TRASCRIZIONE di Gianfranco Dosi

I Trascrizione e pubblicità
Il sistema della “pubblicità” dei fatti giuridici è lo strumento che l’ordinamento appresta per rendere certi nei confronti dei terzi gli avvenimenti giuridici. A carico delle parti di un rapporto giuridico la legge pone l’obbligo di eseguire determinati oneri che producono l’effetto di dare pubblicità al rapporto giuridico. I mezzi di pubblicità legale sono predisposti, perciò, per rendere facilmente conoscibili determinati fatti o atti giuridici, dando agli interessati la possibilità oggettiva di venirne a conoscenza, in modo da assicurare la certezza dei rapporti giuridici.
L’ordinamento giuridico, tuttavia, non attribuisce una identica funzione a tutti i tipi esistenti di pubblicità dei fatti giuridici individuando effetti diversi in relazione ai quali si parla tradizionalmente di pubblicità notizia, di pubblicità dichiarativa e di pubblicità costitutiva volendo riferirsi con queste tre espressioni a diverse funzioni di tutela assolta dalla pubblicità.
Così, accanto alla funzione generica di informare – comune ai tre diversi tipi di pubblicità – la pubblicità ha in molti casi la funzione di dare conoscenza legale dei fatti per i quali è prevista, in modo tale che una volta effettuata la pubblicità nelle forme di legge, il fatto si considera conosciuto e nessuno può legittimamente ignorarlo, quand’anche non ne avesse avuto effettiva conoscenza (pubblicità notizia). Si tratta in questo caso della funzione più ovvia della pubblicità posta a tutela delle certezza dei rapporti giuridici. La pubblicità notizia si limita, perciò, a dare notizia di deter¬minati fatti, senza che la sua omissione impedisca ai medesimi di produrre i loro effetti giuridici o ne determini l’invalidità.
La trascrizione (degli atti di stato civile) è, appunto, uno dei mezzi più importanti di pubblicità noti¬zia previsti dalla legge. Ne sono altri esempi le pubblicazioni matrimoniali (art. 93) e l’annotazione a margine dell’atto di nascita di provvedimenti sullo status.
In tutti questi casi l’atto pubblicizzato nel modo previsto ha piena validità senza che il terzo possa dichiarare di non averne avuto conoscenza. Ove l’atto non fosse pubblicizzato ha ugualmente va¬lore ma sarà l’interessato che deve dimostrare che il terzo ne era comunque a conoscenza.
In altri casi (trascrizione immobiliare, annotazione delle convenzioni matrimoniali, registrazione dei contratti di convivenza, registro delle imprese) la funzione della pubblicità è quella, cosiddet¬ta dichiarativa, di rendere opponibili determinati fatti solo se sono fatti oggetto di pubblicità. In queste ipotesi, quindi, lo strumento giuridico pubblicitario predisposto dall’ordinamento non ha lo scopo generico di assicurare la conoscibilità legale dell’atto (che quindi è sempre opponibile a tutti), ma proprio la sua opponibilità (cioè la possibilità di farlo valere nei confronti di determinati terzi). Il mancato assolvimento della pubblicità rende perciò l’atto inopponibile (nei confronti dei terzi o di taluni terzi), pur restando valido ed efficace. L’omissione della pubblicizzazione dell’atto, pertanto, in questi casi impedisce che il fatto possa produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi.
In altre ipotesi ancora (il più noto dei quali è l’iscrizione di ipoteca) la funzione della pubblicità è quella, chiamata costitutiva, di garantire l’esistenza in sé dell’atto, nel senso che senza l’osservan¬za della forma di pubblicità voluta dalla legge l’atto non produce effetti. Qui la pubblicità è requisito necessario affinché la fattispecie si perfezioni, sicché in sua mancanza l’atto è privo di validità e non produce effetti nei confronti di chiunque (quindi né tra le parti del negozio giuridico, né verso i terzi). Essa è, dunque, un vero e proprio obbligo ai fini dell’efficacia e della validità dell’atto.
La distinzione nelle tre forme tradizionali di pubblicità notizia, pubblicità dichiarativa e pubblicità costitutiva è quindi sostanzialmente una distinzione degli effetti, che conseguono alla sua omissione. La mancanza della pubblicità notizia (per esempio determinata dall’assenza o dal ritardo dell’annotazione del divorzio nell’atto di matrimonio) non rende certo l’interessato ancora legato da vincolo matrimoniale e ove di tale omissione un terzo dovesse aver approfittato, consente all’interessato di provare che il terzo ne era comunque a conoscenza. La mancanza degli adempimenti di pubblicità dichiarativa (per esempio l’omissione della annotazione del fondo patri¬moniale) rende l’atto inopponibile ai terzi. La mancanza di pubblicità costitutiva non fa acquistare alcuna rilevanza all’atto realizzato senza l’adempimento prescritto.
II Le formalità di formazione gli atti di stato civile
a) Iscrizioni, trascrizioni e annotazioni
L’ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) attribuisce all’art. 5 all’ufficiale di stato civile la funzione primaria di formare tutti gli atti concernenti lo stato civile (cittadinanza, nascita, matrimonio, morte, unione civile), nonché quella di archiviarli, conservarli, aggiornarli, rilasciarne copie e verificare le dichiarazioni delle parti.2
La formazione e la redazione degli atti di stato civile avviene obbligatoriamente (art. 12 DPR 396/2000) secondo modalità e formule stabilite con decreto del Ministero (attualmente il decreto che contiene tutte le formule è il decreto del 5 aprile 2002 e successive modificazioni). Gli atti di nascita, di morte, di matrimonio e di unione civile, sono formati in genere nel Comune in cui tali fatti accadono ma se il Comune in cui l’atto è formato è diverso da quello di residenza degli interessati, gli atti devono essere comunicati dall’ufficiale di stato civile che li forma all’ufficiale di stato civile del Comune di residenza degli interessati (art. 12 DPR 396/2000).
La redazione degli atti di stato civile (nel Comune o comunque relativi ai soggetti residenti avviene principalmente attraverso tre diverse formalità.
Il primo tipo di formalità è l’iscrizione dell’atto cioè in sostanza e prevalentemente la registrazio¬ne che l’ufficiale di stato civile fa dell’atto che avviene davanti a lui (art. 63, primo comma DPR 396/2000 per l’atto di matrimonio).
Il secondo tipo di formalità – omogeneo all’iscrizione – è la trascrizione dell’atto, cioè la registra¬zione che l’ufficiale di stato civile fa di un atto di un atto redatto da altri (art. 63, secondo comma, DPR 396/2000 che indica i casi trascrizione dell’atto di matrimonio celebrato per esempio dai ministri del culto o in un Comune diverso da quello in cui sono state fatte le pubblicazioni o cele¬brato all’estero ovvero la nullità o il divorzio pronunciati all’estero e la delibazione delle sentenze di nullità ecclesiastiche.
Il terzo tipo di formalità è l’annotazione con cui si segnalano a margine dell’atto eventi particolari. L’atto di nascita è formato e conservato nel Comune in cui avviene la nascita (art. 30, comma 4 DPR 396/2000) e vi si annotano gli eventi indicati nell’art. 49 (adozione, tutela, interdizione, am¬ministrazione di sostegno, nullità del matrimonio, atti di riconoscimento, sentenze sulla filiazione, provvedimenti di modifica del nome e cognome, atti di morte e altri). L’atto di matrimonio si forma nel comune in cui avviene la celebrazione (art. 63) e a margine di esso vi si annotano gli eventi indicati nell’art. 69 (convenzioni matrimoniali, ricorsi di divorzio, sentenze di nullità, di divorzio, di separazione, omologa della separazione, dichiarazione di riconciliazione).
b) Iscrizioni e trascrizioni degli atti di matrimonio
Secondo l’art. 63 dell’Ordinamento di stato civile dedicato alle “iscrizioni” e alle “trascrizioni” rela¬tivamente agli atti di matrimonio, si prevede che
1. Negli archivi di cui all’articolo 10, l’ufficiale dello stato civile iscrive:
a) gli atti dei matrimoni celebrati davanti a lui;
b) gli atti dei matrimoni celebrati fuori dalla casa comunale a norma dell’articolo 110 del codice civile;
c) gli atti dei matrimoni celebrati in caso di imminente pericolo di vita di uno degli sposi, ai sensi dell’articolo 101 del codice civile;
d) gli atti dei matrimoni celebrati per richiesta, ai sensi dell’articolo 109 del codice civile;
e) gli atti dei matrimoni celebrati per procura;
f) gli atti del matrimonio ai quali, per la particolarità del caso, non si adattano le formule stabilite;
g) le dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione, ai sensi dell’articolo 157 del codice civile.
g-ter) gli accordi di separazione personale, di scioglimento o di cessazione degli ef¬fetti civili del matrimonio ricevuti dall’ufficiale dello stato civile, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio;
2. Nei medesimi archivi l’ufficiale dello stato civile trascrive:
a) gli atti dei matrimoni celebrati nello stesso comune davanti ai ministri di culto;
b) gli atti dei matrimoni, celebrati ai sensi dell’articolo 109 del codice civile, trasmes¬si all’ufficiale dello stato civile dei comuni di residenza degli sposi;
c) gli atti dei matrimoni celebrati all’estero;
d) gli atti dei matrimoni celebrati dinanzi all’autorità diplomatica o consolare stranie¬ra in Italia fra cittadini stranieri quando esistono convenzioni in materia;
e) gli atti e i processi verbali dei matrimoni celebrati in caso di imminente pericolo di vita di uno degli sposi, a norma degli articoli 204, 208 e 834 del codice della navigazione;
f) le sentenze dalle quali risulta la esistenza del matrimonio;
g) le sentenze e gli altri atti con cui si pronuncia all’estero la nullità, lo scioglimento, la cessazione degli effetti civili di un matrimonio ovvero si rettifica in qualsiasi modo un atto di matrimonio già iscritto o trascritto negli archivi di cui all’articolo 10;
h) le sentenze della corte di appello previste dall’articolo 17 della legge 27 maggio 1929, n.847, e dall’articolo 8, comma 2, dell’accordo del 18 febbraio 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede ratificato dalla legge 25 marzo 1985, n.121;
h-bis) gli accordi raggiunti a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero autorizzati, conclusi tra coniugi al fine di raggiungere una so¬luzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.
3. Gli atti indicati nelle lettere a) e b) del comma 2 devono essere trascritti per intero.
c) Le annotazioni negli atti di nascita
Vanno considerate forme di pubblicità notizia le annotazioni a margine dell’atto di nascita previste dalla legge in caso di provvedimenti relativi allo status delle persone.
Si pensi per esempio ai provvedimenti di adozione di maggiorenni e di minori di età. A tale proposi¬to l’art. 314 c.c. (per l’adozione di maggiorenni e di minori in casi particolari ex art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184) prescrive che “La sentenza definitiva che pronuncia l’adozione è trascritta a cura del cancelliere del tribunale competente, entro il decimo giorno successivo a quello della relativa comunicazione, da effettuarsi non oltre cinque giorni dal deposito, da parte del cancelliere del giudice dell’impugnazione, su apposito registro e comunicata all’ufficiale di stato civile per l’an¬notazione a margine dell’atto di nascita dell’adottato. Con la procedura di cui al primo comma deve essere altresì trascritta ed annotata la sentenza di revoca della adozione, passata in giudicato”.
Per l’adozione dei minori di età dichiarati in stato di adottabilità l’art. 26, quarto comma, della leg¬ge 4 maggio 1983, n. 184 prescrive che “La sentenza che pronuncia l’adozione, divenuta definitiva, è immediatamente trascritta nel registro di cui all’articolo 18 e comunicata all’ufficiale dello stato civile che la annota a margine dell’atto di nascita dell’adottato”.
Per le tutele l’ultimo comma dell’art. 383 c.c. prescrive che “Dell’apertura e della chiusura della tu¬tela il cancelliere dà comunicazione entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile per l’annotazione in margine all’atto di nascita del minore”.
Per quanto concerne l’interdizione l’art. 423 del codice civile prevede che “Il decreto di nomina del tutore o del curatore provvisorio e la sentenza d’interdizione o d’inabilitazione devono essere im¬mediatamente annotati a cura del cancelliere nell’apposito registro e comunicati entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita”.
Per quanto riguarda l’amministrazione di sostegno l’art. 405 prescrive all’ultimo comma che “Il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno, il decreto di chiusura ed ogni altro provvedi¬mento assunto dal giudice tutelare nel corso dell’amministrazione di sostegno devono essere im¬mediatamente annotati a cura del cancelliere nell’apposito registro. Il decreto di apertura dell’am¬ministrazione di sostegno e il decreto di chiusura devono essere comunicati, entro dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita del beneficiario. Se la durata dell’incarico è a tempo determinato, le annotazioni devono essere cancellate alla scadenza del termine indicato nel decreto di apertura o in quello eventuale di proroga”.
L’art. 49 bis disp. att. cod. civ. indica il contenuto delle annotazioni che vanno effettuate a cura del Cancelliere nel registro delle amministrazioni di sostegno.
L’art. 10 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 e successive modificazioni prescrive che “La sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, quando sia passata in giudicato, deve essere trasmessa in copia autentica, a cura del cancelliere del tribunale o della Corte che l’ha emessa, all’ufficiale dello stato civile del comune in cui il matrimonio fu trascritto, per le annotazioni…”.Cass. civ. Sez. I, 8 luglio 1977, n. 3038 ha chiarito che tutti gli effetti della sentenza di divorzio – sia quelli personali che quelli patrimoniali – si producono tra le parti, i loro eredi o aventi causa, dal momento del suo passaggio in giudicato, secondo i principi generali con¬tenuti negli artt 2908 e 2909 Cod. civ., mentre l’annotazione (o meglio, la trascrizione) nei registri dello stato civile, a norma dell’art. 10 della legge n. 898 del 1970, attiene unicamente agli effetti erga omnes della pronuncia stessa, in considerazione dell’efficacia non costitutiva, dello status delle persone fisiche, che è propria dei registri dello stato civile.
E così per molti altri provvedimenti sullo status.
Come conseguenza delle disposizioni sopra indicate e di altre che prevedono analoghi incombenti, il DPR 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) all’art. 49 prevede l’annotazione negli atti di nascita dei provvedimenti sullo status, precisando che:
Negli atti di nascita si annotano:
a) i provvedimenti di adozione e di revoca;
b) i provvedimenti di revoca o di estinzione dell’affiliazione;
c) le comunicazioni di apertura e di chiusura della tutela, eccettuati i casi di interdi¬zione legale;
d) i decreti di nomina e di revoca del tutore o del curatore provvisorio in pendenza del giudizio di interdizione o di inabilitazione;
e) le sentenze di interdizione o di inabilitazione e quelle di revoca;
f) gli atti di matrimonio e le sentenze dalle quali risulta l’esistenza del matrimonio;
g) le sentenze che pronunciano la nullità, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio;
g-bis) gli accordi raggiunti a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero autorizzati, conclusi tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di scioglimento del matrimonio;
g-ter) gli accordi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ricevuti dall’ufficiale dello stato civile;
h) i provvedimenti della corte di appello previsti nell’articolo 17 della legge 27 mag¬gio 1929, n. 847, e le sentenze con le quali si pronuncia l’annullamento della trascri¬zione di un matrimonio celebrato dinanzi ad un ministro di culto;
i) gli atti e i provvedimenti riguardanti l’acquisto, la perdita, la rinuncia o il riacquisto della cittadinanza italiana;
j) le sentenze dichiarative di assenza o di morte presunta e quelle che, a termini dell’articolo 67 del codice civile, dichiarano la esistenza delle persone di cui era stata dichiarata la morte presunta o ne accertano la morte;
k) gli atti di riconoscimento di filiazione naturale, in qualunque forma effettuati;
l) le domande di impugnazione del riconoscimento, quando ne è ordinata l’annota¬zione, e le relative sentenze di rigetto;
m) le sentenze che pronunciano la nullità o l’annullamento dell’atto di riconoscimen¬to;
n) le legittimazioni per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice e le sentenze che accolgono le relative impugnazioni;
o) le sentenze che dichiarano o disconoscono la filiazione legittima;
p) i provvedimenti che determinano il cambiamento o la modifica del nome cognome relativi alla persona cui l’atto si riferisce; quelli che determinano il cambiamento o la modifica del cognome relativi alla persona da cui l’intestatario dell’atto ha derivato il cognome, salvi i casi in cui il predetto intestatario, se maggiorenne, si sia avvalso della facoltà di poter mantenere il cognome precedentemente posseduto;
q) le sentenze relative al diritto di uso di uno pseudonimo;
r) gli atti di morte;
s) i provvedimenti di rettificazione che riguardano l’atto già iscritto o trascritto nei registri.
L’annotazione di tutti i provvedimenti sopra richiamati nell’atto di nascita assolve a funzioni di pubblicità notizia, dal momento che la legge non subordina alla pubblicità l’opponibilità dell’atto, che quindi è pienamente valido ed efficace anche ove non fosse trascritto o fosse trascritto dopo molto tempo, come spesso avviene.
d) Le annotazioni negli atti di matrimonio
Sono considerate ugualmente forme di pubblicità notizia le annotazioni a margine dell’atto di ma¬trimonio.
Secondo quanto dispone l’art. 69 dell’Ordinamento di stato civile, nell’atto di matrimonio si fa annotazione:
a) della trasmissione al ministro di culto della comunicazione dell’avvenuta trascri¬zione dell’atto di matrimonio da lui celebrato;
b) delle convenzioni matrimoniali, delle relative modificazioni, delle sentenze di omologazione di cui all’articolo 163 del codice civile, delle sentenze di separazione giudiziale dei beni di cui all’articolo 193 del codice civile, e della scelta della legge applicabile ai loro rapporti patrimoniali ai sensi dell’articolo 30, comma 1, della legge 31 maggio 1995, n. 218;
c) dei ricorsi per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, e delle relative pronunce;
d) delle sentenze, anche straniere, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio; di quelle che dichiarano efficace nello Stato la pronuncia straniera di nullità o di scioglimento del matrimonio; di quelle che dichiarano efficace nello Stato la pronuncia dell’autorità ecclesiastica di nullità del matrimonio; e di quelle che pronunciano la separazione personale dei coniugi o l’omologazione di quella consensuale;
d-bis) gli accordi raggiunti a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero autorizzati, conclusi tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimo¬nio, di scioglimento del matrimonio.
d-ter) degli accordi di separazione personale, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ricevuti dall’ufficiale dello stato civile;
e) delle sentenze con le quali si pronuncia l’annullamento della trascrizione dell’atto di matrimonio;
f) delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione;
g) delle sentenze dichiarative di assenza o di morte presunta di uno degli sposi e di quelle che dichiarano l’esistenza dello sposo di cui era stata dichiarata la morte presunta o ne accertano la morte;
h) dei provvedimenti che determinano il cambiamento o la modificazione del cogno¬me o del nome o di entrambi e dei provvedimenti di revoca relativi ad uno degli sposi;
i) dei provvedimenti di rettificazione.

III La trascrizione degli atti di stato civile formati all’estero
Il titolo IV dell’Ordinamento di stato civile (dall’articolo 15 all’articolo 20) si occupa degli atti dello stato civile formati all’estero.
Si prevede che le dichiarazioni di nascita e di morte relative a cittadini italiani nati o deceduti all’estero sono rese all’autorità consolare e che devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità locali competenti. In questi casi copia dell’atto è inviata immediatamente, a cura del dichiarante, all’autorità diplomatica o consolare.
Per quanto attiene al matrimonio si chiarisce all’artt. 16 che il matrimonio all’estero, quando i coniugi sono entrambi cittadini italiani o uno di essi è cittadino italiano e l’altro è cittadino stranie¬ro, può essere celebrato innanzi all’autorità diplomatica o consolare competente, oppure innanzi all’autorità locale secondo le leggi del luogo. In quest’ultimo caso una copia dell’atto è rimessa a cura degli interessati all’autorità diplomatica o consolare.
Secondo poi quanto prevede l’art. 17 l’autorità diplomatica o consolare trasmette ai fini della tra¬scrizione copia degli atti e dei provvedimenti relativi al cittadino italiano formati all’estero all’uffi¬ciale dello stato civile del comune in cui l’interessato ha o dichiara che intende stabilire la propria residenza, o a quello del comune di iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero o, in mancanza, a quello del comune di iscrizione o trascrizione dell’atto di nascita, ovvero, se egli è nato e residente all’estero, a quello del comune di nascita o di residenza della madre o del padre di lui, ovvero dell’avo materno o paterno. Se i coniugi risiedono in comuni diversi l’atto di matri¬monio è inviato ad entrambi i comuni. Nel caso in cui non è possibile provvedere con i criteri sopra indicati, l’interessato, su espresso invito dell’autorità diplomatica o consolare, dovrà indicare un comune a sua scelta.
Fondamentale è l’art. 18 (Casi di intrascrivibilità) in cui si prevede che “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”.
Su richiesta dei cittadini stranieri residenti in Italia – chiarisce poi l’art. 19 – possono essere trascritti, nel comune dove essi risiedono, gli atti dello stato civile che li riguardano formati all’estero. Tali atti devono essere presentati unitamente alla traduzione in lingua italiana e alla legalizzazione, ove prescritta, da parte della competente autorità straniera. Possono altresì esse¬re trascritti gli atti dei matrimoni celebrati fra cittadini stranieri dinanzi all’autorità diplomatica o consolare straniera in Italia, se ciò è consentito dalle convenzioni vigenti in materia con il Paese cui detta autorità appartiene.
IV La contrarietà all’ordine pubblico come limite di trascrivibilità degli atti di stato civile formati all’estero
Come si è visto, l’art. 18 dell’Ordinamento di stato civile prevede che “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”.
Lo stesso limite è previsto per il riconoscimento delle sentenze straniere3 sebbene nell’ambito delle norme di diritto internazionale privato (articoli 16 e 64 lett. g della legge 31 maggio 1995, n. 218; art. 24 lett. a del Regolamento n. 4/2009 e art. 22 lett. a e 23 lett. a del Regolamento n. 2201/2003) vale il principio dell’automatico riconoscimento della decisione straniera salvo il caso in cui la decisione da riconoscere sia contestata o debba essere oggetto di esecuzione.
Il tema del contrasto dell’atto di stato civile straniero o della sentenza straniera con i principi dell’ordine pubblico è molto vasto e si può rinviare alla voce apposita4.
In questa sede è però opportuno ricordare che la nozione civilistica di ordine pubblico ha due signi¬ficati diversi. Si parla di ordine pubblico interno allorché lo si considera come un limite di validità dell’autonomia privata, mentre si parla di ordine pubblico internazionale – che è pur sempre, però, una nozione di carattere interno e non certo internazionale – allorché lo si considera come limite all’applicazione di norme o sentenze straniere.
La nozione di ordine pubblico internazionale è relativamente nuova nel nostro sistema giuridico e si deve soprattutto alla disciplina di diritto internazionale privato introdotta nel 1995 con la legge 31 maggio 1995, n. 218. Prima di tale normativa – che ha mutato radicalmente l’ottica dei rapporti tra il nostro ordinamento e quelli stranieri mettendo tutti gli ordinamenti nazionali su uno stesso piano – era concepibile solo una nozione interna di ordine pubblico alla quale appunto faceva rife¬rimento il previgente art. 797 c.p.c. (dove si prevedeva che la delibazione della sentenza straniera era ammessa solo non contiene “disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”). Ora che le sentenze e i provvedimenti stranieri hanno efficacia in Italia “senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento” (articoli 64 e 66 legge 218/95), lo sbarramento all’ingresso di provvedimenti e norme straniere è regolato da principi di più ampia portata. Si tratta dei principi fondamentali della nostra Costituzione e in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, ri¬spondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che in¬formano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (Cass. civ. Sez. lavoro, 26 novembre 2004, n. 22332; Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2007, n. 10215). Sul concetto di ordine pubblico internazionale rimane fondamentale Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2002 n. 17349 secondo cui il concetto di ordine pubblico di cui all’art. 64 lett. g della legge n. 218 del 1995 non si identifica più con il cosiddetto ordine pubblico interno – e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell’ordinamen¬to civile – bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai principi fondamentali unanimemente riconosciuti a livello europeo e internazionale anche pattizio caratterizzanti l’atteg¬giamento etico – giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico.
Nel ricercare i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, il giudice quindi deve tener conto delle regole e dei principi entrati a far parte del nostro sistema giuridico in virtù del suo conformar¬si ai precetti del diritto internazionale, sia generale che pattizio, e del diritto dell’Unione europea.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599 il giudice italiano, chiamato a valu¬tare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero, i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della legge 31 maggio 1995, n. 218 e dell’art. 18 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una di¬sciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne, seppure imperative o inderogabili, ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta Costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
V Il ricorso avverso il diniego di trascrizione (il procedimento di “rettificazione” degli atti di stato civile)
a) il procedimento
L’ordinamento di stato civile agli articoli 95 e 96 prevede un procedimento chiamato impropria¬mente “di rettificazione” davanti al tribunale in camera di consiglio a tutela di chi intende opporsi al rifiuto dell’ufficiale di stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o un altro adempimento.
Il tribunale senza particolari formalità può assumere informazioni, acquisire documenti e può an¬che procedere all’audizione delle parti e dello stesso ufficiale di stato civile, provvedendo, come detto, in camera di consiglio.5
Analogamente si provvede alla correzione degli errori materiali.6
5 Art. 95 (Ricorso)
1. Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento.
2. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1.
3. L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originaria¬mente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale.
Art. 96 (Procedimento)
1. Il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile.
2. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare.
3. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto com¬patibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile nonché, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione, l’articolo 455 del codice civile.
6 Art. 98 (Correzioni)
1. L’ufficiale dello stato civile, d’ufficio o su istanza di chiunque ne abbia interesse, corregge gli errori materiali di scrittura in cui egli sia incorso nella redazione degli atti mediante annotazione dandone contestualmente avviso al prefetto, al procuratore della Repubblica del luogo dove è stato registrato l’atto nonché agli interessati.
2. L’ufficiale dello stato civile provvede con le stesse modalità di cui al comma 1 nel caso in cui riceva, per la registrazione, un atto di nascita relativo a cittadino italiano nato all’estero da genitori legittimamente uniti in matrimonio ovvero relativo a cittadino italiano riconosciuto come figlio naturale ai sensi dell’articolo 262, primo comma, del codice civile, al quale sia stato imposto un cognome diverso da quello ad esso spettante per la legge italiana. Quest’ultimo cognome deve essere indicato nell’annotazione.
3. Avverso la correzione, il procuratore della Repubblica o chiunque ne abbia interesse può proporre, entro trenta giorni dal ricevimento dell’avviso, opposizione mediante ricorso al tribunale che decide in camera di consiglio con decreto motivato che ha efficacia immediata.

b) L’art. 95 dell’Ordinamento di stato civile come norma a valenza generale
Di particolare interesse – per i riflessi generali che ha nelle cause di disconoscimento – è il con¬tenuto del terzo comma dell’art. 95 ove si prescrive che “L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”. Questa disposizione se¬condo la giurisprudenza ha una valenza generale nel senso che può essere utilizzata in sede giudi¬ziaria tutte le volte in cui dalla decisione del tribunale, per esempio nell’azione di disconoscimento della paternità, potrebbe derivare all’interessato la perdita del cognome. Si legge in Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2014, n. 8876 che la Corte costituzionale, sin dal 1994 (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13) ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo “status familiae”, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome man¬tenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost.; tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stes¬so interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 2 Cost. – il R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, art. 165, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenu¬ta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale. Il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, al terzo comma dell’art. 95 – secondo questa sentenza – ha codificato il principio enunciato con la pronuncia della Corte costituzionale, prevedendo che nell’ipotesi di rettificazione di atti dello stato civile “l’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”.
In effetti, a seguito della sentenza di disconoscimento l’ufficiale di stato civile deve eseguire la relativa annotazione (art. 49, comma 1, lett. o del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396) cui seguirebbe la perdita del cognome originario. Questo automatismo è stato giudicato illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza 3 febbraio 1994, n. 13 con cui si è in sostanza affermato che l’in¬teresse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse indivi¬duale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Costituzione. L’art. 95 dell’Ordi¬namento di stato civile – si legge nella decisione – è norma di carattere generale applicabile in tutti i casi in cui un atto dello stato civile deve subìre una rettifica (ivi compreso il cambio del cognome a seguito di disconoscimento) e pertanto l’interessato può chiedere al tribunale, proprio ai sensi del richiamato ultimo comma dell’art. 95 di mantenere il cognome originario.
VI La trascrizione degli atti di nascita formati all’estero
Come si è detto, il concetto di ordine pubblico che fa da limite alla trascrivibilità di atti di stato civile formati all’estero (così come delle sentenze straniere il cui riconoscimento è contestato in Italia) è quello di “ordine pubblico internazionale”. Il principio è quello secondo cui – come si è visto – il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero, i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, deve verificare – a norma dell’art. 18 dell’Or¬dinamento di stato civile che prevede il divieto di trascrizione degli atti contrari all’ordine pubblico – non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne, seppure imperative o inderogabili, ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta Costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
a) L’atto di nascita da fecondazione eterologa
La legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) all’art. 5 e all’art. 12 prevedono il divieto di utilizzazione a fini procreativi di gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente (sia pure nei limiti definiti da Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162).
A questa ipotesi si è riferita Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599 affermando che l’atto di nascita straniero (valido, nella specie, sulla base di una legge in vigore in un altro Paese della U.E.) da cui risulti la nascita di un figlio da due madri (per avere l’una donato l’ovulo e l’altra partorito), non contrasta di per sé con l’ordine pubblico per il fatto che la tecnica procreativa utiliz¬zata non sia riconosciuta nell’ordinamento italiano dalla legge n. 40 del 2004, la quale rappresenta una delle possibili modalità di attuazione del potere regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una materia, pur eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale, sulla quale le scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate.
Due donne, una cittadina italiana e l’altra cittadina spagnola, avevano contratto matrimonio in Spagna nel 2009. Si rivolgono nel 2013 all’ufficiale di stato civile del Comune di Torino per chie¬dere la trascrizione dell’atto di nascita del loro figlio partorito da una di esse con ovuli fecondati in vitro donati dall’altra. L’ufficiale dello stato civile di Torino ha opposto un rifiuto per ragioni di ordine pubblico; successivamente, hanno divorziato consensualmente in Spagna, sulla base di un accordo, sottoscritto dalle parti in data 21 ottobre 2013, che prevede l’affidamento congiunto del minore ad entrambe con condivisione della responsabilità genitoriale. Il ricorso avverso il diniego dell’ufficiale di stato civile veniva rigettato dal Tribunale di Torino il quale riteneva infondata la domanda di trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero, perché contrastante con il princi¬pio, di ordine pubblico, in base al quale nell’ordinamento italiano madre è soltanto colei che ha partorito il bambino.
Il decreto del Tribunale veniva reclamato e la Corte d’appello di Torino, con decreto del 4 dicembre 2014, in accoglimento del reclamo, ordinava all’Ufficiale dello stato civile di Torino di trascrivere l’atto di nascita. La Corte riteneva che l’atto di nascita fosse trascrivibile nei registri dello stato civile italiano, a norma dell’art. 17 dell’Ordinamento di stato civile, restando precluso al giudice italiano di sovrapporre autonomi accertamenti sulla validità di un titolo formato all’estero secon¬do la legge straniera. Secondo la Corte d’appello, la nozione di ordine pubblico, ai fini del diritto internazionale privato, deve essere valutata sotto il profilo dell’ordine pubblico internazionale e, quindi, in termini di conformità al complesso dei principi caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico e fondati sulle esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, comuni ai diversi ordinamenti e, quindi, sulla base di valori condivisi nella comunità giuridica so¬vranazionale, di cui parte importante è la giurisprudenza della Corte Edu ex art. 117 Cost., comma 1, e della Corte di giustizia UE, valori tutti da interpretare in correlazione all’interesse superiore del minore. Tanto premesso, la sentenza escludeva la violazione del principio di ordine pubblico
Avverso il suddetto decreto proponeva ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repub¬blica presso la Corte d’appello di Torino e il Ministero dell’interno. La Corte di cassazione li riteneva infondati.
Si premette nella sentenza che “è indispensabile soffermarsi sul contenuto e sull’evoluzione della nozione di ordine pubblico nella giurisprudenza di legittimità”. Ed a tale proposito si osserva che si è avuta una progressiva evoluzione nell’interpretazione della nozione di ordine pubblico, inteso originariamente come espressione di un limite riferibile all’ordinamento giuridico nazionale, ai fini della salvaguardia di determinate concezioni di ordine morale e politico, particolarmente afferma¬te nella società statuale e assunte dal legislatore (ordinario) a criteri direttivi e informatori della sua opera. La nozione di ordine pubblico era funzionale ad escludere l’applicabilità delle norme straniere costituenti espressione di principi etici contrastanti con quelli dell’ordinamento inter¬no in un determinato momento storico, o più precisamente con quei principi a cui lo Stato “non può o non crede di dover rinunziare” ovvero con i “sommi inderogabili canoni del nostro sistema positivo” (Cass., sez. un., n. 1220 del 1964; n. 3881 del 1969). La nozione di ordine pubblico in senso internazionale veniva ritenuta non pertinente, in quanto troppo astratta (cfr. Cass. n. 818 del 1962), oppure legata ai principi dell’ordinamento interno, cioè alle regole di contenuto rigido, aderenti alle esigenze peculiari del singolo Stato e perciò destinate ad operare solo nel suo ambito. La conseguenza era di impedire l’applicazione, nel territorio dello Stato, di qualsiasi disposizione del diritto straniero non conforme a quelle norme di diritto interno che dal giudice fossero ritenute rappresentative di uno stabile assetto normativo nazionale.
A questa concezione di ispirazione statualista se ne è opposta un’altra, di maggiore apertura verso gli ordinamenti esterni e più aderente agli artt. 10 e 11 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, e alla corrispondente attuale posizione dell’ordinamento italiano in ambito internazionale. Tale più aperta concezione si fonda su una maggiore partecipazione dei singoli Stati alla vita della comunità in¬ternazionale, la quale sempre meglio è capace di esprimere principi generalmente condivisi e non necessariamente tradotti in norme interne, così da sottrarre la nozione di ordine pubblico interna¬zionale sia ad un’eccessiva indeterminatezza sia ad un legame troppo rigido con i mutevoli conte¬nuti delle legislazioni vigenti nei singoli ordinamenti nazionali. Se l’ordine pubblico si identificasse con quello esclusivamente interno, le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto analogo a quelle italiane, cancellando la diver¬sità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato (cfr. Cass. n. 10215 del 2007, n. 14462 del 2000).
Questa evoluzione della nozione di ordine pubblico segna un progressivo e condivisibile allen¬tamento del livello di guardia tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di norme, istituti giuridici e valori estranei. Se ne ha conferma nella normativa comunitaria, che esclude il riconoscimento delle decisioni emesse in uno Stato membro (ora previsto come automa¬tico) nei soli casi di “manifesta” contrarietà all’ordine pubblico (cfr., ad es., l’art. 34 del regol. CE 22 dicembre 2001 n. 44, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecu¬zione delle decisioni in materia civile e commerciale; l’art. 26 del regol. CE 11 luglio 2007 n. 864, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali; l’art. 22 e 23 del regol. CE 27 novembre 2003, n. 2201, in tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e della responsabilità genitoriale; l’art. 24 del regol. CE 18 dicembre 2008, n. 4/2009, in materia di obbligazioni alimentari). Nella giurisprudenza comunitaria il ricorso al limite dell’ordine pubblico presuppone l’esistenza di una minaccia reale, attuale e grave nei confronti di un interesse fonda¬mentale della società (cfr. Corte giust. UE, 4 ottobre 2012, C-249/11, per giustificare le deroghe alla libera circolazione delle persone invocabili dagli Stati membri).
Nella giurisprudenza di legittimità più recente prevale il riferimento all’ordine pubblico internazio¬nale, da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uo¬mo comuni ai diversi ordinamenti e collocati a un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria (cfr., tra le tante, Cass. n. 1302 e 19405 del 2013, n. 27592 del 2006, n. 22332 del 2004, n. 17349 del 2002). Il legame, pur sempre necessario con l’ordinamento nazionale, è da intendersi limitato ai principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione (già secondo Corte cost. n. 214 del 1983, la verifica del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituziona¬le costituisce un “passaggio obbligato della tematica dell’ordine pubblico”), ma anche – laddove compatibili con essa (come nella materia in esame) – dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonchè dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
In altri termini, i principi di ordine pubblico devono essere ricercati esclusivamente nei principi supremi e/o fondamentali della nostra Carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potreb¬bero essere sovvertiti dal legislatore ordinario (non sarebbe conforme a questa impostazione, ad esempio, l’orientamento espresso da Cass. n. 3444 del 1968 che, in passato, negava ingresso alle sentenze straniere di divorzio, solo perchè la legislazione ordinaria dell’epoca stabiliva l’in¬dissolubilità del matrimonio, sebbene detta indissolubilità non esprimesse alcun principio o valore costituzionale essenziale; v. Corte cost. n. 169 del 1971 sulla dissolubilità degli effetti civili del matrimonio concordatario).
Ciò significa che un contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituto (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legi¬slatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata mate¬ria, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario. La ricerca di tali principi – è opportuno precisare – richiede una delicata operazione ermeneutica che non si fermi alla lettera della disposizione normativa, seppure di rango costituzionale, com’è dimo¬strato dal fatto che esistono in Costituzione norme dalle quali non si evincono principi inviolabili e che, quindi, non concorrono ad integrare la nozione di ordine pubblico (è il caso, ad esempio, dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali che, sebbene sancito dall’art. 111 Cost., comma 6, non rientra tra i principi inviolabili fissati a garanzia del diritto di difesa, cfr. Cass. n. 3365 del 2000).
Il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico. Da tempo, infatti, questa Corte ha precisato che le norme espressive dell’ordine pubblico non coincidono con quelle imperative o inderogabili (cfr. Cass. n. 4040 del 2006, n. 13928 del 1999, n. 2215 del 1984), sicché il contrasto con queste ultime non costituisce, di per sé solo, impedimento all’ingresso dell’atto straniero; il giudice deve avere riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano, bensì “ai suoi effetti” (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), in termini di compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento.
Si tratta di un giudizio (o di un test) simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con l’ordine pubblico soltanto nel caso in cui il giudice possa motivatamente ritenere che al legislatore ordinario sarebbe ipoteticamente precluso di introdurre, nell’ordinamento interno, una norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con valori costituzionali primari.
La progressiva riduzione della portata del principio di ordine pubblico – tradizionalmente inteso come clausola di sbarramento alla circolazione dei valori giuridici cui tende, invece, il sistema del diritto internazionale privato – è coerente con la storicità della nozione e trova un limite soltanto nella potenziale aggressione dell’atto giuridico straniero ai valori essenziali dell’ordinamento inter¬no, da valutarsi in armonia con quelli della comunità internazionale.
Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero (nella specie, dell’atto di na¬scita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma della L. n. 218 del 1995, artt. 16, 64 e 65, e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disci¬plina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonchè dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Si tratta, in particolare, della tutela dell’interesse superiore del minore, anche sotto il profilo della sua identità personale e sociale, e in generale del diritto delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, valori questi già presenti nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 31 e 32 Cost.) e la cui tutela è rafforzata dalle fonti sovranazionali che concorrono alla formazione dei principi di ordine pubblico internazionale.
Si deve enunciare il seguente principio di diritto: il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato in Spagna, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne – in particolare, da una donna italiana (indicata come madre B) che ha donato l’ovulo ad una donna spagnola (indicata come madre A) che l’ha partorito, nell’ambito di un progetto genitoriale realizzato dalla coppia, coniugata in quel paese – non contrastano con l’ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano, dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, dell’interesse superiore del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello statua filiationis, validamente acquisito all’estero (nella specie, in un altro paese della UE).
b) L’atto di nascita da maternità surrogata
La legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) all’art. 12 prevede il divieto di realizzare, organizzare o pubblicizzare la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità.
Sul rifiuto di trascrizione di atti di stato civile formati all’estero in ordinamenti in cui la surrogazione di maternità non è vietata si sono pronunciate due decisioni della Corte Europea dei diritti dell’Uo¬mo e una sentenza della Corte di cassazione.
– Corte europea dei diritti dell’uomo, 26 giugno 2014 (Mennesson e Labassee c. Francia)
Nelle due sentenze gemelle del 26 giugno 2014 nei casi Mennesson e Labassee le questioni sotto¬poste al giudizio della Corte riguardavano il rifiuto di attribuire riconoscimento legale in Francia ai rapporti genitoriali che erano stati legalmente stabiliti negli Stati Uniti tra minori nati da maternità surrogata e le coppie che si erano sottoposte a tale trattamento. In entrambi i casi la Corte ha deciso, unanimemente, che non vi è violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita privata e familiare) riguardante il diritto dei ricorrenti al rispetto della propria vita familiare mentre vi è violazione dell’art. 8 riguardante il diritto dei minori al rispetto della propria vita privata.
I minori erano nati da maternità surrogata ma con donazione dei gameti da parte rispettivamente del signor Mennesson e del sig. Labassee.
A seguito del rifiuto delle autorità francesi di registrare nel registro francese delle nascite i certi¬ficati di nascita dei minori nati, le coppie decidevano di adire le vie legali. La Corte di Cassazione ha rigettato le pretese dei ricorrenti riconoscendo che la registrazione avrebbe attribuito effetti ad un accordo di maternità surrogata che era nullo e violava l’ordine pubblico secondo il Codice Civile francese. La Corte ha stabilito che non vi era stata violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dal momento che l’annullamento delle registrazioni non aveva privato i minori del rapporto legale materno e paterno riconosciuto dalle leggi americane e non aveva impedito loro di vivere in Francia con le coppie Mennesson e Labassee.
La Corte europea ha osservato che le autorità francesi, sebbene fossero consapevoli che i minori erano stati identificati negli Stati Uniti come figli dei coniugi Mennesson e dei coniugi Labassee, avevano tuttavia negato loro quello status secondo la legge francese. Questa contraddizione mi¬nava l’identità dei minori all’interno della società francese. La Corte ha inoltre notato che la giuri¬sprudenza ha completamente precluso l’istituzione di un rapporto legale tra minori nati in seguito a trattamenti di maternità surrogata ed il loro padre biologico. Questo oltrepassava l’ampio margine di discrezionalità lasciato agli Stati nella sfera delle decisioni legate alla surrogazione.
– Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 gennaio 2015 (Paradisi-Campanelli v. Italia)
In una vicenda in cui due coniugi italiani avevano invano chiesto in Italia la trascrizione di un atto di nascita da maternità surrogata redatto in Russia ed in cui avevano subìto l’allontanamento del neonato portato in Italia e poi dichiarato adottabile, la Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 gennaio 2015 aveva inizialmente affermato che “il concetto di ordine pubblico non può essere una carte bianca che giustifica qualunque decisione dello Stato membro, poiché l’obbligo di tenere conto dell’interesse superiore del minore incombe sullo Stato indipendentemente dal tipo di legame tra genitori e figlio, che sia genetico o di altra natura”. La Corte di Strasburgo ha rilevato, in particolare, che le ragioni di ordine pubblico sottostanti alle decisioni delle autorità italiane – secondo cui i ricor¬renti avevano tentato di eludere il divieto in Italia di utilizzare gli accordi di maternità surrogata e le norme che disciplinano l’adozione internazionale – non potevano prevalere sull’interesse superiore del minore, nonostante l’assenza di qualsiasi relazione biologica ed il breve periodo durante il quale i ricorrenti se ne erano occupati. I giudici europei, dunque, hanno ribadito che togliere un bambino ai genitori, ancorché frutto di maternità surrogata, costituisce una misura estrema che può essere giustificata solo in caso di pericolo immediato per il bambino, osservando dunque che, nel caso di specie, le condizioni per giustificare una simile misura non erano state soddisfatte. In ogni caso, ha chiarito la Corte di Strasburgo, le conclusioni cui è pervenuta la Corte non sono da intendersi come obbligo per lo Stato italiano di “restituire” il bambino ai ricorrenti, avendo questi sviluppato senza alcun dubbio legami affettivi con la famiglia affidataria con la quale aveva vissuto dal 2013.
I ricorrenti, Paradiso e Campanelli, sono due coniugi che, in seguito al fallimento delle tecniche di PMA cui si erano sottoposti, avevano deciso di recarsi all’estero e di stipulare un contratto di gestazione per altri in Russia. Secondo la legge russa, alla nascita del bambino, nel 2011, i coniugi erano stati registrati come genitori del bambino, senza indicazione della maternità surrogata. Al rientro in Italia, il ricorrente aveva chiesto la trascrizione del certificato di nascita del figlio, ma il consolato italiano a Mosca aveva informato il tribunale dei minori di Campobasso che il documento conteneva false attestazioni. I coniugi subivano quindi un procedimento penale nel quale venivano chiamati a rispondere del reato di falsa attestazione e della violazione della legge sulle adozioni. Contestualmente il Tribunale dei minori di Campobasso apriva un procedimento per la dichiarazio¬ne di adottabilità del bambino. Il signor Campanelli, inoltre, risultava non essere il padre biologico del bambino. Di conseguenza, il tribunale dei minori stabiliva che il minore doveva essere sottratto dai ricorrenti e dato in affidamento. Dopo essere stato in una struttura dei servizi sociali, nel 2013 il minore veniva affidato ad una famiglia e riceveva una nuova identità.
I ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 8 CEDU da parte dell’Italia, in particolare, per quan¬to riguarda la sottrazione del minore alle loro cure e il rifiuto di riconoscere la relazione genitoriale, attraverso la mancata trascrizione del certificato di nascita redatto all’estero.
Con riguardo alla sottrazione del minore dalla tutela dei ricorrenti, la Corte riconosce l’esistenza di una «de facto family life between the couple and the child», la conseguente applicabilità dell’art. 8 CEDU al caso di specie e l’ammissibilità del ricorso. Nonostante i ricorrenti avessero passato solo sei mesi con il bambino, infatti, questo pur breve periodo aveva consentito l’instaurarsi di una rela¬zione tra i coniugi e il minore. Le misure adottate dalle autorità italiane nei confronti del bambino, la sua sottrazione ai ricorrenti e l’affido costituiscono, secondo la Corte, un’illegittima interferenza nella vita privata e familiare. Pur considerando che l’attività delle autorità italiane è stata motivata dall’esigenza di porre termine ad una situazione illegittima, la Corte rileva che l’esigenza di tutelare l’ordine pubblico non può essere utilizzata in modo automatico, senza prendere in considerazione il miglior interesse del minore e la relazione genitoriale (sia essa biologica o non).
La Camera alta della Corte europea, successivamente, in sede di appello ha, però, escluso che l’allontanamento del bambino fosse una violazione del diritto a non subire limitazioni della propria vita privata.
– Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2014, n. 24
La sentenza Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001 (confermando la decisione di me¬rito, con la quale era stato dichiarato lo stato di adottabilità di un minore, generato da una donna ucraina su commissione di una coppia italiana) aveva ritenuto contrastante con l’ordine pubblico internazionale l’atto di nascita da maternità surrogata, ritenendo che il divieto di surrogazione della maternità comminato dall’art. 12, comma 6, legge 19 febbraio 2004, n. 40 esprime un principio di ordine pubblico internazionale, in quanto fondamentale ed irrinunciabile per la ragione che esso è non soltanto è assistito da sanzione penale, protegge la dignità costituzionalmente tutelata della ge¬stante e dei minori. Pertanto, l’atto di nascita formato all’estero, che indichi come genitori del bam¬bino procreato attraverso tale tecnica la donna e l’uomo che vi abbiano fatto ricorso (peraltro, senza alcun legame genetico con il nato) è privo di effetti in Italia perché contrario all’ordine pubblico, con la conseguenza che il minore presente sul territorio italiano deve ritenersi in stato di abbandono e deve esserne dichiarato lo stato di adottabilità. L’ordine pubblico cosiddetto internazionale non può, secondo questa decisione, ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma compren¬de anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili.
La Cassazione ha rigettato il ricorso presentato da una coppia che aveva fatto ricorso in Ucraina a pratiche di maternità surrogata.
Nel 2012 il Tribunale per i minorenni di Brescia, dopo aver accertato la mancanza di legami biolo¬gici fra una coppia e un bambino nato in Ucraina in seguito a maternità surrogata, aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore, sospendendo i coniugi dall’esercizio della potestà di genitori e nominando un tutore. Il certificato ucraino non avrebbe potuto essere riconosciuto in Italia perché lesivo dell’ordine pubblico e, in particolare, del divieto di maternità surrogata sancito dalla legge 40/2004. Venendo a mancare lo status di figlio legittimo del minore ed essendo dunque accertato lo stato di abbandono, il Tribunale aveva ritenuto di procedere alla dichiarazione di adottabilità.
A seguito del rigetto dell’appello in secondo grado (gennaio 2013), i genitori avevano proposto ricorso per Cassazione.
Ad avviso dei ricorrenti la statuizione di contrarietà all’ordine pubblico dell’atto di nascita potrebbe essere fondata solo ove si riscontrasse nella normativa ucraina che disciplina l’accertamento del rapporto di filiazione in quel paese una incompatibilità con le norme di ordine pubblico italiane, non essendo sufficiente il richiamo al divieto di surrogazione. Il riferimento non potrebbe infatti essere limitato all’ordine pubblico interno, identificabile con il rispetto di norme inderogabili, ma andreb¬be esteso all’ordine pubblico internazionale, da intendersi come insieme di principi che ispirano la comunità internazionale (es. interesse superiore del minore).
La Cassazione ammette che il richiamo non possa esaurirsi con il rispetto di norme imperative, ma che esso debba ricomprendere anche principi fondamentali dell’ordinamento che non coincidono però unicamente con i valori condivisi dalla comunità internazionale, dovendosi fare riferimento anche a principi e valori esclusivamente propri. “Il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come già suggerisce la previsione della sanzione penale, di regola posta appunto a presidio di beni giuridici fondamentali. Vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione governato da regola particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori”. Il divieto non è contrario alla tutela del superiore interesse del minore che risulta ragionevolmente tutelato dalla scelta legislativa di sottrarre la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico al semplice accordo delle parti e inquadrandolo, invece, nel quadro normativo che disciplina l’istituto dell’adozione.
Inconferente è anche il riferimento alle sentenze Mennesson e Labasee mediante le quali la Corte EDU ha ravvisato il superamento del margine di discrezionalità statale nel difetto di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il nato e il padre committente allorché questi sia anche padre biologico del nato.
VII Il matrimonio contratto all’estero
a) La trascrizione del matrimonio contratto all’estero e le conseguenze dell’omessa tra¬scrizione
Mentre l’iscrizione dell’atto di matrimonio negli archivi dello stato civile non pone particolari pro¬blemi, trattandosi di un adempimento che l’ufficiale di stato civile compie di un atto da lui stesso compiuto, più problematico è il caso della trascrizione da parte dell’ufficiale di stato civile di atti di matrimoni contratti all’estero.
Il codice civile prevede, come si è visto, all’art 115che il cittadino italiano possa contrarre ma¬trimonio all’estero disponendo in tal caso che trovano comunque sempre applicazione le norme fondamentali che concernono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio (articoli 84-90), dichiarando, poi, che in tal caso il matrimonio è valido quando rispetta le forme stabilite nello Stato in cui viene celebrato. Il principio è ribadito nell’art. 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Ri¬forma del sistema italiano di diritto internazionale privato) il quale considera valido il matrimonio quanto alla forma se considerato valido quanto meno dalla legge del luogo di celebrazione.
Il DPR 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) prevede agli articoli 16 e 17 che il matrimonio all’estero tra due italiani o tra un italiano e uno straniero possa essere celebrato da¬vanti alla nostra autorità diplomatica/consolare o davanti all’autorità competente di quello Stato. Nel primo caso è la nostra autorità diplomatica-consolare a trasmettere in Italia l’atto di matrimo¬nio all’ufficiale di stato civile del Comune di residenza indicata dal cittadino italiano (o del Comune in cui quel cittadino ha la residenza anagrafica dei cittadini italiani all’estero: AIRE); nel secondo caso sarà il cittadino italiano a rimettere direttamente alla nostra autorità diplomatica/consolare l’atto di matrimonio ai fini dell’inoltro all’ufficiale di stato civile in Italia,
Sempre il DPR 3 novembre 2000, n. 396 all’art. 63 secondo comma, lettera c, prevede che l’ufficia¬le di stato civile, ricevuto l’atto di matrimonio dall’autorità diplomatico-consolare italiana, lo deve trascrivere dell’archivio di stato civile.
Potrebbe accadere che l’atto di matrimonio contratto all’estero dal cittadino italiano non venga inoltrato all’ufficiale di stato civile, perché per esempio l’interessato abbia omesso di inoltrarlo alla nostra autorità diplomatica/consolare.
In tal caso la mancata trascrizione in Italia del matrimonio contratto all’estero non avrà però con¬seguenze sul piano della validità dell’atto.
È, infatti, pacificamente ripetuto in giurisprudenza il principio che ai sensi dell’art. 28 della legge n. 218 del 1995, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordinamento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento. Questo principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido. (Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620; Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 1990, n. 3599; Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351). Anche la giurisprudenza di merito ha affermato gli stessi principi (Trib. Treviso Sez. I, 5 giugno 2015).
b) Omessa trascrizione in Italia del matrimonio contratto all’estero e reato di bigamia
Secondo l’art. 86 del codice civile non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un matrimonio precedente. Se questo avviene si verifica quella situazione giuridica che va sotto il nome di biga¬mia. Il delitto di bigamia è previsto nell’articolo 556 del codice penale situato nel titolo XI del codi¬ce penale concernente i “delitti contro la famiglia”, al capo I “delitti contro il matrimonio” (bigamia è il contrario di monogamia) e punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni “chiunque essendo legato da matrimonio avente effetti civili, ne contrae un altro, pure aventi effetti civili”. Alla stessa pena soggiace chi, non essendo coniugato, “contrae matrimonio con persona legata da matrimonio avente effetti civili”. Il riferimento è, quindi, sia al matrimonio celebrato civilmente sia a quello concordatario.
Tutto quanto ciò premesso vi è da dire che il delitto di bigamia può essere commesso da due cittadini italiani (ipotesi in realtà piuttosto difficile a realizzarsi a causa del sistema di pubblicità rigoroso del nostro ordinamento di stato civile) ovvero da un italiano e uno straniero, nel territorio dello Stato o all’estero.
Interessa in questa sede approfondire la questione se il reato di bigamia è configurabile anche se il matrimonio celebrato all’estero non sia trascritto in Italia.
Ribadito che il reato di bigamia consiste, come si è detto, nel contrarre, in costanza di matrimonio avente effetti giuridici, un altro matrimonio produttivo anche esso di effetti civili, va innanzitutto detto che secondo la giurisprudenza si considera legato da precedente matrimonio avente effet¬ti civili anche colui che abbia ottenuto all’estero pronuncia di divorzio non riconosciuta in Italia (Cass. pen. Sez. VI, 2 febbraio 1982). Il matrimonio deve avere effetti civili. È evidente, per¬tanto, che non sussiste il reato se il secondo matrimonio è inesistente, quindi privo in radice di effetti giuridici (Cass. pen. Sez. VI, 16 luglio 1969).
La questione, però, più significativa – in ordine ai presupposti di punibilità del delitto di bigamia – è costituita dal dubbio se di bigamia si possa parlare anche in assenza della trascrizione in Italia del matrimonio contratto dalla persona coniugata o del primo matrimonio.
A tale proposito come si è visto la giurisprudenza (Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620; Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 1990, n. 3599; Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351) ha precisato –in modo convincente – chele norme di diritto internazionale privato attribuiscono ai matrimoni celebrati all’estero tra cittadini italiani o tra italiani e stranieri immediata validità e rile¬vanza nel nostro ordinamento e che tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente cer¬tificativa, e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regitac¬tum. Effettivamente l’articolo 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) considera valido il matrimonio, quanto alla forma, se è considerato tale quanto meno dalla legge del luogo di celebrazione.
Il principio che gli effetti civili in Italia del matrimonio contratto all’estero sono indipendenti da tale trascrizione è stato continuativamente affermato in passato dalla giurisprudenza con riferimento al delitto di bigamia (Cass. pen. Sez. VI, 4 luglio 1985; Cass. pen. Sez. VI, 2 febbraio 1982).
Commette perciò il delitto di bigamia il cittadino che contrae altro matrimonio essendo vincolato da precedente matrimonio contratto in uno Stato straniero secondo la legge vigente in quest’ultimo, ancorché non ne sia stata effettuata la trascrizione nei registri dello stato civile italiano.
c) L’orientamento della giurisprudenza contrario alla trascrizione in Italia del matrimo¬nio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso
L’ipotesi di trascrizione che ha creato più problemi – quanto meno fino all’approvazione della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disci¬plina delle convivenze) – è quello del matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso.
La giurisprudenza ha negato in modo compatto la possibilità di trascrizione in Italia negli atti di matrimonio contratti all’estero tra persone dello stesso sesso.
La posizione della Corte costituzionale sui problemi giuridici posti dall’aspirazione delle coppie omosessuali al matrimonio è contenuta soprattutto in due sentenze che vanno brevemente ricor¬date perché contengono le coordinate fondamentali per comprendere le motivazioni della scelta del legislatore di affidare alle unioni civili la funzione di tutela dei legami familiari tra persone dello stesso sesso anziché ammettere al matrimonio tali coppie.
Decisiva è l’impostazione della prima sentenza e cioè Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138 chia¬mata a pronunciarsi sulla questione di legittimità del rifiuto dell’ufficiale di stato civile di effettuare le pubblicazioni di matrimonio richieste da persone dello stesso sesso. La Corte esamina la que¬stione di costituzionalità a) sotto il profilo della eventuale violazione dell’art. 2 della Costituzione; b) sotto il profilo della eventuale violazione degli articoli 3 e 29 della Costituzione; c) sotto il profilo della eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione nella parte in cui prevede il rispetto da parte del legislatore dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
In riferimento all’art. 2 della Costituzione la Corte dichiara inammissibile la questione “perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata” e condivide il punto di vista da cui muovono le due ordinanze e cioè che “l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può men¬zionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile. In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di una consolidata ed ultra millenaria nozione di matrimonio. Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976). Spetta pertanto al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette.
Con riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la Corte dichiara la questione non fondata. Oc¬corre – afferma in proposito la Corte – prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ul¬tima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla leg¬ge a garanzia dell’unità familiare». La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere). Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigo¬re, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 della Costituzione, discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la no¬zione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attri¬buire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale. Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessua¬li, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.
La seconda sentenza che è significativo richiamare è Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170 nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Nor¬me in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dalla Corte di cassazione. Si trattava di un procedimento promosso da una coppia sposata per ottenere la cancellazione della annotazione di «cessazione degli effetti del vincolo civile del matrimonio», che l’ufficiale di stato civile aveva apposto in calce all’atto di matrimonio, contestualmente all’annotazione, su ordine del Tribunale, della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del sesso del marito. La Corte di cas¬sazione – adita in sede di impugnazione avverso il decreto della Corte di Appello di Bologna che, in riforma della statuizione di primo grado, aveva respinto la domanda dei ricorrenti – sollevava sostanzialmente la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 2 e 29 della Costituzione, «dell’art. 4 della legge n. 164 del 1982 nella parte in cui dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca l’automatica cessazione degli effetti civili conseguen¬ti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso senza la necessità di una domanda e di una pronuncia giudiziale2) «degli artt. 2 e 4 della l. n. 164 del 1982 con riferimento al para¬metro costituzionale dell’art. 24 della Costituzione nella parte in cui prevedono la notificazione del ricorso per rettificazione di attribuzione di sesso all’altro coniuge, senza riconoscere a quest’ultimo il diritto di opporsi allo scioglimento del vincolo coniugale nel giudizio in questione, né di esercitare il medesimo potere in altro giudizio, essendo esclusa la necessità di una pronuncia giudiziale dalla produzione ex lege dell’effetto solutorio in virtù del passaggio in giudicato della sentenza di retti¬ficazione di attribuzione di sesso»;
La questione viene ritenuta fondata. Pertinente – afferma a tale proposito la Corte – è soprattutto il riferimento al precetto dell’art. 2 della Costituzione. Nella nozione di “formazione sociale” – nel quadro della quale l’art. 2 della Costituzione dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – «è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere libera¬mente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Principi che erano stati affermati nella sentenza 170/2014 nella quale è stato, però, anche precisato doversi «escludere […] che l’aspi¬razione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio», come confermato, del re¬sto, dalla diversità delle scelte operate dai Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette.
Sulla linea dei principi enunciati nella riferita sentenza 170/2014, è innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella cate¬goria di situazioni “specifiche” e “particolari” di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore.
Va, pertanto, dichiarata – in accoglimento, per quanto di ragione, delle sollevate questioni – l’ille¬gittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164, con riferimento all’art. 2 della Costituzione nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzio¬ne di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore.
La Corte di Cassazione ha successivamente ripreso il tema affermando che a seguito della di¬chiarazione di incostituzionalità contenuta nella sentenza 170/14 della Corte costituzionale, deve essere conservato alla coppia unita in matrimonio, per il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata riconosciuta la rettificazione dell’attribuzione di sesso, il riconoscimento dei diritti e dei doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad essi di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8097).
La legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) all’art. 1, comma 27, ha previsto – sulla scia della riferita sen¬tenza della Corte costituzionale – che “alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
La giurisprudenza finora non ha ammesso la trascrizione in Italia di tali matrimoni contratti all’estero.
La vicenda che ha dato spazio in Italia al dibattito su questo tema è durata esattamente dieci anni lungo i quali si sono modificati anche i presupposti giuridici che via via hanno fatto da sfondo ai provvedimenti adottati nella vicenda dai giudici.
Due giovani, entrambi cittadini italiani, avevano contratto matrimonio in Olanda nel marzo del 2002 due anni dopo chiedevano a Latina – ove avevano stabilito la loro residenza – la trascrizione dell’atto del loro matrimonio ai sensi dell’art. 18 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamen¬to di stato civile). L’ufficiale di stato civile rifiutò la trascrizione assumendo che il matrimonio tra persone dello stesso sesso, formato all’estero, non era suscettibile di trascrizione perché contrario all’ordine pubblico. Avverso il provvedimento di rifiuto della trascrizione i due giovani proposero ricorso al Tribunale di Latina che nel giugno 2005, respinse il ricorso (Trib. Latina, 10 giugno 2005). Ugualmente fece la Corte d’appello nel luglio 2006 (App. Roma, 13 luglio 2006)rite¬nendo che sulla base di quanto stabilito dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 63, comma 2, lett. c), sia l’ufficiale dello stato civile sia il giudice, adito ai sensi dello stesso D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, debbono verificare che l’atto di cui si chiede la trascrizione, sia esso formato in Italia ovvero all’e¬stero, abbia le “connotazioni proprie, nel nostro ordinamento, degli atti di matrimonio assoggettati a trascrizione negli archivi di stato civile.
Avverso questa sentenza due giovani proponevano ricorso per cassazione. La Corte di cassazione lo rigettava (Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184) affermando che il requisito della diver¬sità di sesso, pur non previsto in modo espresso né dalla Costituzione, né dal codice civile vigente, né dalle numerose leggi che, direttamente o indirettamente, si riferiscono all’istituto matrimoniale – sta tuttavia, quale “postulato” implicito, a fondamento di tale istituto. Il diritto positivo vigente e la giurisprudenza che su di esso si è formata, del resto – affermano i giudici della Corte di Cassa¬zione – non fanno che riflettere anche “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio”. L’ordinamento giuridico italiano, perciò, ha conosciuto finora, e conosce attualmente un’unica fatti¬specie integrante il matrimonio come atto: il consenso che, nelle forme stabilite per la celebrazione del matrimonio, due persone di sesso diverso si scambiano, dichiarando che “si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (art. 107, primo comma, cod. civ., cit.). L’intrascrivibilità, si fonda però su ragioni diverse da quella, finora ripetutamente affermata, della “inesistenza” di un matrimonio siffatto per l’ordinamento italiano. Infatti, se nel nostro ordinamento è compresa una norma – l’art. 12 della CEDU appunto, come interpretato dalla Corte Europea – che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi, ne segue che la giurisprudenza di questa Corte – secondo la quale la diversità di sesso dei nubendi è, unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell’ufficiale dello stato civile celebrante, requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio civile, come atto giuridicamente rilevante – non si dimostra più adeguata all’attuale realtà giuridica, essendo stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per cosi dire “naturalistico”, della stessa “esistenza” del matrimonio. Per tutte le ragioni ora dette, l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende non più dalla loro “invalidità” o dalla loro “ine-sistenza” ma dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano.
È quello descritto, quindi, ora l’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità.
La Circolare del Ministro dell’Interno del 7 ottobre 2014, ha ribadito che, nonostante la natura certificativa e non costituiva della trascrizione “ la sola sussistenza dei requisiti di validità previsti dalla lex loci, quanto alla forma di celebrazione, non esime l›ufficiale di stato civile dalla previa verifica della sussistenza dei requisiti di natura sostanziale in materia di stato e capacità delle persone. Al riguardo, occorre fare riferimento, in primo luogo, all›art. 27, comma 1, della legge 31 maggio 1995, n. 218 (“Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”), secondo cui “la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio”, quindi all’art. 115 del codice civile, secondo cui “il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite”. Pertanto, al di là della validità formale della celebrazione secondo la legge straniera, l’ufficiale di stato civile ha il dovere di verificare la sussistenza dei requisiti sostanziali necessari affinché la celebrazione possa produrre effetti giuridicamente rilevanti. Non vi è dubbio che, ai sensi del codice civile vigente, la diversità di sesso dei nubendi rappresenti un requisito necessario affinché il matrimonio produca effetti giuridici nell’ordinamento interno, come è chiaramente affermato dall’art. 107 c.c., in base al quale l’ufficiale dello stato civile “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e di seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio”.
Anche in sede amministrativa si è precisato che “non è trascrivibile in Italia il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero e il prefetto può annullare l’eventuale trascrizione disposta dal Sindaco quale ufficiale di stato civile” (Cons. Stato Sez. III, 26 ottobre 2015, n. 4899) in quanto gli artt.27 e 28 della L. 31 maggio 1995, n.218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) stabiliscono i presupposti di legalità del matrimonio (nei casi in cui alcuni elementi della fattispecie si riferiscano ad ordinamenti giuridici di diversi Stati), prevedendo, in particolare (e per quanto qui rileva) che le condizioni (soggettive) di validità “sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo…” (art.27) e che “il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi…” (art.28). Ed inoltre l’art.115 del codice civile assoggetta, inoltre, espressamente i citta¬dini italiani all’applicazione delle disposizioni del codice che stabiliscono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio (tale dovendosi intendere il rinvio alla sezione prima del terzo capo, del titolo sesto, del libro primo del codice civile), anche quando l’atto viene celebrato in un paese straniero.
d) La possibilità della trascrizione in Italia nei registri delle unioni civili del matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero
Il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 luglio 2016, n. 144 emanato sulla base dei poteri regolamentari di natura transitoria attribuiti al Governo dall’art. 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76, ha invece ammesso la trascrizione di matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, in appositi registri provvisori delle unioni civili (istituti presso ogni Comune dall’art. 9 del decreto in questione) prevedendo all’art. 8 comma 3 che “gli atti di matri¬monio o di unione civile tra persone dello stesso sesso formati all’estero sono trasmessi dall’auto¬rità comsolatre….ai fini della trascrizione nel registro provvisorio di cui all’articolo. 9”.
Questo comporta che il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero, anche da cittadini italiani, potrà essere d’ora in poi trascritto nei registri provvisori delle unioni civili, supe¬rando così le ragioni del diniego che fino ad oggi hanno impedito la trascrizione nei nostri registri di stato civile e quindi il riconoscimento in Italia di tali matrimoni.
Il fatto è tanto più sorprendete perché avviene non per legge, ma attraverso un decreto di natura regolamentare che è facile immaginare che sul punto potrebbe non avere vita facile dal momento che, come si è sopra detto, l’intrascrivibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso è finora dipeso dalla inidoneità di tali atti a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano.
VIII Unioni civili e ordinamento di stato civile
a) La legge 20 maggio 2016, n. 76
Il secondo e il terzo comma dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, che ha disciplinato l’unione civile tra persone dello stesso sesso, definiscono le coordinate normative specifiche della riforma che consente alle coppie maggiorenni dello stesso sesso di dichiarare all’ufficiale di stato civile alla presenza di due testimoni la loro volontà di costituire tra loro una unione civile. L’ufficiale di stato civile riceverà la dichiarazione e provvederà alla registrazione.
Per la valida costituzione dell’unione civile occorre necessariamente la dichiarazione davanti all’uf¬ficiale di stato civile – analogamente al matrimonio (civile) – che ha quindi funzione costitutiva dell’unione civile. A differenza della convivenza di fatto che non ha alcuna necessità di costituzione formale.
La dichiarazione dei due partners di voler costituire l’unione civile deve essere fatta personalmente di fronte all’ufficiale di stato civile alla presenza di due testimoni. La simmetria con il matrimonio è piena: l’art. 107 del codice civile prevede, appunto, che alla presenza di due testimoni l’ufficiale di stato civile riceve da ciascuna parte personalmente la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e moglie.
La legge non prevede l’obbligo delle previe pubblicazioni.
b) Il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 luglio 2016, n. 144 istitutivo dei registri di stato civile
Con la legge 76/2016 il legislatore non aveva indicato quale dovesse essere l’ufficiale di stato civile competente a ricevere la dichiarazione di voler costituire una unione civile, delegando a tale com¬pito (con il comma 28) il Governo ad emanare appositi decreti legislativi per stabilire le modalità della dichiarazione e per adeguare a questa previsione l’ordinamento di stato civile.
Il comma 34 della legge ha anche, però, autorizzato opportunamente il Presidente del Consiglio dei ministri ad emanare entro trenta giorni disposizioni immediate di natura transitoria in attesa dei decreti legislativi di cui si è detto.
Queste disposizioni transitorie sono state adottate il 23 luglio 2016, appunto, con un regolamento del Presidente del Consiglio dei Ministri. Esse prevedono che la richiesta di costituzione dell’unio¬ne civile può essere presentata all’ufficiale dello stato civile del Comune liberamente scelto dagli interessati (non necessariamente quindi quello della residenza comune o della residenza di uno dei due). L’ufficiale dello stato civile, verificati i presupposti, redige immediatamente processo verbale della richiesta e lo sottoscrive unitamente alle parti, che invita, dandone conto nel verbale, a comparire di fronte a sé in una data, indicata dalle parti, immediatamente successiva al termi¬ne di quindici giorni, per rendere congiuntamente la dichiarazione costitutiva dell’unione. Se una delle parti, per infermità o altro comprovato impedimento, è nell’impossibilità di recarsi alla casa comunale, l’ufficiale si trasferisce nel luogo in cui si trova la parte impedita e riceve la richiesta presentata congiuntamente da entrambe le parti. Entro quindici giorni dalla presentazione della richiesta, l’ufficiale dello stato civile verifica l’esat¬tezza delle dichiarazioni, potendo anche acquisire d’ufficio eventuali documenti necessari per pro¬vare l’inesistenza delle cause impeditive indicate nella legge. Nel giorno indicato le parti rendono personalmente e congiuntamente, alla presenza di due testimoni, avanti all’ufficiale dello stato civile del Comune ove è stata presentata la richiesta, la dichiarazione di voler costituire un’unione civile. L’ufficiale, fatta menzione del contenuto dei commi 11 e 12 dell’articolo 1 della legge, redige apposito processo verbale, sottoscritto unitamente alle parti e ai testimoni, cui allega il verbale della richiesta. Nella loro dichiarazione le parti possono rendere la dichiarazione di scelta del re¬gime patrimoniale della separazione dei beni e possono indicare il cognome comune che hanno stabilito di assumere per l’intera durata dell’unione
La successiva registrazione degli atti dell’unione civile (cioè gli adempimenti connessi alla pubbli¬cità dell’atto) è eseguita dall’ufficiale di stato civile che ha ricevuto la dichiarazione dei partner, mediante iscrizione nel registro provvisorio delle unioni civili istituito dal medesimo regolamento del luglio 2016. Gli atti iscritti sono inoltre oggetto di annotazione nell’atto di nascita di ciascuna delle parti. A tal fine, l’ufficiale che ha redatto il processo verbale di costituzione dell’unione lo trasmette immediatamente al Comune di nascita di ciascuna delle parti, conservandone l’originale nei propri archivi.
Gli adempimenti dell’ufficiale di stato civile connessi alla registrazione dell’unione civile, come avviene per il matrimonio, hanno una natura di pubblicità notizia. Servono quindi a rendere cono¬scibile l’atto al quale il legislatore reputa che sia opportuno dare notorietà, senza che la pubblicità produca un particolare effetto circa l’atto ad essa soggetto. L’omissione della registrazione non condiziona, perciò, la validità e l’efficacia dell’atto, che rimane operante tra le parti e sarà opponi¬bile ai terzi indipendentemente dalla mancata attuazione dello strumento pubblicitario.
Solo per quanto concerne la dichiarazione del regime di separazione scelto eventualmente dalle parti dell’unioni civile (che in mancanza di tale scelta entrano nel regime legale di comunione) l’adempimento costituisce un’ipotesi di pubblicità dichiarativa, in quanto come tutte le convenzioni matrimoniali (che per le unioni civili la legge chiama convenzioni patrimoniali) sono assoggettate alla disciplina dell’ultimo comma dell’art. 162 c.c. dove si prevede che la convenzione di separazio¬ne dei beni eventualmente scelta al momento della costituzione del matrimonio o dell’unione civile (ovvero scelta successivamente con atto pubblico notarile) “non può essere opposta ai terzi” se non è annotata a margine dell’atto di matrimonio o di costituzione dell’unione.
c) I decreti legislativi n. 5, 6 e 7 del 19 gennaio 2017 attuativi della legge 76/2016
Sono in vigore dal 30 gennaio 2017 i decreti attuativi della disciplina delle unioni civili di cui alla legge 20 maggio 2016, n. 76. Sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 22 del 27 gennaio 2017. Si tratta dei decreti legislativi n. 5, 6 e 7 del 19 gennaio 2017.
Il decreto legislativo n. 5/2017 apporta modifiche alle norme del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, disciplinando le annotazioni da effettuare sugli atti di costituzione dell’unione civile; regolando le modalità di presentazione ed il contenuto della richiesta di costituzione dell’unione civile, le verifi¬che da parte dell’ufficiale dello stato civile circa l’insussistenza dei presupposti o la sussistenza di un impedimento per la costituzione; disciplinando il procedimento di costituzione di unione civile e le conseguenti annotazioni e trascrizioni da parte dell’ufficiale di stato civile; stabililendo che, come per il matrimonio, il partner dell’unione civile che aggiunge al suo il cognome del partner non perde il suo cognome d’origine.
Il decreto legislativo n. 6/2017 introduce nel codice penale e di procedura penale le disposizioni necessarie a consentire l’equiparazione del partner dell’unione civile al coniuge, prevedendo so¬stanzialmente che agli effetti della legge penale il termine “matrimonio” si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso e che la qualità di coniuge previ¬sta come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
il decreto legislativo n. 7/2017 modifica e riordina le norme di diritto internazionale privato in ma¬teria di unioni civili tra persone dello stesso sesso stabilendo –in continuazione con il contenuto del sopra richiamato decreto provvisorio del presidente del consiglio dei ministri del luglio 2016- che il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana; analogamente, l’unione civile, o altro istituto analogo, costituiti all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso abitualmente residenti in Italia produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana; prevede poi che lo scioglimento dell’unione civile è regolato dalla legge applicabile al divorzio; che i rapporti personali e patri¬moniali tra le parti sono regolati dalla legge dello Stato davanti alle cui autorità l’unione è stata costituita e che su richiesta di una delle parti il giudice può disporre l’applicazione della legge dello Stato nel quale la vita comune è prevalentemente localizzata. Le parti possono sempre convenire per iscritto che i loro rapporti patrimoniali sono regolati dalla legge dello Stato di cui almeno una di esse è cittadina o nel quale almeno una di esse risiede.
TRASCRIZIONE
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero, i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della L. 31 maggio 1995, n. 218 e dell’art. 18 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne, seppure imperative o inderogabili, ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta Costituzio¬nale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 novembre 2004, n. 22332 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di ordine pubblico internazionale (anche nel regime di cui all’art. 31 delle preleggi anteriore all’en¬trata in vigore della legge 31 maggio 1995 n. 218) non è enucleabile esclusivamente sulla base dell’assetto ordinamentale interno, in modo da ridurre l’efficacia della legge straniera ai soli casi in cui detta legge sia più favorevole al lavoratore di quella italiana, così da escludere la possibilità di una comparazione dei trattamenti complessivi, destinati al lavoratore nei singoli ordinamenti; in tale direzione, non può ritenersi una coincidenza tra le norme inderogabili dell’ordinamento italiano poste a tutela del lavoratore e i principi di ordine pubblico, dovendo, di contro, questi ultimi ravvisarsi nei principi fondamentali della nostra Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale. In particolare, non si pone in con¬trasto con l’ ordine pubblico un contratto individuale di lavoro che, soggetto alla legislazione straniera secondo le prescrizioni di diritto internazionale privato, non riconosca allo stesso lavoratore la tredicesima mensilità e il trattamento di fine rapporto, sempre che lo stesso lavoratore goda di fatto di un trattamento retributivo che glo¬balmente risulti superiore a quello cui avrebbe diritto secondo la legislazione nazionale sulla cui base rivendichi i suddetti emolumenti.
Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001 (Corriere Giur., 2015, 4, 471 nota di RENDA)
Il divieto di surrogazione della maternità comminato dall’art. 12, comma 6, L. 19 febbraio 2004, n. 40 esprime un principio di ordine pubblico internazionale, in quanto fondamentale ed irrinunciabile per l’ordinamento ita¬liano, per la ragione che esso è assistito da sanzione penale, protegge la dignità costituzionalmente tutelata della gestante e salvaguarda l’istituto dell’adozione, al quale soltanto l’ordinamento affida – attraverso una disciplina governata da regole poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori – la realizzazione di progetti di genitorialità privi di legami biologici con il nato. Pertanto, l’atto di nascita formato all’estero, che indichi come genitori del bambino procreato attraverso tale tecnica la donna e l’uomo che vi abbiano fatto ricorso (peraltro, senza alcun legame genetico con il nato) è privo di effetti in Italia perché contrario all’ordine pubblico, con la conseguenza che il minore presente sul territorio italiano deve ritenersi in stato di abbandono e deve esserne dichiarato lo stato di adottabilità.
Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost., l’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui stabilisce per la coppia destinataria delle norme in materia di procreazione medicalmente assistita il divieto di fecondazione di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili.
Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2014, n. 8876 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va rilevato che la Corte costituzionale, sin dal 1994 (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13) ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo “status familiae”, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost.; tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stesso interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per contra¬sto con l’art. 2 Cost. – il R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, art. 165, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a man¬tenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2007, n. 10215 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ ordine pubblico, che, ai sensi dell’art 16 comma 1, n. 218 del 1995, costituisce il limite all’applicabilità della legge straniera in Italia e che si identifica in norme di tutela dei diritti fondamentali, deve essere garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari, con riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera, bensì “ai suoi effetti”, cioè alla concreta applicazione che ne abbia fatto il giudice di merito ed all’effettivo esercizio della sua discrezionalità, vale a dire all’eventuale adeguamento di essa all’ordi¬ne pubblico . Detto ordine pubblico non si identifica con quello interno, perché altrimenti le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità tra sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato. (Nella specie, relativa al licenziamento da parte di un istituto di credito italiano di una dipendente il cui rapporto di lavoro, svoltosi negli Stati Uniti, era retto dalla legge locale accettata dalle parti, pur prevedendo la norma statunitense il licenziamento “ad nutum”, astrattamente in contrasto con l’ ordine pubblico , la S.C. ha confer¬mato la sentenza di merito che aveva escluso tale contrarietà perché il provvedimento era fondato sul difetto di esecuzione della prestazione durato per più mesi, fondamento sufficiente al rispetto dell’ ordine pubblico internazionale nella materia lavoristica).
App. Roma, 13 luglio 2006 (Famiglia e Diritto, 2007, 2, 166 nota di SESTA)
È legittimo il rifiuto dell’ufficiale di stato civile alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero tra due cittadini italiani dello stesso sesso, in quanto tale unione non presenta uno dei requisiti essenziali per la sua configurabilità come matrimonio nell’ordinamento interno, cioè la diversità di sesso tra gli sposi.
Corte europea diritti dell’uomo, 27 gennaio 2015 (Quotidiano Giuridico, 2015 nota di SCARCELLA)
Le misure, adottate dai giudici italiani, di allontanamento di un minore dalla coppia coniugale con la quale vive, con esclusione di ogni contatto, e di affidamento dello stesso ai servizi sociali in previsione della successiva adozione di terzi, violano il diritto di tale coppia al rispetto della vita familiare, di fatto costituitasi tra i due e il minore medesimo, in contrasto con l’art. 8 Cedu, pur se si tratta di misure adottate in quanto il bambino era nato da pratiche di maternità surrogata in Russia, senza alcun legame genetico con l’uno e l’altro componente della coppia, sicché l’atto di nascita straniero, che indicava gli stessi quali genitori, non era stato trascritto in Italia (la corte ha ritenuto che le misure in oggetto erano sproporzionate, non avendo tenuto conto del superiore interesse del minore, in quanto i giudici italiani hanno fondato l’inidoneità della coppia essenzialmente sulla violazione delle disposizioni sull’adozione internazionale e la procreazione medicalmente assistita).
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2002 n. 17349 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione di sentenze straniere, il concetto di ordine pubblico di cui all’art. 64 lett. g della legge n. 218 del 1995 non si identifica con il cd. ordine pubblico interno – e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell’or¬dinamento civile – bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai (soli) principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico – giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico. (Nell’af¬fermare il principio di diritto che precede la S.C. ha, in fatto, escluso che la corresponsione di interessi a tasso particolarmente elevato da parte di debitore italiano nei confronti di una società estera integrasse la violazione della norma sopraricordata, aggiungendo, in punto di fatto, che, comunque, detta corresponsione non costituiva il corrispettivo di un’operazione di natura creditizia – ossia di prestito in denaro, come richiesto dalla normativa na¬zionale antiusura – risultando per converso dovuta in conseguenze di un accertato inadempimento contrattuale).
Corte cost. 14 luglio 1982, n. 138 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata, in riferimento all’art. 101 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 810, nella parte in cui dà piena ed intera esecuzione al 4°, 5° e 6° comma dell’art. 34 del concordato, e dell’art. 17 l. 27 maggio 1929, n. 847, già dichiarata non fondata con sentenza n. 18 del 1982 per quanto attiene alla riserva alla giurisdizione di tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici, trascritti agli effetti civili.
Cons. Stato Sez. III, 26 ottobre 2015, n. 4899 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Non è trascrivibile in Italia il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero e il prefetto può an¬nullare l’eventuale trascrizione disposta dal Sindaco quale ufficiale di stato civile
Trib. Treviso Sez. I, 5 giugno 2015 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 28 della legge n. 218 del 1995, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordina-mento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento. Siffatto principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido.
Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A seguito della dichiarazione di incostituzionalità contenuta nella sentenza 170/14 della Corte costituzionale, deve essere conservato alla coppia unita in matrimonio, per il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata ricono¬sciuta la rettificazione dell’attribuzione di sesso, il riconoscimento dei diritti e dei doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad essi di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi
Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170 (Foro It., 2014, 10, 1, 2674).
Sono incostituzionali gli art. 2 e 4 L. 14 aprile 1982, n. 164, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore.
Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordinamento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazio¬nale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento; tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva , ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido. Ne deriva che in tal caso il figlio va considerato, a tutti gli effetti, nato in costanza di matrimonio, onde competente a decidere della regolamentazione dei rapporti personali ed economici fra questi e i genitori è il tribunale ordinario.
Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 665 nota di GATTUSO).
Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, non è inesistente per l’ordinamento italiano, ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici; anche ai sensi dell’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come evolutivamente interpretato dalla Corte di Strasburgo (sentenza del 24 giugno 2010, “Schalk e Kopf c. Austria”), la diversità di sesso dei nubendi non costituisce presupposto “naturalistico” di “esi¬stenza” del matrimonio. (Fattispecie relativa a cittadini italiani dello stesso sesso, i quali, unitisi in matrimonio nei Paesi Bassi, avevano impugnato il rifiuto di trascrizione dell’atto, opposto dall’ufficiale di stato civile italiano; la S.C., in applicazione del principio, pur respingendo il ricorso degli sposi, ha corretto la motivazione del decreto della Corte territoriale, che aveva legittimato il rifiuto di trascrizione dell’atto in difetto della sua “configurabilità come matrimonio”.
Trib. Latina, 10 giugno 2005 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
La trascrizione dell’atto di matrimonio non ha natura costitutiva in quanto il matrimonio si perfeziona con il consenso dei nubendi (“di sesso diverso”) reso davanti alla competente autorità, e non è quindi elemento essen¬ziale della fattispecie in quanto non incide sul momento genetico del rapporto, tuttavia incide sul suo momento funzionale (e, pertanto, non può ad essa attribuirsi una mera natura dichiarativa o di pubblicità notizia) e ciò in quanto, solo a seguito della trascrizione, si producono nell’ordinamento gli effetti civili del matrimonio, sia di natura patrimoniale che personale, con attribuzione di un vero e proprio “status” di coniuge (nella fattispecie in esame veniva richiesta la trascrizione di un matrimonio contratto all’estero fra persone dello stesso sesso).
Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351 (Famiglia e Diritto, 1999, 1, 79)
Le norme di diritto internazionale privato attribuiscono ai matrimoni celebrati all’estero tra cittadini italiani o tra italiani e stranieri immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera (e, quindi, spieghino effetti civili nell’ordinamento dello Stato straniero) e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana. Tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizio¬ne, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa, e scopo di pubblicità di un atto già di per sè valido sulla base del principio “locus regit actum”.
Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 1990, n. 3599 (Giur. It., 1991, 1, 1072 nota di ARESU)
Il matrimonio celebrato da cittadini italiani (o anche tra cittadini stranieri, in virtù dell’art. 50 ord. stat. civ.) all’estero secondo le forme ivi stabilite, ed anche il matrimonio celebrato all’estero in forma religiosa, ove per tale forma la lex loci riconosca gli effetti civili (sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato e alla capacità delle persone previsti nel nostro ordinamento) è immediatamente valido e rilevante nell’ordinamento italiano con la produzione del relativo atto, anche al fine di far valere il diritto di succedere al coniuge defunto nel contratto di locazione a lui intestato, indipendentemente dall’osservanza delle norme italiane relative alla pub¬blicazione, che possono dar luogo solo ad irregolarità suscettibili di sanzioni amministrative, ed alla trascrizione nei registri dello stato civile, la quale (a differenza del caso del matrimonio concordatario) ha natura certificativa e di pubblicità , e non costitutiva.
Cass. pen. Sez. VI, 4 luglio 1985 (Riv. Pen., 1986, 835)
I matrimoni contratti all’estero, anche se non trascritti, spiegano in Italia efficacia giuridica, in quanto la trascri¬zione in Italia dei matrimoni civili contratti all’estero da cittadini italiani non ha natura costitutiva, ma dichiarativa e certificativa (applicazione del principio in tema di bigamia).
Cass. pen. Sez. VI, 2 febbraio 1982 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di bigamia deve essere considerato legato da precedente matrimonio avente effetti civili anche colui che abbia ottenuto all’estero pronuncia di divorzio non riconosciuta in Italia.
Cass. civ. Sez. I, 8 luglio 1977, n. 3038 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Tutti gli effetti della sentenza di divorzio – sia quelli personali che quelli patrimoniali – si producono tra le parti, i loro eredi o aventi causa, dal momento del suo passaggio in giudicato, secondo i principi generali contenuti negli artt 2908 e 2909 Cod. civ., mentre l’annotazione (o meglio, la trascrizione) nei registri dello stato civile, a norma dell’art. 10della legge n. 898 del 1970, attiene unicamente agli effetti erga omnes della pronuncia stessa, in considerazione dell’efficacia meramente dichiarativa, e non costitutiva ,dello status delle persone fisiche, che è propria dei registri dello stato civile, verificandosi in tal caso una scansione temporale tra la decorrenza della efficacia inter partes, che promana dall’accertamento costitutivo contenuto nel giudicato, e quella erga omnes, comportante la opponibilità ai terzi, che deriva dall’effettuazione dei prescritti adempimenti integrativi della pubblicità (dichiarativa).
Cass. pen. Sez. VI, 16 luglio 1969 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Il delitto di bigamia consiste nel contrarre, in costanza di matrimonio produttivo di effetti giuridici, un altro matrimonio avente anche esso effetti civili. Il reato può essere escluso soltanto dalla giuridica inesistenza o del matrimonio precedente o di quello successivo. Non è giuridicamente inesistente il matrimonio contratto sotto false generalità, onde risponde del reato di bigamia chi, legato da precedente matrimonio, ne contragga un se¬condo attribuendosi false generalità.

L’erede non convivente non succede nella posizione contrattuale del conduttore ed in caso di detenzione dell’immobile risponde per occupazione senza titolo e responsabilità extracontrattuale

Cass. civ. Sez. IV – 3, 10 novembre 2017, n. 26670
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 23838/2016 proposto da:
P.D., F.A.G., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 10, presso lo studio dell’avvocato GIAMPAOLO BALAS, rappresentati e difesi dall’avvocato GAETANO MICHELE MARIA DE BONIS;
– ricorrenti –
contro
CONDOMINIO (OMISSIS), in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VIRGINIO ORSINI 21, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI DEL RE, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1082/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 04/10/2017 dal Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che, con sentenza resa in data 15/3/2016, la Corte d’appello di Roma, tra le restanti statuizioni, ha confermato la decisione con la quale il giudice di primo grado, accertata la cessazione (per decesso del conduttore R.A.) del contratto di locazione relativo a un immobile inserito nell’edificio condominiale di (OMISSIS) intercorso tra il ridetto condominio e R.A., ha accertato l’occupazione senza titolo di tale immobile da parte di F.A.G. e di P.D., condannando questi ultimi al risarcimento del danno in favore del condominio originario attore;
che, a sostegno della decisione assunta, la corte territoriale ha rilevato come il giudice di primo grado avesse correttamente raggiunto la dimostrazione, tanto dell’esistenza del locale di proprietà condominiale oggetto di lite, quanto della relativa concessione in locazione al R. in base ad un accordo contrattuale venuto meno con il decesso di quest’ultimo, con la conseguente correttezza della condanna della F. e del P. al risarcimento dei danni subiti dal condominio per effetto dell’occupazione sine titulo del ridetto immobile dagli stessi acquistato come parte integrante di una più vasta unità immobiliare;
che, avverso la sentenza d’appello, F.A.G. e P.D. propongono ricorso per cassazione sulla base di due motivi d’impugnazione;
che il condominio di (OMISSIS) resiste con controricorso;
che, a seguito della fissazione della camera di consiglio, sulla proposta di definizione del relatore emessa ai sensi dell’art. 380 bis, il condominio di (OMISSIS) ha presentato memoria;
considerato che, con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione degli artt. 115 e 100 c.p.c., (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente omesso di accertare se l’immobile de quo fosse stato inglobato nell’appartamento acquistato dagli odierni ricorrenti (illo tempore di proprietà di R.A.) per volere congiunto del condominio e dello stesso R., con la conseguente mancata verifica dell’effettiva cessazione del contratto di locazione oggetto di lite al momento del decesso del R., ovvero della trasmissione del rapporto locatizio in capo ai relativi eredi;
che, con il medesimo motivo, i ricorrenti si dolgono del mancato rilievo, da parte del giudice d’appello, dell’assoluta estraneità degli odierni ricorrenti al rapporto intercorso tra il condominio e il R., con la conseguente insussistenza di alcuna responsabilità risarcitoria per la ritardata restituzione dell’immobile dagli stessi successivamente acquistato come parte integrante di una più ampia unità immobiliare;
che il motivo è manifestamente infondato;
che, al riguardo, ferma l’inammissibilità della censura in esame nella parte in cui omette di specificare la rilevanza, sul piano dell’argomentazione critica, del mancato accertamento del carattere congiunto della volontà del condominio e del R. ai fini dell’inglobamento dell’immobile concesso in locazione a quello più ampio di proprietà del R., osserva il collegio come la corte territoriale abbia correttamente proceduto all’accertamento, sul piano documentale, tanto dell’esistenza dell’immobile condominiale oggetto di lite, quanto della relativa concessione in godimento in favore del R.;
che, con riguardo all’accertamento della cessazione degli effetti del ridetto contratto di locazione, la corte territoriale, sulla scia di quanto accertato dal primo giudice, risulta aver correttamente fatto applicazione del principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale l’erede non convivente del conduttore di immobile adibito ad abitazione non gli succede nella detenzione qualificata, e poiché il titolo si estingue con la morte del titolare del rapporto (analogamente al caso di morte del titolare dei diritti di usufrutto, uso o abitazione) quegli è un detentore precario della res locata al de cuius, sì che nei suoi confronti sono esperibili le azioni di rilascio per occupazione senza titolo e di responsabilità extracontrattuale (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 6965 del 22/05/2001, Rv. 546880 – 01);
che al riguardo, nessuna prova del ricorso di eventuali presupposti legittimanti la successione di eventuali eredi (o di altri soggetti) nella posizione contrattuale del conduttore (negli specifici casi in cui tale successione è prevista dalla legge) risulta essere stata fornita dagli odierni ricorrenti, in capo ai quali il ridetto onere probatorio necessariamente incombeva;
che, sotto altro profilo, in difetto di alcuna prova in ordine al ricorso di eventuali cause di giustificazione del comportamento dannoso degli odierni ricorrenti, del tutto correttamente la corte territoriale ha ritenuto gli stessi responsabili, sul piano extracontrattuale, per i danni sofferti dal condominio proprietario in ragione dell’occupazione senza titolo della relativa unità immobiliare;
che, con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione dell’art. 2697 c.c., e art. 434 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale trascurato di rilevare la violazione, da parte del consulente tecnico d’ufficio di primo grado, dei limiti dell’indagine allo stesso rimessa, e per avere quest’ultimo omesso la verificazione dell’avvenuta autorizzazione del R., da parte del condominio, a inglobare l’immobile locato a quello dallo stesso già posseduto, nonché di accertare l’epoca della mancata utilizzazione dell’immobile all’uso condominiale cui precedentemente era adibito;
che il motivo è inammissibile;
che, al riguardo, ferma l’inammissibilità della censura rivolta nei confronti della violazione, da parte del consulente tecnico d’ufficio, dei limiti dell’indagine allo stesso rimessa, laddove la stessa non si risolva in una specifica doglianza rivolta nei confronti della motivazione fatta propria dal giudice (nella parte in cui ha espressamente attestato come l’intera relazione del c.t.u. fosse rimasta entro i limiti dei quesiti originariamente formulati dal primo giudice: cfr. pagg. 4-5 della sentenza impugnata), osserva il collegio come gli odierni ricorrenti abbiano del tutto trascurato di specificare la rilevanza, sul piano dell’argomentazione critica, dell’avvenuta autorizzazione condominiale, in capo al R., ad inglobare l’immobile locato a quello dallo stesso già posseduto, nonché dell’accertamento dell’epoca della mancata utilizzazione dell’immobile all’uso condominiale cui lo stesso era precedentemente adibito;
che, infatti, ciascuna di tali circostanze dedotte dai ricorrenti appare di per sè del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento della causa di estinzione del rapporto di locazione e della conseguente insussistenza di alcun titolo a fondamento della successiva occupazione da parte degli odierni ricorrenti;
che, sulla base delle argomentazioni sin qui indicate, rilevata la complessiva infondatezza del ricorso, dev’esserne pronunciato il rigetto, cui segue la condanna dei ricorrenti al rimborso, in favore del condominio controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 1.500,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.

Il genitore collocatario che si trasferisce con il figlio minore all’estero, nonostante il rifiuto dell’altro genitore, viola l’art. 3 della Convenzione dell’Aja avendo commesso l’illecito del mancato rientro del minore presso il luogo di residenza abituale

Cass. civ. Sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24173
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA
sul ricorso 9624/2016 proposto da:
B.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via Ugo De Carolis n.101, presso lo studio dell’avvocato Minoprio Eleonora, rappresentata e difesa dall’avvocato Cossar Laura, giusta procura a margine dell’atto di nomina di nuovo difensore;
– ricorrente –
contro
C.E., Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano;
– intimati –
avverso il decreto del TRIBUNALE PER I MINORENNI di MILANO, depositata il 16/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/07/2017 dal cons. ACIERNO MARIA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato L. Cossar che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
C.E. ha proposto istanza di rimpatrio del figlio minore () ed il procedimento si è aperto su ricorso del p.m., secondo quanto stabilito dalla Convenzione dell’Aja del 25/10/80 ratificata con L. n. 64 del 1994.
Il ricorrente ha dichiarato di essere stato coniugato con B.M. e di aver avuto da lei il figlio minore T.; di aver divorziato il 20/1/2015.
Il provvedimento divorzile aveva stabilito l’affido condiviso del minore con prevalente collocamento presso la madre ed una precisa regolamentazione degli incontri padre – figlio.
La ex moglie, nell’agosto 2015, si era recata in Italia con il figlio minore ed aveva deciso di non far ritorno negli USA contro il volere del ricorrente al quale era impedita anche la possibilità d’incontrare il figlio.
Nel giudizio si è costituita la B..
Il Tribunale per i minorenni ha accolto la domanda su conforme richiesta del p.m. sulla base delle seguenti argomentazioni:
il diritto di custodia del padre è stato violato in quanto l’autorità giudiziaria USA ha disposto l’affido congiunto ad entrambi i genitori, attribuendo alla madre l’affidamento fisico primario;
il piano di consenso genitoriale permanente conteneva espressamente al punto g) l’obbligo per il genitore che intendesse trasferirsi all’estero di rispettare un onere di notifica all’altro genitore, tenuto a comunicare il proprio eventuale dissenso. In questo ultima evenienza il genitore collocatario non aveva il diritto di trasferire il minore dagli Stati Uniti senza un ordine del tribunale.
– la corrispondenza intercorsa tra le parti è risultata inequivoca nel senso del dissenso paterno al trasferimento in Italia del minore;
– le giustificazioni fornite dalla madre non sono sostenute da situazioni fattuali concrete;
– sussiste, in conclusione, la sottrazione internazionale, essendo fuori discussione che la residenza abituale del minore sia negli USA, dove il minore è nato ed ha sempre abitato, radicandovi relazioni sociali, culturali ed amicali;
non sussistono le circostanze ostative previste dall’art. 13, lett. b), della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, ratificata con L. n. 64 del 1994 consistenti nel fondato rischio per il minore di trovarsi esposto, una volta rientrato nel suo paese di residenza, a pericoli fisici e psichici o comunque di trovarsi in una condizione intollerabile;
– il minore appare infatti emotivamente spossato (come da allegata documentazione medica) per una situazione poco serena e confusiva ma ciò dipende, secondo il Tribunale, dalla decisione unilaterale materna di trasferirlo in Italia e dalle conseguenti dinamiche conflittuali;
– il minore è stato esposto ad un brusco cambiamento di vita di abitudini e di lingua;
– proprio per l’esigenza di sottrarlo a situazioni emotivamente stressanti il tribunale non ritiene opportuna l’audizione pur se richiesta dalla madre, perché tale audizione esporrebbe il minore ad un pericoloso conflitto di lealtà. – non risultano situazioni pregiudizievoli per il minore relative all’intollerabilità della vita negli Stati Uniti o alla condotta paterna.
– è stato rigettato dal giudice degli Stati Uniti l’ordine di protezione richiesto dalla B., non essendo stati riscontrati metodi educativi pregiudizievoli per il minore derivanti da condotte paterne.
– il dedotto rischio di future iniziative volte ad impedire ogni rapporto con la madre riguardano il regime di affidamento e non l’oggetto del presente giudizio.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la B., accompagnato da memoria ex art. 378 c.p.c..
Non ha svolte difese l’intimato.
Nell’udienza pubblica del 30 marzo 2017, su richiesta del difensore della ricorrente, è stato disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo assegnando alla parte il termine di trenta giorni per il deposito dell’avviso di ricevimento della notificazione del ricorso.
Si dà atto che alla successiva udienza pubblica del 14 luglio 2017 è stato depositato il predetto avviso di ricevimento, da cui si constata la tempestività del ricorso.
Motivi della decisione
Nel primo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 1, 3, 5, 8 della Convenzione dell’Aja del 25/10/80 ratificata con L. n. 64 del 1994 per non avere il Tribunale considerato che il C. era stato informato del viaggio ed è stato costantemente tenuto al corrente delle decisioni relative alla permanenza in Italia del figlio. Ciò era del tutto lecito alla luce della primaria custodia “fisica” del figlio attribuita alla madre, mentre l’ex marito aveva solo il diritto di visita.
La ricorrente, pertanto, aveva solo obblighi di comunicazione del suo allontanamento non potendo neanche ritenersi che fosse definitivamente rientrata in Italia, avendo solo prolungato la permanenza. Il figlio è stato sempre in contatto con il padre.
Il diritto di custodia determina la libertà di decidere anche l’allontanamento del minore dalla residenza abituale non potendo limitarsi la libertà personale dei genitori titolari di tale diritto.
L’ordine di rimpatrio ha stravolto le condizioni relative al minore contenute nel provvedimento divorzile.
Nel secondo motivo viene dedotta ex art. 360 c.p.c., n. 4 la nullità della sentenza per non aver disposto l’ascolto di T. e viene formulata censura anche ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver disposto consulenza tecnica d’ufficio sui rischi e i pregiudizi derivanti dal rientro del minore stesso negli USA. Era stato documentato il suo grave disagio psicologico e c’era, al riguardo un preciso obbligo di accertamento.
La motivazione del non ascolto è contraddittoria ed incongrua perché pur riconoscendo le criticità lamentate nel minore le attribuisce esclusivamente alla condotta della madre senza accertarne le cause e l’entità attraverso l’ascolto e/o mediante indagine peritale.
Preliminarmente si deve rilevare che le vicende sopravvenute alla sentenza impugnata non possono formare oggetto dell’esame rimesso a questa Corte. Potranno, ove ne ricorrano le condizioni di legge, essere posti a base di successivi accertamenti giudiziali relativi al regime giuridico più adeguato di affidamento del figlio minore delle parti. Il giudizio relativo alla sottrazione internazionale del minore è strettamente vincolato all’accertamento delle condizioni di legge per il riscontro della condotta illecita così come descritta nella Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 ratificata con la L. n. 64 del 1994 e non può estendersi alla valutazione critica del regime di affidamento del minore stabilito concordemente dalle parti o fissato in un provvedimento giudiziale.
Il primo motivo è infondato. Nella pronuncia impugnata è stato svolto un accertamento specifico sul regime di affidamento applicabile al figlio minore delle parti non contestato sotto il profilo descrittivo, dalla parte ricorrente, la quale, tuttavia, fa discendere da tale regime un proprio diritto di trasferirsi in Italia con il figlio senza limiti temporali secondo il proprio unilaterale intendimento.
Tale conclusione è palesemente priva di fondamento.
Il minore è stato affidato congiuntamente ad entrambi i genitori con custodia primaria alla madre presso la quale è collocato. Il piano di consenso genitoriale permanente allegato alla sentenza prevede l’obbligo espresso per il genitore che intenda trasferirsi all’estero di rispettare un onere di notifica all’esito del quale l’altro genitore può far valere il suo dissenso. In questa ipotesi il trasferimento può avvenire soltanto con un provvedimento giudiziale.
Con accertamento di fatto insindacabile il Tribunale ha rilevato che il padre aveva manifestato apertamente e inequivocamente il suo dissenso ad un trasferimento sine die. Il differimento reiterato del rientro era stato fondato su ragioni non sostenute da prove ed era avvenuto contro il volere dell’altro genitore.
Deve, conseguentemente, escludersi che non vi sia stata violazione del regime di custodia del minore nella decisione attuata integrante il mancato rientro del minore negli USA secondo quanto concordato o comunque consentito dal padre. La custodia affidata alla ricorrente alla luce della ricostruzione del regime di affidamento del minore non prevedeva il potere di trasferimento del minore su decisione unilaterale del genitore collocatario.
Ne consegue la piena integrazione della fattispecie astratta contenuta nell’art. 3 della Convenzione, essendosi nella specie consumato un illecito mancato rientro del minore presso il luogo di residenza abituale, da individuarsi incontestabilmente negli Stati Uniti.
La seconda censura è inammissibile. Non ricorre la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4 perché il Tribunale per i minorenni non ha omesso di pronunciarsi sull’ascolto del merito. Non ricorre il vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3 e, sotto questo profilo la censura deve ritenersi inammissibile dal momento che l’omesso espletamento di consulenza tecnica d’ufficio e le ragioni poste a base della decisione di non procedere all’ascolto possono essere astrattamente incluse soltanto nella censura contenuta nell’art. 360 c.p.c., n. 5. Rispetto a quest’ultimo parametro tuttavia, deve rilevarsi che il Tribunale ha fornito ampia spiegazione sia dell’omesso ascolto che della non necessità di un’indagine tecnica, rilevando che la condizione di stress emotivo del minore aveva causa proprio della pervicace conflittualità genitoriale e che la documentazione medica prodotta era del tutto sufficiente a tracciare la situazione psichica del minore. Si tratta di un accertamento di fatto del tutto insindacabile in sede di giudizio di legittimità in quanto relativa alla sufficienza dei riscontri allegativi e probatori.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
La mancata costituzione dell’intimato esclude la necessità di una statuizione relativa alle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
In caso di diffusione omettere generalità e riferimenti geografici.

Risponde del reato di cui all’art. 731 c.p. il genitore che non consente al figlio minore l’istruzione scolastica

Cass. pen. Sez. III, 7 novembre 2017, n. 50624
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI SALERNO;
nei confronti di:
H.M., nata in (OMISSIS) il (OMISSIS);
L.S., nato in (OMISSIS) il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 02/11/2016 del Giudice di Pace di Salerno;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa DI STASI Antonella;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BALDI Fulvio, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 2.11.2016, il Giudice di Pace di Salerno, pronunciando nei confronti di H.M. e L.S. – imputati dal reato di cuiall’art. 731 cod. pen.- per aver omesso senza giustificato motivo di impartire l’istruzione scolastica al figlio minore L.S.C. presso l’istituto scolastico “(OMISSIS)” di (OMISSIS) per l’anno scolastico 2012/2013 – dichiarava non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso immediato per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Salerno, chiedendone l’annullamento ed articolando un unico motivo con il quale deduce violazione degliartt. 157 e 158 cod. pen., argomentando che il reato contestato ha natura di reato permanente e, pertanto, cessata la permanenza con l’ultimo giorno di scuola dell’anno scolastico 2012/2013 (8 giugno) da tale data doveva decorrere il termine prescrizionale che spirerebbe nel giugno 2017.

Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato.
2. Erroneamente la decisione impugnata ha rilevato la prescrizione del reato contestato agli imputati.
Va osservato che la contravvenzione di cuiall’art. 731 cod. pen., relativa alla inosservanza dell’obbligo dell’istruzione elementare dei minori da parte dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale, ha carattere permanente, poiché la condotta omissiva si protrae per tutta la durata dell’anno scolastico e la permanenza del reato può farsi cessare con l’adempimento dell’obbligo (Sez. 3, n. 12500 del 08/10/1985, Rv. 171457).
Pertanto, tenuto conto che la contestazione è relativa all’anno scolastico 2012/2013, il termine massimo prescrizionale quinquennale, ai sensi degliartt. 157 e 160 cod. pen., maturerà nel giugno 2018.
3. La sentenza impugnata va, quindi, annullata con rinvio al Tribunale di Salerno per nuovo giudizio, ai sensi del dispostodell’art. 569 c.p.p., comma 4.
Il giudice del rinvio valuterà anche quale sia l’obbligo scolastico inosservato (nulla emergendo in proposito dagli atti processuali trasmessi a questa Suprema Corte), tenendo conto del principio di diritto secondo il quale la contravvenzione di cuiall’art. 731 cod. pen., secondo la normativa vigente a seguito dell’abrogazione dellaL. 31 dicembre 1962, n. 1859,art.8, ad opera delD.Lgs. 13 dicembre 2010, n. 212, è configurabile solo in caso inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare.
In particolate, si è affermato che con l’entrata in vigore delD.Lgs. 13 dicembre 2010, n. 212(intitolato “Abrogazione di disposizioni legislative statali, a norma dellaL. 28 novembre 2005, n. 246,art.14, comma 14-quater”) e in particolare dell’allegato I, parte 52, laL. n. 1859 del 1962,art.8è venuta, infatti, meno la previsione che consentiva di estendere l’ambito applicativodell’art. 731 cod. pen.anche alla violazione dell’obbligo scolastico della scuola media inferiore. Attualmente, dunque, laL. 28 marzo 2003, n. 53,art.2, lett. c), stabilisce l’obbligo scolastico per almeno dodici anni a partire dalla iscrizione alla prima classe della scuola primaria (già scuola elementare) o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età; e, tuttavia, nessuna norma penale punisce l’inosservanza dell’obbligo scolastico della scuola media anche inferiore (così Sez. 7, ord. n. 29439 del 22/11/2015, P.G. Potenza in proc. Sabatino, non massimata), sicché l’eventuale estensionedell’art. 731 cod. pen.a detta ipotesi si risolverebbe in un’inammissibile interpretazione analogica in malam partem (Sez. 3, n. 4520 del 06/12/2016, dep. 31/01/2017, Rv. 268951; Sez. 3, n. 4523 del 06/12/2016, dep. 31/01/2017, Rv. 269266).

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Salerno.

La comunione è esclusa ex art. 179 c.p.c. in presenza di dichiarazione del coniuge non acquirente della natura personale di un immobile acquistato dall’altro coniuge

Cass. civ. Sez. II, 19 ottobre 2017, n. 24719
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 13901-2014 proposto da:
P.P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TUSCOLANA 339, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO GIOVANFORTE, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
A.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 6, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO POLLICE, rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO PACELLI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 213/2013 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 17/06/2013.
Svolgimento del processo
che con atto di citazione del 2007 il signor P.P. convenne davanti al tribunale di Terni la moglie, signora A.R., con la quale era incorso un giudizio di separazione personale, per sentir accertare la sua esclusiva proprietà sull’immobile, già destinato a casa coniugale, sito in (OMISSIS);
che a fondamento della propria domanda il P. argomentava che l’immobile, acquistato in costanza di matrimonio, non era caduto in regime di comunione legale perché la moglie era intervenuta nella stipula del contratto dando atto che il medesimo, e le sue pertinenze, costituivano “beni personali del marito, esclusi dalla comunione tra coniugi”;
che il tribunale di Terni rigettava la domanda dell’attore e tale decisione veniva confermata dalla corte d’appello di Perugia, adita dal P., sul rilievo che nell’atto di acquisto mancava l’espressa dichiarazione che gli immobili erano stati acquistati con i mezzi indicati dall’art. 179 c.c., comma 1, lett. f;
che secondo la corte distrettuale la suddetta dichiarazione non poteva ritenersi implicitamente contenuta nella dichiarazione negoziale che i suddetti beni erano esclusi dalla comunione coniugale, perché quest’ultima dichiarazione era del tutto generica, non facendo esplicito riferimento ad alcuna “delle ipotesi di cui alle lettere c), d), ed f) previsto dall’art. 179 c.c., comma 2”;
che, d’altro lato, sempre secondo la corte distrettuale, la mancanza di una dichiarazione avente ad oggetto la ricorrenza della causa di esclusione di cui all’art. 179 c.c., comma 1, lett. f non era superabile con il riconoscimento della personalità dell’acquisto fatto dalla convenuta, giacché tale riconoscimento presupporrebbe “la corretta esclusione dell’acquisto dalla comunione, ciò che nel caso di specie, come si è detto, non c’è stato”;
che avverso la sentenza della corte perugina il sig. P. ha proposto ricorso per cassazione articolato su due motivi;
che con il primo mezzo di gravame, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente denuncia il vizio di omesso esame del fatto decisivo, emergente dalle risultanze documentali acquisite agli atti, che l’immobile in questione era stato acquistato per il prezzo di Euro 25.000 solo quattro mesi dopo che il P. aveva venduto un immobile in (OMISSIS), di proprietà sua e dei suoi genitori, per il prezzo di Euro 26.000;
che con il secondo mezzo di gravame, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia la violazione delle regole di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. in cui la corte distrettuale sarebbe incorsa, nell’esame dell’atto di acquisto dell’immobile, trascurando l’analisi della volontà negoziale emergente dalla dichiarazione ivi rilasciata dalla signora A..
che la signora A. ha depositato controricorso;
che prima dell’adunanza di camera di consiglio ex art. 180 bis c.p.c., comma 1 del 9.5.17, in cui la causa è stata decisa, non sono state depositate memorie.
Motivi della decisione
che con i due motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, il ricorrente sostanzialmente censura la sentenza gravata per non aver effettuato alcuna verifica in ordine alla provenienza della provvista con cui era stato pagato il prezzo dell’immobile per cui è causa, in tal modo violando la previsione dell’art. 179 c.p.c. che esclude dalla comunione gli immobili acquistati con il prezzo del trasferimento di beni personali, quando l’esclusione risulti dall’atto di acquisto cui abbia partecipato il coniuge;
che la doglianza va accolta, in quanto la corte territoriale ha omesso di compiere qualsivoglia accertamento sull’allegazione del P. secondo cui l’immobile de quo era stato pagato con denaro proveniente dalla vendita di un bene in proprietà sua personale e dei suoi genitori, laddove – a fronte della dichiarazione rilasciata dalla signora A. nell’atto di acquisto di tale immobile sulla natura personale del medesimo – tale accertamento sarebbe stato necessario, alla luce del principio, reiteratamente affermato da questa Corte (sentt. 22755/09, 19513/12, 23565/16) che, in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi in regime di comunione legale, la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente in ordine alla natura personale di un immobile acquistato non ha portata dispositiva, ma può rilevare come prova dell’esistenza dei presupposti di fatto a cui la legge collega l’esclusione dalla comunione;
che quindi in definitiva il ricorso va accolto e la sentenza gravata va cassata con rinvio alla corte di merito, che procederà all’accertamento dei presupposti di fatto di cui all’art. 179 c.c., comma 1, lett. f).
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza gravata e rinvia alla corte d’appello di Perugia, in altra composizione, che regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.

Il provvedimento di assegnazione della casa non trascritto è opponibile all’acquirente che ha trascritto anteriormente l’acquisto nei limiti del novennio

Cass. civ. Sez. III, 31 ottobre 2017, n. 25835
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ORDINANZA
Sul ricorso 13206/2015 proposto da:
R.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 99, presso lo studio dell’avvocato BERARDINO IACOBUCCI, rappresentata e difesa dagli avvocati PAOLA ANTONIA DONVITO, VITO TOMMASO DONVITO giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
C.E., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GAETANO CINGARI giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 50/2015 della CORTE D’APPELLO SEZ.DIST. DI di TARANTO, depositata il 19/03/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/06/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
Svolgimento del processo
1. R.M. ricorre per cassazione avverso la sentenza n. 50/15 della Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, che ha respinto il gravame da essa proposto avverso la sentenza n. 1591/12 resa dal Tribunale di Taranto, di rigetto della domanda, avanzata dall’odierna ricorrente, di rilascio dell’appartamento di sua proprietà, sito in (OMISSIS).
2. Riferisce, in particolare, di aver adito il Tribunale tarantino con ricorso ex art. 447 bis c.p.c. del 25 ottobre 2013, al fine di conseguire il rilascio dell’immobile suddetto, acquisito in proprietà in forza di contratto di compravendita concluso, il 27 luglio 2006, con il proprio figlio, D.F.G., bene detenuto in comodato precario per ragioni solidarietà da C.E., coniuge separata del predetto D.F., e del quale essa R. aveva già richiesto – inutilmente – il rilascio in via stragiudiziale, nell’aprile 2011, a normadell’art. 1810 c.c..
Proposta dalla R. azione di rilascio, ai sensi della disposizione appena richiamata (e comunque, in via di subordine, exart. 1809 c.c., per destinare l’immobile a propria abitazione), si radicava il contraddittorio innanzi al primo giudice con la costituzione della C.. In particolare, costei eccepiva – sempre secondo quanto si legge nell’odierno ricorso – che l’immobile “de quo”, già adibito a casa familiare essendo ella coniuge del D.F., “le era stato assegnato dal Tribunale di Taranto nel giugno 2006 in sede di comparizione per la sua separazione giudiziale” (e, dunque, anteriormente alla stipulazione del contratto di compravendita intercorso tra la R. ed il D.F.), “in quanto affidataria della figlia minore”. Su tali basi, pertanto, la C. chiedeva dichiararsi l’inesistenza del contratto di comodato con la R. e in ogni caso, in via di subordine, l’insussistenza dei presupposti exart. 1809 c.c., per il rilascio del bene.
Richiesto dalla R. termine per controdedurre rispetto alle avversarie difese, la stessa – non senza previamente eccepire la decadenza, exart. 416 c.p.c., comma 2, “delle domande riconvenzionali, eccezioni e produzioni proposte dalla C.” – ribadiva la propria domanda di rilascio, chiedendo altresì, “in via subordinata” (per l’ipotesi in cui “l’eccezione di detenzione dell’immobile ex art. 155 quater c.c., formulata dalla controparte” fosse dichiarata “ammissibile ed opponibile” ad essa ricorrente) che il rilascio del bene fosse “disposto per la data del 21 giugno 2015 alla scadenza del novennio dalla prima assegnazione”, avvenuta con provvedimento giudiziale del 21 giugno 2006.
L’adito Tribunale, tuttavia, rigettava ogni domanda attorea, sul presupposto – sempre secondo quanto emerge dalla narrativa del presente ricorso – che la R., in ragione della propria inerzia nel richiedere il rilascio dell’immobile, protrattasi nei cinque anni successivi alla stipulazione del contratto di compravendita, avesse espresso “un consenso negoziale implicito” alla perdurante utilizzazione del bene, e ciò “in sintonia con lo schemadell’art. 1803 c.c.”, permettendo così “alla resistente di continuare ad usare l’immobile senza alcun corrispettivo per i bisogni abitativi suoi e della figlia minorenne sino alla revisione del provvedimento di assegnazione” (e, dunque, per un uso determinato che escludeva la possibilità del rilascio “ad nutum” exart. 1810 c.c.), negando, altresì, che potesse applicarsil’art. 1809 c.c., comma 2, in difetto di prova circa l’urgente ed impreveduto bisogno della R..
3. Avverso la decisione del giudice di prime cure proponeva appello l’odierna ricorrente, sulla base di due motivi.
Si doleva, innanzitutto, del fatto che il giudice di primo grado non avesse neppure esaminato il capo di domanda – proposto in via di eccezione dalla controparte e fatto proprio in via subordinata, rispetto alle proprie originarie domande, da essa R. – di rilascio dell’immobile il 21 giugno 2015, ovvero “alla scadenza del novennio” decorrente dal “provvedimento di assegnazione”, provvedimento peraltro trascritto dalla C. solo in pendenza del giudizio di primo grado, e dunque a distanza di sei anni dalla sua emissione.
In secondo luogo, contestava l’affermazione relativa all’esistenza di un suo “consenso negoziale implicito” all’utilizzazione dell’immobile quale casa familiare della C. e della di lei figlia minore, non solo perchè adottata dal primo giudice “ultra petita”, ma anche perché infondata in diritto.
Il giudice di appello rigettava, tuttavia, il gravame, ritenendo l’inammissibilità del primo motivo (sul rilievo che l’appellante – ed odierna ricorrente – non risultava aver mai formalizzato, nel primo grado di giudizio, “nel rispetto delle norme di rito, richiesta di rilascio dell’appartamento de quo per il giugno 2015”, reputando, pertanto, siffatta richiesta inammissibile ai sensidell’art. 437 c.p.c., in quanto fondata su una nuova “causa petendi”) e l’infondatezza del secondo, osservando che la R. “ebbe espressamente a fondare la domanda di rilascio del bene sull’esistenza di contratto di comodato inter partes”.
4. Avverso la decisione della Corte di Appello la R. propone due motivi di ricorso.
4.1. Il primo – formulato ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – deduce “violazione e falsa applicazionedell’art. 437 c.p.c., e dell’art. 155 quater (nuova formulazione) eart. 1599 c.c., comma 3”.
La ricorrente ribadisce di aver concluso – in primo grado – per il rilascio del bene in via immediata, nonché, subordinatamente, alla data del 21 giugno 2015, e ciò sul presupposto della non opponibilità, oltre il novennio, del provvedimento giudiziale di assegnazione, in difetto di trascrizione dello stesso anteriormente al contratto di compravendita, in forza del quale ella aveva acquisito l’immobile. Contesta, in particolare, l’affermazione della sentenza di appello che ha ritenuto tale domanda subordinata insussistente in primo grado, e dunque nuova in appello, richiamando la R., al riguardo, il “principio di reciprocità e circolarità degli oneri processuali”, e dunque ribadendo di aver aderito – sebbene in via di subordine – alla domanda di rilascio del bene dopo nove anni dal provvedimento di assegnazione giudiziale, proposta (anch’essa in via subordinata) dalla C..
4.2. Il secondo motivo è proposto come violazionedell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), in relazione all’art. 112 del medesimo codice di rito civile.
La ricorrente sostiene che il vizio di ultrapetizione – in cui sarebbe incorso il Tribunale -sarebbe stato perpetuato anche dalla Corte di Appello, nel condividere le valutazioni, già espresse dal giudice di prime cure, circa l’esistenza di un consenso implicito di essa R. all’utilizzazione del bene come casa familiare.
5. Ha resistito con controricorso la C., chiedendo rigettarsi l’avversaria impugnazione in quanto non fondata.
6. Ha presentato memoria la ricorrente, insistendo nelle proprie conclusioni.
Motivi della decisione
7. Il ricorso è fondato, nei limiti di seguito meglio precisati.
7.1. A prescindere, infatti, dalla circostanza se la R. abbia tempestivamente proposto in primo grado anche la domanda di rilascio dell’immobile alla data del 21 giugno 2015 (e ciò sul presupposto della non opponibilità, oltre il novennio, del provvedimento giudiziale di assegnazione trascritto successivamente al contratto di compravendita in forza del quale l’odierna ricorrente acquisì la proprietà del bene), l’affermazione del giudice di appello, che ha ritenuto la questione inammissibile ai sensidell’art. 437 c.p.c., si palesa come giuridicamente erronea.
Una volta, infatti, che il tema dell’efficacia del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’immobile risultava introdotto in giudizio dalla C., e fatto proprio dalla R., né il giudice di primo grado, né quello di appello potevano esimersi dal decidere su di esso.
Difatti, è stato affermato, di recente, da questa Corte che la “eccezione di assegnazione giudiziale della casa in sede di separazione coniugale non rientra né tra i casi per i quali la legge prevede espressamente l’onere di eccezione in capo alla parte né tra i casi in cui l’elemento costitutivo dell’eccezione è rappresentato dalla manifestazione di volontà di esercitare un diritto potestativo; l’efficacia impeditiva del diritto dell’attore al rilascio, infatti, deriva direttamente dal provvedimento giudiziale di assegnazione dell’abitazione coniugale e non dalla manifestazione di volontà dell’assegnatario dell’immobile di volersi avvalere degli effetti di tale provvedimento giudiziale”. Si tratta, dunque, di una “eccezione in senso lato”, il cui rilievo “non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis” (Cass. Sez. 2, sent. 5 agosto 2016, n. 16574, Rv. 640834-01).
7.2. Alla stregua, dunque, di tale principio la Corte di Appello tarantina – risultando, appunto, “ex actis” la circostanza dell’adozione, il 21 giugno 2006, del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’immobile quale casa familiare della C. e della di lei figlia minore – avrebbe dovuto certamente esaminare la questione relativa alla necessità, o meno, del rilascio dell’immobile alla data del 21 giugno 2015, traendo, inoltre, le dovute conseguenze dalla constatazione che il provvedimento suddetto risultava trascritto successivamente al titolo di acquisto della R., riconoscendo, così, che l’opponibiltà del primo, all’odierna ricorrente, non poteva protrarsi oltre il novennio, exart. 1599 c.c., comma 3.
Valga, infatti, in proposito, quanto recentissimamente statuito da questa Corte, la quale, in relazione ad una fattispecie speculare alla presente (in cui un coniuge separato – pur vedendo riconosciuto in appello il diritto di abitare, con la figlia minore, la casa coniugale nei limiti del novennio dalla data del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’immobile – si doleva dell’avvenuto rigetto, sempre in sede di gravame, della propria domanda principale volta ad ottenere il riconoscimento di tale diritto fino al raggiungimento dell’indipendenza economica della figlia), ha ritenuto che il conflitto con l’acquirente il medesimo bene, che abbia trascritto il suo titolo di acquisto anteriormente alla trascrizione del suddetto provvedimento giudiziale, vada risolto in favore del primo, ma, appunto, solo nei limiti del novennio, secondo il dispostodell’art. 1599 c.c., comma 3, (cfr. Cass. Sez. 6-3, ord. 17 marzo 2017, n. 7007, Rv. 643680-01).
7.3. Ciò premesso, dunque, va accolto il primo motivo di ricorso (con assorbimento del secondo), e disposta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Lecce, in diversa composizione, per la decisione del merito sulla scorta dei suindicati principi, oltre che per la liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Lecce, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

Il giudice può estendere l’obbligo di preventiva concertazione a tutte le spese straordinarie “a garanzia di entrambi i genitori ed al fine di evitare eventuali fonti di contenzioso tra le parti”

Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25055
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12328/2017 R.G. proposto da:
B.B., rappresentato e difeso dall’Avv. Marco Tonon, con domicilio eletto in Roma, largo L. Fregoli, n. 8, presso lo studio degli Avv. Enrico Sales e Rosario Salonia;
– ricorrente –
contro
R.F.;
– intimato –
avverso il decreto della Corte d’appello di Venezia depositato il 7 novembre 2016;
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 26 settembre 2017 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
Svolgimento del processo
che B.B. ha proposto ricorso per cassazione, per un solo motivo, avverso il decreto del 7 novembre 2016, con cui la Corte d’appello di Venezia ha accolto parzialmente il reclamo proposto da R.F. avverso il decreto emesso il 7 giugno 2016, ponendo a carico di ciascun genitore, nella misura del 50%, le spese straordinarie (es., mediche, scolastiche, sportive e/o ricreative) necessarie per i figli minori R.A., L. e F., documentate e previamente concordate tra le parti, confermando nel resto la decisione impugnata;
che il R. non ha svolto attività difensiva;
che il Collegio ha deliberato, ai sensi del Decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, che la motivazione dell’ordinanza sia redatta in forma semplificata.
Motivi della decisione
che con l’unico motivo d’impugnazione la ricorrente censura il decreto impugnato per aver incluso tra le spese da concordare preventivamente non soltanto quelle sportive e/o ricreative, ma anche quelle mediche e scolastiche, che non costituivano oggetto del reclamo, e per avere in tal modo frainteso la portata della decisione di primo grado, che aveva previsto l’obbligo di concordare le sole spese sportive e/o ricreative che comportassero un esborso superiore ad Euro 200,00, senza considerare che il genitore affidatario dei figli minori non ha l’obbligo di concertare con l’altro genitore l’effettuazione e la determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui le stesse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli;
che, nella parte riflettente il vizio di ultrapetizione, il motivo è infondato, dovendosi escludere che, ai fini della determinazione delle modalità con cui il ricorrente deve contribuire al mantenimento dei figli, collocati presso l’altro genitore, il decreto impugnato incontrasse un limite nelle censure rivolte alla decisione di primo grado, in quanto, trattandosi di provvedimenti a tutela dei figli minori, trova applicazione il principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di separazione e divorzio, ma riferibile anche ai figli di genitori non coniugati, secondo cui il criterio fondamentale cui devono ispirarsi i predetti provvedimento è rappresentato dallo esclusivo interesse morale e materiale della prole, previsto in passatodall’art. 155 c.c.ed oggi dall’art. 337-ter, con la conseguenza che il giudice non è vincolato dalle richieste avanzate dai genitori o dagli accordi intervenuti tra gli stessi (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 22/05/2014, n. 11412; 20/06/2012, n. 10174; 18/03/2010, n. 6606; 3/08/2007, n. 17043);
che, nel censurare l’imposizione a suo carico dell’obbligo di concordare le spese straordinarie, la ricorrente richiama il principio, ripetutamente affermato da questa Corte in riferimentoall’art. 155 c.c., nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dalD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, secondo cui il carattere straordinario della spesa non implica necessariamente un obbligo di concertazione tra i genitori, ravvisabile soltanto in riferimento alle spese che implichino decisioni di maggiore interesse per i figli (come quelle imposte da eventi eccezionali ed imprevedibili), in relazione alle quali è configurabile un onere d’informazione a carico del genitore affidatario, affinché l’altro genitore possa partecipare alla decisione, mentre riguardo alle scelte attinenti ai fatti ordinari della vita del minore (come quelle in materia d’istruzione), in relazione ai quali è previsto un dovere di vigilanza del genitore non affidatario, spetta a quest’ultimo il potere-dovere di attivarsi nei confronti dell’altro genitore per concordare la scelta e, in difetto, ricorrere al giudice (cfr. Cass., Sez. 6, 30/07/2015, n. 16175; Cass., Sez. 1, 26/09/ 2011, n. 19607; 29/05/1999, n. 5262);
che nell’enunciare il predetto principio, applicabile anche a seguito della sostituzione dell’art. 155 cit. conl’art. 337-ter c.c., introdotto dalD.Lgs. n. 154 del 2013, la giurisprudenza di legittimità ha peraltro precisato che esso non ha carattere inderogabile, essendo sempre possibile, ai sensi del secondo e dell’art. 155, comma 3 (oggi sostituiti dal secondo e dell’art. 337-ter, comma 3), che il giudice determini, oltre alla misura, anche le modalità con cui il genitore non affidatario deve contribuire al mantenimento dei figli, in modo difforme da quanto previsto in linea di principio dalla legge (cfr. Cass., Sez. 1, 27/04/2011, n. 9376; 28/01/2009, n. 2182);
che, nella specie, come si evince dalla motivazione del decreto impugnato, l’estensione dell’obbligo di preventiva concertazione a tutte le spese straordinarie, ivi comprese quelle mediche e scolastiche, è stata disposta “a garanzia di entrambi i genitori ed al fine di evitare eventuali fonti di contenzioso tra le parti”, in considerazione dell’elevata conflittualità in atto tra le stesse, la cui sottolineatura, giustificando la deroga apportata al regime legale, comporta l’infondatezza delle censure sollevate dal ricorrente;
che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato;
che, trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater, inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2017

Ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità, l’assegno divorzile deve essere stato disposto dal giudice

Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25053
Catania n. 774/15 depositata il 6 maggio 2015;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 settembre 2017 dal Consigliere Guido Mercolino.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che L.R. ha proposto ricorso per cassazione, per cinque motivi, illustrati anche con memoria, avverso la sentenza del 6 maggio 2015, con cui la Corte d’appello di Catania ha rigettato il gravame da lei interposto avverso la sentenza emessa il 12 agosto 2014 dal Tribunale di Catania, che aveva riconosciuto all’appellante il diritto di percepire una quota pari al 70% della pensione di reversibilità del defunto coniuge Le.Ga., attribuendo il residuo 30% a M.G.A.R., in qualità di coniuge divorziato del Le.;
che la M. ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria;
che il Collegio ha deliberato, ai sensi del decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, che la motivazione dell’ordinanza sia redatta in forma semplificata.
Considerato che con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dellaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 6, e art. 9, comma 3, edell’art. 113 c.p.c., sostenendo che, nel riconoscere al coniuge divorziato il diritto alla quota della pensione di reversibilità, la sentenza impugnata ha negato erroneamente rilievo alla circostanza che la M. non era titolare di assegno divorzile, in quanto l’importo corrispostole mensilmente dal Le. non aveva costituito oggetto di determinazione giudiziale, ma di un accordo intervenuto tra i coniugi all’udienza di comparizione personale nel giudizio di divorzio;
che con il secondo motivo la ricorrente ribadisce la violazione e la falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, e art. 9, comma 3, deducendo inoltre la violazionedell’art. 291 c.p.c.e degliartt. 2907 e 2909 c.c., anche in riferimentoall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, osservando che, nel riconoscere efficacia di giudicato alle affermazioni della sentenza di divorzio riguardanti l’assegno, la Corte di merito non ha considerato che nel relativo giudizio, svoltosi in contumacia della M., non era stata avanzata alcuna domanda in tal senso;
che le predette censure vanno esaminate congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione;
che in tema di divorzio, anche alla stregua dell’interpretazione autentica fornita dal legislatore con laL. 28 dicembre 2005, n. 263,art.5questa Corte ha già avuto modo di affermare che il tenore letterale dellaL. n. 898 del 1970,art.9subordinando il diritto alla pensione di reversibilità, ovvero ad una quota di essa, alla circostanza che il coniuge superstite divorziato sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5 medesima legge, postula “l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale”, con la conseguenza che, ai fini del riconoscimento del predetto diritto, non è sufficiente la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio, e neppure la percezione in concreto di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, occorrendo invece che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 cit., ovvero successivamente, quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell’art. 9 cit. (cfr. Cass., Sez. lav., 18/11/2010, n. 23300; Cass., Sez. I, 1/08/2008, n. 21002; 24/05/2007, n. 12149);
che nella specie è pacifico che l’importo mensilmente percepito dalla M. a seguito dello scioglimento del matrimonio contratto con il Le., e fino al decesso di quest’ultimo, non era stato determinato nella sentenza di divorzio, ma costituiva il frutto di un accordo raggiunto dai coniugi all’udienza presidenziale, cui non aveva fatto seguito la proposizione di una domanda di riconoscimento dell’assegno divorzile, in quanto la M. era rimasta contumace, con la conseguenza che il Tribunale, nel pronunciare il divorzio, si era limitato a dare atto in motivazione del predetto accordo, senza adottare alcuna statuizione al riguardo;
che non può condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui, premesso che “il contenuto della sentenza va determinato integrando quanto riportato nel dispositivo con ciò che è stato dichiarato in parte motiva”, ha ritenuto che il richiamo della sentenza di divorzio all’accordo intervenuto tra le parti, posto anche in relazione con le conclusioni rassegnate dall’attore nel predetto giudizio, concretasse un riconoscimento giudiziale del diritto della M. a percepire l’assegno divorzile, tale da giustificare l’attribuzione di una quota della pensione di reversibilità;
che infatti, nell’interpretazione del giudicato, pur dovendosi riconoscere la necessità di fare riferimento, in via principale, al tenore letterale del titolo giudiziale, valutato alla stregua del dispositivo e della motivazione che lo sorregge, non può escludersi l’ammissibilità di un’indagine che tenga conto, in via suppletiva, delle domande proposte dalle parti, le quali, pur non essendo utilizzabili per contrastare i risultati interpretativi univocamente ricavabili da altri elementi idonei ad escludere un’obiettiva incertezza sul contenuto della pronuncia, possono senz’altro svolgere una funzione integratrice nella ricerca del suo esatto valore, ove sorga un ragionevole dubbio al riguardo (cfr. Cass., Sez. 1, 20/11/2014, n. 24749; 23/11/2005, n. 24594; Cass., Sez. 3, 20/07/2011, n. 15902);
che, in riferimento all’assegno divorzile, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ribadito il principio secondo cui il riconoscimento del relativo diritto, anche nella disciplina introdotta dallaL. 6 marzo 1987, n. 74, non rientra nei poteri d’ufficio del tribunale ma presuppone un’apposita domanda della parte interessata (cfr. Cass., Sez. 6, 14/04/2016, n. 7451; Cass., Sez. 1, 15/11/2002, n. 16066; 7/05/1998, n. 4615), precisando che la stessa dev’essere formulata nella fase contenziosa successiva all’udienza presidenziale, ed escludendo la possibilità di valorizzare, a tal fine, le istanze formulate in detta udienza, in quanto esclusivamente correlate ai provvedimenti temporanei ed urgenti (cfr. Cass., Sez. 1, 26/06/1991, n. 7203);
che nella specie, essendo pacifica la mancata costituzione della M. nel giudizio di divorzio, può escludersi che nello stesso sia stata avanzata la domanda di riconoscimento dell’assegno divorzile, ai fini della quale non possono considerarsi sufficienti le conclusioni rassegnate dal coniuge all’esito dell’istruttoria, con la conseguenza che il riferimento all’accordo intervenuto tra le parti all’udienza di comparizione dinanzi al Presidente del Tribunale, contenuto nella motivazione della pronuncia di divorzio, non avrebbe in alcun modo potuto essere interpretato nel senso risultante dalla sentenza impugnata;
che la sentenza impugnata va pertanto cassata, restando assorbiti gli altri motivi d’impugnazione, riguardanti i criteri di ripartizione della pensione di reversibilità ed il regolamento delle spese processuali;
che, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensidell’art. 384 c.p.c., comma 2, con la dichiarazione del diritto della L. a percepire l’intero importo della pensione di reversibilità del coniuge defunto;
che l’oggettiva incertezza in ordine all’interpretazione della sentenza di divorzio giustifica la dichiarazione dell’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti.
P.Q.M.
accoglie i primi due motivi di ricorso; cassa la sentenza impugnata; decidendo nel merito, dichiara il diritto di L.R. di percepire per intero l’importo della pensione di reversibilità dovuta dalla Cassa Forense a seguito del decesso del coniuge avv. Le.Ga.. Compensa integralmente le spese dei tre gradi di giudizio.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2017

La riduzione del mantenimento decorre dalla pronuncia di modifica

Cass. civ. Sez. VI – 1, 24 ottobre 2017, n. 25166
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 26509/2015 proposto da:
B.N., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO CORRIDONI 15, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BURIGANA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SVETLANA PERKOVIC;
– ricorrente –
contro
G.L.L.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 3037/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/05/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 26/09/2017 dal Presidente Consigliere Dott. ANDREA SCALDAFERRI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che B.N. ricorre con due motivi per la cassazione della sentenza in epigrafe con cui la Corte di appello di Roma, nell’ambito del procedimento di separazione personale dei coniugi, ha modificato le condizioni di affido condiviso dei figli avuti dal matrimonio contratto con G.L.L., riducendo la misura dell’assegno di mantenimento della prole dovuto alla odierna ricorrente;
che l’intimato G.L.L. non ha svolto difese;
considerato che con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 444, 445 e 447 c.c., deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha fissato la decorrenza della riduzione dell’assegno di mantenimento a lei dovuto dal padre dei figli avuti in costanza di matrimonio dal (OMISSIS), anziché dalla data di efficacia della sentenza, nonostante l’irripetibilità del contributo per la natura alimentare ad esso attribuibile;
che con il secondo motivo lamenta la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 91 e 92 c.p.c., deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove aveva posto per i 2/3 a carico di essa ricorrente le spese del giudizio di appello, allorquando sussistevano giuste ragioni per l’integrale compensazione delle spese stante il complessivo esito del giudizio;
ritenuto che il primo motivo di ricorso va accolto, avendo questa Corte più volte affermato che, in tema di separazione personale, la riduzione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge e dei figli decorre dal momento della pronuncia giudiziale che ne modifica la misura, non essendo rimborsabile quanto percepito dal titolare di alimenti o mantenimento (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15186 del 20/07/2015; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 13609 del 04/07/2016);
che il secondo motivo è assorbito, tenuto conto del dispostodell’art. 336 c.p.c.;
che pertanto si impone la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto;
che può decidersi nel merito ai sensidell’art. 384 c.p.c., non essendovi necessità di ulteriori accertamenti di fatto, statuendo che la decorrenza della riduzione dell’assegno di mantenimento per i figli va fissata al 18/05/2015, data di pubblicazione della sentenza impugnata;
che la natura della causa e il suo complessivo esito (che vede entrambe le parti soccombenti) consentono la compensazione delle spese di entrambi i giudizi di merito;
che, in assenza di attività difensiva dell’intimato, non si provvede sulle spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa il provvedimento impugnato e, decidendo nel merito, fissa al 18 maggio 2015 la decorrenza della riduzione dell’assegno di mantenimento dovuto dal G. alla B. per il mantenimento dei figli; compensa tra le parti le spese di entrambi i giudizi di merito.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2017

Ai fini della dichiarazione di adottabilità è necessario accertare se il genitore, ancorché affetto da patologie mentali, sia attualmente e realmente inidoneo a realizzare e conservare l’interesse del minore

Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 2017, n. 22933
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA
sul ricorso 3671/2017 proposto da:
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo;
-ricorrente –
contro
M.A., nella qualità di genitore della minore M.M.R., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Rao, giusta procura in calce al ricorso;
– controricorrente –
e contro
S.F.;
– intimata –
nonchè sul ricorso proposto da:
S.F., nella qualità di tutore provvisorio, già curatore speciale, della minore M.M.R., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Gaetana Valenti, giusta procura in calce al ricorso successivo;
– ricorrente successivo –
contro
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo;
-controricorrente –
e contro
M.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 51/2016 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 21/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/07/2017 dal cons. GENOVESE FRANCESCO ANTONIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto dell’eccezione preliminare, nel merito per l’accoglimento per quanto di ragione di entrambi i ricorsi.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Palermo, a seguito del rinvio disposto dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7391 del 2016, ha riformato la pronuncia del Tribunale per i minorenni di quella città (che aveva ritenuto il signor M.A., per le patologie da cui era affetto, non consapevole dei bisogni della figlia e delle necessità di cura ed accudimento della stessa), ed ha revocato lo stato di adottabilità della minore M.M.R., n. a (OMISSIS), già disposto con la sentenza di primo grado, affermando che, alla luce dell’eccezionalità della misura dell’adozione (l’extrema ratio) e dell’obbligatorietà, da parte delle istituzioni, della messa in campo delle misure di sostegno alla genitorialità, non poteva più ritenersi sussistente lo stato di abbandono, nel caso esaminato.
1.1. La sentenza di primo grado era stata impugnata dal genitore, il predetto sig. M.A., il quale aveva lamentato che nel corso del procedimento non erano emerse presunte sue condotte pregiudizievoli nei confronti della minore ma, al contrario, la cura tenuta verso la figlia (sia nei periodi in cui la madre era assente (per i ricoveri da patologie psichiatriche che l’affliggevano) e sia quando la minore era stata trasferita, nella prima fase, in una comunità), e che la patologia psichiatrica, da cui pure lui era affetto (una “psicosi schizofrenica cronica paranoidea” di tipo lieve), non avrebbe inciso sulla sua idoneità genitoriale.
2. Compiendo il nuovo accertamento dei fatti, attraverso una lettura della CTU già espletata nel corso del primo giudizio di appello (di cui riportava ampi stralci), la Corte territoriale rovesciava la sua precedente valutazione (che aveva formato oggetto di cassazione, con il menzionato rinvio) e concludeva affermando che gli elementi evidenziati dal primo giudice (ossia: a) la mancanza della consapevolezza della patologia psichiatrica che affliggeva anche lui, genitore; b) la mancanza di attenzione al comportamento (morboso e ambiguo) del proprio fratello, con lui convivente, verso la figlia minore; c) l’osservazione degli operatori della comunità, dove la bambina era stata collocata, circa la modesta interazione tra egli medesimo e la figlia, nel corso delle visite da lui compiute) erano generici e lacunosi.
2.1. La malattia non poteva rilevare di per sé e, comunque, era di grado lieve (come accertato dal CTU) sicché essa poteva avere una effettiva incidenza nella specie solo ove ne fosse stata accertata l’interferenza con i doveri di “accudimento e cura della prole”; ciò che nella specie non sarebbe emerso in modo puntuale riguardo ai fatti osservati, risultando solo “scarne e poco approfondite” valutazioni espresse dagli operatori che non escluderebbero una “insuperabile incapacità di garantire alla minore le cure primarie” da parte del genitore.
2.2. Le ambigue attenzioni del fratello sarebbero state messe in sicurezza e prevenute per mezzo della dichiarata scelta di allontanarsi dall’abitazione comune e di trasferirsi (assieme alla figlia) in un altro immobile, appositamente acquistato.
2.3. L’osservazione del CTU, infine, che aveva concluso per la possibilità di favorire l’empowerment delle competenze genitoriali necessarie al M., attraverso il supporto dei servizi sociali ed una sua “presa in carico psico-sociale” da parte dei servizi di salute mentale, unitamente all’affidamento temporaneo etero-familiare della minore, con possibilità di avere con lei contatti costanti e regolati, costituiva la ragione della diversa conclusione raggiunta dai giudici in ordine all’esclusione dello stato di abbandono.
2.4. Non avevano pregio le obiezioni sollevate, e cioè: a) quella relativa alla durata della misura (protraibile fino a due anni e, comunque, ulteriormente prorogabile); b) quella riguardante la difficoltà di individuazione di un nucleo familiare disponibile, per la protrattasi permanenza della minore in una comunità e la necessità di impedire le ingerenze pregiudizievoli del nucleo familiare materno (potendosi ovviare a ciò con un affidamento fuori distretto); c) quella attinente alla mancata accettazione del M. circa la sua presa in carico da parte del DSM (dipartimento di salute mentale) e la sua collaborazione con la famiglia affidataria (perchè positivamente riscontrate dal CTU e comunque non ipotizzabili ex ante).
2.5. In sostanza, il sincero e solido legame affettivo del padre con la minore, e la volontà di mantenere con lei un rapporto genitoriale, poteva costituire il motore del suo nuovo atteggiamento ed il catalizzatore di quella collaborazione che gli richiedeva la gestione del suo rapporto con la figlia, in un ambito allargato e con la presenza di più attori legittimati ad interloquire.
3. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione: a) l’avv. S.F., n.q. di tutrice provvisoria (già curatrice speciale) della minore M.M.R.; b) il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo.
4. Il signor M. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso (Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 184 del 1983,artt.1,2,4,5,8,12e15; art. 3 Conv. Onu; L. n. 179 del 1991):art. 360 c.p.c., n. 3) la tutrice provvisoria lamenta che la Corte territoriale, nel ripetere il giudizio di merito, senza disporre alcun ulteriore accertamento (e limitandosi solo all’esame-audizione del M.), non abbia verificato in concreto l’applicazione dei principi di diritto di cui essa aveva già fatto malgoverno nella precedente fase del giudizio di gravame, in particolare, non compiendo l’accertamento demandatole in ordine alla verifica del concreto e prevalente interesse della minore al mantenimento (o alla recisione) del legame con il genitore.
1.1. In particolare, la Corte non avrebbe tenuto conto che la relazione del CTU, il dr. F., aveva posto al centro della sua indagine il solo genitore (peraltro, inconsapevole della sua patologia) senza alcuna verifica in ordine al legame instauratosi tra il padre e la figlia ed all’attenzione del primo circa le necessità di quest’ultima, bisognosa di cure specifiche e quotidiane.
1.2. In sostanza, sarebbe mancate un accertamento delle condizioni attuali della minore-preadolescente e del suo stato psicologico nonché degli effetti che l’affidamento a quel genitore potrebbe provocare nella minore (tenendo conto delle problematiche che già la riguardavano).
2. Con il secondo motivo (Violazionedell’art. 112 c.p.c.:art. 360 c.p.c., n. 4) la tutrice provvisoria lamenta che la funzione genitoriale sarebbe stata valutata in astratto e mai correlata alle esigenze ed ai bisogni della minore, senza che il CTU avesse verificato le sue condizioni fisiche e psicologiche (il ritardo psicomotorio, i disturbi gravi dell’attenzione e del linguaggio, l’iperattività e i disturbi dismorfici) e se essi dipendessero dal contesto familiare; né sarebbe stata osservata la relazione padre-figlia, cosicché il giudice avrebbe gravemente errato a non rinnovare la CTU. Infatti, la bambina avrebbe recuperato un miglior livello di diverse sue funzioni, rispetto allo stato originario (non uso del linguaggio, emissione di suoni ed espressione a gesti, stato di non deambulante), proprio per il suo attuale inserimento in un contesto accudente e protettivo, particolarmente attento ai suoi bisogni, sicché oggi sarebbe in grado di parlare in modo comprensibile, di praticare sport e relazionarsi positivamente con i coetanei e con gli adulti di riferimento.
3. Con l’unico motivo di ricorso (Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 184 del 1983,artt.1,2,4,5,8,12e15; art. 3 Conv. Onu; L. n. 179 del 1991):art. 360 c.p.c., n. 3) la Procura Generale della Repubblica di Palermo ha sostanzialmente svolto le stesse doglianze sopra riassunte ed espresse dalla tutrice provvisoria.
4. Vanno, innanzitutto esaminate le eccezioni di inammissibilità relative al ricorso proposto dalla PG di Palermo, in quanto si assume, da parte del controricorrente, che esso: a) sia tardivo, in quanto notificato solo il 25 gennaio 2017, ossia oltre il termine del 21 gennaio, conseguente alla comunicazione della sentenza da parte della cancelleria (avvenuta il 22 dicembre 2016); b) rechi, come allegati, alcuni documenti che non possono trovare ingresso nel giudizio.
4.1. Preliminarmente va chiarito che ove nel giudizio di merito “vi siano più parti soccombenti dinanzi alla Corte d’appello, ciascuna di esse ha l’onere di proporre l’impugnazione” avverso il provvedimento terminativo nel termine stabilito “dalla sua notificazione, a prescindere dall’avvenuto deposito del ricorso per cassazione da parte di altro soccombente.” (cfr., in altro tipo di procedimento, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25216 del 2015).
4.2. Alla stregua di tale principio, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso del PG in quanto portato alla notifica (come risulta dalla lettura del fascicolo di quella parte) solo il 23 gennaio 2017 e quindi oltre il termine di trenta giorni stabilito per proporlo.
4.3. Di conseguenza, rimane assorbita anche la doglianza relativa ai documenti allegati al ricorso per cassazione.
5. I due motivi del ricorso principale vanno esaminati congiuntamente ed accolti.
5.1. Questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 8527 del 2006) ha affermato il principio di diritto secondo cui, “perché si realizzi lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità di un minore, devono risultare, all’esito di un rigoroso accertamento, carenze materiali ed affettive di tale rilevanza da integrare, di per sé, una situazione di pregiudizio per il minore, tenuto anche conto dell’esigenza primaria che questi cresca nella famiglia di origine, esigenza che non può essere sacrificata per la semplice inadeguatezza dell’assistenza o degli atteggiamenti psicologici e/o educativi dei genitori, con la conseguenza che, ai fini della dichiarazione di adottabilità, non basta che risultino insufficienze o malattie mentali dei genitori, anche a carattere permanente, essendo in ogni caso necessario accertare se, in ragione di tali patologie, il genitore sia realmente inidoneo ad assumere e conservare piena consapevolezza dei propri compiti e delle proprie responsabilità e ad offrire al minore quel minimo di cure materiali, calore affettivo e aiuto psicologico indispensabili per un’equilibrata e sana crescita psicofisica.”.
5.2. Se, perciò, “non basta che risultino insufficienze o malattie mentali dei genitori, anche a carattere permanente, essendo in ogni caso necessario accertare se, in ragione di tali patologie, il genitore sia realmente inidoneo ad assumere e conservare piena consapevolezza dei propri compiti e delle proprie responsabilità e ad offrire al minore quel minimo di cure materiali, calore affettivo e aiuto psicologico indispensabili per un’equilibrata e sana crescita psicofisica”, è certo che la tale valutazione di idoneità del genitore ad assicurare il minimo esigibile nei confronti del figlio minore deve essere, necessariamente, compiuta attraverso un controllo della relazione intrafamiliare e non già esclusivamente sulla persona dell’unico genitore avente qualche risorsa educativa (il padre).
5.3. Ha perciò perfettamente ragione l’odierna ricorrente a lamentare che l’accertamento sulla capacità genitoriale (con i menzionati caveat) sia stata inefficacemente eseguito osservando la figura del padre (della minore), senza che sia stata tenuto in debito conto anche lo stato psichico e comportamentale della minore (già affetta da ritardo psicomotorio, disturbi gravi dell’attenzione e del linguaggio, iperattività e i disturbi dismorfici), registrandone le cause, i progressi (o regressi) compiuti e, soprattutto, la possibilità – nel contesto familiare monoparentale – di poter conseguire quella crescita minima necessaria per il raggiungimento della sua autonomia e per la sua collocazione nella società nella quale essa vive.
5.4. La bambina, infatti, risultava aver avuto (se non ha ancora in atto) seri problemi psico-patologici, quali il non uso del linguaggio, l’emissione di suoni al posto delle parole, l’espressione a gesti, uno stato di persona non deambulante che sembrerebbero (non avendo formato oggetto di un apposito accertamento peritale) superati dall’attenzione positiva che vi avrebbero riposto i servizi sociali e, soprattutto, gli affidatari provvisori sicché oggi – nella fase della preadolescenza – la minore sarebbe in grado di parlare in modo comprensibile, di praticare uno sport e di relazionarsi positivamente sia con i coetanei che con gli adulti di riferimento.
5.5. Osserva la Corte che la valutazione relativa alla sussistenza dello stato di abbandono (o la sua ricaduta, come paventano i ricorrenti) in tanto può essere completamente esclusa (sia pure dando un sostegno alla figura paterna, nei sensi menzionati nella sentenza impugnata) in quanto si sia radicalmente escluso che le patologie gravi che riguardavano la bambina non siano dipese dalla limitata capacità educativa del suo genitore, affetto dalle riscontrate patologie, anch’esse abbisognevoli di cure ed integrazioni e sostegni.
5.6. La mancata estensione della CTU, riguardante la valutazione della capacità genitoriale paterna, anche alla relazione padre-figlia non consente perciò di poter affermare, con la necessaria apprezzabile probabilità da parte della Corte di merito, che i seri inconvenienti che hanno afflitto la minore nei primi anni di vita non siano causalmente dipesi dal comportamento genitoriale e, soprattutto, che dallo stato di questo non possano conseguire, in ragione di un rinnovato rapporto con la figlia (ampiamente inserita in altro contesto educativo e familiare) ricadute o regressioni.
5.7. Del resto questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 24445 del 2015) ha affermato il principio di diritto secondo cui, “in tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori.”, ma anche compiendo un’osservazione attenta sullo stato psicologico ed evolutivo della minore.
5.8. Da ultimo, va rilevato che, nel corso del rinnovato giudizio di appello, la Corte territoriale non ha tenuto conto dell’esistenza di una previsione di legge espressamente stabilita a pena di nullità, ossia laL. n. 184 del 1983,art.5, comma 1, u.p., come inserita dalla modifica apportata dallaL. n. 173 del 2015(Modifiche allaL. 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare), il quale così dispone: “L’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato ed hanno facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore”.
5.9. La necessità della convocazione (dell’affidatario o della famiglia collocataria) nel corso del procedimento giurisdizionale, da cui deriva la nullità di quest’ultimo nel caso della sua inosservanza, è imposta dalla disposizione di legge avente natura processuale, perciò immediatamente applicabile ai procedimenti in corso, anche se instaurati a seguito della cassazione con rinvio.
5.10. Infatti, questa stessa sezione della Corte di cassazione (Sez. 1, Sentenza n. 23169 del 2006) ha già affermato il principio di diritto secondo cui “l’efficacia vincolante della sentenza di cassazione con rinvio, presupponendo il permanere della disciplina normativa in base alla quale è stato enunciato il principio di diritto ivi enunciato, viene meno in tale sede quando quella disciplina sia stata successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di “ius superveniens””.
5.11. Ed è proprio tale nuovo diritto, sopravvenuto, che imponeva ed impone al giudice di merito di convocare gli affidatari provvisori del minore a pena di nullità, consentendo loro di esercitare, altresì, la “facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore”.
5.12. Un tale obbligatorio adempimento, nella specie, risulta particolarmente rilevante in quanto, come si è visto, le problematiche che affiggevano la minore non risultano essere state valutate all’attualità, e ciò in contrasto con il principio di diritto (che non può trovare deroga neppure in sede di rinvio) secondo cui, “in tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, fondata su osservazioni ed accertamenti datati oltre che sulla difficile storia personale dei genitori dei minori, senza effettuare alcuna comparazione con i significativi mutamenti successivi, rivolti al recupero della relazione con i medesimi e a un miglioramento delle condizioni di vita da offrire loro).” (Sez. 1, Sentenza n. 24445 del 2015 già citata).
6. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, la sentenza cassata e la causa rinviata, anche per le spese di questa fase, alla Corte a quo per un nuovo esame alla luce dei seguenti principi di diritto:
in tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo in considerazione non solo la figura genitoriale ma anche lo stato psicologico-evolutivo del minore, la sua evoluzione, il permanere di problematiche non superate e gli eventuali rischi di regressioni o peggioramenti, attraverso un’osservazione non solo della figura genitoriale ma anche di quella del minore;
ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.5, comma 1, u.p., come inserita dalla modifica apportata dallaL. n. 173 del 2015(Modifiche allaL. 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare), la necessità della convocazione dell’affidatario o della famiglia collocataria nel corso del procedimento giurisdizionale relativo alla dichiarazione di adottabilità di un minore, è imposta a pena di nullità dalla richiamata disposizione di legge, avente natura processuale e perciò immediatamente applicabile ai procedimenti in corso, anche se instaurati a seguito della cassazione con rinvio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto dal P.G. presso la Corte d’appello di Palermo.
Accoglie il ricorso della tutrice provvisoria, cassa la sentenza impugnata, e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, alla Corte d’appello di Palermo in diversa composizione.
Dispone che, ai sensi delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione prima civile, il 14 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017