Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate

LEGGE 22 dicembre 2017, n. 219;
in G.U. 16 gennaio 2018, n. 12
Vigente al: 31-1-2018
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Promulga
la seguente legge:
Art. 1
Consenso informato
1. La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli
articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il
diritto alla vita, alla salute, alla dignita’ e
all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun
trattamento sanitario puo’ essere iniziato o proseguito se privo del
consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei
casi espressamente previsti dalla legge.
2. E’ promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra
paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si
incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza,
l’autonomia professionale e la responsabilita’ del medico.
Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive
competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono
l’equipe sanitaria. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente
lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o
il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo.
3. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di
salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei
comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai
rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari
indicati, nonche’ riguardo alle possibili alternative e alle
conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e
dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Puo’
rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero
indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di
riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo
vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale
indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e
nel fascicolo sanitario elettronico.
4. Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti
piu’ consoni alle condizioni del paziente, e’ documentato in forma
scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con
disabilita’, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare.
Il consenso informato, in qualunque forma espresso, e’ inserito nella
cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
5. Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in
tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi
accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico
per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha,
inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse
forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca
comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente
legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione
artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione,
su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.
Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti
sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al
paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze
di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione
di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di
assistenza psicologica. Ferma restando la possibilita’ per il
paziente di modificare la propria volonta’, l’accettazione, la revoca
e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo
sanitario elettronico.
6. Il medico e’ tenuto a rispettare la volonta’ espressa dal
paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al
medesimo e, in conseguenza di cio’, e’ esente da responsabilita’
civile o penale. Il paziente non puo’ esigere trattamenti sanitari
contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle
buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il
medico non ha obblighi professionali.
7. Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i
componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel
rispetto della volonta’ del paziente ove le sue condizioni cliniche e
le circostanze consentano di recepirla.
8. Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce
tempo di cura.
9. Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con
proprie modalita’ organizzative la piena e corretta attuazione dei
principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione
necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale.
10. La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri
esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia
di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del
dolore e di cure palliative.
11. E’ fatta salva l’applicazione delle norme speciali che
disciplinano l’acquisizione del consenso informato per determinati
atti o trattamenti sanitari.
Art. 2
Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e
dignita’ nella fase finale della vita
1. Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del
paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso
di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato
dal medico. A tal fine, e’ sempre garantita un’appropriata terapia
del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e
l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010,
n. 38.
2. Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di
imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione
irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a
trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze
refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico puo’ ricorrere alla
sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia
del dolore, con il consenso del paziente.
3. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua o il
rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella
clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
Art. 3
Minori e incapaci
1. La persona minore di eta’ o incapace ha diritto alla
valorizzazione delle proprie capacita’ di comprensione e di
decisione, nel rispetto dei diritti di cui all’articolo 1, comma 1.
Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute
in modo consono alle sue capacita’ per essere messa nelle condizioni
di esprimere la sua volonta’.
2. Il consenso informato al trattamento sanitario del minore e’
espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilita’ genitoriale o
dal tutore tenendo conto della volonta’ della persona minore, in
relazione alla sua eta’ e al suo grado di maturita’, e avendo come
scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel
pieno rispetto della sua dignita’.
3. Il consenso informato della persona interdetta ai sensi
dell’articolo 414 del codice civile e’ espresso o rifiutato dal
tutore, sentito l’interdetto ove possibile, avendo come scopo la
tutela della salute psicofisica e della vita della persona nel pieno
rispetto della sua dignita’.
4. Il consenso informato della persona inabilitata e’ espresso
dalla medesima persona inabilitata. Nel caso in cui sia stato
nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda
l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito
sanitario, il consenso informato e’ espresso o rifiutato anche
dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo
conto della volonta’ del beneficiario, in relazione al suo grado di
capacita’ di intendere e di volere.
5. Nel caso in cui il rappresentante legale della persona
interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in
assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui
all’articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore
rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano
appropriate e necessarie, la decisione e’ rimessa al giudice tutelare
su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei
soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del
medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.
Art. 4
Disposizioni anticipate di trattamento
1. Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in
previsione di un’eventuale futura incapacita’ di autodeterminarsi e
dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze
delle sue scelte, puo’, attraverso le DAT, esprimere le proprie
volonta’ in materia di trattamenti sanitari, nonche’ il consenso o il
rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e
a singoli trattamenti sanitari. Indica altresi’ una persona di sua
fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che ne faccia le veci e
la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture
sanitarie.
2. Il fiduciario deve essere una persona maggiorenne e capace di
intendere e di volere. L’accettazione della nomina da parte del
fiduciario avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto
successivo, che e’ allegato alle DAT. Al fiduciario e’ rilasciata una
copia delle DAT. Il fiduciario puo’ rinunciare alla nomina con atto
scritto, che e’ comunicato al disponente.
3. L’incarico del fiduciario puo’ essere revocato dal disponente in
qualsiasi momento, con le stesse modalita’ previste per la nomina e
senza obbligo di motivazione.
4. Nel caso in cui le DAT non contengano l’indicazione del
fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto
incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle volonta’ del
disponente. In caso di necessita’, il giudice tutelare provvede alla
nomina di un amministratore di sostegno, ai sensi del capo I del
titolo XII del libro I del codice civile.
5. Fermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 1, il
medico e’ tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere
disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il
fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non
corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero
sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione,
capaci di offrire concrete possibilita’ di miglioramento delle
condizioni di vita. Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il
medico, si procede ai sensi del comma 5, dell’articolo 3.
6. Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura
privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata
personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del
comune di residenza del disponente medesimo, che provvede
all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le
strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al comma
7. Sono esenti dall’obbligo di registrazione, dall’imposta di bollo e
da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa. Nel caso in cui
le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono
essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che
consentano alla persona con disabilita’ di comunicare. Con le
medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in
ogni momento. Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza
impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste
dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con
dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con
l’assistenza di due testimoni.
7. Le regioni che adottano modalita’ telematiche di gestione della
cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre
modalita’ informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al
Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare
la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del
fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando
comunque al firmatario la liberta’ di scegliere se darne copia o
indicare dove esse siano reperibili.
8. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, il Ministero della salute, le regioni e le aziende
sanitarie provvedono a informare della possibilita’ di redigere le
DAT in base alla presente legge, anche attraverso i rispettivi siti
internet.
Art. 5
Pianificazione condivisa delle cure
1. Nella relazione tra paziente e medico di cui all’articolo 1,
comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia
cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione
con prognosi infausta, puo’ essere realizzata una pianificazione
delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il
medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il
paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il
proprio consenso o in una condizione di incapacita’.
2. Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte
dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia
sono adeguatamente informati, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, in
particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, su
quanto il paziente puo’ realisticamente attendersi in termini di
qualita’ della vita, sulle possibilita’ cliniche di intervenire e
sulle cure palliative.
3. Il paziente esprime il proprio consenso rispetto a quanto
proposto dal medico ai sensi del comma 2 e i propri intendimenti per
il futuro, compresa l’eventuale indicazione di un fiduciario.
4. Il consenso del paziente e l’eventuale indicazione di un
fiduciario, di cui al comma 3, sono espressi in forma scritta ovvero,
nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano,
attraverso video-registrazione o dispositivi che consentano alla
persona con disabilita’ di comunicare, e sono inseriti nella cartella
clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. La pianificazione
delle cure puo’ essere aggiornata al progressivo evolversi della
malattia, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico.
5. Per quanto riguarda gli aspetti non espressamente disciplinati
dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’articolo 4.
Art. 6
Norma transitoria
1. Ai documenti atti ad esprimere le volonta’ del disponente in
merito ai trattamenti sanitari, depositati presso il comune di
residenza o presso un notaio prima della data di entrata in vigore
della presente legge, si applicano le disposizioni della medesima
legge.
Art. 7
Clausola di invarianza finanziaria
1. Le amministrazioni pubbliche interessate provvedono
all’attuazione delle disposizioni della presente legge nell’ambito
delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a
2legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica.
Art. 8
Relazione alle Camere
1. Il Ministro della salute trasmette alle Camere, entro il 30
aprile di ogni anno, a decorrere dall’anno successivo a quello in
corso alla data di entrata in vigore della presente legge, una
relazione sull’applicazione della legge stessa. Le regioni sono
tenute a fornire le informazioni necessarie entro il mese di febbraio
di ciascun anno, sulla base di questionari predisposti dal Ministero
della salute.
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara’ inserita
nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica
italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla
osservare come legge dello Stato.

Divorzio: assegno a carico dell’eredità

Trib Roma, sez. I civ., sentenza 15 luglio 2017 (Pres. Mangano, rel.
Velletti)
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con ricorso depositato in data … 2013, A A ha chiesto che le venisse
attribuito un assegno mensile a carico dell’eredità di B B deducendo che:
con sentenza n. …, emessa in data .. l’intestato Tribunale ha pronunciato
la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con B B
stabilendo l’obbligo di versare in favore della ricorrente l’assegno
divorzile di lire 100.000, rivalutabile annualmente; nel giugno 2000 il B
contraeva nuove nozze con ..; con decreto del …2006 di modifica delle
condizioni di divorzio, adottato su ricorso della ricorrente, il Tribunale di
Roma, aumentava l’assegno divorzile posto a carico del B e a favore della
A fino ad € 260,00 mensili oltre rivalutazione; in data .. 2010 B B
decedeva lasciando in eredità alla seconda moglie .. ed ai figli avuti dal
primo matrimonio -…. e … B, asse ereditario costituito da conti correnti
attivi e beni mobili ed immobili per € 81.151,38. Tanto premesso la
ricorrente ha esposto di non aver contratto nuove nozze, né percepito
dalla data del decesso del coniuge l’assegno divorzile, e di versare in uno
stato di precarietà economica, essendo priva di capacità lavorativa anche
a causa di problemi di salute, ed ha concluso nei termini sopra riportati.
Si è costituita …, chiedendo il rigetto della domanda della ricorrente,
per insussistenza di uno stato di bisogno in capo alla A titolare di
pensione di reversibilità del defunto ex marito, pari al 25% del totale,
come statuito in sentenza n…..emessa dal Tribunale di Roma in data …
2014, pari a circa € 450,00 mensili per tredici mensilità, oltre ad essere
proprietaria al 100% della casa di abitazione e ad aver percepito arretrati
a titolo di pensione di reversibilità.
Si è costituita … B chiedendo il rigetto della domanda per
insussistenza dello stato di bisogno in capo alla ricorrente proprietaria
della casa di abitazione , titolare di pensione di reversibilità e di pensione
di invalidità come dalla stessa attestato nella documentazione prodotta.
Inoltre, la resistente B ha affermato la disponibilità in capo alla ricorrente
di somme derivanti dall’alienazione, in data …2011, di un immobile in
Roma per il corrispettivo di € 355.000, importo del quale solo una parte,
pari ad € 155.000, sarebbe stata impiegata dalla A per l’acquisto della
casa di abitazione, potendo pertanto la stessa godere della somme
residua, pari a circa € 200.000,00 nonché di altre somme percepite a
titolo di arretrati della pensione di reversibilità (€ 14.000,00) e a quota di
TFR percepito nel 2008 da … B (€ 7.253,67). La resistente rilevando la
mancata prova dello stato di bisogno da parte della ricorrente, stante il
mancato deposito di documentazione reddituale e patrimoniale, ha
concluso nei termini riportati.
Istruita documentalmente, la controversia, dopo il mutamento del
giudice istruttore, è stata rimessa al Collegio per la decisione.
Preliminarmente deve essere dichiarata la contumacia del convenuto
B …. ritualmente citato e non comparso.
Inoltre deve essere disposto lo stralcio della documentazione
depositata da parte ricorrente all’udienza di precisazione delle
conclusioni, trattandosi di deposito cartaceo non avvenuto in forma
telematica, ma soprattutto non autorizzato dal giudice procedente.
Peraltro, la documentazione prodotta del tutto incompleta e in parte
proveniente dalla stessa ricorrente è comunque irrilevante ai fini della
decisione, poiché la lacunosità della stessa non consentirebbe alcuna
idonea ricostruzione della situazione reddituale e patrimoniale della
parte ricorrente.
Nel merito, la domanda formulata dalla ricorrente è infondata e deve
essere respinta.
A norma dell’art.9 bis della L.898/70 “A colui al quale e’ stato
riconosciuto il diritto alla corresponsione periodica di somme di denaro
a norma dell’articolo 5, qualora versi in stato di bisogno, il tribunale,
dopo il decesso dell’obbligato, puo’ attribuire un assegno periodico a
carico dell’eredita’ tenendo conto dell’importo di quelle somme, della
entita’ del bisogno, dell’eventuale pensione di reversibilita’, delle
sostanze ereditarie, del numero e della qualita’ degli eredi e delle loro
condizioni economiche. L’assegno non spetta se gli obblighi
patrimoniali previsti dall’articolo 5 sono stati soddisfatti in unica
soluzione.
Su accordo delle parti la corresponsione dell’assegno puo’ avvenire
in unica soluzione. Il diritto all’assegno si estingue se il beneficiario
passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno. Qualora
risorga lo stato di bisogno l’assegno puo’ essere nuovamente attribuito.”
Posto che l’assegno di cui si tratta è diretto a garantire al coniuge
divorziato, che venga a trovarsi in uno stato di bisogno per essere rimasto
privo dell’assegno di divorzio a seguito della morte dell’obbligato (il quale
abbia lasciato beni ereditari), di sopperire al venirmeno di detto assegno,
presupposto per ottenere l’assegno di cui all’art.9 bis della L.898/70 è lo
stato di bisogno del richiedente. Sul richiedente grava il relativo onere
della prova dell’allegato stato di bisogno.
Nel caso di specie, la ricorrente nel ricorso introduttivo non ha fornito
alcuna indicazione in merito ai redditi percepiti, limitandosi a
rappresentare lo stato di invalidità del ….% e depositando modello ISEE,
riferito al solo anno 2012, da cui si evinceva la percezione di una pensione
di invalidità, la presenza di un patrimonio mobiliare (per € 8.500) e di
patrimonio immobiliare (quantificato ai fini dell’ISEE in € 41.755). La
ricorrente non ha depositato alcun documento bancario ad eccezione
della copia di una pagine di un estratto di conto corrente bancario, datato
….2010, al solo fine di dimostrare la percezione dell’assegno divorzile,
pari a quella data ad € 280,00.
Dalla documentazione prodotta dalle parti convenute risulta provato
che la ricorrente percepisce in forza di sentenza dell’intestato Tribunale
pensione di reversibilità dell’ex coniuge, pari a circa € 430,00
(corrispondente al 25% dell’importo totale del quale …., coniuge
superstite del de cuius percepisce la restante quota del 75%). Inoltre,
risulta provato attraverso l’esame degli atti pubblici di compravendita
depositati dalla convenuta B, che A A ha alienato, in data ….2011, un
immobile di sua esclusiva proprietà, sito in …, … … n…., per il
corrispettivo di € 355.000,00, acquistando in data …2012, immobile in …
via … (destinato a sua abitazione) per il corrispettivo di € 155.000
versando al venditore l’importo in contanti.
La ricorrente oltre a non aver neppure dato atto, nel ricorso
introduttivo, della titolarità dell’immobile e delle compravendite
immobiliari successive alla morte dell’ex coniuge non ha documentato la
destinazione di € 200.000,00, pari alla differenza tra l’importo percepito
dall’alienazione del primo immobile e quello erogato con l’acquisto del
secondo immobile destinato a sua abitazione. L’allegazione contenuta
solo nella comparsa conclusionale di aver donato tale somma al figlio
nato dalla relazione more uxorio intrattenuta dalla ricorrente dopo il
divorzio dall’ex coniuge, oltre ad essere tardiva non ha alcun riscontro,
essendo le affermazioni del procuratore della parte, contenute negli atti
conclusivi prive di alcun valore probatorio.
Parimenti la ricorrente non ha fornito riscontri documentali della
destinazione delle somme percepite a titolo di quota di TFR erogata dal
defunto ex marito nel 2008, e degli arretrati della pensione di
reversibilità percepiti nel 2014 e pari a circa € 14.000,00, limitandosi
anche in questo caso ad affermare nelle comparse conclusionali di aver
aiutato economicamente il terzo figlio e il figlio… B.
Inoltre, non è stata adeguatamente documentata neppure la situazione
reddituale della ricorrente, avendo la stessa affermato nell’atto
introduttivo di essere invalida e nei successivi atti di percepire pensione
di invalidità, e di aver successivamente percepito pensione di
reversibilità, perdendo il diritto alla corresponsione della pensione di
invalidità, senza documentare tale situazione previdenziale malgrado
l’onore a suo carico di dimostrare la sussistenza dello stato di bisogno
presupposto per il riconoscimento del diritto all’assegno a carico
dell’eredità dell’ex coniuge defunto.
La condizione esistenziale definita dal codice civile come stato di
bisogno si identifica in quello stato personale, reddituale e patrimoniale
in cui versa colui che non abbia risorse reddituali e patrimoniali e non sia
in grado di provvedere alle proprie esigenze primarie.
Come affermato dalla Corte di legittimità con sent.n.1253 del 27
gennaio 2012 “L’assegno a carico dell’eredità, previsto dall’art. 9 bis
della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (non modificato dalla legge 6
marzo 1987, n. 74) in favore dell’ex coniuge in precedenza beneficiario
dell’assegno di divorzio, avendo natura assistenziale, postula che il
medesimo si trovi in stato di bisogno, vale a dire manchi delle risorse
economiche occorrenti per soddisfare le essenziali e primarie esigenze
di vita. Pertanto, detto assegno va quantificato in relazione al
complesso degli elementi espressamente indicati nello stesso art. 9-bis,
cioè tenendo conto, oltre che della misura dell’assegno di divorzio,
dell’entità del bisogno, dell’eventuale pensione di reversibilità, delle
sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro
condizioni economiche. A tale riguardo, l’entità del bisogno deve essere
valutata non già con riferimento alle norme dettate da leggi speciali per
finalità di ordine generale di sostegno dell’indigenza, bensì in relazione
al contesto socio-economico del richiedente e del “de cuius”, in analogia
a quanto previsto dall’art. 438 cod. civ. in materia di alimenti”.
La mancata ottemperanza da parte della ricorrente all’onere di
dimostrare la propria situazione reddituale e patrimoniale, a fronte della
copiosa documentazione prodotta dalle parti resistenti dalla quale risulta
la disponibilità in capo alla A di trattamento pensionistico di reversibilità,
di immobile di abitazione, e degli importi percepiti dall’alienazione di un
immobile e ad altro titolo, fanno ritenere non provato lo stato di bisogno
di A A, la quale non appare priva dei mezzi che le occorrono per far fronte
alle sue esigenze di vita.
In merito deve inoltre essere evidenziato come nella sentenza n…. VG
emessa dall’intestato Tribunale, in data del … 2014, nella controversia tra
la A e la …. per determinare le quote della pensione di reversibilità del
defunto B spettanti a ciascuna, il Collegio nella motivazione posta a
fondamento della determinazione di tale quota ha accertato “va altresì
considerato che le condizioni economiche della A non sono affatto
disagiate potendo la ricorrente contare sulla proprietà di un
appartamento in …. e su consistenti risparmi in titoli”.
Per quanto esposto la domanda proposta dalla ricorrente deve essere
rigettata e le spese di giudizio liquidate in dispositivo seguono la
soccombenza con conseguente condanna della …. a rifondere a ciascuna
delle convenute costituite le spese di procedimento. Nulla per le spese
con riferimento al convenuto …. B rimasto contumace.
Non sussistono i presupposti per la condanna della ricorrente ex art.
96 c.p.c..
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda
disattesa, così decide:
• rigetta la domanda proposta da A A;
• condanna A A a rifondere le spese processuali in favore delle
convenute costituite …. e … B che si determinano in € 3.000 per
ciascuna delle convenute, oltre accessori di legge.

Dichiarazione giudiziale di maternità: anonimato e diritto alle origini

Trib Roma, sez. I civ., sentenza 12 maggio 2017 (Pres. Mangano,
rel. Ciavattone)
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con atto di citazione ritualmente notificato X X ha citato innanzi
all’intestato Tribunale i signori Y Y e Y Y, in qualità di eredi di X Z, nata a
Roma il …. ed ivi deceduta il ….per sentir dichiarare che la defunta X Z
era la madre dell’attore, con ogni conseguente annotazione sull’atto di
nascita del medesimo, originariamente registrato con il nome di X …
A sostegno della domanda ha dedotto di essere nato a Roma presso la
clinica … il …, registrato quale figlio di donna che non consente di essere
nominata, ed appellato con nome e cognome di X …; di essere stato
affidato in via provvisoria dapprima ad una famiglia e poi in via definitiva
ai nonni materni X X (… il ..) e .. (…), con attribuzione del cognome X in
luogo di quello assegnatogli alla nascita; di essere vissuto, sin dal …, con i
nonni e con la propria madre, considerata una sorella maggiore, che lo
aveva sempre accudito insieme ai propri genitori e che nel … aveva
contratto matrimonio con Y Y, dando alla luce un altro figlio, Y ..; che
l’esame genetico a cui spontaneamente le parti si erano sottoposte
riconosceva il legame genetico tra i fratelli, figli della stessa madre.
I convenuti, rispettivamente marito e figlio di X Z, premesso di essere
venuti a conoscenza che X Z fosse la madre biologica dell’attore solo
successivamente alla morte della stessa, ritenendo fino ad allora che
l’attore fosse figlio dei coniugi X X e …, come era stato loro raccontato,
non hanno contestato la domanda.
Istruita con produzioni documentali, la causa è stata rimessa al Collegio
per la decisione all’udienza del 10.5.2017, previa rinuncia delle parti ai
termini di cui all’art.190 c.p.c.
§§§
L’azione promossa nel presente giudizio ai sensi dell’art. 269 c.c.
(dichiarazione giudiziale di maternità) non è finalizzata alla conoscenza
delle proprie origini e della storia della propria nascita, perché l’attore si
è dichiarato, pur soggettivamente, certo dell’identità della propria madre,
quanto piuttosto ad ottenere il riconoscimento dello status di figlio nei
confronti della presunta madre, ormai defunta, che al momento del parto
aveva chiesto di non essere nominata.
Occorre premettere brevemente che il diritto all’anonimato della madre è
previsto espressamente dal nostro ordinamento; infatti, l’ordinamento
dello stato civile vigente al momento della nascita dell’attore (R.D. n.
1238/1939, art.73) prevedeva che il riconoscimento, per l’ipotesi di figlio
nato da unione illegittima, dovesse essere fatto soltanto per il genitore o
per i genitori che rendessero personalmente la dichiarazione, o che
avessero fatto constatare per atto pubblico il proprio consenso ad essere
nominati. La disposizione è rimasta sostanzialmente immutata nel testo
dell’ordinamento dello stato civile dapprima modificato dalla legge n.
127/1997, quindi confluito nel D.P.R n. 396/2000 che all’art. 30, comma
primo, dispone che “la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori,
da un procuratore speciale ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra
persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della
madre di non essere nominata”.
Il fondamento costituzionale di tali disposizioni, come chiarito dalla
Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 425/2005), riposa sull’esigenza
di tutelare la gestante che versi in situazioni particolarmente difficili dal
punto di vista personale, economico o sociale ed abbia deciso di non
tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una
struttura sanitaria appropriata ed in condizioni ottimali e di mantenere al
contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita.
La natura e la portata del diritto all’anonimato della madre sono state
oggetto di diversi interventi della Corte Europea dei diritti dell’Uomo
(caso Godelli c. Italia del 22.9.2012) e della Corte Costituzionale
(sentenza n. 278 del 2013) che, sebbene relativi all’esame delle ipotesi di
accesso alle informazioni che riguardino l’origine e l’identità dei genitori
biologici di soggetti adottati (art. 28 della legge n. 184/1983), diverse
quindi dal caso di specie, hanno espresso un principio di portata generale
censurando l’irreversibilità del segreto circa l’identità della madre,
prevedendo la necessità di indagare la persistenza della volontà della
donna di non volere essere nominata.
Rimane, tuttavia, fermo il principio in base al quale deve essere rispettata
la volontà della madre di rimanere anonima, qualora non vi sia
espressione di una diversa determinazione da parte della stessa.
Nel caso in esame, l’adesione alla domanda da parte dei convenuti, quali
eredi della presunta madre biologica che aveva chiesto l’anonimato, fa
venir meno le ragioni di tutela della scelta a suo tempo compiuta dalla
donna, per cui deve darsi atto che ad oggi non sussistono interessi
contrapposti delle parti, che chiedono congiuntamente il medesimo
accertamento.
Del resto, di recente, anche la Suprema Corte, nel caso di cd. parto
anonimo, ha riconosciuto il diritto del figlio, dopo la morte della madre,
di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle
informazioni relative all’identità personale della stessa, “non potendosi
considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha
partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del
documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza
al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che
rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere
nominata, previsto dall’art. 93, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, che
determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte
e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente
contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte Cost. n. 278
del 2013) e l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di
protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il
corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale
scelta” (cfr. Cass. n.15024/2016; n.22838/2016).
Venendo quindi al merito della questione, deve essere precisato che
l’attore, pur avendo avuto un rapporto filiale con i signori X X e …. (nonni
materni) ed avendo assunto il cognome del primo in forza del
provvedimento di affiliazione del Giudice Tutelare nel …, non ha
acquisito rispetto agli stessi lo stato giuridico di figlio legittimo (non
trattandosi di adozione), ragion per cui l’assenza di un pregresso legame
giuridico filiale rende ammissibile la presente azione, posto che l’art 253
c.c. prevede che in nessun caso è ammesso un riconoscimento in
contrasto con lo status di figlio in cui la persona si trova.
Le prove genetiche eseguite in via stragiudiziale dall’attore e dal
convenuto Y … in data ..2016 hanno provato senza margini di incertezza
la consanguineità (fratello-fratello) delle parti, figli della stessa madre
biologica. In difetto di elementi contrari ed in assenza di contestazione
alcuna, avendo tutte le parti concordato sull’esito dell’indagine genetica
espletata, deve ritenersi che tali indagini siano state eseguite con
modalità tecniche adeguate e con appropriate competenze, per cui non vi
è motivo alcuno per dubitare della loro affidabilità.
Il Collegio ritiene del tutto condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale in
base al quale “le prove emato-genetiche sono prove in senso proprio,
giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scientifica consente di
esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere decisivo il loro
contributo nell’attribuzione della paternità o maternità di un soggetto,
conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla
certezza (cfr. App Milano 9/11/2001, cfr. anche Corte Costituzionale n
266/06 con riguardo all’art. 235 c.c).
Deve, perciò, ritenersi raggiunta la prova del rapporto di filiazione e deve
essere conseguentemente dichiarato che l’attore è figlio di X Z, nata …..
ed ivi deceduta il …., con ogni conseguente obbligo da parte del
competente ufficiale dello stato civile.
La natura e l’esito del giudizio, in relazione alla condotta processuale
delle parti, legittimano l’integrale compensazione della spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede:
– dichiara che X X, n. a … in data … è figlio di X Z, nata a … ed ivi
deceduta il …;
– ordina all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Roma di provvedere
all’annotazione della presente sentenza in calce all’atto di nascita del
predetto;
– dichiara interamente compensate le spese di lite.

ASSEGNO DI DIVORZIO

di Gianfranco Dosi
I Il presupposto per l’attribuzione dell’assegno di divorzio: non avere mezzi adeguati (o non poterseli procurare per ragioni oggettive)
L’art. 5, comma 6, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 sul divorzio, nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 prevede che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla condu¬zione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Secondo il testo della legge il presupposto legale per l’attribuzione dell’assegno di divorzio è, quindi, il “non avere propri mezzi adeguati” che la norma considera equivalente al “non poterseli procurare per ragioni oggettive”.
È utile ripercorrere brevemente la strada seguita dal legislatore.
Quando fu introdotto il divorzio in Italia (con la legge 1° dicembre 1970, n. 898), l’art. 156 del codice civile (non ancora allora riformato) prevedeva che “il coniuge che non ha colpa nella sepa¬razione personale, conserva i diritti inerenti alla sua qualità di coniuge che non sono incompatibili con lo stato di separazione”. Vi era quindi una sostanziale continuità tra la condizione di coniu¬ge e quella di coniuge separato che lasciava anche sostanzialmente inalterate le obbligazioni di mantenimento sempre che la separazione non fosse stata pronunciata per colpa del coniuge che richiedeva l’assegno (“Il coniuge per colpa del quale è stata pronunziata la separazione non ha diritto che agli alimenti”).
In questo contesto di sostanziale continuità tra vita coniugale e vita post-coniugale si poneva anche l’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio nella parte in cui originariamente prevedeva che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale as¬segno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione”.
Come si vede si dava per scontato – e ciò appare del tutto comprensibile se si pensa all’epoca in cui la legge vedeva la luce – che anche in sede divorzile sopravvivesse inalterato un diritto alla reci¬proca assistenza economica la cui determinazione veniva ancorata ad una polifunzionalità dell’as¬segno collegata alle ragioni della decisione (funzione risarcitoria collegata all’eventuale addebito della separazione), all’entità dei redditi dei coniugi (funzione cosiddetta assistenziale), all’esigenza di compensare i sacrifici e l’apporto reciproco (funzione cosiddetta compensativa).
Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 l’art. 156 del codice civile, nella parte in cui si riferiva all’assegno di mantenimento di separazione, cambiò impostazione rompendo quella continuità tra vita coniugale e post coniugale che, come si è detto, neanche la legge sul divorzio aveva infranto. Il nuovo art. 156 del codice civile veniva riformulato nel senso (nel testo vigente ancora oggi) che il coniuge al quale la separazione non è addebitata ha “diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. L’entità di questa somministrazione – avverte poi la stessa disposizione – “è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato”.
Fondamentale nell’operazione di cambiamento è l’espressione “qualora egli non abbia adeguati redditi propri” che indica il presupposto di attribuzione dell’assegno di mantenimento. L’assegno è dovuto solo allorché il coniuge richiedente non abbia “adeguati redditi propri”.
A questo nuovo paradigma si adeguò anche la legge sul divorzio con la riforma operata dalla leg¬ge 6 marzo 1987, n. 74 che di fatto parificò nei suoi presupposti l’assegno di divorzio a quello di separazione. Infatti il nuovo art. 5, comma 6, della legge 898/1970 veniva modificato nel 1987 prevedendosi che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della de-cisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. Anche l’assegno di divorzio, quindi, dal 1987 diventava dovuto al coniuge che lo richiede “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati”.
Il non avere redditi e mezzi adeguati è diventato così sia in sede di separazione che di divorzio il comune denominatore del diritto al mantenimento. Questo denominatore comune viene indicato in giurisprudenza affermandosi che l’assegno di separazione e divorzile hanno entrambi natura assistenziale, cioè sono destinati a sopperire alla mancanza di mezzi adeguati da parte del coniuge o dell’ex coniuge che richiede l’assegno (per esempio Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1264; Cass. civ. Sez. VI, 13 ottobre 2014, n. 21597; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2013, n. 3398; Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 2013, n. 26491; Cass. civ. Sez. I, 29 febbraio 2008, n. 5434; Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2004, n. 2897; Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 2000, n. 2920).
II Che significa non avere mezzi adeguati? L’interpretazione che raffronta l’adeguatezza dei mezzi al tenore di vita pregresso
a) L’orientamento che a partire dalle Sezioni Unite del 1990 rapporta al tenore di vita pregresso il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione di chi richiede l’assegno divorzile

Ad interpretare il significato dell’espressione “mezzi adeguati” utilizzata nell’art. 5, sesto comma, della legge sul divorzio (nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) si era mossa pron¬tamente la giurisprudenza subito dopo la riforma operata con tale legge.
Due orientamenti si contrapposero immediatamente in questa disputa. Cass. civ. Sez. I, 17 mar¬zo 1989, n. 1322 (Relatore Finocchiaro) aveva ritenuto che sulla base del nuovo dato normativo l’obbligo di un coniuge, di somministrare periodicamente a favore dell’altro coniuge un assegno, in tanto sorge in quanto il coniuge preteso beneficiario sia privo di mezzi adeguati oppure non possa procurarseli per ragioni oggettive. La legge – continua la sentenza – non fornisce la nozione di “mezzi adeguati”. Ritiene il Collegio che con l’aggettivo “adeguato” occorre far capo alla dottrina ed alla giurisprudenza che, nell’interpretare l’espressione equivalente mancanza di “adeguati red¬diti propri” usata in tema di separazione dall’art. 156 c.c. hanno ritenuto che il difetto dei redditi adeguati sussiste quando il coniuge preteso beneficiario dell’assegno non abbia redditi propri che gli consentano il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello che aveva in costanza di ma¬trimonio. Analoga interpretazione può seguirsi in relazione alla formula usata nel novellato somma sesto dell’art. 5 c.c. della legge sul divorzio, non essendovi argomenti per attribuire all’aggettivo “adeguati” una accezione diversa da quella riconosciutagli in sede di separazione personale.
Una interpretazione radicalmente diversa aveva invece successivamente proposto Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652 (Relatore Senofonte) sostenendo che nel giudizio per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici di cui dispone il richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale. È, dunque, l’autonomia economica (o il suo contrario) del richiedente che, nella filosofia della riforma, assume un ruolo decisivo, nel senso che l’altro coniuge tenuto ad “aiutarlo” solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti, quindi, in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio. Questa conclusione – chiarisce la sentenza – aderisce, da un lato, ad una ricostru¬zione del sistema che non lascia spazio alla improbabile sopravvivenza di uno “status” economico connesso ad un rapporto personale definitivamente estinto (ma, se fosse vero il contrario, patri¬monialmente indissolubile) e soddisfa, dall’altro, quelle esigenze solidaristiche che trovano non nel suo fittizio prolungamento, ma nella sua cessazione la propria ragione giustificatrice, liberando, ad un tempo, la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche, che, dando per acquisite e fornite di ultrattività posizioni, molte volte, di “pura rendita” (come si esprime la citata relazione parlamentare), oltre a stravolgere l’essenza del matrimonio, ne possono favorire la disgregazione, deresponsabilizzando il beneficiario, e, una volta che questa si sia verificata, as¬solverlo dall’obbligo di attivarsi per realizzare con le proprie risorse la sua personalità e acquisire, cosi, una dignità sociale effettiva e condivisa.
Chiamate a risolvere il contrasto le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490) lo risolsero aderendo all’interpretazione della prima decisione sopra ricordata e precisan¬do che l’assegno periodico di divorzio – come modellato dalla riforma del 1987 – ha carattere esclu¬sivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rile¬vando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio.
Pertanto dal 1990 è prevalso in giurisprudenza l’orientamento che – parificando di fatto l’assegno di separazione a quello di divorzio1 – rapporta il giudizio di adeguatezza dei redditi al pregresso te¬nore di vita della vita coniugale. La funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio comporta quindi, secondo questo orientamento, che l’attribuzione dell’assegno è da considerare subordinata alla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante da intendersi come inidoneità a con¬sentirgli la prosecuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, senza che, all’uopo, sia necessario accertare la esistenza di un vero proprio stato di bisogno dell’a¬vente diritto (che può ben risultare economicamente autosufficiente), rilevando, per converso, esclusivamente la circostanza dell’apprezzabile deterioramento delle sue condizioni economiche che, in linea generale, vanno ripristinate con riferimento a quelle precedenti alla cessazione del vincolo matrimoniale.
Su questa linea di equiparazione tra assegno di separazione e assegno di divorzio sono molto chiare Cass. civ. Sez. I, 20 febbraio 1991, n. 1809, Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 1993, n. 11326, Cass. civ. Sez. I, 20 dicembre 1995, n. 13017, Cass. civ. Sez. I, 2 luglio 1998, n. 6468, Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2000, n. 412, Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2000, n. 13460, Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 4584 secondo cui sostanzialmente l’assegno di divorzio ha la funzione di ripristinare una condizione economica adeguata e quella goduta in costanza di matrimonio, in base ad una valutazione comparativa delle rispettive situazioni del¬le parti, in proporzione delle sostanze dell’obbligato e tenuto conto del carattere assistenziale dell’assegno medesimo.
Secondo questo filone interpretativo il giudice del divorzio deve, dunque, assicurare la conserva¬zione del tenore di vita, goduto in costanza del matrimonio.
1 Sulla costante attribuzione all’assegno di separazione della funzione di garantire il tenore di vita goduto in corso di convivenza matrimoniale cfr la voce ASSEGNO DI SEPARAZIONE
b) In che cosa consiste il “tenore di vita”?
L’obiettivo di garantire il tenore di vita pregresso ha portato la giurisprudenza a concentrarsi sul significato dell’espressione “tenore di vita”.
Nel significato comune di questa espressione ci si riferisce all’insieme delle opportunità che le condizioni economiche offrono alla coppia e alla famiglia. Se le condizioni economiche sono buone sarà buono anche il tenore di vita. Almeno di regola. Il tenore di vita durante la convivenza matri¬moniale è costituito “dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio”. Questo “tenore di vita” è, nell’interpretazione in questione, l’elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del coniuge richiedente (Cass. civ. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 13026; Cass. civ. Sez. I, 24 aprile 2007, n. 9915; Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256; Cass. civ. Sez. I, 30 marzo 2005, n. 6712; Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 2000, n. 3792; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3490).
Il concetto di tenore di vita fa riferimento e condiziona le spese quotidiane, la scelta della scuola dei figli, la scelta del luogo e del modo delle vacanze, gli acquisti di beni di consumo e di beni voluttuari.
In genere corrisponde alle reali disponibilità dei coniugi, con la conseguenza che ne è agevole la prova (che è, naturalmente, carico della parte richiedente l’assegno: da ultimo Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 30 ottobre 2017, n. 25781 secondo cui la dimostrazione del tenore di vita avuto in costanza del matrimonio e della sua attuale condizione patrimoniale compete al coniuge che richiede l’ assegno e l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive, è da valutarsi in relazione alla situazione esistente nell’attualità e, in particolare, alla possibilità, per il richiedente, di svolgere un’attività lavorativa adeguata alla sua qualifica, posizione sociale e con¬dizioni personali, d’età e di salute).
Il tema della prova ha bisogno, però di qualche precisazione.
Per esempio il tenore di vita di una coppia potrebbe essere inferiore a quello che la coppia si sa¬rebbe potuta permettere (come nelle famiglie in cui si risparmia molto o si decide di investire la maggior parte dei guadagni o anche solo in quelle coppie in cui il coniuge che guadagna per tacca¬gneria o per altri motivi non intende mettere i suoi guadagni a disposizione dell’altro) ovvero po¬trebbe essere un tenore di vita superiore a quello possibile (come nel caso in cui i coniugi ricorrano a numerosi prestiti bancari per sovvenzionare gli acquisti). Se il tenore di vita si dovesse misurare in entrambi i casi con lo stesso metro (che è quello usualmente dei livelli di spesa) nel primo caso (coniugi che conducono un tenore di vita inferiore alle possibilità) si verificherebbe una situazione di svantaggio evidente per il coniuge debole le cui pretese si dovrebbero misurare con il basso tenore di vita imposto nella vita matrimoniale. Nel caso inverso (in cui il tenore di vita della coppia era superiore alle possibilità) ne rimarrebbe svantaggiato il coniuge obbligato che potrebbe essere chiamato a garantire all’altro dopo la separazione un tenore di vita che già in corso di matrimonio era superiore alle possibilità.
Ne deriva che in presenza di un tenore di vita matrimoniale corrispondente alle possibilità dei coniugi è questo il parametro utilizzato dalla giurisprudenza per valutare se il coniuge richiedente l’assegno possa o meno da solo tendenzialmente garantirsi quel tenore di vita.
In presenza di un tenore di vita matrimoniale inferiore alle possibilità si fa riferimento al tenore di vita potenziale che la coppia avrebbe potuto garantirsi (Cass. civ. Sez. I, 30 marzo 2009, n. 7614 dove si legge che la quantificazione dell’assegno deve tenere conto del tenore di vita, anche soltanto potenziale, dei coniugi in costanza di matrimonio, alla luce dei rispettivi redditi personali, senza che possa incidere negativamente il tenore di vita di livello inferiore, rispetto alle possibi¬lità effettive, goduto dai coniugi durante la convivenza) e Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2006, n. 18547 e Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2000, n. 7700; Cass. civ. Sez. I, 26 novembre 1996, n. 10465, nelle quali si afferma, analogamente, che non ha rilievo che, prima della separazione, il coniuge richiedente avesse eventualmente tollerato, subito o – comunque – accettato un tenore di vita più modesto”. Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1994, n. 7437 molto esplicitamente afferma che nel caso in cui “uno dei coniugi, sottraendosi all’obbligo di contribuire, a misura dei propri mezzi economici, alle esigenze globali della coppia (e dei figli), fa vivere l’altro coniuge in ristrettezze o, comunque, non gli assicura un tenore di vita corrispondente a quello che ragionevolmente potreb¬be permettere a sé ed alla sua famiglia, l’altro coniuge, una volta separatosi, può pretendere per il proprio mantenimento un assegno proporzionato alla posizione economica del consorte, indipen¬dentemente dal tenore di vita tollerato prima della separazione”.
Il concetto di tenore di vita potenziale è ripreso spesso anche nella giurisprudenza di merito (per tutte App. Roma Sent., 10 giugno 2009).
Viceversa in presenza di un tenore di vita matrimoniale superiore alle possibilità si fa riferimento ad un concetto di tenore di vita possibile.
III Che significa non avere mezzi adeguati? L’orientamento interpretativo che fa leva sull’indipendenza economica
a) L’orientamento interpretativo che a partire da Cass. 11504/2017 fa leva sul criterio dell’indipendenza economica
La prima sezione della Corte di cassazione nel 2017 ha adottato improvvisamente un criterio di¬verso da quello elaborato dalle Sezioni Unite nel 1990.
Come si è sopra detto, già Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652 – poi smentita dalle Sezioni Unite del novembre successivo – aveva sostenuto che nel giudizio per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici di cui dispone il richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, essendo, dunque, l’autonomia e l’indipendenza economica del richiedente ad assumere un ruolo decisivo, nel senso che l’altro coniuge è tenuto a corrispondere un assegno solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti, quindi, in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conse¬guente alla dissoluzione del matrimonio, in ciò “liberando la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche”.
A questa posizione si è ricollegata Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 secondo cui la valutazione sull’adeguatezza dei mezzi andrebbe individuata non nel raffronto con il tenore di vita pregresso, ma nel raggiungimento dell’autosufficienza e dell’indipendenza economica della parte richiedente.
Il giudizio sull’attribuzione o meno, quindi, dell’assegno divorzile andrebbe informato, secondo questo orientamento al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno degli ex coniugi quali “persone singole”. Il diritto di famiglia diventa, così, diritto dei singoli componenti della fami¬glia. Considerato che questa interpretazione dell’espressione “mezzi adeguati” modifica in modo radicale l’impostazione alla quale si è uniformata la giurisprudenza degli ultimi trent’anni, sarebbe stato certamente opportuno rimettere alle Sezioni Unite la decisione (che la prima sezione ritiene espressamente di non dover fare dato il lungo lasso di tempo dalla sentenza da cui si discosta) anziché creare un precedente che potrebbe essere smentito da successive pronunce.
Il Tribunale di Milano, nel dichiarare il divorzio tra due coniugi, aveva respinto la domanda di asse¬gno divorzile proposta dalla moglie e la Corte d’appello aveva confermato la decisione, ritenendo non dovuto l’assegno divorzile “non avendo questa dimostrato l’inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale”.
Con il ricorso per cassazione la moglie si doleva di questa valutazione. ma la prima sezione della Cassazione ha ritenuto che la Corte d’appello – pur non avendo fondato la decisione sul raffronto dei mezzi della moglie richiedente con il pregresso tenore di vita della coppia coniugale (in ciò di¬scostandosi dall’orientamento prevalente) – fosse pervenuta a una conclusione conforme a diritto, avendo ritenuto – in definitiva che la richiedente non avesse assolto l’onere di provare la sua non indipendenza economica, all’esito di un giudizio di fatto adeguatamente argomentato, dal quale emerge che la moglie “è imprenditrice, ha un’elevata qualificazione culturale, possiede titoli di alta specializzazione e importanti esperienze professionali anche all’estero e che, in sede di separa¬zione, i coniugi avevano pattuito che nessun assegno di mantenimento fosse dovuto dal marito”.
Si rendeva pertanto necessario, nel confermare la decisione della Corte d’appello, correggerne la motivazione
Hanno sostenuto i giudici della prima sezione della Corte di cassazione che con il divorzio il rap¬porto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191 c.c., comma 1) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143 c.c., comma 2), fermo ovviamente, in presenza di figli, l’esercizio della respon¬sabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi (cfr. art. 317 c.c., comma 2, e da artt. 337-bis a 337-octies c.c.).
Da questa premessa – che secondo i giudici non si pone affatto in contrasto con la natura assisten¬ziale dell’assegno divorzile che viene anzi riaffermata e confermata – deriva che il diritto all’asse¬gno di divorzio è sempre condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all’accertamento giudiziale della mancanza di “mezzi adeguati” dell’ex coniuge richiedente l’assegno o, comunque, dell’impossibilità dello stesso “di procurarseli per ragioni oggettive” (come precisato nell’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio) ma il carattere condizionato del diritto all’assegno di divor¬zio deve fondarsi su una interpretazione dell’espressione “mezzi adeguati” che non crei indebite commistioni tra solidarietà matrimoniale (cui sono collegati i criteri relativi al quantum debeatur dell’assegno) e diritti post-coniugali (collegati al riconoscimento dell’ an debeatur).
A tale proposito si afferma che, “è noto che, sia prima sia dopo le fondamentali sentenze delle Sezioni Unite nn. 11490 e 11492 del 29 novembre 1990, il parametro di riferimento – al quale rapportare l’”adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” del richiedente – è stato costantemente individuato da questa Corte nel “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”. A distanza di quasi ventisette anni, il Collegio ritiene tale orientamento, per le molteplici ragioni che seguono, non più attuale.
A) Il parametro del “tenore di vita” – se applicato anche nella fase dell’an debeatur – collide ra¬dicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: infatti con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale – a differenza di quanto accade con la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all’art. 143 cod. civ. -, sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo sia pure limitatamente alla dimensione economica del “tenore di vita matrimoniale” ivi condotto – in una indebita prospettiva, per così dire, di “ultrattività” del vincolo matrimoniale.
B) La scelta di detto parametro implica l’omessa considerazione che il diritto all’assegno di divor¬zio è eventualmente riconosciuto all’ex coniuge richiedente, nella fase dell’an debeatur, esclusi¬vamente come “persona singola” e non già come (ancora) “parte” di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disciplina dell’assegno di divorzio, sia pure per implicito ma in modo inequivoco, al principio di “autoresponsabilità” economica degli ex coniugi dopo la pronuncia di divorzio.
C) La “necessaria considerazione”, da parte del giudice del divorzio, del preesistente rapporto ma¬trimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale (“…il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio…”) è normativamente ed esplicitamente prevista soltanto per l’eventuale fase del giudizio avente ad oggetto la determinazione dell’assegno (quantum debeatur), vale a dire – come già sottolineato – soltanto dopo l’esito positivo della fase precedente (an debeatur), conclusasi cioè con il riconoscimento del diritto all’assegno.
D) Il parametro del “tenore di vita” induce inevitabilmente ma inammissibilmente, come già rile¬vato, una indebita commistione tra le predette due “fasi” del giudizio e tra i relativi accertamenti.
E) Le Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell’esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio “inteso come “sistemazione definitiva”, perché il divorzio è stato assorbito dal costume sociale” con l’esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla “attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, an¬che perché sorti in epoca molto anteriore alla riforma”, con ciò spiegando la preferenza accordata ad un indirizzo interpretativo che “meno traumaticamente rompe(sse) con la passata tradizione” (così ancora la sentenza n. 11490 del 1990). Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del ma¬trimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile (matrimonio che – oggi – è possibile “sciogliere”, previo accordo, con una semplice dichiarazione delle parti all’ufficiale dello stato civile, a norma del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 12, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, art. 1, comma 1). Ed è coerente con questo approdo sociale e legisla¬tivo l’orientamento di questa Corte, secondo cui la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale da parte dell’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo (cfr. le sentenze nn. 6855 del 2015 e 2466 del 2016). In proposito, un’interpretazione delle norme sull’assegno divorzile che producano l’effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo (cfr. Cass. n. 6289/2014) che è ricompreso tra quelli riconosciu¬ti dalla Cedu (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9). Si deve quindi ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’as¬segno divorzile come detto – non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclu¬sivamente – assistenziale dell’assegno divorzile.
F) Al di là delle diverse opinioni che si possono avere sulla rilevanza ermeneutica dei lavori pre¬paratori della L. n. 74 del 1987 (che inserì nell’art. 5 il fondamentale riferimento alla mancanza di “mezzi adeguati” e alla “impossibilità di procurarseli”) in senso innovativo (come sosteneva una parte della dottrina che imputava alla giurisprudenza precedente di avere favorito una concezione patrimonialistica della condizione coniugale) o sostanzialmente conservativo del precedente asset¬to (si legga in tal senso il brano della sentenza delle Sezioni Unite n. 11490/1990 che considerava non giustificato “l’abbandono di quella parte dei criteri interpretativi adottati in passato per il giu¬dizio sull’esistenza del diritto all’assegno”), non v’è dubbio che chiara era la volontà del legislatore del 1987 di evitare che il giudizio sulla “adeguatezza dei mezzi” fosse riferito “alle condizioni del soggetto pagante” anziché “alle necessità del soggetto creditore”: ciò costituiva “un profilo sul quale, al di là di quelle che possono essere le convinzioni personali del relatore, qui irrilevanti, si è realizzata la convergenza della Commissione” (cfr. intervento del relatore, sen. N. Lipari, in Assemblea del Senato, 17 febbraio 1987, 561a sed. pom., resoconto stenografico, pag. 23). Nel giudizio sull’an debeatur, infatti, non possono rientrare valutazioni di tipo comparativo tra le con¬dizioni economiche degli ex coniugi, dovendosi avere riguardo esclusivamente alle condizioni del soggetto richiedente l’assegno successivamente al divorzio.
Le osservazioni critiche sinora esposte – si legge nella sentenza – non sono scalfite: a) né dalla sentenza della Corte costituzionale n. 11 del 2015, che ha sostanzialmente recepito l’orientamen¬to in questa sede non condiviso, senza peraltro prendere posizione sulla sostanza delle censure formulate dal giudice rimettente, riducendo quella sollevata ad una mera questione di “erronea interpretazione” della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e omettendo di considerare che, in una precedente occasione, nell’escludere la completa equiparabilità del trattamento economico del coniuge divorziato a quello del coniuge separato, aveva affermato che “(….) basterebbe rilevare che per il divorziato l’assegno di mantenimento non è correlato al tenore di vita matrimoniale” (sentenza n. 472 del 1989, n. 3 del Considerato in diritto); b) e neppure dalle disposizioni di cui al comma 9 dello stesso art. 5 – secondo cui: “I coniugi devono presentare all’udienza di comparizio¬ne avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria” -, in quanto il parametro dell’”effettivo tenore di vita” è richiamato esclusivamente al fine dell’accertamento dell’effettiva consistenza reddituale e patrimoniale dei coniugi: infatti – se il primo periodo è dettato al solo fine di consentire al presidente del tribunale, nell’udienza di comparizione dei coniugi, di dare su base documentale “i provvedimenti temporanei e urgenti (anche d’ordine economico) che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole” (art. 4, comma 8) -, il secondo periodo invece, che presuppone la “contestazione” dei documenti prodotti (concernenti i rispettivi redditi e patrimoni), nell’affidare al “tribunale” le relative “indagi¬ni”, cioè l’accertamento di tali componenti economico-fiscali, richiama il parametro dell’”effettivo tenore di vita” al fine, non già del riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio al “singolo” ex coniuge che lo fa valere ma, appunto, dell’accertamento circa l’attendibilità di detti documenti e dell’effettiva consistenza dei rispettivi redditi e patrimoni e, quindi, del “giudizio comparativo” da effettuare nella fase del quantum debeatur. È significativo, al riguardo, che il riferimento agli elementi del “reddito” e del “patrimonio” degli ex coniugi è contenuto proprio nella prima parte del comma 6 dell’art. 5 relativa a tale fase del giudizio.
Sulla base di queste considerazioni iniziali la prima sezione della cassazione afferma entra nell’indi¬viduazione di un parametro diverso, che sia coerente con le premesse, affermando che “Il Collegio ritiene che un parametro di riferimento siffatto vada individuato nel raggiungimento dell’”indipen¬denza economica” del richiedente. Se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipen¬dente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto 2.
È necessario soffermarsi sul parametro dell’”indipendenza economica”, al quale rapportare l’”adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio, nonché la “possibilità-impossibilità “per ragioni oggettive”” dello stesso di procurarseli.
Va preliminarmente osservato al riguardo, in coerenza con le premesse e con la stessa nozione di «indipendenza» economica, che: a) il relativo accertamento nella fase dell›an debeatur attiene
2 Si legge in sentenza che “Tale parametro ha, innanzitutto, una espressa base normativa: infatti, esso è tratto dal vigente art. 337-septies, primo comma, cod. civ. – ma era già previsto dall’art. 155-quinquies, comma 1, inserito dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 1, comma 2, – il quale, recante “Disposizioni in favore dei figli mag¬giorenni”, stabilisce, nel primo periodo: “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli mag¬giorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”. La legittimità del richiamo di questo parametro – e della sua applicazione alla fattispecie in esame – sta, innanzitutto, nell’analogia legis (art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale) tra tale disciplina e quella dell’assegno di divorzio, in assenza di uno specifico contenuto normativo della nozione di “adeguatezza dei mezzi”, a norma della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, trattandosi in entrambi i casi, mutatis mutandis, di prestazioni eco¬nomiche regolate nell’ambito del diritto di famiglia e dei relativi rapporti.
In secondo luogo, il parametro della “indipendenza economica” – se condiziona negativamente il diritto del figlio maggiorenne alla prestazione (“assegno periodico”) dovuta dai genitori, nonostante le garanzie di uno status filiationis tendenzialmente stabile e permanente (art. 238 cod. civ.) e di una specifica previsione costituzionale (art. 30, comma 1) che riconosce anche allo stesso figlio maggiorenne il diritto al mantenimento, all’istruzione ed alla educazione -, a maggior ragione può essere richiamato ed applicato, quale condizione negativa del diritto all’assegno di divorzio, in una situazione giuridica che, invece, è connotata dalla perdita definitiva dello status di coniuge – quindi, dalla piena riacquisizione dello status individuale di “persona singola” – e dalla mancanza di una garanzia costituzionale specifica volta all’assistenza dell’ex coniuge come tale. Né varrebbe obiettare che l’art. 337-ter c.c., comma 4, n. 2, (corrispondente all’art. 155 c.c., comma 4, n. 2, nel testo sostituito dalla citata L. n. 54 del 2006, art. 1, comma 1) fa riferimento al “tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori”: tale parametro si riferisce esclusivamente al figlio minorenne e ai criteri per la determina¬zione (“quantificazione”) del contributo di “mantenimento”, inteso lato sensu, a garanzia della stabilità e della continuità dello status filiationis, indipendentemente dalle vicende matrimoniali dei genitori.
In terzo luogo, a ben vedere, anche la ratio dell’art. 337-septies c.c., comma 1, – come pure quella della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, alla luce di quanto già osservato (cfr., supra, sub n. 2.2) – è ispirata al principio dell’”autoresponsabilità economica”. A tale riguardo, è estremamente significativo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 18076 del 2014, che ha escluso l’esistenza di un obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente (nella specie, entrambi ultraquarantenni), ovvero di un diritto all’assegnazione della casa coniugale di proprietà del marito, sul mero presupposto dello stato di disoccupa¬zione dei figli, pur nell’ambito di un contesto di crisi economica e sociale: “(….) La situazione soggettiva fatta valere dal figlio che, rifiutando ingiustificatamente in età avanzata di acquisire l’autonomia economica tramite l’impegno lavorativo, chieda il prolungamento del diritto al mantenimento da parte dei genitori, non è tutelabile perché contrastante con il principio di autoresponsabilità che è legato alla libertà delle scelte esistenziali della persona (….)”.
Tale principio di “autoresponsabilità” vale certamente anche per l’istituto del divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi – irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no – delle relative conseguenze anche economiche.
Questo principio, inoltre, appartiene al contesto giuridico Europeo, essendo presente da tempo in molte legi¬slazioni dei Paesi dell’Unione, ove è declinato talora in termini rigorosi e radicali che prevedono, come regola generale, la piena autoresponsabilità economica degli ex coniugi, salve limitate – anche nel tempo – eccezioni di ausilio economico, in presenza di specifiche e dimostrate ragioni di solidarietà.
In questa prospettiva, il parametro della “indipendenza economica” è normativamente equivalente a quello di “autosufficienza economica”, come è dimostrato – tenuto conto della derivazione di tale parametro dall’art. 337-septies c.c., comma 1 – dal citato D.L. n. 132 del 2014, art. 12, comma 2, laddove non consente la formaliz¬zazione della separazione consensuale o del divorzio congiunto dinanzi all’ufficiale dello stato civile “in presenza (….) di figli maggiorenni (….) economicamente non autosufficienti”.
esclusivamente alla persona dell’ex coniuge richiedente l’assegno come singolo individuo, cioè senza alcun riferimento al preesistente rapporto matrimoniale; b) soltanto nella fase del quantum debeatur è legittimo procedere ad un “giudizio comparativo” tra le rispettive “posizioni” (lato sensu intese) personali ed economico-patrimoniali degli ex coniugi, secondo gli specifici criteri dettati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per tale fase del giudizio.
Pertanto, devono essere enunciati i seguenti principi di diritto.Il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell’ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma:
• deve verificare, nella fase dell’an debeatur – informata al principio dell’”autoresponsabilità eco¬nomica” di ciascuno degli ex coniugi quali “persone singole”, ed il cui oggetto è costituito esclusi¬vamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o no, del diritto all’assegno di divorzio fatto valere dall’ex coniuge richiedente -, se la domanda di quest’ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), con esclusivo riferimento all’”indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge;
• deve “tener conto”, nella fase del quantum debeatur – informata al principio della “solidarietà economica” dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto “persona” economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), il cui oggetto è costituito esclusivamen¬te dalla determinazione dell’assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all’esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma (“(….) condizioni dei coniugi, (….) ragioni della decisione, (….) contributo personale ed econo¬mico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (….) reddito di entrambi (….)”), e “valutare” “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”, al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova (art. 2697 cod. civ.).
b) Gli indici dell’indipendenza economica e la prova
Sempre secondo Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 i principali “indici” – salvo ovvia¬mente altri elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie – per accertare, nella fase di giudizio sull’an debeatur, la sussistenza, o no, dell’indipendenza economica” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio – e, quindi, l’adeguatezza”, o no, dei “mezzi”, nonché la possibilità, o no “per ragioni oggettive”, dello stesso di procurarseli possono essere così individuati:
1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immo¬biliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residen¬za (“dimora abituale”: art. 43 c.c., comma 2) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Quanto al regime della prova della non “indipendenza economica” dell’ex coniuge che fa valere il diritto all’assegno di divorzio, non v’è dubbio che, secondo la stessa formulazione della dispo¬sizione in esame e secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione del relativo onere, allo stesso spetta allegare, dedurre e dimostrare di “non avere mezzi adeguati” e di “non poterseli procurare per ragioni oggettive”. Tale onere probatorio ha ad oggetto i predetti indici principali, costitutivi del parametro dell’indipendenza economica”, e presuppone tempestive, rituali e perti¬nenti allegazioni e deduzioni da parte del medesimo coniuge, restando fermo, ovviamente, il diritto all’eccezione e alla prova contraria dell’altro (cfr. L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 10).
In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali – salva comunque, in caso di contestazione, la facoltà del giudice di disporre al riguardo indagini officiose, con l’eventuale ausilio della polizia tributaria (L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9) -, soprattutto “le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale” forme¬ranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative.
Anche prima dell’ultima decisione sopra richiamata, nell’indicazione di quali siano i redditi e i mezzi da includere nella valutazione di adeguatezza imposta dall’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio (così come dall’art. 156 c.c.) la giurisprudenza aveva espresso molte volte il suo univoco punto di vista.
La giurisprudenza considera rilevante qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica (Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 223) e quindi le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le rispettive potenzialità economiche (Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870).
Secondo Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7984 nell’accertamento della capacità economica dell’obbligato, in sede di determinazione dell’assegno divorzile, il giudice del merito non può limi¬tarsi a prendere in considerazione gli introiti collegati allo svolgimento di attività lavorativa o im¬prenditoriale o quelli derivanti dal godimento di trattamenti pensionistici o assistenziali, ma deve estendere la propria indagine all’eventuale titolarità di beni patrimoniali ed attività finanziarie, la cui disponibilità assume rilievo non solo sotto il profilo statico, per l’immobilizzazione di capitali che tali forme di investimento comportano, ma anche sotto il profilo dinamico, per le potenzialità economiche di cui costituiscono indice l’acquisto e la vendita, oltre che per il godimento di redditi diversi da quelli retributivi o pensionistici testimoniato dal loro possesso.
La Cassazione ha ritenuto che i beni acquisiti per successione ereditaria dopo la separazione, ancorché non incidenti sul tenore di vita matrimoniale, possono tuttavia essere presi in considera¬zione ai fini della valutazione della attuale capacità economica del coniuge richiedente (Cass. civ. Sez. VI, 27 maggio 2014, n. 11797).
Già in una lontana decisione (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 1987, n. 170) si affermava molto lucidamente che, riferendosi ai “redditi”, la legge intendeva includervi non solo i redditi da lavo¬ro ma i cespiti patrimoniali, anche attualmente improduttivi, perché in godimento ad altri, o per volontà dello stesso titolare, che intende riservare per le proprie esigenze, nonché tutte le altre utilità suscettibili di valutazione economica come gli aiuti di vario genere, vitto e-o alloggio, forniti al coniuge con carattere di stabilità dal proprio genitore”. Una decisione per certi versi pioneristica.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 17 marzo 1989, n. 1322 – che riporta il contenuto di precedenti lontane decisioni – “La legge non fornisce la nozione di “mezzi adeguati”. Ritiene il Collegio che la parola “mezzi” deve intendersi come comprensiva sia dei redditi che delle sostanze, cioè di cespiti patrimoniali che non producono redditi (Cass. 22 gennaio 1957 n. 191; Cass. 9 luglio 1959 n. 2201; Cass. 15 luglio 1965 n. 1533), ma che attraverso la loro alienazione possono soddisfare i bisogni del loro proprietario.
Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490 nella valutazione dei redditi si deve tener conto “non solo dei redditi, ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui si può disporre”.
Nell’interpretazione di Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1992, n. 961 “ai fini dell’accertamento del diritto all’assegno di mantenimento e della sua determinazione, occorre considerare la complessi¬va situazione di ciascuno dei coniugi e quindi, tener conto, oltre che dei redditi in danaro, di ogni altra utilità economicamente valutabile, ivi compresa la disponibilità della casa coniugale, oltreché dell’attitudine al lavoro del beneficiario, onde conservare a questi, se privo di reddito adeguato, il tenore di vita goduto in regime di convivenza.
Nel valutare il presupposto dell’adeguatezza dei redditi, secondo Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1996, n. 5916 “il giudice dovrà tenere conto di ogni tipo di reddito disponibile da parte del richie¬dente, ivi compresi quelli derivanti da elargizioni da parte di familiari che erano in corso durante il matrimonio e che si protraggano in regime di separazione con carattere di regolarità e continuità tali da influire in maniera stabile e certa sul tenore di vita dell’interessato”.
Per Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3490 “deve tenersi conto di ogni tipo di reddito di cia¬scun coniuge, nonché dei cespiti patrimoniali a sua disposizione, in quanto idonei ad influire sul tenore di vita”.
Anche le più recenti decisioni mantengono la stessa impostazione. Così Cass. civ. Sez. I, 2 luglio 2004, n. 12121 ritiene che si debbano considerare i redditi in denaro, ma anche ogni utilità o capacità propria dei coniugi, suscettibile di valutazione economica”; Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2006, n. 18547 ribadisce che si deve “tenere conto non solo dei redditi in denaro ma anche di ogni utilità o capacità dei coniugi suscettibile di valutazione economica”.
Come si è detto anche le elargizioni da parte dei familiari che hanno carattere di stabilità concor¬rono a formare i redditi di cui il giudice deve tener conto nel giudizio di adeguatezza Cass. civ. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 13026; Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1996, n. 5916; Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 1987, n. 170). Di parere contrario sul punto però Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19309.
In materia di attività lavorativa si è anche precisato che “una volta accertata la sussistenza di un elevato tenore di vita in costanza di matrimonio, il giudice di merito, chiamato a valutare l’inadegua¬tezza dei redditi del richiedente, non può limitarsi a considerare il mero dato dello svolgimento, da parte di quest’ultimo, di un’attività lavorativa, ma deve esaminare se i suoi mezzi economici gli con¬sentano di mantenere il tenore di vita precedente” (Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2012, n. 8862).
In conclusione i “mezzi” e i “redditi propri” di cui il giudice è chiamato a valutare l’adeguatezza, sono in primo luogo i redditi da lavoro dipendente o autonomo, quindi i redditi e i cespiti patrimo¬niali produttivi o meno di reddito e tutte le altre sostanze e utilità suscettibili di valutazione econo¬mica (tra cui risparmi, partecipazioni societarie, investimenti mobiliari, canoni di locazione perce¬piti) ed anche aiuti di vario genere, quali le elargizioni fornite per esempio con carattere di stabilità dal proprio genitore, in corso durante il matrimonio e che si protraggono in regime di separazione.
Non può, invece, più essere attribuita rilevanza – sulla base del nuovo orientamento sull’adegua¬tezza dei mezzi come condizione di indipendenza economica – a quella giurisprudenza secondo cui l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di ma¬trimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto (per tutte Cass. civ. Sez. VI, 27 maggio 2014, n. 11797; Cass. civ. Sez. I, 3 dicembre 2008, n. 28741; Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15611; Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 2002, n. 6541) e nemmeno a quella, come per esempio, Cass. civ. Sez. I, 21 ottobre 2013, n. 23797, Cass. civ. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 13026 ovvero Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21112 o Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5132 secondo cui ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento occorre tener conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chiede l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta nel corso della vita matrimoniale.
c) La tenuta del nuovo orientamento nelle decisioni della Corte di cassazione successive a Cass. 11504/2017
Successivamente a Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 altre decisioni di legittimità hanno confermato la stessa linea interpretativa.
Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481 – su cui si tornerà in seguito – se¬condo cui il giudice richiesto della revisione dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (precedentemente riconosciuto), in ragione della sopravvenienza di giustificati motivi dopo la sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve verificare se tali motivi giustifichino, o meno, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficia¬rio, desunta dai seguenti “indici”: possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato sensu” imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), capacità e possibilità effettive di lavoro perso¬nale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), stabile disponibilità di una casa di abitazione, nonché eventualmente altri – rilevanti nelle singole fattispecie – senza, invece, tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; il tutto sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dall’ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’ex coniuge beneficiario.
Sulla stessa linea Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 agosto 2017, n. 20525 secondo cui il diritto all’as¬segno di divorzio, di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali persone singole ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debe¬atur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
Ugualmente Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 ottobre 2017, n. 23602 ribadisce che l’attribuzione dell’assegno divorzile non può essere giustificata dal divario tra le condizioni reddituali delle parti al momento del divorzio, né dal peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’asse¬gno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, a tal fine rilevando unicamente la mancanza della indipendenza o autosufficienza economica del richiedente. Nella fase del giudizio concernente l’an debeatur, invero, il richiedente, per il principio di autoresponsabilità economica, è tenuto, quale persona singola, a dimostrare la propria personale condizione di non indipenden¬za o autosufficienza economica. Alle condizioni reddituali dell’altro coniuge (unitamente agli altri elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970), per¬tanto, può aversi riguardo unicamente nella eventuale fase della quantificazione dell’assegno, alla quale è possibile accedere solo nel caso in cui la fase dell’an debeatur si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente l’attribuzione dell’emolumento.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327 una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione di quello religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, non solo sul piano dello status personale dei coniugi, ormai da conside¬rare “persone singole”, ma, anche, nei loro rapporti economico-patrimoniali ed, in particolare, nel reciproco dovere di assistenza morale e materiale, residuando, solo, una responsabilità economica post coniugale di matrice esclusivamente assistenziale. Se così non fosse, l’eventuale riconosci¬mento del diritto si risolverebbe in una “locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusiva¬mente sul fatto della “mera preesistenza” di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed inoltre di durata tendenzialmente sine die”.
L’orientamento è stato confermato anche Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 28 novembre 2017, n. 28326 dove si legge che Il giudice del divorzio, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: deve verificare, nella fase dell’”an debeatur”, se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’”indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso.
Secondo Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 dicembre 2017, n. 28994 è stato ritenuto conforme alla sentenza n. 11504 del 2017 la pronuncia di riconoscimento dell’assegno divorzile in favore del titolare di un modesto reddito da pensione (euro 400 mensili) non in grado di procurarsi adeguati mezzi per ragioni oggettive in relazione alla sua età (65 anni).
Nella giurisprudenza di merito Trib. Milano Sez. IX, 22 maggio 2017 ha sostenuto che in tema di determinazione dell’ assegno divorzile il presupposto per riconoscere l’ assegno di divorzio non è il raffronto con il pregresso tenore di vita bensì il riferimento all’indipendenza o autosuf¬ficienza economica del richiedente, che può essere desunta dai principali “indici” del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richie¬dente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Sulla stessa linea Trib. Venezia Ordinanza, 24 maggio 2017 secondo cui in tema di assegno divorzile, il parametro relativo al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio è irrilevante per la concessione dell’ assegno divorzile, essendo piuttosto rilevanti altri indici, quali il “posses¬so” di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e “la stabile disponibilità” di un’abitazione.
Successivamente Trib. Milano Sez. IX, 3 ottobre 2017 ha sostenuto che alla luce della com¬plessiva valutazione di tutti gli indici indicati dalla Suprema Corte nella sentenza del 10 maggio 2017, n. 11504, l’assegno divorzile deve comunque essere riconosciuto nelle ipotesi in cui la mo¬glie, all’esito delle risultanze del giudizio, non possa ritenersi economicamente indipendente. (Nel caso di specie il Tribunale riteneva insussistente l’indipendenza economica della moglie in ragione della mancanza di un reddito da lavoro certo e stabile su cui fare affidamento e della ragionevole impossibilità oggettiva, data l’età, di poterselo procurare).
d) Qualche rilievo critico sul nuovo orientamento in attesa della decisione delle Sezioni Unite
In attesa della decisione delle Sezioni Unite a cui la questione è stata portata da un provvedimento del primo presidente della Corte ai sensi dell’art. 376 c.p.c., si è acceso un dibattito in molte sedi sulla plausibilità del nuovo orientamento della prima Sezione della Corte di cassazione e sulla ne¬cessità di chiarire comunque il significato dell’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio.
Una proposta di legge (4605/C del 27 luglio 2017) ha proposto di chiarire definitivamente il testo dell’art. 5 della legge 898/70 stabilendo che l’assegno divorzile è “destinato a compensare le di¬sparità che il divorzio crea nelle condizioni di vita dei coniugi”. Tutto ciò in linea con l’orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza da quasi trent’anni (a seguito di Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490 e Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11492) – con l’avallo di Corte Cost. 11 febbraio 2015, n. 11 – secondo cui il diritto all’assegno divorzile trova fondamento e giustificazione nella circostanza che l’ex coniuge richiedente non ha “mezzi adeguati” (art. 5, comma 6, della legge sul divorzio) a mantenere tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale.
La prima sezione della Cassazione ha ribaltato questa interpretazione sostenendo che il criterio attributivo e giustificativo del diritto all’assegno divorzile debba essere quello dell’autosufficienza economica del coniuge richiedente. Al criterio della solidarietà post-matrimoniale, viene sostituito quello dell’indipendenza economica (autoresponsabilità), mentre solo in fase di quantificazione dell’assegno sarebbe possibile, secondo linea interpretativa proposta, la valutazione e il recupero degli aspetti compensativi dell’assegno rispetto al contributo dato da ciascun coniuge alla vita ma¬trimoniale (contributo che l’art. 143 c.c., considera equivalente sia quando si esprime nel lavoro professionale sia quando si realizza come lavoro casalingo e di cura dei figli).
La conseguenza paradossale di questa interpretazione è che un coniuge che al momento del divor¬zio abbia (fortunatamente) anche modesto reddito da lavoro ritenuto dal giudice sufficiente per vi¬vere dignitosamente, non avrà diritto all’assegno divorzile adeguato a conservare tendenzialmente il tenore di vita matrimoniale, ancorché nel corso del matrimonio abbia largamente contribuito per scelta comune alla famiglia, ai figli (continuando ad occuparsi di essi dopo il divorzio) e all’accudi¬mento dell’altro coniuge, favorendone così anche il raggiungimento delle aspirazioni professionali.
L’uguaglianza dei coniugi (art. 30 cost.) e l’uguaglianza del lavoro professionale e casalingo (pro¬clamata dall’art. 143 c.c.) vengono neutralizzate al momento del divorzio.
Questa scelta interpretativa è illogica perché se viene evocata l’ultrattività post-matrimoniale della solidarietà coniugale ai fini della quantificazione dell’assegno (quantum debeatur) non si capisce per quale motivo questa stessa solidarietà non debba valere nella valutazione dell’ an debeatur. Se la solidarietà post-matrimoniale ha rilevanza giuridica questo deve avvenire necessariamente sempre (sia in fase di attribuzione che di quantificazione). Era questa l’intuizione logica e ragione¬vole a fondamento della posizione delle Sezioni Unite del 1990.
Il criterio dell’indipendenza economica come criterio di attribuzione dell’assegno potrebbe essere introdotto dal legislatore, ma non dalla giurisprudenza, che peraltro lo ha introdotto solo per il divorzio e non per la separazione (come ha chiarito, concludendo la causa di separazione tra Silvio Berlusconi e la moglie, Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196 nella cui vicenda, però, successivamente, in sede di divorzio, App. Milano Sez. V, 16 novembre 2017 ha revocato il diritto all’assegno di mantenimento sulla base della nuova interpretazione del criterio attributivo dell’assegno divorzile).
Divorzio e separazione sono due modalità giuridiche (sempre più ravvicinate nel tempo) con cui si disciplina la medesima crisi coniugale e non possono avere a fondamento due criteri diversi. Per questo le sentenze della prima sezione introducono altresì un paradosso e una contraddizione inaccettabile nel sistema.
L’età al momento del divorzio è più avanzata rispetto a quella della separazione (in media quindi dopo i 48 anni per gli uomini e dopo i 45 anni per donne). Nel 40% delle separazioni è previsto un assegno per la moglie, solo per lei o anche per i figli (nel 10% delle separazioni per la solo moglie e nel 30% delle separazioni per la moglie e i figli). Nel 30% delle separazioni non è previsto alcun assegno per la moglie. In oltre il 30% delle separazioni è previsto un assegno (a titolo di contributo ordinario) solo per i figli, in genere versato dal padre. Si tratta si percentuali abbastanza stabili nel tempo, che non hanno subito negli ultimi anni variazioni di rilievo.
In conclusione la donna che, in prime nozze, si separa lo fa dopo un periodo medio di 17 anni e dopo un matrimonio che l’ha impegnata per un periodo di età tra i 32 e i 45 anni. Nel 40% dei casi (quindi ad un flusso stabile di oltre 41.000 donne ogni anno) le viene riconosciuto il diritto ad un assegno coniugale. E in una percentuale che va dal 70% al 90% ha anche figli che ha con¬corso a crescere in famiglia e che nella stragrande maggioranza dei casi rimangono con lei dopo la separazione.
Non esistono statistiche sull’entità degli eventuali redditi a disposizione delle 41.000 donne che ogni anno si separano e alle quali viene riconosciuto l’assegno di mantenimento. Può trattarsi di donne che non hanno alcun reddito o di donne che pur avendo mezzi economici li hanno di entità tale da non poter garantire il godimento del pregresso tenore di vita (pacificamente considerato in sede di separazione presupposto di attribuzione dell’assegno). Pertanto non è possibile stimare con sufficiente attendibilità il numero di donne che potrebbero vedersi confermato o meno in sede di divorzio l’assegno.
Il tasso di occupazione femminile (46%: ma 56% al nord e 30% al sud) è più basso di quello dell’uomo e sussistono differenze rilevanti di salario e stipendio tra uomini e donne. Il tasso di occupazione femminile in Europa è più alto raggiungendo mediamente il 60%. Il divario diviene molto elevato, superando i 20 punti, con la Germania e l’Olanda. Nelle coppie che si separano, le donne hanno un tasso di occupazione più alto della media; segno evidente che per la donna il reddito lavorativo influenza la scelta stessa di separarsi.
Il regime di comunione legale può in qualche modo favorire il riequilibrio economico tra coniugi nel corso del matrimonio e al momento della separazione ma il regime della separazione die beni non ha alcun meccanismo di riequilibrio a favore del coniuge più debole.
Nel contesto sopra delineato della attuale condizione femminile in Italia è ineliminabile l’attribu¬zione all’assegno divorzile di una funzione che contenga in sé la valorizzazione del contributo dato dalla moglie alla vita matrimoniale, senza correre il rischio che tale contributo resti annullato dalla ritenuta indipendenza economica. L’indipendenza economica è un elemento che può essere preso in considerazione come elemento di moderazione ma non come presupposto attributivo dell’asse¬gno, perché in tal modo potrebbe seriamente mortificare o vanificare il peso del contributo offerto dalla donna alla vita matrimoniale e della famiglia.
Attualmente la funzione di valorizzazione del contributo in questione è assolta dal criterio di attri¬buzione dell’assegno collegato al pregresso tenore di vita.
Le condizioni e il tenore di vita che due coniugi hanno avuto nel matrimonio sono strettamente dipendenti dal “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”.
Perciò, il riferimento al pregresso tenore di vita (cioè alle pregresse condizioni di vita della fami¬glia) quale presupposto per l’attribuzione dell’assegno (di separazione e di divorzio) contiene in sé oggettivamente una carica compensativa che non può essere eliminata (e che, infatti, la stessa prima sezione della Cassazione dichiara di voler confermare per la separazione). La famiglia ha potuto godere di un certo tenore di vita perché entrambi lo hanno reso possibile con il loro contri¬buto personale, professionale o casalingo. Ed anche con il loro sacrificio personale. Le opportunità di cui la famiglia si è avvantaggiata derivano anche dalla divisione del lavoro che i coniugi hanno concordato o accettato. In tanto il lavoro professionale di un coniuge ha potuto garantire un parti¬colare assetto economico in quanto magari il lavoro dell’altro, che si è dedicato (solo o di più) alla casa e ai figli, ha reso possibile quell’assetto.
Dopo 17 anni di matrimonio (questa è la durata media del matrimonio, come si è visto, vissuto da lei nell’arco medio di età tra i 32 e i 45 anni) – quando lui ha 48 anni e lei 45 – come si può pre¬tendere di non considerare questo fattore l’elemento determinante da cui partire per garantire che quel contributo abbia un ragionevole riconoscimento nell’assetto post-matrimoniale? Soprattutto, come si è detto, in assenza di significativi fattori di riequilibrio connessi al regime patrimoniale sia della comunione legale che della separazione dei beni.
La circostanza che vi possano essere nel corso del matrimonio (e anche dopo) situazioni di paras¬sitismo generate dall’approfittamento da parte di un coniuge delle fortune dell’altro è situazione che può trovare ristoro in sede di quantificazione dell’assegno (“fino ad azzerarlo” come ha sempre riconosciuto la giurisprudenza) ma non per cancellare il riferimento alle condizioni di vita nel corso del matrimonio.
Il riferimento alle pregresse condizioni di vita è, dunque, l’unico criterio capace di garantire un punto di partenza equlibrato per decidere l’assetto economico post-matrimoniale. Non ve ne pos¬sono essere altri.
E se questo criterio di riferimento vale per la separazione non può non valere anche per il divorzio. Non vi sono due momenti della crisi o due momenti diversi della condizione femminile, ma un unico momento (al quale il nostro sistema giuridico appresta la duplice sempre più ravvicinata soluzione della separazione e del divorzio.
IV Il problema della revocabilità, in seguito al mutamento della giurisprudenza, dell’assegno passato in giudicato
Il problema è se in base al nuovo orientamento della Corte di cassazione possa essere chiesta la revoca dell’assegno di divorzio attribuito in precedenza sulla base della diversa interpretazione della legge.
In particolare va affrontato il problema se il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio ex art. 9 della legge 898/70, possa essere azionato sulla base della sopravvenienza di un orienta¬mento nuovo della giurisprudenza di legittimità.
Una decisione ha dato a questa domanda una risposta sostanzialmente affermativa. Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481 secondo cui il giudice richiesto della revisione dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (precedentemente rico¬nosciuto), in ragione della sopravvenienza di giustificati motivi dopo la sentenza che abbia pronun¬ciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve verificare se tali motivi giustifichino, o meno, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficiario, senza, invece, tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Bisogna fare attenzione: non è in sé il nuovo orientamento che determina la possibilità di revoca. Secondo questa decisione, infatti, solo la sopravvenienza di giustificati motivi determina la pos¬sibilità di una richiesta di revoca. Tuttavia una volta verificata l’esistenza delle sopravvenienze, il giudice dovrebbe valutare la domanda di revoca sulla base dei nuovi principi elaborati dalla nuova giurisprudenza.
In altre parole l’ex coniuge obbligato che intenda chiedere la revoca dell’assegno, può farlo solo se sopraggiungono giustificati motivi di revisione, per esempio un aumento dei redditi del bene¬ficiario, ma a questo punto il giudice potrebbe valutare la nuova situazione alla luce del nuovo orientamento e revocare l’assegno se il beneficiario si trova, sulla base dei nuovi parametri una condizione di indipendenza economica (ancorché in condizione di non potersi assicurare il pregres¬so tenore di vita matrimoniale secondo il criterio utilizzato quando gli era stato attribuito il diritto all’assegno divorzile).
a) Il valore delle decisioni della Corte di cassazione
L’attività interpretativa della giurisprudenza nei Paesi di civil law racchiude in sé ineliminabili mo¬menti di creazione del diritto. Tuttavia l’art. 1 delle preleggi non indica tra le fonti del diritto le sen¬tenze dei giudici. Un conto è, però, il valore della sentenza nell’ordinamentale generale e un conto è il valore che le sentenze, specificamente quelle della Corte di cassazione, hanno in ambito giudizia¬rio. In base a quanto dispone l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario (Attribuzioni della corte suprema di cassazione) “La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni…”. Il che comporta che le decisioni della Cassazione sono di fatto vincolanti per i giudici. L’art. 374 c.p.c. Pronuncia a sezioni unite) pone solo una deroga riferibile al rapporto tra una sezione della Corte e le Sezioni unite prescrivendo al quarto comma che “…Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. Proprio per sottolineare il valore delle decisioni della Corte di cassazione l’art. 360-bis c.p.c. dichiara che il ricorso per cas¬sazione è inammissibile, tra l’altro, “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”. L’interpretazione delle norme di diritto da parte della Corte di cassazione (nell’esercizio della sua essenziale funzione nomofilattica) determina quello che viene chiamato significativamente “diritto vivente” ed in questi limiti è certamente corretto af¬fermare che le sentenze acquisiscono in senso lato una funzione di creazione delle regole di diritto.
Pertanto un nuovo orientamento interpretativo della Corte di cassazione in una determinata ma¬teria si traduce in una interpretazione in grado di imporsi nell’applicazione al caso concreto come nuova regola di diritto applicabile nei giudizi aventi ad oggetto quella materia.
b) L’applicazione del nuovo orientamento nei procedimenti in corso
Nella legge sul divorzio il diritto di richiedere in corso di causa la modifica dei provvedimenti è pre¬visto nell’art. 4, comma 8, seconda parte della legge 898/1970 dove si legge che “L’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177 del codice di procedura civile”. Naturalmente il giudice istruttore ha poi sempre il potere di modificare anche i provvedimenti da lui stesso emessi.
Le ragioni della modifica che viene richiesta in corso di causa non sono rilevanti. Qualsiasi ragione può essere proposta al giudice, ivi compresa quindi quella di adeguare l’assetto economico ad una legge sopravvenuta o ad un nuovo orientamento giurisprudenziale di legittimità. Le norme sopra richiamate non impongono alcuna restrizione. E d’altra parte lo stesso giudice, ove il nuovo orientamento provenisse da decisioni della Corte di cassazione, avrebbe il dovere di applicarne i principi. Ciò premesso, non possono esserci dubbi sul fatto che il nuovo orientamento della giu-risprudenza di legittimità trovi applicazione nei procedimenti in corso, anche d’ufficio, fatta salva l’esistenza dei presupposti e l’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’interessato che ne potrebbe essere impedito dalle eventuali preclusioni processuali già intervenute. In tal caso nulla impedirebbe anche d’ufficio al giudice di rimettere la causa sul ruolo per la formazione della prova in ordine ai nuovi presupposti attributivi dell’assegno. Nei procedimenti in corso (in primo grado e in fase di impugnazione), insomma, prima del formarsi del giudicato, è sempre proponibile una richiesta di modifica dei provvedimenti vigenti per adeguarli al nuovo orientamento.
c) Il problema dell’applicabilità del nuovo orientamento dopo il giudicato sull’assegno
Più problematica si presenta, invece, la situazione ove si intendesse fare applicazione del nuovo orientamento dopo il giudicato già formatosi sull’assegno divorzile. Per quanto si dirà, benché la soluzione possa apparire ingiusta, non sembra sussista la possibilità di poter pretendere, attraver¬so un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio, l’applicazione del nuovo orientamento. Le ragioni sono connesse sostanzialmente al tema dell’intangibilità del giudicato.
La ratio della regola rebus sic stantibus
La validità rebus sic stantibus di tutti i provvedimenti (s’intende non relativi allo status) ivi compre¬si quelli di natura economica, nel diritto di famiglia è alla base stessa dei principi di modificabilità espressi nell’art. 9 della legge sul divorzio. Il principio costantemente affermato è che la sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, anche se la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizio-ni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 dal giudice e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618; Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033; Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077).
La giurisprudenza considera quali presupposti della domanda di modifica “fatti nuovi sopravve¬nuti”, modificativi della situazione in relazione alla quale il provvedimento era stato adottato o l’accordo su quelle statuizioni era stato stipulato (tra le tante Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149). La ratio di questa vera e propria deroga all’intangibilità del giudicato, quindi, sta proprio nella necessità che nell’ambito del diritto di famiglia i provvedimenti possano essere costantemen¬te adeguati alla situazione di fatto che li aveva giustificati. Al di là di questo non è, però, ipotizza¬bile una generale modificabilità dei provvedimenti.
L’intangibilità del giudicato
L’art. 2909 c.c. (Cosa giudicata) afferma il principio che l’accertamento contenuto nella sen¬tenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Da un punto di vista sostanziale il giudicato si riferisce all’accertamento contenuto nella sentenza che abbia acquisito l’autorità della cosa giudicata formale, in quanto non sia più soggetta a rego¬lamento di competenza o ad alcuno dei mezzi ordinari di impugnazione (appello, ricorso per cassazione, revocazione per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5), previsti nell’art. 324 c.p.c. traducendosi in un preciso vincolo giuridico, in forza del quale quell’accertamento fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. La conseguenza di questa preclusione è l’immo¬dificabilità della sentenza.
La formula secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile significa che il giudicato copre non soltanto le ragioni giuridiche fatte valere (giudicato esplicito) ma anche tutte le altre – propo¬nibili sia in via di azione che di eccezione – le quali, sebbene non dedotte specificamente si carat¬terizzano per la comune inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente svolte (giudicato implicito). Questi concetti sono stati affermati in generale (da ultimo da Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2017, n. 9954; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2016, n. 3488; Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16824) ma anche spesso in vicende relative proprio all’assegno di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1863; Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2005, n. 17320; Cass. civ. Sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1998, n. 1031) dove il principio costantemente affermato è che le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Anche l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale trova un limite nei rapporti esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato (art. 136 Cost. e art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87 secondo cui la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione). Come è stato ben ribadito recentemente (Cons. Stato Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 4396; Cons. Stato Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1458) la dichiarazione di illegittimità costituzionale determina la invalidità originaria della legge, sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costi¬tuzionale, sicché essa elimina la norma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione; fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizio¬ni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità.
d) Solo la legge può disporre l’applicazione ai rapporti definiti con il giudicato di una normativa nuova
Quanto sopra detto, circa l’intangibilità del giudicato, trova una conferma anche nella legge 8 feb¬braio 2006 n. 54 sull’affidamento condiviso. L’art. 4 di tale legge (disposizioni finali) prevedeva che “Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separa¬zione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge”. Questa norma – che si riferisce ai casi in cui era passata in giudicato la sentenza (imprecisa formulazione: “già stata già emessa”) che aveva fatto applicazione dei precedenti criteri di affidamento – ha senso solo se si considera che altrimenti anche la stessa legge nuova non avreb¬be potuto estendere i suoi effetti ai rapporti definiti con decisioni passate in giudicato (ancorché rebus sic stantibus). Anche la giurisprudenza affermò che questa norma non autorizzava a ritenere immediatamente applicabili le disposizioni della nuova legge al passato, non rinvenendosi una dero¬ga al principio generale, sancito dall’art. 11 delle preleggi, della irretroattività della legge, ma che le nuove disposizioni potevano trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’art. 710 cod. proc. civ. (Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256; Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24996). Pertanto se non ci fosse stata la legge a preve¬derlo espressamente, la normativa sopravvenuta non avrebbe potuto essere posta a fondamento di un procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, ostandovi l’intangibilità giudicato.
e) Il mutamento repentino di giurisprudenza (overruling)
Si ritiene in ambito processualistico che i fatti giuridici (costitutivi, modificativi, impeditivi od estin¬tivi), i quali non sarebbero stati nemmeno “deducibili” (o suscettibili di allegazione e di prova) in un processo, per essere ontologicamente sopravvenuti dopo il maturarsi dell’ultima preclusione utile, non sono “coperti” o “preclusi” da quel giudicato. Ciò premesso ci si può infine porre il problema se l’orientamento nuovo della giurisprudenza possa essere considerato un “fatto” nuovo rilevante ai fini dell’istanza di modifica. La risposta decisamente negativa emerge dall’esame della giurispru¬denza formatasi sul tema dell’overruling.
Il cosiddetto overruling giurisprudenziale ricorre quando si registra una svolta repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato che si risolve in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. Secondo la giurisprudenza tale situazione ricorre quando il cam¬bio di orientamento ha ad oggetto una norma processuale, quando si tratta di un mutamento imprevedibile e quando esso determina un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa. Nel caso del cambiamento relativo ai presupposti attributivi dell’assegno non siamo in presenza di un cambiamento relativo ad una regola processuale. I principi richiamati sono stati elaborati in appli¬cazione dei valori del giusto processo, e tendono ad escludere la validità di un nuovo e improvviso orientamento giurisprudenziale nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata pre¬cedente interpretazione della stessa regola. Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2011, n. 15144 – che ha precisato e riassunto tutti questi principi – per effetto di essi il comportamento processuale che si era conformato al precedente diritto vivente, va valutato con riferimento alla giurisprudenza vigente al momento dell’atto stesso e non con riferimento a quella nuova. Trattasi di una “soluzione confortata dall’esigenza di non alterare il parallelismo tra legge retroattiva e interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza. Ciò che non è consentito alla legge non può similmente essere consentito alla giurisprudenza”.
La giurisprudenza si è adeguata a questi limiti di rilevanza del cambiamento repentino rispetto al precedente diritto vivente (T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 10 agosto 2016, n. 291 secondo cui il giudicato è insensibile ai mutamenti legislativi e giurisprudenziali sopravvenuti; Cass. civ. Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15530, Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016, n. 4826 e Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2015, n. 22008, Cass. civ. Sez. VI, 9 gennaio 2015, n. 174;
Cass. civ. Sez. Unite, 16 giugno 2014, n. 13676 nelle quali tutte si precisa che in tema di overruling rileva il solo mutamento imprevedibile di un consolidato orientamento giurisprudenziale di una regola del processo, che comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte).
Applicazione nell’ambito del diritto di famiglia è stata fatta da Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 secondo cui alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, convenuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardivamente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, innovando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stret¬to), che riteneva il relativo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore. In seguito, però, con altra decisione (Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188) la rimessione in termini, sulla stessa questione, non è stata riconosciuta. Da quanto precede deriva che al mutamento improvviso di giurisprudenza viene riconosciuta rilevanza solo se il mutamento riguarda una regola processuale prima consolidata in giurisprudenza e sempre che il mutamento si rivolge in danno (e non a vantaggio) della parte che aveva incolpevolmente confidato nel precedente indirizzo. Sulla base di queste premesse non è possibile attribuire al mutamento di giurisprudenza in ordine ai presupposti attributivi dell’assegno divorzile la forza idonea a giustificare un’istanza di revisione delle condizioni di divorzio.
f) Il nuovo orientamento della giurisprudenza come “motivo giustificato” di revisione?
Come si è ampiamente detto, l’art. 9 della legge sul divorzio al primo comma prevede espressa¬mente che la domanda di revisione possa essere presentata solo “qualora sopravvengano giustifi¬cati motivi dopo la sentenza…”. La giurisprudenza, come anche si è già detto, ha sempre interpre¬tato i giustificati motivi che autorizzano la modifica delle condizioni della separazione come “fatti” nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale i provvedimenti erano stati adottati e che in genere consistono in circostanze sopravvenute che riguardano il peggioramento o il miglioramento dei redditi o della condizione patrimoniale – anche rispetto a nuovi eventi della vita quali la nascita id un figlio, un nuovo matrimonio o altro – e per le quali il giudice deve verifica¬re se, ed in quale misura, abbiano alterato l’equilibrio stabilito in precedenza (Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 e Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595; Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041; Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687; Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367; Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720; Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125).
Questa impostazione è assolutamente in linea con la ratio della validità rebus sic stantibus delle sentenze o dei provvedimenti camerali di divorzio e con il limite generale di cui si è parlato dell’in¬tangibilità del giudicato. Al di fuori di questi limiti l’attribuzione ad eventi diversi della capacità di violare il giudicato potrebbe essere arbitraria. Pertanto non sarebbe accettabile una ricostru¬zione delle cause giustificative della revisione delle condizioni di divorzio che volesse intrepretare l’espressione “giustificati motivi” (art. 9 della legge sul divorzio) oltre il significato che la giuri¬sprudenza ha fin qui dato a questa espressione. Astrattamente pertanto – e volendo seguire una interpretazione solamente letterale dell’espressione – si potrebbe anche sostenere che un nuovo e diverso orientamento della giurisprudenza potrebbe integrare quei “giustificati motivi” che con¬sentono l’istanza di revisione. Così facendo, però (e dando alla parola “motivi” un senso generico e completamente diverso da quello ristretto di “fatti sopravvenuti”) si finisce per violare e incrinare quei limiti di intangibilità del giudicato che, come si è sopra detto, costituiscono il fondamento del processo civile. Viceversa si deve ribadire che l’unica eccezione all’intangibilità del giudicato nell’ambito del diritto di famiglia è la regola rebus sic stantibus prevista e valida al solo fine di consentire l’adeguamento dei provvedimenti alle circostanze di fatto che modificano i presupposti in base ai quali quei provvedimenti erano stati adottati.
V L’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati
Vi è un elemento che diversifica ulteriormente in modo radicale l’assegno di separazione e l’asse¬gno di divorzio e cioè il fatto che l’assegno di divorzio non è dovuto, secondo l’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio, quando il coniuge che lo richiede non ha mezzi adeguati “o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Questo elemento (il non potersi procurare mezzi adeguati per ragioni oggettive) differenzia radi¬calmente nei testi legislativi l’assegno divorzile da quello di separazione (per il quale una preci¬sazione del genere non è indicata). L’assegno di separazione è perciò dovuto allorché il coniuge richiedente non ha redditi o mezzi adeguati (nel caso di separazione a mantenere lo stesso tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale) a prescindere dal fatto che possa o meno procurarseli da solo. Si tratta di una differenza ragionevole, considerato che la separazione può in¬tervenire da un momento all’altro nella vita dei coniugi senza consentire al coniuge debole la pos¬sibilità di riorganizzare immediatamente la propria vita in una direzione di autonomia personale. La capacità di procurarsi da solo redditi e mezzi adeguati in sede di separazione può influire, natural¬mente, sul quantum dell’assegno di separazione ma non sulla valutazione circa la sua spettanza.
Ha espresso in passato molto bene questi principi Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2004, n. 5555 secondo cui il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è su¬bordinato dall’art. 156 c.c. alla condizione che chi lo pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, a differenza di quanto previsto, in materia di divorzio, dall’art. 5, comma sesto, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, del divorzio, che con¬diziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive; ciò in quanto se – ad esempio – prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto “per facta concludentia”) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, atteso che la separazione instaura un regime il quale, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matri¬monio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il tipo di i vita di ciascuno dei coniugi, nel senso esattamente che solo con il divorzio, capace di sciogliere a tutti gli effetti il matrimonio, la situazione muta radicalmente, tanto da far residuare tra gli ex coniugi solo un vincolo di solidarietà di tipo preminentemente assistenziale che, in quanto tale, presuppone nell’ex coniuge assistito non solo la mancanza di mezzi economici adeguati, ma anche l’oggettiva impossibilità di procurarseli mettendo altresì a frutto tutte le proprie capacità di lavoro.
Successivamente le stesse precisazioni sono state puntualmente riproposte in giurisprudenza sen¬za soluzione di continuità. Per esempio, tra le tante, si legge in Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18241 che nella disciplina dettata dall’art. 5 della sul divorzio, l’assegno si configura con natura eminentemente assistenziale, essendone condizionata l’attribuzione alla specifica cir¬costanza della mancanza di mezzi adeguati o della impossibilità di procurarseli per ragioni og¬gettive, mentre gli altri criteri costituiti dalle condizioni dei coniugi, dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, dal reddito di entrambi, valutati unitariamente e confrontati alla luce del paradigma della durata del matrimonio, sono destinati ad operare solo se l’accertamento dell’unico elemento attributivo si sia risolto positivamente, e quindi ad incidere unicamente sulla quantificazione dell’assegno stesso.
Gli stessi identici principi sono riaffermati e presupposti in tutte le decisioni della Cassazione sul “tetto massimo” dalla più lontana Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809 alla più recente Cass. civ. Sez. I, 5 febbraio 2014 n. 2546 che saranno più oltre esaminate.
In Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2014, n. 6562 si afferma che l’accertamento della capacità la¬vorativa del richiedente, pur attualmente privo di redditi, va condotto non ipoteticamente ed in astratto, ma in termini effettivi e concreti. Nella specie la sentenza di merito, con motivazione ri¬tenuta congrua, aveva rilevato che la richiedente, senza redditi propri, ormai cinquantenne, senza una specifica professionalità, non aveva una reale capacità lavorativa, con conseguente obiettiva difficoltà di reperimento di un lavoro, tenuto anche conto della grave crisi economica.
Recentemente Cass. civ. Sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 21670 ha affermato che l’ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego, da parte del coniuge beneficiario, non incide sulla de¬terminazione dell’assegno di divorzio, salvo che il coniuge onerato non fornisca la prova che il be¬neficiario abbia l’effettiva e concreta possibilità di esercitare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini. Sulla stessa linea si pone Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 30 ottobre 2017, n. 25781 in cui si afferma che l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive, è da valutarsi in relazione alla situazione esistente nell’attualità e, in particolare, alla possibilità, per il richiedente, di svolgere un’attività lavorativa adeguata alla sua qualifica, posizione sociale e condizioni personali, d’età e di salute.
VI I criteri di quantificazione dell’assegno divorzile (autonomia di valutazione e tramonto della teoria del “tetto massimo”)
L’art. 5, comma 6 della legge sul divorzio afferma che il giudice deve tener conto “delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del red¬dito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio” (art. 5 comma 6 della legge divorzio). Si fondono in questa valutazione sul quantum dell’assegno un criterio personale e reddituale (“condizioni dei coniugi”), un criterio risarcitorio (“ragioni della decisione”), un criterio compensativo (“contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune) nonché un criterio di natura temporale (“durata del matrimonio”).
Nonostante la formula molto ampia utilizzata dalla norma il collegamento tra la valutazione sull’an debeatur e la valutazione sul quantum debeatur è stato sistematicamente effettuato dalla giurispru¬denza in una direzione che considera i criteri di quantificazione dell’assegno come criteri di mode¬razione e riduzione dell’importo perequativo dell’assegno e non come criteri capaci di aumentarlo.
L’apripista di questa linea interpretativa – nota come teoria del “tetto massimo” – è stata Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809 secondo cui nell’ambito del sistema normativo introdotto con la legge n. 74 del 1987, l’attribuzione dell’assegno di divorzio è indefettibilmente subordinata alla specifica circostanza di fatto della mancanza di mezzi adeguati o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, essendo gli altri criteri (condizioni dei coniugi; ragioni della decisione; con¬tributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patri-monio nel periodo matrimoniale; reddito di entrambi; durata del rapporto di coniugio) destinati ad operare solo se l’accertamento della predetta (ed unica) circostanza attributiva risulti di segno po¬sitivo. Il giudizio relativo a detto accertamento, articolandosi in due fasi (quella del riconoscimento del diritto in astratto e quella della determinazione in concreto dell’assegno), vede il giudice, nella prima di esse, chiamato a verificare l’esistenza del diritto in relazione all’inadeguatezza dei mezzi (raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello condotto in costanza di matrimonio, onde pro¬cedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare detta inadeguatez¬za, che costituiscono il “tetto massimo” della misura dell’assegno), e, nella seconda (dovendosi procedere alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno stesso), chiamato, poi, alla valutazione ponderata e bilaterale dei vari criteri normativamente stabiliti, che operano come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, se del caso, addirittura azzerarla in ipotesi estreme, quando, cioè, la conservazione del tenore di vita assicura-to dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Ad usare ancora l’espressione “tetto massimo” – relativamente all’importo astratto necessario a consentire ad un coniuge di mantener lo stesso tenore di vita goduto nel corso del matrimonio – fu poi alcuni anni dopo Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2003, n. 4040 secondo cui in tema di sciogli¬mento del matrimonio e nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matri¬monio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Una delle ipotesi di incompatibilità è per esempio l’addebito della separazione. In tal caso poiché in sede divorzile l’addebito non è previsto e ne è ipotizzabile il richiamo solo come “ragione della de¬cisione”, l’eventuale addebito potrebbe costituire elemento per azzerare un assegno astrattamente dovuto in relazione alla inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge che lo richiede.
Seguirono poi moltissime altre decisioni identiche tra cui vanno ricordate Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18241; Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15611; Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2008, n. 593; Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2013, n. 24252 e da ultimo Cass. civ. Sez. I, 5 febbraio 2014 n. 2546. Sostanzialmente analoghi i principi ribaditi in Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870 e Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19529.
In conclusione l’importo astrattamente idoneo a superare l’inadeguatezza dei redditi non potrà mai essere superato per esigenze di tipo risarcitorio o compensativo ma solo ridotto ed eventualmente azzerato. Si consideri per esempio un coniuge che per moltissimi anni si è dedicato alla vita fami¬liare ed ai figli senza perseguire proprie soddisfazioni di tipo professionale e che al momento del divorzio si trovi sfornito di redditi adeguati. Avrà certamente diritto ad un assegno periodico che possa garantirgli tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio, ma non avrà ri¬conosciuta (al di là dell’assegno periodico) alcuna compensazione dei sacrifici compiuti nel corso del matrimonio, potendo il criterio compensativo solo ridurre l’importo dell’assegno e non aumentarlo.
La questione dell’interpretazione dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio era stata portata anche all’attenzione della Corte costituzionale (come ricorda anche Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504) che l’ha risolta – rifacendosi alla giurisprudenza vivente – confermando la validi¬tà della teoria del “tetto massimo”, sostenendo, appunto, che “il parametro del tenore di vita rileva soltanto per determinare in astratto il tetto massimo della misura della prestazione assistenziale, da determinare poi in concreto, caso per caso, con gli altri criteri di diminuzione indicati nell’art. 5 della legge sul divorzio (condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisio¬ne) sino all’eventuale azzeramento” (Corte Cost. 11 febbraio 2015 n. 11).
Nel corso di un giudizio civile di divorzio, il tribunale di Firenze aveva ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione la questione di le¬gittimità costituzionale dell’art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come mo¬dificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, nell’interpretazione, secondo cui in presenza di una disparità economica tra coniugi, “l’assegno divorzile … deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimo¬nio”. Ad avviso del giudice rimettente, questa interpretazione si porrebbe, infatti, in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto l’assegno di divorzio, pur avendo una finalità meramente assistenziale, finirebbe con l’attribuire l’obbligo di garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole; con l’art. 2 Cost., sotto il profilo del dovere di solidarietà, in quanto la tutela del coniuge debole non comporterebbe l’obbligo di consentire, ben oltre il contesto matrimoniale, il mantenimento delle medesime condi¬zioni economiche godute durante lo stesso matrimonio; con l’art. 29 Cost., in quanto risulterebbe anacronistico ricondurre l’assegno divorzile al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, senza considerare l’attuale portata del divorzio, della famiglia e del ruolo dei coniugi. Secondo il tribunale di Firenze, il “diritto vivente”, fatto oggetto di censura, violerebbe quindi l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, per la “contraddizione logica” che, quel giudice ravvisa, “fra l’istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio e dei suoi effetti, e la disciplina in questione, che di fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il “tenore di vita” in costanza di matrimonio”; contrasterebbe, inoltre, “per eccesso” con il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e violerebbe, infine, anche l’art. 29 Cost., “esprimendo una concezione “in¬dissolubilista” del matrimonio che appare oggi anacronistica”.
La Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione affermando innanzitutto che l’esisten¬za, presupposta dal tribunale di Firenze, di un “diritto vivente” secondo cui l’assegno divorzile ex art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 “deve necessariamente garantire al coniuge eco¬nomicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” non trova riscontro nella giurisprudenza, secondo la quale, viceversa, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. In effetti – ricorda la Corte costituzionale – la Corte di cassazione, in sede di esegesi della normativa impugnata, ha anche di recente, in tal senso, appunto, ribadito il proprio “consolidato orientamento”, secondo il quale il parametro del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” rileva, bensì, per determinare “in astratto … il tetto massimo della misura dell’assegno” (in termini di tendenziale adeguatezza al fine del mantenimento del tenore di vita pregresso), ma, “in con¬creto”, quel parametro concorre, e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5.
La sentenza Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 manda in soffitta anche la teoria del “tetto massimo” perché la valutazione dell’an debeatur deve essere effettuata con criteri comple¬tamente diversi da quelli su cui si fonda la valutazione del quantum debeatur.
Secondo quanto di è detto finora, una volta accertato che il coniuge richiedente non ha redditi “adeguati”, cioè non è economicamente indipendente, il giudice deve valutare il quantum dell’im¬porto dell’assegno periodico divorzile. Per valutare però l’indipendenza economica di un coniuge non può essere utilizzato nessuno degli elementi che poi costituiscono i criteri di valutazione dell’entità dell’importo dell’assegno.
Ulteriore conseguenza importante dei principi affermati da Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 è che i criteri di cui parla l’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio, tra i quali scompare quello perequativo, meno inquinati dalla valutazione storicamente effettuata nella fase dell’an debeatur, tornano ad essere criteri di autonoma valutazione dell’importo dell’assegno recuperando le storiche funzioni si sostegno economico nonché compensativa e risar¬citoria dell’assegno.
VII La convivenza more uxorio del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile
La legge sul divorzio all’art. 5, comma 10, prevede che “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”.
Nulla prevede nel caso in cui il coniuge beneficiario instauri, invece, una convivenza more uxorio con altra persona.
È stata la giurisprudenza ad occuparsi di questo tema con decisioni che mettono in evidenza tre linee di approfondimento molto chiare.
a) In una prima fase la giurisprudenza ha considerato rilevante la convivenza more uxorio dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile nella misura in cui a tale convivenza possa essere col¬legata la riduzione dello stato di bisogno del beneficiario dell’assegno.
Il principio affermato è che le prestazioni di assistenza di tipo coniugale da parte del convivente more uxorio quando di fatto escludono, oppure riducono lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiegano rilievo sulla quantificazione dell’assegno divorzile (Cass. civ. Sez. I, 5 giu¬gno 1997, n. 5024; Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 1993, n. 3720).
A causa della stretta connessione tra convivenza more uxorio e miglioramento economico del convivente beneficiario del mantenimento Cass. civ. Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17643 aveva precisato che il diritto all’assegno non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, ma tale convivenza può influire sulla misura dell’assegno riducendone l’importo, ove si dia la prova, da parte dell’ex coniu¬ge onerato, che tale convivenza influisce in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto.
Il principio ha continuato a trovare conferme nella giurisprudenza anche recente. Nella misura in cui si provi che la convivenza more uxorio (con persona per esempio benestante) abbia determi¬nato un miglioramento delle condizioni economiche del convivente titolare dell’assegno divorzile è consentito al giudice ridurre l’assegno di mantenimento che grava sull’obbligato (Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1096; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709; Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593) oppure addirittura azzerarlo se, in connessione con la convivenza more uxorio, è venuto meno del tutto lo stato di bisogno di chi ne godeva (Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328 che applica il principio all’assegno di separazione.).
In questa prospettiva interpretativa il presupposto principale è certamente la stabilità della con¬vivenza che deve quindi essere non una convivenza occasionale ma di una certa solidità e durata tale da potersi parlare di famiglia di fatto. Altrimenti la stessa condizione di miglior benessere che ne ricava il convivente titolare dell’assegno sarebbe connotata dall’incertezza e dalla precarietà.
b) In una seconda fase la giurisprudenza cominciò a mettere l’accento non tanto sui benefici eventuali che la convivenza può apportare all’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile, quanto sulla convivenza in sé quale causa di eliminazione (di quiescenza) dell’assegno divorzile.
Ciò avvenne alla fine degli anni Novanta. Fece un certo scalpore una decisione della Corte di cas¬sazione, allora del tutto isolata, in una vicenda in cui la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la donna, successivamente alla separazione, aveva intrattenuto una convivenza sia pure non stabile con altro uomo, a seguito della quale era anche nato un figlio.
La Cassazione annullò la sentenza affermando il principio secondo cui, nel caso in cui alla convi¬venza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevan¬te sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati. Sulla base di questo principio la Corte chiese al giudice di rinvio di accertare se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503).
La decisione restò allora isolata, ma era chiaro che stava nascendo un orientamento che faceva leva sulla diffusione del fenomeno della famiglia di fatto.
In questa prospettiva successivamente Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) che inda¬gando il concetto di “adeguatezza dei mezzi” del coniuge richiedente l’assegno affermava – sia pure con riferimento all’assegno divorzile – che “fra i fattori capaci di incidere su tale nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico) fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esi¬stenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convi¬venza) – ogni plausibile connessione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi”.
Per la prima volta si dava rilievo molto esplicito alla famiglia di fatto del coniuge beneficiario del diritto al mantenimento, quale elemento che avrebbe potuto “escludere ogni presupposto per il riconoscimento dell’assegno divorzile”. Il fatto di vivere in una nuova famiglia, in altre parole, ta¬glia ogni collegamento con il tenore di vita goduto nel corso del precedente matrimonio venendo meno la plausibilità di mantenere attraverso l’assegno un collegamento con la precedente vita matrimoniale.
Per alcuni anni non vi furono più decisioni significative sul punto o che richiamavano la decisione di cui si è sopra detto.
Nel 2011 giunse all’attenzione dei giudici della Cassazione una vicenda nella quale la Corte d’ap¬pello di Roma, a modifica di quanto aveva stabilito il tribunale di Roma, aveva concesso un as¬segno divorzile ad una donna che aveva in corso da anni una stabile convivenza more uxorio. La Cassazione annullò la decisione (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195) ribadendo da un lato il principio secondo cui “la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento” ma aggiungendo che ove “tale conviven¬za assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne conse¬gue la mancanza di ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso”.
I principi di questa importante decisione sono stati ripresi e ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 e Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481, Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845, Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 23 ottobre 2017, n. 25074 nella cui motivazione si sostiene che, in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità eco¬nomiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimo¬nio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. Si è precisato che in detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
La nozione di famiglia di fatto – continuano le sentenze – richiede, tuttavia, al fine di considerare rescissa – sia pure temporaneamente – ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, che i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio). Si richiede, pertanto, un arricchimento e un potenziamento reciproco della personalità dei conviventi, la trasmissione di valori educativi ai figli, per altro ormai quasi del tutto assimilati a quelli legittimi.
In definitiva – concludono i giudici – in base al richiamato orientamento di questa Corte, non è sufficiente l’instaurazione di un rapporto di mera convivenza, essendo necessario, per il fine che qui interessa, che la stessa assuma i caratteri di una vera e propria famiglia di fatto.
c) In una terza fase, più recentemente Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 e Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2016, n. 2466 hanno superato anche l’orientamento che parlava di stato di quiescenza dell’assegno divorzile, ed ha affermato perentoriamente la natura definitiva della perdita dell’assegno divorzile sostenendo che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esisten¬ziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
VIII La questione della decorrenza dell’assegno di divorzio
La giurisprudenza si è trovata a doversi interrogare su come risolvere il problema della decorrenza dell’obbligazione di mantenimento in assenza di una chiara indicazione normativa.
La tesi che è prevalsa per l’assegno di separazione è quella che attribuisce all’assegno una natura in senso lato alimentare e che quindi fa applicazione della regola, dettata in materia di alimenti dall’art. 445 del codice civile, secondo cui “gli alimenti sono dovuti dal giorno della domanda”.
L’acquisizione di una interpretazione unitaria si deve, sia pure indirettamente, a Corte cost. 21 gennaio 2000, n. 17 che ritenne non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 2751 n. 4 c.c. nella parte in cui, secondo il giudice che aveva sollevato la questione, attribuirebbe natura privilegiata al solo credito alimentare (cui espressamente la norma si riferisce) ma non a quello di separazione. La Corte ritenne, invece, che “si deve prescindere da considerazioni puramente nominalistiche, per guardare al profilo funzionale” e in questa prospettiva il credito alimentare e quello di mantenimento – pur strutturalmente diversi – assolvono ad una funzione omogenea in senso lato alimentare.
Pertanto – ed è oggi conclusione assolutamente consolidata – al credito di mantenimento vanno riconosciute le stesse caratteristiche giuridiche di quello alimentare e perciò trova applicazione ai crediti di mantenimento l’art. 445 c.c. sulla decorrenza del credito dalla domanda giudiziale (Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2004, n. 23570; Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14886; Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 4558; Cass. civ. Sez. I, 8 gennaio 1994, n. 147) con la precisazione che il principio in questione riguarda l’an debeatur di tale obbligazione; non il quantum che può senz’altro essere liquidato tenendo conto dell’evoluzione verificatasi nella situazione econo¬mica dei coniugi nel corso del giudizio e quindi mediante fissazione di misure e decorrenze differen¬ziate in relazione proprio alle modificazioni intervenute fino alla data della decisione. In mancanza di indicazioni diverse contenute nella sentenza, la decorrenza è senz’altro dalla domanda.
L’orientamento della decorrenza dell’assegno di separazione dalla domanda giudiziale può oggi considerarsi assolutamente consolidato ed è stato, comunque, ribadito recentemente anche sulla base del principio generale per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo neces¬sario per farlo valere in giudizio (Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17199; Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19309).
La soluzione offerta dalla giurisprudenza al tema della decorrenza dell’assegno di separazione a far data dalla domanda non può trovare applicazione in sede divorzile. Infatti la sentenza di divorzio, avendo natura costitutiva, non può che prevedere effetti divorzili solo in seguito al passaggio in giudicato della sentenza.
Il problema non viene solitamente molto avvertito dal momento che quasi sempre il coniuge bene¬ficiario dell’assegno divorzile già gode di un assegno di separazione che viene sostituito dall’asse¬gno divorzile senza soluzioni di continuità. Tuttavia la questione ha certamente rilevanza nei casi in cui non era previsto un assegno di separazione o era previsto in misura diversa da quella divorzile.
Già in alcune risalenti decisioni che avevano affrontato il tema specifico della decorrenza dell’asse¬gno divorzile (Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 1977, n. 2580; Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1980, n. 3710; Cass. civ. 6 gennaio 1983 n. 67) era stato affermato con perentorietà – sia pure pren¬dendo spunto dal convincimento allora prevalente circa la natura composita e non assistenziale (cioè in senso lato alimentare) dell’assegno di mantenimento – che l’assegno di divorzio, per la sua natura composita, ha una disciplina giuridica diversa da quella che regola l’obbligo alimentare, il quale presuppone la permanenza e non la cessazione del vincolo coniugale. Conseguentemente, l’assegno stesso può essere preteso solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza che ha sciolto il vincolo matrimoniale o ne ha fatto cessare gli effetti: esso è esigibile dalla data di annotazione della sentenza, a norma dell’art. 10 della legge 898 del 1970 con decorrenza dal momento del passaggio in giudicato della sentenza.
Interessante in questo contesto anche Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 1987, n. 6016 dove, nella stessa prospettiva, si affermava coerentemente che, ove “nel giudizio di divorzio, la decisione di primo grado sullo scioglimento del matrimonio civile o sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso, non appellata, sia passata in giudicato prima della statuizione definitiva (in appello) sulla attribuzione e sulla quantificazione dell’assegno, la decorrenza di questo risale al momento in cui è passata in giudicato la sentenza di primo grado, che rappresenta il titolo costi¬tutivo della pronuncia di divorzio”.
Era pacifico quindi in giurisprudenza – dopo l’introduzione della legge sul divorzio – che gli effetti della pronuncia di divorzio operassero sempre ex nunc dal momento del passaggio in giudicato della sentenza (Cass. civ. Sez. I, 16 febbraio 1988, n. 1666; Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 1990, n. 475).
Naturalmente ci si riferisce agli effetti (costitutivi) della sentenza di divorzio relativamente al mantenimento divorzile e non al mantenimento dei figli “con la conseguenza che la decorrenza dell’assegno in favore di questi ultimi va fatta sempre risalire alla data della domanda, ovvero alla data dei fatti che ne impongono il riequilibrio, se successivi” (Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 1994, n. 3050).
Il quadro normativo si modificò nel 1987 con la riforma operata dalla legge 6 marzo 1987 n. 74 la quale introdusse il principio in base al quale “quando vi sia stata la sentenza non definitiva, il tribunale, emettendo la sentenza che dispone l’obbligo della somministrazione dell’assegno, può disporre che tale obbligo produca effetti fin dal momento della domanda” (art. 4, allora comma 10, della legge sul divorzio come modificata dalla legge 74/87). La ratio di tale norma era molto chiara. Si intendeva evitare che il prolungarsi della causa sulle questioni economiche, ove vi fosse stata una sentenza non definitiva sullo status (anch’essa introdotta con la riforma dell’87), potesse andare a scapito del beneficiario dell’assegno. Il tribunale, in tal caso, avrebbe quindi potuto far decorrere l’assegno divorzile fin dal momento della domanda di divorzio. Il principio non scompa¬ginava l’assetto strutturale della decorrenza dell’assegno dal giudicato di divorzio, ma vi inseriva un temperamento (più che una vera e propria deroga) lasciato alla discrezionalità del tribunale.
La giurisprudenza prendeva atto di questa importante modifica legislativa.
Diverse furono però le linee interpretative che emersero. Alcune decisioni attribuirono al principio portata generale e lo ritennero applicabile dal giudice discrezionalmente sempre. Altre lo consi¬derarono applicabile solo all’ipotesi in cui – come letteralmente la legge indicava – vi era stata la sentenza non definitiva sullo status.
Nella quasi totalità delle sentenze successive alla riforma si affermava che la decorrenza dalla do¬manda era un principio di portata generale che poteva essere sempre applicato dal giudice (Cass. civ. Sez. I, 23 luglio 1990, n. 7458; Cass. civ. Sez. I, 5 novembre 1992, n. 11978; Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1993, n. 6049; Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1994, n. 8288; Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 2006, n. 7117; Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15611; Cass. civ. Sez. I, 30 agosto 2007, n. 18321; Cass. civ. Sez. I, 21 febbraio 2008, n. 4424; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2009, n. 14214; Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24991; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2011, n. 1613). Si affermava testualmente che il principio enunciato nell’art. 4, 10° comma l. 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 8, della legge 6 mar¬zo 1987, n. 74, secondo cui il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda, ha una portata generale ed è quindi applica¬bile anche nell’ipotesi in cui lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio era pronunciato nella stessa sentenza con cui si disponeva la condanna di un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio.
Resta sempre fermo per il giudice l’obbligo di motivare sul perché ha deciso la decorrenza dell’as¬segno divorzile dalla data della domanda giudiziale anziché da quella del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 2014, n. 20024) sebbene in qualche risalente decisione, tra quelle sopra indicate (per es. in Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1993, n. 6049). Si era affermato che il tribunale potesse anche non motivare espressamente in punto di determinazione della decorrenza dell’assegno dalla data della domanda. Nelle sentenze successive – soprattutto nelle più recenti – si è invece sempre ritenuto di dover considerare obbligatoria la motivazione sul punto.
Le sentenze in questione ritenevano, inoltre, che non fosse necessaria neanche una specifica do¬manda di parte ma che il giudice potesse sempre disporre discrezionalmente la decorrenza dell’as¬segno dalla data della domanda (su questo aspetto espressamente Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 1995, n. 1331).
Nella stessa linea sostanzialmente anche Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 1995, n. 6737 e Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2002, n. 4038 le quali, pur aderendo all’orientamento sopra riferito, riten¬nero tuttavia che il tribunale, mentre avrebbe potuto determinare la decorrenza dalla data della domanda, non avrebbe potuto far decorrere l’assegno da momenti intermedi (tra la domanda e la sentenza) “atteso che il conferimento al giudice di un potere discrezionale così ampio ed incisivo non appare giustificato dalla formulazione della norma, né dai relativi lavori preparatori.”. La seconda delle decisioni indicate precisò però “a meno che le parti non provino sopravvenienze rispetto alla data della domanda” finendo per indebolire di fatto la perentorietà del principio affermato.
Nel ribadire i principi sopra ricordati Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2003, n. 3351 chiariva che nelle ipotesi in cui le condizioni per l’attribuzione dell’assegno siano maturate in un momento successi¬vo al passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo “status” la decorrenza di esso non può che essere fissata da tale momento, e che in siffatte ipotesi il giudice è tenuto a motivare adeguatamente la propria decisione al riguardo. Nello stesso senso anche Cass. civ. Sez. I, 16 dicembre 2004, n. 23396 secondo cui “in base all’articolo 4 della legge n. 898 del 1970 il giu¬dice, qualora ne ricorrano le condizioni, può retrodatare la decorrenza dell’assegno di divorzio alla data della domanda, ma non a una data intermedia, tra quella della domanda e il passaggio in giudicato della sentenza, salvo il caso in cui le condizioni per la maturazione del diritto a percepire l’assegno si siano concretizzate dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, posto che in tale ipotesi la decorrenza non potrà che essere fissata dalla maturazione delle dette condizioni, con onere per il giudice, di motivare sul punto”.
Ha precisato riassuntivamente Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2004, n. 13507 che la regola secondo cui pur decorrendo l’assegno dal giudicato di divorzio, il giudice può sempre far decorrere il diritto dalla data della domanda – non potendo un diritto essere pregiudicato dalla durata del processo – attiene solo al profilo dell’an debeatur e non interferisce nel giudizio per la determinazione del quantum dell’assegno stesso, allorché l’evoluzione delle condizioni economiche dei coniugi postuli diverse decorrenze, coincidenti con le date dei mutamenti. La precisazione sulla necessità di tener distinto il profilo dell’an debeatur da quello sul quantum è stata fatta con riferimento alla separa¬zione anche da Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17199.
Pertanto l’unica differenza, quanto al tema della decorrenza, tra assegno di separazione e assegno di divorzio sta nel fatto che la decorrenza dalla data della domanda nel caso di separazione è auto¬matica mentre in caso di divorzio può essere stabilita dal giudice, decorrendo altrimenti l’assegno dal giudicato di divorzio. Questo è l’orientamento che si può dire oggi certamente consolidato.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 dicembre 2017, n. 28994 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È conforme alla sentenza n. 11504 del 2017 la pronuncia di riconoscimento dell’assegno divorzile in favore del titolare di un modesto reddito da pensione (Euro 400 mensili) non in grado di procurarsi adeguati mezzi per ragioni oggettive in relazione alla sua età (65 anni).
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 28 novembre 2017, n. 28326 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice del divorzio, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: deve verificare, nella fase dell’”an debeatur”, se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’”indipen¬denza o autosufficienza economica” dello stesso.
App. Milano Sez. V, 16 novembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Pare giungere al capolinea il divorzio tra un eminente personaggio pubblico e l’ex moglie, la quale godeva di un assegno divorzile di 1,4 milioni di euro mensili. Applicando il nuovo orientamento giurisprudenziale stabilito dalla sentenza della Cassazione 11504/2017, la Corte d’appello di Milano ha affermato che la signora gode di autonomia finanziaria poiché “è titolare, in qualità di socio unico di società immobiliari, di un considerevole patrimonio immobiliare e ha la disponibilità di somme di denaro – considerando solo quelle ricevute a titolo di assegno dopo la separazione – di consistenza tale da poter essere in parte destinate ad investimenti e comunque di entità tale da consentirle un elevato tenore di vita anche negli anni futuri”. Pertanto il denaro ricevuto dall’ex coniuge a titolo di assegno divorzile gli andrà restituito a far data dal deposito della sentenza di scioglimento del matrimonio (massima redazionale)
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 30 ottobre 2017, n. 25781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive, è da valutarsi in relazione alla situazione esi¬stente nell’attualità e, in particolare, alla possibilità, per il richiedente, di svolgere un’attività lavorativa adeguata alla sua qualifica, posizione sociale e condizioni personali, d’età e di salute.
Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione di quello religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, non solo sul piano dello status personale dei coniugi, ormai da considerare “persone singole”, ma, anche, nei loro rapporti economico-patrimoniali ed, in particolare, nel re¬ciproco dovere di assistenza morale e materiale, residuando, solo, una responsabilità economica post coniugale di matrice esclusivamente assistenziale. Se così non fosse, l’eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una “locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della “mera
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 23 ottobre 2017, n. 25074 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema della cessazione dell’assegno divorzile in caso di intervenuta convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario, la convivenza non dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio e come tale in grado di far venire meno il diritto all’ assegno di mantenimento ove adeguatamente motivato è incensurabile in sede di giu¬dizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 ottobre 2017, n. 23602 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’attribuzione dell’assegno divorzile non può essere giustificata dal divario tra le condizioni reddituali delle parti al momento del divorzio, né dal peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, a tal fine rilevando unicamente la mancanza della indipendenza o autosufficienza economica del richiedente. Nella fase del giudizio concernente l’an debeatur, invero, il richie¬dente, per il principio di autoresponsabilità economica, è tenuto, quale persona singola, a dimostrare la propria personale condizione di non indipendenza o autosufficienza economica. Alle condizioni reddituali dell’altro co¬niuge (unitamente agli altri elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970), pertanto, può aversi riguardo unicamente nella eventuale fase della quantificazione dell’assegno, alla quale è possibile accedere solo nel caso in cui la fase dell’an debeatur si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente l’attribuzione dell’emolumento.
Trib. Milano Sez. IX, 3 ottobre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla luce della complessiva valutazione di tutti gli indici indicati dalla Suprema Corte nella sentenza del 10 maggio 2017, n. 11504, l’assegno divorzile deve comunque essere riconosciuto nelle ipotesi in cui la moglie, all’esito delle risultanze del giudizio, non possa ritenersi economicamente indipendente. (Nel caso di specie il Tribunale riteneva insussistente l’indipendenza economica della moglie in ragione della mancanza di un reddito da la¬voro certo e stabile su cui fare affidamento e della ragionevole impossibilità oggettiva, data l’età, di poterselo procurare).
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 29 agosto 2017, n. 20525 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’assegno di divorzio, di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola ne¬cessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali persone singole ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debeatur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice richiesto della revisione dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (pre-cedentemente riconosciuto), in ragione della sopravvenienza di giustificati motivi dopo la sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve verificare se tali motivi giusti¬fichino, o meno, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficiario, desunta dai seguenti “indici”: possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato sensu” imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), stabile disponibilità di una casa di abitazione, nonché eventualmente altri – rilevanti nelle singole fattispecie – senza, invece, tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; il tutto sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzio¬ni e prove offerte dall’ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’ex coniuge beneficiario.
Trib. Venezia Ordinanza, 24 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegno divorzile, il parametro relativo al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio è irrilevante per la concessione dell’assegno divorzile, essendo piuttosto rilevanti altri indici, quali il “possesso” di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e “la stabile disponi¬bilità” di un’abitazione.
Trib. Milano Sez. IX Ordinanza, 22 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di determinazione dell’ assegno divorzile il presupposto per riconoscere l’ assegno di divorzio non è il raffronto con il pregresso tenore di vita bensì il riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica del richiedente, che può essere desunta dai principali “indici” del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presup¬pone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’ assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una con¬sistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’ assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’applicazione dell’art. 5, comma 6°, della L. n. 898/1970, come sostituito dall’art. 10 della L. n. 74/1987, il parametro di riferimento cui rapportare il giudizio sull’«adeguatezza-inadeguatezza» dei mezzi dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla possibilità-impossibilità per ragioni oggettive dello stesso di procurarseli va individuato non più nel «tenore di vita avuto in costanza di matrimonio», ma nel raggiungi¬mento dell’«indipendenza economica» del richiedente, desunta dai principali «indici» – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione: se è accer¬tato che il richiedente è economicamente indipendente o è effettivamente in grado di esserlo non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
Il diritto all’assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all’ex coniuge richiedente, nella fase dell’an debea¬tur, esclusivamente come “persona singola” e non già come (ancora) “parte” di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disci¬plina dell’assegno di divorzio, sia pure per implicito ma in modo inequivoco, al principio di “autoresponsabilità” economica degli ex coniugi dopo la pronuncia di divorzio.
In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali – salva comunque, in caso di contestazione, la facoltà del giudice di disporre al riguardo indagini officiose, con l’eventuale ausilio della polizia tributaria ( L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9) -, soprattutto “le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale” formeranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specifica¬mente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative.
Il diritto all’assegno di divorzio, di cui all’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della l. n. 74 del 1987, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’”an debeatur”, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali “persone singole” ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al rico¬noscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il “quantum debeatur”, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
I principali “indici” – salvo ovviamente altri elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fatti¬specie – per accertare, nella fase di giudizio sull’an debeatur, la sussistenza, o no, dell’indipendenza economica” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio – e, quindi, l’adeguatezza”, o no, dei “mezzi”, nonché la possi¬bilità, o no “per ragioni oggettive”, dello stesso di procurarseli possono essere così individuati nel possesso di redditi di qualsiasi specie; nel possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza (“dimora abituale”: art. 43 c.c. , comma 2) della persona che richiede l’assegno; nelle capacità e nelle possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; nella stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell’ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma: a) deve verificare, nella fase dell’an debeatur – informata al principio dell’au¬toresponsabilità economica di ciascuno degli ex coniugi quali “persone singole”, ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o no, del diritto all’assegno di divorzio fatto valere dall’ex coniuge richiedente – se la domanda di quest’ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), con esclusivo riferimento all’ “indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed im¬mobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge; b) deve “tener conto”, nella fase del quantum debeatur – informata al principio della “solidarietà economica” dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto “persona” economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell’assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all’esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma (“condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi”), e “valutare” “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”, al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova (art. 2697 cod. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 della l. n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 della l. n. 436 del 1978 e dall’art. 13 della l. n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. Pertanto, nel caso di mancata attribuzione dell’assegno divorzile, in sede di giudizio di divorzio per rigetto o per mancanza della relativa domanda, la determinazione dello stesso può avvenire solo in caso di sopravvenienza di fatti nuovi concernenti le condizioni o il reddito di uno dei coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza stabile e duratura “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla de¬libazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, e deve essere opposta, a pena di decadenza, solo con la comparsa di costituzione e risposta e non anche con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. o nel giudizio di legittimità, così rispettandosi l’autono¬mia del coniuge convenuto, libero di proporre o meno l’eccezione, e ponendosi altresì un limite alla valutazione, altrimenti troppo incisiva, del giudice, rendendola opportunamente scevra da ogni forma di paternalismo. Né tale interpretazione configura un’ipotesi di cd. “ overruling” tale da giustificare la rimessione in termini della parte che aveva fatto affidamento su di un diverso orientamento giurisprudenziale tutt’altro che consolidato.
Cons. Stato Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 4396 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione di illegittimità costituzionale determina la invalidità originaria della legge, sia essa di natura so¬stanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costituzionale, sicché essa elimina la nor¬ma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione (fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consoli¬damento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità).
T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 10 agosto 2016, n. 291 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato è insensibile ai mutamenti legislativi e giurisprudenziali sopravvenuti (e quindi anche alle presunte ipotesi di cd. overruling)
Cass. civ. Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15530 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In linea generale e, dunque, anche in materia tributaria, affinché si possa parlare di “prospective overrulling”, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giuri¬sprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del precedente indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte ad un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.
Cons. Stato Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1458 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa esser applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante l’effetto retroattivo dell’an¬nullamento escluso solo per i cd. rapporti esauriti (art. 136 Cost.)
Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016, n. 4826 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sanzioni amministrative per abuso di informazioni privilegiate, l’annullamento della delibera adottata dalla CONSOB contenente il regolamento sul procedimento sanzionatorio, ove successivo alla proposizione del ri¬corso per cassazione avverso la sentenza di rigetto dell’opposizione ex art. 187-septies TUF, non consente alcuna rimessione in termini per la proponibilità di motivi aggiunti fondati su tale annullamento giacché, non investendo esso una norma processuale, né precludendo l’esercizio del diritto di azione o di difesa, non risultano applicabili i principi elaborati in materia di “overruling”.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2016, n. 3488 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o ec¬cezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2016, n. 2466 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniugo divorziato di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicchè il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dall’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consape¬vole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1863 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di corresponsione dell’assegno periodico di divorzio costituisce una domanda connessa ma autonoma rispetto alla domanda di scioglimento del matrimonio per cui la parte che nel corso del giudizio divorzile non l’abbia ritualmente proposta, può esperirla successivamente, senza che a ciò sia di ostacolo l’intervenuta pronuncia di scioglimento del vincolo di coniugio e ciò in applicazione del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile con esclusivo riferimento alla domanda fatta valere in concreto, ma non anche relativamente ad una richiesta diversa nel petitum e nella stessa causa petendi che la parte ha facoltà di introdurre, o meno, nello stesso giudizio.
Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 223 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In sede di divorzio, ai fini della determinazione del relativo assegno, deve tenersi conto dell’intera consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi e, conseguentemente, di qualsiasi utilità suscettibile di valutazione econo¬mica, compreso l’uso di una casa di abitazione, determinante un risparmio di spesa, salvo che l’immobile sia occupato in via di mero fatto, trattandosi, in tale ultima ipotesi, di una situazione precaria ed essendo le diffi¬coltà di liberazione, da parte del proprietario, un aspetto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali.
Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In ordine alla domanda concernente la revisione del contributo al mantenimento dei figli minori, proposta ex art. 9 della legge n. 898 del 1970, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presup¬posti o dell’entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, con-venuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardiva¬mente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, innovando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stretto), che riteneva il rela¬tivo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore.
Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2015, n. 22008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le preclusioni e le decadenze derivanti da un imprevedibile mutamento di giurisprudenza, sopraggiunto in modo inopinato e repentino, operano solo per il futuro, a partire da quando esso diventi oggettivamente conoscibi¬le. I principi del giusto processo, volti ad assicurare l’effettività dei mezzi di azione e difesa, tutelano infatti, attraverso l’istituto del prospective overruling, la parte che abbia confidato incolpevolmente su un precedente consolidato orientamento (Nel caso di specie, muovendo dal presupposto che l’impugnante si era conformato all’insegnamento al tempo impartito dalla giurisprudenza di legittimità e che solo in un momento successivo tale insegnamento era imprevedibilmente cambiato, la Corte ha pertanto disatteso, pur ritenendola fondata alla luce della nuova giurisprudenza, l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione contro una declinatoria di competenza in favore degli arbitri proposta nelle forme dell’appello anziché in quelle del regolamento necessario di competenza).
Cass. civ. Sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 21670 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento del matrimonio, l’ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego, da parte del coniuge beneficiario, non incide sulla determinazione dell’assegno di divorzio, salvo che il coniuge onerato non fornisca la prova che il beneficiario abbia l’effettiva e concreta possibilità di esercitare un’attività lavorativa con¬facente alle proprie attitudini.
Cass. civ. Sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 21669 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Uno dei presupposti legittimante l’attribuzione dell’assegno divorzile, di cui all’art. 5, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è la mancanza da parte dell’ex coniuge richiedente, di mezzi adeguati per consentirgli la prose¬cuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e l’impossibilità oggettiva di procurarseli.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice verifica l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre nella seconda procede alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Nell’ambito di questo duplice accertamento assumono rilievo, sotto il profilo dell’onere probatorio, le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le rispettive potenzialità economiche. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che ha negato il diritto all’assegno alla richiedente, non avendo questa fornito alcuna prova dell’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio).
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 553 nota di FERRANDO)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connes¬sione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire de¬finitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua soli¬darietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Corte cost. 11 febbraio 2015, n. 11 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6, della legge sul Divorzio (legge n. 898 del 1970), come modificato dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., attesa l’erronea interpretazione della norma denunciata da parte del giudice rimettente. Ed infatti, l’esistenza, presupposta dal rimettente, di un “diritto vivente” secondo cui l’assegno divorzile ex art. 5, comma 6, della citata legge n. 898 del 1970 “deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” non trova riscontro nella giurisprudenza del giudice della nomofilachia, secondo cui, viceversa, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. All’uopo, di recente, la Suprema Corte ha ribadito che il parametro del “teno¬re di vita goduto in costanza di matrimonio” rileva per determinare “in astratto…il tetto massimo della misura dell’assegno”, ma tale parametro concorre e deve essere bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5, quali condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisione.
Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1264 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno divorzile compete al coniuge che sia privo di mezzi, tali da potergli permettere il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello tenuto durante la vita matrimoniale. Inoltre, l’art. 4, comma 13, L. n. 898 del 1970, nel consentire la decorrenza del predetto assegno dalla domanda, conferisce al giudice un potere discrezionale.
Cass. civ. Sez. VI, 9 gennaio 2015, n. 174 (Nuova Giur. Civ., 2015, 6, 501 nota di MOLINARO)
I precedenti della Corte di Cassazione sulla necessità di tutelare la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’ overruling, hanno riguardato esclusivamente gli effetti processuali di un mutamento giurisprudenziale e non quelli di natura sostanziale, introducendo, dunque, un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo. Pertanto, affinché si possa parlare di prospective overruling , devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.
Cass. civ. Sez. VI, 13 ottobre 2014, n. 21597 (Famiglia e Diritto, 2014, 12, 1136)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, mentre gli altri parametri indicati dall’art. 5 della legge sul divorzio – tra cui la durata del matrimonio – attengono alla determi¬nazione in concreto dell’assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21112 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio, mentre non possono essere valutate le migliorie che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto ed alle aspettative maturate nel corso del rapporto ed aventi carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili.
Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19529 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegno divorzile, mentre il diritto del coniuge deve essere accertato verificando la disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici adeguati a consentirgli il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, la liquidazione dell’importo dovuto, una volta riconosciuto il relativo diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri mezzi detto tenore di vita, deve essere compiuta valutando in concreto, anche in rapporto alla durata del matrimonio, le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, il reddito di entrambi.
Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 2014, n. 20024 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice che si avvale della previsione di cui all’art. 4, tredicesimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, fissando la decorrenza dell’assegno divorzile dalla data della domanda giudiziale anziché da quella del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, esercita un potere discrezionale per il quale è necessaria un’adeguata motivazione.
Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di revisione dell’assegno divorzile, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazio¬ne dei presupposti o della entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto ed ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale.
Cass. civ. Sez. Unite, 16 giugno 2014, n. 13676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il termine decadenziale per la presentazione delle istanze di rimborso delle imposte sui redditi, ex art. 38, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 602/1973, decorre dalla data di versamento delle somme di cui si chiede la ripetizione e non dalla data di pubblicazione della sentenza della Corte di Giustizia Europea che crea il presupposto da cui scatu¬risce il riconoscimento del diritto al rimborso. Non puo, a tal fine, invocarsi l’istituto dell’overruling che attiene all’improvviso mutamento di una regola processuale prima consolidata in giurisprudenza e che riguarda il caso in cui tale mutamento si rivolge in danno (e non a vantaggio) della parte che aveva incolpevolmente confidato nel precedente indirizzo.
Cass. civ. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 13026 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione personale dei coniugi, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento oc¬corre tener conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chiede l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta nel corso della vita matrimonia¬le. Ciò in ragione dell’aspettativa, durata per tutto il tempo del matrimonio, di una futura acquisizione di reddito. Infatti, ai fini della quantificazione dell’assegno de qua, il tenore di vita al quale va rapportato il giudizio di ade¬guatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente è proprio quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi durante la vita matrimoniale, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del richiedente.
Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781 (Famiglia e Diritto, 2015, 7, 685 nota di GRAZZINI)
I “giustificati motivi”, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di separazio¬ne dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati.
L’accordo di separazione consensuale fra coniugi il quale preveda che il marito non dovrà versare alcun contribu¬to di mantenimento alla moglie a partire da una certa data “essendo la stessa economicamente autosufficiente”, deve essere interpretato alla luce del suo tenore testuale, e valutato, ai fini del procedimento ex art. 710 c.p.c., con riferimento alla mancata allegazione di fatti nuovi rispetto alla situazione economica delle parti al momento della separazione stessa. Pertanto, poiché a quell’epoca la moglie non svolgeva attività lavorativa in quanto casa¬linga, non è apprezzabile quale fatto nuovo, idoneo a dare luogo alla corresponsione dell’assegno, la dimissione dell’attività lavorativa reperita successivamente alla omologazione della separazione.
Cass. civ. Sez. VI, 27 maggio 2014, n. 11797 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I beni acquisiti per successione ereditaria dopo la separazione, ancorchè non incidenti sul tenore di vita matri¬moniale, possono tuttavia essere presi in considerazione ai fini della valutazione della capacità economica del coniuge richiedente.
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando la inadeguatezza dei mezzi del richie¬dente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presu¬mibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali e nella determinazione dell’assegno divorzile possono essere presi in considerazio¬ne ai fini della valutazione della capacità economica dell’onerato, i beni acquisiti per successione ereditaria dopo la separazione, ancorché non incidenti sulla valutazione del tenore di vita matrimoniale, perché intervenuta dopo la cessazione della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’accertamento della capacità economica dell’obbligato, in sede di determinazione dell’assegno divorzile, il giudi¬ce del merito non può limitarsi a prendere in considerazione gli introiti collegati allo svolgimento di attività lavorati¬va o imprenditoriale o quelli derivanti dal godimento di trattamenti pensionistici o assistenziali, ma deve estendere la propria indagine all’eventuale titolarità di beni patrimoniali ed attività finanziarie, la cui disponibilità assume rilievo non solo sotto il profilo statico, per l’immobilizzazione di capitali che tali forme di investimento comportano, ma anche sotto il profilo dinamico, per le potenzialità economiche di cui costituiscono indice l’acquisto e la vendita, oltre che per il godimento di redditi diversi da quelli retributivi o pensionistici testimoniato dal loro possesso.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, cod. civ. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudi¬ziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2014, n. 6562 (Foro It., 2014, 5, 1, 1496)
Posto che l’assegno divorzile compete al coniuge che non disponga di mezzi adeguati per conservare il tenore di vita goduto in costanza della convivenza matrimoniale e non possa procurarseli per ragioni obiettive, l’accertamento della capacità lavorativa del richiedente, pur attualmente privo di redditi, va condotto non ipoteticamente ed in astratto, ma in termini effettivi e concreti (nella specie, la sentenza di merito, con motivazione ritenuta congrua dalla Suprema corte, ha rilevato che la richiedente, senza redditi propri, ormai cinquantenne, senza una specifica professionalità, non aveva una reale capacità lavorativa, con conseguente obiettiva difficoltà di repe¬rimento di un lavoro, tenuto anche conto della grave crisi economica; nondimeno, la suddetta sentenza è stata cassata, limitatamente alla quantificazione dell’assegno divorzile, perché non congruamente motivata).
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5132 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio, mentre non possono essere valutate le migliorie che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto e alle aspettative maturate nel corso del rapporto ed aven¬ti carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili, quali, ad esempio, le partecipazioni in società, costituite in costanza di matrimonio ma divenute attive dopo la cessazione della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 5 febbraio 2014 n. 2546 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di scioglimento del matrimonio e nella disciplina dettata dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10, l’accer¬tamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procu¬rarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadegua¬tezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (v., ex plurimis, Cass., sentt. n. 15611 del 2007, n. 18241 del 2006).
Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 2013, n. 26491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno periodico di divorzio ha carattere esclusivamente assistenziale, giacché la sua attribuzione trova pre¬supposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, com¬prensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo quello tenuto in costanza di matrimonio. Non è, dunque, richiesto uno stato di bisogno, rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche che devono essere tendenzialmente ripristinate. A fronte della sussistenza di tale presupposto, la liquidazione dell’assegno deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri normativi.
Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In questa sede di legittimità è stato anche di recente reiteratamente ed argomentatamente ribadito (cfr cass. n. 17195 del 2011; n. 3923 del 2012) il risalente principio (cfr tra le altre, cass. nn. 5560 e 11975 del 2003; nn. 3074 e 4765 del 2002) secondo cui in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessa¬zione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di que¬sti, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.
Cass. Civ. Sez. I, 28 ottobre 2013, n. 24252 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento del matrimonio, nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitati¬va delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della mi¬sura dell’assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 21 ottobre 2013, n. 23797 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
a) l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando ‘inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe pre-sumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali, laddove anche l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi (cfr tra le numerose altre cass. n. 4617 del 1998 e da ultimo cass n. 11686 del 2013);
b) in tema di determinazione dell’assegno di divorzio, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazio¬ne, da parte del giudice che dia adeguata giustificazione della propria decisione di tutti, contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, (nel testo modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10), potendo valorizzare quello basato sulle condizioni economiche delle parti, in particolare apprezzando la deteriore situazione del coniuge avente diritto dall’assegno (cfr tra le altre, cass. n. 9876 del 2006; n. 7601 del 2011);
c) ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio a favore dell’ex coniuge – che è il risultato di un apprez¬zamento discrezionale del giudice di merito incensurabile in cassazione, ove immune da vizi di motivazione – i redditi dei coniugi non devono essere accertati nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle rispettive posizioni patrimoniali complessive, dal rapporto delle quali risulti l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio (cfr tra le altre, cass. n. 8057 del 1996).
Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19309 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti adottati in sede presidenziale, a norma dell’art. 708 cod. proc. civ. hanno carattere interinale, sicché la sentenza può integrare, con effetto “ex tunc” decorrente dalla domanda, l’importo dell’assegno di mantenimento stabilito in quella sede provvisoria.
Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”; tuttavia, la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, e succ. modif., dal giudice di tale norma previsto, e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni. Da tanto consegue che l’ex coniuge, tenuto, in forza della sentenza di divorzio, alla somministrazione periodica dell’assegno divorzile, il quale abbia ricevuto la noti¬fica di atto di precetto con l’intimazione di adempiere l’obbligo risultante dalla predetta sentenza, non può – in assenza di revisione, ai sensi del citato art. 9 della legge n. 898 del 1970, delle disposizioni concernenti la misura dell’assegno di divorzio da corrispondere all’ex coniuge – dedurre la sopravvenienza del fatto nuovo, in ipotesi suscettibile di determinare la modifica dell’originaria statuizione contenuta nella sentenza di divorzio, nel giudizio di opposizione a precetto, essendo del pari da escludere che il giudice di questa opposizione debba rimettere la causa al giudice competente ex art. 9 della legge n. 898 del 1970.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17199 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale, decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio. Tale principio attiene soltanto al profilo dell’”an debeatur” della domanda, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il “quantum” dell’assegno alla stregua dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, né sulla legittimità della determinazione di misure e decorrenze differenziate, in relazione alle modificazioni intervenute fino alla data della decisione.
Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16824 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato non si estende ad ogni proposizione contenuta in una sentenza con carattere di semplice afferma¬zione incidentale, atteso che per aversi giudicato implicito è necessario che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, e dunque che l’accertamento contenuto nella motivazione della sentenza attenga a questioni che ne costituiscono necessaria premessa ovvero presupposto logico indefettibile.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’in¬dividuo (v., in tal senso, Cass., sent. n. 4184 del 2012). Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Siffatto percorso è stato in qualche misura indicato, e sollecitato, dalla giurisprudenza costituzionale. Analoghe considerazioni sono alla base delle pronunce della Cassazione che hanno, tra l’altro, attribuito rilievo, ai fini della cessazione (rectius: quiescenza) del diritto all’assegno di man¬tenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto (v. sentt. n. 3923 del 2012, n. 17195 del 2011).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2013, n. 3398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La valutazione della spettanza dell’assegno divorzile deve essere incentrata su un criterio assistenziale che non soffre limitazioni temporali, in quanto l’obbligo di solidarietà post-coniugale non viene meno per il mero decorso del tempo ovvero sulla base della considerazione dell’intervallo temporale (nella specie vent’anni) intercorso tra la separazione e la domanda di divorzio, ancorché tra le parti non vi sia stato alcun rapporto neanche di natura economica.
Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2012, n. 8862 (Foro It. 2012, I, 2037)
In tema di assegno di mantenimento, una volta accertata la sussistenza di un elevato tenore di vita in costanza di matrimonio, il giudice di merito, chiamato a valutare l’inadeguatezza dei redditi del richiedente, non può limitarsi a considerare il mero dato dello svolgimento, da parte di quest’ultimo, di un’attività lavorativa, ma deve esaminare se i suoi mezzi economici gli consentano di mantenere il tenore di vita precedente.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. In detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quie¬scenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È ammissibile la richiesta di assegno di divorzio nel procedimento per la modifica delle relative condizioni, ove esso non sia stato precedentemente chiesto, purché si dia conto di circostanze sopravvenute, rispetto alle statuizioni del divorzio operanti “rebus sic stantibus”.
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 (Famiglia e Diritto, 2012, 1, 25, nota di FIGONE)
La mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimen¬to. Qualora, tuttavia, tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la rico¬noscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso.
Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2011, n. 15144 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fenomeno del cd. overruling ricorre (soltanto) quando si registra una svolta inopinata e repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato che si risolve in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. Elementi costitutivi sono quindi: l’avere a oggetto una norma processuale, il rappresentare un mutamento imprevedibile, il determinare un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa. In questi casi, trova diretta applicazione il valore del Giusto processo attraverso l’esclusione dell’operatività della preclusione deri¬vante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa. Per essa, insomma, la tempestività dell’atto va valutata con riferimento alla giurisprudenza vigente al momento dell’atto stesso. Trattasi di soluzione confortata dall’esigenza di non alterare il parallelismo tra legge retroattiva e interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza. Ciò che non è consentito alla legge non può similmente essere consentito alla giurisprudenza.
Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di revisione dell’assegno di divorzio, ai fini dell’adeguamento del predetto alla rivalutazione monetaria è ammissibile la domanda riconvenzionale, che sia introdotta dal coniuge convenuto, ai fini della ri¬duzione dell’assegno stesso, poiché si tratta di pretesa strettamente collegata con quelle oggetto della domanda principale, implicante l’opportunità di un “simultaneus processus”; si tratta invero, pur se nel rito camerale, di un giudizio contenzioso, nel quale il giudice ha il dovere di pronunciarsi sulle domande ritualmente proposte, avendo tra l’altro la possibilità, nell’ambito di una loro trattazione congiunta, di valutare la complessiva situazio¬ne determinatasi e così se si siano verificate circostanze tali da giustificare la modifica di una decisione assunta “rebus sic stantibus”.
Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2011, n. 1613 (Giur. It., 2011, 11, 2285)
In tema di assegno divorzile, l’art. 4, comma 13, della legge n. 898/1970, nel consentire che la decorrenza dell’obbligo della sua somministrazione produca effetto fin dal momento della domanda giudiziale, si limita a conferire al giudice un potere discrezionale, che rappresenta un temperamento rispetto al principio generale secondo cui l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile decorre dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, e come tale, benché possa essere esercitato anche in mancanza di una precisa richiesta, richiede una apposita ed adeguata motivazione che possa giustificare la deroga del predetto principio.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 4, comma primo, della legge n. 54 del 2006 stabilisce che nel caso in cui la sentenza di separazione giu¬diziale sia già stata emessa al momento della entrata in vigore della stessa legge, ciascuno dei coniugi possa richiedere, nei modi previsti dall’art. 710 cod. proc. civ., l’applicazione delle nuove disposizioni della citata legge n. 54 del 2006, riconducendo l’innovato regime nell’ambito delle sopravvenienze valutabili; ne discende che, in virtù di una interpretazione costituzionalmente orientata ai sensi degli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., tale nuovo regime giuridico sostanziale deve ritenersi applicabile anche nei giudizi di separazione personale ancora in corso.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio decorre dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale. L’art. 4, comma decimo, della legge n. 898 del 1970 ha, tuttavia, introdotto un temperamento conferendo al Giudice il potere di disporre, in relazione alle circostanze del caso concreto, ed anche in assenza di specifica richiesta, la decorrenza dell’assegno in considerazione dalla data della domanda di divorzio, imponendo in circo¬stanze siffatte idonea motivazione giudiziale.
Cass. civ. Sez. I Sent., 22 gennaio 2010, n. 1096 (Fam. Pers. Succ., 2010, 11, 754, nota di ACHILLE)
La nascita di un figlio da un altro compagno e la convivenza con quest’ultimo, non escludono, se la fase di di¬vorzio è ancora aperta, il diritto della ex moglie ad ottenere l’assegno di mantenimento. In sede di revisione possono prendersi in considerazione solo le circostanze sopravvenute e nel caso di specie non possono conside¬rarsi tali né la relazione extraconiugale né la nascita di una figlia dal nuovo compagno in quanto fatti precedenti la pronuncia di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2009, n. 14214 (Famiglia e Diritto, 2010, 1, 9, nota di DOMINICI)
In tema di determinazione dell’assegno divorzile, ove il giudice di merito non ne fissi la decorrenza dalla data della domanda avvalendosi della facoltà sancita dall’art. 4 comma 10 della legge n. 898/1970, esso spetta dalla data della sentenza che ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva. Nell’ipotesi tuttavia in cui le condizioni per l’attribuzione dell’assegno siano maturate in un momento successivo al passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo status, la decorrenza di esso non può che essere fissata da tale momento, a condizione che il giudice motivi adeguatamente la propria decisione al riguardo.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093 (Nuova Giur. Civ. 2010, 1, 1, 80 nota di PULITI)
I giustificati motivi ex art. 156, comma 7, c.c., consistono in fatti nuovi sopravvenuti, dunque non preesistenti e deducibili nel corso del giudizio di separazione, tali da modificare la situazione esistente al tempo della decisione.
Qualora la revisione delle condizioni della separazione abbia ad oggetto i provvedimenti relativi ai rapporti tra i coniugi, vi può essere contestuale pendenza del giudizio di divorzio e del giudizio ex art. 710 c.p.c., data la diversità tra la “causa petendi e il petitum” dei due giudizi.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’eventuale nascita di un figlio non costituisce elemento di prova di per sé sufficiente e idoneo a dimostrare l’esistenza di una situazione di convivenza more uxorio tra il coniuge beneficiario dell’assegno ed un terzo, avente nel tempo i caratteri di stabilità e continuità tali, da far presumere che il beneficiario dell’assegno tragga da tale convivenza vantaggi economici che giustifichino la revisione dell’assegno medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 3 dicembre 2008, n. 28741 (Famiglia e Diritto, 2009, 5, 467, nota di VESTO)
L’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l’assegno di divorzio va valutata avendo riguardo, non solo al tenore di vita concretamente tenuto durante il matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, ma, altresì, al tenore di vita potenziale che poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593 (Giur. It., 2009, 5, 1155, nota di SUBRANI)
La circostanza che l’ex coniuge – titolare dell’assegno di divorzio – abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, non è idonea ad escludere automaticamente il diritto all’assegno; tale convivenza incide solo sulla misura dell’assegno qualora venga fornita la prova, da parte dell’obbligato, che la convivenza stessa, ben¬ché non assistita da garanzie giuridiche di stabilità, sia in grado di influire in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di apprezzabili risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza.
In tema di assegno di divorzio, la circostanza che il titolare abbia iniziato una convivenza more uxorio può giustificare la riduzione dell’assegno se abbia determinato un miglioramento delle sue condizioni economiche.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1120 nota di ARCERI)
Così come la separazione giudiziale dà luogo ad un giudicato “rebus sic stantibus”, non modificabile in relazione ai fatti che avrebbero potuto esser dedotti nel relativo giudizio, analogamente gli accordi negoziali sottoscritti in sede di separazione consensuale omologata non sono modificabili in relazione a fatti dei quali le parti avrebbero dovuto tenere conto al momento della conclusione di detti accordi, ma unicamente in relazione alla sopravve¬nienza di fatti nuovi, che abbiano alterato la situazione preesistente, mutando i presupposti in base ai quali le parti avevano stabilito le condizioni della separazione. Del tutto estranei a tale ambito sono dunque i fatti pre¬esistenti alla regolamentazione pattizia della separazione, non presi in considerazione, per qualsiasi motivo, in quella sede.
In materia di assegno di mantenimento, i “giustificati motivi” , la cui sopravvenienza consente di rivedere le de-terminazioni adottate in sede di separazione dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati, con la con¬seguenza che esulano da tale oggetto i fatti preesistenti alla separazione, ancorché non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero acquisto di un cespite, così come la perdita di un bene, non rappresenta, di per sé, indice sufficiente a giustificare la modifica delle condizioni della separazione consensuale in punto di misura del contributo di mante-nimento, giacché la valutazione dei motivi sopravvenuti – la prova dell’esistenza dei quali è a carico del coniuge richiedente la modifica – postula sempre un giudizio di relazione da parte del giudice di merito, onde accertare se l’acquisto o la perdita del cespite sia l’espressione di un incremento o decremento patrimoniale dei coniugi di entità tale da mutare l’equilibrio esistente al momento della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 29 febbraio 2008, n. 5434 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 632)
In tema di divorzio, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sesto com¬ma, della legge 1° dicembre 1970, n, 898, nella parte in cui consente di assoggettare all’obbligo di corrispondere l’assegno anche il coniuge che abbia chiesto ed ottenuto lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ex art.3 n.2 lett. a della legge 1° dicembre 1970, n.898; neppure in tale ipotesi, infatti, cessa la funzione assistenziale di detto assegno, non rilevando le ragioni della decisione ai fini dell’accertamento della sussistenza del relativo diritto, ma solo ai fini della determinazione del relativo ammontare, ed essendo riservata alla valutazione discrezionale del giudice di merito la possibilità di considerare decisivo e prevalente, tra tutti i criteri previsti per la quantificazione dell’assegno divorzile, quello della ragione del divorzio e della responsabilità del coniuge convenuto e di pervenire in tal modo all’azzeramento dell’assegno. I profili di responsabilità civile derivanti dalle violazioni del diritto all’unità familiare non sono d’altronde incompatibili con l’obbligo di contribu¬zione assistenziale, che fonda la sua ragione proprio nel rapporto coniugale che è alla base della famiglia.
Cass. civ. Sez. I, 21 febbraio 2008, n. 4424 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di determinazione dell’assegno divorzile, ove il giudice di merito non ne fissi la decorrenza dalla data della domanda, avvalendosi della facoltà sancita dall’art. 4, decimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, esso spetta dalla data della sentenza che ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione della L. n. 898 del 1970, art. 9, consente la revisione delle condizioni del divorzio relative (tra l’al¬tro) ai rapporti economici per sopravvenienza di “giustificati motivi”, sicché il relativo provvedimento postula non soltanto l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma anche la idoneità di tale modifica ad immutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedi¬mento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche di entrambe le parti. L’apprezzamento della rilevanza dei fatti sopravvenuti (onde inferirne l’esistenza dei “giustificati motivi” richiesti dalla norma) va infatti compiuto con riguardo alla natura ed alla funzione dell’assegno divorzile, rivolto ad assicurare, in ogni tempo, la disponibilità di quanto necessario al godimento di un tenore di vita adeguato alla pregressa posizione economico-sociale dell’ex coniuge.
I sopravvenuti, giustificati motivi a sostegno della richiesta di revisione delle condizioni patrimoniali del divorzio possono riguardare anche i nuovi oneri familiari dell’obbligato, derivanti dalla nascita di un figlio, generato dalla successiva unione, sempre che detta insorgenza, considerate tutte le circostanze del caso concreto, abbia deter¬minato un reale ed effettivo depauperamento delle sostanze o della capacità patrimoniale dell’obbligato stesso, apprezzato all’esito di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2008, n. 593 (Fam. Pers. Succ., 2008, 11, 903 nota di ZAULI)
L’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il Giudice è chia¬mato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno; e che, nella seconda fase, il Giudice deve procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazio¬ne ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, co. 6, legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo modificato dall’art. 10, legge n. 74 del 1987) – e cioè delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio – i quali criteri, quindi, agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, in ipotesi estreme, valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione. E’ necessario valutare anche l’influenza del criterio basato sul contributo del coniuge alla conduzione familiare in base ai principi sopra menzionati.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321 (Famiglia e Diritto, 2008, 5, 446 nota di CASABURI)
In tema di separazione consensuale, applicandosi in via analogica l’art. 156, settimo comma, cod. civ., i giu¬stificati motivi che autorizzano il mutamento delle relative condizioni consistono in fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale gli accordi erano stati stipulati; ne consegue che gli eventuali vizi (nullità o annullabilità) che inficiano la validità dell’accordo di separazione omologato e la sua eventuale si¬mulazione non sono deducibili attraverso il giudizio camerale attivato a norma del combinato disposto degli artt. 710 e 711 cod. proc. civ. ma attraverso un giudizio ordinario, secondo le regole generali.
Gli accordi di separazione consensuale tra i coniugi possono contenere, oltre che un contenuto necessario, atti¬nente allo stesso consenso alla separazione, ai patti relativi alla prole e al mantenimento del coniuge economi¬camente più debole, un contenuto eventuale, solo occasionalmente collegato al primo, ed attinente a pattuizioni patrimoniali tra i coniugi, che configurano non una convenzione matrimoniale ma un contratto atipico, valido sempre che non incida negativamente sui diritti e i doveri nascenti dal matrimonio e che comunque – ove se ne configuri l’invalidità – non può essere impugnato nelle forme del procedimento camerale ex art. 710 c.p.c., che presuppone da un lato l’intervento di sopravvenienze, dall’altro la validità della separazione consensuale, ma con un ordinario giudizio di cognizione.
Cass. civ. Sez. I, 30 agosto 2007, n. 18321 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio enunciato nell’art. 4, decimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito ad opera dell’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74), secondo cui il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda, ha una portata generale ed è quindi appli¬cabile non solo nell’ipotesi, espressamente prevista, in cui sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione sia dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; senza che sia necessaria sul punto un’apposita domanda.
Cass. civ. Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17643 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione, quanto all’incidenza della convivenza “more uxorio” di un coniuge sul diritto all’as¬segno di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge, in riferimento alla persistenza delle condizioni per l’at¬tribuzione dello stesso, deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità, che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente.
Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 577 nota di LA ROSA)
Il peggioramento delle condizioni economiche dell’ex coniuge, determinato dalla volontaria scelta di pensiona¬mento o di dimissioni volontarie dal lavoro, può assumere rilevanza quale giustificato motivo per il riconoscimen¬to ex novo dell’assegno di divorzio, originariamente negato o non richiesto, nell’ambito di
Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15611 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio enunciato nell’art. 4 n. 10 della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art.8 della legge n. 74 del 1987 -secondo il quale il giudice di merito può fare decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda – ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nella ipotesi espressamente prevista in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui, con la stessa decisione, si sia dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio secondo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo “status” delle parti, decorre dal pas¬saggio in giudicato della relativa statuizione, bensì un temperamento a tale principio, con il conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso alla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza definitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di tale potere.
Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687 (Fam. Pers. Succ., 2007, 12, 1000 nota di DOSSETTI)
Il miglioramento delle condizioni patrimoniali dell’ex coniuge obbligato al pagamento di un assegno divorzile, derivante dall’eredità ricevuta dal proprio genitore dopo il divorzio, non costituisce giustificato motivo per l’au¬mento dell’assegno, in mancanza di un peggioramento della situazione economica dell’ex coniuge beneficiario.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256 (Nuova Giur. Civ., 2007, 7, 1, 895 nota di BARBANERA)
Qualora sia stata pronunciata sentenza di separazione, le nuove disposizioni dettate dalla l. n. 54/2006, possono trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’art. 710 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2006, n. 18547 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine del riconoscimento del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazio¬ne, è essenziale che questi sia privo di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto durente la convivenza e che sussista una disparità economica tra i due coniugi, non avendo rilievo che, prima della separazione, il coniuge richiedente avesse eventualmente tollerato, subito o – comunque – accettato un tenore di vita più modesto. E siccome la separazione instaura un regime che tende a conservare il più possibi¬le gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il “tipo” di vita di ciascuno dei coniugi, se prima della separazione i coniugi hanno concordato – o, quanto meno, accettato – che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione.
Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di revisione dell’assegno di divorzio, allorché a fondamento dell’istanza dell’”ex” coniuge obbligato, rivol¬ta ad ottenere la totale soppressione del diritto al contributo economico, sia dedotto il miglioramento delle con¬dizioni economiche dell’ex coniuge beneficiario (nella specie dipendente dall’acquisto per successione ereditaria della proprietà e della comproprietà di beni immobili), il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, non può limitarsi a considerare isolatamente detto miglioramento, attribuendo ad esso una valenza automaticamente estintiva della solidarietà postconiugale, ma – assumendo a parametro l’assetto di interessi che faceva da sfondo, e da risultato, al precedente provvedimento sull’assegno divorzile – deve verificare se l’”ex” coniuge, titolare del diritto all’assegno, abbia acquistato, per effetto di quel miglioramento, la disponibilità di “mezzi adeguati”, ossia idonei a renderlo autonomamente capace, senza necessità di integrazioni ad opera dell’obbligato, di raggiungere un tenore di vita an alogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18241 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella disciplina dettata dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, l’assegno di divorzio si configura con natura eminente¬mente assistenziale, essendone condizionata l’attribuzione alla specifica circostanza della mancanza di mezzi adeguati o della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, mentre gli altri criteri costituiti dalle condizio¬ni dei coniugi, dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, dal reddito di entrambi, valutati uni¬tariamente e confrontati alla luce del paradigma della durata del matrimonio, sono destinati ad operare solo se l’accertamento dell’unico elemento attributivo si sia risolto positivamente, e quindi ad incidere unicamente sulla quantificazione dell’assegno stesso (v. più di recente, tra le tante, Cass. 19/03/2003, n. 4040; Cass. 07/05/2002 n. 6541; 2001 n. 7068; Cass. 15/05/2001 n. 6660).
Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 2006, n. 7117 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio enunciato nell’art. 4, decimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito ad opera dell’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74) – secondo il quale il giudice del merito può far decorrere l’as¬segno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda – ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nell’ipotesi, espressamente prevista, in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione si sia dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio secondo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo “status” delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì rappresenta un temperamento a tale principio, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso dalla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza non defi¬nitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di detto potere.
Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2005, n. 17320 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 legge n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 legge n. 436 del 1978 e dall’art. 13 legge n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Pertanto, nel caso di mancata attribuzione dell’assegno divorzile, in sede di giudizio di divorzio, per rigetto o per mancanza della relativa domanda, la determinazione dello stesso può avvenire solo in caso di sopravvenienza di giustificati motivi, concernenti la indisponibilità di mezzi adeguati e la impossibilità oggettiva di procurarseli, ovvero le condizioni o il reddito dei coniugi. Tale principio trova applicazione anche nella ipotesi in cui il coniuge divorziato che chiede per la prima volta l’assegno sia rimasto contumace nel giudizio di divorzio, non potendosi essere a lui riconosciuta una posizione diversa da quella del coniuge che, essendosi costituito, non abbia chiesto l’attribuzione di detto assegno.
Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche in materia di separazione di coniugi, con riguardo all’assegno di mantenimento, deve ritenersi applicabile in via analogica stante l’identità di “ratio”, riconducibile alla funzione eminentemente assistenziale dell’assegno in questione – la norma dell’art. 5 comma 9, della legge sul divorzio, il quale, in tema di riconoscimento e deter¬minazione dell’assegno divorzile, stabilisce che “in caso di contestazioni, il tribunale dispone indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della Polizia tributaria”. L’esercizio di tale potere di disporre indagini patrimoniali con l’avvalimento della Polizia tributaria, che costitu¬isce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e non può essere considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche; tale discrezionalità, tuttavia, incontra un limite nella cir¬costanza che il giudice, potendosi avvalere di siffatto potere, non può rigettare le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano, giacché in tal caso il giudice ha l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio (avvalendosi anche della Polizia tributaria).
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2004, n. 23570 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi la circostanza che la spettanza degli assegni di cui agli articoli 155 e 156 del c.c. decorra fin dalla domanda non esclude il potere del giudice del merito di graduare e differenziare nel tempo la entità dell’assegno di contributo al mantenimento del coniuge e dei figli, modulandola in funzione del complesso dei dati concretamente accertati. Ne segue, pertanto, che la naturale retroattività delle statuizioni assunte in proposito in sede di giudizio di separazione non vuole anche dire necessaria uniformità degli importi fissati in relazione alle varie fasi temporali.
Cass. civ. Sez. I, 16 dicembre 2004, n. 23396 (Famiglia e Diritto, 2006, 1, 46, nota di WINKLER)
Ove il giudice del divorzio, nell’emettere la sentenza che dispone la somministrazione del relativo assegno, abbia stabilito, in considerazione delle modeste condizioni economiche dell’onerato, la decorrenza dello stesso assegno dalla data della deliberazione della sentenza di primo grado – così erroneamente scegliendo una data intermedia di decorrenza fra quella della domanda introduttiva e quella del passaggio in giudicato della pronuncia di scio¬glimento (o di cessazione degli effetti civili) del matrimonio – è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale l’avente diritto all’assegno di divorzio censuri tale statuizione relativa alla decorrenza dell’assegno senza tuttavia indicare le circostanze necessarie e sufficienti per fissare l’insorgenza del diritto alla percezione dell’assegno dalla domanda introduttiva del giudizio, e ciò trattandosi di censura finalizzata ad ottenere il rispetto meramente astratto della legge e non la tutela di un concreto interesse della parte ricorrente.
In base all’articolo 4 della legge n. 898 del 1970 il giudice, qualora ne ricorrano le condizioni, può retrodatare la decorrenza dell’assegno di divorzio alla data della domanda, ma non a una data intermedia, tra quella della domanda e il passaggio in giudicato della sentenza, salvo il caso in cui le condizioni per la maturazione del diritto a percepire l’assegno si siano concretizzate dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, posto che in tale ipotesi la decorrenza non potrà che essere fissata dalla maturazione delle dette condizioni, con onere per il giudice, di motivare sul punto.
Cass. civ. Sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 L. n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 L. n. 436 del 1978 e dall’art. 13 L. n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane viceversa esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Ne consegue che l’attribuzione in favore di un ex coniuge dell’assegno divorzile non può essere rimessa in discus¬sione in altro processo sulla base di fatti anteriori all’emissione della sentenza, ancorchè ignorati da una parte, se non attraverso il rimedio della revocazione, nei casi eccezionali e tassativi di cui all’art. 395 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2004, n. 13507 (Corriere Giur., 2004, 11, 1424)
La regola secondo cui in presenza di sentenza non definitiva di divorzio l’assegno disposto ai sensi dell’articolo 4, comma 10 della legge n. 898 del 1970 può farsi decorrere dalla data della domanda – non dovendo un diritto essere pregiudicato dalla durata del processo – attiene solo al profilo dell’an debeatur e non interferisce nel giu¬dizio per la determinazione del quantum dell’assegno stesso allorché l’evoluzione delle condizioni economiche dei coniugi postuli diverse decorrenze, coincidenti con le date dei mutamenti. Ne deriva, quindi, che se il petitum si limiti alla definizione dell’ammontare dell’assegno, non è inibita la decorrenza della misura modificata di esso da una data diversa rispetto alla previsione della norma citata, non diversamente da come accadrebbe se fosse introdotta la procedura di revisione prevista dal successivo articolo 9 della legge sul divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 2 luglio 2004, n. 12121 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è subordinato dall’art. 156 c.c. alla condizione che chi lo pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, a differenza di quanto previsto, in materia di divorzio, dall’art. 5 della legge 898/1970, che condiziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive; ciò in quanto se – ad esempio – prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto “per facta concludentia”) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, perché la separazione instaura un regime che, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il “tipo” di vita di ciascuno dei coniugi.
In tema di separazione personale dei coniugi, i presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento sono la non addebitabilità della separazione e la mancanza di redditi idonei a conservare il precedente tenore di vita, sussistendo disparità economica tra le parti, mentre l’inattività lavorativa del richiedente l’assegno costitu¬isce circostanza estintiva dell’obbligo di corresponsione a carico dell’altro coniuge solo se conseguente al rifiuto accertato di opportunità di lavoro, non meramente ipotetiche, ma effettive e concrete.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2004, n. 5555 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è subordinato dall’art. 156 c.c. alla condizione che chi lo pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, a differenza di quanto previsto, in materia di divorzio, dall’art. 5, comma sesto, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 del¬la legge 6 marzo 1987, n. 74, del divorzio, che condiziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive;
Il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è subordinato dall’art. 156 c.c. alla condizione che chi lo pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, a differenza di quanto previsto, in ma¬teria di divorzio, dall’art. 5, comma sesto, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, del divorzio, che condiziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive; ciò in quanto se – ad esempio – prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto “per facta concludentia”) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, perché la separazione instaura un regime che, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2004, n. 2897 (Guida al Diritto, 2004, 13, 51)
Il criterio di adeguamento automatico dell’assegno di mantenimento in favore dei figli di genitori divorziati, di cui all’articolo 6, il potere di acquisto degli assegni, di limitare il ricorso a procedure di revisione e di ridurre la conflittualità tra le parti. Correttamente, pertanto, tale criterio viene applicato in caso di assegno dovuto a carico del genitore dichiarato tale dal giudice per il mantenimento del figlio naturale.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 (Famiglia e Diritto, 2004, 195)
Tra i fattori capaci di incidere sulla nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico). Ciò fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esistenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convivenza) – ogni plausibile connessione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi.
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero acquisto di un cespite, così come la perdita di un bene, non rappresenta, di per sé, indice sufficiente a giustificare la modifica delle condizioni della separazione consensuale in punto di misura del contributo di mante-nimento, giacché la valutazione dei motivi sopravvenuti – la prova dell’esistenza dei quali è a carico del coniuge richiedente la modifica – postula sempre un giudizio di relazione da parte del giudice di merito, onde accertare se l’acquisto o la perdita del cespite sia l’espressione di un incremento o decremento patrimoniale dei coniugi di entità tale da mutare l’equilibrio esistente al momento della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2003, n. 4040 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento del matrimonio e nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una de¬terminazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2003, n. 3351 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva, decorre dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo co¬niugale. A tale principio ha introdotto un temperamento l’art. 4, comma decimo, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, così come sostituito dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74, conferendo al giudice il potere di disporre, in relazione alle circostanze del caso concreto, ed anche in assenza di specifica richiesta, la decorrenza dello stesso assegno dalla data della domanda di divorzio. Ciò non esclude che, ove le conclusioni per l’attribuzione siano maturate in un momento successivo al passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo “status”, la decorrenza dell’assegno non possa che essere fissata da tale momento; tuttavia, in siffatta ipotesi, il giudice è tenuto a motivare adeguatamente la propria decisione.
Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14886 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale, decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio. Tale principio attiene soltanto al profilo dell’an debeatur della domanda, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il “quantum” dell’assegno alla stregua dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, né sulla legittimità di fissare misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati.
Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 2002, n. 6541 (Nuova Giur. Civ., 2009, 9, 1, 907, nota di PULITI)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe pre-sumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. Ai fini di tale accertamento, correttamente il tenore di vita precedente viene desunto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare com¬plessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretta la deci¬sione della corte territoriale che aveva ritenuto che il forte squilibrio tra l’entità dello stipendio percepito dalla ex moglie e quello dell’ex marito rendevano evidente la non titolarità da parte della prima – una volta venuto meno l’apporto delle entrate del coniuge – di mezzi adeguati, tenuto altresì conto della circostanza dell’attribuzione, ad opera della sentenza di primo grado, non impugnata sul punto, all’ex marito, del gratuito godimento della casa di proprietà della donna, così privata della opportunità di trarre un profitto dalla locazione di detto immobile. Al riguardo la Corte territoriale aveva altresì ritenuto che non potesse avere alcuna incidenza, per converso, l’asse¬gnazione, alla stessa, affidataria del figlio minore, della casa coniugale, di proprietà dell’ex marito).
Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2002, n. 4038 (Giur. It., 2002, 1828, nota di BARBIERA)
L’assegno di divorzio nasce dallo “status” relativo, che si acquista col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, per cui la facoltà concessa al giudice di retrodatarne la decorrenza alla data della domanda ha carattere derogatorio che non consente al giudice di fissare come “dies a quo” una data intermedia, a meno che le parti non provino sopravvenienze rispetto alla data della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149 (Famiglia e Diritto, 2001, 4, 442)
Applicandosi l’art. 156, comma 7, c.c. in via analogica alla separazione consensuale, i “giustificati motivi” che au¬torizzano la modificazione delle condizioni della separazione consistono in fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale gli accordi erano stati stipulati; ne consegue che né gli eventuali vizi del consenso rispetto all’atto di separazione omologato né la sua eventuale simulazione sono deducibili con il giudi¬zio camerale attivato ai sensi degli art. 710 e 711 c.p.c., costituendo presupposto del ricorso a detta procedura l’allegazione dell’esistenza di una valida separazione consensuale omologata.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2000, n. 13460 (Giust. Civ., 2000, I, 3125)
L’art. 9, comma 3, l. 1 dicembre 1970 n. 898, nel testo vigente, prevede che nella ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge occorre tenere conto della durata del matrimonio, nel senso che non è possibile prescindere dall’elemento temporale, e che ad esso può essere attribuito, secondo le circo¬stanze, valore preponderante e anche decisivo. Ma tale criterio, nel contesto normativo, non si pone come unico ed esclusivo parametro cui conformarsi automaticamente e in base a un mero calcolo aritmetico. Nel suo apprez¬zamento il giudice potrà ponderare ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibili¬tà, da utilizzarsi, eventualmente, quali correttivi del risultato che conseguirebbe all’applicazione del mero criterio temporale. Esigenze di coordinamento sistematico portano a individuare nell’ambito dello stesso art. 5, comma 6, tali ulteriori elementi di giudizio, tra i quali potranno assumere specifico rilievo l’ammontare dell’assegno go¬duto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge e le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda matrimoniale. Se, infatti, la funzione dell’assegno divorzile è eminentemente assistenziale, anche questo profilo deve essere suscettibile di valutazione in funzione correttiva del criterio, non eludibile, dell’elemento temporale.
Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328 (Giust. Civ., 2000, I, 2225)
La convivenza “more uxorio” ove abbia carattere di stabilità e dia luogo, nei confronti del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, a prestazioni di assistenza economica di tipo familiare da parte del convivente, può spie¬gare rilievo, a seconda dei casi, sia sul diritto sia sulla misura dell’assegno di divorzio. La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente “more uxorio”, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 4584 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio comporta che la sua concreta attribuzione va subordinata alla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante (ovvero alla oggettiva impossibilità di procurarseli), da intendersi come inidoneità a consentirgli la prosecuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in co¬stanza di matrimonio, senza che, all’uopo, sia necessario accertare la esistenza di un vero proprio stato di biso¬gno dell’avente diritto (che può ben risultare economicamente autosufficiente), rilevando, per converso, esclusi¬vamente la circostanza dell’apprezzabile deterioramento delle sue condizioni economiche che, in linea generale, vanno ripristinate con riferimento a quelle precedenti la cessazione del vincolo matrimoniale. A tal fine, l’indagine del giudice di merito circa la capacità lavorativa del coniuge istante va condotta secondo criteri di particolare rigore e pregnanza, non potendo una attività concretamente espletata soltanto saltuariamente giustificare l’af¬fermazione della “esistenza di una fonte adeguata di reddito” – onde negare il diritto all’assegno divorzile in capo all’istante – specie a fronte della rilevazione, da parte dello stesso giudice di merito, del carattere meramente episodico e occasionale di tale attività, e non potendosi, in tal caso, legittimamente inferire, sic et simpliciter, la presunzione della effettiva capacità del coniuge a procurarsi un reddito adeguato. Tale conclusione, condivisibile, in ipotesi, in un regime economico di piena occupazione, si appalesa del tutto astratta ed inappagante su piano della congruenza logica in relazione all’attuale contesto sociale, alla luce del quale si rende, invece, necessaria una indagine compiuta con riferimento alle concrete possibilità lavorative del soggetto, onde verificare se risulti integrato o escluso il presupposto dell’attribuzione dell’assegno, vale a dire se il coniuge possieda effettivamen¬te, o sia concretamente in grado di procurarsi, redditi adeguati nel significato sopra specificato.
Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 4558 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento fissato in favore del coniuge in sede di separazione (così come la sua successiva revisione) decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio secondo il quale un diritto non può rimanere pregiudicato dal tempo necessario a farlo valere in giudizio, a nulla rilevando che il Presidente del tribunale in sede di audizione dei coniugi non abbia ritenuto di adottare provvedimenti temporanei in proposito, ex art. 708 c.p.c., né che non siano stati chiesti al riguardo provvedimenti urgenti in corso di istruttoria.
Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 2000, n. 2920 (Corriere Giur., 2000, 6, 733, nota di DE MARZO)
L’art. 9, comma 3, della l. n. 898 del 1970, nel testo vigente, prevede che nella ripartizione della pensione di reversibilità fra il coniuge superstite e l’ex coniuge occorre tener conto della durata del matrimonio, nel senso che non è possibile prescindere dall’elemento temporale, e che ad esso può essere attribuito, secondo le cir¬costanze, valore preponderante ed anche decisivo. Ma tale criterio, nel contesto normativo, non si pone come unico ed esclusivo parametro cui conformarsi automaticamente ed in base ad un mero calcolo matematico. Nel suo apprezzamento il giudice potrà ponderare ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da utilizzarsi, eventualmente, quali correttivi del risultato che conseguirebbe all’applicazione del mero criterio temporale. Esigenze di coordinamento sistematico (anche a seguito della sentenza della Corte cost. n. 419 del 1999) portano ad individuare nell’ambito dello stesso art. 5 (comma 6) tali ulteriori elementi di giudizio, tra i quali potranno assumere specifico rilievo l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge e le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda matrimoniale. Se, infatti, la funzione dell’assegno divorzile è eminentemente assistenziale, anche questo profilo deve essere suscettibile di valutazione in funzione correttiva del criterio, non eludibile, dell’elemento temporale.
Corte cost., 21 gennaio 2000, n. 17 (Foro It., 2002, I, 1321)
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli art. 2751 n. 4, e 2778, n. 17, c.c., nella parte in cui non riconoscerebbero il privilegio generale sui beni mobili del debitore anche al credito di mantenimento del coniuge separato o divorziato, in riferimento all’art. 3 cost. (in motivazione la Corte rileva come il privilegio di cui alla disposizione denunciata, pur testualmente riferito ai crediti di alimenti, deve ritenersi estensibile sul piano interpretativo anche al credito di mantenimento del coniuge separato o divorziato).
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2000, n. 412 (Giur. It., 2000, 1820, nota di LAMANUZZI)
L’assegno di divorzio ha la funzione di ripristinare una condizione economica adeguata e quella goduta in costan¬za di matrimonio, in base ad una valutazione comparativa delle rispettive situazioni delle parti, in proporzione delle sostanze dell’obbligato e tenuto conto del carattere assistenziale dell’assegno medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 2 luglio 1998, n. 6468 (Famiglia e Diritto, 1998, 6, 565)
La funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio comporta che la sua concreta attribuzione va subordinata alla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante (ovvero alla oggettiva impossibilità di procurar¬seli), da intendersi come inidoneità a consentirgli la prosecuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, senza che, all’uopo, sia necessario accertare la esistenza di un vero proprio stato di bisogno dell’avente diritto (che può ben risultare economicamente autosufficiente), rilevando, per converso, esclusivamente la circostanza dell’apprezzabile deterioramento delle sue condizioni economiche che, in linea generale, vanno ripristinate con riferimento a quelle precedenti la cessazione del vincolo matrimoniale. A tal fine, l’indagine del giudice di merito circa la capacità lavorativa del coniuge istante va condotta secondo criteri di particolare rigore e pregnanza, non potendo una attività concretamente espletata soltanto saltuariamente (nella specie, di estetista) giustificare l’affermazione della “esistenza di una fonte adeguata di reddito” – onde negare il diritto all’assegno divorzile in capo all’istante – specie a fronte della rilevazione, da parte dello stesso giudice di merito, del carattere meramente episodico e occasionale di tale attività, e non potendosi, in tal caso, legitti¬mamente inferire, sic et simpliciter, la presunzione della effettiva capacità del coniuge a procurarsi un reddito adeguato. Tale conclusione, condivisibile, in ipotesi, in un regime economico di piena occupazione, si appalesa del tutto astratta ed inappagante su piano della congruenza logica in relazione all’attuale contesto sociale, alla luce del quale si rende, invece, necessaria una indagine compiuta con riferimento alle concrete possibilità la¬vorative del soggetto, onde verificare se risulti integrato o escluso il presupposto dell’attribuzione dell’assegno, vale a dire se il coniuge possieda effettivamente, o sia concretamente in grado di procurarsi, redditi adeguati nel significato sopra specificato.
Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito del sistema normativo introdotto con la l. n. 74 del 1987, l’attribuzione dell’assegno di divorzio è indefettibilmente subordinata alla specifica circostanza di fatto della mancanza di mezzi adeguati o dell’impossi¬bilità di procurarseli per ragioni oggettive, essendo gli altri criteri (condizioni dei coniugi; ragioni della decisione; contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio nel periodo matrimoniale; reddito di entrambi; durata del rapporto di coniugio) destinati ad operare solo se l’ac¬certamento della predetta (ed unica) circostanza attributiva risulti di segno positivo. Il giudizio relativo a detto accertamento, articolandosi in due fasi (quella del riconoscimento del diritto in astratto e quella della determina¬zione in concreto dell’assegno), vede il giudice, nella prima di esse, chiamato a verificare l’esistenza del diritto in relazione all’inadeguatezza dei mezzi (raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello condotto in costanza di matrimonio, onde procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare detta inade¬guatezza, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno), e, nella seconda (dovendosi procedere alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno stesso), chiamato, poi, alla valutazione ponderata e bilaterale dei vari criteri normativamente stabiliti, che operano come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, se del caso, addirittura azzerarla in ipotesi estreme, quando, cioè, la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1998, n. 4094 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matri¬monio e che comporta la condivisione delle reciproche fortune nel corso della convivenza. Ne consegue che il notevole incremento dei redditi di uno dei coniugi, verificatosi successivamente alla separazione, giustifica l’ac¬coglimento della richiesta di modifica dell’ammontare dell’assegno da questi dovuto all’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 333, nota di DE PAOLA)
Nel caso in cui alla convivenza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che con-ferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati ed, in particolare, con riferimento alla persistenza delle condizioni per l’attribuzione dell’assegno di separazione (nella specie, la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la stessa, successiva¬mente alla separazione, aveva intrattenuto una periodica convivenza con altro uomo, a seguito della quale era nato un figlio. La S.C. ha cassato la sentenza impugnata perché il giudice di merito, adeguandosi all’enunciato principio, accertasse se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito).
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3490 (Giur. It., 1999, 729, nota di DORIA)
L’art. 156 c.c. attribuisce al coniuge al quale non sia addebitabile la separazione il diritto di ottenere, dall’altro, un assegno di mantenimento, tutte le volte in cui, sussistendo una differenza di redditualità fra i coniugi, egli non sia in grado di mantenere, in costanza della separazione, in base alle proprie potenzialità economiche, il tenore di vita che aveva durante il matrimonio, sempre che questo corrispondesse alle potenzialità economiche com¬plessive dei coniugi, dovendosi altrimenti fare riferimento al tenore di vita che esse avrebbero loro consentito, non avendo rilievo che, prima della separazione, il coniuge richiedente avesse eventualmente tollerato, subito o – comunque – accettato un tenore diverso con l’adozione di particolare criteri di ripartizione delle spese, né avendo rilievo il fatto che fra i coniugi si fosse instaurata un’effettiva convivenza, non condizionando la norma l’assegno di mantenimento alla convivenza, bensì all’esistenza di un matrimonio e di una separazione senza addebito a carico del richiedente, e dovendosi fare riferimento, in caso di mancata instaurazione della convivenza, al tenore di vita che ciascun coniuge aveva diritto di aspettarsi in conseguenza del matrimonio.
L’art. 156 c.c. attribuisce al coniuge al quale non sia addebitabile la separazione il diritto di ottenere dall’altro un assegno di mantenimento tutte le volte in cui sussiste una differenza di redditualità fra i coniugi e non sia in grado di mantenere il tenore di vita che aveva durante il matrimonio, non rilevando che prima della separazione il coniuge richiedente avesse accettato un tenore di vita diverso né avendo rilievo che fra i coniugi si fosse in¬staurata un’effettiva convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1998, n. 1031 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di corresponsione dell’assegno periodico di divorzio di cui all’art. 5 della l. n. 898 del 1970 si confi¬gura come domanda (connessa ma) autonoma rispetto a quella di scioglimento del matrimonio, e, pertanto, la parte che, nel corso del giudizio divorzile, non l’abbia ritualmente avanzata ben può proporla successivamente, senza che, a ciò, sia di ostacolo la (ormai intervenuta) pronuncia di scioglimento del vincolo di coniugio, ope¬rando il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile con esclusivo riferimento alla domanda fatta valere in concreto, ma non anche relativamente ad una richiesta diversa nel petitum e nella stessa causa petendi (come appunto, quella di riconoscimento dell’assegno rispetto a quella di divorzio), che la parte ha fa¬coltà di introdurre, o meno, nello stesso giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024 (Famiglia e Diritto, 1997, 4, 305, nota di CARBONE)
La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente more uxorio, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1996, n. 5916 (Famiglia e Diritto, 1996, 6, 530, nota di CARAVAGLIOS)
A norma dell’art. 156 c.c. il diritto al mantenimento a seguito di separazione personale sorge, in favore del coniu¬ge al quale questa non sia addebitabile, ove egli non fruisca di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva durante il matrimonio. Nel valutare tale presupposto, tuttavia, il giudice dovrà tenere conto di ogni tipo di reddito disponibile da parte del richiedente, ivi compresi quelli derivanti da elargizioni da parte di familiari che erano in corso durante il matrimonio e che si protraggano in regime di separazione con carattere di regolarità e continuità tali da influire in maniera stabile e certa sul tenore di vita dell’interessato.
Cass. civ. Sez. I, 20 dicembre 1995, n. 13017 (Giust. Civ., 1996, I, 1694)
L’assegno divorzile ha funzione assistenziale ed è diretto ad evitare il deterioramento delle condizioni economi¬che di uno dei coniugi
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 1995, n. 6737 (Famiglia e Diritto, 1995, 5, 434, nota di CARBONE)
Il giudice del divorzio, nell’emettere la sentenza che dispone la somministrazione di un assegno, può disporre, ai sensi dell’art. 4, comma 10 della legge n. 898 del 1970, come novellato dall’art. 8 della legge n. 74 del 1987, che l’assegno decorra dalla data di notifica della domanda introduttiva, anziché dalla data del passaggio in giu¬dicato della pronuncia di divorzio; ma non può fissarne la decorrenza da un momento diverso, intermedio tra le due suddette date, neanche in considerazione di esigenze equitative; il conferimento al giudice di un potere discrezionale così ampio ed incisivo non appare invero giustificato dalla formula della norma né dai relativi lavori preparatori.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 1995, n. 1331 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fissazione dell’assegno di divorzio dal momento della domanda, ai sensi dell’art. 4, comma 10, della legge 1 dicembre 1970 n. 898, così come sostituito dall’art. 8 della l. 6 marzo 1987 n. 74, costituisce una facoltà di¬screzionale del giudice, esercitabile anche in assenza di un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno.
Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1994, n. 8288 (Nuova Giur. Civ., 1996, I, 65, nota di CASELLA)
Il principio enunciato nell’art. 4 n. 1 della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 8 della legge n. 74 del 1987 – secondo il quale il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda – ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nell’ipotesi espressamente prevista in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione si sia dichiarato lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio se¬condo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì un temperamento a tale principio, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza in esso alla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza non definitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di detto potere.
Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 1994, n. 3050 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio, mentre ha importanza costitutiva rispetto all’assegno che uno degli ex coniugi debba all’altro per le esigenze proprie di quest’ultimo (importanza temperata per effetto della modifica apportata all’art. 4 della l. 1 dicembre 1970 n. 898 dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74, a seguito della quale il giudice può discrezionalmente far decorrere anche l’assegno divorzile dal momento della domanda), è irrilevante rispetto all’obbligo di mantenere i figli, con la conseguenza che la decorrenza dell’assegno in favore di questi ultimi va fatta risalire alla data della domanda, ovvero alla data dei fatti che ne impongono il riequilibrio, se successivi.
Cass. civ. Sez. I, 8 gennaio 1994, n. 147 (Famiglia e Diritto, 1994 nota di LAGOMARSINO)
L’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione, così come la sua successiva revisione, decorre dalla data della correlativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegno di mantenimento, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di separazione dei coniugi (art. 156 c.c., 710 e 711 c.p.c.), i giutsificati motivi di revisione non sono ravvi¬sabili nella mera perdita da parte dell’obbligato di un cespite o di un’attività produttiva di reddito, restando da dimostrare, con onere a carico dell’interessato, che la perdita medesima si sia tradotta in una riduzione delle complessive risorse economiche.
Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 1993, n. 11326 (Giust. Civ., 1994, I, 684)
A giustificare la revisione dell’assegno di divorzio ai sensi dell’art. 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898 non è di per sé suf-ficiente una modificazione (anche rilevante) delle condizioni economiche di uno degli ex coniugi, ma occorre an¬che che tale modificazione sia idonea ad immutare il pregresso assetto realizzato dal precedente provvedimento sull’assegno, in aderenza alla correlativa funzione assistenziale. A tal fine, il giudice adito per la revisione, oltre ad accertare la effettività di sopravvenienze siffatte, deve anche verificare l’esistenza di un nesso di causalità fra le medesime e l’esistenza di una nuova (ovvero il superamento della precedente) situazione di bisogno – da intendersi come inadeguatezza dei mezzi a disposizione rispetto al fine di assicurare la conservazione del tenore di vita, goduto in costanza del matrimonio (eventualmente e virtualmente comprensivo degli incrementi evolutivi legati anche all’apporto fornito dal coniuge la cui posizione va ripristinata) – provvedendo ad una valutazione che, senza arrestarsi a criteri meramente aritmetici, assuma ad oggetto la nuova serie effettuale, a parametro di comparazione il precedente assetto degli interessi e a criterio di commisurazione (dell’importo della revisione) la dimensione attuale dell’obbligo assistenziale.
Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1993, n. 6049 (Dir. Famiglia, 1994, 855)
Disporre la decorrenza dell’assegno di divorzio dal momento della domanda, ai sensi dell’art. 4, 10° comma, legge 1 dicembre 1970 n. 898 così come sostituito dall’art. 8 legge 6 marzo 1987 n. 74, non costituisce un obbli¬go per il giudice, bensì soltanto una facoltà discrezionale, in ordine al cui mancato esercizio non si richiede una specifica motivazione, comportando la norma sopra menzionata deroga al principio generale secondo il quale, quando il diritto all’assegno dipende da un nuovo status rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva, gli effetti di tale sentenza non possono prodursi se non dal momento in cui passa in giudicato, con la conseguenza che la mancata retroattività dell’assegno divorzile significa che il giudice ha implicitamente ritenuto opportuno conservare, per tutta la durata del giudizio di divorzio, il regime della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 1993, n. 3720 (Dir. Famiglia, 1994, 844)
Le prestazioni di assistenza di tipo coniugale da parte del convivente “more uxorio” con il coniuge separato avente diritto al mantenimento, quando in fatto esclude o riduce lo stato di bisogno del coniuge separato e con¬vivente con nuovo “partner”, rileva in ordine alla persistenza del diritto al mantenimento od alla sua concreta determinazione.
Cass. civ. Sez. I, 5 novembre 1992, n. 11978 (Foro It., 1993, I, nota di QUADRI)
Il principio enunciato nell’art. 4 n. 10 legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 8 legge n. 74 del 1987- secondo il quale il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda – ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nell’ipotesi espressamente prevista in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione si sia dichiarato lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio secondo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì un temperamento a tale principio, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso alla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza non definitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di detto potere.
Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1992, n. 961 (Giust. Civ., 1993, I, 3075, nota di CAVALLO)
In tema di separazione personale dei coniugi, ai fini dell’accertamento del diritto all’assegno di mantenimento e della sua determinazione, occorre considerare la complessiva situazione di ciascuna dei coniugi e quindi, tener conto, oltre che dei redditi in danaro, di ogni altra utilità economicamente valutabile, ivi compresa la disponibi¬lità della casa coniugale, oltreché dell’attitudine al lavoro del beneficiario, onde conservare a questi, se privo di reddito adeguato, il tenore di vita goduto in regime di convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 1991, n. 13128 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli accordi fra coniugi, in regime di separazione, circa la spettanza e l’entità dell’assegno di divorzio, devono ritenersi non vincolanti, in ragione della carenza del potere di regolare in via preventiva gli effetti patrimoniali discendenti dallo scioglimento del matrimonio, anche nella nuova disciplina introdotta dalla l. 6 marzo 1987, n. 74, la quale, nell’attribuire a detto assegno funzione eminentemente assistenziale, ne ha confermato ed accen¬tuato la natura di diritto indisponibile.
Cass. civ. Sez. I, 20 febbraio 1991, n. 1809 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio, nella nuova formulazione dell’art. 5, l. 1 dicembre 1970, n. 898, introdotta dall’art. 10, l. 6 marzo 1987, n. 74, ha funzione eminentemente assistenziale, in quanto è subordinato alla mancanza di redditi e sostanze adeguate ed alla impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (adeguatezza da valutarsi nel contesto nel quale i coniugi hanno vissuto, quale situazione condizionante la qualità e la quantità dei bisogni del richiedente), mentre gli altri criteri, costituiti dalle condizioni dei coniugi, dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di cia¬scuno o di quello comune, dal reddito di entrambi, vagliati unitariamente e confrontati al paradigma della durata del matrimonio, sono destinati ad operare solo in presenza del suddetto presupposto, incidendo esclusivamente sulla quantificazione dell’assegno stesso.
Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490 (Foro It., 1991, I, 67, note di QUADRI, CARBONE)
L’assegno periodico di divorzio, nella disciplina introdotta dall’art. 10 della L. 6 marzo 1987 n. 74, modificativo dell’art.5 della L. 1 dicembre 1970 n. 898, ha carattere esclusivamente assistenziale (di modo che deve essere negato se richiesto solo sulla base di premesse diverse, quale il contributo personale ed economico dato da un coniuge al patrimonio dell’altro), atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. Ove sussista tale presupposto, la liquidazione in concreto dell’assegno deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio. A quest’ultimo fine, peraltro, il giudice del merito, purché ne dia adeguata giustificazione, non è tenuto ad utilizzare tutti i suddetti criteri, anche in relazione alla deduzione e richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno stesso (che potrà anche essere escluso sulla base della incidenza negativa di uno o più di essi).
Presupposto per l’attribuzione dell’assegno di divorzio è che il coniuge richiedente non abbia mezzi adeguati a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, tenuto conto non solo dei suoi redditi ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui può disporre.
Nella legge sul divorzio, un’espressione letterale che non esisteva nel testo del 1970, e cioè il riferimento al coniuge che “non ha mezzi adeguati”; espressione analoga a quella contenuta nell’art. 156 c.c. sugli effetti della separazione nei rapporti patrimoniali fra i coniugi. Nell’interpretazione giurisprudenziale il difetto di redditi ade¬guati va inteso come difetto di redditi e/o di sostanze od altre utilità sufficienti ad assicurare al coniuge il tenore di vita che gli sarebbe spettato durante la convivenza (Cass. 6 luglio 1978 n. 3341; 8 maggio 1976 n. 1618; 24 novembre 1978 n. 5516; 19 ottobre 1981 n. 5446; 29 novembre 1986 n. 7061; 20 novembre 1989 n. 4955)
Cass. civ. Sez. I, 23 luglio 1990, n. 7458 (Foro It., 1991, I, 144, nota di CIPRIANI)
Il principio enunciato nell’art. 4, 10° comma, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 8, l. 6 marzo 1987, n. 74, secondo cui il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda, ha una portata generale ed è quindi applicabile anche nell’ipotesi in cui con la stessa sentenza si sia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno, essendo sufficiente la mera richiesta di assegno for¬mulata dal beneficiario.
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652 (Foro It., 1990, I, 1165 nota di QUADRI, MACARIO)
Nel giudizio per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici di cui dispone il richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale.
Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 1990, n. 475 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’omessa indicazione, nella sentenza di divorzio, della data di decorrenza dell’assegno resta irrilevante, e non è conseguentemente deducibile in sede di ricorso per cassazione, atteso che la decorrenza dell’assegno ha una disciplina fissata nella legge – salva l’ipotesi prevista dal nuovo testo dell’art. 4, 10° comma, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 3 legge 6 marzo 1987, n. 74 – e che la detta data coincide pur sempre con quella del passaggio in giudicato della sentenza medesima.
Cass. civ. Sez. I, 17 marzo 1989, n. 1322 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio ha natura eminentemente assistenziale e spetta esclusivamente quando il coniuge richie¬dente non abbia mezzi adeguati, tali cioè da consentirgli di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva in costanza di matrimonio
Poiché a seguito delle modificazioni apportate dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74 all’art. 5, comma 4, l. 1° di¬cembre 1970 n. 898 ed applicabili anche ai giudizi in corso al momento dell’entrata in vigore della prima legge (Cass. 28 ottobre 1987 n. 7957), condizione necessaria per affermare il diritto di un coniuge di ottenere dall’altro un assegno di divorzio è che il coniuge richiedente non abbia redditi adeguati e cioé tali che gli consentano di mantenere un tenore di vita adeguato a quello che aveva in costanza di matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 16 febbraio 1988, n. 1666 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia di divorzio operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale iniziato anteriormente e tuttora pendente, quando esista un interesse ai provvedimenti patrimoniali, sia per la definitiva regolamentazione dell’assegno determinato nel giudizio di separazione personale per il successivo periodo fino alla domanda di divorzio, sia per l’incidenza dell’accertamento dell’addebitabilità della separazione sull’eventuale revisione dell’assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 1987, n. 6016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora, nel giudizio di divorzio, la decisione di primo grado sullo scioglimento del matrimonio civile o sulla ces¬sazione degli effetti civili del matrimonio religioso, non appellata, sia passata in giudicato prima della statuizione definitiva (di appello) sulla attribuzione e sulla quantificazione dell’assegno, la decorrenza di questo risale al momento in cui è passata in giudicato la sentenza di primo grado, che rappresenta il titolo costitutivo-risolutivo della pronuncia di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 1987, n. 170 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La Corte avrebbe dovuto tenere presente che l’espressione “qualora non abbia adeguati redditi propri” è in¬terpretata dalla giurisprudenza nel senso che il difetto di redditi o di redditi adeguati non va inteso come stato di bisogno, invocato dalla D’Alessandro in prime cure, bensì come difetto di redditi sufficienti ad assicurare al coniuge il tenore di vita goduto in regime di convivenza (Cass. 8.5.80 n. 3033; 20.1.1979 n. 429; 18.12.1978 n. 6037; 24.11.1978 n. 5516).
Al fine del riconoscimento e della liquidazione dell’assegno di mantenimento, ai sensi dell’art. 156, 1° comma, c. c., in favore del coniuge che deduca e dimostri di non avere adeguati redditi propri, occorre prendere in consi¬derazione la complessiva situazione patrimoniale di detto istante, cioè non soltanto i redditi in senso stretto, ma anche i cespiti in godimento diretto ed ogni altra utilità suscettibile di valutazione economica (quali aiuti forniti dai genitori con carattere di stabilità), per poi stabilire se tale situazione sia o meno idonea ad assicurargli un tenore di vita corrispondente a quello goduto in regime di convivenza, o comunque adeguato alle sue esigenze e condizioni economico-sociali.
Cass. civ., 6 gennaio 1983, n. 67 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’omessa specificazione, con la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, della data di decorrenza dell’assegno di divorzio resta irrilevante, e non è conseguentemente deducibile in sede di ricorso per cassazione, atteso che tale data coincide con quella del passaggio in giudicato della sentenza mede¬sima, che segna l’insorgere del diritto a detto assegno.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1980, n. 3710 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio, a differenza dell’assegno alimentare, spetta solo dopo la formazione del titolo esecutivo e decorre, quindi, dal passaggio in giudicato della pronuncia di scioglimento del vincolo o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, e dalla conseguente annotazione della sentenza nei registri dello stato civile. Tuttavia, la statuizione della sentenza di primo grado, che abbia erroneamente fissato una decorrenza diversa dell’assegno, configura un capo autonomo della sentenza medesima, che, se non impugnato con l’atto di appello, dà luogo alla formazione del giudicato interno e non può perciò essere impugnata in sede di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 1977, n. 2580 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio, per la sua natura composita, ha una disciplina giuridica diversa da quella che regola l’obbli¬go alimentare, il quale presuppone la permanenza e non la cessazione del vincolo coniugale. Conseguentemente, l’assegno stesso può essere preteso solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza che ha sciolto il vincolo matrimoniale o ne ha fatto cessare gli effetti: esso è esigibile dalla data di annotazione della sentenza, a norma dell’art. 10 della legge n. 898 del 1970, con decorrenza dal momento del passaggio in giudicato.

Assegno divorzile: il tribunale di Torino si adegua al nuovo orientamento di Cassazione

Trib. Torino, sez. VII civ., decreto 23 ottobre 2017 (Pres. C. Castellani, rel. A. De Magistris)

In virtù dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 10/05/2017 n. 11504, abbandonando il criterio del tenore di vita avuto dai coniugi in costanza di matrimonio, al fine di riconoscere o meno l’assegno divorzile deve guardarsi al concetto di auto sufficienza economica quale parametro di riferimento mutuato per analogia dalla disciplina dell’assegno per i figli maggiorenni. Detto paramento deve essere “individuato nel raggiungimento dell’“indipendenza economica” del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto” perché “l’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica giustificata dalla funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile. Gli indicatori dell’autonomia economica del coniuge più devono “essere così individuati: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza («dimora abituale»: art. 43, secondo comma, cod. civ.) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro.

MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO

con ricorso ex art. 9 l.n. 898/70, depositato in cancelleria in data …2016, il sig. X X chiedeva la revoca dell’assegno di divorzio di euro 300 e la riduzione dell’assegno di mantenimento per i figli . e ., maggiorenni ma non autosufficienti e . n. il ….2000 di complessivi 1800 euro, come stabiliti con sentenza del Tribunale di Torino in data ..2014;
a sostegno della domanda evidenziava la contrazione dei propri redditi da lavoro avendo cessato la collaborazione con ….. Torino presso il quale esercitava l’attività …. e con la … srl;
essendo dipendente …. la sua unica entrata era rappresentata dal reddito da lavoro di euro 3500 mensili circa;
evidenziava, poi, che doveva provvedere al mantenimento di altri due figli nati dalla relazione con …. con la quale conviveva in altra abitazione per la quale corrispondeva un canone di locazione di euro 840 al mese;
dopo aver enunciato la giurisprudenza di legittimità a sostegno della domanda di azzeramento dell’assegno di divorzio della ex moglie, la quale svolgeva attività lavorativa di infermiera e, pertanto, era economicamente autonoma in ragione del reddito mensile di euro 1300, chiedeva l’azzeramento dell’assegno per la moglie e la riduzione di quello per i figli ad euro 1200.
Si costituiva in giudizio la convenuta sig.ra …Y … la quale si opponeva in fatto ed in diritto alla richiesta di azzeramento dell’assegno di divorzio in ragione delle immutate condizioni economiche della convenuta e delle non provate riduzioni di reddito lamentate dal ricorrente, evidenziando come il Tribunale si fosse già espresso circa la esistenza del diritto della signora Y di percepire il predetto assegno;
in via riconvenzionale, in caso di azzeramento dell’assegno di divorzio, domandava l’aumento dell’assegno di mantenimento per i figli posto che il ricorrente non aveva più rapporti, e quindi non contribuiva al mantenimento diretto dei figli, e non corrispondeva alcunchè a titolo di concorso nelle spese straordinarie.
Dopo aver disposto integrazione documentale all’udienza del …2017 il tribunale tratteneva la causa a decisone sulle conclusioni delle parti che richiamavano i rispettivi atti introduttivi.
Rileva il Tribunale come la giurisprudenza di legittimità abbia operato un brusco cambio di indirizzo abbandonando il concetto del tenore di vita familiare per introdurre quello di autosufficienza economica quale parametro al quale riferirsi per la valutazione della sussistenza del diritto del coniuge più debole a percepire l’assegno divorzile.
La prima sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza 10.5.2017 n. 11504 è intervenuta in dichiarata contrapposizione con l’orientamento consolidato della precedente giurisprudenza di legittimità. In particolare nella citata sentenza si legge che ove la lettera dall’art 5 co 6 della legge sul divorzio “mostra con evidenza che la sua stessa “struttura” prefigura un giudizio nitidamente e rigorosamente distinto in due fasi, il cui oggetto è costituito, rispettivamente, dall’eventuale riconoscimento del diritto (fase dell’an debeatur) e – solo all’esito positivo di tale prima fase – dalla determinazione quantitativa dell’assegno (fase del quantum debeatur)”. Passando poi ad analizzare la ratio dell’istituto la Corte afferma che “La complessiva ratio dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970 ha fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di «solidarietà economica» (art. 2, in relazione all’art. 23, Cost.), il cui adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali “persone singole”, a tutela della “persona” economicamente più debole (cosiddetta “solidarietà post-coniugale”): sta precisamente in questo duplice fondamento costituzionale sia la qualificazione della natura dell’assegno di divorzio come esclusivamente “assistenziale” in favore dell’ex coniuge economicamente più debole (art. 2 Cost.) – natura che in questa sede va ribadita –, sia la giustificazione della doverosità della sua «prestazione» (art. 23 Cost.)”.
Ciò comporta quindi “la sua negazione in presenza di «mezzi adeguati» dell’ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità «di procurarseli», vale a dire della “indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso (e) comporta altresì che, in carenza di ragioni di «solidarietà economica», l’eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una locupletazione illegittima”.
Decisiva è, pertanto ai fini del riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno di divorzio all’ex coniuge l’interpretazione dell’inciso «mezzi adeguati» e della disposizione “impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive nonché, in particolare e soprattutto, “l’individuazione dell’indispensabile “parametro di riferimento”, al quale rapportare l’“adeguatezza-inadeguatezza” dei «mezzi» del richiedente l’assegno e, inoltre, la “possibilità-impossibilità” dello stesso di procurarseli”.
Argomentando in punto onere della prova incombente tra le parti la Corte afferma quindi il seguente principio di diritto che sembra lasciare poco spazio interpretativo agli attori del processo per la rigorosità dei criteri introdotti:” 1) se l’ex coniuge richiedente l’assegno possiede «mezzi adeguati» o è effettivamente in grado di procurarseli, il diritto deve essergli negato tout court; 2) se, invece, lo stesso dimostra di non possedere «mezzi adeguati» e prova anche che «non può procurarseli per ragioni oggettive», il diritto deve essergli riconosciuto”.
Al di là del problema nascente dalla oggettiva difficoltà di raggiungere la prova negativa conseguente all’onere incombente sulla parte richiedente l’assegno di dimostrare di non possedere mezzi adeguati e di non poterseli procurare per ragioni oggettive, circostanza che sembra quindi spostare, almeno in parte, il carico probatorio sul soggetto sul quale grava l’onere dell’assegno, deve rilevarsi come il concetto di adeguatezza dei mezzi debba essere riempito di contenuti.
E qui la Corte abbandonando il criterio del tenore di vita avuto dai coniugi in costanza di matrimonio che viene bollato come non più attuale in ragione dell’evoluzione della società, non rispondente alla natura del divorzio (che elimina ogni conseguenza giuridica, anche patrimoniale, del matrimonio), responsabile dell’indebita commistione della fase del giudizio sull’an e di quella sul quantum dell’assegno, introduce il concetto di auto sufficienza economica quale parametro di riferimento mutuato per analogia dalla disciplina dell’assegno per i figli maggiorenni. Afferma infatti che detto paramento debba essere “individuato nel raggiungimento dell’“indipendenza economica” del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto” perché “l’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica giustificata dalla funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile.
Analizzando infine gli indicatori dell’autonomia economica del coniuge più debole la Corte ritiene che debbano “essere così individuati: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza («dimora abituale»: art. 43, secondo comma, cod. civ.) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.
Nel caso di specie la signora Y svolge l’attività di infermiera presso .. … di Torino percependo un rateo mensile di euro 1876, circa, su dodici mesi al netto delle tasse. Vive, con i tre figli, due maggiorenni ma non autosufficenti e . minore, nella casa ex coniugale in comproprietà con il marito con rata di mutuo cointestata di euro 455 euro.
Seguendo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità sopra citata gli indici indicatori dell’autonomia economica della convenuta che vengono in rilievo nel caso di specie sono rappresentati dall’avere la beneficiaria un reddito di non scarsa entità (oltre 25.000 euro lordi all’anno pari ad un netto mensile di euro 1876 vd. Mod. 730/2017) e di avere assegnata la casa coniugale, in comproprietà con il ricorrente che, quindi, ne sopporta le spese senza alcun beneficio.
E’ evidente che la contemporanea sussistenza in capo alla sig.ra Y di tutti gli indicatori di autosufficenza economica quali il reddito da lavoro, la capacità lavorativa piena non diminuita da alcuna patologia, la proprietà di immobili seppure pro quota e la detenzione qualificata della casa di abitazione ne fanno una persona economicamente indipendente.
L’assegno di divorzio va, pertanto, revocato dalla data della presente decisione trattandosi di valutazione conseguente alle novità giurisprudenziali sopravvenute rispetto all’introduzione del giudizio.
Quanto al contributo al mantenimento per i figli, di cui viene chiesta la riduzione dal ricorrente e, in via riconvenzionale, l’aumento dalla convenuta, occorre comparare i redditi ed i patrimoni delle parti ex art 337 ter c.c.
Il ricorrente è medico chirurgo e percepisce un reddito netto mensile di euro 5000 circa (al netto dell’imposta su dodici mesi). E’ comproprietario della casa ex coniugale sulla quale grava la rata di mutuo di euro 455. Vive con la nuova compagna, infermiera, dalla quale ha avuto due figli minori. Sostiene un canone di locazione di euro 840 al mese.
Lamenta una contrazione di reddito rispetto al momento del divorzio rappresentata dal venir meno della quota di redditi derivanti dall’attività … per circa 25.000 euro lordi. Dalla lettura della sentenza di divorzio si evince che il calcolo dell’assegno per i figli è stato effettuato prendendo come riferimento i redditi del 2010, pari ad euro 5400 e del 2011 pari ad euro 6040 non avendo il sig X aggiornato la documentazione fiscale.
Rispetto alla precedente valutazione, quindi, egli ha subito una contrazione dei redditi di euro 700 rappresentata dalla media dei redditi valutati al momento del divorzio.
Oggi risparmia, però, l’assegno di mantenimento per la moglie e, con la compagna, condivide le spese per la nuova abitazione. La circostanza relativa al percepimento del TFR non rileva potendo le parti agire ex art 12 bis l.n. 898/70 per la ripartizione della somma spettante a ciascuna.
Ritiene conclusivamente il Tribunale che la diminuzione dei redditi nei termini sopra indicati sia parzialmente compensata dal risparmio derivante dall’assegno di divorzio e dalla contemporanea sopravvenuta omissione, da parte del padre, di qualunque contributo al mantenimento diretto dei figli che non vede e non frequenta da qualche tempo (circostanza non contestata).
Per contro la richiesta di aumento dell’assegno formulata dalla convenuta non è giustificata alla luce della documentata riduzione dei redditi dell’onerato.
La domanda di riduzione dell’assegno per i figli e quella riconvenzionale della convenuta di aumento dell’assegno stesso vanno pertanto entrambe rigettate.
Le spese sono compensate tra le parti in ragione della reciproca soccombenza sulla domanda di modifica dell’assegno per i figli e in ragione della applicazione di nuovo principio di diritto elaborato dalla giurisprudenza di legittimità in materia di assegno divorzile.
PQM
REVOCA l’assegno di divorzio con decorrenza dal mese successivo al deposito del presente decreto.
RIGETTA la domanda di riduzione dell’assegno e la domanda riconvenzionale della convenuta.
COMPENSA tra le parti le spese di lite.
Si comunichi.
Torino 23.10.2017.
IL PRESIDENTE
Dr Cesare Castellani

Assegno divorzile: il tribunale di Roma “mitiga” gli effetti del nuovo orientamento di Cassazione

Trib Roma, sez. I civ., sentenza 21 luglio 2017 (Pres. Mangano, rel. Pratesi)

In virtù dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 10/05/2017 n. 11504, nel giudizio diretto al riconoscimento dell’assegno divorzile, occorre in via preliminare accertare (prescindendo dunque da qualsiasi comparazione con le condizioni dell’altro coniuge e con il pregresso tenore di vita) se il coniuge richiedente versi o meno in una condizione di obiettiva indipendenza economica, desunta – salvi casi specifici – da indicatori quali il possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), le capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), la stabile disponibilità di una casa di abitazione. Una volta escluso che il coniuge, all’esito del giudizio di cui sopra, operato sulla base del principio di autoresponsabilità economica, si trovi (in atto o in potenza) in una simile condizione di indipendenza, ed abbia quindi in linea astratta diritto a percepire l’assegno divorzile, occorre fare riferimento, sulla base del concorrente principio della solidarietà postconiugale, ai criteri di commisurazione indicati dall’art. 5 l div. (“(….) condizioni dei coniugi, (….) ragioni della decisione, (….) contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (….) reddito di entrambi (….)”), e “valutare” “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio” al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio. Questi principi devono però essere integrati dagli elementi in fatto emergenti dal caso concreto: infatti, nel considerare le esigenze minime che possono e devono essere salvaguardate in virtù della solidarietà postconiugale, occorre avere riguardo anche alla posizione sociale dell’avente diritto (elemento cui fanno richiamo persino le disposizioni che regolano l’obbligo agli alimenti – v. art. 438 c.c.).

Ragioni di fatto e di diritto della decisione

Tra le parti del presente giudizio è già intervenuta sentenza non definitiva di scioglimento del vincolo matrimoniale; la causa perviene dunque oggi alla decisione del collegio sull’unico tema controverso costituito dalla domanda formulata dalla resistente di vedersi attribuire un consistente assegno divorzile in ragione del notevole divario reddituale dal coniuge, neurochirurgo di fama internazionale.
La richiesta è avversata dal ricorrente, il quale sostiene da un lato che la moglie goda di ampia autonomia, in quanto percettrice di adeguati redditi (lavora presso una organizzazione internazionale con contratti a termine), dall’altro che le proprie risorse si sarebbero sensibilmente ridimensionate rispetto al tempo della separazione, sia in ragione della contrazione della sua attività lavorativa, sia della nascita di un figlio avvenuta nel 2012, sia della ingente esposizione maturata nei confronti del fisco (oltre 500mila euro), in corso di ripianamento attraverso una onerosa rateazione.

E’ noto che nella materia, sino a poco tempo fa oggetto di letture giurisprudenziali pressoché univoche, è intervenuto un recentissimo arresto della Corte di Cassazione, la cui sezione prima, con la sentenza 10/05/2017 n° 11504, ha ampiamente rimesso in discussione quello che da taluni era definito “il dogma” della conservazione del tenore di vita matrimoniale.
Dato per presupposto che il giudizio sulla spettanza dell’assegno doveva essere orientato dal c.d. criterio assistenziale, il significato ed il contenuto unanimemente attribuito a tale espressione era quello di legittimare l’imposizione di un contributo al coniuge più abbiente laddove i mezzi dell’altro si rivelassero insufficienti a mantenere un tenore di vita comparabile con quello tenuto in costanza di matrimonio; l’assegno, in tale accezione, veniva dunque a riparare e riequilibrare “l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche”.

Nella innovativa visione della Cassazione, al contrario, occorre in via preliminare accertare (prescindendo dunque da qualsiasi comparazione con le condizioni dell’altro coniuge e con il pregresso tenore di vita) se il coniuge richiedente versi o meno in una condizione di obiettiva indipendenza economica, desunta – salvi casi specifici – da indicatori quali il possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), le capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

Una volta escluso che il coniuge, all’esito del giudizio di cui sopra, operato sulla base del principio di autoresponsabilità economica, si trovi (in atto o in potenza) in una simile condizione di indipendenza, ed abbia quindi in linea astratta diritto a percepire l’assegno divorzile, occorre fare riferimento, sulla base del concorrente principio della solidarietà postconiugale, ai criteri di commisurazione indicati dall’art. 5 l div. (“(….) condizioni dei coniugi, (….) ragioni della decisione, (….) contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (….) reddito di entrambi (….)”), e “valutare” “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio” al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio.

La sentenza rimarca dunque la distanza tra i doveri di assistenza che presiedono il rapporto di coniugio dai più attenuati doveri di solidarietà postconiugale.
Ora, ad una prima lettura, la situazione dei coniugi Yyyy – Xxxx sembra rientrare nel novero dei casi che – alla luce dei criteri ermeneutici proposti dalla Cassazione – dovrebbero condurre alla reiezione della domanda di assegno divorzile; la resistente infatti lavora per un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite (…..) con contratti a termine (sin qui costantemente rinnovati) e redditi netti annui che si attestano mediamente intorno ai 35.000 euro; nessun accostamento è possibile pertanto tra la persona di Xxxx Xxxx e l’immagine di un coniuge in condizioni di necessità o bisogno.
E tuttavia a parere del collegio è opportuno integrare i principi pur condivisibili da cui muove la sentenza in commento (in particolare la resistenza a soluzioni che determinano nei fatti una sorta di rendita di posizione, inconciliabili con la stessa evoluzione sociale del matrimonio), con ulteriori considerazioni che consentano un effettivo adattamento dell’istituto dell’assegno divorzile alle peculiarità delle diverse realtà familiari.

La ricostruzione della storia della coppia, come emerge dagli atti e dalle testimonianze, restituisce l’immagine di una donna che consapevolmente ha lasciato per diversi anni il proprio lavoro presso …… (ove era inquadrata a tempo indeterminato) per seguire il marito in … dove egli svolgeva la propria attività ….; tutti i testimoni hanno riferito dell’attenzione che la Xxxx ha manifestato verso il coniuge, intessendo una fitta rete di relazioni sociali che hanno in qualche modo agevolato la brillantissima carriera di lui; si evince poi che solo una volta ristabilita prevalente residenza a Roma la donna abbia ripreso (a far data dal 2000) la propria attività presso ….., ma senza essere più inquadrata stabilmente, bensì unicamente con contratti a tempo determinato.
Altra vicenda che appare significativa nella ricostruzione della vita familiare è quella che attiene alla casa familiare (prestigioso appartamento in zona centrale …), acquistata dal marito e da questi intestata alla moglie in concomitanza con il matrimonio (circostanza non contestata) e quindi dalla moglie stessa conferita in una società immobiliare (……srl) costituita nel 2005 (circa un anno prima dell’avvio della separazione) di cui la maggioranza delle quote era detenuta dalla madre di Yyyy, che ne era anche amministratrice; poco dopo la Xxxx aveva ceduto le proprie quote della ….. ad una ulteriore società (intestazione cui ella aveva attribuito natura fiduciaria e che le era stata suggerita per conseguire vantaggi fiscali); di tali passaggi è dato conto nella sentenza che nel maggio 2013 ha accolto la domanda di rilascio dell’immobile, formulata dalla ….in danno della Xxxx, la quale dunque, in seguito ad una serie di operazioni immobiliari da cui non ha palesemente tratto alcun tipo di vantaggio, si è trovata improvvisamente priva dell’abitazione di cui sino ad alcuni anni prima era titolare esclusiva.

Poste queste premesse “storiche”, va altresì considerato che i redditi fiscalmente emersi dell’odierno ricorrente si attestano intorno ai 26.000,00 euro netti mensili, ma che il susseguirsi di accertamenti fiscali nei suoi confronti, qui ostentato al fine di rappresentare una condizione di minore forza economica, evidenzia in realtà la produzione di ben maggiori introiti; il tenore di vita che traspare dalle testimonianze e dalla documentazione prodotta è comunque elevatissimo. Ora è vero che la rilevanza ermeneutica dello stile di vita pregresso, come si è detto, è destinata ad essere fortemente se non del tutto ridimensionata nella valutazione del diritto all’assegno; resta però il fatto che nel considerare le esigenze minime che possono e devono essere salvaguardate in virtù della solidarietà postconiugale, occorre avere riguardo anche alla posizione sociale dell’avente diritto (elemento cui fanno richiamo persino le disposizioni che regolano l’obbligo agli alimenti – v. art. 438 c.c.).
Nel caso dei coniugi Xxxx – Yyyy, in particolare, risulta innegabile che la moglie – lungi dall’essersi adagiata sul tenore di vita offertole dal marito – si sia adoperata, non appena ritrovata una stabilità residenziale, per mettere a frutto per quanto possibile le competenze professionali in passato acquisite, ma che abbia comunque scontato in qualche modo gli anni in cui, per seguire le esigenze di carriera del marito, si era trovata nella necessità di lasciare il proprio posto di lavoro: se non altro in termini di minore sicurezza della attuale posizione lavorativa, che si articola oggi in una serie di contratti a tempo determinato anziché come in precedenza in uno stabile inquadramento. Tale minore certezza riveste tanto maggiore rilievo in quanto ad oggi ella si trova nella necessità di prendere in locazione un immobile, essendo del tutto prova di beni patrimoniali, a seguito del conferimento della sua abitazione nella società amministrata dalla madre del marito, nella quale la Xxxx non ha conservato alcuna partecipazione.
Non si tratta dunque di intervenire in funzione equilibratrice di una condizione personale indubbiamente disallineata, né di ricondurre il tenore di vita dell’ex moglie agli standards di cui aveva in precedenza beneficiato, quanto di evitare che ella – ad onta del contributo obiettivamente fornito al menage coniugale (se non altro col rendersi disponibile ad una vita itinerante in funzione degli interessi professionali del coniuge) possa trovarsi oggi – ad esempio – nella difficoltà di mantenere una soluzione abitativa adeguata al proprio livello professionale e sociale.
In tale contesto, pare al collegio che (ferme per il passato le misure adottate in via provvisoria) l’attribuzione di un assegno divorzile di € 1.600,00 mensili, sia soluzione adeguata ad assicurare un giusto assetto post – matrimoniale, sì da garantire alla moglie una prospettiva di stabilità abitativa nonostante la mancanza di beni patrimoniali, e sotto questo profilo liberarla da una potenziale condizione di incertezza legata alla non prevedibilità del suo futuro lavorativo. Tale soluzione, pur nel rispetto delle linee guida tracciate dal giudice di legittimità (posto che ben altra commisurazione si sarebbe avuta nel tentativo di equilibrare le due economie), consente dunque di adeguarne l’applicazione alla particolarità del caso concreto.
Le spese di lite vengono compensate in presenza di margini di soccombenza reciproca.
p.q.m.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulle condizioni del divorzio tra i coniugi

– Fermi per il passato i provvedimenti vigenti, a far data dal mese successivo alla presente pronuncia pone a carico del ricorrente Yyyy Yyyy l’obbligo di corrispondere a Xxxx Xxxx un assegno divorzile di € 1.600,00 mensili, da corrispondere al domicilio dell’avente diritto entro il giorno 5 di ogni mese, soggetto a rivalutazione istat.
– Compensa le spese di lite tra le parti.
Così deciso in Roma, in data 21/07/2017

infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c.: nell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, l’esigenza di verità della filiazione deve essere bilanciata con l’interesse del minore a rimanere in quel contesto familiare

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente SENTENZA
Svolgimento del processo
nel giudizio di legittimità costituzionaledell’art. 263 del codice civile, promosso dalla Corte d’appello di Milano nel procedimento civile vertente tra A.L. C. ed il curatore speciale diL.F.Z., conordinanza del 25 luglio 2016, iscritta al n. 273 del registro ordinanze del 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione di A.L. C. e del curatore speciale diL.F.Z., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 21 novembre 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditi gli avvocati Grazia Ofelia Cesaro, nella qualità di curatore speciale diL.F.Z., e Francesca Maria Zanasi per A.L. C. e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Nel corso di un procedimento di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionaledell’art. 263 del codice civile, in riferimento agliartt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con laL. 4 agosto 1955, n. 848.
La disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.
2.- Il giudizio a quo ha ad oggetto l’appello avverso la sentenza con cui il Tribunale ordinario di Milano – in accoglimento della domanda proposta ai sensidell’art. 263 cod. civ.dal curatore speciale di un minore, nominato dal Tribunale per i minorenni – ha dichiarato che lo stesso minore non è figlio della donna che lo ha riconosciuto.
La vicenda sottoposta all’esame della Corte d’appello di Milano trae origine dalla trascrizione del certificato di nascita formato all’estero, relativo alla nascita di un bambino, riconosciuto come figlio naturale di una coppia di cittadini italiani, i quali – nell’ambito delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni – avrebbero ammesso il ricorso alla surrogazione di maternità, realizzata attraverso ovodonazione.
Il giudice a quo riferisce che, pertanto, su iniziativa della stessa Procura della Repubblica, è stato avviato il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, il quale si è concluso con dichiarazione di non luogo a provvedere, avendo i genitori contratto matrimonio ed essendo risultata certa, in base al test eseguito sul DNA, la paternità biologica di colui che ha effettuato il riconoscimento.
Riferisce il giudice rimettente che, su richiesta del pubblico ministero, il Tribunale per i minorenni di Milano ha autorizzato, ai sensidell’art. 264, secondo comma, cod. civ., l’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale effettuato da A.L. C., nominando a tal fine un curatore speciale del minore. In accoglimento di tale impugnazione, il Tribunale ordinario di Milano ha dichiarato che il minore non è figlio di A.L. C., disponendo le conseguenti annotazioni a cura dell’ufficiale di stato civile.
Il giudice a quo riferisce che la decisione di primo grado si è fondata sulla disposizione di cuiall’art. 269, terzo comma, cod. civ., e sulla considerazione che, nel caso in esame, il rapporto di filiazione dal lato materno non potrebbe essere dedotto dal contratto per la fecondazione eterologa con maternità surrogata, da ritenersi invalido per contrarietà della legge straniera all’ordine pubblico, ai sensi dell’art.16dellaL. 31 maggio 1995, n. 218(Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
2.1.- Ciò premesso, la Corte d’appello evidenzia che nel caso in esame l’atto di nascita comprovante la genitorialità del minore è già stato trascritto in Italia e che, pertanto, è estranea al thema decidendum la questione della trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati nei P. che consentono la maternità surrogata. Nel caso in esame, infatti, non è richiesta la trascrizione di uno status filiationis riconosciuto all’estero, bensì la rimozione di uno status già attribuito, in considerazione della sua non veridicità.
2.1.1.- Quanto al divieto di maternità surrogata previsto dall’art.12dellaL. 19 febbraio 2004, n. 40(Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), il giudice a quo ritiene che lo stesso potrebbe porsi in contrasto con i principi costituzionali, laddove riferito ad ipotesi di gestazione “relazionali” o “solidaristiche”, non lesive della dignità della donna, né riducibili alla logica di uno scambio mercantile, ma caratterizzate da intenti di pura solidarietà. Tuttavia, osserva il rimettente, anche tale questione risulta estranea alla vicenda in esame, in quanto la surrogazione di maternità è avvenuta al di fuori di un contesto relazionale e non sarebbe ravvisabile una condizione di libertà della donna che ha portato a termine la gravidanza.
2.2.- La Corte d’appello prospetta, invece, una diversa questione di legittimità costituzionale, che pone al centro l’interesse del bambino, nato a seguito di surrogazione di maternità realizzata all’estero, a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita.
Il dubbio di costituzionalità sollevato dal rimettente attiene, in particolare,all’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità possa essere accolta solo laddove sia ritenuta rispondente all’interesse del minore.
2.2.1.- Rammenta il giudice a quo che la questione di legittimità costituzionaledell’art. 263 cod. civ.è già stata ritenuta non fondata dalla sentenza n. 112 del 1997, sull’assunto che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità sia ispirata al “principio di ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere”. In quella occasione, asserisce il rimettente, la Corte ha individuato nella verità del rapporto di filiazione un valore necessariamente da tutelare, con la precisazione che la finalità perseguita dal legislatore consisterebbe proprio nell’attuazione del diritto del minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica. Analoghi principi sarebbero stati ribaditi dalle sentenze n. 170 del 1999 e n. 216 del 1997, nonché dall’ordinanza n. 7 del 2012.
Alla stregua di tali rilievi, il giudice a quo esclude soluzioni ermeneutiche che consentano di considerare, nella cornicedell’art. 263 cod. civ., la specifica situazione del minore al fine di privilegiare una soluzione che realizzi il suo concreto ed effettivo interesse. La mancanza di un riferimento normativo all’interesse del minore, nel richiamato indirizzo interpretativo da considerare quale “diritto vivente”, si porrebbe in contrasto con i principi di particolare tutela che la Costituzione e la CEDU assicurano ai minori.
2.3.- La questione avrebbe incidenza attuale nel giudizio di impugnazione promosso dal curatore speciale ai sensidell’art. 263 cod. civ.
Infatti, nel caso in esame, le norme inderogabili che definiscono e disciplinano la genitorialità, ed in particolare la maternità, non consentirebbero a madre e figlio di vedersi riconosciuto tale legame giuridico, se non per il tramite dell’adozione in casi particolari, nel presupposto che l’interesse del minore, di cui lo stesso curatore è portatore, debba identificarsi nel favor veritatis.
Viceversa, ove fosse consentita una valutazione in concreto dell’interesse del minore, non coincidente col favor veritatis, esso potrebbe essere misurato anche alla stregua di altri profili, riguardanti le particolari modalità della nascita, la possibilità di altro legame giuridico, certo e ugualmente tutelante, con la madre intenzionale, e tutte le circostanze, anche relative al rapporto con la madre intenzionale, emerse nella fattispecie in esame.
2.4.- Il giudice rimettente richiama i principi enunciati dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva conL. 27 maggio 1991, n. 176; dalla Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva conL. 20 marzo 2003, n. 77; dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che all’art. 24, secondo comma, sancisce il principio della necessaria preminenza dell’interesse del minore.
Dovrebbero considerarsi, inoltre, le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri. Il riferimento, ivi contenuto, al superiore interesse del minore andrebbe inteso come ricerca di una soluzione che garantisca l’effettiva attuazione, non di un interesse astratto e preconcetto, bensì del best interest, cioè dell’interesse concreto di “quel” minore che, nel singolo caso sottoposto a valutazione, è destinatario di un provvedimento.
La Corte d’appello osserva che anche la recente giurisprudenza di merito attribuisce rilievo al concreto interesse del minore in tema di relazioni familiari. In particolare, sono richiamate quelle pronunce che hanno ammesso la trascrizione nei registri dello stato civile di atti stranieri attributivi della genitorialità alla madre intenzionale, a seguito di accordi di maternità surrogata (Corte d’appello di Bari, sentenza 13 febbraio 2009) o di un atto di nascita, formato all’estero, del figlio di una coppia di donne, nato con donazione del gamete maschile e trasferimento dell’ovulo di una delle due all’altra, che ha portato a termine la gravidanza (Corte d’appello di Torino,decreto 29 ottobre 2014). Sono, altresì, richiamate quelle decisioni che hanno riconosciuto la possibilità di adozione del figlio del partner di coppia dello stesso sesso, ai sensi dell’art.44dellaL. 4 maggio 1983, n. 184(Diritto del minore ad una famiglia). Inoltre, è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 11 gennaio 2013, n. 601, che ha escluso che il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale pregiudichi l’equilibrato sviluppo del bambino.
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, che nella sentenza n. 31 del 2012 questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionaledell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui prevedeva che, alla condanna dei genitori per il delitto di alterazione di stato, conseguisse in via automatica la perdita della potestà genitoriale, precludendo così al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore.
Alla luce dei principi desumibili dalla normativa sovranazionale e nazionale e degli approdi giurisprudenziali, Europei e interni, nonché delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie in tema di procreazione assistita, il giudice a quo sollecita una rinnovata riflessione sul tema della coincidenza tra favor veritatis e favor minoris.
Il dubbio di legittimità costituzionale ha ad oggettol’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non consente di valutare il concreto interesse del minore a mantenere l’identità relazionale e lo status di una riconosciuta filiazione materna, impedendo, così, che tale interesse possa essere realizzato con l’ampiezza di tutele riconosciute da plurimi principi costituzionali.
2.5.- In primo luogo, è denunciata la violazionedell’art. 2 Cost., per la natura inviolabile del diritto del minore a non vedersi privato del nome, dell’identità personale e della stessa possibilità di avere una madre, mantenendo lo status filiationis nei confronti di colei che abbia effettuato il riconoscimento.
In secondo luogo, la disposizione in esame contrasterebbe conl’art. 30 Cost., che riconosce e promuove, sia pure in via sussidiaria, accanto alla genitorialità biologica, una genitorialità sociale, fondata sul consenso e indipendente dal dato genetico. Di essa, in alcune situazioni problematiche, l’interesse del minore potrebbe giovarsi. Il riconoscimento della genitorialità sociale si accompagnerebbe, infatti, alle garanzie offerte al figlio dall’assunzione di responsabilità nei suoi confronti. La questione di legittimità costituzionale è sollevata anche in riferimentoall’art. 31 Cost., che, con disposizione riassuntiva e generale, completa il quadro delle garanzie costituzionali dei rapporti familiari e dell’infanzia.
L’impossibilità di valutare, in concreto, un interesse, che potrebbe non coincidere col favor veritatis, si porrebbe altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza di cuiall’art. 3 Cost., soprattutto alla luce dell’art.9dellaL. n. 40 del 2004che, ancor prima della sentenza di questa Corte n. 162 del 2014, aveva comunque assicurato al bambino – nato attraverso fecondazione assistita di tipo eterologo – lo stato di figlio del coniuge o del convivente della donna che lo aveva partorito.
A questo riguardo, il giudice a quo evidenzia che, nel nuovo assetto conseguente all’eliminazione del divieto di fecondazione eterologa, essendo esclusa la possibilità che il coniuge o il convivente del genitore naturale possano, rispettivamente, disconoscere la paternità del bambino, ovvero impugnare il relativo riconoscimento, sarebbe dubbia la legittimazione in capo al figlio in ordine alle azioni indicate. Infatti, un eventuale accertamento negativo della paternità legale non potrebbe comunque costituire la premessa per un successivo accertamento positivo della paternità biologica, stante la regola di cui all’art.9, comma 3, dellaL. n. 40 del 2004.
In ogni caso, nell’impossibilità di valutare in concreto l’interesse del minore, lo status del bambino nato da surrogazione di maternità potrebbe risultare irragionevolmente diverso e sfavorevole rispetto a quello assicurato al minore nato attraverso il ricorso alla fecondazione eterologa.
La Corte d’appello dubita della legittimità costituzionaledell’art. 263 cod. civ., anche con riferimentoall’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, in situazioni riconducibili alla maternità surrogata.
Sono richiamate, in particolare, le sentenze della Corte EDU del 26 giugno 2014 rese nei casi M. contro F. e L. contro F. (ricorsi n. 65192 del 2011 e n. 65941 del 2011), nelle quali è stata affrontata la questione del rifiuto di riconoscere, in F., rapporti genitoriali stabiliti all’estero tra minori nati da maternità surrogata e le coppie che vi avevano fatto ricorso. In queste pronunce, la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato l’art. 8 della CEDU con riferimento al diritto dei minori al rispetto della propria vita privata, quale diritto di ciascuno su ogni profilo della propria identità di essere umano.
Ad avviso del giudice a quo, da tali sentenze discenderebbe per gli Stati contraenti l’obbligo positivo di tutelare l’identità personale del minore nato attraverso surrogazione di maternità, anche a prescindere dal legame biologico con i genitori intenzionali. Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, se possono scoraggiare o vietare il ricorso alla maternità surrogata, non potrebbero, viceversa, rifiutare la trascrizione di un atto di nascita che assicura al minore il rispetto della sua vita privata, rispondendo tale trascrizione al suo best interest.
In questo senso si porrebbe anche la sentenza della Corte EDU del 27 gennaio 2015, resa nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia (ricorso n. 25358 del 2012). In un caso di maternità surrogata caratterizzato dall’assenza di legame biologico del minore con i genitori intenzionali, la Corte di Strasburgo ha ravvisato la violazione dell’art. 8 della CEDU nei provvedimenti relativi all’allontanamento del minore. La nozione di “vita familiare”, tutelabile ai sensi dell’art. 8 della CEDU, sarebbe estensibile alla relazione tra i genitori d’intenzione e il minore, ancorché costituita illegalmente secondo l’ordinamento nazionale. In questo modo, ad avviso del giudice a quo, la Corte di Strasburgo avrebbe svincolato la nozione giuridica di “vita familiare” dall’indefettibilità del legame genetico, ritenendola comprensiva di relazioni di fatto, la cui tutela corrisponde al preminente interesse del minore.
2.6.- Dopo avere ribadito che la questione in esame non concerne la liceità della pratica della surrogazione, ma i diritti del bambino nato attraverso tale pratica, il rimettente deduce che non vi sarebbe contrasto, rispetto all’ordine pubblico, del concreto interesse del minore. In particolare, tale contrasto non sarebbe ricavabile dal divieto di maternità surrogata di cui all’art.12, comma 6, dellaL. n. 40 del 2004, dovendosi avere riguardo all’ordine pubblico internazionale, in cui rileva l’esistenza di P., anche in Europa, che consentono il ricorso alla surrogazione di maternità.
Il concetto di ordine pubblico dovrebbe essere perciò declinato con riferimento all’interesse del minore, secondo un principio ricavabile anche dalregolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003(Regolamento del Consiglio relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale). Tale regolamento, all’art. 23, prevede che, con riferimento alle decisioni relative alla responsabilità genitoriale, la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto del superiore interesse del figlio.
2.7.- Il giudice a quo ritiene che il dubbio di legittimità costituzionale non possa essere superato neppure dalla considerazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini. Tale diritto si realizzerebbe, infatti, su un piano diverso da quello dell’impugnazione di cuiall’art. 263 cod. civ., a meno di non voler attribuire all’accertamento della non veridicità del riconoscimento la funzione di comunicazione della non-nascita dalla madre, in una logica latamente sanzionatoria della condotta genitoriale. Ciò andrebbe comunque a detrimento dell’interesse del minore al mantenimento di un rapporto giuridico corrispondente alla effettività della relazione con la persona che ha formulato il progetto familiare e che, dalla nascita del bambino, ne è madre.
3.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituita A.L. C., parte appellante nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione sollevata dal giudice a quo.
3.1.- Dopo avere ripercorso le argomentazioni del giudice rimettente, la parte richiama i principi affermati nelle sentenze n. 158 del 1991, n. 112 del 1997 e n. 170 del 1999 ed osserva che, alla luce del mutato quadro giurisprudenziale e dell’evoluzione scientifica e tecnologica, che ha progressivamente ampliato le possibilità procreative delle coppie, si imporrebbe una nuova valutazione della legittimità costituzionaledell’art. 263 cod. civ.Si dovrebbe ritenere ormai superato il principio della necessaria preservazione del legame di filiazione veridico quale unico presupposto di tutela dell’interesse del minore.
Sono richiamate, in particolare, la sentenza n. 162 del 2014, in materia di fecondazione eterologa, e le sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di surrogazione di maternità. In queste pronunce la tutela del superiore interesse del minore non sarebbe più inscindibilmente connessa alla veridicità del rapporto di filiazione, in quanto biologicamente determinato, bensì alla conservazione del rapporto di filiazione “sociale”, ovvero “intenzionale”, imperniato sull’assunzione della responsabilità genitoriale.
La parte evidenzia che, in tema di disconoscimento di paternità del bambino nato da procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, la Corte di cassazione, sin da epoca precedente allaL. n. 40 del 2004, si era già espressa nel senso che il favor veritatis abbia “una priorità non assoluta, ma relativa” (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 marzo 1999, n. 2315).
Occorrerebbe, dunque, una valutazione individualizzata dell’interesse del minore ed il superamento, sulla scorta del mutato contesto sociale e giurisprudenziale, dell’impostazione che ritiene salvaguardato tale interesse solo in presenza di un legame di filiazione veridico.
3.2.- Riguardo alla violazionedell’art. 2 Cost., la difesa della parte condivide i rilievi del giudice rimettente, richiamando in proposito la giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di diritto all’identità personale quale diritto inviolabile della persona umana, strettamente connesso al diritto di conservare il proprio status filiationis. La disposizione censurata sarebbe, altresì, lesiva del diritto al nome del minore, anch’esso protetto a normadell’art. 2 Cost.
3.3.-L’art. 263 cod. civ.si porrebbe, inoltre, in contrasto conl’art. 3 Cost., per la condizione deteriore in cui si trova il bambino nato da maternità surrogata rispetto a quello nato attraverso fecondazione assistita di tipo eterologo. Solo in questo secondo caso, infatti, in presenza di donazione dei gameti, è preclusa al coniuge e al convivente del genitore naturale la proposizione dell’azione di disconoscimento e, rispettivamente, dell’impugnazione del riconoscimento. Tuttavia, anche con riferimento al bambino nato da maternità surrogata si porrebbe l’analoga esigenza di assicurare protezione al diritto costituzionale all’identità personale, nelle forme del diritto al nome e alla conservazione del proprio status filiationis.
3.3.1.- La norma sarebbe irragionevole anche per l’automatismo decisorio che si determinerebbe in caso di difetto di veridicità. Sia pure pronunciando su questioni di tipo diverso, la giurisprudenza costituzionale avrebbe chiarito come siffatti automatismi possono tradursi in un’irragionevole lesione dell’interesse del minore, in quanto preclusivi di uno scrutinio individualizzato, caso per caso, da parte del giudice.
In particolare, in tema di adozione, tali principi hanno portato a ritenere irragionevoli – perché non rispondenti all’interesse del minore – le norme che stabilivano limiti rigidi di età tra adottanti e adottato (sono richiamate le sentenze n. 140 recte: 44 del 1990, n. 148 del 1992, n. 303 del 1996 e n. 283 del 1999).
Afferma la parte che, allo stesso modo, è stata ritenuta irragionevole l’applicazione automatica della pena accessoria della perdita di potestà genitoriale, a seguito della commissione del reato di cuiall’art. 567 cod. pen., previstadall’art. 569 cod. pen., che precludeva ogni possibilità di valutazione e bilanciamento tra l’interesse del minore e l’applicazione della pena accessoria, in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso (sentenza n. 31 del 2012). Analogamente,l’art. 569 cod. pen.è stato censurato nella parte in cui stabiliva che, alla condanna pronunciata per il delitto di cuiall’art. 566, secondo comma, cod. pen., conseguisse di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto (sentenza n. 7 del 2013).
È richiamata, inoltre, la pronuncia con cui questa Corte ha censurato l’art.4-bis, primo comma, dellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui includeva nel divieto di concessione dei benefici penitenziari anche la detenzione domiciliare speciale, prevista per le madri con prole di età non superiore a dieci anni (sentenza n. 239 del 2014). Anche in questo caso, non era consentita una valutazione caso per caso della pericolosità della madre detenuta, al fine di tenere conto del superiore interesse del minore.
Da ultimo, la difesa della parte richiama le pronunce che hanno censurato l’irragionevole rigidità della disposizione che negava al medico una valutazione del caso concreto sottoposto a trattamento medico, da effettuarsi sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche (sentenza n. 151 del 2009).
Ad avviso della parte, anche in relazioneall’art. 263 cod. civ.sarebbe ravvisabile un automatismo, consistente nell’accoglimento dell’impugnazione del riconoscimento ogniqualvolta sussista un difetto di veridicità. Anche a questa previsione sarebbe sottesa una presunzione assoluta, in base alla quale l’interesse del minore sarebbe adeguatamente tutelato soltanto quando venga assicurata la veridicità del legame di filiazione. Per eliminare tale irragionevolezza, dovrebbe essere consentita al giudice la valutazione degli effetti dell’accoglimento dell’impugnazione in relazione all’interesse del minore, in considerazione delle circostanze del caso concreto.
3.4.- Con riferimento alla violazione degliartt. 30 e 31 Cost., la difesa della parte privata, richiamandosi ai principi affermati nella sentenza n. 162 del 2014, sottolinea il valore da attribuire alla genitorialità sociale, dovendo riconoscersi tutela, anche di livello costituzionale, a nuclei familiari in cui difetti una corrispondenza biunivoca tra il dato biologico e quello sociale.
Lo stesso legislatore, con laL. 10 dicembre 2012, n. 219(Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), avrebbe già fatto propria una nozione di responsabilità genitoriale improntata sul consenso liberamente assunto dai genitori nei confronti del figlio. In quanto finalizzata ad assicurare adeguata protezione all’interesse del minore, tale responsabilità dovrebbe prescindere dalla caratterizzazione biologica o sociale del rapporto di parentela.
Al riguardo, la parte richiama la giurisprudenza di merito e di legittimità in tema di adozione da parte del single e della coppia omosessuale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 gennaio 2013, n. 601, e 22 giugno 2016, n. 12962; Corte d’appello di Torino, sentenza 27 maggio 2016); in materia di trascrizione di atti di nascita formati all’estero, dai quali risulti che il bambino è figlio di una coppia composta da persone dello stesso sesso (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599), ovvero è nato a seguito di maternità surrogata (Corte d’appello di Milano, decreto 28 dicembre 2016); nonché in tema di adozione, da parte del genitore sociale, del figlio biologico del proprio compagno, nato a seguito di surrogazione di maternità (Tribunale per i minorenni di Roma, sentenza 23 dicembre 2015).
3.5.- Da ultimo, quanto alla violazionedell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della CEDU, la difesa della parte evidenzia che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo si rinviene l’affermazione della necessità di assicurare preminenza, nel bilanciamento tra interessi contrapposti, al superiore interesse del minore, attraverso uno scrutinio che poggi sulle circostanze del caso concreto. In tal senso, oltre alle già citate sentenze del 26 giugno 2014 rese nei casi M. e L. contro F., è richiamata la sentenza della Grande camera del 6 luglio 2010, resa nel caso Neulinger e Shuruk contro Svizzera (ricorso n. 41615 del 2007), in cui la Corte ha ravvisato nell’omessa trascrizione del certificato di nascita formato all’estero la lesione del superiore interesse del bambino nato da surrogazione di maternità.
Ad avviso della parte, la prospettiva si dovrebbe spostare dalla valutazione della situazione giuridica della coppia a quella del minore, meritevole di autonoma considerazione indipendentemente dalle condotte realizzate dai genitori, siano essi biologici, sociali o intenzionali.
3.5.1.- A conclusioni analoghe sarebbe inizialmente pervenuta la Corte EDU nella sentenza resa nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia, sopra già citata. In tale pronuncia, la Corte di Strasburgo ha affermato il carattere recessivo delle esigenze di ordine pubblico rispetto alla necessaria salvaguardia del superiore interesse del minore, ravvisando nel caso concreto la violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, in ragione dell’allontanamento dalla famiglia di origine.
Peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuta la sentenza del 24 gennaio 2017 della Grande camera, la quale, nel riesaminare la decisione del 27 gennaio 2015, ha escluso la violazione dell’art. 8 della CEDU. In questa occasione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le misure adottate dalle autorità italiane, che avevano disposto l’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente e il suo collocamento presso un diverso nucleo familiare, non abbiano arrecato allo stesso minore un pregiudizio grave o irreparabile a causa della separazione, garantendo un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco.
Ad avviso della parte, anche questa pronuncia confermerebbe la necessità di salvaguardare il superiore interesse del minore attraverso una valutazione individualizzata, avente ad oggetto le circostanze del caso concreto. In questo caso veniva in rilievo la conformità alla CEDU dell’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente, con cui egli non intratteneva alcun legame biologico. Viceversa, osserva la parte privata, la pronuncia non atterrebbe né al rifiuto di trascrivere un certificato di nascita formato all’estero, né al diritto del minore a ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con la coppia, ciò che invece riveste rilievo centrale nella questione in esame.
Pertanto, resterebbero fermi i dubbi di non conformità della disposizione censurata rispetto all’art. 8 della CEDU. Essa precluderebbe, infatti, la valutazione individualizzata delle circostanze del caso e impedirebbe, altresì, di dare concretezza all’esigenza di tutela dell’interesse del minore.
3.5.2.- Più in generale,l’art. 263 cod. civ.sarebbe in contrasto con il quadro internazionale di tutela dei diritti dei minori e, in particolare, con gli artt. 3 e 8, paragrafo 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo. Nella stessa direzione si porrebbe anche l’azione del Consiglio d’Europa, con le Linee guida per una giustizia a misura di minore, cui si affianca la Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli. Si evidenzia, altresì, che la tutela del superiore interesse del minore è riconosciuta dall’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
4.- Con atto depositato in data 10 febbraio 2017 si è costituita in giudizio l’avvocato Grazia Ofelia Cesaro, nella qualità di curatore speciale del minoreL.F.Z., rappresentato e difeso dalla detta professionista, e ha chiesto l’accoglimento della questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano.
4.1.- Il curatore premette che l’azione dallo stesso proposta ai sensidell’art. 263 cod. civ.è derivata dall’acquisizione della prova, nel corso del procedimento di adottabilità, che il figlio minore non è un discendente biologico di colei che lo ha riconosciuto. Il Tribunale per i minorenni ha pertanto provveduto alla nomina del curatore, conferendogli uno specifico mandato ad impugnare il riconoscimento.
Il curatore evidenzia, in particolare, che sebbene gli accertamenti svolti dal Tribunale per i minorenni avessero confermato l’interesse del figlio minore a mantenere il legame familiare con la madre sociale (oltre che con il padre), tuttavia le norme che disciplinano la genitorialità non consentirebbero a madre e figlio di vedersi riconosciuto tale legame giuridico, laddove esso non corrisponda alla verità biologica.
L’art. 263 cod. civ., infatti, contempla quale unico presupposto necessario e sufficiente per l’impugnazione del riconoscimento il difetto di veridicità, inteso come assenza di un legame biologico tra l’autore del riconoscimento e colui che è riconosciuto come figlio. Ciò precluderebbe al giudice ogni possibilità di valutazione e bilanciamento degli interessi coinvolti, in quanto l’inesistenza di tale legame biologico costituirebbe l’unica condizione per l’accoglimento dell’azione.
Osserva il curatore che l’interesse del minore alla salvaguardia del proprio legame con la madre (ed indirettamente con la famiglia d’origine materna) potrebbe, in ipotesi, essere preservato solo mediante lo strumento di cui all’art.44dellaL. n. 184 del 1983, previa rimozione dell’attuale status filiationis per parte di madre. Tale possibilità sarebbe, tuttavia, del tutto aleatoria, non solo perché dipendente dalla libera iniziativa del genitore sociale, ma anche perché subordinata al consenso dell’altro genitore. Inoltre, l’eventuale legame così costituito sarebbe comunque più debole di quello derivante dalla maternità naturale, attese le peculiarità proprie dell’adozione in casi particolari.
Rispetto all’interpretazione offerta dalla precedente sentenza n. 112 del 1997, sarebbe oggi necessario un riesame della questione, per riscontrare se, nell’attuale momento storico-sociale e nell’attuale panorama normativo e giurisprudenziale, sussista ancora la necessità di individuare nella verità del rapporto di filiazione un valore preminente, da tutelare in via prioritaria.
4.1.1.- In primo luogo, ad avviso del curatore, il principio secondo cui ogni falsa apparenza di stato deve cadere, così come il principio del favor veritatis, non assurgerebbero a valori costituzionalmente garantiti.L’art. 30 Cost.non avrebbe attribuito, infatti, un valore preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Al contrario, nel disporre, al quarto comma, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”, la Costituzione avrebbe demandato al legislatore il potere di privilegiare la paternità legale rispetto a quella naturale, fissando le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima ed affidandogli la valutazione della soluzione più idonea per realizzare la coincidenza tra la discendenza naturale e quella biologica.
L’interesse pubblico alla verità dello status di filiazione, dunque, non dovrebbe necessariamente ed automaticamente prevalere sull’interesse del minore. Anche la normativa interna ed internazionale, oltre ad avere posto il minore al centro dei procedimenti promossi a sua tutela, avrebbe altresì prescritto l’obbligo di verificare l’interesse del minore, affinché lo stesso possa essere oggetto di bilanciamento con gli altri interessi meritevoli di tutela.
In particolare, nella mutata coscienza sociale, tra gli interessi giuridici del minore rileverebbero l’interesse alla stabilità dei legami familiari e quello a vivere e crescere all’interno della propria famiglia. In tal senso, sia laL. n. 219 del 2012, sia ilD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154(Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo2dellaL. 10 dicembre 2012, n. 219), avrebbero introdotto nuovi termini di decadenza ed imposto limiti più stringenti al potere dei genitori di agire per il disconoscimento del figlio, così come per l’impugnazione del riconoscimento, per l’acquisita consapevolezza che la tutela dell’identità e della vita personale e familiare del minore non sempre coinciderebbe con la rimozione di uno status personale non conforme alle origini biologiche.
Le modifiche legislative avrebbero posto al centro del rapporto di filiazione il concetto di responsabilità genitoriale, ridisegnando la disciplina delle azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, nella prospettiva della prevalenza dell’interesse del figlio alla stabilità del rapporto. D’altra parte, anche la giurisprudenza di legittimità avrebbe riconosciuto il rilievo delle relazioni consolidatesi nel tempo tra genitore e figlio, alla luce del diritto di quest’ultimo a conservare tale profilo che caratterizza fin dalla nascita l’identità personale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).
Il curatore evidenzia, inoltre, che la più recente giurisprudenza di merito ha esteso la portata applicativa dell’art.9dellaL. n. 40 del 2004, dichiarando l’illegittimità dell’azione di impugnazione del riconoscimento intrapresa da terzi nei confronti di un figlio minore nato da fecondazione eterologa, così estendendo “a chiunque vi abbia interesse” il divieto di disconoscimento previsto solo nei confronti dell’autore del riconoscimento (Corte d’appello di Milano, sentenza 10 agosto 2015, n. 3397). Alla luce di tale evoluzione giurisprudenziale, che attenua il principio della prevalenza della verità biologica, andrebbe escluso pertanto che il favor veritatis costituisca valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da affermarsi comunque.
L’intervento correttivo auspicato si porrebbe in linea di continuità con la giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto illegittimo ogni automatismo legislativo che impedisca di bilanciare gli interessi tutelati con il preminente interesse del minore (è richiamata la sentenza n. 31 del 2012). La necessità di tale bilanciamento sarebbe stata riconosciuta anche dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, nella sentenza del 25 gennaio 2017, n. 1946, che ha fatto seguito alla sentenza n. 278 del 2013 di questa Corte, in cui sarebbe stato affermato il diritto del figlio di accedere alle informazioni sulla madre che si fosse avvalsa della facoltà di non essere nominata.
4.1.2.- Anche a livello Europeo, si dovrebbe constatare la progressiva perdita di rilievo della verità di sangue e l’emersione del rapporto affettivo della filiazione, quale elemento fondamentale per il riconoscimento dei legami tra genitori e figli sul piano del diritto; sono richiamate le sentenze della Corte di Strasburgo 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti contro Italia (ricorso 16318 del 2007), e 1 aprile 2010, S.H. ed altri contro Austria (ricorso n. 57813 del 2000).
Inoltre, laL. 19 ottobre 2015, n. 173(Modifiche allaL. 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) farebbe propri i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, agevolando l’attribuzione di rilievo giuridico al rapporto di fatto instaurato tra i minori dichiarati adottabili e la famiglia affidataria.
L’interesse alla costituzione e alla conservazione dei legami familiari, non necessariamente coincidente con la verità delle origini biologiche, sarebbe riconosciuto quale criterio di valutazione centrale e riguarderebbe ormai anche i soggetti maggiorenni. Al riguardo, è richiamata l’ordinanza del Tribunale di Firenze 30 luglio 2015 che ha rigettato un’istanza di accertamento della non corrispondenza del DNA del presunto padre defunto con quello della figlia maggiorenne, al fine di proporre l’azione di cuiall’art. 263 cod. civ.
Ed invero, la tendenza a far prevalere i valori costituzionali di solidarietà e di tutela dell’individuo e della vita familiare sarebbe ravvisabile in ogni settore del diritto di famiglia. È richiamata, al riguardo, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 21 aprile 2015, n. 8097, con cui è stata ritenuta invalida l’annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, rispetto ad una coppia in cui uno dei coniugi aveva ottenuto, con il consenso dell’altro, la rettificazione di sesso.
4.2.- Sulla base di tali considerazioni, dunque, il curatore ritiene fondati gli argomenti svolti dall’ordinanza di rimessione.
4.2.1.- Riguardo al contrasto conl’art. 2 Cost., il curatore sottolinea come l’esigenza di tutelare il diritto del figlio minore alla propria identità sia stata affermata sin dalla sentenza n. 112 del 1997. In tale pronuncia sarebbe stata esclusa una contrapposizione tra il favor veritatis ed il favor minoris, intendendo così far coincidere l’identità del minore con la sola discendenza genetica dello stesso. Si tratterebbe, tuttavia, di un’interpretazione oltremodo restrittiva ed impropria del concetto di identità personale, non più conforme all’attuale coscienza sociale.
L’identità personale, infatti, sarebbe un concetto dinamico, non cristallizzato al momento del concepimento. Essa si svilupperebbe nel tempo, per effetto delle relazioni create con il mondo esterno, del nome e del cognome scelto dai genitori alla nascita, dell’appartenenza al luogo dove si cresce, della propria storia, cultura e tradizioni e, soprattutto, dei genitori e delle rispettive famiglie d’origine, che condizionano il processo di crescita.
Anche la Corte di cassazione, di recente, avrebbe condiviso questi principi, riconoscendo la risarcibilità del danno arrecato dal padre al figlio a causa dell’esperimento dell’azione di cuiall’art. 263 cod. civ.In tale occasione, si è affermato che l’identità, come tutti i diritti della personalità, “si rafforza e si consolida con il passare del tempo. Pertanto, maggiore è il lasso di tempo intercorso tra il riconoscimento e l’impugnazione per difetto di veridicità, maggiore sarà la lesione che ne discende al diritto all’identità personale” (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 31 luglio 2015, n. 16222).
D’altra parte, la rimozione dello status filiationis, ai sensidell’art. 263 cod. civ., non garantirebbe affatto l’acquisizione di una genitorialità corrispondente a verità. Il genitore biologico potrebbe, infatti, rifiutare il riconoscimento, quest’ultimo potrebbe essere contrario all’interesse del minore, oppure, come accade nei casi di maternità surrogata, il genitore biologico potrebbe essere non identificabile. In tali circostanze sarebbe leso anche il diritto del minore alla bigenitorialità, diritto riconosciuto come preminente dallaL. 8 febbraio 2006, n. 54(Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli).
4.2.2.- In riferimentoall’art. 3 Cost., il curatore rileva che l’esigenza di bilanciare l’interesse del minore con il pubblico interesse alla certezza degli status sarebbe stata affermata dal legislatore in tutte le azioni in materia di riconoscimento dei figli (artt. 250, 251 e 269 cod. civ.).Se in tali azioni, tese ad estendere i legami di filiazione del minore, è stata ritenuta necessaria la valutazione dell’interesse del medesimo, non si comprenderebbe perché essa non possa compiersi anche nelle azioni il cui accoglimento comporta la rescissione di tali legami e quindi l’impoverimento delle relazioni familiari del minore.
4.2.3.- Quanto al contrasto con gliartt. 30 e 31 Cost., il curatore deduce che, nei giudizi di accertamento del rapporto di filiazione, la prevalenza incondizionata del favor veritatis sarebbe stata messa in dubbio dalla giurisprudenza. Al riguardo, si fa rilevare che gliartt. 30 e 31 Cost.riconoscono che la ricerca della filiazione biologica può incontrare dei limiti, derivanti dalla necessità di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti, primo fra tutti l’interesse del minore. La preminenza del favor veritatis non sarebbe espressione di valori costituzionali, bensì il portato di una concezione arretrata e formalistica dei rapporti familiari, ormai estranea al comune sentire.
4.2.4.- Da ultimo, quanto al contrasto conl’art. 117, primo comma, Cost., il curatore osserva che l’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, imporrebbe in via prioritaria al legislatore nazionale di tutelare il legame di filiazione, ancorché originato attraverso pratiche ritenute illecite dall’ordinamento nazionale.
Non potrebbe, dunque, ritenersi giustificata una previsione legislativa, come quella censurata, che impone la rimozione dello status filiationis, precludendo ogni valutazione circa la corrispondenza di questa decisione all’interesse del minore. In ciò sarebbe ravvisabile un eccesso di discrezionalità legislativa. Di converso, laddove è in gioco il best interest of the child e la tutela della sua identità, il margine di tale discrezionalità sarebbe strettissimo, dovendosi ispirare alla promozione della persona del minore (oltre alle già citate sentenze 26 giugno 2014, M. contro F. e L. contro F., è richiamata la sentenza della Grande camera 10 aprile 2007, Evans contro Regno Unito, ricorso n. 2346 del 2002).
Viceversa,l’art. 263 cod. civ.tradirebbe tale scopo. Esso sacrificherebbe ogni considerazione centrata sulla persona del minore ad un presunto interesse pubblico alla verità biologica della procreazione, violando anche i principi desumibili dalle convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto, prima tra tutte la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, nonché la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il curatore deduce che, nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di legami familiari sarebbe legata all’esistenza, anche solo nei fatti, di stretti vincoli affettivi (Grande camera, sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, ricorso n. 6833 del 1974), a prescindere dalla loro qualificazione giuridica formale, ed anzi, talvolta, anche se la legge nazionale rifiuti di riconoscerli (Grande camera, sentenza 27 ottobre 1994, Kroon ed altri contro P.B., ricorso n. 18535 del 1991, e sentenza 22 aprile 1997, X, Y e Z contro Regno Unito, ricorso n. 21830 del 1993).
Nella nozione di vita familiare, da proteggersi ai sensi dell’art. 8 della CEDU, rientrerebbe il legame tra il figlio ed il genitore, anche se tale relazione non ha presupposti biologici, ma solo affettivi (Prima sezione, sentenza 16 luglio 2015, Nazarenko contro Russia, ricorso n. 39438 del 2013). Il rapporto di filiazione sarebbe espressione della vita privata o, come nel caso che ha dato origine al presente giudizio, espressione di vita familiare. Ciò sarebbe confermato dalla stessa posizione del Governo italiano, espressa di fronte alla Corte EDU nel caso Paradiso e Campanelli, laddove è stata ammessa la possibilità di una vita familiare de facto, anche in assenza di legame biologico con entrambi i genitori.
Ove il legame biologico sussista solo nei confronti di un genitore (come nel caso in esame) si potrà invocare l’art. 8 della CEDU, nell’accezione di “vita familiare”. Laddove tale legame non sussista, la protezione della filiazione “sociale” dovrebbe essere riconosciuta quale declinazione della “vita privata” del minore.
5.- Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
5.1.- La difesa statale ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità della questione, in quanto volta ad inserire, attraverso una pronuncia additiva, una condizione esclusiva (l’interesse del minore) ai fini dell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato unicamente all’interesse del minore all’appartenenza familiare.
5.2.- Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata.
La ratiodell’art. 263 cod. civ., quale strumento di tutela dell’interesse superiore alla corrispondenza tra realtà naturale e verità apparente, sarebbe quella di far cadere il riconoscimento non rispondente al vero. Verrebbe in rilievo, quindi, l’interesse oggettivo dell’ordinamento alla verità dello status di filiazione, attinente a principi di ordine pubblico, intesi come principi fondamentali ed irrinunciabili. Ad avviso della difesa statale, il principio del favor veritatis esprime un’esigenza di certezza nei rapporti di filiazione e la protezione dell’interesse del minore si realizzerebbe proprio nel riconoscimento del diritto alla propria identità (sono richiamate la sentenza n. 112 del 1997 e l’ordinanza n. 7 del 2012).
La ratiodell’art. 263 cod. civ.consisterebbe nell’attuazione del diritto del minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica, ovvero, qualora ciò non sia possibile, di uno stato corrispondente a quello di figlio legittimo, ma solo attraverso le garanzie offerte dalla disciplina dell’adozione.
Non sarebbe, dunque, ravvisabile alcun contrasto conl’art. 2 Cost., perché lo scioglimento dei vincoli assunti dal genitore verso il preteso figlio realizzerebbe l’interesse oggettivo dell’ordinamento alla verità dello status.
Non potrebbero ritenersi lesi neppure i principi di cui agliartt. 30 e 31 Cost.Essi non sarebbero invocabili laddove il legame familiare venga meno, in quanto privato del fondamento della verità della filiazione naturale.
Inoltre, non sarebbe ravvisabile alcun contrasto conl’art. 3 Cost.e quindi con il principio di ragionevolezza, perchél’art. 263 cod. civ.sarebbe giustificato dalla superiore esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status.
Infine, non sussisterebbe neppure la violazionedell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, non essendo in discussione la tutela della vita privata del minore, ma il suo diritto alla identità personale, sotto il profilo del legame di filiazione.
5.3.- Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la questione sarebbe manifestamente infondata, non ravvisandosi nella considerazione del favor veritatis una ragione di conflitto con il favor minoris. La verità biologica della procreazione costituisce, infatti, una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, dovendo essergli garantito il diritto alla propria identità e all’affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze n. 216 e n. 112 del 1997). L’intangibilità dello status sarebbe recessiva rispetto a tale diritto, laddove venga meno la corrispondenza alla verità biologica (sentenza n. 170 del 1999).
6.- In prossimità dell’udienza pubblica, il curatore speciale ha depositato una memoria integrativa in cui, dopo avere ribadito gli argomenti già illustrati nelle precedenti difese, ha sottolineato che la mancata previsione della valutazione dell’interesse del minore impedirebbe di tener conto che, nel caso in esame, tale interesse è stato, in parte, già accertato dal Tribunale per i minorenni con la sentenza che ha dichiarato non luogo a provvedere sull’adottabilità. Il curatore speciale ritiene, peraltro, che una volta ricevuto il mandato dal medesimo Tribunale, egli non avrebbe potuto astenersi dallo svolgere tale incarico.
6.1.- In riferimento all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’incidenza che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe sulla discrezionalità del legislatore, si osserva che in questo caso è richiesta alla Corte l’eliminazione di un automatismo normativo che impedisce un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ciò che rientrerebbe pienamente nelle sue attribuzioni. D’altra parte, interventi additivi della giurisprudenza costituzionale sarebbero frequenti proprio in materia di tutela d’interesse del minore (sono richiamate le sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012, n. 50 del 2006 e n. 297 del 1996).
6.2.- Da ultimo, il curatore speciale contesta che, nel nostro ordinamento, vi sia una necessaria coincidenza tra interesse del minore e favor veritatis. Ogni rigidità e automatismo in tal senso, anzi, potrebbero risultare pregiudizievoli per il minore.
È richiamata, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 22 dicembre 2016, n. 26767, che ha ritenuto essenziale il bilanciamento tra gli interessi in gioco, in considerazione del superamento della concezione della famiglia su base essenzialmente genetica.
D’altra parte, un distacco tra identità genetica e identità giuridica sarebbe alla base proprio della disciplina dell’adozione, la quale costituisce espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere nel figlio “desiderato” un legittimo affidamento sulla continuità della relazione.
Il curatore evidenzia che – a conferma del riconoscimento della valenza del genitore sociale – la stessa giurisprudenza costituzionale ha richiamato proprio l’istituto dell’adozione. Nella sentenza n. 162 del 2014 si sottolinea, infatti, che esso mira a garantire una famiglia ai minori, evidenziando che “il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa”.

Motivi della decisione

1.- Nel corso di un procedimento di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionaledell’art. 263 del codice civile, in riferimento agliartt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con laL. 4 agosto 1955, n. 848.
La disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.
2.- Secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio incidentale, la questione sarebbe inammissibile in quanto volta ad inserire, attraverso una pronuncia additiva, una condizione esclusiva (l’interesse del minore) ai fini dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato all’interesse del minore all’appartenenza familiare.
L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento.
Al riguardo, va rilevato che il petitum del rimettente è volto al riconoscimento della possibilità di valutare l’interesse del minore, ai fini della decisione sull’impugnazione del riconoscimento. Ove si neghi tale possibilità, l’accoglimento della domanda rimarrebbe condizionato soltanto all’accertamento della non veridicità del riconoscimento. In definitiva, attraverso l’intervento invocato, è denunciata l’irragionevolezza di un automatismo decisorio che impedirebbe di tenere conto degli interessi in gioco. Il sindacato di legittimità rimesso a questa Corte è limitato, pertanto, alla verifica del fondamento costituzionale del denunciato meccanismo decisorio, senza alcuna interferenza sul contenuto di scelte discrezionali rimesse al legislatore.
3.- Sempre in via preliminare, occorre delimitare l’ambito dell’indagine che il giudice intende rimettere alla Corte in questa occasione.
Secondo questa prospettazione, il giudizio a quo ha per oggetto l’accertamento dell’inesistenza del rapporto di filiazione di un minore nato attraverso il ricorso alla surrogazione di maternità realizzata all’estero. Non è tuttavia in discussione la legittimità del divieto di tale pratica, previsto dall’art.12, comma 6, dellaL. 19 febbraio 2004, n. 40(Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), e nemmeno la sua assolutezza. Risulta parimenti estraneo alla odierna questione di legittimità costituzionale il tema dei limiti alla trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati all’estero.
La questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano ha per oggetto, infatti, la disciplina dell’azione di impugnazione previstadall’art. 263 cod. civ., volta a rimuovere lo stato di figlio, già attribuito al minore per effetto del riconoscimento, in considerazione del suo difetto di veridicità.
4.- Nel merito, la questione di legittimità costituzionaledell’art. 263 cod. civ.non è fondata.
Nell’interpretazione fatta propria dal rimettente la norma censurata si porrebbe in contrasto con i principi di cui agliartt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., poiché, nel giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale, essa non consentirebbe di tenere conto, in concreto, dell’interesse del minore “a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita”. Tuttavia, siffatta interpretazione non può essere condivisa, neppure nei casi nei quali il legislatore imponga di non pretermettere la verità.
4.1.- Pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento.
Ed invero, l’attuale quadro normativo e ordinamentale, sia interno, sia internazionale, non impone, nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis, l’assoluta prevalenza di tale accertamento su tutti gli altri interessi coinvolti.
In tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame.
4.1.1.- A questo riguardo va preliminarmente osservato che la disposizionedell’art. 263 cod. civ.è stata censurata dal rimettente nella versione, applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche apportate dalD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154(Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo2dellaL. 10 dicembre 2012, n. 219).
In particolare, l’art. 28 del medesimo d.lgs., in vigore dal 7 febbraio 2014, nel modificarel’art. 263 cod. civ., ha limitato l’imprescrittibilità dell’azione esclusivamente a quella esercitata dal figlio. Analoga previsione è stata inserita – con riferimento all’azione di disconoscimento di paternità -nell’art. 244, quinto comma, cod. civ., nel testo introdotto dall’art.18, primo comma, delD.Lgs. n. 154 del 2013. Gli altri legittimati, laddove intendano proporre le suddette azioni di contestazione degli status, sono ora tenuti a rispettare i termini di decadenza previsti dalla nuova disciplina.
Il legislatore delegato ha così garantito, senza limiti di tempo, l’interesse primario ed inviolabile dei figli all’accertamento della propria identità e discendenza biologica. Per converso, la previsione di termini di decadenza per gli altri legittimati ha circoscritto entro rigorosi limiti temporali l’esperibilità delle azioni demolitorie dello status filiationis, assicurando così tutela al diritto del figlio alla stabilità dello status acquisito.
La necessità del bilanciamento dell’interesse del minore con il pubblico interesse alla certezza degli status è, altresì, espressamente prevista dal legislatore nelle azioni in materia di riconoscimento dei figli (artt. 250 e 251 cod. civ.), volte all’estensione dei legami parentali del minore.
4.1.2.- D’altra parte, già l’art.9dellaL. n. 40 del 2004aveva escluso che il coniuge o il convivente che abbiano acconsentito al ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo potessero promuovere l’azione di disconoscimento o impugnare il riconoscimento ai sensidell’art. 263 cod. civ.
Al riguardo questa Corte ha ritenuto “confermata sia l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità … e dell’impugnazione exart. 263 cod. civ.(nel testo novellato dall’art.28delD.Lgs. n. 154 del 2013), sia che la nascita da PMA di tipo eterologo non dà luogo all’istituzione di relazioni giuridiche parentali tra il donatore di gameti ed il nato, essendo, quindi, regolamentati i principali profili dello stato giuridico di quest’ultimo” (sentenza n. 162 del 2014).
Anche in questo caso, in un’ipotesi di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità biologica, il bilanciamento è stato effettuato dal legislatore attribuendo la prevalenza al principio di conservazione dello status filiationis.
4.1.3.- Proprio al fine di garantire tutela al bambino concepito attraverso fecondazione eterologa, sin da epoca antecedente allaL. n. 40 del 2004, questa Corte – senza mettere in discussione la legittimità di tale pratica, “né … il principio di indisponibilità degli status nel rapporto di filiazione, principio sul quale sono suscettibili di incidere le varie possibilità di fatto oggi offerte dalle tecniche applicate alla procreazione” – si è preoccupata “invece di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato …, non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagliartt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in baseall’art. 2 della Costituzione- ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare” (sentenza n. 347 del 1998).
4.1.4.- Come evidenziato dallo stesso rimettente in riferimento alla violazionedell’art. 117, primo comma, Cost., anche il quadro Europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano.
Tale principio ha trovato la sua solenne affermazione dapprima nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva conL. 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” (art. 3, paragrafo 1).
Nella stessa direzione si pongono la Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva conL. 20 marzo 2003, n. 77, e le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri.
Infine, l’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sancisce il principio per il quale “in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”.
D’altra parte, pur in assenza di un’espressa base testuale, la garanzia dei best interests of the child è stata riportata, nell’interpretazione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sia all’art. 8, sia all’art. 14 della CEDU. Ed è proprio in casi di surrogazione di maternità, nel valutare il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita nei registri dello stato civile francese, che la Corte di Strasburgo ha affermato che il rispetto del migliore interesse dei minori deve guidare ogni decisione che li riguarda (sentenze del 26 giugno 2014, rese nei casi M. contro F. e L. contro F., ricorsi n. 65192 del 2011 e n. 65941 del 2011).
4.1.5.- Va altresì rammentato che, in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, laL. 19 ottobre 2015, n. 173(Modifiche allaL. 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) ha valorizzato l’interesse del minore alla conservazione di legami affettivi che sicuramente prescindono da quelli di sangue, attraverso l’attribuzione di rilievo giuridico ai rapporti di fatto instaurati tra il minore dichiarato adottabile e la famiglia affidataria.
D’altra parte, il distacco tra identità genetica e identità legale è alla base proprio della disciplina dell’adozione (L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Diritto del minore ad una famiglia”), quale espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere il legittimo affidamento sulla continuità della relazione.
4.1.6.- Anche la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto, da tempo, l’immanenza dell’interesse del minore nell’ambito delle azioni volte alla rimozione del suo status filiationis (sentenze n. 112 del 1997, n. 170 del 1999 e n. 322 del 2011;ordinanza n. 7 del 2012).
In tale giurisprudenza si trovano affermazioni sul particolare valore della verità biologica. Tuttavia – diversamente da quanto ritiene il giudice a quo – essa non ha affatto negato la possibilità di valutare l’interesse del minore nell’ambito delle azioni demolitorie del rapporto di filiazione. È stato riconosciuto che la verità biologica della procreazione costituisce “una componente essenziale” dell’identità personale del minore, la quale concorre, insieme ad altre componenti, a definirne il contenuto.
Pertanto, nell’auspicare una “tendenziale corrispondenza” tra certezza formale e verità naturale, si è riconosciuto che anche l’accertamento della verità biologica fa parte della complessiva valutazione rimessa al giudice, alla stregua di tutti gli altri elementi che, insieme ad esso, concorrono a definire la complessiva identità del minore e, fra questi, anche quello, potenzialmente confliggente, alla conservazione dello status già acquisito.
Costituisce infatti “compito precipuo del tribunale per i minorenni, … verificare se la modifica dello status del minore risponda al suo interesse e non sia per lui di pregiudizio; così come contemporaneamente occorre anche verificare, sia pure con sommaria delibazione, la verosimiglianza del preteso rapporto di filiazione, dovendosi garantire il diritto del minore alla propria identità” (sentenza n. 216 del 1997, sulla previgente disciplina dell’azione di disconoscimento della paternità, di cui agli artt. 273 e 274 cod. civ.).
Nell’evoluzione normativa e ordinamentale del concetto di famiglia, a conferma del rilievo giuridico della genitorialità sociale, ove non coincidente con quella biologica, vi è anche l’espresso riconoscimento, da parte di questa Corte, che “il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa” (sentenza n. 162 del 2014).
4.1.7.- L’esigenza di operare un’adeguata comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti e, in particolare, del minore, è stata recentemente riconosciuta anche dalla Corte di cassazione, con riferimento all’azione di disconoscimento della paternità.
La giurisprudenza di legittimità ha escluso, infatti, che il favor veritatis costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Nel disporre, al quarto comma, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”,l’art. 30 Cost.ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 30 maggio 2013, n. 13638; 22 dicembre 2016, n. 26767; e 3 aprile 2017, n. 8617).
4.2.- È alla luce di tali principi, immanenti anche nel mutato contesto normativo e ordinamentale, che si pone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ.
L’affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell’ordinamento sia interno, sia internazionale e questa Corte, sin da epoca risalente, ha contribuito a tale radicamento (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012, n. 283 del 1999, n. 303 del 1996, n. 148 del 1992 e n. 11 del 1981).
Non si vede conseguentemente perché, davanti all’azione di cui all’art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia davvero idonea a realizzarlo (come è nel caso dell’art. 264 cod. civ.); se l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica (ad esempio perché relativa a pratiche vietate dalla legge, quale è la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità.
Vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa. In altri il legislatore impone, all’opposto, l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata. Ma l’interesse del minore non è per questo cancellato.
La valutazione del giudice è presente, del resto, nello stesso procedimento previsto dall’art. 264 cod. civ., volto alla nomina del curatore speciale del figlio minore, laddove l’azione di contestazione dello status sia esercitata nel suo interesse. È anche in questa sede, infatti, che il legislatore – sia pure con i limiti derivanti dalla natura camerale del procedimento – ha affidato al giudice specializzato il compito di valutare, ancor prima dell’instaurazione dell’azione, l’interesse del minore all’assunzione di tale iniziativa giudiziale.
4.3.- Se dunque non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore, va parimenti escluso che bilanciare quell’esigenza con tale interesse comporti l’automatica cancellazione dell’una in nome dell’altro.
Tale bilanciamento comporta, viceversa, un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore.
Si è già visto come la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi debba tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tra queste, oltre alla durata del rapporto instauratosi col minore e quindi alla condizione identitaria già da esso acquisita, non possono non assumere oggi particolare rilevanza, da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e, dall’altro, la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari, garantisca al minore una adeguata tutela.
Si tratta, dunque, di una valutazione comparativa della quale, nel silenzio della legge, fa parte necessariamente la considerazione dell’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Milano, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2017.

Il giudicato sulla nullità canonica del matrimonio comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile di separazione

Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.D.V., rappresentata e difesa, come da mandato steso a margine del ricorso, dall’Avv. Gaetano La Piana del Foro di Catania, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, alla via Musumeci n. 137 in Catania;
contro
A.S., rappresentato e difeso, giusta procura speciale stesa su documento informatico allegato al controricorso, dall’Avv. Massimo Torrisi, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio, al corso Italia n. 72 in Catania;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 869 del 29.4.2015, pronunciata dalla Corte d’Appello di Catania e depositata il 22.5.2015;
raccolte le conclusioni rassegnate dal P.M. di udienza, dott.ssa ZENO Immacolata, che ha domandato dichiararsi la cessazione della materia del contendere;
ascoltata la discussione proposta dal difensore del controricorrente, Avv. Massimo Torrisi;
udita la relazione svolta dal dott. Di Marzio Paolo;
la Corte osserva.
Svolgimento del processo
A.S. conseguiva il (OMISSIS), dal Tribunale di Catania, sentenza di separazione personale dei coniugi nei confronti di M.D.V., con la quale aveva contratto matrimonio concordatario l'(OMISSIS). Il Tribunale addebitava la responsabilità della separazione alla moglie e non accoglieva perciò la sua domanda di assegno di mantenimento. Rigettava pure la richiesta subordinata proposta dalla moglie, che aveva domandato l’attribuzione, almeno, di un assegno alimentare.
Avverso questa decisione proponeva appello la M., lamentando innanzitutto la erroneità della dichiarazione di addebito a suo carico, non corrispondendo al vero che ella avesse nascosto al marito le condizioni psichiche di suo figlio, nato da precedente unione. In ogni caso i problemi di salute del figlio non avevano avuto alcuna incidenza causale sulla crisi del legame coniugale tra le parti. Domandava pertanto escludersi la dichiarazione di addebito e riconoscersi in suo favore un assegno di mantenimento e, in subordine, almeno un assegno alimentare. Si costituiva il marito che domandava il rigetto dell’appello e, mediante ricorso incidentale, contestava la ripartizione delle spese di lite come decisa dal giudice di prime cure.
Nelle more del giudizio di appello, in separato giudizio, la stessa Corte di Appello di Catania, con sentenza del 14.7.2014, accoglieva la domanda proposta dal marito e riconosceva gli effetti civili alla sentenza ecclesiastica che aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti. M.D.V. proponeva ricorso per cassazione. La Corte territoriale richiedeva alle parti di produrre gli atti relativi al giudizio di legittimità, ricorso e controricorso, e li esaminava.
La Corte etnea domandava allora alle parti di precisare le conclusioni, e dichiarava quindi la cessazione della materia del contendere in relazione al giudizio di separazione personale. Ricordava la Corte territoriale che la nullità del matrimonio era stata pronunciata per due motivi: la esclusione della prole da parte di entrambi i nubendi ed il dolo della moglie nei confronti del marito, per avergli nascosto le condizioni di salute psichica di suo figlio. Osservava quindi che la M. aveva proposto il suo ricorso per cassazione contestando soltanto le valutazioni operate in ordine al secondo motivo di nullità, conseguendone la formazione del “giudicato interno della sentenza di delibazione relativamente alla causa di nullità per esclusione della prole”. La Corte di merito, ancora, rigettava il ricorso incidentale e dichiarava compensate tra le parti le spese di lite.
Avverso la decisione della Corte d’Appello di Catania ha proposto impugnazione M.D.V., affidandosi a dieci motivi. Resiste con controricorso A.S.. La ricorrente ha pure depositato memoria.
Motivi della decisione
Occorre premettere che l’odierna ricorrente ha domandato riunirsi il presente giudizio a quello pendente tra le stesse parti ed avente ad oggetto la delibazione della sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità del matrimonio concordatario da loro contratto. La Corte ritiene però, stante la diversità di oggetto dei due giudizi (cfr. Cass. sez. 1, sent. 5.3.2012, n. 3378; Cass. sez. 1, sent. 6.3.2003, n. 3339), che non sussistano i presupposti per disporre la domandata riunione.
Inoltre, in data odierna, questa Corte è stata investita anche della decisione proprio dell’appena ricordato ricorso n. 27080 del 2014, pendente tra le stesse parti ed avente ad oggetto la delibazione della sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità del matrimonio concordatario da loro contratto. La Corte ha deciso di dichiarare l’inammissibilità del ricorso proposto da M.D.V., con la conseguenza che la dichiarazione di nullità del matrimonio contratto dalle parti è divenuta definitiva. Tanto anticipato.
1.1. – Con il primo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente contesta la violazione o falsa applicazionedell’art. 337 c.p.c., perché la Corte d’Appello, essendo ancora pendente il giudizio relativo alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, avrebbe dovuto eventualmente sospendere il presente giudizio, relativo alla separazione personale dei coniugi, ma non doveva dichiararne cessata la materia del contendere.
1.2. – Con il secondo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la M. afferma la nullità della sentenza della Corte d’Appello in materia di separazione giudiziale dei coniugi, per vizio procedimentale, avendo essa attribuito autorità di cosa giudicata alla sentenza che aveva riconosciuto gli effetti civili alla dichiarazione ecclesiastica di nullità matrimoniale, con decisione che era però stata sottoposta ad impugnazione.
1.3. – Con il terzo motivo di ricorso, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto di cui agliartt. 324, 329 e 336 c.p.c., per avere la Corte d’Appello creduto di poter ritenere accertata la formazione del giudicato parziale in relazione alla sentenza di delibazione.
1.4. – Con il quarto motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’impugnante afferma la nullità della sentenza della Corte d’Appello per vizio procedimentale, ancora per avere la Corte d’Appello attribuito autorità di cosa giudicata parziale ad una sentenza ancora oggetto di impugnazione.
1.5. – Con il quinto motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente contesta la violazione della legge di revisione del Concordato lateranense, art. 8, comma 2, lett. b), nonchè della L. n. 219 del 1995, art. 64, lett. F), per avere la Corte etnea pronunciato quando ancora pendeva giudizio circa la sentenza di delibazione e prima, pertanto, che divenisse definitiva la statuizione che tale sentenza non produce effetti contrari all’ordine pubblico.
1.6. – Con il sesto motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la ricorrente afferma la nullità della impugnata sentenza della Corte d’Appello per vizio procedimenta-le, per avere la Corte d’Appello conferito esecutività ad una sentenza non ancora divenuta definitiva.
1.7. – Con il settimo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente critica l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per non essersi la Corte d’Appello pronunciata sulla “irrilevanza della causa di addebito riconosciuta dal Tribunale”.
1.8. – Con l’ottavo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente contesta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte d’Appello omesso di pronunciare in ordine alla insussistenza della causa di addebito riconosciuta dal Tribunale, non procedendo al riesame delle risultanze delle prove testimoniali raccolte, da cui emergeva la conoscenza da parte del marito dei problemi di salute del figlio dell’impugnante già precedentemente rispetto alla celebrazione del matrimonio.
1.9. – Con il nono motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente censura l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte territoriale omesso di pronunciare in ordine allo stato di bisogno in cui versa l’odierna ricorrente, e non averle pertanto riconosciuto il diritto ad un assegno di mantenimento o, almeno, di una contribuzione alimentare.
1.10. – Con il decimo motivo di impugnazione, proposto ancora ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente contesta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte d’Appello ritenuto di non pronunciare sulla contestazione operata dalla M. circa la decisione del Tribunale di ritenere ammissibile a fini probatori un documento, relativo allo stato di salute del figlio, all’epoca minorenne, acquisito in violazione della vigente normativa sulla privacy.
Le critiche proposte dalla ricorrente in relazione alla valutazione operata dalla Corte d’Appello, la quale ha ritenuto essersi formato il giudicato sulla sentenza di delibazione della decisione ecclesiastica di nullità matrimoniale, pur pendendo impugnazione, appaiono condivisibili. La Corte d’Appello ha rilevato che la nullità del matrimonio concordatario era stata pronunciata dai giudici ecclesiastici per due motivi, l’esclusione della prole da parte di entrambi i coniugi ed il dolo ordito dalla M. nei confronti dell’ A. nel nascondergli le condizioni di salute del figlio avuto da precedente relazione. La Corte territoriale ha giudicato che avendo la odierna ricorrente, nel ricorso per cassazione relativo al giudizio di delibazione, contestato soltanto la valutazione dalla Corte d’Appello in relazione al secondo motivo, di cui ha ritenuto superfluo l’esame, si fosse comunque formato il giudicato circa il riconoscimento degli effetti civili alla decisione ecclesiastica d’invalidità matrimoniale, a seguito dell’omessa contestazione del primo motivo di nullità, consistente nell’esclusione bilaterale della prole.
Invero non si individua nell’ordinamento processuale vigente una previsione generale che attribuisca al giudice la facoltà di interpretare una decisione, non ancora definitiva perché sottoposta ad impugnazione, al fine di valutare l’eventuale intervenuta formazione del giudicato sulla stessa proprio in relazione a questione ancora controversa. In sostanza la Corte territoriale si è sostituita al giudice di legittimità, effettuando una valutazione che competeva invece alla Suprema Corte. Completezza impone poi di ricordare pure che, nel caso di specie, avendo la Suprema Corte dovuto esaminare in pari data anche il diverso giudizio avente ad oggetto la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio contratto dalle parti, quel giudizio la M. aveva comunque domandato la rivalutazione di tutti i presupposti per il riconoscimento degli effetti civili alla sentenza ecclesiastica, a seguito di una pronuncia che escludesse la possibilità della delibazione in relazione al preteso dolo della moglie nei confronti del marito, per contrasto con l’ordine pubblico italiano.
Occorre ancora ricordare che il riconoscimento degli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio non è precluso dalla preventiva istaurazione di un giudizio di separazione personale tra gli stessi coniugi dinanzi al giudice civile, perché il giudizio e la sentenza di separazione personale hanno petitum e causa petendi, nonché conseguenze giuridiche, del tutto diverse rispetto a quelle del giudizio e della sentenza che dichiarano la nullità del matrimonio (cfr. Cass. sez. 1, sent. 5.3.2012, n. 3378; Cass. sez. 1, sent. 6.3.2003, n. 3339).
Consolidata e condivisibile giurisprudenza di legittimità, cui si intende pertanto assicurare continuità, afferma poi che, qualora in pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi siano riconosciuti gli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, con decisione passata in giudicato, il giudizio di separazione viene meno per la cessazione della materia del contendere (Cass. sez. 1, sent. 10.7.2013, n. 17094; Cass. sez. 1, sent. 13.10.2010, n. 399).
Occorre in proposito ribadire che l’innanzi indicato giudizio n. 27080 del 2014, relativo alla delibazione della sentenza canonica che ha dichiarato l’invalidità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, si è concluso con il definitivo riconoscimento degli effetti civili alla decisione ecclesiastica di nullità matrimoniale. In conseguenza, deve essere pronunciata la cessazione della materia del contendere nel presente giudizio di separazione personale dei coniugi.
I residui motivi di ricorso rimangono assorbiti.
Tenuto conto della natura della decisione adottata, della vicenda processuale, nonchè della peculiarità delle questioni esaminate, appare corretto disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso proposto da M.D.V.. Dispone l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.
Dispone, ai sensi delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52, comma 5, che, in caso di riproduzione per la diffusione della presente decisione, le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti menzionati siano omessi.

Matrimonio celebrato all’estero e non trascritto in Italia – Proposizione di ricorso ex art. 337 bis c.c. da uno dei coniugi onde ottenere la regolamentazione completa dei rapporti genitori/figli – Inammissibilità

Tribunale di Mantova, Sez. I Civile, 14/11/2017. Pres., est.
Bernardi.
TRIBUNALE DI MANTOVA
Sezione Prima Civile
Il Tribunale diMantova, in persona dei Sigg. magistrati:
Dott. Mauro Bernardi Presidente Rel.
Dott. ssa Alessandra Venturini Giudice
Dott. Luigi Pagliuca Giudice
– letto il ricorso n. 4345/17 R.G. Vol. presentato da Z. B. nei confronti di
A. N.;
– osservato che l’istante, premettendo di avere contratto matrimonio in
Marocco nel 2008 -non trascritto in Italia- ha richiesto, ex art. 337 bis
c.c., che il Tribunale disponga l’affido a sé, in via esclusiva, dei figli nati
dal matrimonio, che il padre possa vedere i figli solo con modalità
protette ed inoltre che venga determinato l’assegno di mantenimento per
i figli da porsi a carico del padre;
– considerato che l’istante ha chiesto che il Tribunale regoli
completamente i rapporti genitori/figli ciò che però non è ammissibile
finché permanga il vincolo del matrimonio, osservandosi che a nulla
rileva la circostanza che il matrimonio delle parti non sia stato trascritto
in Italia atteso che tale formalità non ha natura costitutiva ma
meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sè
valido (anche per il nostro ordinamento) sulla base del principio locus
regit actum (cfr. Cass. 18-7-2013 n. 17620; Cass. 19-10-1998 n. 10351;
Cass. 28-04-1990 n. 3599; Cass. S.U. 28-10-1985 n. 5292) sicché alla
fattispecie non può trovare applicazione la disciplina di cui agli artt. 337
bis e segg. c.c. che presuppone invece la separazione, il divorzio, la nullità
o l’annullamento del matrimonio ovvero la nascita di figli fuori dal
matrimonio;
ritenuto che appare superflua l’instaurazione del contraddittorio
trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del
giudizio (cfr. Cass. S.U. 16-7-2012 n. 12104) atteso che le considerazioni
in rito non sono superabili e che la definizione de plano è conforme al
principio della durata ragionevole del processo;
P.T.M.
dichiara inammissibile l’istanza.
Mantova, 14-11-2017.
IL PRESIDENTE
Dott. Mauro Bernardi

Matrimonio c.d. concordatario – Trascrizione tempestiva ma incompleta dell’atto di matrimonio – Convenzione patrimoniale – Omessa trascrizione – Trascrizione tardiva della convenzione – Effetti tra le parti

Cass. Civile, Sez. 1 – , Sentenza n. 22594 del 27/09/2017.
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16418/2015 proposto da:
D.M.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile
della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuliani
Lorenzo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
R.F., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile
della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Di
Liberatore Luigi, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 505/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,
depositata il 09/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
29/05/2017 dal cons. DOGLIOTTIMASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale FEDERICO
Sorrentino, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Giuliani Lorenzo che ha chiesto
l’accoglimento del ricorso;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato Di Liberatore Luigi che ha
chiesto il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione ritualmente notificato, R.F. conveniva in giudizio
D.M.M., ex coniuge, perchè si dichiarasse che era simulato un atto
pubblico di compravendita, nella parte in cui si indicava, quale
acquirente di immobile (rogito notaio C., (*)), la D.M.; che il prezzo di
acquisto era stato pagato da esso R. con i proventi della propria attività
imprenditoriale; che l’immobile era di sua proprietà esclusiva; in via
subordinata, chiedeva che questo fosse dichiarato di proprietà di
entrambi i coniugi, in quanto parte della comunione de residuo al
momento della separazione personale tra essi. Affermava l’attore che la
D.M. aveva precisato al notaio rogante di trovarsi in regime di comunione
legale.
Costituitosi il contradditorio, la D.M. eccepiva che l’acquisto
dell’immobile era stato effettuato in regime di separazione dei beni e con
proprie disponibilità economiche (in particolare la provvista era stata a
lei trasmessa dalla madre,a seguito della vendita di un suo
appartamento); evidenziava altresì che i coniugi in data 14/01/2002
(dopo la loro separazione personale) avevano sottoscritto una
dichiarazione d’impegno, con la quale chiarivano di trovarsi in regime di
separazione dei beni e di non avere in proprietà comune alcun immobile.
Il Tribunale di Teramo-sezione distaccata di Atri, con sentenza in data
15/05/2008,rigettava la domanda del R., ritenendo comprovato che
l’acquisto dell’immobile era stato effettuato con denaro della D.M. e in
regime di separazione dei beni tra i coniugi.
Proponeva appello il R.. Costituitosi il contraddittorio, l’appellata ne
chiedeva il rigetto.
La Corte d’Appello de l’Aquila, con sentenza in data 09/04/2015,
accoglieva l’appello ed affermava che l’immobile era stato acquistato in
regime di comunione legale dei beni, precisando che i coniugi avevano
bensì dichiarato in forma scritta davanti al ministro del culto cattolico
che aveva celebrato il matrimonio concordatario, la loro scelta del regime
di separazione dei beni, ma la relativa annotazione non compariva nella
copia dell’atto di matrimonio inviato all’ufficiale dello stato civile per la
trascrizione.
Ricorre per cassazione l’appellata.
Resiste con controricorso l’appellante.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente osservato che il ricorso appare ammissibile: sono
chiaramente indicati le violazioni di legge e i vizi di motivazione (e non
rileva che nel medesimo motivo, ci si riferisca ad entrambi i profili); le
violazioni di legge sono trattate adeguatamente.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta violazione degli artt. 162 e 163
c.c., e della L. n. 121 del 1985, art. 8; insufficiente e contraddittoria
motivazione, precisando che al matrimonio concordatario sono
riconosciuti effetti civili al momento della celebrazione, nonostante
trascrizione tardiva, e che tale principio opera anche con riferimento
all’eventuale dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni,
per cui l’istanza del R. in data 21/11/2001 di effettuare l’annotazione di
scelta del regime di separazione dei beni a margine dell’atto di
matrimonio, ha attribuito alla dichiarazione stessa efficacia retroattiva
fino alla celebrazione del matrimonio stesso. Nessuna rilevanza si doveva
attribuire alla dichiarazione della D.M. di trovarsi in regime di
comunione dei beni, davanti al notaio rogante.
Con il secondo, violazione dell’art. 112 c.p.c., ravvisando una non
corrispondenza tra richiesto e pronunciato, essendosi limitato l’odierno
resistente, nel giudizio d’appello, a chiedere l’accoglimento della sua
domanda di simulazione, e in subordine di dichiarazione della
sussistenza del regime di comunione de residuo tra i coniugi.
Con il terzo, violazione dell’art. 2909 c.c., nonchè omessa motivazione,
eccependo l’esistenza di un giudicato interno, in quanto l’appellante non
avrebbe impugnato l’affermazione del primo giudice circa la sussistenza
del regime di separazione dei beni.
Pacifici i fatti di causa.
I coniugi celebrarono il matrimonio secondo il rito concordatario in data
20/07/1985 e dichiararono al ministro del culto cattolico officiante, alla
presenza di due testimoni, la loro volontà di scegliere il regime di
separazione dei beni. L’atto di matrimonio fu trasmesso all’ufficiale dello
stato civile italiano e regolarmente trascritto, privo peraltro
dell’annotazione relativa al regime. Questa fu apposta su richiesta del R.
soltanto il 15/10/2001, dopo la separazione dei coniugi. In data
16/12/1993 era stato rogato atto di compravendita di terreno, ove era
indicata come acquirente la D.M. che dichiarava di trovarsi in regime di
comunione dei beni con il marito.
Afferma la ricorrente, richiamando la L. n. 121 del 1985, art. 8, a seguito
della revisione del concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, con gli
accordi di Villa Madama del 1984, che al matrimonio con il rito
concordatario vengono riconosciuti effetti civili dal momento della
celebrazione, anche se l’ufficiale dello stato civile abbia effettuato la
trascrizione oltre il termine prescritto. L’argomentazione non ha pregio,
in quanto non si controverte sulla trascrizione del matrimonio,
regolarmente effettuata, ma sulla mancata annotazione della scelta di
regime,a margine dell’atto trascritto.
L’art. 162 c.c., precisa che le convenzioni matrimoniali (necessariamente
attinenti al regime patrimoniale del coniugi) sono stipulate con atto
pubblico sotto pena di nullità. E si tratterà, almeno di regola, di atto
pubblico notarile (anche se l’art. 1382 c.c. 1865, esplicitamente parlava di
“contratti matrimoniali” – peraltro non del tutto coincidenti con le
“convenzioni” – da stipularsi con atto pubblico davanti al notaio). Esse
non potrebbero dunque stipularsi davanti all’ufficiale dello stato civile.
Eccezioni al principio sono contenuti nella L. n. 151 del 1975, art. 228,
(riforma del diritto di famiglia) per cui ciascun coniuge poteva escludere
l’applicazione del nuovo regime legale di comunione dei beni, con
dichiarazione entro il 20/09/1975 (termine poi variamente prorogato)
davanti al notaio o all’ufficiale dello stato civile; nonchè nell’art. 167 c.c.,
per cui il fondo patrimoniale può essere costituito da un terzo, anche per
testamento (pur essendo necessario l’accettazione dei coniugi con atto
pubblico). Eccezioni per,-altro più apparenti che reali, perchè si tratta di
atti unilaterali che incidono sul regime patrimoniale dei coniugi.
Ma la regola dell’atto pubblico notarile soffre un’altra eccezione
contenuta nell’art. 162 c.c., comma 2, per cui la scelta del regime può
essere dichiarata anche “nell’atto di matrimonio”: previsione dettata
all’evidenza da ragioni di semplificazione (la scelta del regime di
separazione dei beni, totalmente regolato dal codice civile, senza ulteriori
clausole o specificazioni). All’entrata in vigore della norma, era stato
espresso qualche dubbio circa la scelta, se questa dovesse comunque
effettuarsi (anche per i matrimoni concordatari) davanti all’ufficiale dello
stato civile ovvero pure davanti al ministro del culto cattolico officiante.
Giurisprudenza di merito e dottrina risposero, in netta prevalenza, in
senso positivo. E la stessa L. n. 121 del 1985, che recepisce, come si
diceva, l’accordo di revisione del Concordato del 1929, precisa, all’art. 8,
che nell’atto di matrimonio (canonico) potranno essere inserite le
dichiarazioni dei coniugi consentite dalla legge civile. Sussiste, anche al
riguardo, una sorta di delega dello Stato italiano al sacerdote officiante
che svolge il ruolo dell’ufficiale dello stato civile, e dunque una funzione
pubblica.
In generale, le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, sia
prima che dopo la celebrazione del matrimonio, e tuttavia non possono
essere opposte a terzi, se non vi è annotazione, a margine dell’atto di
matrimonio, della data, del notaio rogante, della generalità dei contraenti
ovvero della scelta del regime (di separazione dei beni).
Chiarisce dunque la previsione (e al riguardo la giurisprudenza è ormai
ampiamente consolidata: per tutte Cass. n. 8824 del 1987 e numerosa
giurisprudenza successiva; v. pure Corte cost. n. 111 del 1995) che solo
con l’annotazione il regime prescelto e dunque le convenzioni stipulate
(anche atipiche) sono opponibili ai terzi, i quali vengono dunque a
conoscenza delle convenzioni e del regime relativo attraverso
l’annotazione dell’atto di matrimonio contenuto nei registri pubblici dello
stato civile.
Ma non si potrebbe certo parlare di invalidità delle convenzioni o della
scelta del regime nei rapporti interni tra i coniugi, ove l’atto di
matrimonio, come nella specie, sia stato regolarmente trascritto, ma
privo dell’annotazione del regime. Ciò varrà per le convenzioni
matrimoniali, nonchè per la scelta del regime (di separazione), effettuata
davanti all’ufficiale dello stato civile (per il matrimonio civile) e con
l’equiparazione della dichiarazione davanti al sacerdote, già affermata
dalla giurisprudenza di merito e poi confermata da una prassi assai
consolidata ma pure da un riscontro normativo chiaro ed esplicito già
indicato (L. n. 121 del 1985, art. 8). Non sussiste ragione alcuna per
escludere, nei rapporti interni tra le parti, la validità di una scelta
comune, espressione della loro libera volontà.
E’ da ritenere dunque che la scelta di regime di separazione, espressa in
forma scritta, alla presenza di due testimoni, davanti al ministro del culto
cattolico officiante, ancorchè non annotata nell’atto di matrimonio
trascritto nei registri dello stato civile, nei rapporti interni tra i coniugi
mantenga la sua validità.
Nè si potrebbe sostenere che sia sufficiente una dichiarazione unilaterale
di un coniuge davanti al notaio per effettuare una modifica di regime (che
tale sarebbe da separazione a comunione di beni). La stessa
giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2954 del 2003) ha chiarito che
non può modificarsi il regime patrimoniale con atto unilaterale di un
coniuge, e che non potrebbe escludersi un bene singolo dal regime
prescelto, senza una modifica generale del regime stesso, nelle forme di
cui all’art. 162 c.c. Dunque nessuna rilevanza avrà la dichiarazione della
D.M. davanti al notaio circa il regime di comunione, in occasione della
compravendita de qua.
Va pertanto accolto, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso,
assorbiti gli altri. Va cassato il provvedimento impugnato. Non dovendosi
effettuare ulteriori accertamenti di fatto, può pronunciarsi nel merito,
rigettando la domanda di R.F., e precisandosi che le parti si trovavano,
quanto ai rapporti interni, in regime di separazione dei beni.
La complessità della questione e la sua relativa novità richiedono la
compensazione delle spese per ogni grado di giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso,
assorbiti gli altri; decidendo nel merito, rigetta la domanda di R.F.;
compensa tra le parti le spese per ogni grado di giudizio.
Così deciso in Roma, il 29maggio 2017.
Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2017.