La Corte, non rimettendo la causa alle Sezioni Unite, ribadisce il nuovo orientamento introdotto dalla sentenza n. 11504 del 2017

Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2042
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4501/2014 proposto da:
S.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Ferrari Pietro, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.M., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Mazzini n. 27, presso lo studio dell’avvocato Di Gioia Giovanni Candido, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Bonelli Sandro, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 1603/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 17/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2017 dal cons. DOGLIOTTI MASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI FRANCESCA, che ha concluso per l’assegnazione alle Sezioni Unite, art. 374 c.p.c., comma 3, in subordine accoglimento; rigetto del ricorso incidentale;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato P. Ferrari che ha chiesto l’accoglimento;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato G. C. Di Gioia che ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
Con ricorso in data 23-1-2009, P.M. chiedeva al Tribunale di Pistoia di dichiarare cessati gli effetti civili del matrimonio contratto con S.M..
Costituitasi, la S. non si opponeva alla domanda di divorzio, ma chiedeva determinarsi un assegno di Euro 500,00 mensili, oltre ad una quota di TFR già percepita dal marito.
Il Tribunale, con sentenza in data 14/11/2012, dichiarava cessati gli effetti civili del matrimonio, e rigettava la domanda di assegno e di quota del TFR, ritenendo equivalente la situazione economica dei coniugi.
Proponeva appello la S.. Costituitosi, il P. chiedeva dichiararsi inammissibile o improcedibile e rigettarsi nel merito l’appello, considerata la condizione economica equivalente dei coniugi.
La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza in data 17-10-2013, rigettava l’appello.
Ricorre per cassazione l’appellante.
Resiste con controricorso l’appellato che pure propone ricorso incidentale.
Le parti hanno depositato memorie difensive.
Assegnata la causa alla sezione sesta civile, il Collegio la rimetteva alla sezione prima civile. L’udienza pubblica di discussione si teneva il 10/10/2017. Il Collegio si riconvocava per la camera di consiglio del 17/10/2017, nella quale assumeva la presente decisione.

Motivi della decisione
Va preliminarmente osservato che il P.G. ha chiesto la rimessione della causa alle sezioni unite di questa Corte, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 3, per cui se la sezione semplice ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette ad esse, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. Tale richiesta viene giustificata, in relazione ad alcune pronunce fortemente innovative della prima sezione civile, in materia di assegno di divorzio, recentemente assunte.
Ritiene la Corte di non accogliere l’istanza.
La predetta norma, introdotta dal D.Lgs. m. 40 del 2006, va considerata disposizione di natura ordinamentale più che processuale, nonostante sia contenuta nel codice di rito civile, in quanto disciplina i rapporti interni tra sezioni nell’ambito del medesimo organo giudiziario. Ma proprio tale natura, a parere del Collegio, rende operativa la disposizione solo per i principi affermati dalle Sezioni Unite, dopo la sua entrata in vigore, e non per quelli, come nella specie, enunciati anteriormente, per i quali permane il profilo di grande autorevolezza dell’insegnamento delle Sezioni Unite, il punto più alto nella interpretazione e nella nomofilachia, ma non vincolante per le sezioni semplici.
Né si potrebbe affermare che l’art. 374 c.p.c., comma 3, si applichi se, come nel caso che ci occupa, il principio affermato dalle Sezioni Unite (sentenze nn. 11490 e 11492 del 1990) in materia di assegno di divorzio, sia stato da allora seguito costantemente nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici. La predetta norma si riferisce solo al pronunciamento delle Sezioni Unite, essendo del tutto ininfluente che il principio sia stato o meno seguito nel prosieguo.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta vizio di nullità della sentenza per mancanza e contraddittorietà della motivazione, affermando che la Corte di merito, da un lato, sostiene l’assenza di prova del tenore di vita pregresso tra i coniugi, dall’altro, l’impossibilità, con la crisi familiare, di mantenere tale pregresso tenore di vita. Esamina poi le condizioni economiche dei coniugi, ritenendo la sussistenza di errori ed omissioni del giudice a quo, e si sofferma in particolare sulla somma a suo dire riconosciutole a titolo di mantenimento in sede di separazione. Richiama infine l’esistenza di una relazione amorosa del marito, nonché il contributo dato da essa stessa alla vita familiare.
Con il secondo lamenta violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 6 e successive modifiche, sui presupposti dell’assegno di divorzio.
Con il terzo, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. La ricorrente contesta l’affermazione della sentenza per cui nessuna prova sarebbe stata fornita dall’appellante sul tenore di vita pregresso e sull’effettivo reddito da essa goduto. Analizza quindi le posizioni economiche dei coniugi, a suo dire assai più vantaggiose per il marito.
Con il primo e il secondo motivo, il controricorrente e ricorrente incidentale lamenta l’inammissibilità del ricorso in appello, da un lato, per mancata indicazione delle parti del provvedimento impugnato e delle modifiche richieste alla ricostruzione dei fatti, compiuta dal giudice di primo grado”, dall’altro, per omessa indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (art. 342 c.p.c., nn. 1 e 2).
Va dapprima considerato, per ragioni sistematiche, il ricorso incidentale, che va rigettato.
Come aveva precisato il giudice a quo, il ricorso in appello indica, nel contesto, le parti impugnate, le motivazioni del gravame, le proprie richieste alla Corte di Appello (il riconoscimento di un assegno di divorzio e di una quota del 40% del TFR, percepito dal P.) con l’indicazione dei presupposti di legge che possono giustificarle.
I motivi del ricorso principale possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta connessione.
Il Collegio condivide pienamente il nuovo orientamento introdotto dalla sentenza n. 11504 del 2017, ormai consolidato con varie pronunce conformi; si richiama quindi alla predetta sentenza e alle argomentazioni che la sorreggono.
Pare opportuno, per comprendere meglio il senso del nuovo indirizzo giurisprudenziale, fornire qualche breve cenno, in prospettiva storica.
Come è noto, la L. n. 898 del 1970, sul divorzio, estranea al Codice Civile che non va dimenticato – all’epoca conteneva l’originaria disciplina, caratterizzata dalla netta preminenza del marito nel governo della famiglia, cui corrispondevano due status (complesso di diritti e doveri) totalmente differenti per il marito e la moglie. Basti ricordare che l’art. 143 c.c. prevedeva che il marito somministrasse alla moglie tutto quanto necessario ai bisogni della vita, in proporzione alle sue sostanze (anche paradossalmente, quando la moglie fosse più facoltosa di lui); alla moglie spettava mantenere il marito soltanto se questi non avesse mezzi sufficienti. La separazione giudiziale si pronunciava solo per colpa di uno o di entrambi i coniugi; il coniuge incolpevole conservava la propria condizione personale e patrimoniale.
Nella originaria legge di divorzio, su un piano comunque di totale parità, si precisava che il Tribunale disponeva assegno periodico, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, a favore di un coniuge, in proporzione alle sostanze e ai redditi dell’altro; nella determinazione, il giudice teneva conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi.
Fu la riforma generale del diritto di famiglia del 1975 ad introdurre il profilo della inadeguatezza dei mezzi nel regime di separazione. E tale principio passò quasi inalterato nella riforma del divorzio (L. n. 74 del 1987), aggiungendosi la previsione dell’impossibilità di procurarsi tali mezzi per ragioni oggettive. Si è distinto nettamente il momento dell’ammissibilità dell’assegno, da quello della sua quantificazione, e infatti, in ordine a questa, vengono in considerazione ulteriori profili: le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione dei patrimoni personali dei coniugi stessi comune, e di quello comune. Il reddito di entrambi e la durata del matrimonio.
Tale rigorosa distinzione fu affermata costantemente nell’interpretazione di questa Corte (tra le altre, Cass. N. 2156 del 2010), e tuttavia l’inadeguatezza dei mezzi fu ricollegata, dopo alcune incertezze iniziali, con le note sentenze delle Sezioni Unite n. 11490 e 11492 del 1990 al mantenimento del tenore di vita assunto durante la convivenza matrimoniale (anche se la lettera della norma non vi faceva riferimento alcuno e la ratio palese di essa poneva, come si diceva, una netta distinzione tra le condizioni economiche e sociali dei coniugi e l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l’assegno).
L’affermazione, contenuta nelle sentenze predette, fu condotta dalla giurisprudenza successiva ad estreme conseguenze, vincolandola ad aspettative più o meno automatiche (per cui l’assegno doveva risultare più elevato, in relazione all’evoluzione della carriera lavorativa dell’obbligato, posteriore alla convivenza matrimoniale, ove prevedibile, e, addirittura, poteva ulteriormente accrescersi dopo il divorzio, sempre con riferimento a tale evoluzione lavorativa) (tra le altre, Cass. N. 11870 del 2015).
Ancora, in aperta violazione della lettera e dello spirito della norma, si effettuavano commistioni tra le due parti distinte della disposizione, e la valutazione delle condizioni economiche e sociali dei coniugi, inerenti al quantum, veniva sempre più ad interferire sull’an, sostenendosi che il tenore di vita, ove non fosse oggetto di prova specifica, poteva desumersi proprio dalla comparazione tra le condizione dei coniugi (del resto ci si rendeva conto che il tenore di vita, almeno nella sfera dell’obbligato, necessariamente diminuiva, con la separazione e il divorzio e l’esclusione delle opportune economie collegate alla convivenza familiare). (tra le altre, Cass. 2156 del 2010).
Il nuovo indirizzo propone un criterio differente e, a parere del collegio, assai più consono alla lettera e alla ratio dell’art. 5, comma 6, che nella prima fase sull’an non prevede – conviene ribadirlo – nessuna comparazione delle condizioni economiche dei coniugi e non fa riferimento alcuno al tenore di vita pregresso, orientando l’indagine alla sola situazione del coniuge richiedente, senza alcun riferimento, in questa fase, a quella dell’altro coniuge.
E’ appena il caso di precisare, a tal proposito, che la predetta espressione (tenore di vita) si rinviene nello stesso art. 5, comma 9 disposizione palesemente processuale, ove si precisa che i coniugi, all’udienza presidenziale, presentano le dichiarazioni dei redditi ed altra documentazione sul loro patrimonio; in caso di contestazione, potranno essere effettuate indagini sui redditi. sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita di ciascun coniuge. Dunque il tenore di vita non è quello comune, ma quello di ciascun coniuge e viene in considerazione al momento dell’assunzione dei provvedimenti provvisori, quando la documentazione, contestata, appaia infedele, e ciò dia luogo ad indagini al riguardo.
La sentenza n. 11504 del 2017, confermata dal successivo orientamento, indica dunque un diverso parametro assai più rispettoso, come si diceva, della lettera e della ratio dell’art. 5: l’indipendenza o l’autosufficienza del soggetto (più condivisibile il termine di autosufficienza che riguarda esclusivamente il soggetto richiedente, mentre l’indipendenza (da chi, da che cosa?) potrebbe ancora una volta richiamare la comparazione con l’ex coniuge obbligato).
La sentenza suindicata richiama la posizione dei figli (ovviamente dentro e fuori del matrimonio: destinatari del mantenimento, se minori, ma pure maggiorenni fino alla raggiunta autosufficienza economica). Certo qualcuno potrebbe opporre che il paragone non ha alcun senso, perché i figli potrebbero utilizzare la forza e l’entusiasmo della loro gioventù, per raggiungere al più presto l’autosufficienza (anche se purtroppo le statistiche sull’occupazione giovanile danno ancora oggi segnali assai sconfortanti), mentre non è tale il coniuge (in genere la donna) che non ha mai lavorato o magari ha cessato di lavorare durante il matrimonio (ma, ancora, dalle statistiche più aggiornate, emerge che questa condizione è assai più rara che in passato).
Qui sopperisce peraltro la seconda parte della predetta norma, che assai significativamente non sussiste in sede di separazione (il soggetto non ha mezzi adeguati e non può procurarseli per ragioni oggettive), e in tal caso continuerà ad operare la giurisprudenza pregressa di questa Corte (non solo ragioni di salute, ma anche di età, inidoneità ad inserirsi nel mercato di lavoro, mancanza di attività pregressa, di specializzazione, ecc.) (tra le altre Cass. n. 3838 del 2006; 27234 del 2008). E la sentenza più volte indicata, n. 11504, individua l’autosufficienza economica in alcuni specifici parametri, cui dovrebbe richiamarsi la giurisprudenza di merito, che avrà il compito di adeguarli alla concreta fattispecie dedotta: il possesso di redditi di qualsiasi specie, di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri imposti e del costo della vita nel luogo di residenza; le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale; la stabile disponibilità di una casa di abitazione, salvo ovviamente altri elementi che potranno rilevare nelle singole fattispecie.
Come si vede, le variabili sono molte numerose per un adeguamento il più possibile efficace alla situazione concreta. In tal senso, si potrebbe fin d’ora escludere pericolosi automatismi (ad es. multipli della pensione sociale o simili) che renderebbero autosufficienza o non autosufficienza identiche sempre a sé stesse ed uguali per tutti. Il coniuge richiedente l’assegno non può riguardarsi come una entità astratta, ma deve considerarsi come singola persona nella sua specifica individualità.
Per di più, una volta superato il vaglio dell’ammissibilità dell’assegno ed accertata la non autosufficienza economica, sicuramente potrebbero venire in considerazione i vari profili indicati dalla norma per la quantificazione dell’assegno, tali eventualmente da condurre ad una elevazione dell’importo.
Va precisato che, con il divorzio, cessa ogni rapporto personale e patrimoniale tra gli ex coniugio permanendo ovviamente una stretta collaborazione, nell’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, se vi sono figli minori, ma ciò non attiene al rapporto tra gli ex coniugi. Tuttavia il diritto all’assegno (e conseguentemente ad una quota di TFR, alla pensione di reversibilità, eventualmente da ripartirsi con altro coniuge dell’obbligato, ad un assegno a carico dell’eredità) trova il suo fondamento nel dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale tra persone ormai estranee, che pure hanno svolto una parte più o meno lunga della loro vita in piena comunanza (e assai significativamente l’ex coniuge non compare tra i soggetti obbligati agli alimenti, pur attinenti ad una famiglia estremamente elevata, che non trova alcuna rispondenza sociologica nella realtà odierna; anche in tal caso, del resto, si considera dapprima la sola persona richiedente, valutandosi la sua inadeguatezza a soddisfare i bisogni essenziali, e, solo successivamente, la situazione economica dell’obbligato o degli obbligati).
Vi è chi ricorda peraltro le persistenti discriminazioni economiche della donna nel luogo di lavoro, e, più in generale, l’emarginazione che talora la colpisce nei più diversi settori, ma, all’evidenza di ciò deve farsi carico l’intera società e il Parlamento, con leggi adeguate che avvicinino l’Italia alla maggior parte degli altri Paese europei, e non certo (sempre e soltanto) l’ex coniuge.
E’ appena il caso di precisare che la sentenza della Corte Costituzionale n. 11 del 2015 che – secondo alcuni interpreti – avrebbe recepito e fatto proprio l’orientamento pregresso di questa Corte sul tenore di vita, si colloca nell’ambito del difficile e complesso rapporto tra le sentenze “interpretative” della Consulta e la posizione della Cassazione, custode della nomofilachia, e dei giudici di merito (al riguardo, tra le altre, Cass. S.U. n. 27986 del 2013). Com’è noto, la Corte Costituzionale ha talora ritenuto infondata la questione di legittimità di una disposizione di legge, indicando una interpretazione escludente l’accoglimento della questione stessa (ciò allo scopo evidente di evitare la creazione di troppe “lacune” nell’ordinamento) e tuttavia i giudici (e in particolare questa Corte) non hanno accolto l’impostazione della Consulta, continuando a privilegiare interpretazioni della norma differenti da quella indicata dalla Consulta. Non di rado, il giudice delle leggi, di fronte a questo indubbio conflitto, ha finito per dichiarare l’incostituzionalità della norma. Proprio per evitare questa necessaria conseguenza, da tempo la Corte Costituzionale preferisce far propria l’interpretazione prevalente e consolidata tra i giudici (specie se abbia ricevuto la conferma di questa Corte) il cosiddetto diritto vivente, e valutare se essa sia conforme o meno alla Costituzione.
Dunque la Consulta si è limitata a ritenere l’interpretazione privilegiata dalla Cassazione (circa il tenore di vita pregresso) conforme a Costituzione, così come – è da ritenere – sarebbe parimenti conforme l’indirizzo giurisprudenziale che l’ha sostituito, inerente all’autosufficienza economica.
Quanto alla fattispecie dedotta, escluso ogni riferimento al tenore di vita pregresso, così come alle circostanze che riguarderebbero semmai la quantificazione dell’assegno: ragioni della decisione (la presunta relazione amorosa del marito) nonché il contributo della moglie alla conduzione familiare ecc., va precisato che per giurisprudenza consolidata (per tutte, Cass. N. 18433 del 2010), 1′ assegno di separazione e gli accordi assunti in tale sede tra i coniugi (salvo che i coniugi stessi non intendano incidere direttamente sul futuro regime del divorzio) non rilevano direttamente ai fini della determinazione di quello di divorzio, stante la differente natura, caratteri e contenuto. Semmai gli accordi pregressi potrebbero considerarsi nella valutazione del patrimonio e del reddito di entrambi i coniugi.
Infine, alla luce del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, non è più possibile censurare l’insufficienza o contraddittorietà della motivazione, essendo necessario richiamarsi a fatti specifici e determinati, trascurati dal giudice ed oggetto di discussione tra le parti (tra le altre, Cass. S.U. n. 8053 del 2014). In sostanza la ricorrente propone inammissibilmente una generale valutazione alternativa rispetto a quella effettuata dal giudice a quo, con motivazione adeguata e non contraddittoria: la Corte di merito sostiene che, con gli accordi omologati. i coniugi hanno proceduto alla divisione del patrimonio immobiliare e la moglie ha ottenuto il riconoscimento della proprietà esclusiva della casa coniugale nonché di altro appartamento sito in (OMISSIS) che si sono aggiunti ad altro di sua proprietà, pervenutole per successione. Continua il giudice a quo osservando che, dalla gestione di tali immobili – uno dei quali avente specifica destinazione commerciale – la S. può ricavare reddito adeguato a consentirle un tenore di vita dignitoso, pur osservando che in nessun caso sarebbe possibile mantenere il pregresso tenore di vita, essendo venute meno le economie gestionali consentite dalla convivenza. E’ appena il caso di precisa che eventuali errori sulla consistenza dei redditi e patrimoni avrebbero dovuto semmai essere oggetto di un ricorso per revocazione.
Per quanto finora osservato, i motivi del ricorso principale presentano profili in parte di inammissibilità, in parte di infondatezza e vanno rigettati.
Conclusivamente va rigettato il ricorso.
Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, non va cassata la sentenza impugnata, essendo conforme al diritto il dispositivo, e va corretta la motivazione, escludendosi ogni riferimento al tenore di vita pregresso, sostituito dal principio di autosufficienza economica del coniuge.
Pur trattandosi di orientamento consolidato, posto che, al momento della presentazione del ricorso era ancora operante l’orientamento pregresso si ritiene di compensare totalmente le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa le spese di giudizio tra le parti.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.