa nell’interesse del minore dal genitore e quella promossa sempre nell’interesse del minore dal tutore è che il tutore deve prima richiedere l’autorizzazione del giudice il quale potrebbe nominare un curatore speciale che promuova il giudizio.
Naturalmente se il genitore esercente la responsabilità genitoriale o il tutore non esercitano l’azione nell’interesse del figlio minore, questi, divenuto maggiorenne potrà esercitarla lui stesso.
Il tutore è anche il soggetto legittimato a promuovere l’azione nell’interesse dell’interdetto (art. 273 ultimo comma c.c.).
Una novità derivante dalla riforma sulla filiazione del 2013 è contenuta nell’art. 276 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 5, legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 33 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) in base al quale “la domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso. Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse”.
La possibilità che la causa potesse essere proseguita, in mancanza di eredi, nei confronti di un curatore speciale era stata esclusa da Cass civ. Sez, unite 3 novembre 2005, n. 21287.
La sentenza che dichiara la filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento (art. 277 comma 1 c.c.).
Come detto la giurisprudenza esclude che vi sia un obbligo di nomina di un curatore speciale per il figlio ma questo non esclude che possa comunque esservi un conflitto di interessi – o una difformità di vedute – tra il figlio (in ordine alla valutazione del suo effettivo interesse) e il genitore e che esercita l’azione in sostituzione del figlio medesimo. Proprio per questo, come si è detto, la Corte costituzionale aveva ritenuto necessaria (oggi nell’azione di merito, dopo la scomparsa della fase di ammissibilità) la valutazione dell’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341).
f) Il procedimento di autorizzazione al riconoscimento tardivo del figlio (art. 250 cc)
Va ribadito che la procedura di cui all’art. 250 c.c. – prevista per il caso di opposizione del primo genitore al riconoscimento tardivo da parte dell’altro – non configura una azione di stato sulla filiazione in quanto il procedimento termina con una sentenza che autorizza il richiedente ad effettuare il riconoscimento e non con una decisione costitutiva dello status. Si accenna tuttavia a questa procedura per motivi di completezza sul tema del conflitto di interessi.
Il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio può avvenire, disgiuntamente o congiuntamente, da parte dei genitori. Se il figlio ha meno di quattordici anni il genitore che per primo lo abbia da solo riconosciuto deve esprimere il proprio consenso al riconoscimento tardivo che l’altro genitore intendesse effettuare fare (art. 250 c.c.). Se il figlio ha compiuto i quattordici anni il consenso non è necessario, prevedendosi espressamente che debba essere il figlio ultraquattordicenne ad esprimere il proprio assenso.
Pertanto oltre i quattordici anni del figlio il conflitto di interessi tra genitore che ha già riconosciuto il figlio e il figlio stesso viene risolto in radice attribuendosi al figlio stesso il potere di assentire al riconoscimento da parte del secondo genitore.
Se il figlio è, invece infraquattordicenne e il genitore che per primo lo ha riconosciuto intende consentire al riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore non vi è per la legge alcun conflitto di interessi da risolvere. Il consenso di entrambi i genitori esclude un conflitto di interessi. Questo meccanismo in effetti è comprensibile e ragionevole (in effetti quando due genitori riconoscono congiuntamente un figlio nessuno ha il potere di sindacare preliminarmente l’interesse del minore) e le eventuali dissonanze per i figli (si pensi al caso in cui un genitore dovesse acconsentire solo per aver subito le pressioni minacciose dell’altro genitore o nonostante una grave condizione di devianza personale dell’altro genitore) potranno essere risolte come per tutti i figli attraverso i consueti meccanismi di controllo dell’esercizio della responsabilità genitoriale.
Se, invece, il genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento non intende dare il proprio consenso al riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore, allora è evidente che si crea una situazione di conflitto di interessi tra genitore e figlio che l’ordinamento affronta attribuendo al giudice il potere di intervento per sindacare se il dissenso del genitore è giustificato o se invece non corrisponde all’interesse del figlio. In tal caso il riconoscimento tardivo potrà avvenire solo in virtù del provvedimento del giudice.
Il procedimento è previsto nell’art. 250 c.c. (ampiamente modificato dall’art. 1, comma 2, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) dove si prevede che “Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315-bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262”.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il riconoscimento del figlio costituisce un diritto soggettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psicofisico del minore (Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645; Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4).
Le modalità procedimentali – che in questa sede non è necessario approfondire ulteriormente – rendono evidente che secondo il legislatore il conflitto di interessi tra figlio e genitore (che dissente dal tardivo riconoscimento) viene risolto dall’intervento del giudice attraverso “l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento” (Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884) oltre che – come si dirà tra breve – dalla nomina del curatore speciale. Siamo quindi in presenza di uno di quei casi di conflitto di interessi trattato secondo il legislatore con modalità differenti da quelle classiche della nomina del curatore speciale e dunque nel contesto delle norme di verifica delle funzioni genitoriali connesse al diritto dei figli all’educazione, alla cura, all’assistenza, più che nell’ambito delle norme sulla rappresentanza esterna.
Opposta era stata in passato l’interpretazione proposta dalla giurisprudenza che aveva sistematicamente affermato – evidentemente ritenendo soddisfacente la valutazione dell’interesse del minore – che nel procedimento di cui all’art. 250 c.c. il minore non assume la qualità di parte, ma deve essere soltanto ascoltato, sempre che ne sia capace per ragione di età o per altre cause con la conseguenza che in tale procedimento non sorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore (Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934; Cass. civ. sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470; Cass. civ. sez. I, 16 giugno 1990, n. 6093; Cass. civ. sez. I, 13 marzo 1987, n. 2654; Cass. civ. sez. I, 16 dicembre 1981, n. 6660).
A modificare questa situazione è intervenuta la Corte costituzionale che ha praticamente imposto la nomina di un curatore al minore nei procedimenti di cui all’art. 250 c.c. affermando che in questi procedimenti al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio e che, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale; il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83). In questa sentenza la Corte ha praticamente indicato il principio generale in base al quale la nomina del curatore (e, da parte di costui, del difensore) è adempimento riservato ai procedimenti in cui al minore è attribuibile la qualità di parte. Successivamente ha pienamente aderito alla ricostruzione della Corte costituzionale Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729.
g) L’azione di mantenimento in caso di non riconoscimento (art. 279 c.c.)
Per ragioni di completezza è opportuno fare qualche accenno anche all’azione di mantenimento prevista nell’art. 279 c.c., pur non trattandosi di un’azione di stato perché non produce l’attribuzione dello status ma solo il diritto al mantenimento o agli alimenti previo accertamento incidenter tantum della compatibilità genetica.
Può avvenire che la filiazione non possa essere accertata per l’esistenza di cause ostative. In questi casi il figlio può ugualmente agire per ottenere il solo mantenimento. L’azione è ammessa previa autorizzazione del tribunale per i minorenni (art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 legge 10 dicembre 2012, n. 219 a sua volta ulteriormente modificato dall’art. 96 lett. c del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
La norma di riferimento è l’art. 279 c.c. (come modificato dall’art. 36 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) dove si prevede che “in ogni caso in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità, il figlio nato fuori del matrimonio può agire per ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione. Il figlio nato fuori del matrimonio se maggiorenne e in stato di bisogno può agire per ottenere gli alimenti a condizione che il diritto al mantenimento di cui all’articolo 316 sia venuto meno.
L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251. L’azione può essere promossa nell’interesse del figlio minore da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o del genitore che esercita la responsabilità genitoriale”.
Quindi in base a questa disposizione ogni volta che “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità” il figlio minore nato fuori dal matrimonio può agire per ottenere i soli diritti di mantenimento, educazione istruzione, mentre il figlio maggiorenne – che non goda del diritto al mantenimento – può agire per ottenere i soli alimenti.
Quali sono i casi in cui “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità”?
Prima della riforma del 2013 uno dei casi in cui era ipotizzabile questa azione era quello del figlio nato da una relazione incestuosa in quanto i figli nati da persone unite da vincoli di parentela o affinità (indicati nell’art. 87 c.c.) non potevano agire per la dichiarazione giudiziale di paternità e non erano riconoscibili (previgente art. 251 c.c.). La norma in questione è stata dapprima dichiarata parzialmente incostituzionale Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494) ed è stata modificata dalla riforma sulla filiazione del 2013. Ora “il figlio nato da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio” (art. 251 c.c. come modificato dall’art. 1, comma 3, legge 10 dicembre 2012, n. 219 e art. 22 D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) mentre negli stessi casi “l’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità non può essere promossa senza previa autorizzazione ai sensi dell’articolo 251” (art.278 c.c. come modificato dall’art. 35 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
Pertanto certamente la prima ipotesi che residua di possibile azione per il solo mantenimento è quella in cui il tribunale per i minorenni dovesse negare l’autorizzazione al riconoscimento dei figli nati da relazione incestuosa o l’autorizzazione per la proposizione dell’azione dichiarativa della paternità.
Un altro caso è quello in cui il tribunale dovesse negare la dichiarazione di paternità ritenendola contraria all’interesse del minore secondo la valutazione che il giudice deve effettuare sempre (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341).
Ulteriore ipotesi è quella in cui il figlio avendo già uno status filiationis essendo nato all’interno del matrimonio intendesse agire nei confronti del vero genitore biologico (Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 1992, n. 711).
Inoltre certamente in tutti i casi in cui il figlio non possa essere riconosciuto perché per esempio nato da genitori infrasedicenni o perché avendo essi richiesto l’autorizzazione al riconoscimento questa venga negata (art. 250 ult. comma c.c. come modificato dall’art. 1, comma 2, legge 10 dicembre 2012, n. 219).
La giurisprudenza non ha, comunque, seguito un orientamento univoco nell’interpretazione del conflitto di interessi tra genitore e figlio. Così si è affermato che l’azione ex art. 279 c.c. se proposta nell’interesse di un minore, va proposta da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del PM o del genitore che sul minore esercita la potestà (responsabilità genitoriale), dovendosi pertanto dichiarare inammissibile l’azione ex art. 279 c.c. proposta dalla madre di un minore, in nome e per conto di questi (Trib. min. L’Aquila, 9 febbraio 1999 in Dir. fam. pers., 2000, 147). Pertanto la domanda non può essere proposta se non dal figlio maggiorenne o dal curatore speciale.
L’azione tendente a far valere il rapporto di filiazione ai soli fini alimentari è esperibile previa autorizzazione del tribunale esclusivamente nei casi in cui la paternità o la maternità non sia giudizialmente dichiarabile, occorrendo altresì, qualora l’azione sia proposta nell’interesse di un minore, che essa sia promossa da un curatore speciale (Trib. min. Catania, 16 marzo 1990 in Dir. Fam e pers., 1992, 273; Trib. Vigevano, 13 marzo 1980 in Dir. Fam e pers., 1980, 892).
VI A quale tipo di conflitto di interessi tra genitori e figli fanno riferimento le norme sovranazionali sui diritti dei minori?
Anche le norme sovranazionali fanno riferimento al confitto di interessi tra genitori e figli. Se si esaminano i due testi normativi più richiamati (la Convenzione del 1989 sui diritti dei minori e la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti dei minori) ci si avvede che all’interno di questa normativa sovranazionale sono contenute alcune indicazioni di grande rilevanza con le quali si è affermato – soprattutto nell’ambito processuale di regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale – il diritto del minore a partecipare ai procedimenti che lo riguardano, di ricevere adeguate informazioni, di essere consultato e di poter esprimere la propria opinione. In questo contesto la convenzione europea del 1996 prevede espressamente che al minore deve essere garantito il diritto ad un rappresentante speciale nelle procedure giudiziarie “allorché il diritto interno priva i detentori di responsabilità parentali delle facoltà di rappresentarli a causa dell’esistenza di un conflitto di interessi (art. 4).
Pertanto il conflitto di interessi al quale la normativa sovranazionale fa riferimento è quello collegato non alle funzioni di rappresentanza e di amministrazione ma a quel fascio di funzioni genitoriali concernenti il rapporto educativo e di accudimento del figlio che sono sostanzialmente l’oggetto sia delle procedure di contrasto agli abusi genitoriali e all’abbandono, si di quelle di separazione, divorzio o in cui si discute comunque dell’affidamento. Con il che si pone certamente nel nostro ordinamento la problematica di una possibile estensione del potere di nomina di un curatore speciale al minore dal settore nel quale oggi questa nomina è prevista senza problemi (abusi della responsabilità genitoriale e adottabilità in cui il minore è considerato parte processuale) al settore dell’affidamento e delle procedure di separazione e divorzio in cui – come si dirà – la prassi giudiziaria prevalente, sul presupposto che il minore non è parte processuale in questi procedimenti, non è favorevole né a ritenere l’esistenza di conflitti di interessi, ne’ quindi a procedere alla nomina al minore di un “rappresentante speciale” in funzione sostitutiva dei genitori
Entrando più nel merito delle due convenzioni si osserva che la Convenzione internazionale del 1989 sui diritti dei minori (ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) contiene una disposizione generale che prevede all’art. 12 il diritto del minore “di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa” e impone agli Stati di dargli “la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante legale o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”. In questo timido riferimento alla necessità dell’ascolto del minore anche “tramite un rappresentante legale o un organo appropriato” la Convenzione rinvia per le modalità di attuazione di questi diritti alle legislazioni nazionali e impegna gli Stati aderenti a considerare che “in tutte le decisioni relative ai minori, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del minore deve essere una considerazione preminente”, ad assicurare al minore “la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori” (art. 3) e ad adottare “tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi ed altri necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione” (art. 4).
È, invece, soprattutto la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti dei minori (ratificata e resa esecutiva con la legge 20 marzo 2003, n. 77) che opera alcuni richiami essenziali sul tema della necessaria rappresentanza del minore da parte di un “rappresentante speciale” in caso di conflitto di interessi con i genitori.
L’obiettivo che la Convenzione europea ha avuto di mira – che segnala il passaggio dall’affermazione dei diritti dei minori all’indicazione concreta di come esercitarli – è proprio quello di “promuovere, nell’interesse superiore dei minori, i loro diritti, di attribuire loro diritti processuali e di agevolarne l’esercizio, facendo in modo che essi possano personalmente o per mezzo di altre persone od organismi, essere informati ed autorizzati a partecipare alle procedure giudiziarie che li riguardano” cioè “quelle in materia familiare e, in particolare, quelle relative all’esercizio delle responsabilità dei genitori, specie con riferimento alla residenza ed al diritto di visita riguardo ai figli” (art. 1). La Convenzione, perciò, tende a conferire effettività al sopra richiamato principio enunciato nell’art. 12 della convenzione di New York.
La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori si occupa concretamente di tre aree di diritti processuali.
In primo luogo garantisce a tutti minori che siano considerati dalla legge interna di uno Stato come aventi sufficiente capacità di discernimento, il diritto di ricevere tutte le informazioni pertinenti, di essere informati e consultati e di esprimere la loro opinione nel corso delle procedure giudiziarie che li riguardano, di essere informati sulle possibili conseguenze dell’attuazione dei loro diritti e sulle possibili conseguenze di ogni decisione (art. 3). Si tratta di vero e proprio diritto di natura processuale di informazione e di consultazione che corrisponde ad una obbligazione di comportamento per i giudici (art. 6), per il rappresentante del minore (art. 10 comma 1) ed anche, se gli Stati lo riterranno opportuno, per i genitori stessi del minore (art. 10 comma 2).
In secondo luogo la Convenzione – ed è questa l’interferenza che qui interessa sottolineare con il tema del conflitto di interessi – garantisce ai minori il diritto, anch’esso di natura processuale, ad un rappresentante speciale, facendo, però, salva la facoltà di ogni Stato di garantire questo diritto soltanto ai minori ritenuti dotati di sufficiente capacità di comprensione. In particolare garantisce il diritto di richiedere personalmente o per mezzo di altre persone od organismi la designazione di un rappresentante speciale nelle procedure giudiziarie che li riguardano allorché il diritto interno priva i detentori di responsabilità parentali delle facoltà di rappresentarli a causa dell’esistenza di un conflitto di interessi (art. 4). Molto opportunamente la norma in questione fa espressamente salva l’applicazione dell’art. 9 della Convenzione dove si ribadisce che i genitori hanno in via primaria il potere di rappresentanza processuale dei propri figli minori. Quindi se i genitori non possono, secondo il diritto interno, rappresentare il figlio a causa di un conflitto di interessi con lui o perché comunque privati del potere di rappresentanza, può essere nominato al minore un rappresentante speciale dall’autorità giudiziaria, d’ufficio (art. 9 comma 1) o su richiesta dello stesso figlio fatta personalmente o attraverso altre persone od organi (art. 4 comma 1). È opportuno osservare come la Convenzione non obblighi gli Stati a prevedere la nomina di un rappresentante speciale al di fuori delle ipotesi di conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori sebbene nel successivo articolo 9 lasci liberi gli Stati di prevedere che nelle procedure riguardanti i minori l’autorità giudiziaria abbia comunque la facoltà di nominare sempre al minore un rappresentante speciale o un avvocato. L’art. 4 prevede anche l’obbligo per gli Stati di indicare espressamente al momento della ratifica a quali procedure interne si debba applicare la norma sulla designazione al minore del rappresentante speciale.
Un elenco esemplificativo dei procedimenti giudiziari nei quali si pone il problema della nomina di un rappresentante speciale al minore – e di conseguenza in cui secondo le norme sovranazionali può parlasi di conflitto di intesse tra genitori e figli – è indicato al punto 17 della relazione che accompagna il testo della Convenzione dove si afferma che le categorie di controversie cui la Convenzione è applicabile possono essere esemplificate nel modo seguente: l’affidamento, la residenza, il diritto di visita, la dichiarazione e la contestazione dello stato di figlio, la legittimazione e la contestazione dello stato di figlio legittimo, l’adozione, la tutela, l’amministrazione dei beni del minore, l’educazione, la decadenza e la limitazione dell’autorità dei genitori, la protezione contro i maltrattamenti, il trattamento sanitario.
Come si può notare si tratta di controversie nelle quali si discute in sostanza soprattutto delle funzioni genitoriali di carattere interno al rapporto genitori-figli, che si esercitano attraverso l’adempimento quotidiano dei doveri genitoriali indicati nell’art. 315-bis c.c. (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) secondo cui “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”.
Per questo si può affermare che la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti del minore segna il momento cronologico di passaggio dalla concezione del conflitto di interessi come relegata prevalentemente alle funzioni di rappresentanza esterna (secondo l’impostazione del codice civile: art. 320 e 321 c.c.) ad una concezione che abbraccia un significato molto più esteso del conflitto di interessi centrata sul rapporto interno genitori – figli a salvaguardia delle funzioni genitoriali soprattutto di educazione e di accudimento e che richiede interventi sostitutivi delle competenze genitoriali attraverso la nomina di un rappresentante speciale al minore tutte le volte in cui quelle funzioni non sono adeguatamente assolte dai genitori.
La figura del rappresentante speciale è, in sostanza, nel nostro ordinamento, la figura del curatore speciale del minore. Conseguentemente le ipotesi di nomina di un rappresentante speciale ipotizzate dalla Convenzione sono riconducibili ai casi in cui nel nostro sistema processuale viene nominato al minore un curatore speciale in funzione sostitutiva dei genitori che, se in linea generale è nella prassi un avvocato, non necessariamente deve esserlo.
La Convenzione si preoccupa di indicare quali sono le funzioni del rappresentante speciale: egli deve fornire al minore considerato dalla legge interna come dotato di una sufficiente capacità di discernimento ogni informazione pertinente e spiegazioni riguardo alle possibili conseguenze dell’attuazione dei suoi desideri e alle possibili conseguenze di ogni azione del rappresentante; deve inoltre determinare il punto di vista del minore facendo sì che questo punto di vista venga portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria (art. 10).
In terzo luogo la Convenzione prevede che gli Stati possano garantire al minore altri diritti processuali come il diritto di essere assistiti da una persona idonea di propria scelta, al fine di essere aiutati ad esprimere la propria opinione; il diritto di chiedere personalmente o per mezzo di altre persone od organismi la nomina di un diverso rappresentante e, nei casi appropriati, la nomina di un avvocato; il diritto di nominare un proprio rappresentante; il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle parti nelle procedure giudiziarie (art. 5). Questo articolo, diversamente dall’art. 4 non obbliga gli Stati a concedere i diritti specifici elencati, tuttavia li invita a valutare l’opportunità di prevedere diritti processuali supplementari rispetto a quelli minimi previsti dai precedenti articoli, lasciando poi al Comitato permanente istituito con l’art. 16 la funzione di verificare sul punto l’attuazione della Convenzione e di adottare eventualmente raccomandazioni in proposito. L’elenco dei diritti processuali elencati all’art. 5 non è evidentemente tassativo.
I diritti processuali il cui esercizio da parte dei minori è particolarmente raccomandato riguardano sostanzialmente, quindi, l’assistenza e la rappresentanza del minore da parte di un difensore nel processo e tali diritti si confermano, quindi, come i due diritti di natura processuale principali presi in considerazione dalla Convenzione quali diritti supplementari raccomandati, nella prospettiva del riconoscimento al minore, nelle procedure che lo riguardano, della qualità di parte processuale (“il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle parti”).
In seguito all’approvazione della Convenzione europea del 1996 (come detto ratificata anni dopo in Italia con la legge 20 marzo 2003, n. 77) nell’ordinamento italiano negli anni 2000 si è andata realizzando una regolamentazione più attenta ai diritti del minore in ambito processuale grazie soprattutto a due riforme importanti: la prima è quella di cui alla legge 28 marzo 2001, n. 149, che ha previsto l’obbligo dell’assistenza legale per il minore e per i genitori nelle procedure di limitazione e di decadenza della responsabilità genitoriale e in quelle per la dichiarazione di adottabilità, e che è stata applicata faticosamente dalla giurisprudenza; la seconda è l’importante riforma sulla filiazione di cui alla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e al decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 con cui il tema dei diritti del minore nel processo ha trovato attuazione attraverso l’elencazione puntuale dei diritti del minore (nuovo art. 315-bis c-c) e soprattutto del diritto di essere ascoltato – puntualizzato in tutti i suoi principali aspetti (articoli 336, 336-bis, 337-octies c.c., art. 38-bis disp. att. c.c.) – con ciò dandosi anche al tema del conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori una nuova impostazione. Con la nomina del curatore speciale, infatti, si consente di superare un conflitto di interessi tra i genitori e il figlio minore che nel processo ostacolerebbe la soddisfazione dei diritti del figlio minore, mentre con l’ascolto del minore si assegna al giudice la funzione di indispensabile verifica della corrispondenza delle decisioni all’interesse del figlio.
La nomina del curatore speciale nei casi di inidoneità genitoriale o di non assolvimento delle funzioni genitoriali e la regolamentazione dell’ascolto del minore costituiscono i nuovi pilastri, strettamente legati tra loro, sui quali si basa il processo civile in materia di tutela dei diritti del minore.
VII Il conflitto di interessi tra genitori e figli nei procedimenti di adottabilità e de potestate
Nei procedimenti per la dichiarazione di adottabilità e in quelli di controllo della responsabilità genitoriale (quest’ultimi denominati tradizionalmente procedimenti de potestate) il conflitto di interessi tra figli e genitori, pur presentandosi apparentemente come conflitto di interessi in un rapporto di rappresentanza, non è affatto inquadrabile nel contesto delle funzioni tradizionali della rappresentanza (esterna), ma va collocato – come si è detto all’inizio – nell’ambito delle altre funzioni genitoriali interne al rapporto genitori-figli. Ed infatti quello che rileva nel conflitto che in questi procedimenti si evidenzia tra genitori e figli è proprio l’(asserita) inadeguatezza dell’esercizio delle funzioni genitoriali che proprio in quei procedimenti sono sotto osservazione (potendo portare alla dichiarazione di adottabilità o a all’assunzione di provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale) e che non consentono oggettivamente di lasciare ai genitori nel processo la rappresentanza dei figli.
Ciò è tanto vero che la legge ha previsto proprio per i figli in quei procedimenti l’assistenza legale obbligatoria da parte di un difensore d’ufficio nominato (questo, almeno, era il senso originario della legge 28 marzo 2001, n. 149 che ha introdotto tale obbligo) non dai genitori ma dal giudice. La legge 149/2001 si era occupata di un tema più ampio, modificando in molte parti la normativa sull’adozione e sull’affidamento dei minori e proprio all’interno di questa riforma è stata introdotta anche l’assistenza legale obbligatoria per i genitori e per i minori nelle procedure di adottabilità (nuovo testo degli articoli 8, ultimo comma e 10, comma 2, della legge 184 del 1983, come modificati rispettivamente dall’art. 8 e dall’art. 10 della legge 149 del 2001) e nei procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale (art. 336, ultimo comma c.c. come introdotto dall’art. 37 della legge 149 del 2001)1
1 In particolare, nella formulazione introdotta dalla legge di riforma, l’ultimo comma dell’art. 8 della legge 4 maggio 1983, n. 184 stabilisce il principio che “il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’art. 10” (cioè i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore) mentre sempre il predetto secondo comma dell’art. 10 prevede che, all’atto dell’apertura del procedimento, i genitori e i parenti devono essere espressa¬mente invitati dal giudice a nominare un difensore; in difetto deve essere loro nominato un difensore di ufficio.
Per i procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale l’art. 37 della legge 149 del 2001 ha modificato l’art. 336 c.c. aggiungendovi un ultimo comma nel quale si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”. .
Quindi nel 2001 il legislatore introduceva il principio dell’assistenza legale obbligatoria per il minore (e per i genitori) nei procedimenti di adottabilità e di controllo della responsabilità genitoriale interessando, così, pressoché la totalità degli affari civili attribuiti allora e ancora oggi alla competenza del tribunale per i minorenni.
Di fronte al testo abbastanza chiaro delle nuove norme, tuttavia, la giurisprudenza ha privilegiato una interpretazione della riforma che, sul pacifico presupposto di un conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori nelle procedure in questione, si è orientata per il mantenimento della prassi di nominare al minore non direttamente un difensore ma un curatore speciale lasciando al curatore il compito di nominare un difensore nel procedimento. Il più delle volte il curatore è egli stesso un avvocato che, ai sensi dell’art. 86 c.p.c. si costituisce direttamente nel procedimento. In verità la legge 28 marzo 2001, n. 149 – prevedendo l’assistenza obbligatoria del difensore, nella prospettiva di un processo civile più giusto di fronte ad un tribunale per i minorenni più terzo – spostava l’attenzione dalla rappresentanza sostanziale del minore (da parte dei genitori o da parte del curatore speciale) alla difesa processuale. Ed è proprio questa prospettiva che metteva bene in evidenza come la riforma avesse un’importanza il cui significato e la cui portata storica andavano ben oltre la disciplina che veniva introdotta. Si confermava, infatti, che il minore, nei casi indicati dalla riforma, aveva certamente la qualità di parte processuale (che comunque la giurisprudenza non gli ha mai disconosciuto in questi procedimenti) e si collocava con determinazione la difesa dei suoi diritti nel contesto della giurisdizione all’interno delle regole del processo.
In tutti i casi in cui la riforma ha previsto la nomina di un difensore al minore, si è in presenza di una situazione di conflitto di interessi tra il minore i suoi genitori. Si trattava perciò di verificare se la nomina del difensore – al quale indubbiamente sono attribuite funzioni di assistenza e di rappresentanza (art. 82 c.p.c.) – dovesse considerarsi sostitutiva della nomina di un curatore speciale o se nei casi in cui il giudice è chiamato a nominare al minore un difensore sia comunque necessaria e sufficiente la nomina di un curatore speciale al quale lasciare poi la scelta del difensore nel processo. E’ prevalsa la tesi secondo cui il principio dell“assistenza del minore” (nuovo art. 8 della legge 184 del 1983 e nuovo ultimo comma dell’art. 336 c.c.) non comporta il dovere del giudice di nominare egli un difensore al minore. E’ in sostanza rimasto in piedi il sistema precedente di nomina da parte del giudice del curatore speciale anche nei procedimenti di adottabilità e de potestate (oltre che in tutti gli altri in cui la legge già lo prevedeva). L’altra interpretazione avrebbe consentito al giudice di nominare egli direttamente sempre il difensore al minore sia nelle procedure di adottabilità che in quelle de potestate portando alla nascita di una nuova figura di avvocato la cui formazione e professionalità avrebbe dovuto concentrarsi sulla tutela del minore nell’ambito delle relazioni familiari.
La giurisprudenza ha privilegiato l’interpretazione secondo cui l’avvocato del minore è in sostanza l’avvocato del tutore del minore o del curatore speciale del minore.
Questa operazione interpretativa si è svolta innanzitutto nell’ambito delle procedure di adottabilità dove i giudici hanno interpretato le norme del 2001 alla luce soprattutto dei principi che erano stati già pacificamente affermati prima dell’entrata in vigore della riforma, salvo adattarli al nuovo impianto legislativo. Questi principi hanno continuato ad essere, in sostanza, applicati anche dopo la riforma del 2001 dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha più volte ribadito che la nomina del difensore al minore è un compito del rappresentante legale e cioè, nel conflitto di interessi tra il minore e i genitori, un compito del tutore o del curatore speciale (Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 giugno 2016, n. 11782; Cass. civ. Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 13221; Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3804; Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3805 dove si precisa che la legge 28 marzo 2001, n. 149, che ha novellato la legge 4 maggio 1983, n. 184, non prevede necessariamente (come si riteneva nel sistema precedente) la nomina di un curatore speciale al minore, il quale è rappresentato in giudizio dai genitori o dal tutore. E poiché il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, il minore sta in giudizio, secondo le regole generali, a mezzo del rappresentante legale (genitore o tutore) e, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico.
Nell’ipotesi in cui il tutore o il curatore speciale non avessero nominato un difensore Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7281 precisava che la riforma del 2001 (che, come si è detto, aveva previsto all’art. 10 della legge 184/83 la nomina d’ufficio di un difensore ai genitori che non ne avevano uno di fiducia) doveva essere interpretata nel senso che il dovere del presidente del tribunale di nominare un difensore d’ufficio ai genitori o ai parenti entro il quarto grado, nel caso in cui essi non vi provvedano, espressamente introdotto con riguardo a detti soggetti, “a maggior ragione sussiste nei confronti del minore (rappresentato dal tutore o dal curatore speciale), che del procedimento di adozione è la parte principale”. Tuttavia – continuava la sentenza occupandosi dell’ipotesi in cui tali soggetti non avessero provveduto alla nomina del difensore o vi avessero provveduto in ritardo – “alla ritardata costituzione del difensore del minore o alla mancata assistenza da parte di costui ad uno o più atti processuali, non consegue l’automatica declaratoria della nullità dell’intero processo e/o dell’atto e di tutti quelli successivi, potendo tale sanzione essere invocata dal P.M. o dalle altre parti solo previa allegazione e dimostrazione del reale pregiudizio che la tardiva costituzione o la mancata partecipazione all’atto ha comportato per la tutela effettiva del minore”.
Quindi in queste decisioni da un lato si conferma l’obbligo della nomina del difensore da parte del tutore o del curatore speciale, o, in difetto, da parte del giudice, fin dall’inizio del procedimento, ma dall’altro si indebolisce anche questa previsione affermando che, tuttavia, la mancata nomina può anche non avere conseguenze processuali se non si dimostra che vi è stato un deficit di tutela per il minore. Affermazione francamente incomprensibile posto che il deficit di tutela è certamente in re ipsa se manca il difensore.
Negli stessi termini successivamente si sono espresse altre sentenze (Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 2010, n. 14063 e Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16870).
Nel frattempo Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12290 – sempre nella medesima linea interpretativa – aveva precisato molto opportunamente che nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, la partecipazione del minore, necessaria fin dalla fase iniziale del giudizio, richiede la nomina di un curatore speciale soltanto qualora non sia stato nominato un tutore o questi non esista ancora al momento dell’apertura del procedimento, con ciò chiarendo molto bene che il conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori va risolto con la nomina di un tutore oppure di un curatore speciale. Non di entrambi, come ancora la prassi prevede in molti tribunali. La sentenza affermava in particolare che il conflitto di interessi è ravvisabile “in re ipsa” nel rapporto con i genitori, portatori di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il minore, mentre nel caso in cui a quest’ultimo sia stato nominato un tutore il conflitto deve essere specificamente dedotto e provato in relazione a circostanze concrete, in mancanza delle quali il tutore non solo è contraddittore necessario, ma ha una legittimazione autonoma e non condizionata, che può liberamente esercitare in relazione alla valutazione degli interessi del minore”. Quanto detto riguarda le procedure di adozione a seguito della dichiarazione dello stato di adottabilità e non l’adozione ai sensi dell’art. 44 della legge 184/83 dove non è configurabile un conflitto di interessi “in re ipsa”, anche solo potenziale, tra il minore adottando ed il genitore-legale rappresentante (Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962).
Conclusivamente la nomina di un avvocato compete, quindi, al tutore o al curatore speciale, con la precisazione che ove il tutore (caso raro) o il curatore speciale (caso molto più diffuso) siano essi stessi avvocati potranno evidentemente esercitare direttamente la difesa in giudizio. A questa situazione si riferiscono anche espressamente Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16553 secondo cui qualora venga nominato, quale tutore, un avvocato, ai sensi dell’art. 86 del codice di procedura civile, egli può stare in giudizio personalmente, senza patrocinio di altro difensore, in rappresentanza del minore” e Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2010, n. 14216 dove si precisa che “nel procedimento di adozione, compete esclusivamente al rappresentante legale del minore la nomina di un avvocato per la difesa tecnica: infatti il genitore, il tutore ovvero il curatore speciale hanno anche la relativa rappresentanza processuale, non essendo il potere di agire e resistere in giudizio disponibile autonomamente rispetto alla titolarità del bene della vita per il quale la tutela giurisdizionale venga postulata; inoltre, i due ruoli restano distinti, pur quando cumulati nel medesimo soggetto che abbia il titolo, richiesto dall’art.82, secondo comma, codice di procedura civile, per esercitare la difesa tecnica”.
Per i procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale l’art. 37 della legge 149 del 2001 ha modificato – come si è detto – l’art. 336 c.c. aggiungendovi un ultimo comma nel quale si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”.
La prassi nei tribunali per i minorenni ha finora garantito un difensore al minore solo attraverso la nomina (d’ufficio o su richiesta del PM) di un curatore speciale (in genere avvocato) al minore nei casi di conflitto di interessi con i genitori. Conflitto che non è considerato sempre in re ipsa, come avviene nel procedimento di adottabilità (secondo la giurisprudenza di legittimità che si è esaminata nei paragrafi precedenti) ma che il tribunale valuta in concreto caso per caso. Ove il curatore speciale non sia un avvocato spetterà a lui la scelta se costituirsi in giudizio o meno con un difensore.
A proposito della nomina di un curatore speciale, in una vicenda che vedeva i nonni agire davanti al tribunale per i minori di Bari in un procedimento de potestate nel quale i ricorrenti chiedevano tutela alla loro relazione con il nipote, Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5097 ha ben chiarito che il minore è parte nei procedimenti de potestate e gli deve essere nominato un curatore speciale se vi è conflitto anche potenziale di interessi con i genitori. Ha fatto molto bene la Corte a ribadire che in questi procedimenti de potestate il minore è parte del processo e che proprio per questo motivo la sua partecipazione al giudizio avviene mediante il suo rappresentante legale e in caso di conflitto di interesse a mezzo del curatore speciale.
Resta confermato quindi che nelle procedure dirette all’accertamento dello stato di adottabilità del minore e in quelle cosiddette de potestate dirette alla verifica della adeguatezza dei comportamenti genitoriali il confitto di interessi tra il minore i suoi genitori nelle procedure di adottabilità (nelle quali quindi è sempre obbligatoria la nomina di un curatore speciale) è in re ipsa, mentre – in linea con la più recente giurisprudenza sopra richiamata – nelle procedure de potestate richiede sempre, ai fini della eventuale nomina di un curatore speciale, una valutazione caso per caso.
VIII In che modo l’ascolto del figlio minore risponde all’esigenza di risolvere un conflitto di interessi tra genitori e figli nei procedimenti di separazione, divorzio e di affidamento dei figli?
Si è accennato all’inizio al fatto che Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 e Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100 – in sintonia con la nuova ricostruzione sistematica qui proposta sul tema del conflitto di interessi – hanno escluso che il conflitto di interessi tra genitore e figlio minore possa essere risolto in sede di separazione, divorzio e procedure sull’affidamento, sulla base delle tradizionali regole sulla sostituzione della rappresentanza e hanno additato l’ascolto del minore come strumento idoneo a salvaguardare in quelle procedure i diritti del figlio minore nelle situazioni di conflitto di interesse con i genitori. A dire il vero la qualificazione del figlio come parte sostanziale anche se non parte processuale nei procedimenti di separazione (Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238) avrebbe potuto anche consentire alla giurisprudenza di superare l’impostazione che a suo tempo aveva dato Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185 che, come si dirà tra breve, aveva escluso la nomina de curatore al figlio nei procedimenti di separazione sul presupposto che il figlio non è parte processuale in queste procedure. La giurisprudenza sembra più plausibilmente orientata a non istituzionalizzare nelle cause di separazione il conflitto genitori-figli attraverso la nomina di un curatore speciale.
La previsione della nomina di un rappresentante speciale al minore è, invece, avvenuta nei procedimenti di adottabilità e de potestate. A tale proposito – come anche si è visto – la legge 28 marzo 2001, n. 149 aveva previsto l’obbligo dell’assistenza legale per il minore e per i genitori nelle procedure di limitazione e di decadenza della responsabilità genitoriale (introducendo un ultimo comma all’art. 336 c.c. dove si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) e in quelle per la dichiarazione di adottabilità (introducendo un ultimo comma all’art. 8 della legge 4 maggio 1983, n. 184 dove si indica che “il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’art. 10”) e la giurisprudenza – che riconosce pacificamente al minore in questi procedimenti la qualità di parte processuale (Corte cost. 30 gennaio 2002, n. 1; Corte cost. 12 giugno 2009, n. 179) – ha dato successivamente attuazione a tali norme facendo applicazione dei principi in tema di nomina del curatore speciale nei casi di conflitto di interessi tra il minore e i genitori e ritenendo che la nomina del difensore nei procedimenti de potestate e in quelli adottabilità sia un compito del curatore speciale.
La Corte costituzionale – come si è detto – ha anche imposto la nomina di un curatore speciale al minore nei procedimenti previsti per il caso di opposizione al riconoscimento tardivo del figlio nato fuori del matrimonio (art. 250 c.c.) affermando che in questi procedimenti al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio e che, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83 e Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729).
Sono rimasti fuori dal campo di applicazione della riforma introdotta dalla legge 28 marzo 2001, n. 149 – e quindi dall’obbligo di nominare un curatore (e tramite lui un difensore) al minore – sia le procedure di separazione e di divorzio, sia quelle per la regolamentazione dell’affidamento dei figli, tutte disciplinate negli articoli dal 337-bis al 337-octies del codice civile dopo la riforma operata con la legge10 dicembre 2012, n. 219 e con il D. Lgs. 8 dicembre 2013, n. 154.
In passato la giurisprudenza aveva ritenuto che spetta al legislatore la valutazione relativa al modo e al grado di effettiva tutela dell’interesse del minore ed aveva affermato che i giudizi di separazione e di divorzio non attengono né si riflettono, quale che sia l’esito di tali giudizi, sullo stato dei figli. Il legislatore non ha, quindi, ravvisato nella separazione e nel divorzio l’opportunità di istituzionalizzare un conflitto tra genitori e figli cosa che avverrebbe certamente con l’attribuzione della qualità di parte ai figli minori (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185; Cass. civ. Sez. I, 4 dicembre 1985 n. 6063). Nei procedimenti di separazione e di divorzio dunque, nonché nelle procedure di regolamentazione dell’affidamento di figli nati fuori del matrimonio, il minore non è considerato parte processuale e non ha, pertanto, diritto ad un curatore speciale, essendo il conflitto di interessi in questi procedimenti risolto attraverso gli altri strumenti.
La Corte di cassazione ha indicato nell’ascolto del minore questa prospettiva di tutela, affermando che l’’art. 336, ultimo comma, c.c. (“per i provvedimenti di cui ai commi precedenti i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) trova applicazione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della responsabilità genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore e non in una controversia relativa al regime di affidamento e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita (nel matrimonio o fuori del matrimonio). In tale ipotesi, la partecipazione del minore nel conflitto genitoriale deve esprimersi, ove ne ricorrano le condizioni di legge, solo se ne ravvisi la corrispondenza agli interessi del minore medesimo e si riscontri un grado di discernimento adeguato, mediante il suo ascolto, oltre che mediante l’esercizio dei poteri istruttori officiosi di cui il giudice può usufruire in virtù della natura e della preminenza dell’interesse da tutelare (Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478).
Questa sentenza conferma dunque la correttezza della sistematica proposta sul conflitto di interessi dove, accanto alla tradizionale modalità di risoluzione di tale conflitto costituita dalla nomina di un curatore speciale, sono oggi riconoscibili altre modalità (tra cui preminente l’ascolto del minore) connesse non tanto alle problematiche del potere di rappresentanza e di amministrazione quanto al controllo dell’altro fascio di importanti funzioni, interne al rapporto genitori-figli, in cui si articola l’esercizio della responsabilità genitoriale.
IX L’intervento volontario del figlio maggiorenne nel processo di separazione come strumento di soluzione di un conflitto di interessi
Nella ricostruzione sistematica del conflitto di interessi tra genitori e figli che si è proposta, acquistano rilevanza – accanto alle tradizionali soluzioni legate alla sostituzione del rappresentante e alla nomina quindi di un curatore speciale – anche altri strumenti di tutela rivolti alla soluzione di conflitti che emergono tra genitori e figli nell’ambito dell’esercizio di quelle funzioni genitoriali più ampie di quelle collegate alla semplice rappresentanza e che investono quindi anche il rapporto tra genitori e figli maggiorenni.
Si pensi per esempio al tema dell’assegnazione della casa familiare in occasione della separazione e del divorzio in cui si prevede che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” (art. 337-sexies c.c., – già art. 155-quater c.c. – come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n, 154) e che costituisce una dei rischi di conflitto più ricorrenti tra genitori e figli (soprattutto maggiorenni) per il peso che sull’assegnazione ha la decisione del figlio di voler rimanere ad abitare con l’uno o l’altro genitore.
Si consideri, poi, specificamente l’art. 337-septies c.c. (già art. 155-quinquies c.c. come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n, 15) che aveva introdotto nel contesto della riforma sull’affidamento condiviso dei figli del 2006 disposizioni “in favore dei figli maggiorenni”. Per la prima volta nell’ordinamento una norma si occupava specificamente dei figli maggiorenni in particolare prevedendo che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico” che, “salvo diversa determinazione è versato direttamente all’avente diritto” cioè – secondo l’interpretazione ormai pacifica – al figlio maggiorenne direttamente o al genitore con il quale il figlio abita, essendo la loro legittimazione considerata concorrente (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 21 giugno 2002, n. 9067 nella quale si fa cenno per la prima volta all’ammissibilità dell’intervento del figlio maggiorenne affermandosi che “se il figlio non interviene nel giudizio pendente, e la sentenza di condanna viene emessa solo in favore del genitore convivente, nei suoi confronti non opera il giudicato formale della sentenza”).
La giurisprudenza successiva alla riforma del 2006 in tema di affidamento condiviso ha mantenuto la stessa linea interpretativa ammettendo la legittimazione concorrente del genitore convivente con il figlio maggiorenne (Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2013, n. 18075 che l’ha presupposta ritenendola esclusa solo in difetto di una stabile coabitazione e Cass. civ. Sez. VI, 28 ottobre 2013, n. 2431 che ha espressamente precisato che la mancata richiesta, da parte del figlio maggiorenne non indipendente economicamente, di corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento giustifica la legittimazione a riceverlo da parte del genitore con lui convivente).
Già era riconosciuto, naturalmente, il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento anche oltre il compimento della maggiore età, ma è stato inevitabile che l’introduzione di una norma giuridica che richiamava espressamente questo aspetto, avesse anche ripercussioni sul tema dell’intervento del figlio maggiorenne nel processo di separazione e di divorzio ed infatti la giurisprudenza (prima di merito e poi di legittimità) ha ritenuto – dopo la novella del 2006 – ammissibile l’intervento del figlio maggiorenne nella causa di separazione dei propri genitori (App. Roma 21 giugno 2006; Trib. Napoli Sez. I, 23 luglio 2009 in Famiglia e diritto, 2009, 12, 1136, nota di Arceri; Trib. Maceratata 22 ottobre 2009 in Giur. It., 2011, 1, 81, nota di SAVI; Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296). La questione della legittimazione del figlio maggiorenne (cui la legge garantiva una titolarità del diritto al mantenimento) ad intervenire nel giudizio di separazione e di divorzio dei propri genitori è intimamente connessa a quella della riconosciuta legittimazione iure proprio del genitore a richiedere anche egli stesso il contributo di mantenimento per il figlio convivente ed era perciò inevitabile che dal riconoscimento della coesistenza dei due diritti si arrivasse a prevederne anche processualmente la medesima contestuale possibile tutela.
D’altro lato ai fini dell’ammissibilità dell’intervento di terzo in un giudizio pendente tra altre parti, è ritenuto sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione o un collegamento implicante l’opportunità di un simultaneus processus, indipendentemente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della legitimatio ad causam. Questi principi sono stati sviluppati per esempio – come si è all’inizio già riferito – da Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 in cui si è affermato che la facoltà d’intervento in giudizio, deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno, nel soggetto che ha instaurato il giudizio medesimo, della legitimatio ad causam che attiene alle condizioni dell’azione proposta nel merito e da Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 secondo cui la diversità dei rapporti giuridici non costituisce un elemento decisivo per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.
Questi richiami servono evidentemente alla giurisprudenza per superare l’obiezione che la legitimatio ad causam nel processo di separazione e di divorzio appartiene certamente solo ai genitori ma che questo non impedisce l’intervento del figlio maggiorenne nel processo atteso che egli ha comunque un diritto che può essere tutelato nello stesso processo.
Facendo applicazione dei principi sopra esposti è stato quindi affermato che, in tema di separazione coniugale, l’intervento in causa del figlio delle parti, per questioni attinenti il mantenimento, non si configura quale litisconsorzio necessario, bensì quale intervento volontario ai sensi dell’art. 105, sulla base della legittimazione del genitore concorrente con quella del figlio, la quale trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento (App. Roma 21 giugno 2006, in Pluris, Wolters Kluwer Italia) e che “l’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controversia, o eventualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito al mantenimento sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati” (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 che costituisce la prima articolata pronuncia di legittimità sul nuovo art. 155-quinquies dopo la novella del 2006). Come è stato tra l’altro ben sottolineato nel commento favorevole a queste decisioni non è di ostacolo al riconoscimento dell’opportunità del simultaneus processus la circostanza che il processo di separazione segua un rito speciale dal momento che la specialità attiene soprattutto alle questioni relative allo status coniugale e non all’accertamento accessorio del diritto relativo al mantenimento.
L’intervento del figlio maggiorenne (in via principale o in via adesiva) può esplicarsi, quindi, in tutti i procedimenti in cui i genitori discutono del suo mantenimento (separazione, divorzio, nullità, procedimenti di modifica, procedure relative al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio) anche allorché la maggiore età venga raggiunta nel corso del giudizio e costituisce certamente una modalità di risolvere anche in caso di minore età del figlio un possibile conflitto di interessi tra genitore e figlio.
X Il conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori in ambito penale
Il diritto di querela in caso di reati commessi contro un minorenne può essere sempre esercitato, entro tre mesi dal fatto oggetto del reato, da uno dei genitori, prescindendosi dall’esercizio della responsabilità genitoriale nel senso che per la presentazione della querela è sufficiente la rappresentanza legale (Cass. pen. Sez. V, 8 giugno 1995, n. 7595). Naturalmente la decadenza dalla responsabilità genitoriale, invece, fa venir meno il potere di presentare querela.
È stato chiarito che ai fini dell›esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale, non assume alcun rilievo il conflitto di interessi tra i genitori della persona offesa (minore o inferma di mente), in quanto l›unico possibile conflitto di interessi previsto dall›art. 121 cod. pen. è quello tra il curatore speciale e la persona rappresentata e non quello tra il rappresentante-curatore speciale ed altri soggetti, come l›imputato (Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 41828).
Se il minore è infraquattordicenne l’unico titolare del potere di presentare querela è il genitore. E’ valida la querela in tal caso anche se presentata dal minore infraquattordicenne ma sottoscritta dal genitore (Cass. pen. Sez. V, 28 marzo 2008, n. 16776).
Se la persona offesa ha più di quattordici anni la querela può essere proposta sia direttamente dal minorenne che da uno dei genitori (art. 120, comma 3, cod. pen.). La norma va pacificamente interpretata nel senso che i genitori possono esercitare il diritto di querela anche in presenza di una volontà contraria del figlio quattordicenne (Cass. pen. Sez. V, 4 ottobre 2012, n. 3207; Cass. pen. Sez. III, 20 dicembre 2001, n. 45474). L’art. 120 del codice penale prevede infatti proprio la possibilità che vi possa essere una sovrapposizione di volontà diverse. Uno dei due soggetti legittimati potrebbe, infatti, voler presentare querela e l’altro no. Il conflitto di interessi è risolto in base al principio di prevalenza della volontà di chi con la decisione di presentare querela consente la perseguibilità del reato. Così se il minore vuole presentare querela e i genitori no prevale la volontà del minore. Viceversa se il minore non intende avviare il procedimento ma uno dei genitori vuole presentare querela prevale la volontà di uno dei genitori, senza che mai possa prodursi alcuna invalidità della querela proposta dal genitore solo perché il figlio potrebbe avere un interesse contrario (Cass. pen. Sez. V, 26 maggio 1992). Ugualmente – in base all’art. 125 cod. pen. – il fatto che il genitore abbia rinunciato a presentare querela (art. 124 cod. pen.), “non priva il minore che ha compiuto i quattordici anni del diritto di proporre querela”.
Analogo conflitto può sorgere nel caso remissione (processuale ovvero extraprocessuale, espressa o tacita) della querela che, in base all’art. 152 del codice penale, produce l’estinzione del reato. Prevede l’art. 153 del codice penale che per i minori degli anni quattordici il diritto di rimettere e cioè ritirare la querela è esercitato dai genitori (entrambi se esercenti la responsabilità genitoriale) mentre i minorenni che hanno compiuto i quattordici anni possono anche esercitare questo diritto personalmente, anche nel caso in cui la querela sia stata presentata dai genitori. In questi casi però la remissione della querela deve essere espressamente approvata dai genitori. L’eventuale conflitto tra genitori (che per esempio volessero rimettere la querela da loro proposta o proposta dal minore) e il minore (che per esempio volesse non ritirare la querela) è risolto in base al principio di conservazione del processo. Prevale quindi chi con la sua volontà mantiene in corso il processo penale. Queste disposizioni trovano applicazione anche nel caso in cui il minore abbia superato i quattordici anni dopo la presentazione della querela.
Le stesse disposizioni valgono per l’accettazione della remissione della querela (art. 155 cod. pen.). Prevale anche in questo caso il principio di conservazione del processo nel senso che prevale sempre la volontà di chi mantiene in corso il procedimento rispetto a chi con la sua volontà intende porvi fine.
Può avvenire che il minore di quattordici anni non abbia chi lo rappresenti o, ipotesi più frequente, che entrambi i genitori si trovino con lui in conflitto di interessi, situazione non tipicizzata dalle norme e che deve quindi essere oggetto di valutazione caso per caso. Si pensi al caso in cui un minore di quattordici anni subisca percosse o lesioni lievi o ingiurie ad opera di persona – per esempio un parente o un convivente o un vicino di casa – nei confronti della quale i genitori si trovino in difficoltà psicologica a presentare querela o non intendano proprio presentarla. Oppure perché uno dei due genitori è responsabile del danno cagionato per esempio colposamente (si pensi ad un incidente stradale) al figlio minore. La situazione non può verificarsi per un minorenne che ha già compiuto quattordici anni perché, come si è visto, ha egli stesso diritto di querela.
In tal caso – sulla base di quanto espressamente dispone l’art. 121 del codice penale – su sollecitazione di chiunque che possa far rilevare l’esistenza del conflitto di interessi, il pubblico ministero può esercitare il potere a lui attribuito dall’art. 338 del codice di procedura penale e chiedere al giudice per le indagini preliminari la nomina di un curatore speciale per la presentazione della querela. In tal caso il termine per la presentazione decorre dalla nomina del curatore speciale.
Anche i servizi socio assistenziali del territorio cui è demandata la cura e l’assistenza dei minori di età possono promuovere – segnalando la situazione al pubblico ministero – la nomina di un curatore speciale (art. 338, comma 3, cod. proc. pen.).
La situazione è piuttosto delicata perché la volontà di presentare querela è sempre discrezionale e l’omessa querela da parte dei genitori potrebbe rispondere ad un intendimento non necessariamente condizionato o egoistico o contrastante con quello del figlio minore, ma espressione di principi rispettabili di libertà educativa, per esempio orientati, nei casi non gravi, a non traumatizzare con un processo il minore. Per questo è opportuno che il pubblico ministero valuti con attenzione la motivazione dell’omissione e l’esistenza del conflitto di interessi.
Naturalmente il curatore speciale non può presentare querela dopo la morte del titolare (minore o infermo di mente) (Cass. pen. Sez. II, 14 giugno 2007, n. 32873).
Il quinto comma dell’art. 338 del codice di procedura penale – che anche in questo caso prevede il meccanismo di nomina del curatore speciale su iniziativa del pubblico ministero – contempla l’ipotesi in cui la necessità della nomina del curatore speciale sopraggiunga dopo la presentazione della querela. Questo potrebbe per esempio avvenire quando nel corso del procedimento penale si intraveda un conflitto di interessi tra il genitore e il minore in ragione del quale occorre che il minore venga autonomamente rappresentato.
La stessa disciplina sopra esaminata per il minore infraquattordicenne è prevista dal codice penale (art. 120) anche per gli interdetti per infermità di mente. Quindi per l’interdetto la querela deve essere presentata dal tutore. Se manca il tutore o questi si dovesse trovare in situazione di conflitto di interessi verrà nominato un curatore speciale. Nel caso di infermi di mente non interdetti la giurisprudenza ha ritenuto che la querela da essi presentata sia perfettamente valida analogamente a quanto prevede per i minori ultraquattordicenni (e per gli inabilitati) l’art. 120 cod. pen. (Cass. pen. Sez. III, 4 novembre 2010, n. 42440; Cass. pen. Sez. III, 12 maggio 2010, n. 27044; Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 2000, n. 7280) ritenendosi necessaria la nomina di un curatore “soltanto nel caso in cui la persona offesa dal reato non abbia potuto proporre querela a causa della propria infermità”
Anche nel processo penale può verificarsi una situazione di conflitto di interessi tutte le volte in cui atti o comportamenti del genitore appaiano orientati in modo disfunzionale rispetto alla tutela dell’interesse del minore.
La pratica giudiziaria e il lavoro psicoterapeutico nei casi di abuso sui minori hanno messo in luce diverse motivazioni del conflitto di interessi: a) il comportamento di omertà, di copertura e di connivenza da parte del coniuge del genitore incestuoso o maltrattante; b) la circostanza che nel nucleo monogenitoriale ad essere indagato di reati commessi nei confronti del figlio minore sia l’unico genitore; c) la circostanza che il genitore non indagato sia gravemente insufficiente mentale; d) la grave inadeguatezza di entrambi i genitori nella relazione di aiuto dovuta al minore vittima di reati.
In molti casi il conflitto di interessi è in re ipsa come avviene quando del reato contro il minore è indagato il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale. Si pensi ai reati in danno del figlio commessi (dall’unico genitore o) dal genitore che, a seguito di separazione, divorzio o scissione della coppia genitoriale naturale, abbia l’affidamento esclusivo del figlio minore. In queste ipotesi l’art. 337-quater c.c. (come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) attribuisce al genitore affidatario l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale, “salva diversa disposizione del giudice”. Il conflitto di interessi, quindi, è in re ipsa. Poiché l’ultimo comma della stessa disposizione prevede in questi casi che il genitore non affidatario abbia il diritto e dovere di vigilare sull’educazione del figlio ma non gli attribuisce espressamente la rappresentanza del figlio in sostituzione del genitore affidatario, ritengo che nelle ipotesi di conflitto di interessi determinate dall’essere il genitore affidatario indagato di reati contro il figlio il giudice debba sempre nominare al minore un curatore speciale. Fatto sempre salvo, naturalmente, il diritto del genitore non affidatario esclusivo di promuovere un giudizio per la modifica dell’affidamento o per l’intervento giudiziario di verifica della responsabilità genitoriale.
La nomina del curatore speciale non è comunque obbligatoria – soprattutto in presenza di un genitore adeguatamente protettivo che possa rappresentare il minore – perché ciò porterebbe ad una eccessiva dilatazione dell’intervento pubblico nella famiglia e comporterebbe rischi di forte deresponsabilizzazione e di delega da parte dei genitori.
Nei soli casi, quindi, in cui l’autorità giudiziaria riscontra un concreto conflitto di interessi tra il minore vittima di un reato e le persone che lo rappresentano legalmente, si deve garantire al minore che la rappresentanza dei suoi interessi non resti inquinata dal perseguimento di interessi diversi.
Il procedimento per la nomina del curatore speciale è disciplinata dagli art. 121 c.p. e art. 77 comma 2, 90 comma 2 e 338 c.p.p. che, sia pure in modi e situazioni differenziate, si propongono di garantire la possibilità di ovviare a situazioni in cui manca la persona alla quale spetta la rappresentanza legale del minore e che, nel loro nucleo più significativo – analogamente a quanto previsto in sede civile – intendono soprattutto salvaguardare l’esigenza di ovviare processualmente a casi di conflitto di interessi.
Giurisprudenza
Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 263 c.c., che regola l’im¬pugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, ritenendo che in detta fattispecie non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’inte¬resse del minore, con la conseguenza che i due valori (verità ed interesse del minore) devono essere bilanciati mediante un adeguato giudizio comparativo, all’esito del quale non è affatto necessario che, in base alle emer¬genze del caso concreto, l’esigenza di verità dello status filiationis prevalga sull’interesse del minore a rimanere in quel contesto familiare.
Cass. civ. Sez. II, 14 dicembre 2017, n. 30068 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel valutare le condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel caso in cui l’istanza sia formu¬lata in una causa di separazione personale tra i coniugi, si deve escludere dal cumulo dei redditi familiari il solo reddito dell’altro coniuge, e non anche quello dei figli conviventi, essendo esclusivamente il coniuge in conflitto di interessi con l’altro che ha promosso l’azione o che è convenuto.
Cass. civ. Sez. III, 28 marzo 2017, n. 7889 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore speciale che venga nominato dal giudice tutelare, ex art. 320 c.c., in una situazione di conflitto di interessi tra il minore e il genitore esercente la patria potestà, ha poteri di rappresentanza del minore identici a quelli del genitore, sicché ha legittimazione processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all’atto (nella specie, una donazione) per cui sia stata disposta la nomina.
Cass. civ. Sez. III, 9 marzo 2017, n. 6020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il comma 2 dell’art. 78 c.p.c. si riferisce ai casi in cui sorga un conflitto di interessi tra rappresentante e rappre¬sentato non altrimenti disciplinato da norme sostanziali, per cui, nei casi di conflitto, la parte non può esercitare direttamente i poteri che le norme le riconoscono, dovendo gli stessi essere esercitati da un curatore speciale, la cui mancata nomina attiene all’esercizio dei poteri processuali e non al contraddittorio; ne consegue che, in base al principio secondo il quale le ipotesi di rimessione della causa al primo giudice sono quelle tassativamente indicate nei commi 1 e 2 dell’art. 354 c.p.c. (oltre a quelle di cui al precedente art. 353), il giudice di appello, in difetto della suddetta nomina in primo grado per la risoluzione dell’indicato conflitto, deve decidere la causa nel merito, rinnovando eventualmente gli atti nulli (attività, nella specie, esclusa dall’intervenuta costituzione del curatore speciale nel giudizio di gravame, fatta valere su istanza del rappresentato, produttiva di effetto sanante ai fini della rappresentanza processuale e dei poteri del curatore in ordine all’impugnazione).
Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962 (Famiglia e Diritto, 2016, 11, 1025 nota di VERONESI)
Nel procedimento di adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983, non è configurabile un conflitto di interessi “in re ipsa”, anche solo potenziale, tra il minore adottando ed il genitore-legale rappresentante, che imponga la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., dovendo, anzi, individuarsi nella necessità dell’assenso del genitore dell’adottando, di cui all’art. 46 della legge citata, un indice normativo contrario all’ipotizzabilità astratta di un tale conflitto, che, invece, va accertato in concreto da parte del giudice di merito. Tale peculiare istituto, infatti, mira a dare riconoscimento giuridico, previo accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore, a relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con quest’ultimo e caratterizzate dall’adempimento di doveri di accudimento, di assistenza, di cura e di educazione analoghi a quelli genitoriali, in quanto inteso a consolidare, ricorrendone le condizioni di legge, legami preesistenti e ad evitare che si protraggano situazioni di fatto prive di uno statuto giuridico adeguato.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 giugno 2016, n. 11782 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli ef¬fetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentan¬te, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2016, n. 1957 (Nuova Giur. Civ., 2016, 7-8, 1032 nota di NASCOSI)
Nel giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex artt. 263 e 264 cod. civ., così come nell’azione di disconoscimento di paternità disciplinata agli artt. 243-bis ss. cod. civ., è sempre configurabile un potenziale conflitto di interessi tra il minore ed il genitore cui spetta la rappresentanza processuale, quali soggetti legittimati passivi e litisconsorti necessari, con la conseguenza che il minore ha il diritto di contraddire nel giudizio attraverso la nomina di un curatore speciale, nonostante la lacuna normativa sul punto.
In tema di impugnativa di riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio, per difetto di veridicità, è neces¬saria, a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio, la nomina di un curatore speciale per il minore, legittimato passivo e litisconsorte necessario, dovendosi colmare la mancanza di una espressa previsione in tal senso dell’art. 263 c.c. (anche nella formulazione successiva al d.lgs. n. 154 del 2013) mediante una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata in quanto la posizione del minore si pone, in via generale ed astratta, in potenziale conflitto di interessi con quella dell’altro genitore legittimato passivo, non potendo stabilirsi “ex ante” una coincidenza ed omogeneità d’interessi in ordine né alla conservazione dello “status”, né alla scelta contrapposta, fondata sul “favor veritatis” e sulla conoscenza della propria identità e discendenza biologica.
Cass. civ. Sez. II, 29 gennaio 2016, n. 1721 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La verifica del conflitto del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2015, n. 22566 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell›art. 111 Cost. contro il decreto di nomina di curatore speciale ex art. 78 c.p.c., perché tale provvedimento non attribuisce o nega un bene della vita, ma assicura la rappresentanza processuale all’incapace che ne sia privo o al rappresentato che sia in conflitto d’interessi con il rappresentante, ha una funzione strumentale al singolo processo, destinata ad esaurirsi nell’ambito del processo medesimo, ed è sempre revocabile o modificabile ad opera del giudice che l’ha pronunciato, anche d’ufficio in primo grado e, successivamente, su gravame di parte, ad opera dei giudici di merito e di legittimità. (Nella spe¬cie, era stato nominato un curatore speciale alla società costituita in giudizio in persona del suo amministratore unico, a sua volta convenuto da un socio per danni procurati anche alla medesima società).
Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 336, ultimo comma c.c. che prevede la nomina di un difensore del minore, trova applicazione solo relativa¬mente ai provvedimenti limitativi della potestà genitoriale, nel caso in cui si ravvisi un concreto profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore, e non anche alle controversie relative al regime di affidamento e di visita del minore, nelle quali la partecipazione del minore si esprime mediante l’ascolto dello stesso, quale adempimento già previsto dall’art. 155-sexies c.c., divenuto necessario ai sensi dell’art. 315-bis c.c., in tutte le questioni e procedure che lo riguardano, in attuazione dell’art. 2 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.
Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2015, n. 7362 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Allorquando l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice (monocratico o colle¬giale nelle ipotesi di cui all’art. 50 bis cod. proc. civ.) della causa pendente, a tanto non ostando la riconducibilità alla giurisdizione volontaria del provvedimento di cui all’art. 80 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 324 nota di TOMMASEO)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c. parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c. tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante.
Trib. Milano Sez. IX Decreto, 19 giugno 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può sempre procedere alla nomina di un curatore speciale in favore del fanciullo, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 c.p.c., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espres¬sione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace; la nomina del curatore speciale prescinde da un’istanza di parte e può essere disposta d’ufficio dal giudice, In particolare, il curatore speciale può essere designato quando appaia necessario che sia una terza persona a rappresentare il minore. Il contenuto delle misure protettive del minore non deve essere stereotipato e automatico ma mirare, nel caso concreto, ad offrire una soluzione effettiva e celere del problema.
Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 41828 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale, non assume alcun rilievo il conflitto di interessi tra i genitori della persona offesa (minore o inferma di mente), in quanto l’unico possibile conflitto di interessi previsto dall’art. 121 cod. pen. è quello tra il curatore speciale e la persona rappresentata e non quello tra il rappresentante-curatore speciale ed altri soggetti, come l’imputato. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto valida, pur se in assenza di un’autorizzazione del giudizio tutelare, la querela sporta da un genitore, nei confronti dell’altro genitore per l’inadempimento degli obblighi di assistenza gravanti su quest’ultimo).
Cass. civ. Sez. II, 9 giugno 2014, n. 12953 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile, e opponibile al minore rappresentato, la simulazione assoluta di un atto, eccedente i limiti dell’ordinaria amministrazione, compiuto dal legale rappresentante, preventivamente e regolarmente autorizza¬to dal giudice tutelare.
Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione di cui all’art. 336, ultimo comma, c.c. – che richiede l’assistenza di un difensore – trova applica¬zione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della potestà genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore, e non già in una controversia relativa al regime di affidamen¬to e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento finalizzato all’accertamento del diritto del minore a conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti del genitore scomparso, il comportamento ostativo del genitore superstite costituisce una condotta pregiudizievole secondo la previsione degli artt. 330 e segg. cod. civ., poiché comporta la rescissione, nella fase evolutiva della formazione della personalità del ragazzo, di una sfera affettiva e identitaria assolu¬tamente significativa, e lo espone a una vicenda esistenziale particolarmente dolorosa. In tale procedimento il minore assume la qualità di parte e, in quanto tale, come affermato anche dall’art. 315 bis cod. civ., introdotto dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, ha diritto di essere ascoltato, purché abbia compiuto gli anni dodici, ov¬vero, sebbene di età inferiore, sia comunque capace di discernimento, cosicché la sua audizione non può – anche nel caso in cui il giudice disponga, secondo il suo prudente apprezzamento, che l’audizione avvenga a mezzo di consulenza tecnica – in alcun modo rappresentare una restrizione della sua libertà personale ma costituisce, al contrario, un’espansione del diritto alla partecipazione nel procedimento che lo riguarda, quale momento formale deputato a raccogliere le sue opinioni ed i suoi effettivi bisogni.
Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione al riconoscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconoscimento della stessa da parte del genitore.
Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011 – che ne ha per tale via confermato la conformità a Costituzione – essendo implicati nel procedimento de quo rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed interessi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, la tutela della sua posizione può essere in concreto attuata soltanto se sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio, mediante nomina di un terzo rappresentante.
Cass. civ. Sez. VI, 28 ottobre 2013, n. 2431 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata richiesta, da parte del figlio maggiorenne non indipendente economicamente, di corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento giustifica la legittimazione a riceverlo da parte del genitore con lui convi¬vente, il quale anticipa le spese per il suo mantenimento e le programma d’accordo con lui, e, di conseguenza, il genitore obbligato non ha alcuna autonomia nella scelta del soggetto nei cui confronti adempiere.
Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2013, n. 18075 (Famiglia e Diritto, 2014, 2, 135, nota di CARPENTIERI)
La legittimazione del genitore a richiedere “iure proprio” all’ex coniuge separato o divorziato la revisione del contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne, non ancora autosufficiente economicamente, va esclusa in difetto del requisito della coabitazione con il figlio, la quale sussiste solo in presenza di un collegamento stabile di questi con l’abitazione del genitore, compatibile con l’assenza anche per periodi non brevi, purché, tuttavia, si ravvisi la prevalenza temporale dell’effettiva presenza, in relazione all’unità di tempo considerata. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso avverso la decisione della corte di merito, che aveva ritenuto cessato il requisito della coabitazione per effetto del trasferimento del figlio maggiorenne, per ragioni di studio, in altra località, ove aveva preso in locazione un appartamento).
Cass. pen. Sez. V, 4 ottobre 2012, n. 3207 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di titolarità del diritto di querela, la previsione di cui all’art. 120, comma terzo, cod. pen. – per la quale il diritto di querela può essere esercitato dai minori che hanno compiuto gli anni quattordici e dagli inabilitati oltre che, in loro vece, dal genitore, tutore o curatore – non può essere intesa nel senso che questi ultimi possono esercitare tale diritto soltanto nel caso in cui i rappresentati non lo abbiano fatto, trattandosi di diritto distinto ed autonomo che può essere esercitato anche in presenza di una volontà contraria o a seguito dell’avvenuto esercizio da parte dei rappresentati.
Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2012, n. 13520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare la vendita di immobili ereditati dal minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del primo, a norma dell’art. 320, terzo comma, cod. civ., unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio. Ne consegue che, ai sensi del primo comma dell’art. 747 cod. proc. civ., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell’acquisto “iure hereditario” non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario, in quanto, in tale ipotesi, l’indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell’art. 320 cod. civ., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell’eredità, così evitandosi una disparità di trattamento fra minori “in potestate” e minori sotto tutela, con riguardo alla di¬versa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 cod. civ.) e i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all’art. 747 cod. proc. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 653, nota di CARBONE)
Nel giudizio di opposizione al secondo riconoscimento di figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. il minore degli anni sedici dev’essere obbligatoriamente sentito, salvo che ne sia incapace per età o per altre ra¬gioni che il giudice di merito deve indicare in motivazione.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 (Giur. It., 2012, 6, 1288, nota di SAVI)
È ammissibile nei giudizi di separazione e divorzio l’intervento del figlio maggiorenne che abbia diritto al man¬tenimento, in tale veste legittimato in via prioritaria a ottenere il versamento diretto del contributo. L’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controversia, o even¬tualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento del contributo al mantenimento sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
Nei giudizi di separazione o di divorzio, alla luce della introduzione dell’art. 155-quinquies c.c., l’intervento in giudizio, per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia, o eventualmente in via adesiva, del figlio maggiorenne, il quale, in quanto economicamente dipendente e sotto certi aspetti assimilabile al minorenne (in ordine al quale, proprio in epoca recente, in attuazione del principio del giusto processo, si tende a realizzare forme di partecipazione e di rappresentanza sempre più incisive), assolve, latu sensu, una funzione di amplia¬mento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento – anche in forma ripartita – del contributo al mantenimento, sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
È legittimo l’intervento in giudizio ex art. 105 c.p.c. sia principale che litisconsortile, del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economicamente, nella causa di separazione coniugale dei propri genitori, volto ad otte¬nere il contributo al proprio mantenimento, per proseguire gli studi universitari; detto intervento, inquadrabile nella fattispecie sostanziale di cui all’art. 155 quinquies, comma 1, c.c., concerne un diritto relativo all’oggetto della lite ed ampliando il contraddittorio consente un simultaneus processus avanti al giudice del merito che deve decidere in ordine all’entità e al versamento dell’assegno di mantenimento, sulla base dell’analisi delle istanze proposte da tutti gli interessati.
Cass. civ. Sez. II, 19 gennaio 2012, n. 743 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza processuale del minore, l’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 cod. civ. è necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di amministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio o diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio del soggetto incapace. Ne consegue che si atteggiano ad atti di ordinaria amministrazione, per i quali non è necessaria la predetta autorizzazione, tanto l’azione di rivendica finalizzata ad accrescere o a tutelare in senso migliorativo il patrimonio dell’incapace, quanto l’assunzione di una posizione processuale assimilabile a quella di un convenuto, come l’intervento volontario in giudizio per contrastare la domanda dell’attore di riconoscimento di un diritto di proprietà, giacché il provvedimento del giudice tutelare è richiesto solo quando il minore assuma la veste di attore in primo grado, ma non per le difese e gli atti diretti a resistere all’azione avversaria.
Cass. civ. Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 13221 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi riguardanti lo stato di adottabilità, il tutore provvisorio è legittimato a rappresentare il minore, salvo che sussista in concreto il conflitto d’interessi tra esso e il minore. (Principio espresso ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 2011, n. 10654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore, autorizzato dal tribunale ai sensi dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., alla continuazione dell’eser¬cizio dell’impresa commerciale del minore, può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione del giudice tutelare, anche i singoli atti strettamente collegati a tale esercizio, stante il carattere dinamico dell’impresa e la necessità di assumere decisioni pronte e tempestive, le quali sarebbero gravemente ostacolate, o addirittura paralizzate qualora, per ogni singolo atto, occorresse rivolgersi all’autorità giudiziaria; pertanto, non necessita di previa autorizzazione la stipula del contratto di apertura di credito bancario, essendo strumento fondamentale e presupposto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, la quale non potrebbe svolgersi senza i fondi necessari. È, inoltre, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., per violazione del principio di uguaglianza tra minore esercente e minore non esercente un’attività commerciale, dal momento che nel primo caso è prevista dalla legge una du¬plice autorizzazione (provvisoria da parte del giudice tutelare, definitiva da parte del tribunale in composizione collegiale che, in detta sede, può controllare e valutare l’attività svolta dopo la prima autorizzazione) e che, in forza dell’art. 334 cod. civ., in ipotesi di cattiva amministrazione del patrimonio del minore, il tribunale per i minorenni può stabilire condizioni e prescrizioni ai genitori e, nei casi più gravi, rimuovere entrambi o uno di essi dall’amministrazione, come pure il curatore speciale esercente l’impresa.
Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83 (Foro It., 2011, 5, 1, 1289)
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., in quanto nel giudizio promosso dal genitore naturale, a seguito dell’opposizione dell’altro genitore che abbia già operato il riconoscimento, al fine di effettuare a propria volta il riconoscimento, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost..
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, in quanto per la fattispecie prevista dall’art. 250, quarto comma, cod. civ., il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 cod. proc. civ. che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace. Invero, già la norma censurata stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostan¬ze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adem¬pimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infrasedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., costituisce un diritto sog¬gettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore, correlato alla pura e semplice attribuzione della genitorialità. Pertanto, la mera pendenza di un processo penale a carico del genitore richiedente (nella specie concorso in alterazione di stato, abbandono ed illecito affidamen¬to di neonato a terzi) non integra condizione “ex sé” ostativa all’autorizzazione al riconoscimento; neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con il diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc”.
Cass. pen. Sez. III, 4 novembre 2010, n. 42440 (Dir. Pen. e Processo, 2011, 11, 1359, nota di BOZHEKU)
È valida la querela presentata in proprio dall’infermo di mente, non dichiarato interdetto né inabilitato, in quanto la nomina di un curatore speciale, su istanza del P.M., è necessaria solo nel caso in cui la persona offesa non possa proporre querela a causa della propria infermità.
Soltanto nel caso in cui la persona offesa dal reato non abbia potuto proporre querela a causa della propria infer¬mità è necessaria la nomina di un curatore speciale, su istanza del P.M., a norma del combinato disposto dell’art. 121 c.p. e dell’art. 388 c.p. Quando, invece, l’interessato, anche se infermo di mente, abbia presentato querela non occorre la nomina di un curatore speciale, neanche per la ratifica dell’atto.
Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16870 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il minore è parte a tutti gli effetti del nuovo procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, al quale partecipa dalla fase iniziale. Il giudizio, sin dalla sua apertura, deve, pertanto, svolgersi con l’assistenza legale del minore che, in mancanza di previsioni di segno contrario, partecipa a mezzo di un rappresentante secondo le regole generali, quindi a mezzo del genitore o del tutore, ovvero, in caso di conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti questi ai quali compete la nomina del difensore tecnico. Quanto al conflitto di interessi deve rilevarsi che quello tra il minore ed in genitore è in re ipsa, per incompatibilità anche solo potenziale delle rispet¬tive posizioni, mentre quello tra minore e tutore deve essere specificamente ed immediatamente denunciato dal Pubblico Ministero, accertato in concreto dal Giudice e ritenuto idoneo a determinare la possibilità che il potere rappresentativo del tutore sia da questi esercitato in contrasto con il minore. La denuncia in oggetto non può, pertanto, come nella specie, essere prospettata nelle fasi e nei gradi ulteriori del giudizio al solo fine di conse¬guire la dichiarazione di nullità degli atti compiuti sulla base di una situazione non tempestivamente denunciata.
Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, mentre il conflitto d’interessi tra minore e genitore è “in re ipsa”, quello con il tutore è solo potenziale ed il relativo accertamento deve essere compiuto in astratto ed “ex ante” e non in con¬creto ed a posteriori, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti in causa; pertanto, deve escludersi che il tutore (nella specie un ente territoriale), pur se nominato nel corso del procedimento, versi sempre e comun¬que, anche soltanto potenzialmente, in conflitto d’interessi con il minore. (In applicazione del principio la Corte ha cassato la pronuncia della Corte d’appello, sezioni minori che aveva dichiarato la nullità del procedimento di primo grado per difetto di integrità del procedimento dovuta alla costituzione di un unico difensore nella duplice veste di legale del minore e del tutore).
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2010, n. 14216 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, compete esclusivamente al rappresentante legale del minore la nomina di un avvocato per la difesa tecnica: infatti il genitore, il tutore ovvero il curatore speciale hanno anche la relativa rappresentanza processuale, non essendo il potere di agire e resistere in giudizio disponibile autonomamente rispetto alla titolarità del bene della vita per il quale la tutela giurisdizionale venga postulata; inoltre, i due ruoli restano distinti, pur quando cumulati nel medesimo soggetto che abbia il titolo, richiesto dall’art.82, secondo comma, cod.proc.civ., per esercitare la difesa tecnica.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 2010, n. 14063 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, così come profondamente novellato dalla legge n. 149 del 2001, si caratterizza, vista la soppressione della previgente fase dell’opposizione, come unico ed imme¬diatamente contenzioso. Il minore, nell’ambito di siffatto sistema, è rappresentato in giudizio da un rappresen¬tante legale, il genitore o il tutore, non necessariamente un curatore speciale, il quale è quindi investito tanto dell’apertura del procedimento quanto della rappresentanza del minore, secondo le regole generali, nell’ambito del giudizio. La nomina di un curatore speciale si impone solo nell’ipotesi in cui sussista un conflitto di interessi tra il rappresentante legale ed il minore stesso (conflitto che nel caso di genitore sussiste in re ipsa) nel qual caso posto che compete al rappresentante legale la nomina, sin dall’apertura del procedimento, di un difensore tecnico, tale onere ricadrà, ove necessario, sul curatore speciale all’uopo nominato.
Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12290 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, la partecipazione del minore, necessaria fin dalla fase iniziale del giudizio, richiede la nomina di un curatore speciale soltanto qualora non sia stato nominato un tutore o questi non esista ancora al momento dell’apertura del procedimento, ovvero nel caso in cui sussista un conflitto d’interessi, anche solo potenziale, tra il minore ed il suo rappresentante legale. Tale conflitto è ravvisa¬bile “in re ipsa” nel rapporto con i genitori, portatori di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il minore, mentre nel caso in cui a quest’ultimo sia stato nominato un tutore il conflitto dev’essere specificamente dedotto e provato in relazione a circostanze concrete, in mancanza delle quali il tutore non solo è contraddittore necessario, ma ha una legittimazione autonoma e non condizionata, che può libera¬mente esercitare in relazione alla valutazione degli interessi del minore.
Cass. pen. Sez. III, 12 maggio 2010, n. 27044 (in Foro It., 2011, 5, 2, 310)
È valida la querela presentata personalmente dal maggiorenne infermo di mente e non dichiarato interdetto, in quanto la situazione d’infermità, impeditiva dell’esercizio del diritto di querela implica l’incapacità di autodeter¬minazione consapevole e volontaria. (In motivazione la Corte ha precisato che sarebbe incongruo affermare che la volontà di un soggetto, che pure ha compreso il disvalore sociale di atti da cui risulta danneggiato, una volta espressa, debba soccombere di fronte all’astratta considerazione che la sua volizione sia legalmente viziata).
Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2010, n. 8720 (Giur. It., 2011, 1, 56, nota di SGOBBO)
La transazione avente ad oggetto la controversia relativa al risarcimento del danno, stipulata dal genitore nell’in¬teresse del figlio minore, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia ad oggetto un danno che, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato. In questo caso è necessaria, per la validità della transazione, l’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7281 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, mentre il conflitto d’interessi tra minore e genitore è “in re ipsa”, per incompa¬tibilità anche solo potenziale delle rispettive posizioni, il conflitto d’interessi tra minore e tutore deve essere dedotto dal P.M. ovvero da uno dei soggetti indicati dall’art.10 della legge 28 marzo 2001, n.149, ed accertato in concreto dal giudice, come idoneo a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal tutore in contrasto con l’interesse del minore; in tal caso, tuttavia, la denuncia, tendendo alla rimozione pre¬ventiva del conflitto, nonché alla immediata sostituzione del rappresentante legale con il curatore speciale dal momento in cui la situazione d’incompatibilità si è determinata, non può più essere prospettata nelle ulteriori fasi del giudizio al solo fine di conseguire la declaratoria di nullità degli atti processuali compiuti in seguito ad una situazione non denunciata.
Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio n. 3805 (Famiglia e Diritto, 2010, 6, 554, nota di FIGONE)
La previsione di un’”assistenza legale” del minore, fin dall’inizio del procedimento adozionale non significa che debba nominarsi un difensore d’ufficio del minore all’atto dell’apertura del procedimento: il minore è parte a tutti gli effetti della procedura, ma, secondo le regole generali, sta in giudizio a mezzo del tutore, ovvero, in mancanza o in caso di conflitto di interessi, del curatore speciale.
Il tutore del minore, ove nominato nel corso della procedura adozionale non può considerarsi sempre e comun¬que in conflitto di interessi con il minore: l’eventuale conflitto dovrà accertarsi caso per caso.
Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3804 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappre¬sentante, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza della corte territoriale che aveva ritenuto spettasse al giudice il potere di nominare d’ufficio un difensore al minore).
Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’ammissibilità dell’intervento di un terzo in un giudizio pendente tra altre parti è sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento implicante l’opportunità di un “simultaneus pro¬cessus”. In particolare, la facoltà di intervento in giudizio, per far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto in causa, deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della “legitimatio ad causam”, attenendo questa alle condizioni dell’azione e non ai presupposti processuali.
Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 (Famiglia e Diritto, 2010, 4, 364 nota di GRAZIOSI
Nei processi che hanno per oggetto l’affidamento dei minori, e comunque in tutti i giudizi destinati a regolare in via esclusiva o prevalente interessi primari degli stessi, i minori, anche quando non sono parti del procedimento, devono considerarsi portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori e per tale profilo devono quindi essere qualificati parti in senso sostanziale.
L’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ed in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003, e dell’art. 155-sexies cod. civ., introdotto dalla legge n. 54 del 2006, salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con gli interessi superiori del minore. Costituisce, pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull’assenza di discernimento che ne può giustificare l’omissione, in quanto il minore è portatore d’interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore, in sede di affidamento e diritto di visita e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale.
È obbligatoria l’audizione dei figli minori nel procedimento ex art. 710 c.p.c. di modifica delle condizioni di sepa¬razione tra i coniugi, e la sua omissione determina la nullità del provvedimento decisorio per violazione dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1996 sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, dell’art. 155-sexies c.c., oltreché dei principi del contraddittorio e del giusto processo.
Corte cost. 12 giugno 2009, n. 179 (Famiglia e Diritto, 2009, 10, 869, nota di ARCERI)
È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 336 c.c., in riferimento agli artt. 3, 30 e 31 Cost. nella parte in cui “non prevede che il Tribunale, in caso di urgente necessità di tutela del minore e di mancato esercizio di azione di potestà da parte dei genitori, dei parenti entro il quarto grado o del Pubblico Ministero, pos¬sa d’ufficio nominare curatore al minore affinché tale organo valuti la proposizione di azione a tutela di quest’ul¬timo”. Invero, da un lato, il giudice a quo non descrive in modo sufficiente la fattispecie oggetto del procedimento principale e ciò determina un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione sollevata; dall’altro, il medesi¬mo rimettente non ha valutato – incorrendo in tal modo in un ulteriore difetto di motivazione sulla rilevanza della questione – l’incidenza, sulla fattispecie concreta, della normativa introdotta dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 e dalla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori adottata a Strasburgo il 25 gennaio 1996, convenzioni, dotate di efficacia imperativa nell’ordinamento interno e, quindi, recanti una disciplina integrativa rispetto alla previsione dell’art. 336 c.c., col quale devono essere coordinate.
Cass. pen. Sez. V 28 marzo 2008, n. 16776 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La querela presentata ad un organo di polizia da minore infraquattordicenne e sottoscritta da un genitore pre¬sente al fine di assisterlo “per ogni effetto di legge” rileva come querela presentata dal genitore ai sensi dell’art. 120, comma secondo, codice penale.
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 298)
L’interesse del figlio minore infrasedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’intervento principale o dell’intervento litisconsortile nel processo, anche se l’articolo 105 cod. proc. civ. esige che il diritto vantato dall’interveniente non sia limitato ad una meramente generica comunanza di riferimento al bene materiale in relazione al quale si fanno valere le antitetiche pretese delle parti, la diversa natura delle azioni esercitate, rispettivamente, dall’attore in via principale e dal convenuto in via riconvenzionale rispetto a quella esercitata dall’interveniente, o la diversità dei rapporti giuridici con le une e con l’altra dedotti in giudizio, non costituiscono elementi decisivi per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente a farlo ritenere ammissibile la circostanza che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.
Cass. pen. Sez. II, 14 giugno 2007, n. 32873 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore speciale nominato per l’esercizio del diritto di querela, di cui è titolare la persona offesa minore degli anni quattordici o inferma di mente, non può proporre querela una volta che il relativo diritto si è estinto per morte del titolare.
Cass. civ. Sez. II, 5 giugno 2007, n. 13154 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore autorizzato alla continuazione dell’esercizio dell’impresa commerciale del minore ex art. 320, co. 4, c.c. può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione giudiziale, anche gli atti che non rientrano fra quelli di c.d. straordinaria amministrazione purché si tratti di atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, ovvero direttamente a quest’ultimo ricollegatisi, restando viceversa escluso che l’autorizzazione si estenda ad atti privi, secondo una valutazione di fatto riservata al giudice di merito, di collegamento funzionale all’atto d’impresa.
Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 (Giur. It., 2007, 8-9, 1901)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 235 c.c., 1° comma, n. 3 nella parte in cui, ai fini dell’azione di discono-scimento della paternità, subordina gli accertamenti istruttori sulla paternità effettiva, da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla pre¬via dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 (Foro It., 2006, 4, 1, 966)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 274 c.c., che disciplina il giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiara¬zione giudiziale di paternità o di maternità naturale, per violazione degli artt. 3, co. 2, 24 e 111 Cost. La norma si presenta intrinsecamente e manifestamente irragionevole, e si risolve in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’ art. 24 Cost., per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; da tale manifesta irragionevolezza discende inoltre la violazione del precetto (art. 111, co. 2 , Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di una autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia ormai priva di qualsiasi funzione.
Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 (Corriere Giur., 2006, 3, 347, nota di FERRANDO)
Nel caso in cui il presunto genitore sia deceduto e siano morti anche i suoi eredi diretti l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità esercitata dal figlio non è proponibile, per mancanza di legittimati passivi, non essendo tali gli “eredi degli eredi”.
Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2005, n. 7924 (Famiglia e Diritto, 2005, 4, 436)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, commi 2 e 3, c.c, con riferi¬mento agli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., nella parte in cui prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità possa essere proposta da chiunque vi abbia interesse.
Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di amministrazione dei beni dei figli “ex” art. 320 c.c., al di fuori dei casi specificamente individuati ed inquadrati nella categoria degli atti di straordinaria amministrazione dal legislatore, vanno considerati di ordi¬naria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patri¬monio predetto. Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre queste caratteristiche.
Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c., quarto comma, il minore infrasedicenne non assume la qualità di parte, divenendo tale solamente all’esito della nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., secondo comma, in presenza di un conflitto d’interessi con il genitore legale rappresentante che si oppone al riconosci¬mento da parte dell’altro genitore naturale, determinandosi in tal caso una sorta di intervento “iussu iudicis” del minore stesso, a mezzo del suddetto curatore. Ne consegue che la sentenza emessa a chiusura del procedimento deve essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per la relativa impugnazione, anche al suddetto curatore, non determinandosi in difetto il passaggio in giudicato e la conseguente definitività della decisione, in ragione del mancato decorso di detto termine rispetto a tutte le parti in causa. [Principio enunciato nell’ambito di un giudizio concernente la domanda di equa riparazione dei danni (lamentati per effetto di una durata del giu¬dizio ex art. 250 c.c., quarto comma, prolungatasi, anche in ragione della condotta degli addetti alla Cancelleria, per quattro anni e cinque mesi e dedotta come irragionevole in considerazione pure della particolare semplicità del rito camerale e della delicatezza della vicenda in questione), proposta seppur in difetto di notificazione della sentenza emessa a conclusione del giudizio (anche) al curatore speciale nominato alla minore, e dal giudice di merito dell’impugnazione nondimeno ritenuta conclusiva del procedimento all’esito del decorso del termine breve per l’impugnazione fatto decorrere dalla relativa notifica effettuata solamente ai genitori e al P.M.).
Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2003, n. 8803 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di omessa nomina di un curatore speciale previsto dall’art. 78 c.p.c. quando vi sia conflitto d’interessi con il rappresentante, il vizio di costituzione del rapporto processuale, determinando la nullità dell’intero giudizio per violazione della garanzia costituzionale del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., deve essere rilevato dal giudice d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio ed anche in sede di legittimità, sempreché sulla questione non si sia formato il giudicato interno, atteso che si verte in tema di rappresentanza sostanziale nel processo e non di rappresentanza sostanziale, essendo invece in quest’ultima ipotesi rimessa all’apprezzamento del giudice di merito – come tale non deducibile per la prima volta né rilevabile d’ufficio in sede di legittimità – l’indagine sulla compatibilità o meno dell’interesse del rappresentante con quello del rappresentato. Nella specie la S.C., nel dichiarare la nullità dell’intero giudizio, ha rilevato d’ufficio l’omessa nomina da parte del giudice di merito del curatore, avendo ravvisato il conflitto d’interessi di cui all’art. 78 c.p.c. fra la società cooperativa convenuta, che aveva dedotto il difetto di titolarità del rapporto per essere stato il contratto – posto a base della domanda dall’attore – sottoscritto, a titolo personale e non quale organo rappresentativo della società stessa dalla mede¬sima persona fisica che nel giudizio ne aveva assunto la rappresentanza legale
Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2003, n. 3795 (Guida al Diritto, 2003, 27, 89)
La transazione dell’esercente la potestà genitoriale sui minori, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia per oggetto un danno che, per la natura ed entità, possa incidere profondamente nella vita pre¬sente e futura del minore danneggiato. Pertanto una transazione non autorizzata ai sensi dell’articolo 320 del c.c., dovrà ritenersi invalida nei confronti dei minori e tale invalidità è rilevabile d’ufficio da parte del giudice della cognizione.
Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 278, comma 1, c.c. nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, comma 1, c.c. il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato. Infatti la “capitis deminutio perpetua” e irrimediabile imposta ai cosiddetti figli incestuosi come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti, costituisce una evi¬dente violazione del diritto a uno “status filiationis” e del principio costituzionale di uguaglianza, come pari digni¬tà sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali.
Cass. civ. Sez. I, 21 giugno 2002, n. 9067 (Famiglia e Diritto, 2002, 6, 651)
Nelle ipotesi di separazione o divorzio, il figlio divenuto maggiorenne ma non economicamente autosufficien¬te acquista una legittimazione “iure proprio” all’azione per ottenere dall’altro genitore il contributo al proprio mantenimento (che trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento), concorrente con la legittimazione, anch’essa iure proprio, del genitore convivente; peraltro se il figlio non interviene nel giudizio pendente, e la sentenza di condanna viene emessa solo in favore del genitore convivente, nei suoi confronti non opera il giudicato formale della sentenza, e pertanto egli non ha titolo per richiedere direttamente il pagamento del contributo al mantenimento al genitore obbligato non convivente, non potendosi ravvisare nel caso in esame una ipotesi di solidarietà attiva (che, diversamente da quella passiva, non si presume).
Corte cost., 30 gennaio 2002, n. 1 (Foro It., 2002, I, 3302)
Poiché deve ritenersi che la disposizione di cui all’art. 336 comma 2 c.c. è integrata dall’art. 12 della conven¬zione sui diritti del fanciullo, resa esecutiva con l. n. 176 del 1991, nel senso che il minore costituisce una parte del procedimento camerale in esito al quale il tribunale per i minorenni pronuncia provvedimenti ablativi o modificativi della potestà dei genitori, con la conseguente necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale, la q.l.c. dell’art. 336 comma 2 c.c., in riferimento agli art. 2, 3, comma 2, 24 comma 2, 30 comma 1 e 111 commi 1 e 2 cost., nella parte in cui non prevede a pena di nullità rilevabile d’ufficio che i genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano sentiti in quei procedimenti resta assorbita, mentre spetta al giudice “a quo” stabilire, applicando le norme generali sulle nullità processuali, quali conseguenze esplichi sul provvedimento reclamato l’inosservanza della disposizione censurata, come sopra interpretata.
Cass. pen. Sez. III, 26 novembre 2001, n. 45474 (in Pluris Cedam Utet, 2013, massima redazionale)
In tema di titolarità del diritto di querela, la previsione di cui all’art. 120, comma terzo, c.p. (per la quale in caso di persona offesa ultraquattordicenne o inabilitata il diritto di querela può essere esercitato, oltre che da quest’ultima in loro vece, dal genitore, tutore o curatore) non può essere intesa nel senso che tali soggetti pos¬sano esercitare tale diritto soltanto nel caso in cui i rappresentati non lo abbiano fatto, bensì nel senso che quel diritto è distinto ed autonomo potendo essere esercitato anche in presenza di una volontà contraria o dopo il già avvenuto esercizio da parte dei rappresentati.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470 (Nuova Giur. Civ., 2002, II, 294, nota di LENA)
Nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c. per conseguire una pronuncia che tenga luogo del man¬cato consenso dei genitore, che abbia già riconosciuto il figlio infrasedicenne, al riconoscimento dello stesso mi¬nore da parte dell’altro genitore, il minore non assume la qualità di parte, ma ne è prevista l’audizione, sempre che ne sia capace per ragioni di età o per altre cause, sicchè in tale procedimento non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore nè la mancata previsione della necessità di tale nomina si pone in contrasto con gli art. 3, 31 e 111 cost., atteso che il minore risulta adeguatamente protetto dalla verifica che il tribunale per i minorenni è chiamato a compiere circa l’effettiva rispondenza all’interesse dei minore medesimo del secondo riconoscimento.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la potestà e figlio è ipotizzabile non già in presenza di un interesse comune, sia pure distinto ed autonomo, di entrambi al compimento di un determinato atto, ma soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concili con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente pre¬sunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la quale non rientra tra le ipotesi, tassativamente indicate dal legislatore, nelle quali il giudizio deve essere proposto, in rappresentanza del minore, nei confronti di un curatore speciale nominato al riguardo dal giudice; ne conse¬gue che, in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la potestà è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato.
Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza sostanziale nel processo, va ravvisata una situazione di conflitto di interessi tra rap¬presentante e rappresentato, tale da comportare la necessità della nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., ogni volta che sia dedotta in giudizio una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal rappresentante in contrasto con l’interesse del rappresentato, e, quindi, anche se il conflitto si configuri come solo potenziale, non essendo necessaria la evidente ricorrenza di sintomi indicativi della effettività del conflitto stesso nomina.
Cass. civ. Sez. II, 16 novembre 2000, n. 14866 (Giust. Civ., 2001, I, 695)
In tema di rappresentanza sostanziale nel processo, va ravvisata una situazione di conflitto di interessi tra rap¬presentante e rappresentato, tale da comportare la necessità della nomina di un curatore speciale, ogniqualvolta sia dedotta in giudizio una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal rappresentante in contrasto con l’interesse del rappresentato, essendo il primo portatore di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il secondo, dovendosi dichiarare, anche d’ufficio, la nullità dell’intero giudizio in mancanza della suddetta nomina.
Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 2000, n. 7280 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È valido l’atto di querela proposto in proprio dalla persona offesa inferma di mente.
Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale, la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito; infatti, l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’a¬zione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c.; nella prima ipotesi, inoltre, la scelta di non affiancare obbligatoriamente il rappresentante del minore con un curatore speciale, che ne controlli le iniziative processuali, è ragionevole e coerente con la qualità soggettiva del rappresentante e la sua natura di sostituto processuale, mentre la previsione di una sospensione dei termini o di una rimessione in termini a favore del minore, divenuto maggiorenne, per esercitare le attività (in particolare le impugnazioni) da cui il genitore è decaduto, contrasterebbe con le esigenze di certezza del diritto e costituirebbe violazione del diritto di difesa della controparte, soggetta ad unilaterale possibilità di riesame di una sentenza passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 1999, n. 8484 (Famiglia e Diritto, 1999, 6, 576)
L’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 c.c. è necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di am¬ministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio e diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione che fanno già parte del patrimonio del minore. Ne consegue che l’autorizzazione non è necessaria per proporre domanda di demolizione di opere costruite dal vicino in viola¬zione delle norme legali sulle distanze, giacchè con detta azione si mira a impedire l’assoggettamento del fondo dell’incapace a vantaggio del fondo altrui.
Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1999, n. 5694 (Danno e Resp., 1999, nota di VIOLANTE)
È manifestamente infondata la questione di costituzionalità della norma di cui all’art. 2942 c.c. – sollevata con riferimento agli art. 2, 3, 10, 24 e 30 della Carta fondamentale – nella parte in cui non prevede la sospensione del corso della prescrizione in favore del minore in caso di inattività dei genitori esercenti la relativa potestà che versino, rispetto al predetto, in una situazione di conflitto di interessi (nella specie, per essersi reso responsabile del danno causato al minore un altro figlio, anch’egli minorenne), e di conseguente, mancata nomina, al minore stesso, di un curatore speciale da parte del giudice tutelare: dal combinato disposto di cui agli art. 320 e 321 c.c., può desumersi, difatti, anche con riferimento all’ipotesi in parola, la esistenza, in seno all’ordinamento, di un idoneo rimedio, costituito dalla facoltà di nomina di un curatore speciale, da parte del giudice tutelare, su istanza del figlio stesso, del p.m., o di uno dei parenti del minore. Il citato art. 2942 c.c. non può, inoltre, legittimamente ritenersi integrato, sul punto, dall’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui tale norma prevede “il diritto di ogni persona alla tutela giurisdizionale dei propri diritti”, al fine di ritenere implicita¬mente recepito, in seno alla norma statuale, il principio di sospensione della prescrizione “de quo”.
Cass. civ. Sez. III, 4 novembre 1998, n. 11071 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare la vendita di beni ereditati dal minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del minore stesso unicamente per i beni che si possono considerare definitivamente acquisiti al patrimonio di questi, mentre appartiene al tribunale del luogo dell’apertura della successione allorchè l’acquisto “iure hereditatis” non sia ancora perfezionato, come quanto penda procedura di accettazione con beneficio d’inventario, perchè, in tal caso, l’indagine el giudice adito non è limitata alla tutela del minore – alla quale soltanto è circoscritta dall’art. 320 c.c. – ma si estende a quella degli altri soggetti inte¬ressati alla liquidazione dell’eredità.
Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 1998, n. 6292 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mandato “ad litem” rilasciato al difensore dal legale rappresentante di una società non si estingue per il so¬pravvenuto mutamento della persona fisica che rappresenta la società, ma continua a produrre effetti finchè non sia revocato dal nuovo rappresentante, con la conseguenza che la sostituzione dell’amministratore unico di una società di capitali che sia parte in giudizio, intervenuta al momento della notifica dell’atto d’appello, non incide in alcun modo nella procedibilità del gravame.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 1997, n. 9316 (Famiglia e Diritto, 1998, 2, 175)
Nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, la nomina (o il diniego di nomina) del cura¬tore speciale, secondo il testuale tenore dell’art. 274 comma 4 c.c., costituisce esercizio di un potere discrezio¬nale del giudice di merito, che può farvi luogo anche prima di ammettere l’azione, ai fini della rappresentanza in giudizio. Si tratta di un atto che non incide sui diritti del minore e che non ha alcuna autonomia nell’ambito del procedimento (in quanto la rappresentanza del minore è in ogni caso affidata al genitore esercente la po¬testà, ai sensi dell’art. 273 comma 1 c.c.) e che è privo di efficacia decisoria, non spiegando riflessi di sorta sul provvedimento che dichiara ammissibile o inammissibile l’azione. Conseguentemente, trattandosi di un atto a carattere meramente ordinatorio, esso è insuscettibile di ricorso per cassazione anche con riguardo al rimedio straordinario stabilito dall’art. 111 cost
Cass. civ. Sez. III, 22 maggio 1997, n. 4562 (Famiglia e Diritto, 1998, 1, 80)
La transazione avente ad oggetto la controversia relativa al risarcimento del danno, stipulata dal genitore nell’in¬teresse del figlio minore, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia ad oggetto un danno che, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato. In questo caso è necessaria, per la validità della transazione, l’autorizzazione del giudice tutelare ex. art. 320 c.c.
Cass. civ. Sez. II, 9 luglio 1997, n. 6201(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Configura vizio insanabile della costituzione del rapporto processuale e perciò determina la nullità del relativo giudizio per violazione del principio del contraddittorio, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimen¬to, l’omessa nomina di un curatore speciale (art. 78 c.p.c.) ad una società, convenuta in giudizio dal preteso simulato alienante per accertare la simulazione di una vendita con essa intercorsa – e quindi recuperare il bene trasferitole – che contemporaneamente rivesta la qualità di amministratore unico e rappresentante legale della medesima società, essendo evidente la mera apparenza del contraddittorio – (tant’è che nella specie la società era rimasta contumace) – e il conflitto di interessi tra essa e il suo predetto rappresentante.
Cass. pen. Sez. V, 8 giugno 1995, n. 7595 (in Cass. Pen., 1997, 77)
Con la parola “genitore”, adoperata per designare la persona legittimata a proporre la querela in vece del minore ultraquattordicenne, l’art. 120 comma 3 c.p. prescinde dall’esercizio della patria potestà, riconoscendo la rap¬presentanza legale necessaria e sussidiaria ad entrambi i genitori. (Fattispecie relativa alla querela proposta dal genitore separato, non affidatario del figlio minore ultraquattordicenne, in ordine al delitto di lesioni volontarie).
Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 1995, n. 4015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore, non avendo il potere di disporre dei beni dei figli minori senza l’autorizzazione del giudice tutelare ( art. 320 c.c.), non ha neppure il potere di confessare (giudizialmente o extragiudizialmente), senza tale autoriz¬zazione, fatti dalla cui prova il diritto del figlio possa risultare pregiudicato, perché l’art. 2731 c.c., nel prevedere che la confessione non è efficace se non proviene da persona che è capace di disporre del diritto, equipara la con¬fessione ad un atto di disposizione, che, come è precisato nel comma 2 del medesimo articolo, il rappresentante può compiere solo nei limiti in cui dispone del potere di vincolare il rappresentato, e si riferisce, perciò, non solo ai diritti indisponibili considerati dagli art. 2733 e 2735 c.c. (a norma dei quali la confessione a piena prova con¬tro colui che l’ha fatta purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili) ma, più in generale, alla capacità correlata allo stato del soggetto confitente, cioè alla capacità di disporre. Il genitore, conseguentemente, non può confessare la gratuità di un atto di alienazione apparentemente oneroso se tale diversa natura dell’atto ne comportasse la nullità per vizio di forma (nella specie, perché stipulato senza i due testimoni prescritti dall’art. 48 legge 16 febbraio 1913 n. 89) con effetti pregiudizievoli per il minore, essendo sufficiente, per qualificare come confessorio il predetto fatto, l’accertamento delle sue pratiche conseguenze sfavorevoli in relazione all’og¬getto della controversia ed ai termini della contestazione, anche quando queste conseguenze siano collegate a profili ed elementi strettamente giuridici dell’istituto del tutto estranei al contenuto della dichiarazione.
Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 1994, n. 7204 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare il genitore esercente la patria potestà alla prosecuzione dell’esercizio dell’impresa per conto dei figli minori spetta al tribunale ordinario e non a quello per i minorenni, trattandosi di provvedi¬mento previsto dall’art. 320, comma 5, c.c., non richiamato nella tassativa elencazione di cui all’art. 38 disp. att. stesso codice.
Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1994, n. 2515 (Pluris, Wolters Kluwer Italia) Trotta c. Generoso
Nell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale, l’espressione “chiunque vi abbia interesse”, usata dall’art. 263 c.c. per indicare i soggetti che vi sono legittimati, non può ritenersi comprensiva del P.M., essendo essa riferibile ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all’essere o al non essere dello status, del rapporto, dell’atto dedotto in giudizio (ad es. gli eredi e i parenti di chi risulti il genitore legittimo o l’autore del riconoscimento, colui che allega di essere il vero genitore ecc.), con la conseguenza che trova applicazione, in mancanza di una deroga esplicita, la regola generale prevista dall’art. 70 n. 3 c.p.c. secondo la quale nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone il P.M. deve (soltanto) intervenire sotto pena di nullità, e non può, quindi, (anche) esercitare l’azione e proporre impugnazione, senza neppure essere legittimato a proporre domande nuove o riconvenzionali, che comportino l’obbligo ex art. 292 c.p.c..
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 1994, n. 2430 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione prevista dal codice civile in relazione ai beni degli incapaci non coincide con quella applicabile in tema di determinazione dei poteri attribuiti agli amministra¬tori delle società. Tali poteri, pertanto, devono essere determinati con riferimento all’oggetto sociale e non alla mera rilevanza economica dell’atto.
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1993, n. 2576 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’azione per la dichiarazione della paternità o maternità naturale ha carattere personalissimo e la legittimazione al suo esercizio compete esclusivamente al figlio e, dopo la sua morte, ai suoi discendenti; se il soggetto legitti¬mato è legalmente incapace, essa può essere promossa, nel suo interesse, unicamente dal genitore che esercita la potestà o dal tutore, in forza delle tassative ipotesi di sostituzione processuale previste dall’art. 273 c.c.; ne consegue che l’eventuale nomina di curatore speciale (art. 274, ult. comma, c.c.) comporta la necessità della presenza di questi in giudizio – per tutelare l’incapace da possibili conflitti d’interesse con chi ha proposto l’azio¬ne – ma non determina una legittimazione attiva concorrente con quella del genitore o del tutore, né escludente la stessa.
Cass. pen. Sez. V, 26 maggio 1992 (Giust. Pen., 1993, II, 348)
In tema di nomina di un curatore speciale per l’esercizio del diritto di querela, la norma di cui all’art. 121 c.p.tende, per quel che riguarda il rapporto tra genitore e figlio, ed evitare che il diritto di querela per fatti offen¬sivi nei confronti del figlio non venga esercitato perchè vi è un interesse contrastante del genitore, ma non può valere a rendere invalida una querela proposta dal genitore solo perchè il figlio potrebbe avere un interesse per¬sonale ad evitare la punizione del colpevole. Una invalidità del genere non è prevista nè può dedursi dal sistema, il quale tende anzi a favorire la proposizione della querela, stabilendo (art. 120 comma 3 c.p.) che il minore che ha compiuto gli anni quattordici può proporre personalmente la querela, ma non può anche impedire che contro la sua volontà la proponga il genitore. (Fattispecie in cui una madre aveva proposto nell’interesse dei figli minori querela per lesioni e percosse nei confronti del padre, con il quale aveva in atto procedimento di separazione personale, e costui assumeva che sarebbe stata necessaria la nomina di un curatore speciale ex art. 121 c.p. in quanto, avendo la moglie un interesse personale alla sua punizione, sussisteva un conflitto di interessi con i figli, dato che questi erano portatori di un proprio interesse al rispetto ed alla tutela della personalità del padre che avrebbero potuto far prevalere su quello alla sua punizione; la Cassazione ha ritenuto infondato tale assunto enunciando il principio di cui in massima).
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 1992, n. 3416 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio sull’ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità), l’art. 273, 1° comma c. c. prevede la autorizzazione del tribunale e, la nomina, facoltativa, di un curatore speciale qualora l’azione sia esercitata dal tutore, mentre non prevede la necessità di un’autorizzazione, né la nomina del curatore quando l’azione è esercitata dal genitore esercente la potestà; si configura così una estensione, rispetto ad un diritto strettamente personale del figlio, del potere di rappresentanza ex lege spettante al genitore stesso: ne deriva che né la nomina del curatore speciale disposta al di fuori della previsione normativa, né la valutazione dell’interesse del minore infrasedicenne da parte del giudice, da annoverarsi fra le condizioni di ammissibilità dell’azione nel quadro dell’art. 274 c. c. possono riflettersi negativamente sulla legittimazione del genitore eser¬cente la potestà a promuovere l’azione.
Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1992, n. 3079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 321 c. c., così come modificato dall’art. 144 l. 19 maggio 1975 n. 151, giudice competente a nominare un curatore speciale al minore, nel caso in cui entrambi i genitori, o quello di essi che esercita in via esclusiva la potestà, non possono o non vogliono compiere uno o più atti di interesse del figlio, eccedenti l’or¬dinaria amministrazione, è il tribunale ordinario e non il tribunale dei minorenni, né il giudice tutelare, atteso che il riferimento ai provvedimenti del giudice tutelare a proposito dell’art. 321 c. c., contenuto nell’art. 45, 1° comma, disp. att. c. c., deve intendersi fatto con riferimento al 1° comma di detto articolo, non più sussistente nella unitaria formulazione del nuovo testo dell’art. 321, con la conseguenza che questo deve essere inteso, in mancanza di un’espressa attribuzione della detta competenza al tribunale dei minorenni o a diversa autorità giudiziaria, come riferito al tribunale ordinario.
Cass. civ. Sez. III, 28 febbraio 1992, n. 2489 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non si configura conflitto di interessi tra il genitore ed il minore da lui legalmente rappresentato, e non è conse¬guentemente, necessaria la nomina di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c. c. quando il compimento dell’atto, pur avendovi i due soggetti un interesse proprio e distinto, realizza un vantaggio comune di entrambi senza danno reciproco (nella specie, costituzione della madre, in proprio ed in rappresentanza dei figli minori, nel giudizio di risarcimento di danno extracontrattuale instaurato contro il padre poi deceduto).
Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 1992, n. 711 (Giur. It., 1993, I,1, 138, nota di SESTA)
L’azione ex art. 580 c.c. può essere esercitata anche dal figlio naturale che abbia lo stato di figlio legittimo altrui, purché il richiedente non abbia omesso consapevolmente e volontariamente di esercitare l’azione di discono¬scimento della paternità, così rendendo impossibile la proposizione dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità naturale.
Corte cost., 27 novembre 1991, n. 429 (Foro It., 1992, I, 2908)
In caso di azione di disconoscimento della paternità di minore infrasedicenne iniziata dal P.M., il diritto vigente fornisce strumenti sufficienti per proteggere lo stesso contro iniziative avventate e a loro volta i genitori legittimi contro azioni temerarie o ricattatorie. Quando, infatti, la domanda di nomina del curatore speciale è proposta dal pubblico ministero nel presunto interesse di un minore infrasedicenne, il giudice, a tutela dello stesso, prima di emettere il decreto motivato previsto dall’art. 737 cod. proc. civ., deve allargare il campo di acquisizione delle sommarie informazioni, includendovi tutti gli elementi necessari o utili per valutare la sussistenza del suo inte¬resse all’esperimento di un’azione che lo spoglierebbe dello stato di figlio legittimo senza garantirgli l’acquisto dello stato di filiazione nei confronti del padre naturale. All’uopo il giudice deve, tra l’altro, ordinare l’audizione dei genitori legittimi ed eventualmente anche delle persone interessate che hanno eccitato l’iniziativa del pubbli¬co ministero per accertarsi della purezza delle loro intenzioni in quanto il tramite del pubblico ministero, di per sé solo, non è sufficiente garanzia. (Non fondatezza, nei sensi di cui in motivazione, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 244, ultimo comma, cod. civ., nel testo sostituito dall’art. 81 della legge 4 maggio 1983, n. 184, “in parte qua”, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.).
È inammissibile, in quanto implicante scelte discrezionali proprie del legislatore, la questione di legittimità co¬stituzionale dell’art. 244, 4° comma, c. c., nella parte in cui, non prevede un giudizio preliminare di delibazione dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento di paternità promossa dal curatore speciale di soggetto infrase¬dicenne, in riferimento all’art. 3 cost.
La determinazione dei soggetti legittimati a proporre l’azione di disconoscimento della paternità è una scelta insindacabile del legislatore che ha ritenuto di riservare ai soli soggetti direttamente interessati, e cioè ai membri della famiglia legittima, il potere di decidere circa la prevalenza della verità “biologica” o della verità “legale”: una innovazione, che attribuisse direttamente la legittimazione ad agire a soggetti privati estranei alla famiglia legittima, quale è il presunto padre naturale, rappresenterebbe la scelta di un criterio diverso, legato ad una ul¬teriore evoluzione della coscienza collettiva, che solo il legislatore può compiere. Né vale opporre che l’equilibrio tra verità legale, che tutela l’unità della famiglia legittima (art. 29 Cost.) e verità biologica (art. 30 Cost.) è stato già modificato dalla legge n. 184 del 1983 con l’ammettere la promozione dell’azione di disconoscimento della paternità su iniziativa del P.M., fino a quando il figlio non abbia compiuto sedici anni, giacché la nuova norma, prevedendo che l’azione sia poi esercitata non dal pubblico ministero, ma, in nome e nell’interesse del figlio, da un curatore speciale, è rimasta formalmente nei limiti del criterio di determinazione dei soggetti titolari dell’azio¬ne assunto dalla legge n. 151 del 1975. FONTI
Corte cost., 20 luglio 1990, n. 341 (Foro It., 1992, I, 2,5 nota di FORMICA)
È illegittimo, per violazione degli art. 3 e 30 cost., l’art. 274, 1° comma, c. c., nella parte in cui non subordina l’ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, oltre che al concorso specifico di circostanze tali da farla apparire giustificata, anche alla condizione che ne sia valutata la rispondenza all’interesse del minore.
Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 1990, n. 6093 (Corriere Giur., 1990, 1026)
Il riconoscimento da parte del secondo genitore, seppure è condizionato all’interesse del minore, costituisce pur sempre un diritto soggettivo primario della personalità (art. 30 cost.) ed il sacrificio di tale diritto può avvenire solo in presenza di un fatto impeditivo di importanza proporzionata al suo valore e cioè solo nell’ipotesi in cui dallo stesso possa derivare al minore un trauma così grave da pregiudicare in modo serio il suo sviluppo psico¬fisico e non anche in considerazione dell’interesse del minore stesso a continuare la convivenza con il genitore che per primo lo ha riconosciuto.
Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La proposizione dell’azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno subito da un minore, mirando alla rein¬tegrazione del patrimonio del minore leso dall’atto dannoso, rientra tra gli atti di ordinaria amministrazione e, pertanto, può essere effettuata dal genitore esercente la patria potestà senza autorizzazione del giudice tutelare, la quale non è necessaria neppure affinché il suddetto genitore possa transigere la relativa lite.
Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esercizio di un’azione giudiziaria in rappresentanza di un figlio minore di età da parte del genitore esercente la patria potestà non costituisce atto eccedente l’ordinaria amministrazione quando persegua delle finalità di conservazione del patrimonio del minore e può quindi proporsi in base ai poteri di rappresentanza del genitore, senza che sia necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 c. c.
Cass. civ. Sez. III, 28 luglio 1987, n. 6542 (Giust. Civ., 1988, I, 454)
Nonostante l’espressa inclusione di tale tipo di negozio nell’elencazione fatta dall’art. 320 c. c. degli atti ecce¬denti l’ordinaria amministrazione, la concessione di mutui a minori resta esentata dalla preventiva autorizzazione del giudice tutelare qualora il prestito, per la sua incidenza economica, sia passibile di restituzione mediante impiego dei redditi del minore, senza pericolo di decurtazione dei suoi capitali o di diminuzione del valore del suo patrimonio; trattasi, peraltro, di eccezione, la cui ricorrenza richiede una specifica prova, da parte di chi resiste all’annullabilità del contratto (di mutuo) non autorizzato, onde superare la presunzione di appartenenza del tipo negoziale al novero degli atti di straordinaria amministrazione.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5353 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione prevista dal c. c. agli art. 320, 374 e 394 a proposito dei beni degli incapaci, non è applicabile nella stessa precisa portata al fine di determinare la sfera dei poteri attribuiti dalla legge agli amministratori delle società in genere e della società per azioni in particolare, i quali vanno stabiliti con riferimento agli atti che rientrano nell’oggetto sociale, pur se eccedono i limiti della c. d. ordinaria amministrazione, con la conseguenza che, salve le limitazioni previste nello statuto della società, devono ritenersi rientranti nella competenza degli amministratori tutti gli atti che ineriscono alla gestione della società, ed eccedenti i loro poteri (e quindi riservati all’assemblea) quelli di disposizione è di alienazione di beni strumentali o suscettibili di modificare la struttura della società.
Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1987, n. 2654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché per l’art. 250 c. c. il genitore che ha per primo riconosciuto il figlio naturale non può rifiutare il consen¬so al riconoscimento dell’altro genitore ove tale riconoscimento risponda all’interesse del figlio, a rendere non conveniente il riconoscimento stesso non è decisivo che il minore si sia inserito stabilmente nella famiglia del primo, dovendo tale elemento essere valutato unitamente ad altri, con riguardo principalmente agli effetti che il riconoscimento di entrambi i genitori può produrre in termine di educazione, istruzione e mantenimento del minore e tenuto, in ogni caso, presente che l’esigenza di evitare turbamenti o conflittualità psicologiche pregiudi¬zievoli all’armonioso sviluppo della personalità dello stesso deve prevalere sul fatto oggettivo della generazione.
Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185 (Giur. It., 1988, I,1, 1112)
Non è fondata, in riferimento agli art. 3, 1° e 2° comma, 24, 2° comma, e 30 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 1° comma (in relazione all’art. 6, 2° comma) l. 1° dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 708 c. p. c. (in relazione all’art. 155 c. c.), nella parte in cui, rispettivamente nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e nel giudizio di separazione per¬sonale dei coniugi, non prevedono la nomina di un curatore speciale che rappresenti in giudizio il minore figlio delle parti, in ordine alla pronuncia sull’affidamento e ad ogni altro provvedimento che lo riguardi; i giudizi in questione, infatti, non attengono né si riflettono sullo status dei figli, ed inoltre, essendo preordinati a scegliere la soluzione migliore per gli interessi del minore, gli interessi di quest’ultimo non rimangono senza tutela, ma sono garantiti da una serie non indifferente di misure.
Cass. civ., 4 dicembre 1985, n. 6063 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di separazione personale dei coniugi, l’affidamento dei figli minori è rimesso alla decisione del giudice e non è configurabile né un diritto dei genitori all’affidamento stesso né un diritto dei figli alla scelta del genitore (nella specie, la corte ha escluso, sulla scorta di detto principio, che i minori fossero titolari di un interesse ad agire in giudizio e conseguentemente la necessità della nomina di un curatore speciale al fine della loro costituzione nel processo quali litisconsorti necessari).
Cass. civ. Sez. Unite,16 ottobre 1985, n. 5073 (Foro It., 1985, I, 2550, nota di COSTANTINO)
Nel caso di conflitto di interessi tra genitori e figli, i poteri di rappresentanza del curatore speciale, nominato per il compimento di un atto sostanziale, pur nei limiti del provvedimento di nomina, si estendono ai giudizi che sorgono in relazione a quell’atto, avendo funzione e contenuto identici a quelli del genitore sostituito.
Cass. civ., 17 maggio 1985, n. 3020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto d’interessi tra rappresentante e rappresentato non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponde al vantaggio comune di entrambi, con la conseguenza che i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, siano tra loro compatibili.
Cass. civ., 18 febbraio 1985, n. 1357 (Giust. Civ., 1985, I, 2579)
Nel caso di conflitto di interessi tra genitori e figli, la rappresentanza del minore affidata al curatore speciale per il compimento di un atto si estende anche al giudizio sorto a seguito e in relazione a quell’atto (nella specie: la corte ha rigettato il ricorso avverso la decisione di merito che, sulla base del provvedimento di nomina del curatore speciale, nominato per il compimento di un atto, ne aveva ritenuto sussistente anche la rappresentanza processuale).
Nella controversia promossa nei confronti del curatore speciale del minore, nominato ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c. c., con riguardo a contratto che il primo abbia stipulato in nome e per conto del secondo, l’eventuale invalidità dell’autorizzazione richiesta per detta stipulazione (nella specie: sotto il profilo che competeva al tri¬bunale e non al giudice tutelare, trattandosi di negozio di straordinaria amministrazione) può essere fatta valere come ragione di annullabilità (relativa) dell’atto, ai sensi e nei limiti di cui agli art. 322 e 377 c. c., ma non incide sulla rappresentanza processuale del curatore medesimo, e, pertanto, non è invocabile come causa di nullità del giudizio.
Cass. civ., 15 maggio 1984, n. 2936 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’autorizzazione alla continuazione dell’impresa nell’interesse del minore richiesta dall’art. 320, comma 5, c.c., perché questi possa acquistare la qualità di imprenditore, attesa la funzione dell’intera disciplina contenuta nella norma anzidetta, diretta a garantire la conservazione ed un’oculata gestione dei beni costituenti il patrimonio del minore, presuppone che l’azienda cui si riferisce l’impresa da continuare faccia già parte del patrimonio dell’in¬capace, e quindi, ove si tratti di azienda devoluta al minore per successione ereditaria, che l’eredità sia stata accettata dal rappresentante legale con beneficio di inventario; sicché, ove il tribunale autorizzi la continuazione di un’impresa relativa ai beni aziendali che non sono di proprietà del minore perché fanno parte di una succes¬sione rispetto alla quale non è intervenuta l’accettazione beneficiata, il provvedimento autorizzativo, riguardando in sostanza non la mera continuazione di un’impresa preesistente ma l’esercizio di una nuova impresa, è invalido per effetto dell’accennato presupposto essenziale, e quindi, in sede di opposizione alla dichiarazione di fallimento del minore in cui si contesti che quest’ultimo abbia acquistato la qualità di imprenditore, deve essere disapplicata dal giudice la circostanza che il rappresentante legale del minore abbia svolto nel suo nome ed interessi atti di gestione dell’impresa in pendenza di procedura di accettazione dell’eredità, perché il chiamato, o il suo rappre¬sentante legale, può compiere soltanto atti con finalità puramente conservative del patrimonio ereditario previa autorizzazione del giudice tutelare: atti che, quindi, non possono anticipare l’effetto di fare acquistare al minore la qualità di imprenditore, giuridicamente possibile solo quando la fattispecie da cui dipende sia perfezionata.
Cass. civ., 15 settembre 1983, n. 5582 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza processuale, il conflitto d’interessi tra il figlio minore ed il genitore che su di lui eser¬cita la potestà, tale da rendere necessaria la nomina di un curatore speciale, si ricollega alla titolarità, in capo al genitore, di una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia in contrasto con l’interesse del minore e, pertanto, presuppone che il genitore sia interessato ad un esito della lite diverso da quello che avvantaggi il rappresentato; un conflitto di tale natura, che è rilevante anche quando sia soltanto potenziale, non è configurabile in relazione al genitore che (nella qualità) avendo promosso il giudizio per il risarcimento del danno subito dal figlio resista, in appello, all’impugnazione del terzo ritenuto responsabile, ancorché il giudice di primo grado abbia affermato un concorso di colpa di esso genitore.
Cass. civ., 9 giugno 1983, n. 3977 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare perché il genitore possa agire in giudizio per ottenere il ristoro dei danni subiti dal figlio minore.
Cass. civ., 10 agosto 1982, n. 4491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di conflitto di interessi fra un minore ed il genitore esercente la potestà, insorto in relazione ad un giu¬dizio pendente, la nomina del curatore speciale del minore compete, a norma dell’art. 320 ultimo comma c. c., unicamente al giudice tutelare, in quanto la norma di cui all’art. 78 ultimo comma c. p. c. ha carattere sussidiario e non è quindi applicabile al conflitto di interessi fra il genitore ed il minore, che è espressamente contemplato dal cit. art. 320; pertanto, la nomina del curatore speciale da parte del presidente dell’ufficio giudiziario dinanzi a cui pende la causa, invece che da parte del giudice tutelare, comporta un vizio del procedimento che determina la nullità della sentenza, la quale può essere dedotta da qualsiasi parte, attenendo alla regolarità del contraddit¬torio sulla quale il giudice deve, a norma dell’art. 182 c. p. c., indagare anche d’ufficio.
Cass. civ., 30 gennaio 1982, n. 599 (Giust. Civ., 1982, I, 2147)
L’azione diretta a fare rientrare nella disponibilità del minore un cespite immobiliare locato a terzi non è soggetta alla preventiva autorizzazione del giudice tutelare.
Cass. civ., 16 dicembre 1981, n. 6660 (Giust. Civ., 1982, I, 626)
Nel giudizio diretto ad ottenere, in caso di rifiuto del consenso da parte del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, al riconoscimento ad opera dell’altro genitore, una sentenza che tenga luogo del consenso mancante, sono parti necessarie il genitore che si oppone ed il p. m., ma non anche il minore infrasedicenne del cui riconoscimento si tratta e che deve essere solamente sentito.
Nel procedimento previsto dall’art. 250 4° comma c. c., in tema di riconoscimento del figlio minore, per con¬seguire dal tribunale una pronuncia che tenga luogo del mancato consenso al riconoscimento stesso da parte del genitore che abbia già riconosciuto il minore, quest’ultimo non assume la qualità di parte, ma deve essere soltanto sentito per ragioni istruttorie, sempreché ciò sia necessario e possibile, anche in relazione alla sua età; in tale procedimento, pertanto, non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore.
Cass. civ., 26 ottobre 1981, n. 5591(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto d’interessi tra padre e figlio minore che legittima la nomina di un curatore speciale sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto, nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concili con quello del rappresentato; pertan¬to, il conflitto in questione non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponda al vantaggio comune di entrambi, per cui i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, siano tra loro concorrenti e compatibili; (nella specie: in cui il genitore resisteva in giudizio nell’interesse proprio di erede e nell’interesse dei figli minori, legatari, il supremo collegio, enunciando il surriportato principio, ha ritenuto correttamente escluso dai giudici del merito il conflitto di interessi tra il primo ed i secondi).
Cass. civ., 19 gennaio 1981, n. 439 (Dir. Famiglia, 1981, 471)
Competente per la nomina del curatore speciale per l’accettazione della donazione fatta da uno o entrambi i genitori ai figli minori è il giudice tutelare (nella specie: la donazione era stata fatta da entrambi i genitori).
Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294 (Foro It., 1981, I, 1325)
Il ricorso per cassazione, proposto dal genitore in un giudizio relativo al risarcimento del danno subìto dal patri¬monio del minore, non costituisce atto eccedente l’ordinaria amministrazione.
Cass. civ., 15 dicembre 1980, n. 6503 (Giur. It., 1981, I,1, 1453)
L’azione di risarcimento del danno subìto da un minore rientra negli atti di ordinaria amministrazione che non richiedono l’autorizzazione del giudice tutelare.

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 9, (nel testo sostituito della L. n. 74 del 1987, art. 8), sollevata in riferimento agli artt. 2,3 29 e 111 Cost.

Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 marzo 2018, n. 6145
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2490/2017 proposto da:
G.I., elettivamente domiciliato in ROMA piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato IACOPO TOZZI;
– ricorrente –
contro
F.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A. DEPETRIS n.86, presso lo studio dell’avvocato PIETRO CAVASOLA, che lo rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente agli avvocati ENRICO FERRARI BRAVO, e UBERTA CACCIA;
– controricorrente –
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 18/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
G.I. ha proposto ricorso per cassazione – affidato a due motivi, illustrati con memoria – nei confronti della sentenza n. 1873/2016, emessa dalla Corte d’appello di Firenze, depositata il 16 novembre 2016, con la quale è stato respinto l’appello della G. avverso la sentenza non definitiva n. 4335/2015 del Tribunale di Firenze, che aveva accolto la domanda proposta da F.F. di separazione personale dalla di lui moglie;
il F. ha resistito con controricorso;
Considerato che:
va osservato, in via pregiudiziale, che l’eccezione processuale proposta dalla ricorrente nella memoria – secondo cui il presente giudizio, in quanto avente ad oggetto una controversia in materia matrimoniale, nella quale è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero, dovrebbe essere trattato in pubblica udienza, non essendo prevista, dinanzi alla sezione di cui all’art. 376 c.p.c., la possibilità per il P.M. di depositare conclusioni scritte – è infondata e va rigettata;
in tema di nuovo rito camerale di legittimità “non partecipato”, il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dall’art. 6 CEDU ed avente rilievo costituzionale, non riveste, invero, carattere assoluto e può essere derogato in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (Corte cost., sent. n. 80 del 2011), da ravvisarsi in relazione alla conformazione complessiva di tale procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non rivestenti peculiare complessità (Cass., 02/03/2017, n. 5371);
l’intervento del pubblico ministero nelle cause dinanzi alla Corte di cassazione è necessario, dopo le modifiche apportate all’art. 70 c.p.c., comma 2, dal D.L. n. 69 del 2013, conv. in L. n. 98 del 2013, solo nei casi previsti dalla legge (Cass., 05/09/2016, n. 17613), tra i quali non rientra l’adunanza camerale in questione;
Rilevato che:
con i due motivi di ricorso, la G. si duole del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto ammissibile la domanda di sentenza parziale di separazione dei coniugi ex art. 151 c.p.c., comma 1, sebbene il F. avesse proposto domanda di separazione con addebito, ai sensi del capoverso della stessa norma, ed ancorché la G. si fosse opposta alla richiesta di separazione;
la Corte territoriale, ad avviso della istante, avrebbe – invero – fondato la decisione su di una causa petendi (il primo comma dell’art. 151 c.c.) non dedotta dal F., che aveva fondato la richiesta di separazione esclusivamente sulla denunciata violazione dei doveri derivanti dal matrimonio da parte della moglie;
in ogni caso, a parere della istante, gli artt. 151, secondo comma e 156, primo comma, cod. civ. sarebbero costituzionalmente illegittimi poiché in contrasto, con gli artt. 3, 29 e 111 Cost. nonché 21 CEDU, in quanto – in relazione all’art. 709 bis cod. proc. civ. – consentirebbero al coniuge patrimonialmente più forte di richiedere una sentenza parziale sulla separazione, per poi proseguire il giudizio per la pronuncia sulla domanda di addebito;
Ritenuto che:
la disposizione di cui all’art. 709 bis c.p.c., come definitivamente modificata dalla L. 25 dicembre 2005, n. 263, art. 1, comma 4, sancisca in maniera esplicita, in materia di pronuncia immediata sullo “status”, la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, volendo evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio “status” (Cass., 22 giugno 2012, n. 10484; Cass., 311/08/2017, n. 20666);
come affermato sin dal 1992 (Cass., 10 giugno 1992, n. 7148) e ribadito anche di recente (Cass., 29 aprile 2015, n. 8713), la situazione di intollerabilità della convivenza possa dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, e che, pertanto, il Tribunale sia tenuto a pronunciare la sentenza non definitiva di separazione (scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio) quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, facendo ad essa seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni;
tale pronuncia non definitiva costituisca uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio; pertanto, debba reputarsi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 9, (nel testo sostituito della L. n. 74 del 1987, art. 8), sollevata in riferimento agli artt. 2,3 29 e 111 Cost. (Cass. 20666/2017);
siffatti principi, siano applicabili – per le ragioni suindicate – anche alla separazione personale dei coniugi;
Ritenuto che:
alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente, in favore della controricorrente, alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.100,00, di cui Euro 100, per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2018

Il coniuge che rifiuta immotivatamente un lavoro non ha diritto all’assegno di mantenimento

Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 marzo 2018, n. 5817
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 717/2016 proposto da:
B.Y.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL CARAVAGGIO 6, presso lo studio dell’avvocato GERARDO TUORTO, rappresentata e difesa dall’avvocato DANIELE CARDENIA;
– ricorrente –
contro
D.C.R.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLE IRIS 18, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO DE GIOVANNI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5837/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 15/05/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI.
Svolgimento del processo
che:
B.Y.M. propone ricorso per cassazione, in due motivi, avverso la sentenza con la quale la corte d’appello di Roma, in controversia relativa alla separazione personale tra la predetta B. e il marito D.C.R., ha rigettato la doglianza relativa alla revoca dell’assegno di mantenimento; l’intimato si è difeso con controricorso;
le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

che:
la corte del merito ha disatteso il gravame; affermando (1) che la B. aveva ammesso di aver rifiutato varie proposte di lavoro, di cui aveva peraltro allegato la strumentalità, per non essere stati i colloqui finalizzati a vere assunzioni; (2) che le deduzioni riguardo alla detta strumentalità delle proposte erano rimaste del tutto sfornite di riscontro;
il primo motivo, col quale la ricorrente denunzia la nullità della sentenza e del procedimento, in relazione all’art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia su un motivo di gravame, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., comma 6, artt. 115 e 116 c.p.c. per inidoneità dei documenti a fondare il giudizio espresso, è inammissibile giacché: (a) dal ricorso non è minimamente spiegato, in prospettiva di autosufficienza, quale sarebbe stato il motivo oggetto di omissione di pronunzia una volta che dalla sentenza risulta che solo la questione sopra detta, della revoca dell’assegno di mantenimento, era stata consegnata al gravame; (b) la doglianza relativa alla presunta inidoneità dei documenti si risolve in un sindacato di fatto circa l’esito della valutazione probatoria;
il secondo motivo, col quale la ricorrente nuovamente denunzia la nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia su motivo di gravame, e la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c., è in parte inammissibile e in parte manifestamente infondato: il motivo è inammissibile nel riferimento alla violazione dell’art. 112 c.p.c., per difetto di autosufficienza, non essendo riportati gli asseriti ulteriori motivi di gravame che si dice non considerati dalla corte d’appello; ed è manifestamente infondato in relazione all’art. 156 c.c., perché, in tema di separazione personale dei coniugi, l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini delle statuizioni afferenti l’assegno di mantenimento; tale attitudine del coniuge al lavoro assume in tal caso rilievo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale, e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche (cfr. per tutte Cass. 18547-06; n. 3502-13);
l’impugnata sentenza ha escluso il diritto al mantenimento sul rilievo di essere stata la ricorrente ben in grado di procurarsi redditi adeguati, stante la pacifica esistenza di proposte di lavoro, le quali proposte immotivatamente non erano state accettate;
si tratta di una valutazione in punto di fatto, non censurata sul versante della motivazione e non in contrasto con l’insegnamento di questa Corte;
il ricorso va quindi definito con pronuncia di manifesta infondatezza;
le spese seguono la soccombenza;
peraltro la ricorrente risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente prenotazione a debito del contributo unificato (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 131, comma 2); per tale ragione non opera l’art. 13, comma 1-quater, stesso D.P.R..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 4.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario di spese generali nella percentuale di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, su relazione del Cons. Dott. Terrusi (est.), il 15 maggio 2017.
Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018

Perde l’assegno di mantenimento il figlio che diventa avvocato

Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 marzo 2018, n. 5088
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2266-2017 proposto da:
R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato RENATO MACRO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI FRANZESE;
– ricorrente – contro
S.A.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TOSCANA 30, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO CARAVETTA, rappresentata e difesa dall’avvocato BENEDETTO RONCHI;
– controricorrente –
avverso il decreto n. R.G. 153/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositato l’08/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/12/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con decreto del 19/10/2016 la Corte d’appello di Bari ha rigettato il reclamo proposto ai sensi dell’art. 739 c.p.c. da R.F. avverso il provvedimento con cui il Tribunale di Trani aveva rigettato il ricorso L. n. 300 del 1970, ex art. 9, volto ad ottenere la revoca o, in subordine, la riduzione dell’assegno di mantenimento versato al figlio maggiorenne R.D..
A sostegno della decisione la Corte territoriale ha affermato:
il Tribunale non ha ignorato il fatto nuovo (rispetto a quanto dedotto nel precedente procedimento) costituito dal superamento, da parte di D., dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense e dell’iscrizione all’Albo degli avvocati, ma ha ritenuto tale circostanza non sufficiente, da sola, a provare l’acquisita autonomia economica del figlio medesimo;
– non è stata fornita la prova da parte del reclamante della sussistenza di uno dei presupposti legittimanti la cessazione dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, perché l’iscrizione all’albo degli avvocati non dimostra la titolarità di un reddito né tale elemento può essere presuntivamente dedotto dal fatto che D. lavori presso lo studio legale del fratello;
– le richieste di informative sui rapporti bancari intrattenuti da D. sono state correttamente rigettate dal Tribunale, perché si tratta di indagine meramente esplorativa, in difetto di prova sia della titolarità del conto sia della riconducibilità di eventuali crediti allo svolgimento dell’attività forense.
Avverso questa pronuncia propone ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. R.F., sulla base di tre motivi, cui resiste con controricorso S.A.R..
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Con il primo motivo viene denunciata la violazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, della L. n. 300 del 1970, art. 9 perché la Corte d’appello, confermando la decisione di primo grado, ha anch’essa omesso di considerare il fatto nuovo costituito dall’avvenuto superamento da parte del figlio D. dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense e l’iscrizione all’albo degli avvocati.
Con il secondo motivo viene denunciata la violazione degli artt. 147, 148, 315bis, 316bis, 155quinquies (poi 337 septies), ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perché la Corte d’appello, in ordine alla sussistenza dei presupposti legittimanti la cessazione dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, non ha considerato che egli lavora presso lo studio del fratello e percepisce costantemente compensi per la professione svolta. La richiesta di informativa sui conti correnti e i depositi bancari di R.D. è stata illegittimamente disattesa dalla Corte d’appello perché ritenuta esplorativa, nonostante l’appellante abbia prodotto documentazione da cui si evince che il figlio intrattiene effettivamente rapporti di conto corrente con gli Istituti indicati. Peraltro la persistenza dei presupposti giustificanti l’obbligo genitoriale di mantenimento dovrebbe essere contemperata con criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all’età dei figli beneficiari.
Con il terzo e ultimo motivo è denunciata la violazione dell’art. 92 c.p.c. e art. 96 c.p.c., comma 3, perché la Corte territoriale ha confermato la statuizione del Tribunale in ordine alle spese processuali nonostante la soccombenza reciproca e ha altresì condannato l’appellante per responsabilità aggravata.
I primi due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto connessi, sono fondati.
Il provvedimento impugnato non è conforme al più recente orientamento di questa Corte (in particolare Cass. n. 12952 del 22/06/2016) circa l’accertamento dei presupposti dell’obbligo genitoriale di mantenimento del figlio maggiorenne cui il Collegio ritiene di aderire. Vero è che, per costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità, l’obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli, a norma degli artt. 147 e 148 c.c., non cessa ipso facto con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, in linea di principio, finché essi non abbiano raggiunto una propria indipendenza economica (Cass. 7168/2016); il genitore, qualora domandi la modifica o la declaratoria di cessazione dell’obbligo di mantenimento, è tenuto a dimostrare tale circostanza, oppure che il mancato svolgimento di un’attività produttiva di reddito dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato. Tuttavia, l’onere della prova ben può essere assolto mediante l’allegazione di circostanze di fatto da cui desumere in via presuntiva l’estinzione dell’obbligazione dedotta, tenendo presente che l’avanzare dell’età è un elemento che necessariamente concorre a conformare l’onus probandi, giacché “con il raggiungimento di un’età nella quale il percorso formativo e di studi, nella normalità dei casi, è ampiamente concluso e la persona è da tempo inserita nella società, la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico reddituale, in mancanza di ragioni individuali specifiche (di salute, o dovute ad altre peculiari contingenze personali, o oggettive quali le difficoltà di reperimento o di conservazione di un’occupazione) costituisce un indicatore forte d’inerzia colpevole” (Cass. 12952/2016). Invero, il diritto del figlio si giustifica all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, tenendo conto delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, posto che la funzione educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società.
Nella specie la Corte d’appello ha omesso di considerare, alla luce dei principi appena richiamati, gli elementi presuntivi offerti dal ricorrente circa l’avvenuta iscrizione all’Albo degli avvocati del figlio, nato nel (OMISSIS), e la circostanza che egli abbia continuato a frequentare lo Studio legale del fratello anche dopo aver conseguito il titolo. Ha inoltre rigettato le specifiche istanze istruttorie volte a dimostrare la percezione di un reddito da lavoro ed ad avere un peculio idoneo a garantire l’autosufficienza economica. Giova premettere, in risposta a quanto dedotto dalla controricorrente nella propria memoria, che il vizio di motivazione per omessa ammissione di una prova può essere denunciato per cassazione quando – come nel caso di specie – abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (da ultimo, Cass. 1570/2018).
Nella specie la Corte d’appello ha rigettato le richieste di informative circa i rapporti bancari di R.D. con motivazione apparente e formulata in termini di mera adesione a quanto statuito dal giudice di primo grado, non consentendo alla parte di essere ammessa a fornire la prova presuntiva del raggiungimento dell’autosufficienza economica del figlio maggiorenne.
Infatti, secondo il principio di diritto espresso da questa Corte nella succitata pronuncia, “La cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa ed, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta dal raggiungimento della maggiore età da parte dell’avente diritto”.
Priva di pregio l’eccezione, formulata dalla controricorrente in memoria, di inammissibilità del ricorso per intervenuta acquiescenza tacita (ex art. 329 c.p.c.) al decreto impugnato, come sarebbe desumibile dal fatto l’odierno ricorrente, nelle more del presente giudizio di legittimità, ha instaurato un nuovo identico processo riguardante le medesime parti, il medesimo oggetto e la medesima domanda. Invero, gli atti che implicano una tacita acquiescenza alla sentenza sono esclusivamente quelli che possono essere spiegati solo supponendo il proposito della parte di non contrastare gli effetti giuridici della decisione, così rivelando, oggettivamente, in modo inequivoco, una corrispondente volontà della parte che li ha posti in essere (Cass. n. 21491 del 10/10/2014). Tale non può essere evidentemente considerato il comportamento della parte che abbia instaurato un nuovo procedimento, permanendo ciononostante l’interesse all’esito del presente giudizio.
L’accoglimento dei primi due mezzi di ricorso comporta l’assorbimento del terzo, con cui si denuncia la violazione degli artt. 92 e 96 c.p.c., atteso che le spese del giudizio di merito andranno riliquidate all’esito del giudizio di rinvio.
Conclusivamente, i primi due motivi devono essere accolti, con assorbimento del terzo; il decreto impugnato deve essere cassato con rinvio alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, che provvederà anche alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso e dichiara assorbito il terzo; cassa il decreto impugnato con rinvio alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2018

Salva prova contraria, il prelevamento sul conto corrente cointestato con il de cujus non costituisce accettazione tacita dell’eredità

Cass. civ. Sez. II, 22 febbraio 2018, n. 4320
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28518/2014 proposto da:
ELIPSO FINANCE S.r.l., e, per essa, quale mandataria FBS S.p.A., in persona della sua procuratrice speciale Avv. Mirka Stretti, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA BUFALOTTA 174, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA BARLETTELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CINZIA MARIA BERNINI ASTI;
– ricorrente –
contro
F.M.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1874/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 21/05/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/11/2017 dal Consigliere RAFFAELE SABATO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. La Elipso Finance s.r.l., a mezzo della procuratrice speciale Prelios Credit Servicing s.p.a., ha convenuto in giudizio F.M., chiedendo con citazione del 16/12/2011 dichiararsi l’intervenuta accettazione tacita dell’eredità del coniuge deceduto P.P., al fine di veder tutelati i propri diritti nell’ambito di procedura esecutiva immobiliare. La convenuta ha resistito alla domanda, chiedendone il rigetto.
2. Il tribunale di Varese ha rigettato la domanda con sentenza depositata il 4/7/2013.
3. Sul gravame proposto dalla Elipso Finance s.r.l., la corte d’appello di Milano con sentenza depositata il 21/5/2014 ha confermato la pronuncia di primo grado.
4. Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso la Elipso Finance s.r.l. sulla base di tre motivi; F.M., ritualmente intimata, non ha svolto attività difensiva.
Considerato che:
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, per non avere la corte d’appello considerato che la signora F., effettuando prelievi sul conto corrente cointestato con il de cuius fino a farne calare il saldo a debito, salvo successivo riporto a zero, sia pure al fine di estinguere le rate del finanziamento fondiario concesso ad entrambi i coniugi, aveva di fatto attinto anche dalla quota di spettanza di quest’ultimo.
1.1. Il motivo è inammissibile. Esso, sotto la veste di critiche per omesso esame, sostanzia in effetti un’istanza di riesame delle risultanze probatorie poste dalla corte territoriale alla base del convincimento che “essendo il conto cointestato l’appellata poteva legittimamente operare sullo stesso, senza che fosse possibile estrapolare da tale dato alcun atto attestante in maniera inconfutabile l’acquisizione della qualità di erede” (p. 4 della sentenza), attività questa di valutazione delle prove riservata al giudice del merito.
1.2. Al riguardo, va richiamato che il vizio di omesso esame, essendo stata la sentenza impugnata depositata successivamente all’11/9/2012, è declinato nel presente procedimento ratione temporis secondo il testodell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, successivo alla modifica di cui alD.L. n. 83 del 2012, convertito inL. n. 134 del 2012. L’avvenuta limitazione al minimo costituzionale dell’ “omesso esame” di fatti storici del controllo sulla motivazione non consente più mere critiche alla motivazione, in assenza di indicazione di effettivi “fatti storici” del tutto trascurati.
1.3. Nel caso di specie, il presunto fatto storico negletto sarebbe da individuarsi nell’attingimento, mediante prelievo, anche “della restante quota del 50% di proprietà” del de cuius del saldo del conto all’apertura della successione. Non è chi non veda, al riguardo, come, anzitutto, la questione delle “proprietà” delle somme in essere sul conto sia una valutazione giuridica, piuttosto che un fatto storico.
1.4. In secondo luogo, poi, va considerato che la corte d’appello (v. pp. 3 e 4 della sentenza) ha ampiamente ricostruito, anche mediante richiamo della sentenza di primo grado, i comportamenti e le operazioni sul conto, così mostrando che i fatti storici sottostanti alla predetta valutazione giuridica sono stati tutti avuti presenti. Anche nell’ipotesi – invero indimostrata – in cui sussistesse un qualche elemento istruttorio, peraltro non specificato nel ricorso, indicativo della “proprietà” del de cuius della quota del 50% del saldo del conto cointestato (valutazione questa che la parte ricorrente dà per scontata, ma che non lo è – cfr. in prosieguo), andrebbe comunque applicata la regola per cui l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa (nel caso di specie, i prelevamenti), sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. sez. U, n. 8053 del 07/04/2014).
1.5. Solo per completezza, dunque, può richiamarsi che, da un lato, è vero che, in tema di successioni per causa di morte, un pagamento del debito del de cuius ad opera del chiamato all’eredità, a differenza di un mero adempimento dallo stesso eseguito con denaro proprio, configura un’accettazione tacita, non potendosi estinguere un debito ereditario se non da colui che agisce quale erede; a tal fine, è quindi necessario che sia fornita la prova che il pagamento sia stato effettuato con danaro prelevato dall’asse ereditario, mentre nel caso in cui il chiamato adempia al debito ereditario con denaro proprio, quest’ultimo non può ritenersi per ciò stesso che abbia accettato l’eredità (Cass. 27/01/2014, n. 1634; ciò in quanto la norma che legittima qualsiasi terzo all’adempimento del debito altrui -art. 1180 c.c.- esclude che si tratti di un atto che il chiamato “non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede” -art. 476 c.c.-). D’altro lato, però, è anche vero che nel conto corrente bancario intestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, anche aventi facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, sono regolati nondall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensìdall’art. 1298 c.c., comma 2, in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; ne consegue che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo (cfr. Cass. n. 26991 del 02/12/2013 e n. 4066 del 19/02/2009). A fronte di tale dato, il mero probabile richiamo (implicito) della parte ricorrente alla spettanza al de cuius della metà del saldo in base alla presunzionedell’art. 1298 c.c., non è idoneo a far emergere che il prelievo totale abbia rappresentato un atto che il chiamato “non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede” (art. 476 c.c.), non risultando in alcun modo che si sia discusso in causa chi abbia effettuato i versamenti che hanno condotto al saldo, al netto dei prelevamenti, nell’ambito di un’azione di accertamento della qualità di erede in cui l’onere probatorio dell’accettazione è a carico di chi agisce in giudizio contro il chiamato (Cass. n. 10525 del 30/04/2010); per cui rettamente la corte d’appello ha ritenuto che i prelevamenti anche dell’intera giacenza non potessero ritenersi effettuati “se non nella qualità di erede”, potendo effettuarsi anche quale mero cointestatario, titolare di poteri disgiunti verso la banca del tutto avulsi rispetto al contesto dell’apertura della successione. In tal senso, questa corte ha affermato (ovviamente nel diverso contesto di applicabilitàdell’art. 1854 c.c.- Cass. n. 5071 del 28/02/2017) che il contratto di conto corrente bancario svolge, a differenza di quello ordinario, una semplice funzione di servizio di cassa per il correntista, sicché, in caso di cointestazione del conto, non rileva chi dei titolari sia beneficiario dell’accredito o chi abbia utilizzato la somma accreditata (rilevante nei rapporti interni tra i correntisti). Pertanto, quando una certa somma sia affluita sul conto, la stessa rientra nella disponibilità di tutti i correntisti, i quali, exart. 1854 c.c., ne divengono condebitori, restando irrilevante che taluno dei cointestatari non abbia in concreto compiuto operazioni sul conto, atteso che è sufficiente, ai fini della norma suddetta, che avesse titolo per compierle.
1.6. Tanto esime da ogni considerazione della circostanza circa la scaturigine dei prelevamenti in conto (ordine permanente di addebito in conto preesistente e non revocato), che pure avrebbe rappresentato un importante elemento argomentativo, al fine di farne derivare l’ammissibilità, per pertinenza rispetto alla ratio decidendi, del primo mezzo di ricorso. Quanto sopra considerato per completezza, dunque, conferma l’inammissibilità del motivo, comunque non tale – anche se per ipotesi sussistesse un fatto storico di cui fosse stato omesso l’esame nei sensi di cui innanzi – da attingere l’impianto del decisum.
2. Il secondo motivo di ricorso – con il quale si deduce la violazione o la falsa applicazionedell’art. 476 c.c., per non avere la corte d’appello considerato che la signora F., successivamente al decesso del coniuge, aveva mantenuto in essere l’addebito mensile diretto in conto corrente a titolo di pagamento del mutuo ipotecario, laddove, al fine di evitare l’uso delle somme depositate con riferimento alla quota di spettanza del marito, avrebbe potuto revocare l’ordine di prelievo automatico – è anch’esso inammissibile, in quanto il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge exart. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., n. 26307 del 15/12/2014); al contrario, se, come nel caso di specie, l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass., n. 8315 del 4/4/2013).
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione o la falsa applicazione degliartt. 752, 754, 1292 e 1294 c.c., per non avere la corte d’appello considerato che con la morte del debitore in solido non cessa il vincolo di solidarietà, ma si determina un frazionamento pro quota dell’originario debito del de cuius fra gli aventi causa, nel senso che ciascun erede rimane obbligato solidalmente con i debitori originari fino a concorrenza della propria quota ereditaria.
3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto non coglie la ratio della decisione impugnata. Con essa si è infatti sottolineato come la signora F. fosse condebitrice solidale unitamente al marito poi defunto ai fini del mutuo. Pertanto, in piena linea con il principio di diritto di cui innanzi, la corte d’appello ha affermato essere la signora F. una debitrice originaria, non già uno degli eredi dell’altro condebitore (tra i quali si verifica il frazionamento exartt. 752 e 754 c.c.), quale invece viene qualificata dalla ricorrente (e quale sarebbe divenuta, in aggiunta alla veste originaria, solo con l’accettazione).
4. Il ricorso va dunque rigettato, non dovendo provvedersi sulle spese per non essersi costituita l’intimata. Trattandosi di ricorso notificato dopo il 30/01/2013, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, va dato atto del sussistere dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis cit..
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto del sussistere dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis cit..
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 30 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2018

Condominio – Accessione – Costruzione su suolo comune da parte di comproprietario – Acquisto per accessione dei comproprietari non costruttori – Sussistenza – Condizioni

Cassazione Sez. Un. Civili, 16 Febbraio 2018, n. 3873. Est. Lombardo.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
omissis
Svolgimento del processo
1. – P.F. convenne, dinanzi al Tribunale di Belluno (Sezione distaccata di Pieve di Cadore), la società Cà D’Oro 3 s.r.l. Premettendo di essere comproprietario pro indiviso, con la società convenuta, di un terreno sito in (*), adiacente al fabbricato condominiale delle parti, chiese lo scioglimento della comunione delle unità immobiliari edificate dalla società Cà D’Oro sul suolo comune (costituite da un corpo edilizio interrato composto da due piani sovrapposti e da altra costruzione a livello seminterrato adibita ad autorimessa e cantina), con conseguente attribuzione delle quote di spettanza di ciascuno e con determinazione degli eventuali conguagli.
La società convenuta, costituendosi e resistendo alle domande attoree, chiese dichiararsi non luogo a provvedere sulla divisione dei locali seminterrati comuni destinati ad autorimessa, cantina ed accessori, stante l’intervenuto accordo fra le parti in ordine all’attribuzione dei beni; chiese, invece, l’attribuzione in proprietà esclusiva del corpo edilizio interrato, sul presupposto che lo stesso fosse di sua proprietà esclusiva; in subordine, nell’ipotesi di accoglimento anche parziale della domanda attorea, chiese la condanna del P. a corrispondere ad essa convenuta un indennizzo per l’indebito arricchimento.
L’adito Tribunale, con sentenza dell’8 aprile 2011, dichiarò che la società Cà D’Oro 3 s.r.l. era esclusiva proprietaria del corpo di fabbrica interrato edificato nel terreno comune; dichiarò che il P. e la Cà D’Oro erano proprietari esclusivi dei locali al piano seminterrato meglio descritti nella relazione del C.T.U., salva la comunione sull’area di manovra.
2. – Sul gravame proposto dal P., la Corte di Appello di Venezia ha confermato la pronuncia di primo grado.
Nel rilevare la carenza dei presupposti per poter ritenere “cosa comune” il corpo di fabbrica interrato edificato dalla società convenuta (che costituisce l’immobile cui attiene la questione di diritto sottoposta a questa Corte), i giudici di appello hanno osservato che tale corpo di fabbrica: (a) risulta essenzialmente incorporato alla proprietà esclusiva della convenuta società Cà D’Oro (che vi accede per mezzo di una scala interna dall’unità abitativa di sua proprietà, situata al piano terra dell’edificio condominiale) ed è stato realizzato su progetto e con lavori eseguiti dallo stesso attore P. (socio e legale rappresentante dell’omonima impresa edile), ma pagati esclusivamente dalla Cà D’Oro sul presupposto che esso sarebbe stato di proprietà esclusiva di quest’ultima e non di proprietà comune; (b) non è incorporato nè è funzionalmente legato alla proprietà del P.; (c) è privo di caratteristiche (quali un muro maestro o un tetto) tali da indurre a ritenerlo essenziale all’esistenza dei beni comuni; (d) infine, è stato progettato e realizzato in funzione esclusiva delle preesistenti unità immobiliari di proprietà della società Cà D’Oro.
Rilevando che, nella specie, vi sarebbe stato un valido accordo assunto ed osservato dalle parti, provato documentalmente, la Corte di Appello di Venezia, nell’escludere la comproprietà di quanto realizzato nel sottosuolo, ha richiamato il principio di diritto secondo cui alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari sul suolo comune non si applica la disciplina sull’accessione contenuta nell’art. 934 cod. civ., ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la nuova costruzione diviene di proprietà comune ai condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità a detta disciplina, ossia nel rispetto delle norme che disciplinano l’uso della cosa comune; altrimenti essa, quando sia stata abusivamente realizzata, non diviene comune neppure per accessione.
3. – Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso P.F. sulla base di dodici motivi.
Ha resistito con controricorso la società Cà D’Oro.
4. – All’esito dell’udienza pubblica del 21 marzo 2017, la Seconda sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 9316 dell’U aprile 2017, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto diacronico nella giurisprudenza di legittimità sulla questione di diritto, sottostante al secondo motivo di ricorso, vertente sulla proprietà della costruzione realizzata da uno dei comproprietari sul suolo comune.
In particolare, l’ordinanza interlocutoria ha sottolineato come, sulla questione, esistano due contrapposti orientamenti nella giurisprudenza della Corte:
– un primo orientamento, più tralatizio, secondo cui, per il principio dell’accessione (art. 934 cod. civ.), la costruzione su suolo comune è anch’essa comune, mano a mano che si innalza, salvo contrario accordo scritto ad substantiam (art. 1350 cod. civ.); pertanto, per l’attribuzione in proprietà esclusiva, ai contitolari dell’area comune, dei singoli piani che compongono la costruzione, sono inidonei sia il corrispondente possesso esclusivo del piano, sia il relativo accordo verbale, sia il proporzionale diverso contributo alle spese (Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 1, 12/05/1973, n. 1297; Cass., Sez. 2, 11/07/1978, n. 3479; Cass., Sez. 2, 10/11/1980, n. 6034);
– un secondo e più recente orientamento – fatto proprio dai giudici di merito – secondo cui, invece, la disciplina sull’accessione, contenuta nell’art. 934 cod. civ., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui, mentre alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non si applica tale disciplina, ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia realizzata in conformità a detta disciplina, ossia con il rispetto delle norme che dettano i limiti che ciascun comproprietario deve osservare nell’uso della cosa comune, mentre le opere abusivamente realizzate non possono considerarsi beni condominiali per accessione, ma vanno considerate appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica (Cass., Sez. 2, 22/03/2001, n. 4120; Cass., Sez. 2, 27/03/2007, n. 7523).
La Seconda Sezione ha evidenziato la necessità di rimeditare il più recente orientamento, per la perplessità che desta la conclusione secondo cui l’edificazione sull’area comune da parte di uno solo dei comunisti, in violazione degli artt. 1102 e segg. cod. civ., determini l’assegnazione della proprietà esclusiva dell’opera e del suolo in favore del comproprietario costruttore, effetto giuridico – questo difficilmente inquadrabile in uno dei modi di acquisto stabiliti dall’art. 922 cod. civ.; e prospetta l’esigenza di tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina dell’accessione e quella della comunione, facendo convivere l’espansione oggettiva della comproprietà in caso di inaedificatio ad opera di uno dei comunisti (salvo che non sia stato costituito, nei modi e nelle forme di legge, altro diritto reale a favore del comproprietario costruttore) con la facoltà del comproprietario non costruttore di pretendere la demolizione della costruzione ove quest’ultima sia stata realizzata dall’altro comunista in violazione dei limiti posti dall’art. 1102 cod. civ. al godimento della cosa comune.
5. – Il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ., comma 2, che sulla questione la Corte pronunci a Sezioni Unite.
6. – Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4), la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte di Appello erroneamente escluso che la sentenza di primo grado, nel dichiarare che la società convenuta aveva acquistato a titolo originario la proprietà esclusiva del corpo di fabbrica interrato, fosse incorsa in nullità per extrapetizione. Secondo il ricorrente, la società Cà D’Oro non avrebbe proposto alcuna domanda di accertamento dell’acquisto a titolo originario del corpo di fabbrica per cui è causa, avendo invece posto a fondamento della sua domanda di assegnazione del fabbricato in proprietà esclusiva la circostanza dell’assunzione per intero delle spese di costruzione con l’asserito consenso del P.. Tale fatto, secondo il ricorrente, non potrebbe qualificarsi come “costitutivo” di un acquisto a titolo originario, ma (a tutto concedere) di un acquisto a titolo derivativo.
Unitamente a tale mezzo va esaminato, per la sua stretta connessione, il quinto motivo di ricorso, col quale si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4) la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto che la domanda riconvenzionale della società Cà D’Oro, relativa all’accertamento della proprietà esclusiva del fabbricato, fosse autodeterminata e per avere altresì ritenuto che la Cà D’Oro avesse fatto valere un titolo di acquisto della proprietà a titolo originario, piuttosto che un titolo di acquisto a titolo derivativo.
Le censure non sono fondate.
Va premesso, che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, alla quale il Collegio ritiene di dare continuità, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali di godimento sono individuati solo in base al loro contenuto (ossia con riferimento al bene che ne costituisce l’oggetto), cosicchè la causa petendi della domanda con la quale è chiesto l’accertamento di tali diritti si identifica con il diritto stesso (c.d. “diritti autodeterminati”) e non, come nel caso dei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte (contratto, successione, usucapione etc.); titolo la cui deduzione, nel caso di diritti “autodeterminati”, è necessaria ai fini della prova del diritto, ma non ha alcuna funzione di specificazione della domanda (Cass., Sez. 2, 16/05/2007, n. 11293; Cass., Sez. 2, 08/01/2015, n. 40). Pertanto, non ricorre alcuna violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ove il giudice accolga la domanda, accertando la sussistenza di un diritto c.d. “autodeterminato”, sulla scorta di un titolo diverso da quello invocato dalla parte (Cass., Sez. 2, 21/11/2006, n. 24702; Cass., Sez. 2, 24/11/2010, n. 23851; Cass., Sez. 2, 20/11/2007, n. 24141).
Alla stregua del richiamato principio di diritto, va esclusa la configurabilità del dedotto vizio di extrapetizione, non rilevando il titolo posto dalla società convenuta a fondamento della pretesa declaratoria della proprietà esclusiva.
Va peraltro osservato che – nella specie – la società convenuta non ha posto a fondamento del proprio asserito diritto di proprietà esclusiva scritture traslative della proprietà del suolo o costitutive di un diritto di superficie sul suolo comune o di una proprietà superficiaria dell’immobile (sul punto, cfr. Cass., Sez. 2, 09/10/2017, n. 23547), ma ha dedotto – come fatti costitutivi del suo preteso diritto – mere situazioni fattuali, quali l’avvenuta assunzione dei costi di costruzione da parte della società Cà D’Oro con il consenso del P., nonchè la progettazione e costruzione delle opere “come aventi destinazione originaria, esclusiva, pertinenziale alle unità immobiliari di proprietà esclusiva Cà D’Oro”.
In questo quadro, a prescindere dalla ricordata irrilevanza del titolo in un giudizio avente ad oggetto l’accertamento di un diritto c.d. “autodeterminato”, risulta esente da vizi logici e giuridici la sentenza impugnata laddove essa ha escluso che la società convenuta avesse chiesto l’accertamento dell’avvenuto acquisto della proprietà esclusiva della costruzione per cui è causa “a titolo derivativo”.
2. – Col secondo motivo, si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 934, 840, 1102 e 1121 cod. civ., per avere la Corte di Appello ritenuto che l’assunzione dei costi delle opere da parte della società Cà D’Oro avesse determinato in suo favore l’acquisto della proprietà dell’area ove insiste la costruzione, sottraendola all’altro comproprietario. Tale conclusione, a dire del ricorrente, darebbe luogo ad una sorta di espropriazione senza indennizzo nei confronti del comproprietario non costruttore e sarebbe, perciò, in patente contrasto con l’art. 42 Cost..
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe potuto escludere, nella specie, l’applicabilità del principio dell’accessione, tanto più che i comproprietari del suolo non avevano concluso alcuna pattuizione che legittimasse l’appropriazione dell’area comune da parte della Cà D’Oro, pattuizione che, trattandosi di beni immobili, avrebbe dovuto comunque rivestire la forma scritta ad substantiam. Dovrebbe dunque essere riconosciuto che le unità immobiliari realizzate nel sottosuolo sono di proprietà comune dei comproprietari del suolo in rapporto alle rispettive quote, salva la ripartizione tra di essi delle spese sostenute per la costruzione; in subordine, dovrebbe essere sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 934 cod. civ., come interpretato dalla giurisprudenza, per violazione dell’art. 42 Cost..
Unitamente a tale motivo, va esaminato, in ragione della stretta connessione, il quarto mezzo di ricorso, col quale si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5) la violazione dell’art. 1350 cod. civ., nonchè il difetto di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale dato rilievo ad asseriti accordi intervenuti tra le parti circa la proprietà delle unità immobiliari da costruire, omettendo di considerare che tali pretesi accordi – ove mai sussistenti sarebbero comunque nulli per mancanza della necessaria forma scritta, richiesta dalla legge ad substantiam in materia di costituzione, modificazione o trasferimento di diritti reali immobiliari. Si deduce ancora che i giudici di merito avrebbero omesso, nella motivazione della sentenza, di individuare l’atto scritto col quale le parti avrebbero legittimato il trasferimento della proprietà del suolo comune in favore della Cà D’Oro 3 ovvero – eventualmente – costituito su di esso un diritto di superficie.
2.1. – Preliminarmente, va esaminata l’eccezione formulata dalla controricorrente società, con la quale si è dedotto che il P. avrebbe chiesto solo in appello l’accertamento dell’avvenuto acquisto per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., della proprietà della costruzione per cui è causa.
L’eccezione va rigettata, dovendo ritenersi che la richiesta di accertamento dell’avvenuto acquisto per accessione, da parte del P., della proprietà della costruzione de qua era implicita nella proposta domanda di scioglimento della comunione, costituendo il presupposto logico-giuridico di essa.
2.2. – Ciò posto, prima di passare allo scrutinio dei motivi in esame, il Collegio ritiene di doversi brevemente soffermare sui caratteri essenziali dell’istituto dell’accessione.
Com’è noto, l’accessione costituisce espressione del carattere “assoluto” del diritto di proprietà (che l’art. 832 cod. civ. definisce il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), della pretesa del suo titolare – valevole erga omnes – di non essere disturbato nel suo godimento da qualsiasi terzo; dal che l’idea che il dominium su una determinata res non consente un concorrente dominio altrui su una cosa che sia divenuta parte della stessa res, sì da perdere la propria autonomia.
L’istituto dell’accessione, quale modo di acquisto della proprietà “a titolo originario”, affonda le sue radici nel diritto romano, che però non pervenne all’elaborazione di un concetto unitario di esso in grado di ricomprenderne le varie fattispecie (inaedificatio, satio, implantatio, adluvio, avulsio, etc.); si deve, invece, all’opera dei giuristi medievali (soprattutto dei glossatori) l’elaborazione dell’accessione come figura giuridica unitaria (nella quale furono inquadrate le varie fattispecie di tradizione romanistica), che – come tale – fu recepita nel codice napoleonico, per essere poi trasfusa nel primo codice civile dell’Italia unita.
Non è un caso se il codice civile del 1865, ancora ispirato al mito illuministico della completezza ed esaustività della legge, forniva una definizione unitaria dell’accessione. L’art. 443 di tale codice disponeva, infatti, che “La proprietà di una cosa, sia mobile che immobile, attribuisce diritto su quanto essa produce, o vi si unisce naturalmente o coll’arte: questo diritto si chiama diritto d’accessione”.
Il codificatore del 1942, a fronte delle critiche della dottrina, non ha inteso dare una definizione legislativa dell’accessione; esso, piuttosto, ha dettato una disciplina più agile dell’istituto, espungendo dalle norme sull’accessione la materia dei frutti (disciplinata nel titolo I, dedicato ai “beni”, del libro della proprietà) e adottando dell’accessione una nozione più ristretta (come si evince dalla intitolazione della sezione II del capo III del titolo II dello stesso libro) – limitata alle piantagioni, costruzioni o altre opere fatte sopra il suolo (c.d. “accessione di mobile ad immobile” o “accessione verticale”) – che lascia fuori, quali figure autonome, tanto quelle tradizionalmente ricondotte alla “accessione di mobile a mobile” (unione e commistione, specificazione) quanto quelle ricondotte alla “accessione di immobile ad immobile” o “accessione orizzontale” (le varie figure dei c.d. incrementi fluviali).
Nonostante la frammentazione delle varie fattispecie tradizionalmente ricondotte all’accessione, la dottrina rinviene il carattere ad esse comune nel fatto che l’acquisto della proprietà è legato al solo fatto materiale ed obiettivo dell’incorporazione (c.d. “attrazione reale”), da intendersi come “unione stabile” di una cosa con un’altra, non rilevando se essa sia avvenuta per evento naturale o per opera dell’uomo. La proprietà si acquista ipso iure al momento dell’incorporazione; quest’ultima è un fatto giuridico in senso stretto, ossia un fatto che determina l’effetto giuridico dell’acquisto della proprietà a prescindere dalla volontà dell’uomo.
In questo senso, l’accessione costituisce un “meccanismo oggettivo” di acquisto della proprietà: la volontà dell’uomo – ove pure vi sia – non assume rilievo giuridico nè influisce positivamente sull’acquisto della proprietà (cfr. Cass., sez. 2, 06/06/2006, 13215; Cass., Sez. 2, 15/05/2013, n. 11742; Cass., Sez. 1, 12/06/1987, n. 5135).
Fattore unificante delle varie figure di accessione è la regola per cui il proprietario della “cosa principale” diviene proprietario della “cosa accessoria” quando quest’ultima si congiunge stabilmente alla prima (“accessorium cedit principali”). Il diritto di proprietà sulla cosa principale esercita, perciò, una vis attractiva sulla proprietà della cosa accessoria. E mentre con riguardo all’accessione di mobile a mobile spetta al giudice accertare in concreto – tenendo conto dei criteri della funzione e del valore – quale sia la cosa principale e quale quella accessoria, nel caso dell’accessione c.d. verticale è la stessa legge (art. 934 e segg. cod. civ.) ad individuare la “cosa principale” nel bene immobile (il suolo), sancendo la sua preminenza sulle cose mobili che vi sono incorporate, in ragione dell’importanza economico-sociale che ad esso si riconosce (anche se tale regola non manca delle sue eccezioni: come nel caso della c.d. “accessione invertita” di cui all’art. 938 cod. civ., cui può farsi ricorso ove vi sia stata occupazione parziale di un fondo altrui). Sicchè, quando riguarda un bene immobile, l’accessione si coniuga col principio per cui la proprietà immobiliare (c.d. “proprietà fondiaria”) si estende in linea verticale teoricamente all’infinito, sia nel sottosuolo che nello spazio sovrastante al suolo, fin dove l’uno e l’altro siano suscettibili di utilizzazione economica, ossia fin dove il proprietario del suolo abbia interesse ad escludere le attività di terzi (art. 840 cod. civ., comma 2).
L’art. 934 cod. civ., che apre le disposizioni codicistiche dedicate all’accessione, detta la “regola generale” di tale modo di acquisto della proprietà – trasposizione dell’antico principio romanistico “quidquid inaedificatur solo cedit” (o “superficies solo cedit”) secondo cui “Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo, salvo quanto disposto dagli artt. 935, 936, 937 e 938 e salvo che risulti diversamente dal titolo e dalla legge”; e gli articoli che seguono tale disposizione – disciplinando specificamente il caso delle opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui (art. 935 cod. civ.), quello delle opere fatte dal terzo con materiali propri (art. 936 cod. civ.) e quello delle opere fatte dal terzo con materiali altrui (art. 937 cod. civ.) – confermano la preminenza assegnata dal legislatore al bene immobile sul bene mobile (sia pure con i temperamenti di volta in volta previsti).
La regola dell’accessione, nella misura in cui consente la ricompattazione e la semplificazione delle situazioni di appartenenza punta a salvaguardare l’interesse generale al più razionale sfruttamento economico del suolo, ma costituisce soprattutto – anche grazie al sistema della pubblicità immobiliare – presidio della certezza dei rapporti giuridici e della sicurezza della circolazione della proprietà. Essa finisce per limitare lo stesso potere del proprietario del suolo di disporre del suo diritto, non potendo egli alienare il suolo e la costruzione l’uno separatamente dall’altro, salvo a costituire con atto redatto nelle forme di legge (art. 1350 cod. civ.) e soggetto all’onere della trascrizione (art. 2643 e segg. cod. civ.) – un diritto reale di superficie (sub specie di proprietà superficiaria) (artt. 952 e segg. cod. civ.).
2.3. – Orbene, premesso quanto sopra in ordine ai caratteri essenziali dell’accessione, occorre ritornare ora allo scrutinio del secondo e del quarto motivo di ricorso, con i quali – come si è veduto – viene sottoposta la questione circa la possibilità che l’accessione operi quando la proprietà del suolo sia comune a più soggetti (c.d. comunione o comproprietà) ed uno solo (o alcuni soltanto) di essi abbia edificato sul suolo comune; questione, questa, relativamente alla quale – come ha evidenziato l’ordinanza di rimessione – si fronteggiano due opposti indirizzi giurisprudenziali.
Secondo un primo indirizzo, più risalente, il principio dell’accessione (art. 934 cod. civ.) opererebbe anche nel caso di comunione, per cui la costruzione su suolo comune, pur se eseguita da uno solo dei comunisti, diverrebbe anch’essa comune, mano a mano che viene edificata, salvo contrario accordo scritto. La nuova costruzione diverrebbe, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., automaticamente di proprietà di tutti i contitolari del suolo comune, secondo le quote spettanti su detto suolo a ciascuno di essi, salvo il diritto del costruttore al rimborso pro quota delle spese sostenute (Cass., Sez. 2, 11/07/1978, n. 3479; Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543).
Secondo l’opposto e più recente orientamento, oggi prevalente, la fattispecie dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ. si riferirebbe solo alle costruzioni od opere eseguite su terreno altrui, presupporrebbe cioè che il costruttore sia un “terzo” rispetto ai proprietari del suolo; e poichè il comproprietario costruttore non può essere considerato “terzo” rispetto agli altri comunisti, la fattispecie della costruzione eseguita da uno dei comproprietari su suolo comune non potrebbe essere regolata dall’art. 934 cod. civ., ma sarebbe invece regolata dalla disciplina in materia di comunione, che configurerebbe una deroga al principio dell’accessione. In particolare, secondo tale giurisprudenza, la nuova costruzione sarebbe di proprietà comune a tutti i comunisti se eseguita in conformità alle regole del condominio, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all’uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.); apparterrebbe, invece, solo al comproprietario costruttore se eseguita in violazione della disciplina condominiale (costruzione “illegittima”) (Cass., Sez. 2, 27/03/2007, n. 7523; Cass., Sez. 2, 18/04/1996, n. 3675; Cass., Sez. 2, 22/03/2001, n. 4120; Cass., Sez. 2, 24/01/2011, n. 1556).
2.4. – La Corte ritiene che il più recente orientamento giurisprudenziale non possa essere condiviso per le seguenti ragioni.
2.4.1. – Innanzitutto, il Collegio non reputa fondato l’assunto posto a fondamento dell’indirizzo giurisprudenziale in esame secondo cui presupposto indefettibile dell’accessione sarebbe la qualità di “terzo” del costruttore rispetto al proprietario del suolo; dal che discenderebbe – secondo tale opinione – che, nel caso in cui il suolo appartenga in comunione a più soggetti, non potendo il comproprietario costruttore essere considerato “terzo” rispetto agli altri comunisti, l’accessione non potrebbe operare.
Va premesso che, secondo l’insegnamento consolidato di questa Corte regolatrice, in materia di accessione, è “terzo” colui che non sia legato al proprietario del suolo da un rapporto giuridico, di natura reale o personale, che lo legittimi a costruire sul fondo medesimo. Ove invece sussista un diritto reale o personale che assegni al terzo la facoltà di edificare su suolo altrui viene meno la ragione di applicare la disciplina dell’accessione intesa come ipotesi di soluzione del conflitto tra contrapposti interessi, perchè il conflitto risulta assoggettato ad una disciplina specifica (ad es.: gli artt. 1592 e 1593 cod. civ. in tema di miglioramenti e addizioni nel rapporto di locazione; gli artt. 983, 985 e 986 in tema di usufrutto; etc.) (cfr. Cass., Sez. 2, 05/02/1983, n. 970; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699). Si è ritenuto perciò che, ove sussista una comunione del suolo ed uno solo dei comproprietari del suolo costruisca su di esso, non è applicabile l’art. 936 cod. civ. (dettato per le “Opere fatte da un terzo”), non potendo il comproprietario costruttore essere qualificato “terzo” rispetto agli altri comproprietari del suolo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 14/01/2009, n. 743; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699; Cass., Sez. 2, 27/08/1986, n. 5242).
Ciò premesso, va tuttavia osservato che un esame obiettivo del complesso della disciplina codicistica consente di ritenere, in accordo con autorevole dottrina, che l’operare dell’istituto dell’accessione non è affatto precluso dalla circostanza che, in presenza di una comunione del suolo, la costruzione sia realizzata da uno (o da alcuni) soltanto dei comproprietari.
Diversi argomenti conducono a tale conclusione.
In primo luogo, sul piano dell’interpretazione letterale della legge, va rilevato che l’art. 934 cod. civ. – che detta la “regola generale” in materia di accessione – non contiene alcun riferimento soggettivo al costruttore. La norma enuncia il principio per cui “Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo” e prescinde del tutto da chi sia la persona del costruttore.
Si tratta di una nozione ampia di accessione che fa parte della tradizione giuridica dell’istituto nel nostro ordinamento e che si collega idealmente alla onnicomprensiva definizione di accessione contenuta nell’art. 443 cod. civ. 1865, che includeva persino l’acquisto dei frutti prodotti dal fondo (cfr. art. 444 cod. civ. abrogato); una nozione che non esclude l’accessione neppure nel caso di costruzioni realizzate dallo stesso proprietario del suolo.
Conferma di quanto detto si ricava dall’interpretazione sistematica del complesso delle norme relative all’accessione e, in particolare, dal fatto che le fattispecie di accessione relative al caso in cui il costruttore sia un “terzo” rispetto ai proprietari del suolo sono specificamente contemplate e regolate negli artt. 936 e 937 cod. civ. (disposizioni che disciplinano l’accessione rispettivamente nel caso in cui le opere siano state realizzate “da un terzo con materiali propri” ovvero “da un terzo con materiali altrui”).
Essendo le ipotesi in cui le opere siano state eseguite da un soggetto “terzo” rispetto al proprietario del suolo regolate dai richiamati artt. 936 e 937 cod. civ., va escluso che l’art. 934 cod. civ. possa riferirsi alle medesime opere eseguite dal terzo.
Altra conferma del fatto che l’applicabilità dell’art. 934 cod. civ. non è subordinata alla qualità di terzo del costruttore si desume, peraltro, dall’art. 935 cod. civ., che disciplina l’accessione nel caso in cui l’opera sia stata edificata dal proprietario del suolo “con materiali altrui”; fattispecie – questa – nella quale l’accessione opera nonostante vi sia coincidenza tra costruttore e dominus soli.
Infine, ulteriore conferma del fatto che l’accessione non presuppone affatto l’alterità soggettiva tra proprietario del suolo e costruttore si ricava anche dalla giurisprudenza elaborata da questa Corte in tema di “comunione legale tra i coniugi”, laddove si è affermato che la costruzione realizzata durante il matrimonio da entrambi i coniugi sul suolo di proprietà esclusiva di uno solo di essi, appartiene a quest’ultimo in forza del principio di accessione e, pertanto, non entra a far parte della comunione legale (Cass., Sez. U, 27/01/1996, n. 651; Cass., Sez. 1, 30/09/2010, n. 20508).
Si tratta di un principio che riconosce l’operare dell’accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., in favore del coniuge proprietario esclusivo del suolo, nonostante che egli stesso sia l’autore della costruzione (sia pure unitamente all’altro coniuge), nonostante cioè che il costruttore non sia “terzo” rispetto al proprietario del suolo. Anche da tale principio giurisprudenziale si ricava, perciò, conferma della conclusione secondo cui l’accessione non presuppone che il costruttore dell’opera sia “terzo” rispetto alla proprietà del suolo.
E allora, a meno di voler ridurre l’art. 934 cod. civ. ad una disposizione meramente enunciativa di una definizione giuridica (simile all’art. 443 cod. civ. abrogato) priva di immediata efficacia precettiva (ciò che, tuttavia, non sarebbe conforme nè alla lettera della legge nè all’intenzione del codificatore), deve concludersi che l’art. 934 cod. civ. detta la “regola generale” dell’accessione, che costituisce norma immediatamente applicabile e destinata a regolare tutte quelle fattispecie in cui l’incorporazione di piantagioni o materiali al suolo non trovi specifica disciplina in diverse disposizioni di legge.
Tra tali fattispecie rientra certamente il caso in cui il suolo appartenga in comunione a più soggetti ed uno (o alcuni) soltanto di essi abbia realizzato una costruzione sul suolo comune.
Non è inutile osservare in proposito che, nel caso di costruzione del singolo comunista sul suolo comune, l’accessione non perde la propria ragion d’essere giuridica: basti considerare che, proprio grazie all’accessione, l’alienazione del suolo comporta l’automatica alienazione di quanto su di esso incorporato, senza necessità di un separato atto di alienazione dei materiali ad esso stabilmente uniti e senza che – in mancanza di un tale atto – l’acquirente corra il rischio di vedersi disturbato nel godimento del fondo da alcuno dei suoi danti causa.
Può ritenersi, dunque, che tanto l’interpretazione letterale quanto l’interpretazione sistematica delle norme codicistiche relative all’accessione depongono nel senso che la “regola generale” dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ. prescinde dal riferimento soggettivo all’autore della costruzione e che non vi sono ragioni per escludere che essa – legata com’è al mero fatto dell’incorporazione dei materiali al suolo – operi anche nel caso di costruzione realizzata dal singolo comproprietario sul suolo comune.
2.4.2. – Il Collegio non condivide neanche l’altro assunto, posto a fondamento della giurisprudenza criticata, secondo cui, allorquando il suolo su cui sono eseguite le opere appartiene a più soggetti, l’art. 934 cod. civ. sarebbe derogato dalla disciplina della comunione.
E’ vero che la regola generale dell’accessione posta dall’art. 934 cod. civ. vale – secondo quanto previsto dall’ultimo inciso della disposizione (“salvo che risulti diversamente (…) dalla legge”) – a condizione che non sia derogata da una norma di legge a carattere speciale (“lex specialis derogat legi generali”). Non è vero, tuttavia, che la disciplina giuridica della comunione integri una deroga all’istituto dell’accessione.
Non esiste, tra accessione e comunione, alcun rapporto tra genus ad speciem.
Invero, la disciplina giuridica della comunione (art. 1100 e segg. cod. civ.) punta a regolare i rapporti tra comproprietari nell’uso e nel godimento della cosa comune (art. 1102 cod. civ.), a fissare i limiti entro cui è consentito il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione del bene comune o sono permesse le innovazioni e la disposizione della cosa comune, con la garanzia delle ragioni delle minoranze (artt. 1108 e 1120 cod. civ.). Nessuna delle norme che regolano la comunione è, tuttavia, atta ad incidere sui modi di acquisto della proprietà o a mutare l’assetto della proprietà comune, sì da poter configurare una disciplina speciale, e quindi una deroga, rispetto al principio di accessione.
Peraltro, l’art. 1102 cod. civ. – che costituisce la norma fondamentale in materia di comunione (applicabile anche alla materia del condominio degli edifici in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1139 cod. civ.) – consente a ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune “purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
La medesima ratio è posta a fondamento degli artt. 1108 e 1120 cod. civ., che consentono le innovazioni deliberate dalle maggioranze ivi previste, ma sempre a condizione che si tratti di innovazioni che non pregiudichino l’uso e il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti.
Orbene, queste norme escludono in radice che il singolo comproprietario, senza il consenso degli altri comunisti, possa cambiare destinazione al suolo comune ed edificare su di esso con l’intento di appropriarsi del medesimo ed escludere gli altri comproprietari dal suo godimento.
L’esistenza di un pari diritto di ogni comunista sulla cosa comune, infatti, è incompatibile con l’assunto che uno solo di essi possa divenire proprietario esclusivo dell’opera e del suolo comune su cui essa insiste.
D’altra parte, il comproprietario che costruisce senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione realizza una alterazione della destinazione della cosa comune ed impedisce agli altri comunisti di fare uso di essa secondo il loro diritto; egli infrange la disciplina della comunione e commette un “atto illecito”, come “illegittima” è la costruzione realizzata sul suolo comune (Cass., Sez. 2, 24/01/2011, n. 1556; Cass., Sez. 2, 21/05/2001, n. 6921).
Dunque, essendo la disciplina della comunione destinata a regolare i rapporti tra comproprietari nell’uso e nel godimento della cosa comune e non contenendo tale disciplina alcuna norma in grado di determinare l’attrazione della nuova opera nella sfera patrimoniale esclusiva del comunista costruttore, va ripudiata l’idea che la disciplina della comunione costituisca deroga a quella relativa ai modi di acquisto della proprietà, sì da escludere l’operare dell’accessione.
2.4.3. – Il Collegio non condivide neppure la conclusione secondo cui la costruzione edificata da uno solo dei comproprietari sul suolo comune diverrebbe di proprietà comune di tutti i comunisti solo se eseguita in conformità alle regole che disciplinano la comunione, cioè con il rispetto dei limiti posti al comproprietario nell’uso della cosa comune (art. 1102 cod. civ.), mentre apparterrebbe in proprietà esclusiva al solo comproprietario costruttore se eseguita in violazione della detta disciplina (costruzione “illegittima”).
Innanzitutto, se venisse esclusa l’applicabilità del principio di accessione in materia di comunione, non sarebbe dato comprendere sulla base di quale diverso principio la costruzione edificata da uno solo dei comproprietari possa divenire comune agli altri comunisti ove sia eseguita in conformità alle regole che disciplinano la comunione; ma risulterebbe anche, a maggior ragione, incomprensibile come il comproprietario costruttore che, violando la disciplina della comunione, abbia edificato sul suolo comune possa divenire proprietario esclusivo della costruzione, così sottraendo agli altri comunisti la proprietà del suolo su cui insiste la costruzione (a tale conclusione sembra addivenire la giurisprudenza criticata nella misura in cui non prospetta una proprietà del suolo occupato dalla costruzione diversa dalla proprietà della costruzione stessa).
Il vero è che, nella sostanza, la giurisprudenza criticata, una volta esclusa l’applicabilità del principio di accessione in materia di comunione e ritenuta applicabile solo la disciplina di cui agli artt. 1100 e segg. cod. civ., è venuta a creare di fatto, per via pretoria, una nuova figura di “acquisto a titolo originario” della proprietà, che non ha base legale.
Sul punto, va però osservato che sia la Costituzione (art. 42, secondo comma, a tenore del quale spetta alla legge determinare i modi di acquisto della proprietà) che il codice civile (art. 922, che, nell’elencare i vari modi di acquisto della proprietà, conclude con la formula “e negli altri modi stabiliti dalla legge”) configurano una vera e propria “riserva di legge” in ordine ai modi di acquisto della proprietà, in forza della quale la proprietà può acquistarsi solo nei modi “legali”, solo nei modi che il legislatore ha inteso prevedere (non solo – ovviamente – in seno al codice civile, ma anche in altri campi del diritto: si pensi ai vari casi di appropriazione coattiva previsti dal diritto pubblico o dal diritto processuale in materia esecutiva), non potendosi ammettere modi di acquisto della proprietà (o di altri diritti reali) diversi da quelli che il legislatore abbia previsto e disciplinato.
E allora, ritenere, per via pretoria, che la violazione delle norme sulla comunione consenta al singolo comproprietario che costruisca sul suolo comune di acquistare la proprietà della costruzione e del suolo, in danno degli altri comunisti, costituirebbe una patente violazione della “riserva di legge” relativa ai modi di acquisto della proprietà.
Per di più, va ricordato che la tutela della proprietà privata trova fondamento, oltre che nell’art. 42 Cost., nello stesso codice del 1942. L’art. 834 cod. civ., comma 1, quasi anticipando la previsione della futura Carta costituzionale, stabilisce “Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di giusta indennità”; e l’art. 1102 cod. civ., comma 2, espressamente preclude al singolo compartecipe di estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri compartecipi, salvo che “muti il titolo del suo possesso” (addivenendo all’acquisto per usucapione ove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 1158 cod. civ.).
Perciò, ammettere che i comproprietari non costruttori possano perdere la proprietà della cosa comune per il semplice fatto della iniziativa di altro comproprietario, dando luogo ad una sorta di espropriazione della proprietà privata in assenza di un interesse generale e senza indennizzo, contrasta con i principi generali che reggono la materia e con la stessa Carta fondamentale (art. 42 Cost.).
Si tratta, peraltro, di una soluzione contraria ad ogni logica e al comune senso di giustizia, perchè finisce col premiare, piuttosto che sanzionare, il comproprietario che commette un abuso in danno degli altri comproprietari.
2.5. – In definitiva, alla luce di quanto sopra detto, il Collegio ritiene che la disciplina della comunione non configuri affatto una deroga legale al principio di accessione di cui all’art. 934 cod. civ. e che quest’ultimo operi anche quando il suolo appartiene in comunione a più soggetti ed uno solo (o alcuni soltanto) di essi abbia provveduto a realizzare una costruzione o altra opera.
Come si è detto, l’accessione costituisce un mero fatto giuridico, che opera per il solo fatto dell’incorporazione. L’acquisto della proprietà per accessione prescinde dalla volontà di alcuno e non è escluso dalla buona fede del costruttore; cosicchè, nel caso di comunione del suolo e di costruzione eseguita su di esso da uno o da alcuni soltanto dei comunisti, tutti i comproprietari del suolo (costruttori e non costruttori) acquistano la proprietà della costruzione, in rapporto alle rispettive quote, per il semplice fatto di essere comproprietari del suolo.
E’ ben vero che l’art. 934 cod. civ. fa salve le deroghe alla regola dell’accessione previste dalla “legge” o dal “titolo”.
Tuttavia, nessuna delle deroghe all’operare dell’accessione previste dalla legge – quella relativa alle opere destinate all’esercizio della servitù eseguite dal proprietario del fondo dominante sul fondo servente (art. 1069 cod. civ.); o quelle relative alle addizioni eseguite dall’enfiteuta (art. 975 cod. civ., comma 3), dall’usufruttuario (art. 986 cod. civ., comma 2), dal possessore (art. 1150 cod. civ., comma 5) e dal locatore (art. 1593 cod. civ.), laddove lo ius tollendi opera quasi sempre in deroga all’accessione, se non ne venga nocumento alla cosa – riguardano il caso della comunione del suolo.
Quanto al titolo negoziale idoneo ad escludere l’operare dell’accessione, esso – com’è noto – non può essere costituito da un negozio unilaterale, essendo invece necessario un apposito contratto stipulato tra il proprietario del suolo e il costruttore dell’opera, che attribuisca a quest’ultimo il diritto di proprietà sulle opere realizzate (Cass., Sez. 3, 07/07/1980, n. 4337; Cass., Sez. 2, 21/02/2005, n. 3440).
Costituiscono titoli idonei a impedire l’operare dell’accessione, quelli costitutivi di diritti reali, fra i quali si colloca, oltre alla costituzione diretta di un diritto di superficie (art. 952 e segg. cod. civ.), la c.d. concessione ad aedificandum, con la quale il proprietario del suolo rinuncia a fare propria la costruzione che sorgerà su di esso. Trattandosi di contratti relativi a diritti reali immobiliari, essi, ai sensi dell’art. 1350 cod. civ., devono rivestire la forma scritta ad substantiam (Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543; Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 2, 19/04/1994, n. 3714; Cass., Sez. 2, 27/10/1984, n. 5511); come anche per iscritto deve risultare la rinuncia del proprietario al diritto di accessione, che si traduce sostanzialmente nella costituzione di un diritto di superficie (Cass., Sez. 1, 15/12/1966, n. 2946).
Perciò, in mancanza di valido contrario titolo, qualunque costruzione edificata sul suolo comune – non solo da terzi (caso che ricadrebbe nelle fattispecie di cui agli artt. 936 e 937 cod. civ.), ma anche da uno o da alcuni soltanto dei comproprietari – diviene ipso iure, per il solo fatto dell’incorporazione e a prescindere dalla volontà manifestata dalle parti al di fuori delle forme prescritte dall’art. 1350 cod. civ., di proprietà comune di tutti comproprietari del suolo in proporzione alle rispettive quote dominicali.
2.6. – Una volta stabilito che – in virtù dell’operare dell’accessione – la costruzione su suolo comune appartiene a tutti i comproprietari del medesimo in proporzione alle rispettive quote di proprietà (salva l’esistenza di contrario titolo, nei termini sopra richiamati), rimane da stabilire quale sia il “regime giuridico” che deve disciplinare i rapporti tra il comproprietario costruttore e gli altri comproprietari (divenuti ope legis comproprietari della costruzione).
L’art. 934 cod. civ. nulla dispone circa la disciplina che deve regolare i rapporti tra costruttore e proprietario del suolo; e la giurisprudenza di questa Corte – come si è detto – è costante nell’escludere che la materia possa essere regolata dall’art. 936 cod. civ., essendo questa una disposizione relativa alle “Opere fatte da un terzo” e non potendo il comproprietario essere qualificato “terzo” rispetto agli altri comproprietari del suolo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 14/01/2009, n. 743; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699).
Il Collegio ritiene che la disciplina giuridica che deve regolare i rapporti tra comproprietario costruttore e comproprietario non costruttore vada ricavata dalle norme che regolano la comunione: innanzitutto, dalle norme che regolano l’uso della cosa comune e le innovazioni.
Invero, la costruzione su suolo comune – in quanto innovazione deve essere deliberata secondo quanto previsto dall’art. 1108 cod. civ. (per la comunione ordinaria) e dagli artt. 1120 e 1121 cod. civ. (per il condominio degli edifici), sempre col limite di non pregiudicare il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti.
Perciò, quando la costruzione è stata edificata senza la preventiva autorizzazione della maggioranza dei condomini ovvero quando essa pregiudichi comunque il godimento della cosa comune da parte di tutti i comproprietari, il comproprietario che ha patito pregiudizio dalla costruzione può esercitare – nei confronti del comproprietario costruttore – le ordinarie azioni possessorie (cfr., in tema di azione di manutenzione, Cass., Sez. 2, 17/10/2006, n. 22227) e l’azione di rivendicazione (Cass., Sez. 2, 28/08/1990, n. 8884).
Il comproprietario leso può anche esercitare lo ius tollendi e pretendere la demolizione dell’opera lesiva del suo diritto, ricorrendo alla tutela in forma specifica ex art. 2933 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. 2, 13/11/1997, n. 11227). La demolizione dell’opera può essere anche decisa – al di fuori del caso di lesione del diritto del singolo comunista – dalla maggioranza dei comproprietari ai sensi dell’art. 1108 cod. civ..
Il Collegio ritiene, tuttavia, che l’esercizio dello ius tollendi debba essere coniugato con il principio di “tolleranza”, col principio di “affidamento” e con quello di “buona fede” (in ordine a tali principi, ex plurimis, v. Cass., Sez. U, 27/04/2017, n. 10413; Cass., Sez. U, 15/11/2007, n. 23726).
Si tratta, peraltro, di principi sottesi al disposto dell’art. 936 cod. civ., comma 4, laddove esso stabilisce che “il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni ed opere, quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede”.
E’ vero che tale disposizione (relativa al caso del “terzo costruttore”) non è applicabile al diverso caso delle opere edificate dal comproprietario sul suolo comune; ciò non vuol dire però che in tale ipotesi non debba tenersi conto egualmente dei principi di tolleranza e di affidamento, nonchè del principio di buona fede.
Trattasi di principi generali immanenti all’ordinamento giuridico, in quanto tali sottesi all’intera disciplina del codice civile, che devono sempre essere tenuti in conto dal giudice.
E’ necessario, allora, tener distinti il caso in cui il comproprietario costruttore abbia agito contro l’esplicito divieto del comproprietario o all’insaputa di questi dal diverso caso in cui egli abbia agito, se non col consenso, quanto meno a scienza e senza opposizioni dell’altro comproprietario.
Nel primo caso, ove vi sia stata violazione delle norme in tema di condominio, va riconosciuto lo ius tollendi al comproprietario non costruttore, il quale può senz’altro agire per ottenere il ripristino dello status quo ante.
Nel secondo caso, invece, essendovi stato il consenso esplicito o anche meramente implicito del comproprietario non costruttore, va escluso – a tutela della buona fede e dell’affidamento del costruttore – che il primo possa pretendere la demolizione dell’opera.
Per la medesima ragione anche la mera tolleranza, ossia la mancata reazione da parte del comproprietario non costruttore all’abuso intrapreso dal comunista costruttore, protratta per un congruo periodo di tempo dal giorno in cui ha avuto notizia dei lavori, preclude l’esercizio dello ius tollendi, facendo sorgere l’affidamento del costruttore sul sopravvenuto consenso implicito del compartecipe alla comunione.
Il consenso alla costruzione dell’opera, manifestato da un comunista all’altro, può essere dato con qualunque forma (anche verbalmente), non attenendo esso alla sfera dei diritti reali e non facendo venir meno l’operatività dell’accessione e, quindi, l’acquisto della proprietà della costruzione da parte di tutti i comunisti in rapporto alle rispettive quote dominicali; il suo rilievo giuridico non attiene all’acquisto della proprietà della costruzione, ma ai reciproci diritti e obblighi dei comproprietari, e ai loro rispettivi poteri, relativamente ad un’opera divenuta comunque comune.
Trattandosi di un consenso che non incide sulla proprietà della costruzione, esso può essere dimostrato con ogni mezzo di prova.
Va aggiunto che, ove lo ius tollendi non venga (o non possa essere) esercitato, sorge, in favore del comproprietario costruttore, un diritto di credito nei confronti degli altri comunisti, divenuti per accessione comproprietari dell’opera; nasce cioè tra le parti un rapporto obbligatorio in forza del quale i comproprietari non costruttori sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera, secondo le norme che regolano la comunione e gli altri istituti di volta in volta applicabili (mandato, negotiorum gestio, arricchimento senza causa, etc.).
2.7. – Premesso quanto sopra, tornando all’esame della fattispecie concreta sottoposta al giudizio di questa Suprema Corte, va rilevato come le rationes decidendi della sentenza impugnata contrastino con i principi di diritto sopra esposti.
I giudici di merito hanno ritenuto che l’istituto dell’accessione di cui all’art. 934 non potesse operare nel caso di costruzione edificata da uno solo dei comproprietari su suolo comune ed hanno ritenuto che la costruttrice società Cà D’Oro fosse divenuta ab origine unica proprietaria della costruzione in virtù di accordi non bene individuati, nè in ordine al loro contenuto nè in ordine alla loro forma.
Così facendo, la Corte territoriale ha mostrato di non tener conto del principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice secondo cui i contratti traslativi della proprietà di beni immobili o costitutivi, modificativi o traslativi di diritti reali immobiliari su cosa altrui devono, ai sensi dell’art. 1350 cod. civ., rivestire la forma scritta ad substantiam (Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543; Cass., Sez. 2, 19/04/1994, n. 3714; Cass., Sez. 2, 27/10/1984, n. 5511; Cass., Sez. 2, 16/03/1984, n. 1811); sicchè è nulla la promessa verbale del proprietario del suolo di trasferire ad altro la proprietà del manufatto su di esso edificato (cfr. Cass., Sez. 2, 26/11/1988, n. 6380); come, d’altra parte, la concessione ad aedificandum convenuta verbalmente, e quindi senza un atto scritto, non acquista efficacia reale, ma dà vita ad un rapporto meramente obbligatorio, ossia ad un diritto personale nei confronti del concedente (Cass., Sez. 1, 17/12/1968, n. 4006; Cass., Sez. 2, 10/07/1985, n. 4111).
La Corte territoriale avrebbe dovuto, invece, verificare se fosse stato stipulato tra le parti un contratto redatto in forma scritta avente ad oggetto il trasferimento della proprietà del suolo su cui insiste la costruzione realizzata dalla società convenuta ovvero la costituzione di un diritto di superficie o di altro diritto reale in grado di separare la proprietà del suolo dalla proprietà della costruzione ovvero – ancora se il P. avesse posto in essere (sempre con la dovuta forma scritta richiesta dall’art. 1350 cod. civ., n. 5) una rinunzia abdicativa alla propria quota di comproprietà (con conseguente accrescimento del diritto di proprietà della Cà D’Oro) ai sensi dell’art. 1104 cod. civ., comma 1, (sul punto, cfr. Cass., Sez. 2, 25/02/2015, n. 3819; Cass., Sez. 2, 06/07/1968, n. 2316); e non avrebbe potuto dare improprio rilievo, ai fini del riconoscimento della proprietà della costruzione, al consenso manifestato “verbalmente” dal P. o al fatto che quest’ultimo si fosse reso esecutore materiale della costruzione su incarico della società Cà D’Oro o alla circostanza che soltanto tale società avesse sopportato i costi di costruzione (circostanze – queste – rilevanti ai fini della verifica della spettanza al P. dello ius tollendi, ma non in grado di incidere sull’acquisto della proprietà della costruzione).
Non rimane, pertanto, che cassare la sentenza impugnata in relazione al secondo e al quarto motivo di ricorso, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, che, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2, si uniformerà ai seguenti principi di diritto:
– “La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam”;
– “Il consenso alla costruzione manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro diritto reale, vale a precludergli l’esercizio dello ius tollendi”;
– “Ove lo ius tollendi non venga o non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera”.
3. – Gli altri motivi rimangono assorbiti.
4. – Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, accoglie il secondo e il quarto motivo di ricorso, rigetta il primo e il quinto, dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 7 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2018

ASSEGNI FAMILIARI

Di Gianfranco Dosi
I. Il quadro giuridico
II. Gli assegni familiari in caso di separazione e divorzio
III. Il diritto in caso di affidatario non lavoratore
IV. Gli assegni familiari nella famiglia di fatto
V. I figli maggiorenni
VI. Gli assegni familiari per i figli si aggiungono al contributo di mantenimento
VII. Gli assegni familiari in caso di affidamento al servizio sociale
c) Atti traslativi nel corso del matrimonio
d) Attribuzioni patrimoniali in sede di separazione
XV. L’azione revocatoria può essere esercitata a tutela dell’assegnazione della casa fa¬miliare?
XVI. L’esecuzione diretta o presso terzi senza previa revocatoria: l’art. 2929-bis del codice civile
I Il quadro giuridico
Gli assegni familiari sono stati introdotti nel nostro ordinamento dalla contrattazione collettiva di lavoro nel lontano 1934 e sono stati poi regolamentati dapprima con il R.D.L. 21 agosto 1936, n. 1632 e, in seguito, per tutti i lavoratori dipendenti nel 1955 (DPR 30 maggio 1955, n. 797, Testo Unico delle norme concernenti gli assegni familiari). L’art. 9 della legge 9 dicembre 1977 n. 903 (parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) introdusse il principio che gli as¬segni familiari possono essere corrisposti in alternativa tanto all’uomo che alla donna lavoratrice.
Nel 1988, con l’art. 2 del Decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 convertito nella legge 13 maggio 1988, n. 153 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti por¬tuali ed altre disposizioni urgenti) – illustrata da una apposita circolare Ministero del Tesoro del 27 giugno 1988, n. 31 – furono oggetto di una ampia riforma che ne cambiò anche il nome: da “as¬segni familiari” divennero “assegno al nucleo familiare” attribuito a tutti “i lavoratori dipendenti, i titolari delle pensioni e delle prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro dipendente, i lavoratori assistiti dall’assicurazione contro la tubercolosi, il personale statale in attività di ser¬vizio ed in quiescenza, i dipendenti e pensionati degli enti pubblici anche non territoriali”, quindi sostanzialmente tutti i lavoratori. Anche se disoccupati senza indennità (Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42). Ai coltivatori diretti, mezzadri e coloni sono, invece, corrisposti sempre con il nome di “assegni familiari”.
L’assegno al nucleo familiare e gli assegni familiari sostituirono ogni trattamento di sostegno alla famiglia precedente comunque denominato.
Per comodità espositiva continueremo a chiamarli assegni familiari.
Sono corrisposti, per conto dell’Inps, dal datore di lavoro (al quale va quindi presentata la doman¬da) in occasione del pagamento della retribuzione. Sono, invece, direttamente corrisposti dall’Inps se il richiedente è addetto ai servizi domestici ovvero iscritto alla Gestione separata o in altre poche situazioni.
L’assegno compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, secondo una tabella aggiornata di anno in anno. Nell’ ultimo aggiornamento (cir¬colare Inps n. 87 del 18 maggio 2017) sono indicati i limiti di reddito da considerare nel periodo compreso dal 1° luglio 2017 al 30 giugno 2018 per la concessione dell’assegno al nucleo familiare e gli importi dell’assegno. La tabella può essere scaricata facilmente nel sito ufficiale dell’Inps.
Secondo il sesto comma dell’art. 2 del Decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 sopra richiamato, per “nucleo familiare” si intende quello composto “dai coniugi [o parti dell’unione civile] con esclu¬sione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’articolo 38 del DPR 26 aprile 1957, n. 818 (che equipara ai figli legittimi o legittimati, i figli adottivi, quelli naturali riconosciuti o giudizialmente dichiarati, quelli nati da precedente ma¬trimonio dell’altro coniuge, nonché i minori regolarmente affidati dagli organi competenti), di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro”.
Col tempo, anche in connessione con decisioni della Corte costituzionale l’elenco dei componenti del nucleo familiare si è allargato.
L’assegno al nucleo familiare spetta oggi per i seguenti soggetti: nucleo composto dal richiedente lavoratore o titolare della pensione; il coniuge/parte di unione civile che non sia legalmente ed effettivamente separato o sciolto da unione civile, anche se non convivente, o che non abbia ab-bandonato la famiglia; i figli ed equiparati di età inferiore a 18 anni, conviventi o meno; i figli ed equiparati maggiorenni inabili, purché non coniugati; i figli ed equiparati, studenti o apprendisti, di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni; i fratelli, le sorelle del ri¬chiedente e i nipoti (collaterali o in linea retta non a carico dell’ascendente), minori o maggiorenni inabili, solo se sono orfani di entrambi i genitori, che non hanno conseguito il diritto alla pensione ai superstiti e non sono coniugati; i nipoti in linea retta di età inferiore a 18 anni e viventi a carico dell’ascendente.
L’assegno per il nucleo familiare compete, come sopra detto, in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo stesso secondo tabelle prestabilite e i livelli di reddito sono aumentati nei casi in cui il nucleo familiare comprenda soggetti che si trovino nell’as¬soluta e permanente impossibilità di dedicarsi a proficuo lavoro, ovvero, se minorenni, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere compiti e funzioni proprie della loro età. L’importo quindi varia in base alla composizione del nucleo famigliare e in base al reddito, secondo le tabelle che vengono aggiornate annualmente.
Poiché si tratta di una prestazione previdenziale unica (con divieto di cumulo in capo ad entrambi i genitori), l’individuazione di chi tra i due genitori effettuerà la richiesta di autorizzazione alla cor-responsione, è riferibile all’accordo tra i coniugi.
Gli assegni familiari sono corrisposti anche ai lavoratori extracomunitari (esclusi quelli con con¬tratto di lavoro stagionale) o a quelli con permesso di soggiorno di lungo periodo, in genere per i familiari residenti in Italia ma in taluni casi anche per quelli residenti all’estero.
Il reddito del nucleo familiare è costituito, ai sensi del comma 9, dall’ammontare dei redditi com¬plessivi, assoggettabili all’Irpef, conseguiti dai suoi componenti nell’anno solare precedente il 1 luglio di ciascun anno ed ha valore per la corresponsione dell’assegno fino al 30 giugno dell’anno successivo. Alla formazione del reddito (ai fini dei limiti sopra indicati) concorrono i redditi di qualsiasi natura (anche quelli, quindi, da fabbricati o da terreni), ivi compresi quelli esenti da im¬poste e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva se superiori a 1.032,91 euro. Non si computano, invece nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati e le anticipazioni sui trattamenti stessi, nonché l’assegno al nucleo familiare.
L’attestazione del reddito del nucleo familiare è resa con dichiarazione, la cui sottoscrizione non è soggetta ad autenticazione. L’ente al quale è resa deve trasmetterne copia al comune di residenza del dichiarante.
L’assegno – che non concorre a formare la base imponibile dell’imposta – non spetta se la somma dei redditi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente è inferiore al 70 per cento del reddito complessivo del nucleo familiare. Il principio è quindi quello della necessaria prevalenza del lavoro dipendente sul reddito comples¬sivo. Quindi, per esempio, se un lavoratore ha redditi da lavoro dipendente oltre che immobiliari o mobiliari da investimenti soggetti alla ritenuta alla fonte per 30.000 euro annui complessivi, gli assegni familiari spettano solo se il reddito da lavoro dipendente è pari o superiore a 21.000 euro (cioè il 70% del reddito complessivo).
La legge 448 del 1998, agli art. 65 e 66, prevede l’erogazione di un “assegno familiare” (un sus¬sidio chiamato così, ma evidentemente diverso dalla categoria degli assegni familiari di cui si sta parlando) a favore dei nuclei familiari che si compongono di almeno tre figli minori.
II Gli assegni familiari in caso di separazione e divorzio
In caso di separazione o divorzio la disciplina giuridica dell’assegno al nucleo familiare ha la sua fonte nell’art. 211 della legge di riforma del diritto di famiglia.
L’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151, infatti, ha introdotto una norma specifica in materia di assegni familiari del seguente tenore: “Il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”.
La norma si riferisce al caso di affidamento esclusivo ad un genitore dei figli, che all’epoca era la forma unica di affidamento prevista. Vedremo più oltre cosa avviene in caso di affidamento (con¬diviso) ad entrambi i genitori.
La sopra richiamata Circolare del Ministero del Tesoro del 27 giugno 1988, n. 31, aveva interpre¬tato inizialmente la normativa sull’assegno al nucleo familiare (cioè l’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 convertito nella legge 13 maggio 1988, n. 153) prevedendo che l’assegno al nucleo familiare spettasse in caso di separazione solo nel caso in cui anche il genitore affidatario fosse stato lavoratore dipendente. Questo in quanto il “nucleo familiare” è, secondo la legge, quel¬lo composto dai coniugi, con esclusione di quello legalmente ed effettivamente separato. Questa interpretazione finiva per ledere quindi i diritti del genitore affidatario non lavoratore a seguito della separazione con ingiusta possibile perdita del diritto alla prestazione.
Nonostante l’interpretazione del Ministero del tesoro, la Circolare dell’Inps n. 48 del 19 febbraio 1992, sulla corresponsione della prestazione nei casi di separazione legale o divorzio, aveva affer¬mato il principio che il diritto attribuito dall’art. 211 al coniuge affidatario di percepire gli assegni familiari, spetta anche se lo stesso non sia “titolare di una propria posizione protetta” (rapporto di lavoro, pensione, ecc.). Si stabiliva, quindi, che l’assegno spetta sempre e comunque al coniuge af¬fidatario, e ciò perché, in caso di separazione “viene a costituirsi un nucleo familiare autonomo che fa capo al coniuge affidatario”. Così essendo, si dovrà verificare con riguardo al nucleo familiare del coniuge affidatario se ricorrano i requisiti reddituali necessari per l’ottenimento della prestazione.
Effettivamente in seguito anche il legislatore ebbe modo di interpretare nello stesso modo auten-ticamente la normativa, con l’art. 1, comma 559, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005) in cui si prevede che “l’assegno per il nucleo familiare viene erogato al coniuge dell’avente diritto…” e il D.M. del Lavoro e delle Politiche Sociali del 4 aprile 2005 ha previsto al primo comma che: “Il coniuge non titolare di un autonomo diritto alla corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare che intende esercitare il diritto di cui all’art. 1, comma 559, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, formula apposita domanda al datore di lavoro dell’altro coniuge (lavora¬tore) … che provvede alla corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare secondo le modalità indicate dal coniuge medesimo”. Il comma 4 successivo afferma, altresì, “Resta ferma la disciplina di cui all’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151”. Ed è anche questa, come si vedrà, la solu¬zione adottata in giurisprudenza.
Il titolare del diritto sembra quindi rimanere il coniuge lavoratore ma il diritto può essere richiesto dal coniuge affidatario (il cui nucleo familiare è quello di riferimento ai fini del reddito presupposto) che poi percepirà gli assegni familiari. La giurisprudenza, però, sembra propendere per l’attribu¬zione della stessa titolarità del diritto al coniuge affidatario ammettendo che il convenuto nella relativa causa sia non l’Inps ma il coniuge titolare della situazione protetta.
Quale che sia la soluzione teorica più plausibile, nel caso di genitore affidatario di figli, a seguito di separazione, fermo il criterio generale del divieto di cumulo dello stesso assegno in capo ad en¬trambi i genitori: a) l’assegno per il nucleo familiare può essere richiesto direttamente dal coniuge non titolare di una posizione protetta (cioè non lavoratore o non pensionato); b) il nucleo familiare ed il reddito di riferimento vanno determinati escludendo l’altro coniuge separato che del nucleo non fa più parte.
Nel caso di coniugi separati con affidamento esclusivo dei figli minori l’assegno va corrisposto all’affidatario. In tal caso il genitore affidatario è l‘unico soggetto legittimato a richiedere l’assegno per il nucleo familiare perché è solo intorno al genitore affidatario che si viene a formare il nuovo nucleo. Naturalmente il genitore separato, al fine di poter godere dell’attribuzione, è tenuto a di¬mostrare l’affidamento ad esso della prole (App. Genova Sez. lavoro, 29 marzo 2013 che ha ritenuto non sufficiente un verbale di separazione omologato in cui la modalità di affidamento non appariva specificata).
In caso di affidamento condiviso dei figli il soggetto legittimato alla percezione degli assegni fa¬miliari è il genitore con il quale i minori stessi convivono (Trib. Nocera Inferiore Ordinanza, 9 ottobre 2013 che, in un caso in cui la figlia minore coabitava con la madre ma era stata affidata congiuntamente ad entrambi i genitori, ha ritenuto la madre stessa legittimata a percepire gli assegni familiari).
L’assegno al nucleo familiare va comunque richiesto da uno solo dei due genitori ed è necessario l’accordo. Esattamente come avviene quando la famiglia vive unita. Sono, perciò, i genitori che devono stabilire, di comune accordo, chi dei due effettuerà la richiesta ai fini della corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare. In caso di mancato accordo, scatta il requisito della convivenza con il figlio, secondo quanto stabilito dall’art. 9 della Legge 903 del 1977.
La prescrizione in materia è quinquennale (Cass. civ. Sez. lavoro, 19 ottobre 2007, n. 21960).
III Il diritto in caso di affidatario non lavoratore
Come si è detto il diritto agli assegni familiari spetta al coniuge affidatario anche se non lavoratore dipendente (o non titolare di nessuna altra posizione protetta che dà diritto alla prestazione).
Secondo l’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151 infatti, come anche si è detto, il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, “sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”.
Il principio desumibile dall’art. 211 è, insomma, che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite del genitore (lavoratore dipendente) non affidatario.
Si tratta di un principio ribadito costantemente in molte decisioni (Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 dicembre 2004, n. 24204; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 marzo 2015, n. 6351; Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2017, n. 11569).
IV Gli assegni familiari nella famiglia di fatto
I principi sono esaminati valgono anche nel caso di filiazione fuori dal matrimonio.
Secondo Cass. civ. Sez. lavoro, 18 giugno 2010, n. 14783 il diritto all’assegno per il nucleo familiare compete anche in relazione ai figli riconosciuti nati nell’ambito di una coppia di fatto. Nel caso specifico si trattava di tre figli naturali di una coppia; il padre dei minori era ancora sposato con altra persona e l’Inps aveva eccepito che i figli non erano inseriti nel nucleo familiare del ri¬chiedente che era quello formalmente composto da lui e dalla moglie. La Corte accoglie il ricorso dell’uomo in quanto “la nozione di nucleo familiare delineata dal legislatore presuppone solamente la condizione di figlio naturale riconosciuto, e non anche l’inserimento nella famiglia legittima”.
In particolare la sentenza precisa che l’assegno per il nucleo familiare, istituito e regolato dal De¬creto legge n. 69 del 1988, spetta ai lavoratori dipendenti privati e pubblici, oltre ai pensionati, ed è commisurato al numero di componenti del nucleo familiare oltre che, ovviamente, all’entità del reddito percepito dall’avente diritto. In applicazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 818 del 1957, che specifica la composizione del “nucleo familiare”, sono da considerare componenti dello stesso, tra gli altri, i figli naturali legalmente riconosciuti che, ai sensi dell’art. 250 c.c., sono quelli ricono¬sciuti nei modi indicati dall’art. 254 c.c. dal padre o dalla madre, anche se uniti in matrimonio con persona diversa all’epoca del concepimento. La condizione di figlio naturale riconosciuto, peraltro, per quanto qui rileva, non è assolutamente inficiata dall’assenza di inserimento nella famiglia le¬gittima. Ebbene, la normativa sull’assegno familiare non richiede l’inserimento nell’ambito della famiglia legittima ma si limita a richiedere, ai fini del relativo riconoscimento, la condizione di figlio naturale per cui anche il soggetto coniugato e mai separato ma convivente con altra persona ha diritto alla percezione dell’assegno familiare per i figli naturali, minori, legalmente riconosciuti se prova che, essendo posti a suo carico, provvede al loro mantenimento.
L’argomento era stato anche trattato nella circolare Inps 6.8.2012 n. 104 in cui era stato da un lato chiarito che, nella impossibilità di un’applicazione estensiva ai casi di genitori naturali di quanto disposto per i genitori separati dall’art. 211 della legge n. 151 del 1975, il titolare della richiesta dei trattamenti di famiglia è sempre e solamente il genitore che lavora o che percepisce una retribuzione; e dall’altro che, in ragione delle esigenze di armonizzazione con principi co¬munitari, “dalla data di pubblicazione della presente circolare, le domande di autorizzazione e di richiesta del trattamento di famiglia sulla posizione di lavoro dell’altro genitore potranno essere presentate direttamente dai genitori naturali conviventi con la prole, anche se non titolari di pro¬pria posizione tutelata”.
In precedenza analogo orientamento era stato espresso da Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2000, n. 4419 dove si afferma che nel regime previsto dal decreto legge 13 marzo 1988 n. 69 (convertito con modifiche nella legge n. 153 del 1988) la convivenza non è richiesta quale presupposto perché sorga il diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare è sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio, che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli, tali essendo quelli nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio.
V I figli maggiorenni
Come si è detto il principio desumibile dall’art. 211 della legge di riforma del diritto di famiglia è che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite del genitore (lavoratore dipendente o pen¬sionato) non affidatario.
E’ possibile estendere le regole in questione al caso di figli maggiorenni sebbene per essi non è concepibile parlare di affidamento. In caso, perciò, di convivenza del figlio maggiorenne con uno dei genitori, gli assegni familiari possono essere richiesti dal genitore collocatario nei limiti con cui le norme prevedono l’attribuzione per i figli (e cioè, come detto, per i figli senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro ovvero per i figli studenti di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni).
VI Gli assegni familiari per i figli si aggiungono al contributo di mantenimento
Gli assegni familiari percepiti dal coniuge non affidatario si cumulano con il contributo per il man¬tenimento dei figli fissato in sede di separazione coniugale, salva l’eventuale diversa statuizione giudiziale o la diversa condizione pattuita in sede di separazione consensuale. D’altra parte – se¬condo quanto pacificamente si ritiene in dottrina e nella giurisprudenza costituzionale (per esem¬pio Corte cost., 3 aprile 1987, n. 98; Corte cost. 21 luglio 1988, n. 851; Corte cost. 27 luglio 1989, n. 458; Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42; Corte cost., 22 dicembre 1995, n. 516) – gli assegni familiari costituiscono una prestazione previdenziale, che compete al lavoratore, destinata proprio al sostentamento del nucleo familiare a suo carico, e non rappresenta una parte del trattamento stipendiale, pur essendo elargita sotto forma di integrazione della retribuzione.
Il principio fu per la prima volta affermato da Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1989, n. 5135 in caso di separazione il genitore affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211, della legge 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro genitore in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
E’ il coniuge cui sono affidati i figli, pertanto, che ha diritto a percepire gli assegni familiari per loro. Questi assegni dunque gli spettano ex lege e non in forza delle convenzioni stipulate tra le parti in sede di separazione consensuale. Ove gli assegni siano stati perciò percepiti dal genitore non affidatario e non versati al genitore affidatario, quest’ultimo ha diritto a richiederne la restituzione.
Molto chiara in proposito era stata in passato Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060 in cui, dopo l’affermazione che il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della L. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale, salvo che sia diversamente stabilito, precisa che in difetto di una specifica pattuizione, non si possono interpretare le condizioni di separazione personale relative al riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge affidatario dei figli come comprensive dell’importo degli assegni familiari spettanti al coniuge non affidatario per i figli, spettando per legge l’importo di tali assegni al coniuge affidatario.
Il principio è stato ribadito successivamente da Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 maggio 2013, n. 12770 dove si chiarisce ancora che il coniuge affidatario dei figli minori in sede di separazione coniugale, acquista ex lege, ai sensi dell’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151, il diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per i medesimi figli all’altro coniuge in virtu` del rapporto di lavoro di cui questi sia parte, in aggiunta ed indipendentemente dal tipo e dall’ammontare del contributo al mantenimento della medesima prole fissato in sede di separazione dal giudice o con¬venuto consensualmente, cumulandosi in ogni caso a questo.
L’orientamento è anche consolidato nella giurisprudenza di merito. Per esempio Trib. Bari Sez. I, 14 marzo 2017; Trib. Cagliari Sez. I, 12 luglio 2016; Trib. Cassino, 19 giugno 2007; Trib. Bari Sez. I, 1 agosto 2006; App. Cagliari, 14 maggio 1993, hanno tutte proprio precisato che il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendente¬mente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi o nel provvedimento di separazione (unica voce contraria in passato App. Brescia, 19 luglio 1990 che aveva ritenuto compresi gli assegna familiari nel contributo di mantenimento).
In un caso, tuttavia, in cui il padre naturale di una minore aveva omesso di versare l’assegno di mantenimento per la figlia ma aveva dato disposizioni al proprio datore di lavoro di corrispondere gli assegni familiari alla madre della minore Cass. pen. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44765 ha ritenuto (ma in punto di fatto) che non sussistesse il reato di violazione degli obblighi di assistenza.
Ovviamente quanto fin qui considerato vale soltanto con riferimento a ciò che il coniuge non affida¬tario percepisce come assegni per il figlio. Diversamente infatti stanno le cose per gli assegni che il lavoratore percepisca per il coniuge se da questi si sia separato giudizialmente o consensualmente. E’ indubbia, in questo caso, la titolarità della provvidenza in capo esclusivo al coniuge lavoratore onerato del mantenimento del coniuge separato. Manca a questo proposito una disposizione spe¬ciale quale quella ex art. 211 della legge 151/75, sì che valgono i principi generali. L’assegno per il coniuge è corrisposto al fine di consentire al lavoratore, a lui che ne è il solo titolare e l’unico che può percepirli, di far fronte al suo obbligo di mantenimento ex art. 143 e 156 (in caso di separazio¬ne) codice civile E’ dunque denaro suo e soltanto suo. Correttamente pertanto se nulla di diverso appare dalla pattuizione tra le parti o dalla statuizione giudiziale, si deve ritenere che anche di queste particolare entrata pecuniaria le parti o il giudice hanno tenuto conto quando hanno fissato il contributo che il coniuge deve dare all’altro coniuge per il mantenimento di questi.
Proprio in ragione di questa differenza di disciplina tra assegni familiari per i figli e per il coniuge ha indotto la dottrina a parlare di sistema a doppio binario.
VII Gli assegni familiari in caso di affidamento al servizio sociale
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. lavoro, 6 agosto 2003, n. 11876 qualora sia adottato dall’autorità giudiziaria un provvedimento di affidamento del minore al servizio sociale minorile e, per esso, all’azienda unità sanitaria locale, a norma dell’art. 26, ultimo comma, R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935, n. 835, e successive modificazioni [affidamento disposto dal tribunale per i minorenni in sede penale® disponendosi tuttavia che il minore resti collocato presso il proprio genitore naturale, quest’ultimo mantiene il diritto alla cor¬responsione degli assegni familiari per il minore stesso, per tutto il tempo di detto collocamento, dato che il provvedimento di affidamento non determina di per sé modifiche in ordine al dovere del genitore di mantenere il minore, come d’altra parte risulta anche dalla previsione dell’ art. 25, terzo comma, del medesimo R.D.L [cosiddetto affidamento in sede amministrativa], a norma del quale le spese di affidamento, benché anticipate dall’erario, restano comunque a carico del genito¬re; ne consegue che opera in tale ipotesi la presunzione di cui all’art. 5 del D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, in base alla quale i figli ed equiparati devono ritenersi a carico del capofamiglia quando convivano con lo stesso, realizzandosi, in caso di collocamento presso la famiglia di origine del minore affidato al servizio sociale, un’ipotesi di convivenza, con correlati oneri economici a carico del capofamiglia, salva la prova, incombente sul debitore dell’assegno per il nucleo familiare, che, nel caso concreto, la collocazione presso la famiglia non comporti per quest’ultima siffatti oneri.
Naturalmente il principio vale anche nell’ipotesi in cui l’affidamento sia disposto dal giudice non sulla base della normativa minorile sopra richiamata ma anche sulla base di provvedimenti del giudice in sede di separazione, divorzio o regolamentazione dell’affidamento di figli nati fuori dal matrimonio.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2017, n. 11569
La legge 19 maggio 1975, n. 151, art. 211, prevede che “il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”. La lettera della norma porta a ritenere che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in questione in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite di quello non affidatario.
Trib. Bari Sez. I, 14 marzo 2017
Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, a perce¬pire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale omologata a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
Trib. Cagliari Sez. I, 12 luglio 2016
Il coniuge affidatario del figlio minorenne, ha il diritto di percepire gli assegni familiari corrisposti, per il minore, all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte e ciò a prescindere dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale omolo¬gata a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
Cass. pen. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44765
Non integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare il comportamento del genitore naturale, lavoratore non affidatario, che spontaneamente, e in assenza di diversa specifica indicazione del giudice civile in sede di determinazione dell’assegno di mantenimento, dà disposizione al proprio datore di lavoro di corri¬spondere direttamente alla madre della figlia minorenne l’importo degli assegni familiari, giacché tali assegni concorrono ad integrare la somma alla cui periodica corresponsione lo stesso è obbligato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 marzo 2015, n. 6351
L’assegno per il nucleo familiare, disciplinato dall’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito in legge 13 maggio 1988, n. 153 – finalizzato ad assicurare una tutela in favore delle famiglie in stato di effettivo bisogno economico ed attribuito in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, tenendo conto dell’eventuale esistenza di soggetti colpiti da infermità o difetti fisici o mentali (e, quindi, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro) ovvero di minorenni che ab¬biano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età – ha natura assistenziale, sicché, ai sensi dei commi 2 e 6 dell’art. 2 cit., il reddito rilevante ai fini dell’ammontare dell’assegno è quello del nucleo familiare composto dal coniuge affidatario e dai figli, con esclusione del coniuge legalmente separato, anche se titolare del diritto alla corresponsione, il cui reddito rileva solo ai fini del diritto all’erogazione della provvidenza.
Trib. Nocera Inferiore Ordinanza, 9 ottobre 2013
Nel caso di affidamento condiviso di minori, il soggetto legittimato alla percezione degli assegni familiari è il genitore con il quale i minori stessi convivono.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 maggio 2013, n. 12770
Il coniuge affidatario dei figli minori in sede di separazione coniugale, acquista ex lege, ai sensi dell’art. 211 Legge 19 maggio 1975, n. 151, il diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per i medesimi figli all’altro coniuge in virtu` del rapporto di lavoro di cui questi sia parte, in aggiunta ed indipendentemente dal tipo e dall’ammontare del contributo al mantenimento della medesima prole fissato in sede di separazione dal giudice o convenuto consensualmente, cumulandosi in ogni caso a questo.
App. Genova Sez. lavoro, 29 marzo 2013
Il genitore separato dal coniuge, al fine di poter godere degli effetti di cui all’art. 211 della legge n. 151 del 1975, e dunque dell’attribuzione ad esso degli assegni familiari per i figli, è tenuto a dimostrare l’affidamento ad esso della prole. A tal fine non assume alcun rilievo la produzione del provvedimento di omologa della se¬parazione consensuale dal quale nulla si evince in merito all’affidamento, qualora carente del relativo accordo di separazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 giugno 2010, n. 14783 (Fam. Pers. Succ., 2010, 12, 827 nota di CORSO)
Il diritto all’assegno per il nucleo familiare compete anche in relazione ai figli riconosciuti nati nell’ambito di una coppia di fatto, senza che rilevi la circostanza che il genitore sia ancora legato in matrimonio con altra persona, atteso che la nozione di “nucleo familiare” delineata dal legislatore presuppone solamente la condizione di figlio naturale riconosciuto, e non anche l’inserimento nella famiglia legittima.
L’assegno per il nucleo familiare, istituito e regolato dal D.L. n. 69 del 1988, spetta ai lavoratori dipendenti privati e pubblici, oltre ai pensionati, ed è commisurato al numero di componenti del nucleo familiare oltre che, ovviamente, all’entità del reddito percepito dall’avente diritto. In applicazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 818 del 1957, che specifica la composizione del “nucleo familiare”, sono da considerare componenti dello stesso, tra gli altri, i figli naturali legalmente riconosciuti che, ai sensi dell’art. 250 c.c., sono quelli riconosciuti nei modi indicati dall’art. 254 c.c. dal padre o dalla madre, anche se uniti in matrimonio con persona diversa all’epoca del concepi¬mento. La condizione di figlio naturale riconosciuto, peraltro, per quanto qui rileva, non è assolutamente inficiata dall’assenza di inserimento nella famiglia legittima. Ebbene, la normativa sull’assegno familiare non richiede l’inserimento nell’ambito della famiglia legittima ma si limita a richiedere, ai fini del relativo riconoscimento, la condizione di figlio naturale per cui anche il soggetto coniugato e mai separato ma convivente con altra persona ha diritto alla percezione dell’assegno familiare per i figli naturali, minori, legalmente riconosciuti se prova che, essendo posti a suo carico, provvede al loro mantenimento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 ottobre 2007, n. 21960
In tema di assegni per il nucleo familiare, alla stregua del disposto dell’art. 2, comma 3, del d.l. n. 69 del 1988(convertito con modificazioni in legge n. 153 del 1988) che rinvia, per quanto non specificamente discipli¬nato, alle norme contenute nel testo unico in materia di assegni familiari approvato con d.P.R. n. 797/1995, la prescrizione quinquennale del relativo diritto decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale è compreso il periodo di lavoro cui l’assegno si riferisce. Conseguentemente ove, come nella specie, le quote di maggiorazione attengano all’assegno di invalidità, l’assicurato non incorre nella prescrizione ove richieda dette quote negli stessi tempi dell’assegno, e cioè contestualmente alla domanda amministrativa ovvero con il ricorso giudiziale diretto ad ottenere l’assegno stesso. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territo¬riale che aveva fatto decorrere la prescrizione quinquennale dalla data della sentenza pretorile di riconoscimento dell’assegno di invalidità, sul presupposto che solo a tale data la prestazione previdenziale rappresentasse il sessanta per cento del reddito familiare per gli anni dal 1986 al 1988, ritenendo tempestiva la domanda di attri¬buzione degli assegni presentata nell’aprile 1994).
Trib. Cassino, 19 giugno 2007
Ai sensi dell’art. 211, L. n. 151/1975, il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto alla percezione degli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui questi sia parte, indipendentemente dal contributo fissato, in sede di separazione consensuale omologata, per il mantenimento del figlio stesso, salvo diversa ed espressa pattuizione contenuta negli accordi di separazione. Nella specie, posto che l’accordo stragiudiziale con il quale le parti avrebbero convenuto la onnicomprensività del contributo di mantenimento non soltanto non risulta trasfuso nel decreto di omologa della separazione con¬sensuale, ma non è richiamato né nel ricorso per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, né nel verbale di udienza presidenziale, né, soprattutto, nella sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, e dal momento che le condizioni patrimoniali stabilite in sede di divorzio si sostituiscono integralmente a quanto in precedenza stabilito, deve ritenersi che nel contributo di mantenimento dovuto dal con
Trib. Bari Sez. I, 1 agosto 2006
Ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, è il coniuge cui sono affidati i figli che ha diritto di percepire gli assegni familiari per loro; b) detti assegni spettano, quindi, ex lege al coniuge affidatario, non già in forza delle convenzioni stipulate tra le parti in sede di separazione consensuale; c) il marito è, perciò, tenuto a corri¬spondere gli assegni familiari non come suo contributo al mantenimento dei figli, ma perché non fanno parte del suo reddito, bensì di quello della moglie; d) gli accordi presi in sede di separazione consensuale, hanno per oggetto la misura, ed il modo con cui il coniuge non affidatario deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, stabilendo cioè il quantum del concorso agli oneri (ex art. 148 c.c.) in proporzione alle ri¬spettive sostanze ed ai rispettivi redditi da lavoro; e) le pattuizioni della separazione consensuale, possono tener conto del fatto che uno dei coniugi percepisce gli assegni familiari per i figli, sia esso il coniuge affidatario o l’altro, al fine di stabilire eque modalità di concorso o di contributo, tenendo appunto conto dell’ammontare degli assegni familiari per i figli e di chi li percepisce materialmente; f) una simile valutazione deve però risultare chiaramente dalla convenzione o dalla motivazione giudiziaria, trattandosi di, due momenti logici ben distinti, relativi, l’uno, alla determinazione di quanto occorre per il mantenimento del figlio e di quanto occorre in specie oltre l’importo dell’assegno familiare corrisposto per lui, l’altro alla determinazione di quale debba essere il con¬tributo del coniuge non affidatario; g) ove questa valutazione non risulti, l’interprete deve considerare l’accordo per quello che è in sé, ovvero in termini di determinazione del contributo che il coniuge non affidatario deve ai fini del mantenimento del figlio. S.C. (testualmente in sent. n. 5060 del 2003).
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 dicembre 2004, n. 24204
Il lavoratore dipendente è titolare del diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare (così come disciplinato dal D.L. 13 marzo 1988, n. 69, convertito con modifiche nella legge 13 maggio 1988, n. 153) per i figli in rela¬zione ai quali provveda o contribuisca abitualmente al mantenimento, rimanendo irrilevante sia che i figli siano con lui conviventi, sia che, in caso di separazione personale, essi risultino affidati all’altro genitore in base agli accordi intervenuti in sede di separazione, in quanto il non essere affidatario non fa venir meno l’obbligo del genitore al mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060 (Lavoro nella Giur., 2004, 474 nota di SLATAPER)
II coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della L. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale, salvo che sia diversamente stabilito.
In difetto di una specifica pattuizione, non si possono interpretare le condizioni di separazione personale relative al riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge affidatario dei figli come comprensive dell’importo degli assegni familiari spettanti al coniuge non affidatario per i figli, spettando per legge l’importo di tali assegni al coniuge affidatario.
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 agosto 2003, n. 11876
Qualora sia adottato dalla competente autorità giudiziaria un provvedimento di affidamento del minore al servi¬zio sociale minorile e, per esso, all’Azienda unità sanitaria locale, a norma dell’art. 26, ultimo comma, R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935, n. 835, e successive modificazioni, disponendosi tuttavia che il minore resti collocato presso il proprio genitore naturale, quest’ultimo mantiene il diritto alla corresponsione degli assegni familiari per il minore stesso, per tutto il tempo di detto collocamento, dato che il provvedimento di affidamento non determina di per sé modifiche in ordine al dovere del genitore di mantenere il minore, come d’altra parte risulta anche dalla previsione dell’ art. 25, terzo comma, del medesimo R.D.L, a norma del quale le spese di affidamento, benché anticipate dall’erario, restano comunque a carico del genitore; ne consegue che opera in tale ipotesi la presunzione di cui all’art. 5 del D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, in base alla quale i figli ed equiparati devono ritenersi a carico del capofamiglia quando convivano con lo stesso, realiz¬zandosi, in caso di collocamento presso la famiglia di origine del minore affidato al servizio sociale, un’ipotesi di convivenza, con correlati oneri economici a carico del capofamiglia, salva la prova, incombente sul debitore dell’assegno per il nucleo familiare, che, nel caso concreto, la collocazione presso la famiglia non comporti per quest’ultima siffatti oneri.
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2000, n. 4419 (Giust. Civ., 2000, 2275 nota di BAGIANTI)
Nel regime posto dal d.l. 13 marzo 1988 n. 69 (conv. con modifiche nella l. n. 153 del 1988) la convivenza non è richiesta quale presupposto perchè sorga il diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare (composto dai coniugi e dai figli, compresi quelli naturali legalmente riconosciuti), ma rappresenta soltanto un elemento di fatto idoneo a comprovare presuntivamente il requisito della vivenza a carico, essendo sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio, sensibilmente diverso da quello agli assegni familiari, che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli. Nè è di ostacolo l’astratta configurabilità di due nuclei familiari in caso di genitori del figlio naturale non riconosciuto, i quali, non legati tra loro da coniugio, non facciano parte dello stesso nucleo familiare, atteso che comunque opera la prescrizione posta dall’art. 2, comma 8 bis, d.l. n. 69 del 1988, secondo cui, per i componenti del nucleo familiare al quale la prestazione è corrisposta, l’assegno stesso non è compatibile con altro assegno o diverso trattamento di famiglia a chiunque spettante.
Corte cost., 22 dicembre 1995, n. 516
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69, con¬vertito con modificazioni nella legge 13 maggio 1988, n. 153, impugnato, in riferimento all’art. 3 della Costi¬tuzione, nella parte in cui prevede che l’assegno per il nucleo familiare spetti ai titolari delle pensioni derivanti esclusivamente da lavoro dipendente, negando tale prestazione ai titolari di pensioni a carico di gestioni assicu¬rative per lavoratori autonomi, ma conseguite con utilizzazione, in misura prevalente, di contribuzione versata per lavoro dipendente, in quanto la trasformazione dell’istituto degli assegni familiari in quello dell’assegno per il nucleo familiare, disposta con una normativa non applicabile ai lavoratori autonomi, rende non irragionevole né incoerente la diversità, sotto questo profilo, dei regimi previdenziali goduti dalle due categorie di pensionati già lavoratori dipendenti e di pensionati già lavoratori autonomi.
App. Cagliari, 14 maggio 1993 (Riv. Giur. Sarda, 1996, 374 nota di OBINO)
Gli assegni familiari corrisposti al lavoratore subordinato per l’altro coniuge, se nulla al riguardo è stato espres¬samente pattuito dalle parti in sede di separazione consensuale, spettano a quest’ultimo, dovendosi ritenere che nella fissazione del contributo per il mantenimento, anche in considerazione del suo ammontare, non si sia tenuto conto di questa particolare entrata.
Il coniuge affidatario dei figli minorenni ha diritto, ai sensi dell’art. 211, l. 19 maggio 1975 n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per i figli all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento fissato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario.
Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42
L’omessa previsione, nella legge sugli assegni familiari, dell’ipotesi in cui il genitore risulti disoccupato senza indennità, e l’omessa equiparazione di tale ipotesi allo stato di abbandono – in cui è riconosciuto al figlio (mag¬giorenne) lavoratore il diritto agli assegni per fratelli o sorelle minori a carico – crea non soltanto un’irrazionale disparità di trattamento di situazioni omogenee, ma lede altresì i precetti costituzionali relativi alla tutela della famiglia. Pertanto, per contrasto con gli artt. 3, 31 e 38 Cost. va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del D.P.R. 30 maggio 1955 n. 797, comma secondo, lett. a) nella parte in cui, ai fini dell’attribuzione degli asse¬gni familiari, non prevede anche l’ipotesi dello stato di disoccupazione del padre senza indennità. N.B.: Massima redatta con riferimento al testo della decisione così come modificato dall’ordinanza di correzione n. 511 del 1990.
App. Brescia, 19 luglio 1990 (Giust. Civ., 1990, I, 2156)
L’art. 211, l. 19 maggio 1975, n. 151 – che attribuisce al coniuge, affidatario dei figli minori, il diritto a percepire i relativi assegni familiari, di cui sia titolare l’altro coniuge – opera una distrazione di tali somme dal beneficiario, titolare del rapporto di lavoro, al coniuge con il quale i figli stessi convivono; ne segue, per l’effetto, ove non sia diversamente disposto, che detti assegni non competono in aggiunta all’assegno per il mantenimento della prole come fissato dal tribunale nella sentenza di separazione, o concordato dai coniugi, in occasione della loro consensuale separazione.
Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1989, n. 5135 (Giust. Civ., 1990, I, 973)
Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211, l. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fis¬sato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione; gli assegni familiari per il coniuge, invece, in mancanza di una previsione analoga al cit. art. 211, spettano al lavoratore – cui sono corrisposti per consentirgli di far fronte al suo obbligo di mantenere il coniuge ex art. 143 e 156 c. c. – con la conseguenza che, se nulla al riguardo è stato pattuito dalle parti in sede di separazione consensuale (ovvero è stato stabilito dal giudice in quella giudiziale), deve ritenersi che nella fissazione del contributo per il mantenimento del coniuge si sia tenuto conto anche di questa particolare entrata.
Corte cost. 27 luglio 1989, n. 458
Posta anche la non comparabilità – per differenze di struttura e finalità della relativa disciplina – dei trattamenti previdenziali per carichi di famiglia dei pensionati già lavoratori autonomi e dei pensionati già lavoratori dipen¬denti, non appare irragionevole né arbitraria la scelta del legislatore – condizionata anche dalla ristrettezza delle disponibilità finanziarie – di limitare al solo settore del lavoro subordinato la maggiorazione degli assegni familiari con esclusione delle categorie del lavoro autonomo, le quali in ragione del reddito derivato dalla propria attività – rispetto alla retribuzione fissa dei lavoratori dipendenti – non sono gravate dai medesimi sacrifici di questi e sono in grado di difendersi dall’erosione inflazionistica.
Corte cost. 21 luglio 1988, n. 851
Le norme secondo le quali le quote di aggiunta di famiglia nonché ogni altro trattamento di famiglia comunque denominato cessano di essere corrisposte, ad iniziare da quelli di importo più elevato in relazione al reddito fami¬liare ed al numero delle persone a carico dei soggetti percettori, non contrastono a) con il principio di eguaglian¬za rappresentano o una scelta discrezionale del legislatore; b) con l’art. 31 della Costituzione non risultandone ostacolata la finalità di favorire l’adempimento dei doveri familiari; c) con l’art. 36 Cost. in considerazione della natura non retributiva dell’emolumento; d) con l’art. 53 Cost. perché i redditi debbono essere presi in consi¬derazione, agli effetti che qui interessano, come tali, a prescindere dal soddisfacimento degli obblighi tributari.
Corte cost. 3 aprile 1987, n. 98
Gli assegni familiari costituiscono una prestazione previdenziale cui il lavoratore o i suoi superstiti hanno diritto. Anche nel giudizio che i beneficiari sono costretti ad instaurare per ottenere gli assegni o, in genere, per dirimere un’eventuale contestazione – sempre che la lite non sia temeraria o manifestamente infondata – trova applicazio¬ne il beneficio dell’esonero dal pagamento delle spese processuali, di cui all’art. 152 disp. trans. c.p.c., ricorrendo nel caso, la stessa “ratio” di tale norma: quella di garantire al lavoratore la tutela giudiziale della sua fondata pretesa al conseguimento delle prestazioni previdenziali o assistenziali mediante l’esonero del pagamento delle predette spese, in caso di soccombenza.

PRESCRIZIONE (civile)

di Gianfranco Dosi

I. La prescrizione nell’ambito del diritto di famiglia
II. I diritti indisponibili (imprescrittibili)
a) I casi di azione e di intervento del Pubblico Ministero
b) Il regime primario contributivo
c) I provvedimenti riguardanti i figli minori
III. I diritti patrimoniali disponibili (imprescrittibili)
a) Diritti patrimoniali disponibili e imprescrittibilità
b) La tesi della giurisprudenza sulla indisponibilità
c) La tesi della giurisprudenza sulla disponibilità
d) Disponibilità e negozialità
e) La riforma del 2014 sugli accordi al di fuori dei tribunali
IV. Il principio in base al quale i diritti patrimoniali diventano prescrittibili dopo la loro regolamentazione legale
V. La prescrizione in materia di mantenimento coniugale e per i figli
a) Il mantenimento coniugale
b) Il mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti
c) L’azione di regresso in caso di riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio
VI. La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
VII. La prescrizione nelle azioni di status
I La prescrizione nell’ambito del diritto di famiglia
La prescrizione è un istituto generale disciplinato – insieme alla decadenza – nel titolo V del VI sesto libro del codice civile e le problematiche che vi sono connesse sono numerose.
Il principio di fondo che l’istituto richiama è quello secondo cui i diritti si estinguono se non vengono esercitati, in quanto il mancato esercizio ingenera nella collettività il convincimento che ad essi il titolare abbia rinunciato. E’ una questione di certezza nei rapporti giuridici. Fanno eccezione a questa regola “i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge” (art. 2934 c.c.), tra questi ultimi, per esempio, l’azione di rivendicazione della proprietà (art. 948 c.c.) e l’azione di nullità del contratto (art. 1422 c.c.) che non si estinguono mai e che sono, quindi, imprescrittibili.
In questa sede si tratteranno le questioni che, in tema di prescrizione, si pongono nell’ambito del diritto di famiglia dove valgono, tuttavia, i medesimi principi generali applicabili negli altri settori del diritto e cioè che la prescrizione comincia a decorrere da quando il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.); che è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina della prescrizione (art. 2936 c.c.); che si può rinunciare alla prescrizione solo dopo che questa si è compiuta (art. 2937 c.c.); che la prescrizione non può mai essere rilevata d’ufficio (art. 2938 c.c.) – al pari della decadenza (art.2969 c.c. il quale però precisa che il rilievo d’ufficio della decadenza è possibile per le materie sottratte alla disponibilità delle parti) – e che in ogni caso essa può sempre essere opposta dai creditori e da chiunque vi abbia interesse ove l’interessato non la faccia valere (art. 2939 c.c.); infine che l’adempimento spontaneo di un debito prescritto non consente l’azione di ripetizione (art. 2940 c.c.).
Nel contesto delle norme sulle persone e sulla famiglia una prima questione problematica, di carattere generale, è collegata al tema della imprescrittibilità dei diritti indisponibili (art. 2934, secondo comma, c.c.) che proprio nel diritto di famiglia costituiscono un’area particolarmente affollata. Si tratta di verificare quale sia in concreto nel diritto di famiglia la distinzione più plausibile tra diritti disponibili e diritti indisponibili per collegare solo a questi ultimi la loro imprescrittibilità. E in questa analisi non potrà non tenersi conto della rilevante incidenza apportata dalla normativa sulla negoziazione assistita che ha relativizzato la natura tradizionalmente indisponibile delle norme sui rapporti tra coniugi consentendo accordi di negoziazione anche in sede di separazione e divorzio con il solo intervento del Pubblico Ministero (art. 6, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162) e perfino accordi davanti all’ufficiale di stato civile, senza alcun intervento di controllo giudiziario (art. 12, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162)1.
La seconda area da indagare è costituita dal tema della prescrizione nel settore delle azioni di status della filiazione dove la riforma operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo di attuazione (D.Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) ha apportato notevoli e significative modificazioni.
Il terzo settore problematico è quello della sospensione della prescrizione in relazione alla qualità delle parti (art. 2941 c.c.), soprattutto della sospensione della prescrizione tra coniugi dove la giurisprudenza con alcune decisioni a sorpresa del 2014 ha apportato cambiamenti di rilevo rispetto a principi che apparivano ormai consolidati.
Ulteriore area problematica che verrà qui indagata è quella della prescrizione in materia di assegno di mantenimento trattandosi di un settore nel quale, anche a causa di alcune decisioni della giurisprudenza non del tutto lineari, si è creata qualche confusione che non ha reso sufficientemente intellegibile la disciplina.
Infine si parlerà delle interferenze tra la disciplina della prescrizione e quella della mediazione (art. 5, comma 6m D. Lgs 4 marzo 2010, n. 28) e della negoziazione assistita da avvocati (art. 8, D. L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella legge 10 novembre 2014, n. 162).
II I diritti indisponibili
a) I casi di azione e di intervento del Pubblico Ministero
Il diritto di famiglia, come si è accennato, costituisce certamente il settore nel quale tradizionalmente sono allocati i diritti indisponibili (che, quindi, sono imprescrittibili in base a quanto prevede l’art. 2934, secondo comma, c.c.).
Hanno certamente natura indisponibile e imprescrittibile i diritti per i quali è previsto il potere di azione (art. 69 c.p.c.) o il dovere di intervento (art. 70 c.p.c.) del Pubblico Ministero, considerati sintomatici dell’esistenza di diritti che la legge non lascia alla completa libertà dell’autonomia privata.
Il potere di azione del Pubblico Ministero è previsto in materia di famiglia nelle ipotesi di nomina di un curatore alla persona incapace (art. 79 c.p.c.), o in caso di scomparsa (art. 48 c.c.) e di morte presunta (art. 58 c.c.), per l’interdizione (art. 417 c.c.) o l’amministrazione di sostegno (art.406 c.c.), per l’annullamento del matrimonio contratto in violazione di legge (art. 117 c.c. nei limiti indicati dalla norma) o contratto dall’interdetto (art. 119 c.c. nei limiti indicati dalla norma), per la nomina di un curatore al minorenne in caso di inerzia dei genitori (art. 321 c.c.), per la richiesta di provvedimenti de potestate in materia di abusi della responsabilità genitoriale (art. 336 c.c.) o per la dichiarazione di adottabilità (art. 9, legge 4 maggio 1984, n. 183).
Il potere di intervento del Pubblico Ministero si esercita in tutte le cause in cui egli ha anche il potere di azione (art. 70, n. 1 c.p.c.), nelle cause matrimoniali, compresa la separazione dei coniugi (art. 70, n. 2 c.p.c.), nelle cause riguardanti lo stato o la capacità delle persone (art. 70, n. 3 c.p.c.) come la nullità e il divorzio.
Ogni volta che la legge prevede la presenza nella causa del Pubblico Ministero, sotto forma di potere di azione o di dovere di intervento, si è, quindi, necessariamente in presenza di un diritto indisponibile (e pertanto imprescrittibile).
Con la precisazione importante che, non essendovi impedimenti di natura costituzionale, al legislatore non è interdetto prevedere – come avvenuto con l’art. 6 e con l’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162 – che in presenza di determinate circostanze i rapporti personali e patrimoniali anche relativi ai figli e lo stesso status coniugale possano essere oggetto di autonomi accordi e di regolamentazione (con la separazione o con il divorzio) da parte dei coniugi anche senza passare per il tribunale ovvero direttamente davanti all’ufficiale di stato civile. Non si può non osservare in ogni caso che sia pure all’interno di precisi confini normativi qui la tradizionale indisponibilità dei diritti sullo status resta oggettivamente fortemente ridimensionata.
b) Il regime primario contributivo
L’art. 143 del codice civile dopo aver disposto nei primi due commi che con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri e che dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione, al terzo comma prevede che “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.
Simmetricamente l’art. 1, comma 11, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) dopo aver chiarito che con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri e che dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione, espressamente dispone che “Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”.
Il nostro sistema giuridico prevede, perciò, un’obbligazione contributiva a carico dei coniugi (tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia) e delle parti dell’unione civile (tenute a contribuire ai bisogni comuni) e dà per scontato che essa, sia pure sotto la forma del dovere morale, esita anche tra conviventi di fatto.
L’importanza fondamentale del principio contributivo2 è rimarcata dalla constatazione che esso fonda il regime primario della famiglia indipendentemente dal regime patrimoniale scelto. La solidarietà e la reciproca assistenza materiale sono alla base della stessa vita matrimoniale senza subire nessun condizionamento derivante dal regime secondario scelto per disciplinare la distribuzione della ricchezza.
Alla base del principio contributivo solennemente previsto nel terzo comma dell’art. 143 c.c. sta la regola fondamentale della parità del lavoro professionale (cioè del lavoro che produce redditi monetari) e di quello casalingo (domestico), quest’ultimo da intendersi come il lavoro di cura della famiglia e dei figli prestato nell’ambito della vita familiare, in via esclusiva o aggiuntiva rispetto al lavoro professionale. Le condizioni e il tenore di vita della famiglia dipendono dalla distribuzione dei compiti attraverso i quali i coniugi realizzano l’obbligazione contributiva.
Il dovere di contribuzione (giuridico per i coniugi e per le unioni civili e morale per i conviventi di fatto) è quindi strettamente collegato al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) ed ha natura di diritto indisponibile. Tutto il regime primario è per forza di cose indisponibile.
I coniugi possono, invece, liberamente determinare, modificare e regolamentare il proprio regime patrimoniale coniugale che è questione che attiene non al regime primario (contributivo) ma al regime secondario (distributivo) del matrimonio, cioè alle modalità con cui i coniugi scelgono di distribuire la futura ricchezza. L’espansione dell’autonomia privata è qui riconosciuta ampiamente nei limiti, s’intende, che la legge stessa dichiara non superabili (art. 160 c.c. che esclude la derogabilità ai diritti e ai doveri – sostanzialmente richiamati dall’art. 143 c.c. – previsti dalla legge per effetto del matrimonio). Pertanto anche le controversie che hanno ad oggetto l’adempimento o l’attuazione dei regimi patrimoniali di tipo secondario – si pensi alla divisione dei beni in comunione (articoli 191, 192 c.c.) o all’accertamento delle rispettive proprietà in regime di separazione dei beni (art. 219 c.c.) – sono controversie su diritti disponibili (possibile oggetto di mediazione e di negoziazione) soggetti alla prescrizione ordinaria, tenendo naturalmente presente che tra i coniugi prescrizione è sospesa (art. 2941 c.c.).
c) I provvedimenti riguardanti i figli minori
La giurisprudenza costituzionale nell’ambito delle procedure della crisi familiare ha sempre ritenuto obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero (Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416; Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214) a riprova che tale intervento è sintomatico dell’esistenza di diritti indisponibili. Ed è certamente questo miminum di garanzia che ha indotto il legislatore a mantenere tale controllo sugli accordi negoziati tra coniugi in presenza di figli a carico (art. 6 e con l’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162).
Già nel 1985 una prima sentenza storica della Corte costituzionale (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185) ebbe a chiarire che era da escludere che fosse costituzionalmente illegittima l’omessa previsione della nomina di un curatore speciale per la rappresentanza in giudizio dei figli minori, nei procedimenti contenziosi relativi allo scioglimento (od alla cessazione degli effetti civili) del matrimonio ed alla separazione dei coniugi, “dovendosi ritenere idonee e sufficienti alla tutela degli interessi dei predetti minori nei procedimenti suindicati, le misure già previste in loro favore (intervento obbligatorio in giudizio del Pubblico Ministero, amplissime facoltà istruttorie del giudice, potere del collegio di decidere, in ordine ai provvedimenti relativi alla prole, ultra petitum). Gli stessi principi vennero in sostanza ribaditi in due successive sentenze della corte costituzionale. Una prima volta (Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416) nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 710 del codice di procedura civile, anche nel testo novellato dalla legge 29 luglio 1988, n. 331, che non prevede(va) l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero nei procedimenti di modificazione dei provvedimenti riguardanti i figli minori in caso di separazione personale tra coniugi, essendo invece tale intervento prescritto nei procedimenti di modificazione dei provvedimenti riguardanti i figli minori in caso di divorzio dall’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898; la Corte precisò in quella occasione che l’intervento del Pubblico Ministero nel caso di modifica dei provvedimenti relativi ai figli minori di genitori divorziati risponde alla particolare esigenza di tutela di questi ultimi (come già rimarcato da questa Corte nella sent. n. 185 del 1986 con riguardo più in generale ai giudizi per lo scioglimento del matrimonio e per la separazione fra coniugi) ed analogo (se non ancor più pressante) interesse sussiste nel caso dei provvedimenti modificativi delle condizioni della separazione riguardanti la prole. In entrambe le ipotesi la “ratio” ispiratrice è “l’esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”. Nella seconda sentenza (Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214) la questione discussa era stabilire se nelle controversie tra genitori non coniugati, per l’adozione dei “provvedimenti relativi ai figli”, debba intervenire il Pubblico Ministero, similmente a quanto prescritto dai citati art. 9 della legge n. 878 del 1970 e art. 710 del codice di procedura civile. La risposta fu positiva e la questione di costituzionalità venne ritenuta fondata in quanto il parametro costituzionale (art. 30, comma terzo, Cost.), correttamente invocato, effettivamente postula che ai figli nati fuori dal matrimonio sia assicurata tutela uguale a quella attribuita ai figli legittimi, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima. Ed appunto l’intervento del Pubblico Ministero, nei giudizi tra coniugi (separati o divorziati) che comportino provvedimenti relativi ai figli, innegabilmente risponde – come del resto già ritenuto con sentenza n. 416 del 1992 – ad una particolare esigenza di tutela degli interessi di questi ultimi. Identica tutela va quindi garantita ai figli nati fuori dal matrimonio, non ricorrendo, nella specie, ragione alcuna di incompatibilità, ostativa ad una siffatta equiparazione. Venne pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70 del codice di procedura civile nella parte in cui non prescrive l’intervento del Pubblico Ministero nei giudizi tra genitori naturali che comportino l’adozione di “provvedimenti relativi ai figli”.
Espressione della tutela è nell’art. 158 c.c. la previsione del possibile rifiuto di omologazione degli accordi ritenuti contrastanti con l’interesse dei figli.
La tutela si estende alla previsione della possibile impugnazione da parte del Pubblico Ministero dei provvedimenti concernenti i figli (art. 5, comma 5, della legge sul divorzio).
III I diritti patrimoniali disponibili (e imprescrittibili)
a) Diritti patrimoniali disponibili e imprescrittibilità
Il fatto che i diritti indisponibili siano certamente imprescrittibili (art.2934, secondo comma, c.c.) non comporta che i diritti disponibili debbano essere per forza di cose tutti prescrittibili. Il secondo comma dell’art. 2934 include tra i diritti imprescrittibili anche “gli altri diritti indicati dalla legge”. Se si leggono l’art. 156 c.c. e l’art. 5, comma 8, della legge sul divorzio nonché l’art. 710 c.p.c. e l’art. 9 della legge sul divorzio, ci si avvede che le parti possono sempre chiedere un assegno di separazione o divorzile. Il che vuol dire che il diritto all’assegno di separazione o di divorzio è imprescrittibile. Da questo però non deriva che debba anche essere un diritto indisponibile.
Il regime primario contributivo indisponibile si trasforma in diritto patrimoniale disponibile in sede di separazione (in vista o nel corso della separazione) e in sede di divorzio (in vista e nel corso del divorzio). In mancanza di accordi sarà il giudice a decidere.
In effetti la dottrina più sensibile alla valorizzazione dell’autonomia privata ha in passato più volte affermato l’inclusione, nell’area della disponibilità, dei diritti patrimoniali connessi ai regimi secondari e dei diritti patrimoniali postconiugali.
La tesi è stata proposta più volte soprattutto nell’approfondimento dei contratti della crisi coniugale, ritenendosi che la possibilità offerta dal legislatore ai coniugi di accordarsi sul loro assetto patrimoniale post-matrimoniale (di separazione o di divorzio) debba essere considerato indizio chiaro della piena autonomia privata e quindi di una sostanziale disponibilità dei diritti.
b) La tesi della giurisprudenza sulla indisponibilità
La giurisprudenza nel suo complesso tende ancora a connotare il tema dell’assegno di separazione e di divorzio in chiave di indisponibilità derivante dalla natura assistenziale dell’assegno, traendone anche la conseguenza della irrinunciabilità. (Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076). In questi casi si afferma in sostanza il principio che gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa “avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo”.
La connotazione del diritto all’assegno come diritto indisponibile serve alla giurisprudenza per giustificare la non liceità dei patti transattivi preventivi di divorzio.
c) La tesi della giurisprudenza sulla disponibilità
La tesi invece della piena e valida negozialità tra coniugi sui diritti patrimonialità coniugali stata sostenuta da Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 e da Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319, che l’hanno affermata nell’ambito di due decisioni in cui si è sostenuta l’inammissibilità dell’impugnazione della separazione consensuale per simulazione. Nelle premesse si afferma che la questione “investe i delicati problemi relativi alla natura giuridica dell’accordo che sorregge la separazione consensuale, al rapporto tra siffatto accordo ed il decreto di omologazione, alla natura e funzione dell’intervento giurisdizionale. Tali problemi – precisano – hanno lungamente impegnato la dottrina e la giurisprudenza di merito, anche per le implicazioni in ordine alla possibilità di revoca del consenso alla separazione prima del provvedimento di omologazione, ed hanno trovato negli anni soluzioni diverse, ritenendosi da alcuni, orientati per una impostazione pubblicistica dell’istituto, che il consenso costituisca mero presupposto del provvedimento giudiziale, cui va attribuito il ruolo di unico fatto costitutivo della separazione, configurandosi da altri la separazione consensuale come fattispecie a formazione progressiva, nell’ambito della quale consenso dei coniugi ed omologazione del tribunale costituiscono elementi parimenti necessari e concorrenti per il conseguimento dello stato di coniuge separato, sostenendosi ancora da altri, nell’ambito di una prospettiva privatistica della fattispecie, ispirata ad una accentuata valorizzazione dell’autonomia dei coniugi, desunta dall’intero sistema delle relazioni matrimoniali tracciato nella legge di riforma del diritto di famiglia, che la causa della separazione sta nella volontà dei coniugi, mentre l’omologazione agisce come mera condizione legale di efficacia dell’accordo. Tale ultima posizione – si legge – appare condivisa dalla più recente giurisprudenza di legittimità, orientata nel senso che la separazione trova la sua unica fonte nel consenso manifestato dai coniugi dinanzi al presidente del tribunale e che la successiva omologazione è unicamente diretta ad attribuire efficacia dall’esterno all’accordo di separazione, assumendo la funzione di condizione sospensiva della produzione degli effetti delle pattuizioni stipulate tra i coniugi, già integranti un negozio giuridico perfetto ed autonomo. A fondamento di detto orientamento – che deve essere in questa sede riaffermato – si è richiamato il chiaro tenore letterale del primo comma dell’art. 158 c.c. e del quarto comma dell’art. 711 c.p.c. In tale prospettiva questa Corte ha in più occasioni qualificato l’accordo di separazione come atto essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, tanto da definirlo, riprendendo una efficace espressione della dottrina, come uno dei momenti di più significativa emersione della negozialità nel diritto di famiglia (così Cass. 1994 n. 657, 1993 n. 2270; v. altresì, sulla definizione della separazione consensuale come negozio di diritto familiare, Cass. 1997 n. 4306; 1991 n. 2788; nonché la più remota Cass. 1978 n. 4277, che ha ricondotto l’accordo alla categoria dei negozi o convenzioni di diritto familiare. Una linea di tendenza nel senso del riconoscimento del pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi e dell’espansione della sfera di operatività dell’autonomia privata anche in relazione ai negozi di diritto familiare è peraltro chiaramente ravvisabile nella giurisprudenza di questa sezione orientata a riconoscere, entro determinati e penetranti limiti ed in termini differenziati, la validità degli accordi non trasfusi nell’accordo omologato e di quelli successivi all’omologazione. Negli accordi si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclusione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma ed in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi momenti ed aspetti della dinamica familiare.
Gli accordi tra coniugi quindi sono pienamente validi anche prima dell’omologazione che gli attribuisce efficacia.
Ora, poiché un accordo non sarebbe possibile in materia di diritti indisponibili (si veda per esempio l’art. 1966, secondo comma, c.c. sulla nullità della transazione avente ad oggetto diritti indisponibili) o se contrario a norme imperative (art. 1418 c.c.), ne risulta che la Corte di cassazione in queste decisioni e in quelle in esse richiamate ritiene del tutto valido un accordo anche a prescindere dall’omologazione. La negozialità esclude, insomma, l’indisponibilità.
d) Disponibilità e negozialità
La sostanziale disponibilità dei diritti patrimoniali post-coniugali è confermata quindi dalla loro possibile negozialità.
Per questo la giurisprudenza ritiene che le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c. possono ritenersi valide ed efficaci anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall’art. 710 c.p.c. sia pure a condizione che non violino diritti fondamentali delle persone (Cass. sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20290) e ugualmente anche i patti a latere della separazione o antecedenti non omologati sempre a condizione che non siano lesivi dei diritti primari connessi al rapporto coniugale (Cass. sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829; Cass. sez. I, 22 aprile 1982, n. 2481).
L’esclusione della validità degli accordi predivorzili (sia pure con qualche significativa apertura più recente: Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713 Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304) è stata predicata più volte in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2000, n. 15349; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109; Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1997, n. 5244; Cass. civ. Sez. I, 06/12/1991, n. 13128; Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 1991, n. 9840) collegata, però, non solo alla ritenuta natura assistenziale dell’assegno ma anche alla possibile violazione del diritto di difesa che ne deriverebbe per il soggetto che con la sottoscrizione dell’accorso rinuncia di fatto a difendersi in modo diverso nella futura causa di divorzio. In altra parte3 si è affrontato il tema dei limiti di validità dei patti prematrimoniali e specificamente della rinuncia all’assegno divorzile (che trova confine insormontabile nel diritto agli alimenti ove sopraggiunga uno stato di bisogno) negli ordinamenti dove tali patti sono disciplinati ed anche nelle proposte di legge in materia presentate in Parlamento.
3 Cfr la voce ACCORDI PREMATRIMONIALI
e) La riforma del 2014 sugli accordi possibili al di fuori del tribunale
La tesi tradizionale della natura indisponibile dei diritti (personali e patrimoniali) collegati allo status coniugale è stata fortemente incrinata, come si è detto, dalla normativa sulla negoziazione assistita (articoli 6 e 12, D. L. 12 settembre 2014, n. 132, nel testo modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162). Secondo l’art. 6 della nuova normativa la convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati può essere conclusa tra i coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione o di divorzio (nella sola ipotesi di divorzio richiesto dopo la separazione) ovvero per accordarsi su una modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Il decreto legge 132/2014 prevedeva la limitazione della negoziazione assistita alle sole separazioni o divorzi tra coniugi senza figli. La legge di conversione ha esteso la negoziazione assistita anche alle ipotesi di separazione e divorzio (e rispettivi procedimenti di modifica) con figli minori o non autosufficienti economicamente e questa estensione ha costituito certamente la componente più eversiva rispetto ai principi tradizionali. La legge prevede il passaggio (non in tribunale ma) nell’ufficio del Pubblico Ministero chiamato ad autorizzare l’accordo di separazione nel caso in cui vi siano figli a carico (se l’accordo viene ritenuto non in contrasto con i diritti dei figli) e a rilasciare un nulla osta nel caso in cui non ve ne siano.
Con questa riforma l’autonomia privata trova nel diritto di famiglia una valorizzazione piena che mette il giurista di fronte al problema di una ridefinizione complessiva dei limiti e dei confini tradizionali dell’indisponibilità dei diritti nell’ambito del diritto di famiglia.
Decisamente eversiva dei principi generali in materia di indisponibilità dello status coniugale è la normativa prevista nell’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, nel testo modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162. Con tale norma si è introdotta la possibilità per i coniugi di chiedere congiuntamente la separazione, il divorzio (limitatamente al divorzio che consegue alla separazione) ovvero la modifica di condizioni di separazione e di divorzio direttamente rivolgendosi, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, agli uffici di stato civile del Comune di residenza di uno di loro o di quello in cui è stato iscritto o trascritto il matrimonio. L’unica condizione è che non vi siano figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti. L’ufficiale di stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate ovvero che intendono modificare le condizioni di separazione o di divorzio. L’atto contenente l’accordo – che vale come se fosse una decisione del tribunale – è compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni. Nell’accordo può anche essere indicata la misura di un assegno di separazione o di divorzio.
La portata eversiva dei principi in tema di indisponibilità dei diritti coniugali, specificamente quelli sullo status coniugale, è molto evidente. La possibilità che viene lasciata ai coniugi di procedere alla separazione o al divorzio senza l’intervento del tribunale costituisce decisamente un elemento di novità molto significativo che rimette in discussione i confini tradizionali dell’autonomia privata nel diritto di famiglia.
IV Il principio in base al quale i diritti diventano prescrittibili dopo la loro regolamentazione legale
Una volta intervenuto il provvedimento che definisce il contenzioso tra le parti o che attribuisce piena validità agli accordi raggiunti (decisione giudiziaria, decreto di omologa, sentenza su accordo delle parti anche relativo all’una tantum, registrazione all’ufficio di stato civile dell’accordo di separazione o divorzio tra i coniugi) i diritti patrimoniali si trasformano da diritti (disponibili) imprescrittibili in diritti (disponibili) prescrittibili.
Il diritto imprescrittibile al mantenimento, una volta che la decisione del giudice o l’accordo legale hanno dichiarato la spettanza dell’assegno e lo hanno quantificato nel suo importo periodico, si trasforma in un diritto prescrittibile. Nello specifico prescrittibile nel termine di cinque anni previsto per “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” (art. 2948 c.c.).
Il fenomeno della trasformazione in diritto prescrittibile si verifica anche per i diritti indisponibili (per esempio quelli relativi al mantenimento dei figli) dopo la regolamentazione che ne ha fatto il giudice o che gli interessati hanno concordato.
V La prescrizione in materia di mantenimento coniugale e per i figli
a) Il mantenimento coniugale
Il diritto imprescrittibile all’assegno di separazione o di divorzio si trasforma con la decisione legale in diritto quantificato che una parte può pretendere anche coattivamente dall’altra. La prescrizione è certamente quinquennale se il mantenimento è costituito da un assegno periodico (art. 2048 c.c.: “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”) mentre sarà decennale se si tratta di una corresponsione in unica soluzione (art. 2946 c.c.: “salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”) non essendo rinvenibili nella disciplina della prescrizione indicazioni diverse.

Nel caso di assegno periodico la decorrenza della prescrizione, cioè il dies a quo dal quale decorre il termine prescrizionale, è quello delle singole scadenze periodiche “in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a ciascun adempimento” (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975); ove invece si trattasse di un assegno una tantum il termine prescrizionale non potrebbe che decorrere dalla decisione (imposta o concordata) che lo ha previsto. Per ogni altra pretesa tra coniugi vale il principio generale secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (art. 2935 c.c.) e sempre che non si verifichi quanto dispone in materia risarcitoria da fatto illecito (dove la prescrizione è di cinque anni) l’ultimo capoverso dell’art. 2947 c.c. per l’ipotesi in cui il fatto illecito costituisca reato: in tal caso troverà applicazione l’eventuale più lungo periodo di prescrizione stabilito per il reato.
b) Il mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti
In caso di procedimenti relativi ai figli minori o maggiorenni non autosufficienti il giudice è titolare di un potere-dovere improntato alla tutela dell’interesse superiore del figlio e perciò il diritto al mantenimento del figlio (art. 315-bis c.c.) ha certamente, come si è detto, natura di diritto indisponibile (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196; Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022; Cass. sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043). Pertanto anche in questo caso il diritto al mantenimento non è soggetto a prescrizione.
Anche per quanto concerne il mantenimento dei figli minori è opportuno ancora una volta ribadire che il diritto al mantenimento fa parte del regime primario familiare (art. 143,147 e 148 c.c.) e che pertanto configura un sistema di norme, principi e diritti indisponibili e imprescrittibili. Tuttavia, come si è sopra detto, dopo che il diritto al mantenimento è stato regolamentato in sede legale (sentenza, omologa, registrazione all’ufficio di stato civile dopo la negoziazione assistita) il diritto così determinato diventa prescrittibile. Pertanto anche in materia di assegno periodico per i figli minori valgono le stesse regole sopra viste. Si tratta di una corresponsione periodica per la quale trova applicazione il termine prescrizionale di cinque anni dalle singole scadenze (art. 2948 c.c.) entro il quale il genitore titolare del potere di pretendere l’assegno deve richiederlo (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975).
Come si è fatto notare in dottrina, con riferimento al mantenimento dei figli – ma con considerazioni pienamente valide anche per il mantenimento coniugale – l’art. 2948 c.c. è inteso soprattutto a liberare in tempo relativamente breve il debitore tenuto a prestazioni periodiche per effetto di una causa debendi unica e continuativa. Il titolo che fonda i versamenti periodici è la sentenza del giudice. La prescrizione quinquennale si riferisce alle obbligazioni (periodiche) cioè a quelle caratterizzate dal fatto che la prestazione è suscettibile di adempimento solo col decorso del tempo, in modo che solo con il protrarsi dell’adempimento nel tempo può essere soddisfatto l’interesse del creditore attraverso più prestazioni, aventi un titolo unico, ma ripetute nel tempo ed autonome le une dalle altre. Pertanto il titolo è unico ma l’adempimento è periodico. Perciò mentre il diritto ad ottenere il titolo è imprescrittibile, il diritto successivo alla pretesa del mantenimento periodico si prescrive in cinque anni dalle singole scadenze. In questa linea sono, come già detto, Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975, Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 e Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 dove si legge che in tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, distinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Nella giurisprudenza di merito si sono adeguati all’orientamento consolidato sulla prescrizione quinquennale Trib. Milano Sez. III, 9 giugno 2012, Trib. Monza Sez. III, 16 settembre 2010, Trib. Trani, 22 aprile 2009 nonché Trib. Napoli, 28 gennaio 2000 e Trib. Roma Sez. I, 5 luglio 2011 che affrontano, giungendo a conclusioni contrastanti, anche il tema della conversione ex art. 2953 c.c. del termine prescrizionale quinquennale in quello decennale allorché sopraggiunga una sentenza di condanna passata in giudicato4: la decisione del tribunale di Napoli applica il principio della conversione anche alle sentenze di separazione mentre la decisione del tribunale di Roma lo esclude. In effetti sembra del tutto logico escludere la conversione nel caso delle sentenze confermative di obbligazioni di mantenimento dal momento che ne deriverebbe sempre inevitabilmente la disapplicazione pacifica del termine quinquennale di prescrizione ma soprattutto perché la sentenza di condanna non modifica la natura periodica dell’obbligazione.
Proprio a proposito della conversione del termine quinquennale in quello più lungo che segue alle sentenze (penali) di condanna viene spesso citata una decisione la cui affrettata lettura può portare a considerazioni errate relativamente alla prescrizione quinquennale dell’assegno di mantenimento. Si tratta di Cass. civ. Sez. III, 12 settembre 2005, n. 18097 che ha escluso che possa invocarsi la conversione prevista dall’art. 2953 c.c. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna escludendo, quindi, la conseguente applicabilità del termine di ordinaria prescrizione decennale. Si legge nella decisione che “la sentenza penale passata in giudicato che, ai sensi dell’art. 570 cod. pen. condanni l’obbligato in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento con riferimento ai mesi per i quali fu sporta
4 Art. 2953 c.c “I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”.

denunzia penale comporta che sono soggetti a prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. soltanto i crediti oggetto del giudicato penale e non anche quelli successivi a tale data. Infatti tali prestazioni, avendo natura periodica, sono assimilabili alla nozione di “pensioni alimentari” e soggette alla prescrizione quinquennale decorrente dalle singole scadenze, in relazione alle quali sorge l’interesse all’adempimento”. Nella vicenda che fa da sfondo alla sentenza un coniuge era stato condannato penalmente per non aver corrisposto gli assegni stabiliti in sede civile. Il diritto al mantenimento scaturente dalla sentenza civile si sarebbe prescritto quindi secondo l’articolo 2948 c.c. in cinque anni dalle singole scadenze periodiche. Sennonché la sentenza di condanna penale rendeva applicabile il termine più lungo previsto nell’art. 2953 c.c. Pertanto correttamente i giudici hanno applicato il termine lungo prescrizionale per i diritti sui quali era intervenuto il giudicato penale ma non per quelli successivi per i quali riprendeva a valere la prescrizione quinquennale dalle scadenze periodiche. La sentenza appare del tutto corretta ma nella massima ufficiale che la sintetizza si parla di “prescrizione quinquennale del mantenimento” e per questo la sentenza viene utilizzata talvolta a sproposito per paralizzare la pretesa creditoria ultraquinquennale del diritto al mantenimento dei figli minori quando anche quando ancora manca un titolo che lo stabilisca, non considerando (o semplicemente ignorando) che la sentenza 18097/2005 fa riferimento ad una vicenda in cui il giudice aveva già stabilito con sentenza il diritto al mantenimento. L’azione con cui si chiede il mantenimento a favore di un figlio può iniziare fino a che non sia prescritto il relativo diritto (e fino all’autosufficienza del figlio il diritto è imprescrittibile) ma la prescrizione diventa quinquennale solo dopo la sentenza dal momento che il mantenimento stabilito in sentenza deve essere corrisposto a scadenze periodiche.
Corretta invece appare, sullo stesso punto, la decisione di Trib. Palermo Sez. I, 13 aprile 2011 nella quale si chiarisce che poiché la sentenza penale di condanna concerne esclusivamente i ratei dell’assegno di mantenimento non pagati, per i quali sia stata sporta denuncia penale, consegue che si sottraggono alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2953 c.c. rimanendo assoggettati alla prescrizione decennale solo i crediti per i quali sia stata sporta denuncia e non anche quelli maturati successivamente a tale data.
c) L’azione di regresso in caso di riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio
Nl caso di riconoscimento tardivo di un figlio nato fuori dal matrimonio il genitore che intende promuovere iure proprio un’azione di regresso di mantenimento nei confronti del genitore inadempiente è soggetto alla prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. anche se è discussa in giurisprudenza la decorrenza di tale prescrizione. Secondo la Corte di cassazione il diritto di regresso è collegato al giudicato (pur potendo la domanda di regresso essere azionata contestualmente a quella di riconoscimento giudiziale della genitorialità: Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17914) e pertanto la decorrenza della prescrizione decennale non può che essere quella del giudicato sullo status (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596, Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124). In altre parole pur avendo l’accertamento della filiazione natura dichiarativa, la pronuncia sullo status manterrebbe la sua efficacia costituiva dei diritti patrimoniali conseguenziali. In consapevole contrasto con questo orientamento si è posta una pronuncia del tribunale di Roma (Trib. Roma, Sez. I, 1 aprile 2014) la quale, prendendo spunto dall’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’obbligazione di mantenimento decorre dalla nascita indipendentemente dall’accertamento della genitorialità (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5633) ha ritenuto che la prescrizione dell’azione di regresso, che spetta al genitore che ha sostenuto in via esclusiva sin dalla nascita gli oneri del mantenimento del figlio, decorre dal momento in cui ogni singola spesa è stata effettuata e non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza sullo status. Questo perché, avendo il genitore, la facoltà di azionare il diritto al regresso anche prima che sia promosso l’accertamento della genitorialità, non sarebbe giusto addossare al genitore che tardivamente viene ritenuto tale il peso economico di pretese creditorie che potrebbero anche essere molto lontana nel tempo. Altre decisioni di merito (lo stesso Trib. Roma Sez. I, 17 settembre 2013 e Trib. Benevento, 22 gennaio 2008 hanno, però, ritenuto di doversi adeguare all’orientamento prevalente della Cassazione circa la decorrenza del termine prescrizionale dal giudicato sullo status.
VI La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
L’art. 2941 c.c. prevede che la prescrizione rimane sospesa in relazione a particolari rapporti tra le parti, per esempio tra i coniugi, tra chi esercita la responsabilità genitoriale e le persone minori che vi sono sottoposte, tra il tutore e il minore ed altre ipotesi. Insomma tutte le volte in cui per la particolare relazione che sussiste tra le parti non si può pretendere che una di esse agisca nei confronti dell’altra. L’istituto della sospensione in questi casi serve a conservare in capo ad una parte il potere di agire finché dura la relazione in questione.
Il termine è certo per quanto riguarda la relazione di responsabilità genitoriale tra il genitore e il minore e quella di tutela tra il tutore e il minore ed è il raggiungimento della maggiore età del soggetto incapace.
In passato si riteneva che anche nel caso della sospensione tra coniugi il termine fosse certo e che coincidesse con il divorzio. Fino al giudicato di divorzio insomma due coniugi rimangono tali e pertanto fino al giudicato di divorzio la prescrizione tra coniugi rimane sospesa.
Questa era perlomeno l’opinione della Corte costituzionale e della giurisprudenza prevalente fino al 2014.
In particolare la Corte costituzionale era intervenuta sul tema della sospensione della prescrizione tra coniugi due volte. Una prima volta allorché proprio sul tema specifico che qui interessa ebbe a dichiarare che anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini (Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 35) e una seconda volta allorché escluse l’incostituzionalità dell’art. 2941 n. 1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio (Corte cost., 29 gennaio 98, n. 2).
A questa interpretazione aveva finora sempre aderito la giurisprudenza sia di legittimità (Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 e, in passato, Cass. civ., 23 agosto 1985, n. 4502 secondo cui l’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione della prescrizione, trova applicazione anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniuge, ma solo una attenuazione del vincolo) che la giurisprudenza di merito (Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004; Trib. Milano, 10 febbraio 1999). Di contrario avviso Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 che ha affermato che la sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c. si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazione che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione.
Quest’ultima è diventata ora anche l’opinione prevalente della giurisprudenza di legittimità che con due sentenze del 2014 (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 e Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078) si è assunta la responsabilità di escludere la sospensione della prescrizione tra coniugi separati. In particolare si è affermato che l’originaria idea che “lo stato di separazione, pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981) e che, quindi, la sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941 c.c., n. 1 non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi alla luce dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare, con la conseguente tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 c.c. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione (Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078).
Pertanto allo stato attuale l’interpretazione prevalente in giurisprudenza prevede che la sospensione della prescrizione tra coniugi prevista nell’art. 2941, n. 1, c.c. non si applichi ai coniugi separati, anche se non viene chiarito nelle due sentenze sopra richiamate quale sia il termine finale del periodo di sospensione e cioè da dove cominci (o ricominci) a decorrere la prescrizione (se dalla domanda di separazione, dai provvedimenti provvisori e urgenti che autorizzano i coniugi a vivere sperati ovvero dal giudicato di separazione). Parrebbe plausibile ritenere che il termine sia costituito dal giudicato sulla separazione analogamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza in materia di interruzione della prescrizione (Cass. civ. Sez., I, 7 giugno 2013, n. 14427).
Naturalmente la sospensione della prescrizione non impedisce ad un coniuge di azionare la sua pretesa anche nel corso della vita matrimoniale allorché si verifichi l’evento sul quale fondare la pretesa restitutoria o creditoria.
VII La prescrizione nelle azioni di status
Nella versione riformata dalla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 dell’azione di disconoscimento della paternità e dell’azione di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, risulta completamente modificato l’impianto dei termini di prescrizione delle azioni di status tendenti alla eliminazione di status difformi dalla verità biologica.
Il nuovo art. 244 c.c. prevede sempre che l’azione da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio (ovvero dal giorno in cui la madre è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento) mentre l’azione promossa dal marito di lei deve essere esercitata nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio in caso contrario dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare; se il marito prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. La novità più significativa in materia di prescrizione dell’azione sta nel fatto che sia la madre che il marito di lei non possono in ogni caso proporre più l’azione oltre cinque anni dal giorno della nascita mentre per il figlio l’azione è diventata imprescrittibile. Prima della riforma del 2013 sulla filiazione il figlio era ammesso ad esercitare l’azione “entro un anno dal compimento dalla maggiore età o dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il riconoscimento”).
L’ultimo comma dell’art. 244 c.c. prevede inoltre ora, dopo la riforma, che “l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni [sedici prima della riforma del 2013] ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore”. Quindi oltre il quattordicesimo anno l’iniziativa non può che essere assunta dal figlio.
Poiché la legge prevede che il minore possa attivarsi per l’azione di disconoscimento (richiedendo addirittura egli stesso, se ultraquattordicenne, la nomina di un curatore) è evidente che in tal caso la rappresentanza processuale del minore non può essere lasciata alla madre o al marito di lei (cioè al padre legittimo del minore). Il conflitto di interessi è in re ipsa. Si tratta di un conflitto di interessi in verità più ampio a cui la legge con questo meccanismo pone riparo ed è il conflitto tra il diritto (imprescrittibile) attribuito al figlio e il diritto (prescrittibile) attribuito alla madre e al marito di lei. Se la madre e il marito di lei non promuovono l’azione o lasciano decorrere i termini di prescrizione, il figlio maggiorenne potrà in seguito sempre promuovere il disconoscimento mentre nel periodo della minore età la nomina di un curatore per il promovimento dell’azione può essere richiesta direttamente dal figlio ultraquattordicenne ovvero – sotto i quattordici anni – dal “Pubblico Ministero” o “dall’altro genitore”.
L’altra azione che nel contesto della filiazione (ma fuori dal matrimonio) è destinata ad eliminare lo status non veritiero è l“impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità”. Si tratta della principale – non l’unica – azione di caducazione dello status di figlio nato fuori dal matrimonio. Il primo comma dell’art. 263 c.c. prevede che “il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse”. Chi asserisce di essere il padre biologico, in quanto soggetto che vi ha certamente interesse, è, quindi, tra i soggetti che può promuovere l’azione e partecipare poi a pieno titolo al processo.
Gli altri commi dell’art. 263 c.c. (introdotti dall’art. 18 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) prevedono che l’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita ovvero dal giorno in cui egli ne ha avuto conoscenza. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento. L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Riguardo al figlio l’azione è, invece, imprescrittibile.
La scadenza del termine massimo di cinque anni previsto per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio renderà inattaccabile lo status a meno che il figlio non ritenga di dover esercitare il diritto imprescrittibile che la legge gli attribuisce. È anche questo un modo di risolvere un conflitto di interessi dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
Sulla imprescrittibilità per il figlio dell’azione di accertamento della paternità la Corte di Cassazione ha escluso di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale (Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960).
È anche opportuno fare un accenno alla regolamentazione della prescrizione contenuta nelle norme transitorie della riforma sulla filiazione (titolo V del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) dove si prevede all’art. 104 che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, sono legittimati a proporre azioni di petizione di eredità, ai sensi dell’articolo 533 del codice civile, coloro che, in applicazione dell’articolo 74 dello stesso codice, come modificato dalla medesima legge, hanno titolo a chiedere il riconoscimento della qualità di erede” (primo comma), che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, possono essere fatti valere i diritti successori che discendono dall’articolo 74 del codice civile, come modificato dalla medesima legge” (secondo comma) e che “i diritti successori che discendono dall’articolo 74 del codice civile, come modificato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, sulle eredità aperte anteriormente al termine della sua entrata in vigore si prescrivono a far data da suddetto termine”.
Pertanto tutti coloro che per effetto della nuova nozione di parentela (art. 74 c.c.) acquistano la qualifica di parenti e che come tali hanno acquistato con la riforma titolo alla eventuale successione, possono azionare le loro pretese nel termine prescrizionale di dieci anni decorrente dall’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e cioè dal 1° gennaio 2013, sulle successioni apertesi prima di tale data concorrendo con coloro che prima di tale data avevano già acquistato un titolo ereditario, e quindi con effetti potenzialmente molto problematici, anche se la legge fa salvo l’eventuale giudicato già formatosi a tale data.

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Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l›imprescrittibilità dell›azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l›effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, atteso che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l›aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell›identità personale del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 31 luglio 2015, n. 16222 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’identità personale e sociale costituisce un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la sua lesione, per ef¬fetto di un riconoscimento della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, implica il risarcimento del danno non patrimoniale così arrecato, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costi¬tuisca o meno reato. Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni conseguenti ad un riconosci¬mento di paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, decorre dal giorno dell’azione di impugnazione dell’atto per difetto di veridicità.
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologa¬zione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, l’accordo di separazione dei coniugi omologato non è impugnabile per simulazione, poiché l’iniziativa proces¬suale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale di coniugi separati, è volta ad assicurare efficacia alla separazione, così da superare il precedente accordo simulatorio, rispetto al quale si pone in antitesi dato che è logicamente insostenibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a tale condizione.
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sospensione della prescrizione non opera tra coniugi separati legalmente.
L’originaria idea che “lo stato di separazione… pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” (così Corte cost. n. 35/1976 cit.), è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (così Cass. n. 7981/2014). I
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decor¬renza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, cod. civ. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turba¬re l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 (Foro It., 2014, 7-8, 1, 2124)
La regola della sospensione del decorso della prescrizione dei diritti tra i coniugi, prevista dall’art. 2941, primo comma, n. 1, cod. civ., deve ritenersi operante sia nel caso che essi abbiano comunanza di vita, sia ove si trovino in stato di separazione personale, implicando questa solo un’attenuazione del vincolo.
Trib. Roma, sez. I civile, 1 aprile 2014 (Giur. It., 1988, I,1, 1112)
L’esistenza degli obblighi previsti dagli artt. 148, 315-bis e 316-bis c.c. si riconnette al solo fatto della procre¬azione, a prescindere dal riconoscimento formale dello status. L’azione di regresso del genitore che abbia prov¬veduto da solo al mantenimento del figlio e quella di concorso negli oneri di mantenimento può essere azionata nei confronti dell’altro genitore a prescindere da una pronuncia sullo status passata in giudicato. La prescrizione dell’azione decorre da ogni singola spesa effettuata e il termine è quello decennale non vertendosi in materia di alimenti ma di regresso in materia di obbligazioni solidali.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così de¬terminandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consa¬pevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Trib. Roma Sez. I, 17 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi in cui il figlio, alla nascita, sia riconosciuto da uno soltanto dei genitori, da un lato il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi all’obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, essendo tenuto a provvedervi, sin dal momento della nascita e per altro verso il genitore che abbia provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio può agire nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso pro quota, delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è però, utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304 (Nuova Giur. Civ., 2014, 94, nota di TAGLIASACCHI)
È valida ed efficace la clausola, apposta ad un contratto di mutuo concluso tra coniugi, mediante la quale la restituzione della somma ricevuta viene sospensivamente condizionata alla separazione personale.
È valido il mutuo tra coniugi nel quale l’obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell’evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli effetti dell’art. 1354, primo comma, cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2013, n. 14427 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La proposizione di una domanda giudiziale ha effetto interruttivo della prescrizione, protraentesi fino al pas¬saggio in giudicato della sentenza che definisca il giudizio decidendo il merito o eventuali questioni processuali di carattere pregiudiziale, con riguardo a tutti i diritti da essa coinvolti o che si ricolleghino, con stretto nesso di causalità, al rapporto cui essa inerisce, sicché una siffatta efficacia, relativamente al termine decennale di prescrizione afferente il conguaglio della indennità di espropriazione e di occupazione giudizialmente invocato, può essere attribuita alla precedente domanda di opposizione alla stima solo in presenza di una correlazione so¬stanziale o processuale tra le decisioni che abbiano definito i rispettivi giudizi. (Nella specie la S.C., confermando la sentenza impugnata, ha escluso una tale correlazione avendo il giudizio di opposizione alla stima riguardato, originariamente, indennità relative a porzioni di terreno diverse da quella per la quale era stato successivamente richiesto il suddetto conguaglio, ed essendo, altresì, rimasto incensurato il diniego di valenza interruttiva della prescrizione attribuito alla statuizione di inammissibilità concernente la domanda tardivamente ivi formulata anche con riguardo a quest’ultima).
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2013, n. 11985 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di applicazione degli artt. 2943, primo comma, e 2945, secondo comma, cod. civ., la nullità della noti¬ficazione dell’atto introduttivo del giudizio impedisce l’interruzione della prescrizione e la conseguente sospen¬sione del suo corso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, a nulla rilevando, in senso contrario, la mera possibilità che la nullità sia successivamente sanata, e fermo restando che, qualora la sanatoria processuale abbia poi effettivamente luogo, i relativi effetti sul corso della prescrizione decorrono dal momento della sanatoria medesima, senza efficacia retroattiva.
Trib. Milano Sez. III, 9 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I ratei mensili degli assegni di mantenimento per i figli, così come gli assegni di separazione e di divorzio per il coniuge, rappresentando prestazioni che debbono essere pagate periodicamente in termini inferiori all’anno, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. si prescrivono in cinque anni. In tal senso, è irrilevante, al fine dell’operatività della citata norma, anziché di quella dell’art. 2953 c.c., il fatto che essi siano dovuti in forza di sentenza di separazione o divorzio passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di una stretta solidarietà tra i coniugi, può ipotizzarsi che i rapporti di dare e avere patrimoniale subiscano, sul loro accordo, una sorta di quiescenza, una sospensione che cesserà in caso di “fallimento” del ma¬trimonio, e con il venir meno, provvisoriamente con la separazione, e definitivamente con il divorzio, dei doveri e diritti coniugali. Ciò detto, ove venga stipulato un contratto “atipico”, quale espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi, con il quale questi abbiano stabilito che, in caso di fallimento del matrimonio l’uno dovrà cedere all’altro un suo immobile, quale indennizzo delle spese sostenute da quest’ultimo per la ristrutturazione di altro immobile da adibirsi a casa coniugale, esso deve sicuramente considerarsi volto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c. e la condizione del “fallimento” di certo lecita.
Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla riscossione dell’assegno alimentare soggiace al termine di prescrizione breve quinquennale, ver¬tendosi in un’ipotesi di prestazioni periodiche in termini inferiori all’anno, disciplinate dall’art. 2948, n. 4 c.c. La sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c., invece, si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazio¬ne che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione non costituendo la separazione un definitivo momento di rottura dell’unità familiare che poteva sempre ricostituirsi.
Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196 (Famiglia e Diritto, 2013, 2, 174, nota di SERRA)
Il provvedimento relativo al mantenimento del figlio minore delle parti nel giudizio di separazione può essere assunto d’ufficio e, pertanto, la domanda del genitore, per la prima volta, nel giudizio di secondo grado, non contrasta con il disposto dell’art. 345 c.p.c., trattandosi di allegazione di omessa pronuncia.
Trib. Roma Sez. I, 5 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla percezione dei ratei scaduti dell’assegno di mantenimento tanto del coniuge quanto dei figli, si prescrive dalle singole scadenze delle prestazioni dovute nel termine quinquennale disposto dall’ art. 2948 c.c, in quanto assimilabile – come tutte le prestazioni volte al sostentamento di terzi da eseguirsi periodicamente – alle pensioni alimentari, senza che possa invocarsi, trattandosi di credito scaturente da decreto di omologa delle condizioni della separazione consensuale ovvero da sentenza esecutiva, la conversione prevista dall’art. 2953 c.c. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e la conseguente applicabilità del termine di ordinaria prescrizione decennale.
Trib. Palermo Sez. I, 13 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito all’opposizione a decreto ingiuntivo, proposta in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli minori, è fondata l’eccezione di prescrizione quinquennale, sollevata dall’op¬ponente, limitatamente ai ratei maturati successivamente alla sentenza penale di condanna emessa in seguito all’accertamento del reato previsto e punito dall’art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970 La sentenza penale, concernendo esclusivamente i ratei dell’assegno di mantenimento non pagati, per i quali sia stata sporta denun¬cia penale, ne consegue che si sottraggono alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2953 c.c. rimanendo assoggettati alla prescrizione decennale. Difatti, la sentenza penale che condanni l’obbligato ai sensi dell’art. 570 c.p. comporta che sono soggetti alla prescrizione decennale solo i crediti per i quali sia stata sporta denuncia e non anche quelli maturati successivamente a tale data.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impresa familiare i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimo¬niale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ.
Trib. Monza Sez. III, 16 settembre 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento va assimilato alle prestazioni con scadenza periodica di cui all’art. 2948 c.c. e come tale soggetto alla prescrizione breve quinquennale.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17914 (Famiglia e Diritto, 2011, 2, 129, nota di ORTORE)
In materia di mantenimento del figlio naturale, la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale, mentre
l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richie¬dono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello “status”.
Trib. Trani, 22 aprile 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ art. 2953 c.c. prevede espressamente che siano soggetti alla prescrizione breve quinquennale i ratei relativi alle pensioni alimentari alle quali vanno assimilati le prestazioni alimentari di natura periodica inferiori all’anno, quali l’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione o divorzio.
Trib. Bologna Sez. I, 16 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento stabilito dal giudice in sede di separazione dei coniugi, come tutte le prestazioni che devono essere pagate periodicamente, ha un termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.c..
Trib. Benevento, 22 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto di filiazione, sia esso legittimo o naturale, pone a carico di entrambi i genitori l’obbligo di provvedere al mantenimento del figlio, perdurante fino alla intervenuta completa autosufficienza economica dello stesso. In particolare, nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore, per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò con¬segue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale atteso che soltanto per effetto di tale pronuncia si costituisce lo status di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita, con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 (Foro It., 2007, 1, 1, 86)
Il termine decennale di prescrizione del diritto del genitore naturale al rimborso da parte dell’altro genitore, coobbligato, delle spese sostenute per il mantenimento del figlio decorre dal riconoscimento da parte di detto coobbligato ovvero dal passaggio in giudicato della sentenza di accertamento giudiziale della paternità o della maternità che, in quanto attributiva dello “status” di figlio naturale, costituisce il presupposto per l’accoglimento della domanda in oggetto.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2006, n. 20692 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del diritto, agli effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell’art. 2944 cod. civ. pur non richiedendo formule speciali, deve tuttavia consistere in una ricognizione chiara e specifica del diritto altrui, uni¬voca e incompatibile con la volontà di non riconoscere il diritto stesso, e l’indagine diretta a stabilire se una certa dichiarazione costituisca riconoscimento, ai sensi della norma richiamata, rientra nei poteri del giudice di merito, il cui accertamento non è sindacabile in sede di legittimità quando è sorretto da una motivazione sufficiente e non contraddittoria.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico – , non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati “secundum ius”, non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di mantenere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori. Con¬seguentemente, il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere sin dal momento della nascita, attesa la natura dichiarativa della pronuncia che accerta la filiazione naturale. Il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la con¬seguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2005, n. 20290 (Fam. Pers. Succ., 2007, 2, 107, nota di ZUCCHI)
In tema di separazione personale consensuale, le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omo¬logazione trovano fondamento nell’art. 1322 c.c., e devono ritenersi valide ed efficaci anche a prescindere dal controllo dell’Autorità giudiziaria, sempre che i loro contenuti si mantengano nei limiti dei diritti e dei doveri inderogabili delineati dall’art. 160 c.c.
Cass. civ. Sez. III, 12 settembre 2005, n. 18097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza penale passata in giudicato che, ai sensi dell’art. 570 cod. pen., condanni l’obbligato in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento con riferimento ai mesi per i quali fu sporta denunzia penale comporta che sono soggetti a prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.. soltanto i crediti oggetto del giudicato penale e non anche quelli successivi a tale data. Infatti tali prestazioni, avendo natura periodica, sono assimilabili alla nozione di “pensioni alimentari” e soggette alla prescrizione quinquennale decor¬rente dalle singole scadenze, in relazione alle quali sorge l’interesse all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 (Guida al Diritto, 2005, 16, 39, nota di FIORINI)
Il diritto di percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di divorzio, all’ex coniuge da sentenze pas¬sate in giudicato per i figli minori a lui affidati può essere modificato, ovvero estinguersi del tutto, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. (oltre che per accordo tra le parti), con la conseguenza che la raggiunta maggiore età e la raggiunta autosufficienza economica del figlio non sono, di per sé, condizioni sufficienti a le¬gittimare, “ipso facto”, la mancata corresponsione dell’assegno.
Il diritto a percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, con sentenze passate in giudicato, può essere modificato o estinguersi, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. con la conseguenza che la raggiunta maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono condizioni sufficienti a legittimare, ipso fatto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno.
In tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, di¬stinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Foro It., 1986, I, 2679)
Il riconoscimento del figlio naturale comporta l’assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legit¬tima, ivi compreso l’obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece, avviene con riguardo a quest’ultima, a norma dell’art. 317-bis c.c.., la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostan¬ze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali, come si desume, in particolare, dall’art. 148 c.c., richiamato dall’art. 261 c.c., che prevede l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui. L’obbligo in esame, non avendo natura alimentare, e decorrendo dalla nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato “pro quota”.
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercitabile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004 (Guida al Diritto, 2005, 2, 78)
L’articolo 2941 del c.c. che dispone la sospensione della prescrizione tra coniugi deve applicarsi, attesa la tas¬satività dei casi di sospensione previsti dagli articoli 2941 e 2942 del c.c., sia nel caso che i coniugi abbiano comunanza di vita sia allorché si trovino in stato di separazione personale. Al coniuge non proprietario dei beni per i quali sono stati effettuati esborsi con denaro comune ovvero con suo esclusivo, compete un diritto di credito quantificabile, in assenza di prova contraria, nella metà della spesa sostenuta a vantaggio del bene non facente parte della comunione ma in proprietà esclusiva dell’altro coniuge, sul quale trattandosi di debito di valuta, sono dovuti i soli interessi legali dalla messa in mora, sino al saldo effettivo.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio, in quanto avente ad oggetto più prestazioni periodiche, distinte ed autonome, si prescrive non a decorrere da un unico termine costituito dalla sentenza che ha pro¬nunciato sul diritto stesso, ma dalle scadenze delle singole prestazioni imposte dalla pronuncia giudiziale, in relazione alle quali sorge di volta in volta l’interesse del creditore all’adempimento. Ne consegue che, dovendo tali prestazioni essere erogate alle scadenze fissate e sino al momento della diversa determinazione del giudice in sede di revisione, ovvero fino alla morte dell’ex coniuge onerato, non può profilarsi al momento del decesso una prescrizione del diritto all’ultimo assegno spettante, tale da estinguere il diritto alla sua percezione, e quindi da impedire il sorgere del diritto alla quota della pensione di reversibilità.
Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 (Famiglia e Diritto, 2004, 473 nota di CONTE)
Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologa¬zione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, è da escludere l’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione una volta omologato, giacché l’ini¬ziativa processuale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale dei coniugi separati, con le conseguenti implicazioni giuridiche, si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione che vale a superare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso, essendo logicamente insoste¬nibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione.
L’accordo di separazione ha natura negoziale e a esso possono applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del consenso e di capacità delle parti. È tuttavia inammissibile l’impugnazione della separazione per simulazione quando i coniugi abbiano chiesto al tribunale l’omologazione della loro (simulata) separazione. In tal caso, la volontà di conseguire lo status di separati – dal quale la legge fa derivare effetti irretrattabili tra le parti e nei confronti dei terzi, salve le ipotesi della riconcilia¬zione e dello scioglimento definitivo del vincolo – è effettiva e non simulata.
L’atto che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale ha natura negoziale. In tale accordo, infatti, si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclu¬sione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma e in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi mo¬menti e aspetti della dinamica familiare. Quanto precede non esclude, peraltro, che non è ammissibile dedurre la natura simulata di un siffatto accodo. Nel momento, infatti, in cui i coniugi convengono, nello spirito e nella pro¬spettiva della loro intesa simulatoria, di chiedere al tribunale l’omologazione della loro apparente separazione esse in realtà concordano nel volere conseguire il riconoscimento di un nuovo status e la volontà di conseguire quest’ultimo è effettiva e non simulata, per cui appare logicamente insostenibile che i coniugi possano disvolere con detto accordo la condizione di separati e, al tempo stesso, volere l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione: l’antinomia tra tali determinazioni non può trovare altra composizione che nel considerare l’iniziativa processuale come atto incompatibile con la volontà di avvalersi della simulazione.
Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo; è consentito, invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espres¬samente che, in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum con conseguente richiesta il giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in assenza di tale inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolalo i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum potendo le parti avere regolato diversa¬mente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patri¬moniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra. (Nella fattispecie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, escluso che i coniugi avessero dichiarato l’avvenuta corresponsione una tantum dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente operazione di trasfe¬rimento immobiliare, aveva proceduto alla determinazione dell’assegno medesimo su richiesta di modifica delle condizioni di cui alla sentenza di divorzio presentata da uno degli ex coniugi).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079 (Famiglia e Diritto, 2003, 344)
Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniu¬ge economicamente più debole, la cui domanda di assegnazione dell’assegno divorzile potrebbe essere da detti accordi paralizzata o ridimensionata. (Nella specie si trattava della dichiarazione del coniuge economicamente più debole che liberava, in vista del divorzio, l’altro coniuge da ogni obbligazione patrimoniale nei suoi confronti).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076 (Famiglia e Diritto, 2003, 4, 344, nota di PICCALUGA)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando, al momento del divorzio, l’inadegua¬tezza dei mezzi del coniuge richiedente in rapporto al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, non essendo necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto e rilevando, invece, l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche. Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, la cui domanda di assegnazione dell’assegno di¬vorzile potrebbe essere da detti accordi paralizzata o ridimensionata. (Nella specie si trattava della dichiarazione del coniuge economicamente più debole che liberava, in vista del divorzio, l’altro coniuge da ogni obbligazione patrimoniale nei suoi confronti).
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2000, n. 15349 (Giust. Civ. 2001, I, 1592)
La nullità, per illiceità della causa, degli accordi economici con cui i coniugi, in occasione della loro separazione, fissano il regime del loro futuro ed eventuale divorzio può essere invocata esclusivamente in sede di divorzio, a tutela di chi richiede le prestazioni economiche, nel caso che il coniuge onerato invochi quegli accordi al fine di escludere il diritto dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rito adottato dal legislatore, con l’art. 9 della legge sul divorzio, ai fini della modificazione dell’assegno divorzi¬le, risulta regolato, in via generale, dagli art. 737 e ss. del c.p.c., e, quanto alle forme, in parte risulta disciplinato espressamente da tale normativa, mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento – che è attuato con impulso di ufficio – alla disciplina concretamente dettata dal giudice la quale dovrà garantire il rispet¬to del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa. Da ciò deriva, quanto al procedimento di primo grado, che in esso non vigano le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario, con la conseguenza che in esso: 1) potranno essere proposte per tutto il corso di esso domande nuove, anche riconvenzionali, in con¬formità delle direttive dettate dal giudice nella gestione del processo, senza con ciò peraltro che la loro eventuale mancata proposizione possa impedirne la proposizione in separato giudizio; 2) potranno essere ammesse altresì prove nuove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo; fatti che – peraltro – anche in questo caso il giudice dovrà e potrà prendere in esame se ed ove dedotti e sempre nei limiti delle domande proposte. Più in particolare trattasi di un procedimento svolgentesi nell’interesse delle parti ed anche nel quale – diversamente da quanto accade nel caso in cui si tratti di modifica dell’assegno di mantenimento di figli minori – vige il principio della domanda e della corrispondenza fra il “chiesto” ed il “pronunciato”, investendo l’”officiosità del procedimento” unicamente il profilo dell’impulso al suo svolgimento, ed, in certa misura (ai sensi dell’art. 738, comma 3) l’acquisizione di materiale probatorio. Quanto poi al giudizio di secondo grado nascente dal “reclamo”, fermo che quest’ultimo costituisce un mezzo di impugnazione avente carattere “devolutivo” e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del “devolutum” e delle censure formulate ed in correlazione alle domande formulate in quella sede, in esso giudizio, mentre possono essere allegate – stante la libertà di forme proprie del procedimento – fatti nuovi, non possono essere proposte domande nuove, in quanto queste ultime snaturerebbero la natura del reclamo quale mezzo di impugnazione e, come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento.
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109 (Foro It., 2001, I, 1318 nota di RUSSO, CECCHERINI)
Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi, diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, la cui domanda di attribuzione dell’assegno divorzile potrebbe essere da detti ac¬cordi paralizzata o ridimensionata. Il richiamato principio, pertanto, non trova applicazione, ove invocato, al fine di ottenere l’accertamento negativo del diritto dell’altro coniuge, da quello che dall’accordo preventivo potrebbe ricevere un aggravio dell’onere cui sia tenuto. Né può essere fatta valere, in sede di divorzio, la nullità di un accordo transattivo, ancorché parzialmente trasfuso nella separazione consensuale, già raggiunto tra i coniugi al solo scopo di porre fine ad una controversia di natura patrimoniale, tra gli stessi insorta, senza alcun riferimento, esplicito od implicito, al futuro assetto dei rapporti economici conseguenti all’eventuale pronuncia di divorzio. Siffatto accordo, peraltro, acquisterebbe rilievo su detti rapporti, sotto il profilo della necessaria considerazione, da parte del giudice, della complessiva situazione reddituale delle parti, risultante, tra l’altro, dal credito di uno dei coniugi cui corrisponde il debito dell’altro.
Trib. Napoli, 28 gennaio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto al mantenimento del minore o del figlio maggiorenne non autosufficiente è, di per sé, imprescrittibile, ma non è imprescrittibile il diritto ai singoli ratei scaduti dell’assegno di mantenimento, trovando applicazione il termine quinquennale di cui all’art. 2948 c.c., ovvero, allorché il diritto in parola discende da una sentenza divor¬zile passata in giudicato, il termine decennale di cui all’art. 2953 c.c. (fermo che per i ratei e gli interessi scaduti successivamente alla sentenza continua ad applicarsi la prescrizione breve ex art. 2948 cit.).
Trib. Milano, 10 febbraio 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione tra coniugi è sospesa di diritto durante il matrimonio e tale regola trova applicazione anche durante la separazione personale, che non implica il venire meno del rapporto di coniugio, ma soltanto un’atte¬nuazione del vincolo.
Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi e di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento, in quanto avente ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, si prescrive non a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di sepa¬razione o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, bensì dalle singole scadenze di pagamento, in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a ciascun adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829 (Guida al Diritto, 2004, 38, 45)
Le modificazioni degli accordi, convenuti tra i coniugi, successive all’omologazione della separazione ovvero alla pronuncia presidenziale di cui all’art. 708 c.p.c., trovando legittimo fondamento nel disposto dell’art. 1322 c.c. devono ritenersi valide ed efficaci, a prescindere dall’intervento del giudice ex art. 710 c.p.c., qualora non superino il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c. e, in particolare, quando non interferiscano con l’accordo omologato ma ne specifichino il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti, all’evidenza, con gli interessi ivi tutelati.
Corte cost., 29 gennaio 1998, n. 2 (Famiglia e Diritto, 1998, 214, nota di FIGONE)
L’art. 2941 n. 1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio, non contrasta con l’art. 2 cost., in quanto, per un verso, la disposizione codicistica si riferisce a rapporti di carattere patrimoniale, difficilmente ricadenti sotto il parametro costituzionale che presuppone l’inviolabilità dei diritti, e, per altro verso, l’assimilazione della convivenza di fatto alle formazioni sociali si risolve in un’esplicitazione della pretesa violazio¬ne del principio di eguaglianza, insussistente per difetto di un adeguato “tertium comparationis”.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1997, n. 5244 (Famiglia e Diritto, 1997, 6, 576)
Gli accordi economici intervenuti fra i coniugi al momento della separazione non possono spiegare efficacia pre¬clusiva alla determinazione giudiziale dell’assegno di divorzio, atteso che, ove la causa di tali accordi fosse la li¬quidazione preventiva e forfettaria dell’assegno di divorzio, essi sarebbero nulli, sia per l’indisponibilità dell’asse¬gno di divorzio (rafforzata dalla legge n. 74 del 1987 che ha conferito al suddetto assegno natura eminentemente assistenziale), sia per illiceità della causa (avendo tali accordi sempre l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno “status”); diverso è il caso delle intese economiche prospettate dalle parti con la domanda congiunta di divorzio ai sensi dell’art. 4 l. n. 74 del 1987, poichè tali intese (che vanno pur sempre sottoposte ad una valutazione giudiziale) si riferiscono ad un divorzio che le parti hanno già deciso di conseguire e non semplicemente prefigurato.
Corte cost., 25 giugno 1996, n. 214 (Famiglia e Diritto, 1996, 5, 424, nota di CARBONE)
È costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 30 comma 3 cost. – l’art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del p.m. nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli art. 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898 e 710 c.p.c., come risulta a seguito della sentenza n. 416 del 1992.
Corte cost., 9 novembre 1992, n. 416 (Giur. It., 1993, I,1, 1152, nota di DALMOTTO)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 710 c.p.c., nel testo precedente a quello sostituito dall’art. 1 l. 29 luglio 1988 n. 331, nella parte in cui non prevede l’intervento del p.m. per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole dei coniugi separati.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 1991, n. 13128 (Giust. Civ., 1992, I, 1239, nota di CAVALLO)
Il carattere di indisponibilità dell’assegno di divorzio è stato rafforzato a seguito della nuova disciplina di cui alla l. n. 74 del 1987; essa ha infatti conferito a tale assegno natura eminentemente assistenziale e ha quindi escluso per i soggetti interessati il potere di determinare in via preventiva e autonoma gli effetti patrimoniali del divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 1991, n. 9840 (Dir. Famiglia, 1992, 562)
L’accordo fra coniugi separati, con cui si preveda la persistente operatività di patti aventi contenuto economico anche in regime di divorzio, è nullo per illiceità della causa pure in riferimento al godimento della casa familiare, non assumendo rilievo la circostanza che questa sia oggetto di comproprietà fra i coniugi medesimi, purché si verta in tema di convenzione sui rapporti correlati al matrimonio e non di contratto modificativo dell’assetto dominicale o costitutivo di diritti reali implicanti detto godimento.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5633 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel quadro normativo delineato dall’art. 30 cost., dall’art. 279 c. c. e dalle convenzioni internazionali ratificate e rese esecutive in Italia, l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio trova la sua fonte immediata nel fatto della procreazione, anche se accertato incidenter tantum e non nello status formale del figlio naturale; pertanto, non ha causa illecita per contrarietà a norme imperative o all’ordine pubblico, bensì è pienamente valido, in quanto informato alla detta normativa, il contratto con il quale un genitore naturale, am¬mettendo che un soggetto è stato da lui procreato, si obblighi a mantenerlo, in una misura convenzionalmente determinata, indipendentemente dal suo riconoscimento formale.
Cass. civ. Sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contributo di mantenimento cui il coniuge non affidatario è tenuto a favore dei figli in caso di separazione o di divorzio non è governato né dal principio di disponibilità né dal principio della domanda, presupposti dell’ordina¬rio processo civile, essendo il giudice titolare al riguardo di un potere-dovere improntato a difesa di un superiore interesse dello stato alla tutela e alla cura dei minori; nell’esercizio di tale potere, pertanto, il giudice non ha bisogno di domanda, né è vincolato dagli accordi fra i coniugi, sia per la determinazione dell’assegno, sia per la sua eventuale indicizzazione, potendo procedere d’ufficio alla sua rivalutazione anche in appello
Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, in riferimento agli art. 3, 1° e 2° comma, 24, 2° comma, e 30 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 1° comma (in relazione all’art. 6, 2° comma) l. 1° dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 708 c. p. c. (in relazione all’art. 155 c. c., nella parte in cui, rispet¬tivamente nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e nel giudizio di separazione personale dei coniugi, non prevedono la nomina di un curatore speciale che rappresenti in giudizio il minore figlio delle parti, in ordine alla pronuncia sull’affidamento e ad ogni altro provvedimento che lo riguardi; i giudizi in questione, infatti, non attengono né si riflettono sullo status dei figli, ed inoltre, essendo preordinati a scegliere la soluzione migliore per gli interessi del minore, gli interessi di quest’ultimo non rimangono senza tutela, ma sono garantiti da una serie non indifferente di misure.
Cass. civ., 23 agosto 1985, n. 4502 (Dir. Famiglia, 1985, 934)
L’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione della prescrizione, trova applicazio¬ne anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniuge, ma solo una attenuazione del vincolo.
Cass. civ., 22 aprile 1982, n. 2481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I patti modificativi delle condizioni economiche previste in sede di separazione consensuale sono validi ed ef¬ficaci, anche senza la omologazione del tribunale, qualora essi non siano lesivi del diritto di mantenimento o di alimenti, riconducibile al diritto-dovere di assistenza (art. 143 c. c.), avente natura inderogabile (art. 160 c. c.), ma la parte che lamenta tale lesione per il superamento dei limiti della derogabilità, che non è ravvisabile quando tale diritto sia maggiormente tutelato, può provocare il relativo accertamento giudiziale (nella specie: il marito aveva convenuto di corrispondere alla moglie consensualmente separata una somma mensile doppia rispetto a quella fissata in sede di omologazione a titolo di mantenimento, ma successivamente aveva dedotto la nullità di tale pattuizione; il giudice del merito aveva ritenuto valido il patto modificativo e la suprema corte ha confermato tale pronuncia).
Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 35 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini.

L’art. 570 co. 2 prevede come soggetti passivi solo i figli minori o inabili al lavoro

Cass. pen. Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 8883
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F.D., nato il (OMISSIS) avverso la sentenza del 03/03/2017 della CORTE APPELLO di TORINO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere LAURA SCALIA;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUCA TAMPIERI;
Il Proc. Gen. conclude per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Torino, con sentenza del 3 marzo 2017, ha confermato quella resa dal locale Tribunale che aveva condannato l’imputato, F.D., per il reato di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 81, comma 2, art. 12-sexies,art. 570 c.p., comma 2, per avere egli, con più condotte omissive ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, Matteo, affidato alla madre, omettendo di versare la somma mensile di duecentocinquantamila lire fissata per il mantenimento, dal Tribunale civile di Torino, con la sentenza di divorzio.
2. Ricorre in cassazione nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia con due motivi di annullamento.
3. La Corte di appello avrebbe, con errato apprezzamento delle prove, ritenuto la credibilità della persona offesa per una non ammissibile integrazione delle lacunose ed imprecise dichiarazioni rese dalla prima in sede di esame dibattimentale, con i contenuti della sporta denuncia-querela.
Sarebbe rimasto in tal modo inosservato il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità per il quale la querela vale solo ad accertare l’esistenza di una condizione di procedibilità e non può dare invece ricostruzione del fatto restando in tal caso integrata la violazione del principio che vuole che la prova si formi in dibattimento, nel contraddittorio tra le parti.
3.1. Un attento esame della sentenza emessa nei confronti del F. per identiche condotte, e che era stata prodotta dalla difesa al solo fine di determinare il trattamento sanzionatorio, avrebbe evidenziato l’identità delle dichiarazioni – comunque generiche e prive di ogni riferimento temporale – rese dall’offesa in entrambi i giudizi e quindi la non riferibilità dei fatti esposti nel presente giudizio all’intervallo di tempo dedotto in querela.
3.2. Il richiamo effettuato in sentenza ai contenuti della querela a sostegno dell’accertamento dello stato di bisogno della parte offesa – e tale sarebbe stata la circostanza riferita dall’ex coniuge di aver subito uno sfratto – e della sua eziologica riconducibilità all’omissione contributiva dell’imputato non avrebbe comunque integrato l’indicato presupposto.
4. Con il secondo motivo si fa valere violazione della legge penale in relazioneall’art. 570 c.p., eL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto, in adesione alla formulata imputazione, che il richiamo contenuto nell’art. 12 sexies, cit.all’art. 570 c.p., dovesse riferirsi al secondo e non al comma 1.
L’art. 12 sexies, cit. come stabilito dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 23866 del 31/01/2013 avrebbe infatti ed invece rinviato, nella finalità di individuare la sanzione applicabile all’autonoma fattispecie di cui alla richiamata normativa speciale,all’art. 570 c.p., comma 1, ed alla pena alternativa ivi prevista, in quanto opzione più favorevole all’imputato.
Il primo commadell’art. 570 c.p., sanziona penalmente la condotta di chi si sottragga agli obblighi di assistenza inerenti la potestà dei genitori o la qualità di coniuge obblighi che, destinati a collocarsi al di là di quello di non far mancare i mezzi di sussistenza, sono disciplinatidall’art. 29 Cost., e dagliartt. 143 e 147 c.c..
La nozione dei mezzi di sussistenza che implica uno stato di bisogno del soggetto passivo, chiamata ad integrare la diversa fattispecie di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, non avrebbe dovuto confondersi con quella di mantenimento, di matrice civilistica, integrativa della diversa fattispecie di cui all’art. 12 sexies cit., per la quale la pena applicabile avrebbe dovuto essere quella, alternativa, di cui al primo commadell’art. 570 c.p..
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile perché aspecifico.
Con il proposto mezzo si denuncia l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in sede di deposizione testimoniale che nella loro genericità resterebbero non integrabili per i contenuti della proposta denuncia-querela, incorrendo altrimenti la Corte di appello di Torino per impugnata sentenza pena nella violazione del principio secondo il quale la prova deve formarsi in dibattimento, nel contraddittorio tra le parti.
L’indicato argomento non si confronta in modo concludente con i contenuti della sentenza impugnata, nella parte in cui quest’ultima avrebbe ritenuto integrato – si assume in ricorso – lo stato di bisogno del coniuge dell’imputato per avere il primo subito uno sfratto, evidenza contenuta in querela ed illegittimamente utilizzata al fine di integrare le lacunose dichiarazioni rese in sede di esame dibattimentale dalla persona offesa.
Non sono indicate le lacune delle argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello e la centralità della segnalata oggettiva evidenza ad integrare l’estremo dello stato di bisogno.
2. Non è fondato il secondo motivo di ricorso in quanto diretto a dedurre l’illegittimità della pena applicata per una errata commistione tra la disciplina di cuiall’art. 570 c.p., e L. cit. n. 898 del 1970, art. 12 sexies, cui sarebbe pervenuta la Corte di appello di Torino nel dare quantificazione alla pena.
L’art. 12 sexies, Legge cit. delinea una fattispecie di reato autonoma rispetto a quelle definiteall’art. 570 c.p., commi 1 e 2, tra le quali solo quella prevista dal comma 1, si pone in una posizione di affinità con il reato di cui all’art. 12 sexies.
Sull’indicata premessa (Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013, S., Rv. 255271), il reato previsto dall’art. 570, comma 1, cit. si configura tutte le volte in cui un soggetto violi i doveri di assistenza materiale in veste di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del codice civile.
Diversamente, l’art. 570 cit., comma 2, appresta tutela ai vincoli di solidarietà nascenti dal rapporto di coniugio – che risultano attenuati nel caso di separazione o di allentamento del vincolo – che si sostanziano nel non far mancare i “mezzi di sussistenza” necessari.
Se nel primo caso si assiste ad una violazione di obblighi materiali, nel secondo invece, la punibilità della condotta non può prescindere da una valutazione sullo stato di necessità dell’avente diritto.
La Corte di appello nella determinazione della pena non è incorsa nel dedotto errore, ingenerato da un improprio richiamo alla previsione di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, al fine di determinare il trattamento sanzionatorio previsto per la diversa e contestata fattispecie di cui allaL. n. 898 del 1970, art.12 sexies, e successive modifiche, rispetto alla quale viene in applicazione invece la pena alternativa di cuiall’art. 570 c.p., comma 1.
Ed infatti il coniuge separato che faccia mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori violal’art. 570 c.p., comma 2, e per siffatta condotta va pertanto applicato il relativo trattamento sanzionatorio.
Per costante giurisprudenza di legittimità (tra le molte: Sez. 6, n. 34080 del 13/06/2013, M., Rv. 257416; Sez. 6, n. 41832 del 30/09/2014, S.), in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, sia l’obbligo morale sanzionatodall’art. 570 c.p., comma 1, che quello economico, sanzionato dal comma secondo della medesima disposizione, presuppongono la minore età del figlio, non inabile al lavoro, e sono destinate a venir meno con l’acquisizione della capacità di agire da parte del minore dovuta al raggiungimento della maggiore età, per una conclusione che è sostenuta, nel primo caso, dal richiamo dell’esercizio della potestà genitoriale e, nel secondo, dal riferimento testuale ai “discendenti di età minore”, con una previsione che differenzia la fattispecie da quella di cui allaL. n. 898 del 1970,art.12 sexies.
Ne discende, secondo quanto chiarito da questa Suprema Corte, chel’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, prevede come soggetti passivi solo i figli minori o inabili al lavoro sicché non integra tale reato la diversa violazione dell’obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza ai figli maggiorenni, non inabili al lavoro, anche se studenti.
LaL. 1 dicembre 1970, n. 898, all’art. 12 sexies, punisce il mero inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice, in sede di divorzio, in favore dei figli senza limitazione di età, purché economicamente non autonomi (Sez. 6, n. 34270 del 31/05/2012, M., Rv. 253262).
Il motivo è quindi, come articolato, diretto a dedurre una questione non fondata risultando la fattispecie in esame, secondo contestazione, relativa ad ipotesi in cui il genitore fa mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore di età, ipotesi per la quale vengono in considerazione gli estremi del reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, e, per gli stessi, la pena congiunta ivi prevista.
3. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2018

La prova della lesione di diritti inviolabili della persona causata dalla violazione dei doveri coniugali comporta il risarcimento dei danni

Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2018, n. 4470
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2240/2015 R.G. proposto da:
F.G., rappresentata e difesa dagli Avvocati Alfredo Bassioni e Gianmarco Cesari, con domicilio eletto in Roma, via Comano n. 95, presso lo studio dei medesimi difensori;
– ricorrente –
contro
C.G., rappresentato e difeso dall’Avv Giuseppe Sangiovanni, con domicilio eletto in Roma, via dell’Imbrecciato n. 95, presso lo studio dell’Avv. Gianluca Cicconetti;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma depositata il 20 ottobre 2014;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 novembre 2017 dal Consigliere Alberto Pazzi.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del (OMISSIS) il Tribunale di Roma pronunciava la separazione giudiziale dei coniugi C.G. e F.G. con addebito della stessa al marito, disponeva in merito all’ affido e alla collocazione della figlia minore, individuava il contributo dovuto dal C. per il mantenimento del coniuge separato e della discendente e rigettava le differenti domande presentate, fra cui quella di risarcimento avanzata dalla F. per il ristoro dei danni causati dalla lesione dei diritti della persona costituzionalmente tutelati quali la dignità, la riservatezza, l’onore, la morale, la reputazione, la privacy, la salute e l’integrità psicofisica.
La decisione veniva impugnata tanto dal C., rispetto alla consistenza del contributo per il mantenimento fissato a suo carico, quanto dalla F., che in via incidentale sollecitava, fra l’altro, l’accoglimento della domanda di risarcimento danni presentata.
2. La Corte d’Appello di Roma, nel riformare parzialmente la statuizione impugnata rispetto alla misura del contributo per il mantenimento della moglie posto a carico del C. e alla disciplina del contributo per le spese della figlia, rigettava l’appello incidentale proposto dalla F..
3. Ha proposto ricorso per cassazione avverso tale pronuncia F.G., che ha fatto valere un unico, articolato, motivo di impugnazione.
Ha resistito con controricorso il C., che ha presentato memoria ai sensidell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
4. Il motivo di ricorso proposto denuncia la violazione degliartt. 2043 e 2059 c.c.e ritiene che non possa essere condivisa la tesi sostenuta dalla corte territoriale secondo cui la domanda risarcitoria presentata, facendo conseguire le singole voci di danno (biologico, morale ed esistenziale) ex se genericamente dalla condotta tenuta dal marito e senza alcuna deduzione precisa di circostanze tali da consentire una valutazione della sussistenza del danno circostanziata e parametrata sulla persona della resistente, non meritava accoglimento in mancanza di una specifica allegazione del pregiudizio non patrimoniale subito; secondo la ricorrente la Corte d’Appello, una volta registrato il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la violazione dei doveri derivanti dal matrimonio può integrare gli estremi dell’ illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali arrecati, avrebbe dovuto al contrario tenere in debito conto che nel caso in esame le condotte avevano assunto un rilievo esterno ed autonomo quali lesioni dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, anche in considerazione delle modalità con le quali il rapporto era stato condotto.
5. Il motivo di ricorso proposto è inammissibile.
È opportuno ricordare in limine che la Corte d’Appello ha espressamente riconosciuto che i doveri derivanti ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensidell’art. 2059 c.c.(Sez. 1, Sentenza n. 18853 del 15/09/2011, Rv. 619619 – 01).
Nel contempo la corte territoriale ha affermato che la dignità e l’onore della moglie costituiscono beni costituzionalmente protetti e risultavano, nel caso di specie, gravemente lesi dalla condotta senz’altro peculiare tenuta dal marito; ciò nonostante il collegio d’appello ha negato il risarcimento invocato sul presupposto che la lesione dei diritti inviolabili della persona, costituendo un danno conseguenza, doveva essere specificamente allegato e provato.
Occorre poi rilevare come l’odierna ricorrente, pur lamentando la violazione del disposto degliartt. 2043 e 2059 c.c., non abbia affatto denunciato l’erronea applicazione di tali norme da parte del giudice di merito (applicazione che anzi pare condividere laddove, a pagg. 12, riconosce il principio secondo il quale la violazione dei doveri coniugali non comporta di per sé automaticamente il diritto al risarcimento del danno), ma abbia invece sostenuto che nel caso di specie la condotta della controparte aveva assunto un rilievo esterno ed autonomo provocando anche un danno patrimoniale conseguente al peggioramento delle sue condizioni fisiche.
Dunque la censura sollevata non investe le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata né rispetto al fatto che la violazione dei doveri coniugali possa essere fonte di responsabilità aquiliana, né in ordine agli oneri probatori correlati alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale (che non può mai ritenersi in re ipsa, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso presunzione semplici; si veda in questo senso, da ultimo, Cass. 17.1.2017 n. 917), ma torna a sostenere nel merito gli assunti non condivisi dalla corte territoriale senza confrontarsi con la ratio decidendi posta a base della decisione impugnata e senza individuare un preciso error in iudicando nel suo ordito argomentativo.
Questa Corte non può rivedere nel merito la motivazione offerta all’interno della sentenza impugnata circa l’impossibilità di identificare il danno lamentato, dato che il giudice di legittimità non ha il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, e si deve limitare a constatare come il ricorso in esame non assolva l’obbligo di specifica contestazione della ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017, Rv. 645361 – 01).
La proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiestidall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con la conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 20910 del 07/09/2017, Rv. 645744 – 01).
È opportuno infine sottolineare come nessuna puntuale censura è stata sollevata rispetto al passaggio motivazionale con cui la Corte d’ Appello ha espressamente escluso la sussistenza di un nesso di causalità fra l’aggravamento delle condizioni di salute dell’odierna ricorrente e i fatti addebitati al marito.
6. In forza dei motivi appena esposti il ricorso non può che essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 2.900, di cui Euro 200 per spese e Euro 2.700 per compenso professionale, oltre a spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 23 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2018