RESPONSABILITÀ GENITORIALE

di Gianfranco Dosi

I Il concetto di “responsabilità genitoriale”
Il codice civile all’art. 2 prevede che fino alla maggiore età – fissata al compimento del diciottesimo anno (legge 8 marzo 1975, n. 39) – non si acquista la capacità di agire. Fino a tale età il figlio è soggetto a quella che in base a quanto prevedeva il codice civile all’art. 316 eravamo abituati a chiamare “potestà dei genitori” di cui il legislatore non ha mai fornito una specifica definizione ma nella cui nozione tuttavia, a partire quanto meno dalla riforma del 1975 del diritto di famiglia, si( sono sovrapposti sia il potere di rappresentanza (il cui limite temporale è quello del compimento della maggiore età da parte del figlio) sia un altro fascio di funzioni che supera quel limite cronologico. Con la riforma sulla filiazione (attuata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) anche l’art. 316 del codice civile è stato modificato e l’espressione “potestà dei genitori” è scomparsa venendo sostituita con quella di “responsabilità genitoriale” che peraltro non contiene più il riferimento della durata fino alla maggiore età.
La riforma sulla filiazione ha avuto come obiettivo principale l’unificazione dello stato giuridico di tutti i figli (nuovo art. 315 c.c.) ma il legislatore ha colto anche l’occasione per numerosi altri interventi legislativi su istituti collegati alla filiazione e tra questi, appunto, l’introduzione di una rinnovata disciplina della potestà dei genitori ribattezzata con l’espressione “responsabilità genitoriale”.
Come si dirà più oltre il concetto di responsabilità genitoriale, nel contesto della riforma sulla fi¬liazione, costituisce la presa d’atto di una sempre maggiore ampiezza che ha assunto nel tempo la nozione tradizionale di potestà, ma si accompagna anche a novità giuridiche molto significative che hanno completato in materia di esercizio delle funzioni genitoriali la riforma introdotta dalla legge 14 febbraio 2006, n. 154 sull’affidamento condiviso dei figli in sede di separazione dei geni¬tori, costituendone l’inevitabile completamento nel campo dei principi generali.
L’art. 2 della legge, alla lettera h), aveva delegato il Governo ad unificare le disposizioni che disci¬plinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, “delineando la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale”. Al legislatore delegato si chiedeva quindi di sintetizzare e disciplinare in modo più adeguato e moderno le regole che presiedono a quell’insieme di poteri e doveri che sono tradizionalmente collegati alle funzioni genitoriali.
Con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 il Governo ha dato attuazione alla delega sul punto attraverso due operazioni.
La prima operazione – di carattere nominalistico è stata quella di eliminare del tutto il termine “potestà” (che nel 1975 aveva soppiantato l’espressione “patria potestà”) sostituendolo con quello di “responsabilità genitoriale”. L’art. 104 del decreto legislativo di attuazione al primo comma prescrive che “la parola potestà riferita alla potestà genitoriale e le parole potestà genitoriale, ovunque presenti, in tutta la legislazione vigente, sono sostituite dall’espressione: responsabilità genitoriale”. La differenza non è solo terminologica dal momento che la nozione di responsabilità appare più idonea a riferirsi giuridicamente ad un soggetto che non ha la posizione di sottoposto ad un potere (come il termine potestà lascerebbe intendere) ma di persona con pari dignità non solo oggetto di tutela ma soprattutto soggetto di diritti.
Questa operazione nominalistica non è, tuttavia, andata esente da qualche critica dal momento che la legge delega non intendeva verosimilmente imporre la sostituzione dei due termini ma aveva soltanto prescritto che venisse delineata una “nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale”. Il legislatore del 2012 pensava ad un affiancamen¬to quindi dei due concetti e non alla loro unificazione. Il decreto di attuazione non sembra però che abbia voluto stravolgere la tradizionale funzione genitoriale determinata dalla sovrapposizione nelle funzioni genitoriali di poteri e di doveri e la nuova terminologia, perciò, non dovrebbe in¬durre a sospettare la scomparsa nella concezione delle funzioni genitoriali di quel fascio di poteri che il concetto di potestà richiamava. Resta l’impressione di una affrettata operazione chirurgica che potrebbe portare a qualche forzatura lessicale (decadenza della responsabilità genitoriale, procedimenti de responsabilitate e così via). Questa operazione di semplificazione operata dalla commissione che ha redatto il testo delle norme di attuazione imporrà in ogni caso alla cultura giuridica il compito di differenziare i due profili (poteri e doveri) all’interno della nuova espressione sintetica proposta dalle norme di attuazione.
Questa prima operazione ha portato, in ogni caso, alla sostituzione della parola “potestà” con l’e-spressione “responsabilità genitoriale” in tutta la normativa civile e penale vigente. Nella relazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 si afferma a proposito di questa sostituzione ter¬minologica che essa si è resa necessaria in considerazione dell’evoluzione socio-culturale, prima che giuridica, dei rapporti tra genitori e figli e si osserva espressamente che la nozione di responsabilità genitoriale presente da tempo in numerosi strumenti internazionali (come per esempio il regola¬mento europeo n. 2201/2003) è “quella che meglio definisce i contenuti dell’impegno genitoriale non più da considerare come una potestà sul figlio minore, ma come una assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti del figlio. La modifica terminologica dà risalto alla diversa visione prospettica che nel corso degli anni si è sviluppata ed è ormai da considerare patrimonio condiviso: i rapporti tra genitori e figli non devono essere più considerati avendo riguardo al punto di vista dei genitori, ma occorre porre in risalto il superiore interesse dei figli minori”.
La seconda operazione è consistita nel dislocare le disposizioni concernenti le funzioni genitoriali in modo più razionale all’interno del titolo IX del primo libro (rinominato “Della responsabilità ge¬nitoriale e dei diritti e doveri del figlio” in sostituzione del precedente “Della potestà dei genitori”) nel quale ora sono state significativamente ridistribuite in due differenti capi da un lato la disciplina “dei diritti e dei doveri del figlio” (I capo: articoli 315 – 337 c.c.) e dall’altro le norme sull’”eserci¬zio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”(capo II: articoli 337-bis – 337-octies). Questa operazione è senz’altro da consi¬derare del tutto ragionevole e coerente avendo inserito il tema della responsabilità dei genitori nel contesto sistematico nel quale si tratta anche dei diritti e dei doveri figli in generale. La responsa¬bilità dei genitori è, infatti, un concetto unitario che deve valere non solo quando i figli convivono con entrambi i genitori ma anche quando la separazione dei genitori impone una riorganizzazione delle relazioni familiari.
La giustificazione di questa ridistribuzione delle norme giuridiche è stata ben spiegata nella re¬lazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 dove è stato chiarito che si è voluta superare una discriminazione sistematica a carico dei figli nati fuori dal matrimonio in quanto nell’impianto originario del codice la disciplina relativa ai rapporti tra genitori e figli era dislocata in diverse parti del codice, in parte nel titolo IX, ma soprattutto nel titolo VI dedicato al matrimonio, quasi a voler evidenziare una differenza tra i figli a seconda dell’essere nati o meno nel matrimo¬nio. La discriminazione poi è molto evidente per quanto concerne la disciplina della dissoluzione del vincolo tra i genitori essendo le norme quasi tutte collocate nell’ambito della disciplina della separazione e del divorzio a differenza di quanto ha fatto la legge del 2006 sull’affidamento con¬diviso che ha unificato la disciplina. In questo senso la riforma sulla filiazione si pone nell’alveo di questo movimento di unificazione.

II La normativa sovranazionale che ha suggerito l’introduzione della nuova espressione “responsabilità genitoriale”
Quasi tutti i testi normativi sovranazionali più importanti fanno riferimento alla vita familiare non¬ché ai diritti e ai doveri dei genitori. Tuttavia, nel senso corrispondente al significato giuridico della “potestà”, il testo normativo nel quale è stata esplicitamente utilizzata l’espressione “responsabili¬tà genitoriale” è il Regolamento europeo n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale. Il precedente (abrogato) Regolamento europeo n. 1347/2000 ancora utilizzava l’espressione “po¬testà dei genitori”.
In questo testo la responsabilità genitoriale viene così definita dal Regolamento (art. 2): “i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita”. Il diritto di affidamento è definito come l’insieme dei diritti e doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di intervenire sulla decisione riguardo al suo luogo di residenza” mentre il diritto di visita è il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo.
Il Regolamento del 2003 amplia il campo di applicazione della parte relativa alla responsabilità ge¬nitoriale in quanto il precedente Regolamento del 2000 concerneva soltanto le questioni attinenti alla potestà dei genitori coniugati sui figli comuni. Il nuovo Regolamento elimina questa limitazione per evitare discriminazioni tra i minori e trova quindi applicazione per qualsiasi controversia con¬cernente la responsabilità genitoriale sui figli, anche non si entrambi
Poiché il Regolamento n. 2201/2003 si occupa sostanzialmente di risolvere i conflitti di competen¬za tra gli Stati europei individuando i presupposti (art. 3) in base ai quali una causa matrimoniale possa essere considerata di competenza di uno o di un altro Stato, la caratteristica più significativa che deve essere ricordata in tema di responsabilità genitoriale e quella disciplinata dall’art. 12 (ru¬bricato “proroga della competenza”) in relazione al quale le autorità giurisdizionali che sono consi¬derate competenti sulla domanda di separazione, di divorzio o di nullità sono anche competenti a trattare le domande relative alla responsabilità genitoriale. Al di fuori di questi procedimenti e nei casi di genitorialità fuori dal matrimonio vale il principio generale che la competenza appartiene al giudice dello Stato in cui il minore ha la sua residenza abituale (art. 8).
L’altro principio al quale il Regolamento 2201/2003 dà attuazione è quello in base al quale le decisioni pronunciate in uno Stato europeo sono riconosciute negli altri Stati senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento (art. 21). Chi ha interesse può promuovere un giudizio per il riconoscimento al fine di dare esecuzione alla decisione o per il non riconoscimento di una di queste decisioni. L’art. 23 del Regolamento indica i motivi per i quali non è ammesso il riconoscimento e tra questi il caso in cui la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato. L’istan¬za per l’esecutività non è necessaria quando si tratta di dare attuazione al diritto di visita o al prov¬vedimento che dispone il ritorno del minore nello Stato dal quale è stato illecitamente allontanato.
Come si è sopra detto, nella relazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 si afferma testualmente, a proposito dell’introduzione dell’espressione “responsabilità genitoriale” in sostitu¬zione di quella di “potestà dei genitori”, che la nuova terminologia si è resa necessaria in conside¬razione della evoluzione socio-culturale, prima che giuridica, dei rapporti tra genitori e figli come da tempo suggerito in numerosi strumenti internazionali quali, appunto, il Regolamento europeo n. 2201/2003.

III Quale importante novità è contenuta nel nuovo articolo 316 del codice civile sull’esercizio della “responsabilità genitoriale”?
a) L’esercizio della responsabilità genitoriale nella filiazione fuori dal matrimonio
La riforma non si è limitata alla sostituzione dell’espressione “potestà dei genitori” con quella di “responsabilità genitoriale” ma ha anche introdotto una importante novità nella disciplina giuridica delle funzioni genitoriali uniformando le regole relative all’esercizio della responsabilità genitoriale dentro e fuori dal matrimonio.
Per comprendere bene il significato di questa novità si deve ricordare che l’articolo 30 della Co¬stituzione prevede che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Proprio per questo motivo la Costituzione ha sempre impresso una carica specifica al tema della uniformità dei doveri e dei diritti dei genitori verso i figli prescindendo dalla nascita nel matrimonio o fuori dal matrimonio. La riforma sulla filiazione e sull’unificazione dello stato giuridico dei figli ha tratto motivazione soprattutto da questa indicazione costituzionale.
Tra le norme che il decreto legislativo ha ridistribuito nel titolo IX del primo libro del codice civile (suddiviso come detto in due nuovi capi) solo alcune sono completamente nuove, come per esem¬pio, all’interno del primo capo, il fondamentale e centrale art. 315 (“tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”), l’art. 315-bis che – assemblando principi già vigenti – elenca in quattro commi i “diritti e doveri del figlio”, l’art. 316 (che come già detto conia la nuova espressione “responsa¬bilità genitoriale” e dal quale scompare quella parte molto criticata che attribuiva al solo padre, nelle situazioni di incombente pericolo per il figlio, il potere di adottare provvedimenti urgenti), l’art. 317-bis sul diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti, l’art. 336- bis sull’ascolto del minore. Le altre norme, ancorché alcune novellate in modo significativo (come l’art. 337-quater in tema di affidamento esclusivo), riproducono sostanzialmente, sia pure con una nuova numerazione, il precedente assetto normativo anche nella parte in cui era stato modellato dalla riforma dell’affidamento condiviso (legge 8 febbraio 2006, n. 54).
In tema di esercizio della responsabilità genitoriale di fondamentale importanza, per i risvolti che vi sono collegati, è proprio il nuovo art. 316 codice civile dove è contenuto il nuovo principio giuri¬dico sul quale è fondata la “responsabilità genitoriale” che è costituito dall’esercizio della respon¬sabilità attribuito sempre ad entrambi i genitori anche in caso di filiazione fuori dal matrimonio, a modifica del previgente art. 317-bis c.c. che prevedeva, nel secondo comma, quale presupposto dell’esercizio comune della potestà la convivenza dei genitori naturali.
Vi è oggi, pertanto, esercizio della responsabilità genitoriale in capo ad entrambi i genitori naturali anche se essi non convivono o non hanno mai convissuto.
Il nuovo art. 316 c.c. (che, come il precedente, si riferisce alle relazioni familiari nella famiglia uni¬ta), ribadisce innanzitutto al primo comma che “entrambi i genitori hanno la responsabilità genito¬riale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del mino¬re”. In questa prima parte si ribadisce perciò il principio già espresso dal previgente art. 316 del co¬dice civile dove si prevedeva che “la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori”.
La vera novità sta nella seconda parte del nuovo art. 316 – che si occupa della genitorialità al di fuori del matrimonio – dove si prevede che “il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale” e poi si precisa che “se il riconoscimento del figlio nato fuori dal matri¬monio è fatto dai genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi”.
La rivoluzione normativa è molto evidente se si raffronta questo testo con il previgente art. 317-bis del codice civile dove l’esercizio della potestà da parte di entrambi i genitori che avevano riconosciuto il figlio naturale era, come detto, collegato alla convivenza tra i genitori. Così si esprimeva il secondo comma dell’art. 317-bis prima della sua sostituzione con le nuove norme: “Al genitore che ha rico¬nosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui. Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori l’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi”.
Perciò nel sistema normativo precedente, la convivenza dei genitori (l’essere cioè famiglia) era la condizione perché i due genitori fossero ritenuti entrambi esercenti la potestà. Questo presupposto non è più previsto nella legge ora vigente. Ora secondo la nuova legge per esercitare la potestà basta aver riconosciuto il figlio. La famiglia esiste, perciò, si potrebbe dire, anche se i genitori na¬turali non convivono (o non hanno mai convissuto).
Nel caso di separazione della coppia genitoriale – ed è questo un aspetto indubbiamente parados¬sale – la giurisprudenza successiva alla legge sull’affidamento condiviso era già pervenuta a questa conclusione. Uguale operazione interpretativa aveva anche fatto buona parte della dottrina.
La legge 14 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) aveva espresso – sul versante della separazione dei genitori – il fondamentale principio che dopo la separazione “la potestà sui figli è esercitata da entrambi i genitori” (sia in caso affidamento condiviso che in caso di affidamento esclusivo) (art. 155 – attuale art. 337-ter – c.c.), mentre il secondo comma dell’art 4 della medesima legge prescriveva che “le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. La so¬stanza della riforma stava soprattutto in tali indicazioni.
b) I problemi posti dal nuovo art. 316 del codice civile e le possibili soluzioni nell’art. 317
Non sono stati ancora sufficientemente dibattuti alcuni problemi che porrà nella pratica la regola nuova dell’esercizio sempre ad entrambi i genitori della responsabilità genitoriale nell’ipotesi di filiazione fuori dal matrimonio, anche se i genitori non convivono o non abbiano mai convissuto.
Intanto – per avere un’idea dell’entità e della problematicità del fenomeno – vi è da dire che se¬condo i dati Istat i figli che nascono oggi fuori dal matrimonio costituiscono circa il 23% del totale (si tratta di nascite da madri singole, vedove o divorziate o da coppie non coniugate).
Questo dato relativo all’incremento del numero di figli nati fuori dal matrimonio si problematicizza in connessione con l’attribuzione della responsabilità genitoriale sempre ad entrambi i genitori ancorché non conviventi o che non abbiano mai convissuto e deve ora anche essere strettamente correlato non solo a quello costituito dalla nuova disciplina giuridica della parentela contenuta nel novellato art. 74 del codice civile che estende il vincolo di parentela anche nel caso in cui la filia¬zione è avvenuta fuori dal matrimonio (rimodellando anche il primo comma dell’art. 258 c.c. che ora prescrive che “il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso”) ma anche al dato generale – rilevato però dall’Istat soltanto per le coppie co¬niugate – relativo all’aumento del numero delle separazioni che verosimilmente coinvolge anche le coppie non coniugate. Il tema, infine, deve anche essere collegato all’altro sulle problematiche delle famiglie ricomposte che la riforma del 2013 sulla filiazione non ha minimamente disciplinato.
Consegue a questi dati un quadro di grande complessità e di evidente problematicità che tocca da vicino il tema dei differenti modelli familiari nell’attuale società.
Si può fare l’esempio di due genitori naturali che non convivono (perché hanno smesso di convive¬re o perché non hanno mai convissuto) e che formano ognuno una nuova famiglia (matrimoniale o non matrimoniale) con un nuovo partner mettendo al mondo un altro figlio. Si determina la situazione nuova seguente: il figlio di entrambi è parente in linea collaterale (fratello) di ciascuno dei figli (e zio dei figli dei fratelli) nati dalla relazione del genitore con il nuovo e la nuova partner. La stessa situazione si verifica per il figlio nato da due genitori uniti in matrimonio ove il padre dovesse riconoscere nel corso del matrimonio un figlio nato da una relazione extraconiugale. E così via in un reticolo una volta inimmaginabile di parentela.
La problematicità che qui si vuole mettere in evidenza deriva, però, non tanto dall’estendersi della rete della parentela in sé (che potrebbe creare indubbiamente sul piano successorio un ampliamento significativo del numero dei chiamati all’eredità) quanto piuttosto dalla necessaria compresenza e cogestione quindi della responsabilità genitoriale. Come può essere esercitata la responsabilità genitoriale, per di più di comune accordo, tra genitori naturali che potrebbero tro¬varsi in condizione di pressoché totale estraneità reciproca e, soprattutto, nei confronti di un figlio con cui magari non si è mai convissuto?
Inoltre, anche alcune norme specifiche determinano una condizione di applicazione problematica. Si consideri per esempio l’ultimo comma dell’art. 320 c.c. che attribuisce all’altro genitore che magari non ha mai convissuto neanche con il figlio, il potere di rappresentarlo, in caso di conflitto di interessi tra il figlio e il genitore con lui convivente esercente la potestà/responsabilità. Si consideri, ancora, per esempio la norma che disciplina l’usufrutto legale. L’art. 324 c.c. (usufrutto legale) prevede che “i genitori esercenti la responsabilità genitoriale hanno in comune l’usufrutto dei beni del figlio” e si immagini un minore che vive con la madre. Non solo la madre ma anche il padre, ancorché per esempio non abbia mai convissuto con l’altro genitore (e con il minore), sarà titolare dell’usufrutto. E così per altre norme, come per esempio, per l’art. 328 c.c. (nuove nozze) il quale prevede che “il genitore che passa a nuove nozze conserva l’usufrutto legale, con l’obbligo di accantonare in favore del figlio quanto risulti eccedente rispetto alle spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione di quest’ultimo”.
Il rimedio può essere trovato nell’art. 317 del codice civile.
Questa norma è rimasta invariata anche dopo la riforma sulla filiazione del 2013 e continua a di¬sciplinare i casi di “impedimento di uno dei genitori” prevedendo al primo comma che “nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro” (primo comma).
Si tratta però di verificare se i casi di lontananza, incapacità o altro impedimento (si pensi ad una grave malattia, allo stato di detenzione, alla prolungata assenza per motivi di lavoro dal territorio nazionale, al ricovero presso una struttura ospedaliera o presso una comunità terapeutica, ad una condizione di incapacità naturale prolungata) producano automaticamente l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale in capo all’altro genitore oppure se serva sempre un provvedimento del giudice (come per il secondo comma che disciplina i casi di separazione della coppia genitoriale).
Si tratta di un interrogativo importante perché ove si ritenesse che l’esercizio esclusivo della respon-sabilità genitoriale in capo a un genitore derivi automaticamente dalla lontananza, dalla incapacità o dall’impedimento dell’altro, saremmo in presenza di una situazione capace di neutralizzare sul nascere i rischi che, come si è detto, potrebbero derivare dall’attribuzione sempre dell’esercizio della responsabilità ad entrambi i genitori anche se non convivono o non hanno mai convissuto.
Se si dovesse interpretare la disposizione nel suo senso letterale dovremmo optare per la soluzio¬ne dell’automaticità in quanto solo con riferimento alla separazione, al divorzio e all’annullamento del matrimonio il secondo comma dell’art. 317 rimette al giudice la decisione. E d’altro lato il primo e il secondo comma si riferiscono a due situazioni del tutto incompatibili l’una dall’altra (nonostan¬te la rubrica della disposizione (impedimento di uno dei genitori) che si riferisce alla ipotesi del solo primo comma.
Va anche chiarito che l’ipotesi di cui al primo comma naturalmente lascia sempre il genitore im¬pedito, incapace o inidoneo titolare della potestà/responsabilità. È il classico caso di dissociazione tra titolarità e potestà/responsabilità. Situazione peraltro che si verifica anche nel caso di cui al secondo comma. E quindi il problema si pone solo nel caso in cui non sia stata dichiarata eviden¬temente la decadenza della potestà/responsabilità.
Pertanto il problema è solo stabilire se nell’ipotesi di incapacità, lontananza o altro impedimento l’esercizio esclusivo della responsabilità si realizza automaticamente o serve un provvedimento del giudice.
La risposta che nel lontano passato ha dato la giurisprudenza è che l’esercizio della potestà si concentra sull’altro genitore automaticamente ed altrettanto automaticamente riprende al venir meno dell’impedimento, senza la necessità di un provvedimento del giudice (Cass. civ. 27 mag¬gio 1975, n. 2122). Si tratta però di una sentenza troppo risalente per attribuirle con certezza una valenza attuale. La dottrina, anche essa non più vicina nel tempo – è nel dubbio se spetti al genitore che ha esercitato la potestà provare che vi era un impedimento in capo all’altro genitore o se si deve presumere che il genitore che agisce da solo lo fa validamente spettando all’altro che impugna l’atto provare che l’impedimento non sussisteva o non era tale da rendere impossibile l’esercizio congiunto della potestà.
Parte della dottrina giustamente ha sottolineato in proposito che poiché la regola dell’accordo costituisce un principio generale nel diritto di famiglia, la violazione di questa regola dovrebbe comportare una inversione dell’onere probatorio. Il genitore escluso quindi potrebbe limitarsi ad impugnare l’atto mentre spetterebbe all’altro genitore convenuto in giudizio provare l’esistenza dei presupposti di operatività dell’esercizio esclusivo e cioè l’esistenza di un fatto impeditivo che precludeva la possibilità di compiere insieme l’atto impugnato.
Per impedire effetti dirompenti derivanti dal principio di esercizio congiunto della responsabili¬tà anche nei casi di lontananza, incapacità o altro impedimento di un genitore (art. 317, primo comma, c.c.) è possibile enucleare una regola generale nuova che consente di ritenere legittimo l’esercizio automatico esclusivo della responsabilità genitoriale da parte di un genitore (mediante un certo comportamento o mediante l’adozione di un determinato atto) tutte le volte in cui si realizza una condizione di lontananza, incapacità o di impedimento dell’altro genitore tale da non potersi pretendere la decisione congiuntamente o concordata; fatto sempre salvo il potere del giu¬dice di intervenire su istanza di uno dei genitori per regolamentare l’esercizio della responsabilità genitoriale attraverso il procedimento di cui agli articoli 337-bis e seguenti del codice civile. Sarà in questo caso il giudice a verificare se l’inidoneità, l’incapacità o l’impedimento costituiscano fatti impeditivi all’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale.
Nell’esercizio dei poteri di rappresentanza e amministrazione del figlio da parte dei genitori e cioè nei casi di cui all’art. 320 c.c. – e sempre che non sia stato richiesto l’intervento del giudice per la regolamentazione dell’affidamento – il procedimento sarà diverso. Il genitore che convive con il figlio e che quindi esercita la responsabilità genitoriale, in caso di lontananza, incapacità o im¬pedimento dell’altro genitore, può legittimamente rappresentare e amministrare i beni del figlio mentre l’altro genitore eventualmente in disaccordo potrà richiedere l’intervento del giudice ex art. 316 c.c. secondo le regole del procedimento ivi descritto.
c) Gli orientamenti della giurisprudenza
Prima della riforma del 2012 sull’uniformità della disciplina giuridica tra filiazione fondata sul matrimonio e filiazione fuori del matrimonio, la giurisprudenza si era chiesta se la regola giuridi¬ca indicata allora nel secondo comma dell’art. 317-bis c.c. dell’esercizio della potestà in capo ad entrambi i genitori solo se conviventi, dovesse considerarsi sostituita (dopo la riforma dell’affida¬mento condiviso del 2006) con una nuova regola di esercizio sempre comune della potestà (anche se i genitori naturali non convivessero o non avessero mai convissuto).
La risposta fu positiva e si ritenne che la cessazione della convivenza tra i genitori naturali non conduce alla cessazione dell’esercizio della potestà, perché la potestà genitoriale in regime di af¬fido condiviso è esercitata da entrambi i genitori, salva la possibilità per il giudice di attribuire a ciascun genitore il potere di assumere singolarmente decisioni sulle questioni di ordinaria ammini¬strazione (Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8362 e poi da Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 2007, n. 19406 in cui si esprimeva il convincimento che la legge 8 febbraio 2006, n. 54, applica¬bile in forza dell’art. 4, 2° co., anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, non ha abrogato l’art. 317-bis c.c. (che negava l’attribuzione dell’esercizio della potestà al genitore non convivente con i figli) ma ne ha profondamente innovato il contenuto precettivo alla luce dei nuovi principi espressi dalla riforma dell’affidamento condiviso.
Il problema dell’equiparazione tra i genitori esercenti o non esercenti la potestà genitoriale si era posto in modo molto significativo soprattutto in materia di adozione dove l’art. 46, 2° comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 stabilisce che solo il mancato assenso del genitore esercente la potestà (e non del genitore che non la esercita) preclude al tribunale la pronunzia dell’adozione in casi particolari1.
Prima della riforma sulla filiazione del 2012 Cass. civ. Sez. I, 26 ottobre 1992, n. 11604 aveva ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale di questa norma atteso che la di¬sposizione che conferisce effetti ostativi alla sola volontà del genitore esercente la potestà, trova ragion d’essere nella considerazione che solo la comunanza di vita e la conseguente conoscenza degli interessi e delle esigenze del minore rendono rilevante il dissenso, così evidenziando una mancanza di omogeneità rispetto alla condizione del genitore che tale potestà non esercita.
Ha fatto applicazione dei nuovi principi Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2011, n. 10265 che in un caso di adozione del figlio del proprio coniuge ex art. 44 della legge 184/83 in cui è previsto il necessario consenso all’adozione dell’altro genitore esercente la potestà, ha ritenuto di dare rile¬vanza al dissenso manifestato dal genitore naturale non convivente considerandolo esercente della potestà. La sentenza ha affermato che in tema di adozione in casi particolari, ha efficacia preclu¬siva il dissenso manifestato dal genitore naturale non convivente dovendo egli ritenersi comunque “esercente la potestà”, pur quando lo stesso non sia mai stato convivente con il minore; invero, la legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’esercizio della potestà in caso di crisi della coppia genitoriale e sull’affidamento condiviso, applicabile anche ai figli di genitori non coniugati, ha corrispondente¬mente riplasmato l’art. 317 bis cod. civ.. Il principio della bigenitorialità ha, infatti, informato di sé il contenuto precettivo della norma citata, eliminando ogni difformità di disciplina tra figli legittimi e naturali, cosicché la cessazione della convivenza tra genitori naturali non conduce più alla ces¬sazione dell’esercizio della potestà.
Le conclusioni cui è giunta questa sentenza non sono diverse da quelle che in passato erano già state anticipate da Cass. civ. Sez. I, 5 agosto 1996, n. 7137 in una vicenda analoga.
In conclusione il principio vigente (ora introdotto espressamente dalla nuova legge di riforma sulla filiazione del 2013) dovrebbe essere che l’esercizio della responsabilità genitoriale al di fuori del matrimonio è attribuito ad entrambi i genitori anche nel caso in cui i genitori non convivano o non abbiamo mai convissuto.
Sennonché recentemente a rimettere in discussione il principio con riferimento proprio all’adozio¬ne in casi particolari è stata Cass. civ. Sez. I, 21 settembre 2015, n. 18576 affermando che “per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso, ai sensi della legge n. 184 del 1983, art. 46, 2° comma, impedisce l’adozione particolare, debbono intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie ad un rapporto effettivo con il minor, caratterizzato di regola dalla convivenza, in ragione della cen¬tralità attribuita dagli artt. 29 e 30 Cost. all’effettività del rapporto genitore-figlio”.
Nella vicenda la Corte ha ritenuto superabile, in ragione del preminente interesse della minore (per la quale i due coniugi che l’avevano in affidamento provvisorio avevano richiesto l’adozione)
1 ART. 46.
Per l’adozione è necessario l’assenso dei genitori e del coniuge dell’adottando.
Quando è negato l’assenso previsto dal primo comma, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell’adot¬tante, può, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, pronunziare ugualmente l’adozione, salvo che l’assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal coniuge, se convivente, dell’adottando. Parimenti il tribunale può pronunciare l’adozione quando è impossibile ottenere l’assenso per incapacità o irreperibilità delle persone chiamate ad esprimerlo.
il dissenso all’adozione manifestato dalla madre dell’adottanda, che non esercitava in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sulla figlia, con la quale non intratteneva alcun effettivo rapporto se non quello esplicantesi, in epoca più recente, negli incontri protetti. La Corte ha esclu¬so l’illegittimità dell’adozione per difetto di consenso della madre dell’adottanda, non avendo ella mai instaurato un rapporto con la figlia, che sin da tenera età era stata inserita in un istituto per minori e poi data in affidamento a due coniugi. La Corte di cassazione ricorda che il limite alla va¬lutazione dell’interesse dell’adottando, da parte del giudice, costituito dalla insuperabilità del dis¬senso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale ha una giustificazione in valori costituzio¬nalmente garantiti, quali quello della conservazione del vincolo familiare e della società coniugale effettivamente vissute. In questo è evidente il ruolo centrale attribuito alla effettività del rapporto genitore-figlio. Non già l’astratta spettanza della responsabilità genitoriale, bensì la effettività del vincolo familiare (di regola nella convivenza) giustificano la speciale protezione attribuita a tale vincolo (che si esplica nella rilevanza del dissenso) in applicazione dei principi di cui agli articoli 29 e 30 della Costituzione. Ritiene dunque il Collegio che per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso, ai sensi della l’art. 46 della legge 184 del 1983 impedisce l’adozione particolare, debbano intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore.

IV La responsabilità genitoriale inizia con l’attribuzione dello status o con la nascita?
Quando comincia la responsabilità genitoriale?
Secondo l’insegnamento tradizionale il confine di inizio dovrebbe coincidere con l’acquisizione dello status (con la denuncia di nascita se il figlio è nato da genitori coniugati o con il riconoscimento se è nato fuori del matrimonio). Pertanto non si è mai dubitato del fatto che i genitori sono investiti della potestà/responsabilità con la formazione del titolo di stato della filiazione.
Tuttavia da alcuni anni la giurisprudenza che si è occupata della filiazione fuori dal matrimonio ha voluto richiamare l’art. 30 della Costituzione (“E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”) per farne conseguire l’affermazione del principio che la responsabilità genitoriale è collegata non all’acquisizione dello status ma alla pro¬creazione. I doveri cui fa riferimento l’art. 30 della Costituzione non sarebbero cioè condizionati al riconoscimento del figlio ma deriverebbero dalla nascita in sé.
Ci sono conferme nel sistema giuridico positivo che possano far pensare ad una anticipazione della responsabilità genitoriale a prima dell’acquisto dello status?
Se l’art. 320 c.c. attribuisce ai genitori il potere di rappresentare anche i figli nascituri in tutti gli atti civili, così come anche il potere di accettare le eredità (art. 462 c.c.) o le donazioni (art. 784) loro devolute e di amministrarle (art. 643 c.c.), vuol dire che poteri e doveri di protezione sono riconosciuti anche prima della nascita.
Il diritto di nascere sano (Cass. civ. Sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741) è sul versante giuri¬sprudenziale la conferma di questa tutela anticipata.
È pur vero che la rappresentanza e l’amministrazione di cui sono investiti i genitori nei casi indicati appaiono forse soprattutto rispondenti ad esigenze di tutela di patrimoni senza titolare o a esigenze minime di protezione dei nascituri, ma anche vero che in queste situazioni non si può non parlare oggettivamente di ampliamento della responsabilità oltre i confini tradizionali della nascita.
È stato, però, soprattutto il diritto del figlio al mantenimento fin dalla nascita ad essere al centro negli ultimi anni di un dibattito in giurisprudenza che ha portato gradualmente all’anticipazione al momento della nascita dell’attribuzione dei doveri genitoriali connessi alla potestà/responsabilità.
In passato Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166 aveva avuto modo di richiamare la solennità di questo dovere affermando che “Il primo obbligo enunciato dall’art. 147 c.c. consiste in quello di mantenimento della prole: è questo un dovere inderogabile, che nella sua concreta attuazio¬ne è commisurato in proporzione alle rispettive sostanze dei genitori e alle capacità di lavoro di ciascuno”. Ne è conseguita nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che “la sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, compreso quello di mantenimento” (Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196; Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2000, n. 5586; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042). Il figlio ricono¬sciuto tardivamente (spontaneamente o in sede giudiziale) ha perciò diritto al mantenimento con decorrenza dalla nascita. Naturalmente il mantenimento si suddividerà tra entrambi i genitori, essendo entrambi tenuti al dovere di mantenere il figlio. A tale proposito Cass. civ. Sez. I, 3 no¬vembre 2006, n. 23596 aveva osservato: “Questa Corte ha più volte affermato che la sentenza di accertamento della paternità o maternità naturale ha natura dichiarativa Tale principio va peraltro inteso nel senso che la sentenza accerta uno status che attribuisce al figlio naturale tutti i diritti che competono al figlio legittimo con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, secondo la previsione degli articoli 147 e 148 in forza del combinato disposto degli articoli 261 e 277. L’esercizio dei diritti connessi a tale status non può peraltro prescindere dall’accertamento giudiziale o dal riconoscimento effettuato dal genitore. In quanto attributiva di uno status e dei diritti ad esso connessi, la sentenza va pertanto qualificata, ai fini che qui interessano, come costitutiva, nel senso che senza di essa lo status di figlio naturale non sorge e non vi può esse¬re rivendicazione utile dei diritti che a tale status si accompagnano, ancorché per effetto della pronuncia il godimento di tali diritti retroagisca alla data della nascita”. La decisione in questione parla di “natura costitutiva della sentenza dichiarativa della filiazione”.
La sentenza che accerta e dichiara la filiazione ha quindi natura costituiva anche se i suoi effetti retroagiscono al momento della nascita, garantendo così al figlio minore una copertura completa del suo diritto al mantenimento dalla nascita in poi.
Sulla decorrenza dalla nascita dell’obbligazione di mantenimento in seguito alla sentenza che ac¬certa la filiazione, la giurisprudenza è copiosa e assolutamente consolidata (oltre alle sentenze so¬pra citate Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575; Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386). In molte decisioni espressamente il dovere di mantenimento viene collegato all’avvenuto accertamento della paternità, e si precisa che i doveri genitoriali sorgono con decorrenza dalla nascita ma in seguito al riconoscimento ancorché tardivo oppure in seguito alla sentenza (Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196; Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2000, n. 5586; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042).
Quindi nelle sentenze sopra riportate l’affermazione della decorrenza dalla nascita dell’obbligazio¬ne di mantenimento non comporta ancora in giurisprudenza l’enucleazione chiara di un principio di decorrenza dalla nascita incondizionato. Il dovere di mantenimento è pur sempre condizionato al riconoscimento o alla sentenza di attribuzione dello status. Se non vi è riconoscimento o se non vi è la sentenza sulla filiazione non è possibile parlare di dovere genitoriale di mantenimento dalla nascita.
Solo negli ultimi anni, invece, parte della giurisprudenza si è interrogata sempre più spesso, sul problema se l’obbligazione di mantenimento prescinda o meno dall’avvenuto, sia pure tardiva¬mente, riconoscimento e sorga, invece, per il fatto in sé della procreazione. A questo interrogati¬vo, dopo qualche presa di posizione iniziale più sfocata o contraria, viene data oggi una risposta sostanzialmente positiva e la più recente giurisprudenza ha così affermato il principio della anti¬cipazione della responsabilità genitoriale al momento della procreazione indipendentemente dal riconoscimento.
Ed anzi, la violazione dell’obbligo di mantenimento è stata ritenuta addirittura fonte di risarci¬mento del danno alla cui base vi sarebbe il fatto illecito costituito dalla violazione del dovere di mantenimento.
Si tratta id una ricostruzione che potrebbe apparire per certi forzata e tautologica – e si tratterà di vedere se sarà o meno confermata nel tempo – ma è quella che certamente emerge nelle sentenze più recenti.
La giurisprudenza ha, quindi, costruito un illecito da mancato riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio. Illecito che – occorre però aggiungere – non sussiste certamente per la madre allorché, come prescrive, l’articolo 30, primo comma, dell’ordinamento di stato civile (DPR 3 no¬vembre 2000, n. 396) la dichiarazione di nascita è chiamata a rispettare “l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”. Pertanto la donna nel nostro ordinamento non ha certamente l’obbligo di riconoscere il figlio; al contrario ha il diritto di conservare l’anonimato. Diritto che cede di fronte all’azione di reclamo da parte del figlio del suo status e all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità.
Alcune decisioni della giurisprudenza di merito avevano in passato attribuito al figlio, dopo il rico-noscimento giudiziale della paternità, il diritto al risarcimento dei danni. Si tratta di vicende pro¬cessuali nelle quali si è discusso, però, solo dei danni subìti dal figlio a causa del fatto di non essere stato tempestivamente riconosciuto dal padre e non delle norme giuridiche che fonderebbero la connotazione illecita dell’omesso riconoscimento.
In una causa nella quale il figlio, dopo aver ottenuto una sentenza di riconoscimento giudiziale della paternità, agiva per il risarcimento dei danni, è stato dichiarato che “è fonte di responsabilità extracontrattuale il comportamento di un genitore che, venendo meno ai propri obblighi nascenti dal rapporto di filiazione, abbia scelto di non riconoscere il bambino e non abbia provveduto in alcun modo al suo mantenimento” (Trib. Venezia, 18 aprile 2006).
In una causa risarcitoria intentata dalla madre e dal figlio dopo il riconoscimento giudiziale della pa¬ternità il Tribunale di Modena ha sostenuto che “la condotta del padre che non abbia riconosciuto il figlio naturale e si sia rifiutato di adempiere gli obblighi derivanti dal rapporto di filiazione, è contraria agli articoli 147, 148 e 261 c.c. e causa un danno esistenziale al figlio naturale e alla madre che, nel caso di specie, si manifesta, per la donna, sul piano delle relazioni sociali, per il figlio, nelle riper¬cussioni sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stato desiderato e trattato come figlio. Il diritto al risarcimento del danno da essi subito, nonché il diritto della madre al rimborso pro quota delle spese effettuate per il mantenimento del figlio naturale, può essere tutelato attraverso il sequestro conservativo autorizzato sui beni del padre e sulle somme e cose al medesimo dovute” (Trib. Modena, 12 settembre 2006).
Dello stesso avviso anche Trib. Trani, 27 settembre 2007 che, pur scettico sulla possibilità di un risarcimento per omesso riconoscimento del figlio ha però, contraddittoriamente negato il ri¬sarcimento per mancanza di prova. Nella sentenza si sostiene che “la domanda di risarcimento del danno esistenziale per omesso riconoscimento del figlio naturale va rigettata ove sfornita di prova in quanto, premesso che la legge non prevede l’obbligatorietà del riconoscimento del figlio natura¬le, il figlio ha l’onere di provare che, benché alla soddisfazione dei suoi bisogni avesse provveduto la sola madre, quest’ultima non è riuscita a garantirgli un diverso tenore di vita, che altrimenti sarebbe stato raggiunto attraverso la regolare corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte del padre. D’altra parte – anche in considerazione dell’elevato lasso di tempo fatto decorrere dal diretto interessato per la richiesta di risarcimento del danno derivante dal mancato riconosci¬mento e mantenimento (ventiquattro anni) – non può affatto presumersi che la prova del danno esistenziale sia in re ipsa, ovvero che derivi, automaticamente, dal solo mancato riconoscimento. Infatti, non può essere risarcito un danno che prescinda completamente dalla prospettazione e dimostrazione di una qualche conseguenza negativa in capo alla vittima, in quanto disancorare il risarcimento del danno dall’accertamento dell’esistenza di un qualche riflesso negativo, di caratte¬re personale e patrimoniale nella sfera del soggetto leso, significa costruire una categoria di danno “automatico”, direttamente innescato da un fatto illecito senza che vi sia dimostrazione alcuna della modificazione, in peius, della vita della vittima.”
Un’altra analoga decisione (Trib. Roma, 27 ottobre 2011) ha dichiarato “ammissibile il risar¬cimento del danno non patrimoniale a favore delle figlie, a causa del comportamento del padre naturale che si è sottratto volontariamente all’assolvimento degli obblighi derivanti dal rapporto di filiazione. Due sorelle quarantenni avevano citato in giudizio il loro presunto padre naturale, chiedendo l’accertamento giudiziale della paternità e formulando specifiche domande di natura patrimoniale tra cui una domanda di risarcimento del danno morale patito in relazione al mancato riconoscimento da parte del genitore. Il tribunale, accertata la paternità biologica, dichiarava il convenuto padre naturale delle due sorelle, respinge le domande di mantenimento pregresso ma accoglieva la domanda di risarcimento del danno morale “originato dalla sofferenza patita per la privazione della figura genitoriale”.
In una causa risarcitoria anche in questo caso seguita all’accertamento della paternità App. Bo¬logna, 10 febbraio 2004 ha ritenuto che “l’inadempimento da parte del padre agli obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c., provoca, nei confronti del figlio, un danno ai valori fondamentali della persona, così come garantiti dagli artt. 2 e ss. Cost. È configurabile quale nuovo danno non patrimoniale (esistenziale) la violazione da parte del genitore dell’obbligo di mantenimento ed assistenza del figlio naturale”.
Anche Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713 si è occupata di una vicenda analoga dove però l’obbligo risarcitorio trovava la sua fonte non nel tardivo riconoscimento – cui si era giunti in sede giudiziaria – bensì nella circostanza che dopo la condanna alla corresponsione del mantenimen¬to il padre non aveva versato per anni il mantenimento. Questo comportamento (che costituiva in modo molto evidente l’illecito) è stato sanzionato con la condanna al risarcimento dei danni. Quindi, in questa sentenza, la misura risarcitoria consegue non all’omissione del riconoscimento spontaneo ma all’illecito consistente nell’aver omesso per anni il pagamento del mantenimento a cui il padre era stato condannato. La decisione in questione, pertanto, non può essere accomunata alle precedenti.
Premesso che la decisione del 2000 della Cassazione sopra riportata non ha affrontato il tema del risarcimento per omesso riconoscimento, ma solo per mancato adempimento di un obbligo scatu¬rito da una sentenza di condanna al mantenimento – giungendo a conclusioni assolutamente ac¬cettabili – si deve ribadire che nessuna delle decisioni di merito sopra esaminate individua – come si è detto – la fonte dell’asserito obbligo di riconoscimento del figlio alla cui violazione potrebbe collegarsi una pretesa risarcitoria.
Come si è detto è stata la giurisprudenza di legittimità a porsi alla ricerca di qualche spunto ri¬costruttivo che possa giustificare l’affermazione che l’omesso riconoscimento del figlio costituisce per chi ha consapevolezza di esserne il padre, fonte di obbligazione non solo di mantenimento ma anche risarcitoria.
In Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 si legge per esempio che “l’obbligo di mante¬nere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità natu¬rale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.
Più articolata si presenta Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 dove si legge: “Nell’i¬potesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto per¬ciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori… La legge pone a carico dei genitori l’obbligo di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati …Da ciò consegue che il genitore naturale, dichiarato tale con prov¬vedimento del giudice, non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita”.
In senso analogo molte sentenze successive (tra le più recenti Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 luglio 2016, n. 14417; Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960, Trib. Cassino, 13 luglio 2017).
Da queste affermazioni tuttavia non sembra ancora potersi indurre che l’obbligo di mantenimento esiste a prescindere dall’accertamento della paternità. Infatti la sentenza 23596 del 2006, trattando il tema della prescrizione della domanda di rimborso del mantenimento pregresso fatta dal genitore che da solo aveva sostenuto il mantenimento del figlio, afferma che prima della sentenza dichia¬rativa della paternità (passata in giudicato) nessuna prescrizione può correre (contrariamente a quanto aveva ritenuto la Corte d’appello). Espressamente si afferma “Ora pare evidente che sino al momento in cui si forma il giudicato in ordine alla domanda di accertamento della paternità o ma¬ternità naturale, non sorge lo status di figlio naturale e quindi difetta il presupposto per l’esercizio delle azioni che a tale status si riconnettono”.
Il che significa, però, che anche il dovere di mantenimento dovrebbe essere condizionato all’ac-certamento della paternità. Non sussisterebbe, perciò – contrariamente a quanto alcuni passaggi della decisione potrebbero lasciar intendere – alcun dovere di mantenimento dalla nascita se non quando sopraggiunga e passi in giudicato la sentenza dichiarativa della paternità naturale.
Piuttosto decisa, invece, nella direzione dell’automaticità del dovere di mantenimento dalla na¬scita è stata App. Roma, 7 settembre 2011 secondo cui testualmente “l’obbligo per il genitore di contribuire al mantenimento del figlio maggiore di età non economicamente indipendente si configura quale effetto immediato ed ineludibile del rapporto di filiazione, che prescinde dalla tito¬larità della potestà genitoriale e si radica nell’affermazione di responsabilità per il solo fatto della procreazione.
E’ stata una successiva sentenza ad affrontare per la prima volta ex professo il tema del risarci¬mento del danno (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652). Un uomo si era rifiutato di rico¬noscere il figlio nonostante numerose richieste dell’altro genitore. All’esito della causa di accerta¬mento giudiziale della paternità azionata dal figlio quarantenne, il Tribunale di Catania dichiarava la paternità e condannava l’uomo al risarcimento dei danni cagionati al figlio dal mancato tempe¬stivo riconoscimento. La Corte d’Appello confermava la decisione. Il figlio e il padre ricorrevano entrambi per Cassazione sostenendo il figlio che il risarcimento era stato del tutto inadeguato e chiedendo il padre l’annullamento della sentenza perché erroneamente aveva accolto la domanda di risarcimento.
La sentenza merita di essere valutata con molta attenzione. Vi si legge quanto segue con riferi¬mento al ricorso del padre: “Viene in primo luogo in considerazione la tesi secondo cui il ricono¬scimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda, costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione”. A questo primo motivo la Corte risponde forzando l’interpretazione dei precedenti giurisprudenziali (che, come si è visto, avevano condizionato l’at¬tribuzione delle responsabilità genitoriali di mantenimento all’accertamento sia pur tardivo della filiazione) e così motivando “tale assunto è all’evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la procre¬azione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass., 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass., 3 novembre 2006. n. 23596), atteso che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e quindi, ai sensi dell’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ricollegando¬si tale obbligazione allo status genitoriale e assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva”. Conclude la decisione nel senso che “la sussistenza di tale obbligo, raccordata alla consapevo¬lezza del concepimento, come sopra evidenziata, esclude la fondatezza della tesi secondo cui la responsabilità del D. dovrebbe escludersi in assenza di specifiche richieste provenienti dalla S. o dal figlio… L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momen¬to della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328). Deve ribadirsi come la violazione di obbli¬ghi cui corrispondono, nel destinatario, diritti primari della persona, costituzionalmente garantiti, comporta la sussistenza di un illecito civile certamente riconducibile nelle previsioni dell’art. 2043 c.c. e seguenti”.
Quindi la sentenza della Corte di Cassazione n. 5652/2012 sostiene che l’illecito fonte di obbli¬gazione risarcitoria è la violazione del dovere di mantenimento.
Una successiva decisione ha riaffermato lo stesso principio all’interno di una ricostruzione molto assertiva. Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 secondo la quale “l’obbli¬go dei genitori di educare e mantenere i figli è eziologicamente connesso esclusivamente alla pro¬creazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinando¬si un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presuppo¬sto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consapevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento”.
Quindi, come ha poi ben sintetizzato il tribunale di Roma (Trib. Roma Sez. I, 7 marzo 2014) l’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) è connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così deter¬minandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fonda¬mento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Nello stesso senso Trib. Prato, 27 luglio 2017 secondo cui il riconoscimento non è elemento co¬stitutivo o condizione di efficacia dello status di figlio che sorge con la nascita ma condiziona esclu¬sivamente il concreto esercizio, e riconoscimento esterno, della responsabilità genitoriale di cui sono titolari i genitori. Addirittura secondo Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016, con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre di una minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, sussiste la responsabilità della madre per il danno da privazione del rapporto genitoriale.
In conclusione, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza più recente, non riconoscere un figlio fuori dal matrimonio consapevolmente procreato costituirebbe illecito fonte di risarcimento, con la conseguenza che l’inizio della responsabilità genitoriale dovrebbe considerarsi anticipata alla procreazione consapevole.
L’art. 30 della Costituzione viene quindi interpretato nel senso che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio” ancorché non li abbiamo riconosciuti ed a condizione che abbiano consapevolezza di averli procreati.

V Quando termina la “responsabilità genitoriale”?
Il codice civile, come si è detto, non ha mai fornito una nozione di “potestà” ed ora – dopo la ri¬forma sulla filiazione del 2013 – non fornisce neanche la nozione di “responsabilità genitoriale” che nella relazione illustrativa delle norme di attuazione viene indicata come “situazione giuridica com¬plessa idonea a riassumere i doveri, gli obblighi e i diritti derivanti per il genitore dalla filiazione”.
Nell’elaborazione tradizionale della manualistica si sono sempre differenziati un aspetto interno della potestà (costituito dalle modalità con cui essa è esercitata dai genitori nell’interesse dei fi¬gli) e un aspetto esterno (costituito dal tradizionale potere di rappresentanza del quale si occupa specificamente l’art. 320 c.c.) ed è da ritenere che questa differenziazione non sia venuta meno, pur ribadendosi che l’aspetto interno ha trovato nella riforma del 2013 per il caso di filiazione fuori del matrimonio la significativa novità della cogestione del suo esercizio anche in caso di non con¬vivenza dei genitori.
Possiamo dare quindi per acquisito che l’espressione responsabilità genitoriale può considerarsi in sé espressiva di una concezione socio-culturale che si vorrebbe più nuova e moderna delle funzioni genitoriali ma che – pur avendo acquistato quella connotazione giuridica nuova che è l’esercizio sempre congiunto della potestà anche in caso di filiazione fuori dal matrimonio – non esprime una dilatazione giuridicamente diversa da quella che aveva già assunto la nozione tradi¬zionale di “potestà”.
Nell’approfondire meglio questa conclusione si tratta di verificare in che modo la nuova concezione culturale richiamata dall’espressione “responsabilità genitoriale” coincide anche con la presa d’atto da parte del legislatore di una più articolata dilatazione temporale delle funzioni genitoriali che già la “potestà” era andata assumendo nell’applicazione quotidiana nel corso del tempo.
Potrebbe essere, innanzitutto, un indizio significativo di una più articolata concezione giuridica del¬le funzioni genitoriali il fatto che, mentre il previgente art. 316 del codice civile prevedeva testual¬mente che “il figlio è soggetto alla potestà dei genitori fino all’età maggiore”, questa specificazione non è più riprodotta nel nuovo testo dell’art. 316 c.c. (come modificato dall’art. 39 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154). Si tratta di una svista oppure il legislatore ha sentito il bisogno di dare più visibilità alla circostanza che da tempo le funzioni genitoriali hanno una portata più ampia di quelle che si consumano nell’arco della minore età?
Il concetto di potestà, ancora fortemente legato all’esercizio di funzioni tese alla soddisfazione delle necessità e dei diritti dei soggetti minori di età, meritava effettivamente di essere specifica¬to nella sua attuale maggiore elasticità. Se è vero, infatti, che il compimento della maggiore età segna il momento oltre il quale le funzioni tradizionali di rappresentanza esercitate dai genitori non hanno più possibilità giuridica di sopravvivere, è anche vero che oggi più che mai le esigenze di cura, di educazione, assistenza e mantenimento si prolungano di gran lunga oltre il compi¬mento della maggiore età, segnalando quindi l’affermarsi di una nuova concezione della potestà/ responsabilità genitoriale che non termina al compimento del diciottesimo anno età del figlio ma si estende fino all’autosufficienza del figlio.
Anche nella più recente giurisprudenza è pacifica l’affermazione che “l’obbligo dei genitori di con¬correre tra loro al mantenimento dei figli non cessa, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il figlio non abbia raggiunto l’indipendenza economica” (Cass. civ. Sez. I, 3 settembre 2013, n. 20137; Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2013, n. 17089; Cass. civ. Sez. VI, 15 febbraio 2012, n. 2171; Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 2011, n. 14123; nella giurisprudenza di merito recentemente Trib. Genova Sez. IV, 26 giugno 2013¸ App. Roma, 3 febbraio 2012; App. Roma, 7 settembre 2011).
Ed anzi, mentre il prolungamento di funzioni connesse alla potestà oltre il compimento del diciot¬tesimo anno di età del figlio era considerato in passato certamente eccezionale, oggi la riforma del 2013 intende segnalare se non il contrario certamente il fatto che la responsabilità genitoriale si prolunga nella maggiore età del figlio molto più di quanto non avvenisse in passato.
La presa d’atto anche del legislatore circa il prolungamento delle funzioni connesse alla potestà/ responsabilità – paradossalmente nell’area della crisi della vita familiare – è avvenuta con la legge sull’affidamento condiviso dei figli (legge 8 febbraio 2006, n. 54) che riservava ai figli maggioren¬ni nell’ambito delle procedure di separazione (e divorzio ex art. 4, secondo comma, della legge 54/2006) un intero nuovo articolo (art. 155-quinquies, appunto rubricato “Disposizioni in favore dei figli maggiorenni”) nel quale si attribuiva per la prima volta ex lege ai “figli maggiorenni non indipendenti economicamente” un diritto alla titolarità di un assegno periodico di mantenimento. La disposizione in questione non è stata toccata dalla riforma sulla filiazione di cui alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 se non per la collocazione sistematica, avendo il decreto di attuazione (decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) accorpato le disposizioni sull’esercizio della re¬sponsabilità genitoriale in caso di scissione della coppia genitoriale in un capo a sé inserendo le disposizioni in favore dei figli maggiorenni nel nuovo articolo 337-septies del codice civile.
La riforma di cui alla legge 219/2012 è stata però di maggiore ampiezza rispetto ad un semplice riordino sistematico. Essa ha inteso dare alla problematica dei diritti dei figli (minorenni e maggio¬renni) una dimensione più ampia e più generale, non limitandosi alla fase della crisi genitoriale. Ha rimodellato la lacunosa disciplina precedente accorpando in una norma a contenuto generale (art. 315-bis c.c.) l’indicazione dei “diritti e doveri del figlio” con una formulazione simmetrica a quella utilizzata dall’art. 30 Cost. per indicare i doveri e diritti dei genitori, precisando che “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori…”. Il figlio, a sua volta, “deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito al mantenimento della famiglia finché convive con essa” art. 315-bis ultimo comma c.c.). Disposizione quest’ultima, che già preesisteva alla riforma ma che nel contesto della riforma della filiazione acquista ora una dimensione più peculiare.
Lo statuto dei diritti e dei doveri dei figli si completa nel codice civile con la descrizione delle carat¬teristiche dell’obbligazione di mantenimento a carico dei genitori. Il nuovo art. 316-bis (richiamato oggi all’art. 148 c.c.) ribadisce che l’obbligazione deve essere assolta dai genitori “in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo” e che gli ascendenti sono tenuti, in caso di impossibilità dei genitori, ad assicurare a questi ultimi i mezzi per far fronte all’obbligazione di mantenimento. Disposizioni queste già collaudate perché da sem¬pre applicate quotidianamente nei tribunali.
Tutte le norme sopra richiamate costituiscono oggi la fonte legislativa delle obbligazioni di mante¬nimento nei confronti dei figli maggiorenni, rendendo quasi superfluo il riferimento a quella giuri¬sprudenza che da molto prima della riforma sull’affidamento condiviso e sulla filiazione (allorché dei figli maggiorenni non vi era traccia nella legislazione) avevano affermato, anticipandoli, gli stessi principi (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2006, n. 8221; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975; Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719; Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2002, n. 4765; Cass. civ. Sez. I, 16 febbraio 2001, n. 2289). ; La legislazione è quindi oggi in piena sintonia con il principio di fondo che la giurisprudenza ha sempre sostenuto e cioè che il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il conseguimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma per¬dura sino a quando i medesimi non abbiano raggiunto un’indipendenza economica, ovvero abbiano concorso colpevolmente alla determinazione della propria non autosufficienza economica.
Al figlio maggiorenne portatore di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni pre¬viste in favore dei figli minori (art. 337-septies c.c. già art. 155-quinquies, secondo comma, c.c. che subordinava il diritto ai soli casi di inclusione dell’handicap grave nelle qualificazioni della legge 104/1992) come ha avuto modo anche di chiarire la giurisprudenza che ha precisato che trovano applicazione, in tal caso, le disposizioni previste in favore dei figli minori, quali quelle in tema di cura e di mantenimento da parte dei genitori non conviventi, di assegnazione della casa coniugale, ma non anche quelle sull’affidamento, condiviso od esclusivo (Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12977).
Il prolungamento della responsabilità genitoriale oltre la maggiore età – anche per le funzioni non legate strettamente al mantenimento – è anche il segnale che proviene, come si è detto, dal nuovo testo dell’art. 315-bis del codice civile che abbandona il concetto desueto e un po’ ottocentesco di “prole” cui faceva riferimento l’abrogato art. 147 c.c. per abbracciare una concezione della filiazio¬ne più attuale riferendosi al diritto del figlio (minorenne o maggiorenne che sia) “di essere mante¬nuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori”. Che si tratti di diritti che il figlio ha in quanto tale e non in quanto minore di età è assolutamente reso evidente da quella giurisprudenza che sempre più spesso ha sottolineato il diritto del figlio anche maggiorenne e fino all’autosuffi¬cienza economica di essere adeguatamente mantenuto secondo i criteri indicati nell’art. 337-ter (già 155) del codice civile. Per convincersi che questo prolungamento dei doveri genitoriali è molto ampio basti fare riferimento all’obbligo di pagamento posto pacificamente a carico dei genitori se¬parati delle spese straordinarie per i figli, non solo minorenni ma anche maggiorenni, che in modo immediato danno l’idea di spese non riferibili alla sola componente alimentare in senso tradizionale ma che sono poste a garanzia della soddisfazione di esigenze (di cura, di salute, di educazione, di studio) destinate a permanere anche per molti anni dopo il compimento della maggiore età. Chi potrebbe dubitare di questo nel secolo attuale della adolescenza prolungata?
In questo contesto assume anche una rilevanza nuova la riaffermazione che “il figlio deve rispetta¬re i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa” (ultimo comma dell’art. 315-bis che riproduce testualmente il previgente art. 315 c.c.).
La stessa relazione illustrativa alle norme di attuazione non dubita che – salvo nei casi in cui il legislatore ha ritenuto di dover inserire la precisazione sulla durata fino alla maggiore età (per esempio negli articoli 318, 320, 324 c.c.) la responsabilità genitoriale “vincola i genitori ben oltre il raggiungimento della maggiore età, fino al raggiungimento dell’indipendenza economica”.
L’espressione “responsabilità genitoriale” richiama quindi un arco temporale di vita del figlio che supera quello tradizionale della minore età. Già la potestà, come si è detto, aveva certamente assunto negli ultimi decenni una portata e una dimensione temporale più ampia di quella passata ma ora la nuova espressione “responsabilità genitoriale” – con le norme che la definiscono e la disciplinano – rende più chiaramente visibile ed evidente questo aspetto.
Naturalmente così come la potestà / responsabilità supera i confini della minore età, potrebbe an¬che verificarsi che la stessa responsabilità venga a cessare prima del compimento della maggiore età, per il verificarsi di circostanze che la legge prevede come cause di cessazione o di riduzione del¬le stesse funzioni genitoriali, quali la morte del genitore o del figlio, la decadenza (che lascia intatto il dovere di mantenimento), la dichiarazione di adottabilità, il veni meno dello status di filiazione.

VI Il contrasto tra genitori in ordine all’esercizio della “responsabilità genitoriale”
Il sistema normativo vigente conosce tre tipologie di contrasti sull’esercizio della potestà/respon¬sabilità tutti risolvibili dal tribunale ordinario (nuovo art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo di attuazione 28 dicembre 2013, n. 154).
1) La prima tipologia è il contrasto che può verificarsi tra genitori (coniugati o non coniugati) che convivono tra di loro e con il figlio. La regola dell’accordo è contenuta nell’art. 316 c.c. che prescrive l’esercizio della responsabilità genitoriale “di comune accordo” in applicazione, in fondo, di quella regola primaria che, quanto meno per le coppie coniugate, è indicata nel fondamentale articolo 144 c.c. (“i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare”). Ai contrasti nel corso della vita familiare fa riferimento il secondo comma dell’art. 316 c.c. che prevede un sistema di soluzione già conosciuto nell’assetto previgente. “In caso di contrasto su questioni di particolare importanza cia¬scuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore se capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio”. In verità difficilmente i genitori ricorrono al giudice nel contesto della vita di coppia; i con¬trasti vengono risolti nella negoziazione quotidiana e quando assumono forme molto gravi portano in genere alla separazione. Proprio per questo il meccanismo giudiziario indicato – che prima della riforma sulla filiazione del 2012/2013 era di competenza del tribunale per i minorenni – non ha quasi mai trovato applicazione nella prassi. Il giudice in ogni caso non ha potere di decisione nel contrasto ma solo il potere di attribuire la decisione al genitore che ritiene più idoneo a risolvere il contrasto.
In ordine a questo tipo di contrasti non è inopportuno ricordare ciò che ha affermato Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2000, n. 14360 che ha ribadito quanto la legge (anche il nuovo testo oggi dell’art. 316 c,c.) precisa in modo molto chiaro e cioè che “in tema di soluzione dei contrasti tra i genitori per questioni di particolare importanza, l’articolo 316 del codice civile prevede che ciascu¬no di essi può ricorrere al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei” e che questa disposizione “trova applicazione per le ipotesi di famiglia unita mentre i provvedimenti di cui all’ar¬ticolo 155, comma 3 [oggi 337-bis ss c.c.] si collocano invece durante lo stato di separazione tra i coniugi e rientrano nella disciplina di questa”.
2) La seconda tipologia di contrasto sulla responsabilità genitoriale è prevista nell’art. 709-ter c.p.c. che si occupa della “soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni” – accomunando quindi contrasti e inadempimenti – ed è ipotizzabile nel contesto della vita separata della coppia genitoriale (coniugata o non coniugata). La norma venne inserita nell’ordinamento nel 2006 con la riforma sull’affidamento condiviso (specificamente dall’art. 2, secondo comma, della legge 14 febbraio 2006, n. 54) il cui articolo 3, secondo comma, espres¬samente ne indicava l’applicazione “anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati” tutti procedimenti oggi di competenza del tribunale ordinario. Come afferma l’art. 709-ter c.p.c. “per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità ge¬nitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso” al¬trimenti – e cioè quando il procedimento non è più in corso – “è competente il tribunale del luogo di residenza del minore”. A seguito del ricorso il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni potendo anche modificare i provvedimenti vigenti ove lo ritenga necessario in relazione al contrasto emerso o per la sua soluzione.
L’art. 709-ter c.p.c. rende non soltanto desueto ma anche inutilizzabile l’art. 337 c.c. sopravvis¬suto alla riforma sulla filiazione del 2012/2013. La disposizione è molto nota perché fino al 2006 (cioè fino all’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c.) era l’unica utilizzata per risolvere i contrasti sull’affidamento: “Il giudice tutelare – prevede la norma – deve vigilare sull’osservanza delle con¬dizioni che il tribunale abbia stabilito per l’esercizio della potestà e per l’amministrazione dei beni”.
Dopo il passaggio delle funzioni compositive dei contrasti al giudice del merito della causa o al tribunale in camera di consiglio, non vi è più spazio per l’utilizzazione di questa norma.
3) La terza tipologia di contrasti sulla responsabilità genitoriale è quella cui fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 316 del codice civile il quale prevede espressamente che “il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio”. Il contrasto può verificarsi nel caso in cui uno dei genitori sia stato escluso dall’affidamento e dall’eser¬cizio della potestà/responsabilità (ultima parte dell’art. 337-quater c.c. dove si prevede che il genitore escluso dall’affidamento dei figli “può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte de¬cisioni pregiudizievoli ai loro interessi”). Ancorché il genitore in questione non sia affidatario dei figli il testo della legge gli riconosce (sebbene si discuta della plausibilità di questo riconoscimento) il potere di adottare insieme all’altro genitore le decisioni di maggiore interesse e quindi di rivolgersi anche al giudice. Si tratta quindi di un contrasto tra due genitori dei quali uno soltanto esercita la responsabilità genitoriale. La soluzione di questo tipo di contrasti è affidata ex art. 709-ter o 710 c.p.c. al giudice della causa o al tribunale.
Una modalità per intervenire nel contrasto è quella della nomina del coordinatore genitoriale, cui fan¬no riferimento alcuni tribunali (Trib. Milano Sez. IX, 29 luglio 2016 che, al fine di assistere i geni¬tori nelle situazioni familiari altamente conflittuali che si possono ripercuotere negativamente sui figli, ritiene opportuna la nomjna di un “coordinatore genitoriale”, figura di matrice americana che si sta diffondendo anche in altri paesi, al quale affidare il compito di aiutare la risoluzione delle controversie familiari, in via stragiudiziale, vale a dire senza adire l’autorità giudiziaria. Al coordinatore genitoriale viene demandato il compito di facilitare la risoluzione delle dispute tra genitori altamente conflittuali e prevenire il ricorso a ulteriori iniziative giudiziali in punto di responsabilità genitoriale. Il coordinatore genitoriale – a differenza del curatore speciale – non ha poteri processuali, poiché il suo obiettivo è risolvere i conflitti al di fuori del processo (e prima ancora ridurre al massimo i conflitti stessi).
Sempre al tribunale di Milano si deve l’invito agli avvocati ad assumere una funzione (sociale) di protezione verso il minore nelle controversie in cui assistono i genitori (Trib. Milano Sez. IX, 23 marzo 2016).

RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Giurisprudenza
Trib. Lecce, Sez. II, 29 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3 c.c. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione “de residuo”, solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale ex art. 177, comma 1, lett. a) c.c., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, comma 1 c.c., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali, indipenden¬temente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Trib. Torre Annunziata Sez. I, 8 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi sono inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si possono proporre solo al momento della divisione dei beni comuni che coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia.
App. Taranto 16 gennaio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, la norma di cui all’art. 192, comma 3° c.c., attribu¬isce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegare in spese ed investimenti del patrimonio comune e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale, rispetto ai quali si applica il principio inderogabile secondo cui, in sede di divisione, l’attivo ed il passivo sono ripartiti in parti uguali indipendentemente dalla misura di partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi ne¬cessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
App. Palermo Sez. II, 18 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, in seguito alla pronuncia della separazione persona¬le, la domanda giudiziaria di divisione dei beni non può essere introdotta prima del passaggio in giudicato della pronuncia di separazione. I rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni si effettuano solo al momento dello scioglimento della comunione in funzione della divisione dei beni comuni, momento che, in caso di separazione tra coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della rela¬tiva pronuncia. I presupposti della comunione non cessano di configurarsi solo perché uno dei due coniugi abbia eventualmente distolto a fini del tutto personali i beni oggetto della stessa, convertendosi, in tal caso, il conte¬nuto delle pretese dell’altro coniuge, in quello relativo ai rimborsi ed alle restituzioni, a norma dell’art. 192 c.c.
Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21751(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accertamento dell’eventuale destinazione dei beni già in comunione legale al soddisfacimento delle obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia non condiziona in alcun modo la legittimazione dei coniugi a promuovere la divisione dei beni comuni, a seguito del verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione. Esso, infat¬ti, non incide né sulla titolarità né sulla disponibilità dei beni da dividere, in quanto, ferma restando la distinzione operata dagli artt. 186 e ss. cod. civ. tra le obbligazioni contratte per un interesse comune e quelle facenti capo ad interessi particolari dei coniugi, con la connessa sussidiarietà della responsabilità rispettivamente dei beni personali e comuni per ciascuna categoria di obbligazioni, la disciplina dei debiti gravanti sui beni in comunione non comporta l’assoggettamento degli stessi ad alcun vincolo di destinazione, ma si risolve in un regolamento dei rapporti reciproci tra i coniugi, inteso alla tutela di ciascuno di essi, che dà luogo, nel caso di prelievo di beni comuni per il soddisfacimento di obbligazioni contratte nell’interesse esclusivo, ad un credito per rimborsi e restituzioni, da far valere in sede di divisione, ai sensi dell’art. 192 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454 (Nuova Giur. Civ., 2013, 4, 340 nota di PALADINI)
Allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ai sensi dell’art. 192, terzo comma, cod. civ., devono es¬sere restituiti solo gli importi impiegati in spese ed investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l’acquisto di immobile che concorre a formare la comunione, trovando, in tale ipotesi, applicazione l’art. 194, comma primo, cod. civ., secondo il quale all’atto dello scioglimento l’attivo ed il passivo devono essere ripartiti in quote uguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi. (Rigetta, App. Roma, 18/09/2007)
Il denaro personale o i proventi dell’attività separata non possono essere restituiti se impiegati nell’acquisto di un bene caduto in comunione legale ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a), cod. civ.. Il diritto alla restituzione sorge invece, se i beni già facenti parte della comunione legale e, conseguentemente, del “patrimonio comune” (come indicato nell’art. 192, comma 3, cod. civ.) siano oggetto di spese o investimenti anche finalizzati all’in¬cremento del loro valore in epoca successiva all’acquisto, mediante lavori di ristrutturazione o miglioramenti.
Trib. Salerno, 14 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per il combinato disposto degli artt. 186, 191 e 192 c.c. i coniugi, che abbiano optato per il regime patrimoniale della comunione dei beni, non possono richiedere alcuna forma di restituzione o di rimborso, fino a quando è vigente il regime della comunione, salvo espressa autorizzazione del giudice in deroga, ma solo ove lo esiga l’interesse superiore della famiglia e dei figli in particolare.
Trib. Rovigo, 14 febbraio 2011(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 192, comma terzo, c.c., nella parte in cui attribuisce a ciascuno dei coniu-gi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale e impiegate per spese e investimenti a favore del patrimonio comune, escluse quelle adoperate per l’acquisto di singoli beni caduti in comunione, opera nei soli limiti dei beni personali ex art. 179 c.c., con esclusione dei beni destinati a cadere nella comunione de residuo. La disposizione di cui al citato comma terzo, inoltre, ha carattere residuale e si riferisce sostanzialmente al denaro personale pervenuto al coniuge per cause diverse anche dalla vendita di un bene personale. In tal senso non possono rilevare versamenti e/o pagamenti di provvista di cui non si offre prova della provenienza.
Trib. Salerno, Sez. I, 21 novembre 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 192 c.c. prevede che, una volta intervenuto lo scioglimento della comunione, i coniugi hanno diritto alla restituzione di quanto da essi versato per spese non riguardanti gli obblighi reciproci di contribuzione previsti dall’art. 143 c.c., ovvero gli obblighi gravanti sui beni della comunione, come quelli relativi il mantenimento della famiglia, l’istruzione e la educazione dei figli.
Trib. Monza, 11 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2008, n. 23391 (Famiglia e Diritto, 2009, 2, 133 nota di OBERTO)
Il credito a titolo di rimborso ex art. 192 c.c., comma 1, rappresenta un credito di valuta e non di valore (Nella specie, la Cassazione ha confermato la decisione d’appello che aveva escluso la rivalutazione del credito vantato da un coniuge alla metà del corrispettivo incassato per intero dall’altro, a seguito dell’alienazione, da parte di quest’ultimo, di un autoveicolo già formante parte della comunione legale, scioltasi a seguito di separazione personale).
App. Catania, 7 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3, c.c., attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, non già quello alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale di uno dei coniugi e conferiti alla comunione, atteso che, per effetto della trasformazio¬ne dei beni personali in beni comuni, detti beni restano immediatamente soggetti alla disciplina della comunione legale, e quindi al principio inderogabile di cui all’art. 194, comma 1, c.c., il quale impone che, in sede di divi¬sione, l’attivo e il passivo siano ripartiti in parti eguali, indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177, comma 1, lett. a) c.c., cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante.
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 (Giur. It., 2006, 5, 936 nota di GALATI)
In tema di scioglimento della comunione legale, l’art. 192 c.c., nel prevedere il diritto del coniuge alla restitu¬zione delle somme prelevate dal patrimonio personale impiegate per spese ed investimenti a favore dei beni del patrimonio comune, non attribuisce anche un diritto alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale del coniuge e conferiti alla comunione, né prevede il diritto al rimborso del denaro proprio, speso per l’acquisto di beni poi caduti in comunione. Conseguentemente, ai fini della norma, occorre distinguere tra spese effettuate con denaro proprio per migliorie ed addizioni delle cose comuni, da quelle effettuate con denaro della comunione.
Le spese e gli investimenti del patrimonio comune, rimborsabili a ciascun coniuge se effettuate con somme prelevate dal patrimonio personale, riguardano solamente gli esborsi effettuati per la gestione, la manutenzione e il miglioramento dei beni comuni, e non quelli per l’acquisto dei medesimi beni (categoria nella quale vanno ricomprese anche le spese notarili e fiscali resesi necessarie per l’acquisto)
Le somme percepite a titolo di proventi dell’attività separata (destinate alla comunione “de residuo” se non consumate al momento dello scioglimento della comunione) non costituiscono somme prelevate dal patrimonio personale.
Il credito alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, spettante al coniuge ai sensi dell’art. 192, comma 3, c.c. all’esito dello scioglimento della comunione legale, è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.) e, determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, esso produce interessi ex art. 1282 c.c., salvo il diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore di quello dai medesimi coperto (art. 1224 c.c.).
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 (Famiglia e Diritto, 2005, 3, 237 nota di CARBONE)
Il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista “ipso iure” al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177 c.c., primo comma, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matri¬monio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non proprietario che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese.
Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564 (Giur. It., 2006, 2, 275 nota di SORRENTINO)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra i coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione e, quindi, con il vincolo di destinazione delle somme relative al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli.
Trib. Taranto 9 maggio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme di cui si può chiedere la restituzione ai sensi dell’art. 192 c.c. devono essere riconducibili alla fattispe¬cie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Trib. Milano 25 maggio 1998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di rimborso delle anticipazioni effettuate in favore della comunione presuppone la prova della consa¬pevolezza dell’altro coniuge del fatto che si trattasse di mere anticipazioni e non di donazioni indirette in favore dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 1992, n. 3141 (Giust. Civ., 1992, I, 1731 nota di FINOCCHIARO)
Nel regime di comunione legale, la costruzione realizzata in costanza di matrimonio su suolo di proprietà perso¬nale di uno dei coniugi, appartiene esclusivamente a questo, a titolo originario, in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e, pertanto, non costituisce oggetto della comunione medesima, ai sensi dell’art. 177, 1° comma, lett. a) c. c., che prevede il diverso caso di un acquisto a titolo derivativo da parte di un coniuge; peraltro, quando per la detta costruzione sia stato impiegato danaro comune, il coniuge che si è giovato dell’ac¬cessione è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune ed utilizzate per l’edificazione a norma dell’art. 192, 1° comma, c. c., mentre, nel caso in cui nella costruzione sia stato impiegato danaro appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, quest’ultimo ha diritto di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 c. c.
Trib. Catania, 21 aprile 1987 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme di cui si può chiedere la restituzione ai sensi dell’art. 192 c.c. devono essere riconducibili alla fattispe¬cie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Trib. Bergamo, 18 marzo 1983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché, in sede di divisione dei beni-oggetto di comunione legale tra i coniugi, i beni devono, inderogabilmente, dividersi in parti uguali, un coniuge può pretendere, dall’altro, la restituzione delle somme che assume prelevate dal patrimonio personale e impiegate in spese ed investimenti per la comunione solo ove dimostri che esisteva un accordo, quantomeno tacito, tra le parti, e che trattavasi di un investimento a favore della comunione e non di donazioni, indirette, all’altro.