RESPONSABILITÀ GENITORIALE

di Gianfranco Dosi

I Il concetto di “responsabilità genitoriale”
Il codice civile all’art. 2 prevede che fino alla maggiore età – fissata al compimento del diciottesimo anno (legge 8 marzo 1975, n. 39) – non si acquista la capacità di agire. Fino a tale età il figlio è soggetto a quella che in base a quanto prevedeva il codice civile all’art. 316 eravamo abituati a chiamare “potestà dei genitori” di cui il legislatore non ha mai fornito una specifica definizione ma nella cui nozione tuttavia, a partire quanto meno dalla riforma del 1975 del diritto di famiglia, si( sono sovrapposti sia il potere di rappresentanza (il cui limite temporale è quello del compimento della maggiore età da parte del figlio) sia un altro fascio di funzioni che supera quel limite cronologico. Con la riforma sulla filiazione (attuata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) anche l’art. 316 del codice civile è stato modificato e l’espressione “potestà dei genitori” è scomparsa venendo sostituita con quella di “responsabilità genitoriale” che peraltro non contiene più il riferimento della durata fino alla maggiore età.
La riforma sulla filiazione ha avuto come obiettivo principale l’unificazione dello stato giuridico di tutti i figli (nuovo art. 315 c.c.) ma il legislatore ha colto anche l’occasione per numerosi altri interventi legislativi su istituti collegati alla filiazione e tra questi, appunto, l’introduzione di una rinnovata disciplina della potestà dei genitori ribattezzata con l’espressione “responsabilità genitoriale”.
Come si dirà più oltre il concetto di responsabilità genitoriale, nel contesto della riforma sulla fi¬liazione, costituisce la presa d’atto di una sempre maggiore ampiezza che ha assunto nel tempo la nozione tradizionale di potestà, ma si accompagna anche a novità giuridiche molto significative che hanno completato in materia di esercizio delle funzioni genitoriali la riforma introdotta dalla legge 14 febbraio 2006, n. 154 sull’affidamento condiviso dei figli in sede di separazione dei geni¬tori, costituendone l’inevitabile completamento nel campo dei principi generali.
L’art. 2 della legge, alla lettera h), aveva delegato il Governo ad unificare le disposizioni che disci¬plinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, “delineando la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale”. Al legislatore delegato si chiedeva quindi di sintetizzare e disciplinare in modo più adeguato e moderno le regole che presiedono a quell’insieme di poteri e doveri che sono tradizionalmente collegati alle funzioni genitoriali.
Con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 il Governo ha dato attuazione alla delega sul punto attraverso due operazioni.
La prima operazione – di carattere nominalistico è stata quella di eliminare del tutto il termine “potestà” (che nel 1975 aveva soppiantato l’espressione “patria potestà”) sostituendolo con quello di “responsabilità genitoriale”. L’art. 104 del decreto legislativo di attuazione al primo comma prescrive che “la parola potestà riferita alla potestà genitoriale e le parole potestà genitoriale, ovunque presenti, in tutta la legislazione vigente, sono sostituite dall’espressione: responsabilità genitoriale”. La differenza non è solo terminologica dal momento che la nozione di responsabilità appare più idonea a riferirsi giuridicamente ad un soggetto che non ha la posizione di sottoposto ad un potere (come il termine potestà lascerebbe intendere) ma di persona con pari dignità non solo oggetto di tutela ma soprattutto soggetto di diritti.
Questa operazione nominalistica non è, tuttavia, andata esente da qualche critica dal momento che la legge delega non intendeva verosimilmente imporre la sostituzione dei due termini ma aveva soltanto prescritto che venisse delineata una “nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale”. Il legislatore del 2012 pensava ad un affiancamen¬to quindi dei due concetti e non alla loro unificazione. Il decreto di attuazione non sembra però che abbia voluto stravolgere la tradizionale funzione genitoriale determinata dalla sovrapposizione nelle funzioni genitoriali di poteri e di doveri e la nuova terminologia, perciò, non dovrebbe in¬durre a sospettare la scomparsa nella concezione delle funzioni genitoriali di quel fascio di poteri che il concetto di potestà richiamava. Resta l’impressione di una affrettata operazione chirurgica che potrebbe portare a qualche forzatura lessicale (decadenza della responsabilità genitoriale, procedimenti de responsabilitate e così via). Questa operazione di semplificazione operata dalla commissione che ha redatto il testo delle norme di attuazione imporrà in ogni caso alla cultura giuridica il compito di differenziare i due profili (poteri e doveri) all’interno della nuova espressione sintetica proposta dalle norme di attuazione.
Questa prima operazione ha portato, in ogni caso, alla sostituzione della parola “potestà” con l’e-spressione “responsabilità genitoriale” in tutta la normativa civile e penale vigente. Nella relazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 si afferma a proposito di questa sostituzione ter¬minologica che essa si è resa necessaria in considerazione dell’evoluzione socio-culturale, prima che giuridica, dei rapporti tra genitori e figli e si osserva espressamente che la nozione di responsabilità genitoriale presente da tempo in numerosi strumenti internazionali (come per esempio il regola¬mento europeo n. 2201/2003) è “quella che meglio definisce i contenuti dell’impegno genitoriale non più da considerare come una potestà sul figlio minore, ma come una assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti del figlio. La modifica terminologica dà risalto alla diversa visione prospettica che nel corso degli anni si è sviluppata ed è ormai da considerare patrimonio condiviso: i rapporti tra genitori e figli non devono essere più considerati avendo riguardo al punto di vista dei genitori, ma occorre porre in risalto il superiore interesse dei figli minori”.
La seconda operazione è consistita nel dislocare le disposizioni concernenti le funzioni genitoriali in modo più razionale all’interno del titolo IX del primo libro (rinominato “Della responsabilità ge¬nitoriale e dei diritti e doveri del figlio” in sostituzione del precedente “Della potestà dei genitori”) nel quale ora sono state significativamente ridistribuite in due differenti capi da un lato la disciplina “dei diritti e dei doveri del figlio” (I capo: articoli 315 – 337 c.c.) e dall’altro le norme sull’”eserci¬zio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”(capo II: articoli 337-bis – 337-octies). Questa operazione è senz’altro da consi¬derare del tutto ragionevole e coerente avendo inserito il tema della responsabilità dei genitori nel contesto sistematico nel quale si tratta anche dei diritti e dei doveri figli in generale. La responsa¬bilità dei genitori è, infatti, un concetto unitario che deve valere non solo quando i figli convivono con entrambi i genitori ma anche quando la separazione dei genitori impone una riorganizzazione delle relazioni familiari.
La giustificazione di questa ridistribuzione delle norme giuridiche è stata ben spiegata nella re¬lazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 dove è stato chiarito che si è voluta superare una discriminazione sistematica a carico dei figli nati fuori dal matrimonio in quanto nell’impianto originario del codice la disciplina relativa ai rapporti tra genitori e figli era dislocata in diverse parti del codice, in parte nel titolo IX, ma soprattutto nel titolo VI dedicato al matrimonio, quasi a voler evidenziare una differenza tra i figli a seconda dell’essere nati o meno nel matrimo¬nio. La discriminazione poi è molto evidente per quanto concerne la disciplina della dissoluzione del vincolo tra i genitori essendo le norme quasi tutte collocate nell’ambito della disciplina della separazione e del divorzio a differenza di quanto ha fatto la legge del 2006 sull’affidamento con¬diviso che ha unificato la disciplina. In questo senso la riforma sulla filiazione si pone nell’alveo di questo movimento di unificazione.

II La normativa sovranazionale che ha suggerito l’introduzione della nuova espressione “responsabilità genitoriale”
Quasi tutti i testi normativi sovranazionali più importanti fanno riferimento alla vita familiare non¬ché ai diritti e ai doveri dei genitori. Tuttavia, nel senso corrispondente al significato giuridico della “potestà”, il testo normativo nel quale è stata esplicitamente utilizzata l’espressione “responsabili¬tà genitoriale” è il Regolamento europeo n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale. Il precedente (abrogato) Regolamento europeo n. 1347/2000 ancora utilizzava l’espressione “po¬testà dei genitori”.
In questo testo la responsabilità genitoriale viene così definita dal Regolamento (art. 2): “i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita”. Il diritto di affidamento è definito come l’insieme dei diritti e doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di intervenire sulla decisione riguardo al suo luogo di residenza” mentre il diritto di visita è il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo.
Il Regolamento del 2003 amplia il campo di applicazione della parte relativa alla responsabilità ge¬nitoriale in quanto il precedente Regolamento del 2000 concerneva soltanto le questioni attinenti alla potestà dei genitori coniugati sui figli comuni. Il nuovo Regolamento elimina questa limitazione per evitare discriminazioni tra i minori e trova quindi applicazione per qualsiasi controversia con¬cernente la responsabilità genitoriale sui figli, anche non si entrambi
Poiché il Regolamento n. 2201/2003 si occupa sostanzialmente di risolvere i conflitti di competen¬za tra gli Stati europei individuando i presupposti (art. 3) in base ai quali una causa matrimoniale possa essere considerata di competenza di uno o di un altro Stato, la caratteristica più significativa che deve essere ricordata in tema di responsabilità genitoriale e quella disciplinata dall’art. 12 (ru¬bricato “proroga della competenza”) in relazione al quale le autorità giurisdizionali che sono consi¬derate competenti sulla domanda di separazione, di divorzio o di nullità sono anche competenti a trattare le domande relative alla responsabilità genitoriale. Al di fuori di questi procedimenti e nei casi di genitorialità fuori dal matrimonio vale il principio generale che la competenza appartiene al giudice dello Stato in cui il minore ha la sua residenza abituale (art. 8).
L’altro principio al quale il Regolamento 2201/2003 dà attuazione è quello in base al quale le decisioni pronunciate in uno Stato europeo sono riconosciute negli altri Stati senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento (art. 21). Chi ha interesse può promuovere un giudizio per il riconoscimento al fine di dare esecuzione alla decisione o per il non riconoscimento di una di queste decisioni. L’art. 23 del Regolamento indica i motivi per i quali non è ammesso il riconoscimento e tra questi il caso in cui la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato. L’istan¬za per l’esecutività non è necessaria quando si tratta di dare attuazione al diritto di visita o al prov¬vedimento che dispone il ritorno del minore nello Stato dal quale è stato illecitamente allontanato.
Come si è sopra detto, nella relazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 si afferma testualmente, a proposito dell’introduzione dell’espressione “responsabilità genitoriale” in sostitu¬zione di quella di “potestà dei genitori”, che la nuova terminologia si è resa necessaria in conside¬razione della evoluzione socio-culturale, prima che giuridica, dei rapporti tra genitori e figli come da tempo suggerito in numerosi strumenti internazionali quali, appunto, il Regolamento europeo n. 2201/2003.

III Quale importante novità è contenuta nel nuovo articolo 316 del codice civile sull’esercizio della “responsabilità genitoriale”?
a) L’esercizio della responsabilità genitoriale nella filiazione fuori dal matrimonio
La riforma non si è limitata alla sostituzione dell’espressione “potestà dei genitori” con quella di “responsabilità genitoriale” ma ha anche introdotto una importante novità nella disciplina giuridica delle funzioni genitoriali uniformando le regole relative all’esercizio della responsabilità genitoriale dentro e fuori dal matrimonio.
Per comprendere bene il significato di questa novità si deve ricordare che l’articolo 30 della Co¬stituzione prevede che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Proprio per questo motivo la Costituzione ha sempre impresso una carica specifica al tema della uniformità dei doveri e dei diritti dei genitori verso i figli prescindendo dalla nascita nel matrimonio o fuori dal matrimonio. La riforma sulla filiazione e sull’unificazione dello stato giuridico dei figli ha tratto motivazione soprattutto da questa indicazione costituzionale.
Tra le norme che il decreto legislativo ha ridistribuito nel titolo IX del primo libro del codice civile (suddiviso come detto in due nuovi capi) solo alcune sono completamente nuove, come per esem¬pio, all’interno del primo capo, il fondamentale e centrale art. 315 (“tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”), l’art. 315-bis che – assemblando principi già vigenti – elenca in quattro commi i “diritti e doveri del figlio”, l’art. 316 (che come già detto conia la nuova espressione “responsa¬bilità genitoriale” e dal quale scompare quella parte molto criticata che attribuiva al solo padre, nelle situazioni di incombente pericolo per il figlio, il potere di adottare provvedimenti urgenti), l’art. 317-bis sul diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti, l’art. 336- bis sull’ascolto del minore. Le altre norme, ancorché alcune novellate in modo significativo (come l’art. 337-quater in tema di affidamento esclusivo), riproducono sostanzialmente, sia pure con una nuova numerazione, il precedente assetto normativo anche nella parte in cui era stato modellato dalla riforma dell’affidamento condiviso (legge 8 febbraio 2006, n. 54).
In tema di esercizio della responsabilità genitoriale di fondamentale importanza, per i risvolti che vi sono collegati, è proprio il nuovo art. 316 codice civile dove è contenuto il nuovo principio giuri¬dico sul quale è fondata la “responsabilità genitoriale” che è costituito dall’esercizio della respon¬sabilità attribuito sempre ad entrambi i genitori anche in caso di filiazione fuori dal matrimonio, a modifica del previgente art. 317-bis c.c. che prevedeva, nel secondo comma, quale presupposto dell’esercizio comune della potestà la convivenza dei genitori naturali.
Vi è oggi, pertanto, esercizio della responsabilità genitoriale in capo ad entrambi i genitori naturali anche se essi non convivono o non hanno mai convissuto.
Il nuovo art. 316 c.c. (che, come il precedente, si riferisce alle relazioni familiari nella famiglia uni¬ta), ribadisce innanzitutto al primo comma che “entrambi i genitori hanno la responsabilità genito¬riale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del mino¬re”. In questa prima parte si ribadisce perciò il principio già espresso dal previgente art. 316 del co¬dice civile dove si prevedeva che “la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori”.
La vera novità sta nella seconda parte del nuovo art. 316 – che si occupa della genitorialità al di fuori del matrimonio – dove si prevede che “il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale” e poi si precisa che “se il riconoscimento del figlio nato fuori dal matri¬monio è fatto dai genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi”.
La rivoluzione normativa è molto evidente se si raffronta questo testo con il previgente art. 317-bis del codice civile dove l’esercizio della potestà da parte di entrambi i genitori che avevano riconosciuto il figlio naturale era, come detto, collegato alla convivenza tra i genitori. Così si esprimeva il secondo comma dell’art. 317-bis prima della sua sostituzione con le nuove norme: “Al genitore che ha rico¬nosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui. Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori l’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi”.
Perciò nel sistema normativo precedente, la convivenza dei genitori (l’essere cioè famiglia) era la condizione perché i due genitori fossero ritenuti entrambi esercenti la potestà. Questo presupposto non è più previsto nella legge ora vigente. Ora secondo la nuova legge per esercitare la potestà basta aver riconosciuto il figlio. La famiglia esiste, perciò, si potrebbe dire, anche se i genitori na¬turali non convivono (o non hanno mai convissuto).
Nel caso di separazione della coppia genitoriale – ed è questo un aspetto indubbiamente parados¬sale – la giurisprudenza successiva alla legge sull’affidamento condiviso era già pervenuta a questa conclusione. Uguale operazione interpretativa aveva anche fatto buona parte della dottrina.
La legge 14 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) aveva espresso – sul versante della separazione dei genitori – il fondamentale principio che dopo la separazione “la potestà sui figli è esercitata da entrambi i genitori” (sia in caso affidamento condiviso che in caso di affidamento esclusivo) (art. 155 – attuale art. 337-ter – c.c.), mentre il secondo comma dell’art 4 della medesima legge prescriveva che “le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. La so¬stanza della riforma stava soprattutto in tali indicazioni.
b) I problemi posti dal nuovo art. 316 del codice civile e le possibili soluzioni nell’art. 317
Non sono stati ancora sufficientemente dibattuti alcuni problemi che porrà nella pratica la regola nuova dell’esercizio sempre ad entrambi i genitori della responsabilità genitoriale nell’ipotesi di filiazione fuori dal matrimonio, anche se i genitori non convivono o non abbiano mai convissuto.
Intanto – per avere un’idea dell’entità e della problematicità del fenomeno – vi è da dire che se¬condo i dati Istat i figli che nascono oggi fuori dal matrimonio costituiscono circa il 23% del totale (si tratta di nascite da madri singole, vedove o divorziate o da coppie non coniugate).
Questo dato relativo all’incremento del numero di figli nati fuori dal matrimonio si problematicizza in connessione con l’attribuzione della responsabilità genitoriale sempre ad entrambi i genitori ancorché non conviventi o che non abbiano mai convissuto e deve ora anche essere strettamente correlato non solo a quello costituito dalla nuova disciplina giuridica della parentela contenuta nel novellato art. 74 del codice civile che estende il vincolo di parentela anche nel caso in cui la filia¬zione è avvenuta fuori dal matrimonio (rimodellando anche il primo comma dell’art. 258 c.c. che ora prescrive che “il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso”) ma anche al dato generale – rilevato però dall’Istat soltanto per le coppie co¬niugate – relativo all’aumento del numero delle separazioni che verosimilmente coinvolge anche le coppie non coniugate. Il tema, infine, deve anche essere collegato all’altro sulle problematiche delle famiglie ricomposte che la riforma del 2013 sulla filiazione non ha minimamente disciplinato.
Consegue a questi dati un quadro di grande complessità e di evidente problematicità che tocca da vicino il tema dei differenti modelli familiari nell’attuale società.
Si può fare l’esempio di due genitori naturali che non convivono (perché hanno smesso di convive¬re o perché non hanno mai convissuto) e che formano ognuno una nuova famiglia (matrimoniale o non matrimoniale) con un nuovo partner mettendo al mondo un altro figlio. Si determina la situazione nuova seguente: il figlio di entrambi è parente in linea collaterale (fratello) di ciascuno dei figli (e zio dei figli dei fratelli) nati dalla relazione del genitore con il nuovo e la nuova partner. La stessa situazione si verifica per il figlio nato da due genitori uniti in matrimonio ove il padre dovesse riconoscere nel corso del matrimonio un figlio nato da una relazione extraconiugale. E così via in un reticolo una volta inimmaginabile di parentela.
La problematicità che qui si vuole mettere in evidenza deriva, però, non tanto dall’estendersi della rete della parentela in sé (che potrebbe creare indubbiamente sul piano successorio un ampliamento significativo del numero dei chiamati all’eredità) quanto piuttosto dalla necessaria compresenza e cogestione quindi della responsabilità genitoriale. Come può essere esercitata la responsabilità genitoriale, per di più di comune accordo, tra genitori naturali che potrebbero tro¬varsi in condizione di pressoché totale estraneità reciproca e, soprattutto, nei confronti di un figlio con cui magari non si è mai convissuto?
Inoltre, anche alcune norme specifiche determinano una condizione di applicazione problematica. Si consideri per esempio l’ultimo comma dell’art. 320 c.c. che attribuisce all’altro genitore che magari non ha mai convissuto neanche con il figlio, il potere di rappresentarlo, in caso di conflitto di interessi tra il figlio e il genitore con lui convivente esercente la potestà/responsabilità. Si consideri, ancora, per esempio la norma che disciplina l’usufrutto legale. L’art. 324 c.c. (usufrutto legale) prevede che “i genitori esercenti la responsabilità genitoriale hanno in comune l’usufrutto dei beni del figlio” e si immagini un minore che vive con la madre. Non solo la madre ma anche il padre, ancorché per esempio non abbia mai convissuto con l’altro genitore (e con il minore), sarà titolare dell’usufrutto. E così per altre norme, come per esempio, per l’art. 328 c.c. (nuove nozze) il quale prevede che “il genitore che passa a nuove nozze conserva l’usufrutto legale, con l’obbligo di accantonare in favore del figlio quanto risulti eccedente rispetto alle spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione di quest’ultimo”.
Il rimedio può essere trovato nell’art. 317 del codice civile.
Questa norma è rimasta invariata anche dopo la riforma sulla filiazione del 2013 e continua a di¬sciplinare i casi di “impedimento di uno dei genitori” prevedendo al primo comma che “nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro” (primo comma).
Si tratta però di verificare se i casi di lontananza, incapacità o altro impedimento (si pensi ad una grave malattia, allo stato di detenzione, alla prolungata assenza per motivi di lavoro dal territorio nazionale, al ricovero presso una struttura ospedaliera o presso una comunità terapeutica, ad una condizione di incapacità naturale prolungata) producano automaticamente l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale in capo all’altro genitore oppure se serva sempre un provvedimento del giudice (come per il secondo comma che disciplina i casi di separazione della coppia genitoriale).
Si tratta di un interrogativo importante perché ove si ritenesse che l’esercizio esclusivo della respon-sabilità genitoriale in capo a un genitore derivi automaticamente dalla lontananza, dalla incapacità o dall’impedimento dell’altro, saremmo in presenza di una situazione capace di neutralizzare sul nascere i rischi che, come si è detto, potrebbero derivare dall’attribuzione sempre dell’esercizio della responsabilità ad entrambi i genitori anche se non convivono o non hanno mai convissuto.
Se si dovesse interpretare la disposizione nel suo senso letterale dovremmo optare per la soluzio¬ne dell’automaticità in quanto solo con riferimento alla separazione, al divorzio e all’annullamento del matrimonio il secondo comma dell’art. 317 rimette al giudice la decisione. E d’altro lato il primo e il secondo comma si riferiscono a due situazioni del tutto incompatibili l’una dall’altra (nonostan¬te la rubrica della disposizione (impedimento di uno dei genitori) che si riferisce alla ipotesi del solo primo comma.
Va anche chiarito che l’ipotesi di cui al primo comma naturalmente lascia sempre il genitore im¬pedito, incapace o inidoneo titolare della potestà/responsabilità. È il classico caso di dissociazione tra titolarità e potestà/responsabilità. Situazione peraltro che si verifica anche nel caso di cui al secondo comma. E quindi il problema si pone solo nel caso in cui non sia stata dichiarata eviden¬temente la decadenza della potestà/responsabilità.
Pertanto il problema è solo stabilire se nell’ipotesi di incapacità, lontananza o altro impedimento l’esercizio esclusivo della responsabilità si realizza automaticamente o serve un provvedimento del giudice.
La risposta che nel lontano passato ha dato la giurisprudenza è che l’esercizio della potestà si concentra sull’altro genitore automaticamente ed altrettanto automaticamente riprende al venir meno dell’impedimento, senza la necessità di un provvedimento del giudice (Cass. civ. 27 mag¬gio 1975, n. 2122). Si tratta però di una sentenza troppo risalente per attribuirle con certezza una valenza attuale. La dottrina, anche essa non più vicina nel tempo – è nel dubbio se spetti al genitore che ha esercitato la potestà provare che vi era un impedimento in capo all’altro genitore o se si deve presumere che il genitore che agisce da solo lo fa validamente spettando all’altro che impugna l’atto provare che l’impedimento non sussisteva o non era tale da rendere impossibile l’esercizio congiunto della potestà.
Parte della dottrina giustamente ha sottolineato in proposito che poiché la regola dell’accordo costituisce un principio generale nel diritto di famiglia, la violazione di questa regola dovrebbe comportare una inversione dell’onere probatorio. Il genitore escluso quindi potrebbe limitarsi ad impugnare l’atto mentre spetterebbe all’altro genitore convenuto in giudizio provare l’esistenza dei presupposti di operatività dell’esercizio esclusivo e cioè l’esistenza di un fatto impeditivo che precludeva la possibilità di compiere insieme l’atto impugnato.
Per impedire effetti dirompenti derivanti dal principio di esercizio congiunto della responsabili¬tà anche nei casi di lontananza, incapacità o altro impedimento di un genitore (art. 317, primo comma, c.c.) è possibile enucleare una regola generale nuova che consente di ritenere legittimo l’esercizio automatico esclusivo della responsabilità genitoriale da parte di un genitore (mediante un certo comportamento o mediante l’adozione di un determinato atto) tutte le volte in cui si realizza una condizione di lontananza, incapacità o di impedimento dell’altro genitore tale da non potersi pretendere la decisione congiuntamente o concordata; fatto sempre salvo il potere del giu¬dice di intervenire su istanza di uno dei genitori per regolamentare l’esercizio della responsabilità genitoriale attraverso il procedimento di cui agli articoli 337-bis e seguenti del codice civile. Sarà in questo caso il giudice a verificare se l’inidoneità, l’incapacità o l’impedimento costituiscano fatti impeditivi all’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale.
Nell’esercizio dei poteri di rappresentanza e amministrazione del figlio da parte dei genitori e cioè nei casi di cui all’art. 320 c.c. – e sempre che non sia stato richiesto l’intervento del giudice per la regolamentazione dell’affidamento – il procedimento sarà diverso. Il genitore che convive con il figlio e che quindi esercita la responsabilità genitoriale, in caso di lontananza, incapacità o im¬pedimento dell’altro genitore, può legittimamente rappresentare e amministrare i beni del figlio mentre l’altro genitore eventualmente in disaccordo potrà richiedere l’intervento del giudice ex art. 316 c.c. secondo le regole del procedimento ivi descritto.
c) Gli orientamenti della giurisprudenza
Prima della riforma del 2012 sull’uniformità della disciplina giuridica tra filiazione fondata sul matrimonio e filiazione fuori del matrimonio, la giurisprudenza si era chiesta se la regola giuridi¬ca indicata allora nel secondo comma dell’art. 317-bis c.c. dell’esercizio della potestà in capo ad entrambi i genitori solo se conviventi, dovesse considerarsi sostituita (dopo la riforma dell’affida¬mento condiviso del 2006) con una nuova regola di esercizio sempre comune della potestà (anche se i genitori naturali non convivessero o non avessero mai convissuto).
La risposta fu positiva e si ritenne che la cessazione della convivenza tra i genitori naturali non conduce alla cessazione dell’esercizio della potestà, perché la potestà genitoriale in regime di af¬fido condiviso è esercitata da entrambi i genitori, salva la possibilità per il giudice di attribuire a ciascun genitore il potere di assumere singolarmente decisioni sulle questioni di ordinaria ammini¬strazione (Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8362 e poi da Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 2007, n. 19406 in cui si esprimeva il convincimento che la legge 8 febbraio 2006, n. 54, applica¬bile in forza dell’art. 4, 2° co., anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, non ha abrogato l’art. 317-bis c.c. (che negava l’attribuzione dell’esercizio della potestà al genitore non convivente con i figli) ma ne ha profondamente innovato il contenuto precettivo alla luce dei nuovi principi espressi dalla riforma dell’affidamento condiviso.
Il problema dell’equiparazione tra i genitori esercenti o non esercenti la potestà genitoriale si era posto in modo molto significativo soprattutto in materia di adozione dove l’art. 46, 2° comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 stabilisce che solo il mancato assenso del genitore esercente la potestà (e non del genitore che non la esercita) preclude al tribunale la pronunzia dell’adozione in casi particolari1.
Prima della riforma sulla filiazione del 2012 Cass. civ. Sez. I, 26 ottobre 1992, n. 11604 aveva ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale di questa norma atteso che la di¬sposizione che conferisce effetti ostativi alla sola volontà del genitore esercente la potestà, trova ragion d’essere nella considerazione che solo la comunanza di vita e la conseguente conoscenza degli interessi e delle esigenze del minore rendono rilevante il dissenso, così evidenziando una mancanza di omogeneità rispetto alla condizione del genitore che tale potestà non esercita.
Ha fatto applicazione dei nuovi principi Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2011, n. 10265 che in un caso di adozione del figlio del proprio coniuge ex art. 44 della legge 184/83 in cui è previsto il necessario consenso all’adozione dell’altro genitore esercente la potestà, ha ritenuto di dare rile¬vanza al dissenso manifestato dal genitore naturale non convivente considerandolo esercente della potestà. La sentenza ha affermato che in tema di adozione in casi particolari, ha efficacia preclu¬siva il dissenso manifestato dal genitore naturale non convivente dovendo egli ritenersi comunque “esercente la potestà”, pur quando lo stesso non sia mai stato convivente con il minore; invero, la legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’esercizio della potestà in caso di crisi della coppia genitoriale e sull’affidamento condiviso, applicabile anche ai figli di genitori non coniugati, ha corrispondente¬mente riplasmato l’art. 317 bis cod. civ.. Il principio della bigenitorialità ha, infatti, informato di sé il contenuto precettivo della norma citata, eliminando ogni difformità di disciplina tra figli legittimi e naturali, cosicché la cessazione della convivenza tra genitori naturali non conduce più alla ces¬sazione dell’esercizio della potestà.
Le conclusioni cui è giunta questa sentenza non sono diverse da quelle che in passato erano già state anticipate da Cass. civ. Sez. I, 5 agosto 1996, n. 7137 in una vicenda analoga.
In conclusione il principio vigente (ora introdotto espressamente dalla nuova legge di riforma sulla filiazione del 2013) dovrebbe essere che l’esercizio della responsabilità genitoriale al di fuori del matrimonio è attribuito ad entrambi i genitori anche nel caso in cui i genitori non convivano o non abbiamo mai convissuto.
Sennonché recentemente a rimettere in discussione il principio con riferimento proprio all’adozio¬ne in casi particolari è stata Cass. civ. Sez. I, 21 settembre 2015, n. 18576 affermando che “per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso, ai sensi della legge n. 184 del 1983, art. 46, 2° comma, impedisce l’adozione particolare, debbono intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie ad un rapporto effettivo con il minor, caratterizzato di regola dalla convivenza, in ragione della cen¬tralità attribuita dagli artt. 29 e 30 Cost. all’effettività del rapporto genitore-figlio”.
Nella vicenda la Corte ha ritenuto superabile, in ragione del preminente interesse della minore (per la quale i due coniugi che l’avevano in affidamento provvisorio avevano richiesto l’adozione)
1 ART. 46.
Per l’adozione è necessario l’assenso dei genitori e del coniuge dell’adottando.
Quando è negato l’assenso previsto dal primo comma, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell’adot¬tante, può, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, pronunziare ugualmente l’adozione, salvo che l’assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal coniuge, se convivente, dell’adottando. Parimenti il tribunale può pronunciare l’adozione quando è impossibile ottenere l’assenso per incapacità o irreperibilità delle persone chiamate ad esprimerlo.
il dissenso all’adozione manifestato dalla madre dell’adottanda, che non esercitava in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sulla figlia, con la quale non intratteneva alcun effettivo rapporto se non quello esplicantesi, in epoca più recente, negli incontri protetti. La Corte ha esclu¬so l’illegittimità dell’adozione per difetto di consenso della madre dell’adottanda, non avendo ella mai instaurato un rapporto con la figlia, che sin da tenera età era stata inserita in un istituto per minori e poi data in affidamento a due coniugi. La Corte di cassazione ricorda che il limite alla va¬lutazione dell’interesse dell’adottando, da parte del giudice, costituito dalla insuperabilità del dis¬senso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale ha una giustificazione in valori costituzio¬nalmente garantiti, quali quello della conservazione del vincolo familiare e della società coniugale effettivamente vissute. In questo è evidente il ruolo centrale attribuito alla effettività del rapporto genitore-figlio. Non già l’astratta spettanza della responsabilità genitoriale, bensì la effettività del vincolo familiare (di regola nella convivenza) giustificano la speciale protezione attribuita a tale vincolo (che si esplica nella rilevanza del dissenso) in applicazione dei principi di cui agli articoli 29 e 30 della Costituzione. Ritiene dunque il Collegio che per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso, ai sensi della l’art. 46 della legge 184 del 1983 impedisce l’adozione particolare, debbano intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore.

IV La responsabilità genitoriale inizia con l’attribuzione dello status o con la nascita?
Quando comincia la responsabilità genitoriale?
Secondo l’insegnamento tradizionale il confine di inizio dovrebbe coincidere con l’acquisizione dello status (con la denuncia di nascita se il figlio è nato da genitori coniugati o con il riconoscimento se è nato fuori del matrimonio). Pertanto non si è mai dubitato del fatto che i genitori sono investiti della potestà/responsabilità con la formazione del titolo di stato della filiazione.
Tuttavia da alcuni anni la giurisprudenza che si è occupata della filiazione fuori dal matrimonio ha voluto richiamare l’art. 30 della Costituzione (“E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”) per farne conseguire l’affermazione del principio che la responsabilità genitoriale è collegata non all’acquisizione dello status ma alla pro¬creazione. I doveri cui fa riferimento l’art. 30 della Costituzione non sarebbero cioè condizionati al riconoscimento del figlio ma deriverebbero dalla nascita in sé.
Ci sono conferme nel sistema giuridico positivo che possano far pensare ad una anticipazione della responsabilità genitoriale a prima dell’acquisto dello status?
Se l’art. 320 c.c. attribuisce ai genitori il potere di rappresentare anche i figli nascituri in tutti gli atti civili, così come anche il potere di accettare le eredità (art. 462 c.c.) o le donazioni (art. 784) loro devolute e di amministrarle (art. 643 c.c.), vuol dire che poteri e doveri di protezione sono riconosciuti anche prima della nascita.
Il diritto di nascere sano (Cass. civ. Sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741) è sul versante giuri¬sprudenziale la conferma di questa tutela anticipata.
È pur vero che la rappresentanza e l’amministrazione di cui sono investiti i genitori nei casi indicati appaiono forse soprattutto rispondenti ad esigenze di tutela di patrimoni senza titolare o a esigenze minime di protezione dei nascituri, ma anche vero che in queste situazioni non si può non parlare oggettivamente di ampliamento della responsabilità oltre i confini tradizionali della nascita.
È stato, però, soprattutto il diritto del figlio al mantenimento fin dalla nascita ad essere al centro negli ultimi anni di un dibattito in giurisprudenza che ha portato gradualmente all’anticipazione al momento della nascita dell’attribuzione dei doveri genitoriali connessi alla potestà/responsabilità.
In passato Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166 aveva avuto modo di richiamare la solennità di questo dovere affermando che “Il primo obbligo enunciato dall’art. 147 c.c. consiste in quello di mantenimento della prole: è questo un dovere inderogabile, che nella sua concreta attuazio¬ne è commisurato in proporzione alle rispettive sostanze dei genitori e alle capacità di lavoro di ciascuno”. Ne è conseguita nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che “la sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, compreso quello di mantenimento” (Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196; Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2000, n. 5586; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042). Il figlio ricono¬sciuto tardivamente (spontaneamente o in sede giudiziale) ha perciò diritto al mantenimento con decorrenza dalla nascita. Naturalmente il mantenimento si suddividerà tra entrambi i genitori, essendo entrambi tenuti al dovere di mantenere il figlio. A tale proposito Cass. civ. Sez. I, 3 no¬vembre 2006, n. 23596 aveva osservato: “Questa Corte ha più volte affermato che la sentenza di accertamento della paternità o maternità naturale ha natura dichiarativa Tale principio va peraltro inteso nel senso che la sentenza accerta uno status che attribuisce al figlio naturale tutti i diritti che competono al figlio legittimo con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, secondo la previsione degli articoli 147 e 148 in forza del combinato disposto degli articoli 261 e 277. L’esercizio dei diritti connessi a tale status non può peraltro prescindere dall’accertamento giudiziale o dal riconoscimento effettuato dal genitore. In quanto attributiva di uno status e dei diritti ad esso connessi, la sentenza va pertanto qualificata, ai fini che qui interessano, come costitutiva, nel senso che senza di essa lo status di figlio naturale non sorge e non vi può esse¬re rivendicazione utile dei diritti che a tale status si accompagnano, ancorché per effetto della pronuncia il godimento di tali diritti retroagisca alla data della nascita”. La decisione in questione parla di “natura costitutiva della sentenza dichiarativa della filiazione”.
La sentenza che accerta e dichiara la filiazione ha quindi natura costituiva anche se i suoi effetti retroagiscono al momento della nascita, garantendo così al figlio minore una copertura completa del suo diritto al mantenimento dalla nascita in poi.
Sulla decorrenza dalla nascita dell’obbligazione di mantenimento in seguito alla sentenza che ac¬certa la filiazione, la giurisprudenza è copiosa e assolutamente consolidata (oltre alle sentenze so¬pra citate Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575; Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386). In molte decisioni espressamente il dovere di mantenimento viene collegato all’avvenuto accertamento della paternità, e si precisa che i doveri genitoriali sorgono con decorrenza dalla nascita ma in seguito al riconoscimento ancorché tardivo oppure in seguito alla sentenza (Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196; Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2000, n. 5586; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042).
Quindi nelle sentenze sopra riportate l’affermazione della decorrenza dalla nascita dell’obbligazio¬ne di mantenimento non comporta ancora in giurisprudenza l’enucleazione chiara di un principio di decorrenza dalla nascita incondizionato. Il dovere di mantenimento è pur sempre condizionato al riconoscimento o alla sentenza di attribuzione dello status. Se non vi è riconoscimento o se non vi è la sentenza sulla filiazione non è possibile parlare di dovere genitoriale di mantenimento dalla nascita.
Solo negli ultimi anni, invece, parte della giurisprudenza si è interrogata sempre più spesso, sul problema se l’obbligazione di mantenimento prescinda o meno dall’avvenuto, sia pure tardiva¬mente, riconoscimento e sorga, invece, per il fatto in sé della procreazione. A questo interrogati¬vo, dopo qualche presa di posizione iniziale più sfocata o contraria, viene data oggi una risposta sostanzialmente positiva e la più recente giurisprudenza ha così affermato il principio della anti¬cipazione della responsabilità genitoriale al momento della procreazione indipendentemente dal riconoscimento.
Ed anzi, la violazione dell’obbligo di mantenimento è stata ritenuta addirittura fonte di risarci¬mento del danno alla cui base vi sarebbe il fatto illecito costituito dalla violazione del dovere di mantenimento.
Si tratta id una ricostruzione che potrebbe apparire per certi forzata e tautologica – e si tratterà di vedere se sarà o meno confermata nel tempo – ma è quella che certamente emerge nelle sentenze più recenti.
La giurisprudenza ha, quindi, costruito un illecito da mancato riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio. Illecito che – occorre però aggiungere – non sussiste certamente per la madre allorché, come prescrive, l’articolo 30, primo comma, dell’ordinamento di stato civile (DPR 3 no¬vembre 2000, n. 396) la dichiarazione di nascita è chiamata a rispettare “l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”. Pertanto la donna nel nostro ordinamento non ha certamente l’obbligo di riconoscere il figlio; al contrario ha il diritto di conservare l’anonimato. Diritto che cede di fronte all’azione di reclamo da parte del figlio del suo status e all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità.
Alcune decisioni della giurisprudenza di merito avevano in passato attribuito al figlio, dopo il rico-noscimento giudiziale della paternità, il diritto al risarcimento dei danni. Si tratta di vicende pro¬cessuali nelle quali si è discusso, però, solo dei danni subìti dal figlio a causa del fatto di non essere stato tempestivamente riconosciuto dal padre e non delle norme giuridiche che fonderebbero la connotazione illecita dell’omesso riconoscimento.
In una causa nella quale il figlio, dopo aver ottenuto una sentenza di riconoscimento giudiziale della paternità, agiva per il risarcimento dei danni, è stato dichiarato che “è fonte di responsabilità extracontrattuale il comportamento di un genitore che, venendo meno ai propri obblighi nascenti dal rapporto di filiazione, abbia scelto di non riconoscere il bambino e non abbia provveduto in alcun modo al suo mantenimento” (Trib. Venezia, 18 aprile 2006).
In una causa risarcitoria intentata dalla madre e dal figlio dopo il riconoscimento giudiziale della pa¬ternità il Tribunale di Modena ha sostenuto che “la condotta del padre che non abbia riconosciuto il figlio naturale e si sia rifiutato di adempiere gli obblighi derivanti dal rapporto di filiazione, è contraria agli articoli 147, 148 e 261 c.c. e causa un danno esistenziale al figlio naturale e alla madre che, nel caso di specie, si manifesta, per la donna, sul piano delle relazioni sociali, per il figlio, nelle riper¬cussioni sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stato desiderato e trattato come figlio. Il diritto al risarcimento del danno da essi subito, nonché il diritto della madre al rimborso pro quota delle spese effettuate per il mantenimento del figlio naturale, può essere tutelato attraverso il sequestro conservativo autorizzato sui beni del padre e sulle somme e cose al medesimo dovute” (Trib. Modena, 12 settembre 2006).
Dello stesso avviso anche Trib. Trani, 27 settembre 2007 che, pur scettico sulla possibilità di un risarcimento per omesso riconoscimento del figlio ha però, contraddittoriamente negato il ri¬sarcimento per mancanza di prova. Nella sentenza si sostiene che “la domanda di risarcimento del danno esistenziale per omesso riconoscimento del figlio naturale va rigettata ove sfornita di prova in quanto, premesso che la legge non prevede l’obbligatorietà del riconoscimento del figlio natura¬le, il figlio ha l’onere di provare che, benché alla soddisfazione dei suoi bisogni avesse provveduto la sola madre, quest’ultima non è riuscita a garantirgli un diverso tenore di vita, che altrimenti sarebbe stato raggiunto attraverso la regolare corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte del padre. D’altra parte – anche in considerazione dell’elevato lasso di tempo fatto decorrere dal diretto interessato per la richiesta di risarcimento del danno derivante dal mancato riconosci¬mento e mantenimento (ventiquattro anni) – non può affatto presumersi che la prova del danno esistenziale sia in re ipsa, ovvero che derivi, automaticamente, dal solo mancato riconoscimento. Infatti, non può essere risarcito un danno che prescinda completamente dalla prospettazione e dimostrazione di una qualche conseguenza negativa in capo alla vittima, in quanto disancorare il risarcimento del danno dall’accertamento dell’esistenza di un qualche riflesso negativo, di caratte¬re personale e patrimoniale nella sfera del soggetto leso, significa costruire una categoria di danno “automatico”, direttamente innescato da un fatto illecito senza che vi sia dimostrazione alcuna della modificazione, in peius, della vita della vittima.”
Un’altra analoga decisione (Trib. Roma, 27 ottobre 2011) ha dichiarato “ammissibile il risar¬cimento del danno non patrimoniale a favore delle figlie, a causa del comportamento del padre naturale che si è sottratto volontariamente all’assolvimento degli obblighi derivanti dal rapporto di filiazione. Due sorelle quarantenni avevano citato in giudizio il loro presunto padre naturale, chiedendo l’accertamento giudiziale della paternità e formulando specifiche domande di natura patrimoniale tra cui una domanda di risarcimento del danno morale patito in relazione al mancato riconoscimento da parte del genitore. Il tribunale, accertata la paternità biologica, dichiarava il convenuto padre naturale delle due sorelle, respinge le domande di mantenimento pregresso ma accoglieva la domanda di risarcimento del danno morale “originato dalla sofferenza patita per la privazione della figura genitoriale”.
In una causa risarcitoria anche in questo caso seguita all’accertamento della paternità App. Bo¬logna, 10 febbraio 2004 ha ritenuto che “l’inadempimento da parte del padre agli obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c., provoca, nei confronti del figlio, un danno ai valori fondamentali della persona, così come garantiti dagli artt. 2 e ss. Cost. È configurabile quale nuovo danno non patrimoniale (esistenziale) la violazione da parte del genitore dell’obbligo di mantenimento ed assistenza del figlio naturale”.
Anche Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713 si è occupata di una vicenda analoga dove però l’obbligo risarcitorio trovava la sua fonte non nel tardivo riconoscimento – cui si era giunti in sede giudiziaria – bensì nella circostanza che dopo la condanna alla corresponsione del mantenimen¬to il padre non aveva versato per anni il mantenimento. Questo comportamento (che costituiva in modo molto evidente l’illecito) è stato sanzionato con la condanna al risarcimento dei danni. Quindi, in questa sentenza, la misura risarcitoria consegue non all’omissione del riconoscimento spontaneo ma all’illecito consistente nell’aver omesso per anni il pagamento del mantenimento a cui il padre era stato condannato. La decisione in questione, pertanto, non può essere accomunata alle precedenti.
Premesso che la decisione del 2000 della Cassazione sopra riportata non ha affrontato il tema del risarcimento per omesso riconoscimento, ma solo per mancato adempimento di un obbligo scatu¬rito da una sentenza di condanna al mantenimento – giungendo a conclusioni assolutamente ac¬cettabili – si deve ribadire che nessuna delle decisioni di merito sopra esaminate individua – come si è detto – la fonte dell’asserito obbligo di riconoscimento del figlio alla cui violazione potrebbe collegarsi una pretesa risarcitoria.
Come si è detto è stata la giurisprudenza di legittimità a porsi alla ricerca di qualche spunto ri¬costruttivo che possa giustificare l’affermazione che l’omesso riconoscimento del figlio costituisce per chi ha consapevolezza di esserne il padre, fonte di obbligazione non solo di mantenimento ma anche risarcitoria.
In Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 si legge per esempio che “l’obbligo di mante¬nere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità natu¬rale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.
Più articolata si presenta Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 dove si legge: “Nell’i¬potesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto per¬ciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori… La legge pone a carico dei genitori l’obbligo di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati …Da ciò consegue che il genitore naturale, dichiarato tale con prov¬vedimento del giudice, non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita”.
In senso analogo molte sentenze successive (tra le più recenti Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 luglio 2016, n. 14417; Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960, Trib. Cassino, 13 luglio 2017).
Da queste affermazioni tuttavia non sembra ancora potersi indurre che l’obbligo di mantenimento esiste a prescindere dall’accertamento della paternità. Infatti la sentenza 23596 del 2006, trattando il tema della prescrizione della domanda di rimborso del mantenimento pregresso fatta dal genitore che da solo aveva sostenuto il mantenimento del figlio, afferma che prima della sentenza dichia¬rativa della paternità (passata in giudicato) nessuna prescrizione può correre (contrariamente a quanto aveva ritenuto la Corte d’appello). Espressamente si afferma “Ora pare evidente che sino al momento in cui si forma il giudicato in ordine alla domanda di accertamento della paternità o ma¬ternità naturale, non sorge lo status di figlio naturale e quindi difetta il presupposto per l’esercizio delle azioni che a tale status si riconnettono”.
Il che significa, però, che anche il dovere di mantenimento dovrebbe essere condizionato all’ac-certamento della paternità. Non sussisterebbe, perciò – contrariamente a quanto alcuni passaggi della decisione potrebbero lasciar intendere – alcun dovere di mantenimento dalla nascita se non quando sopraggiunga e passi in giudicato la sentenza dichiarativa della paternità naturale.
Piuttosto decisa, invece, nella direzione dell’automaticità del dovere di mantenimento dalla na¬scita è stata App. Roma, 7 settembre 2011 secondo cui testualmente “l’obbligo per il genitore di contribuire al mantenimento del figlio maggiore di età non economicamente indipendente si configura quale effetto immediato ed ineludibile del rapporto di filiazione, che prescinde dalla tito¬larità della potestà genitoriale e si radica nell’affermazione di responsabilità per il solo fatto della procreazione.
E’ stata una successiva sentenza ad affrontare per la prima volta ex professo il tema del risarci¬mento del danno (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652). Un uomo si era rifiutato di rico¬noscere il figlio nonostante numerose richieste dell’altro genitore. All’esito della causa di accerta¬mento giudiziale della paternità azionata dal figlio quarantenne, il Tribunale di Catania dichiarava la paternità e condannava l’uomo al risarcimento dei danni cagionati al figlio dal mancato tempe¬stivo riconoscimento. La Corte d’Appello confermava la decisione. Il figlio e il padre ricorrevano entrambi per Cassazione sostenendo il figlio che il risarcimento era stato del tutto inadeguato e chiedendo il padre l’annullamento della sentenza perché erroneamente aveva accolto la domanda di risarcimento.
La sentenza merita di essere valutata con molta attenzione. Vi si legge quanto segue con riferi¬mento al ricorso del padre: “Viene in primo luogo in considerazione la tesi secondo cui il ricono¬scimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda, costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione”. A questo primo motivo la Corte risponde forzando l’interpretazione dei precedenti giurisprudenziali (che, come si è visto, avevano condizionato l’at¬tribuzione delle responsabilità genitoriali di mantenimento all’accertamento sia pur tardivo della filiazione) e così motivando “tale assunto è all’evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la procre¬azione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass., 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass., 3 novembre 2006. n. 23596), atteso che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e quindi, ai sensi dell’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ricollegando¬si tale obbligazione allo status genitoriale e assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva”. Conclude la decisione nel senso che “la sussistenza di tale obbligo, raccordata alla consapevo¬lezza del concepimento, come sopra evidenziata, esclude la fondatezza della tesi secondo cui la responsabilità del D. dovrebbe escludersi in assenza di specifiche richieste provenienti dalla S. o dal figlio… L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momen¬to della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328). Deve ribadirsi come la violazione di obbli¬ghi cui corrispondono, nel destinatario, diritti primari della persona, costituzionalmente garantiti, comporta la sussistenza di un illecito civile certamente riconducibile nelle previsioni dell’art. 2043 c.c. e seguenti”.
Quindi la sentenza della Corte di Cassazione n. 5652/2012 sostiene che l’illecito fonte di obbli¬gazione risarcitoria è la violazione del dovere di mantenimento.
Una successiva decisione ha riaffermato lo stesso principio all’interno di una ricostruzione molto assertiva. Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 secondo la quale “l’obbli¬go dei genitori di educare e mantenere i figli è eziologicamente connesso esclusivamente alla pro¬creazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinando¬si un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presuppo¬sto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consapevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento”.
Quindi, come ha poi ben sintetizzato il tribunale di Roma (Trib. Roma Sez. I, 7 marzo 2014) l’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) è connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così deter¬minandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fonda¬mento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Nello stesso senso Trib. Prato, 27 luglio 2017 secondo cui il riconoscimento non è elemento co¬stitutivo o condizione di efficacia dello status di figlio che sorge con la nascita ma condiziona esclu¬sivamente il concreto esercizio, e riconoscimento esterno, della responsabilità genitoriale di cui sono titolari i genitori. Addirittura secondo Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016, con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre di una minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, sussiste la responsabilità della madre per il danno da privazione del rapporto genitoriale.
In conclusione, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza più recente, non riconoscere un figlio fuori dal matrimonio consapevolmente procreato costituirebbe illecito fonte di risarcimento, con la conseguenza che l’inizio della responsabilità genitoriale dovrebbe considerarsi anticipata alla procreazione consapevole.
L’art. 30 della Costituzione viene quindi interpretato nel senso che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio” ancorché non li abbiamo riconosciuti ed a condizione che abbiano consapevolezza di averli procreati.

V Quando termina la “responsabilità genitoriale”?
Il codice civile, come si è detto, non ha mai fornito una nozione di “potestà” ed ora – dopo la ri¬forma sulla filiazione del 2013 – non fornisce neanche la nozione di “responsabilità genitoriale” che nella relazione illustrativa delle norme di attuazione viene indicata come “situazione giuridica com¬plessa idonea a riassumere i doveri, gli obblighi e i diritti derivanti per il genitore dalla filiazione”.
Nell’elaborazione tradizionale della manualistica si sono sempre differenziati un aspetto interno della potestà (costituito dalle modalità con cui essa è esercitata dai genitori nell’interesse dei fi¬gli) e un aspetto esterno (costituito dal tradizionale potere di rappresentanza del quale si occupa specificamente l’art. 320 c.c.) ed è da ritenere che questa differenziazione non sia venuta meno, pur ribadendosi che l’aspetto interno ha trovato nella riforma del 2013 per il caso di filiazione fuori del matrimonio la significativa novità della cogestione del suo esercizio anche in caso di non con¬vivenza dei genitori.
Possiamo dare quindi per acquisito che l’espressione responsabilità genitoriale può considerarsi in sé espressiva di una concezione socio-culturale che si vorrebbe più nuova e moderna delle funzioni genitoriali ma che – pur avendo acquistato quella connotazione giuridica nuova che è l’esercizio sempre congiunto della potestà anche in caso di filiazione fuori dal matrimonio – non esprime una dilatazione giuridicamente diversa da quella che aveva già assunto la nozione tradi¬zionale di “potestà”.
Nell’approfondire meglio questa conclusione si tratta di verificare in che modo la nuova concezione culturale richiamata dall’espressione “responsabilità genitoriale” coincide anche con la presa d’atto da parte del legislatore di una più articolata dilatazione temporale delle funzioni genitoriali che già la “potestà” era andata assumendo nell’applicazione quotidiana nel corso del tempo.
Potrebbe essere, innanzitutto, un indizio significativo di una più articolata concezione giuridica del¬le funzioni genitoriali il fatto che, mentre il previgente art. 316 del codice civile prevedeva testual¬mente che “il figlio è soggetto alla potestà dei genitori fino all’età maggiore”, questa specificazione non è più riprodotta nel nuovo testo dell’art. 316 c.c. (come modificato dall’art. 39 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154). Si tratta di una svista oppure il legislatore ha sentito il bisogno di dare più visibilità alla circostanza che da tempo le funzioni genitoriali hanno una portata più ampia di quelle che si consumano nell’arco della minore età?
Il concetto di potestà, ancora fortemente legato all’esercizio di funzioni tese alla soddisfazione delle necessità e dei diritti dei soggetti minori di età, meritava effettivamente di essere specifica¬to nella sua attuale maggiore elasticità. Se è vero, infatti, che il compimento della maggiore età segna il momento oltre il quale le funzioni tradizionali di rappresentanza esercitate dai genitori non hanno più possibilità giuridica di sopravvivere, è anche vero che oggi più che mai le esigenze di cura, di educazione, assistenza e mantenimento si prolungano di gran lunga oltre il compi¬mento della maggiore età, segnalando quindi l’affermarsi di una nuova concezione della potestà/ responsabilità genitoriale che non termina al compimento del diciottesimo anno età del figlio ma si estende fino all’autosufficienza del figlio.
Anche nella più recente giurisprudenza è pacifica l’affermazione che “l’obbligo dei genitori di con¬correre tra loro al mantenimento dei figli non cessa, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il figlio non abbia raggiunto l’indipendenza economica” (Cass. civ. Sez. I, 3 settembre 2013, n. 20137; Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2013, n. 17089; Cass. civ. Sez. VI, 15 febbraio 2012, n. 2171; Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 2011, n. 14123; nella giurisprudenza di merito recentemente Trib. Genova Sez. IV, 26 giugno 2013¸ App. Roma, 3 febbraio 2012; App. Roma, 7 settembre 2011).
Ed anzi, mentre il prolungamento di funzioni connesse alla potestà oltre il compimento del diciot¬tesimo anno di età del figlio era considerato in passato certamente eccezionale, oggi la riforma del 2013 intende segnalare se non il contrario certamente il fatto che la responsabilità genitoriale si prolunga nella maggiore età del figlio molto più di quanto non avvenisse in passato.
La presa d’atto anche del legislatore circa il prolungamento delle funzioni connesse alla potestà/ responsabilità – paradossalmente nell’area della crisi della vita familiare – è avvenuta con la legge sull’affidamento condiviso dei figli (legge 8 febbraio 2006, n. 54) che riservava ai figli maggioren¬ni nell’ambito delle procedure di separazione (e divorzio ex art. 4, secondo comma, della legge 54/2006) un intero nuovo articolo (art. 155-quinquies, appunto rubricato “Disposizioni in favore dei figli maggiorenni”) nel quale si attribuiva per la prima volta ex lege ai “figli maggiorenni non indipendenti economicamente” un diritto alla titolarità di un assegno periodico di mantenimento. La disposizione in questione non è stata toccata dalla riforma sulla filiazione di cui alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 se non per la collocazione sistematica, avendo il decreto di attuazione (decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) accorpato le disposizioni sull’esercizio della re¬sponsabilità genitoriale in caso di scissione della coppia genitoriale in un capo a sé inserendo le disposizioni in favore dei figli maggiorenni nel nuovo articolo 337-septies del codice civile.
La riforma di cui alla legge 219/2012 è stata però di maggiore ampiezza rispetto ad un semplice riordino sistematico. Essa ha inteso dare alla problematica dei diritti dei figli (minorenni e maggio¬renni) una dimensione più ampia e più generale, non limitandosi alla fase della crisi genitoriale. Ha rimodellato la lacunosa disciplina precedente accorpando in una norma a contenuto generale (art. 315-bis c.c.) l’indicazione dei “diritti e doveri del figlio” con una formulazione simmetrica a quella utilizzata dall’art. 30 Cost. per indicare i doveri e diritti dei genitori, precisando che “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori…”. Il figlio, a sua volta, “deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito al mantenimento della famiglia finché convive con essa” art. 315-bis ultimo comma c.c.). Disposizione quest’ultima, che già preesisteva alla riforma ma che nel contesto della riforma della filiazione acquista ora una dimensione più peculiare.
Lo statuto dei diritti e dei doveri dei figli si completa nel codice civile con la descrizione delle carat¬teristiche dell’obbligazione di mantenimento a carico dei genitori. Il nuovo art. 316-bis (richiamato oggi all’art. 148 c.c.) ribadisce che l’obbligazione deve essere assolta dai genitori “in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo” e che gli ascendenti sono tenuti, in caso di impossibilità dei genitori, ad assicurare a questi ultimi i mezzi per far fronte all’obbligazione di mantenimento. Disposizioni queste già collaudate perché da sem¬pre applicate quotidianamente nei tribunali.
Tutte le norme sopra richiamate costituiscono oggi la fonte legislativa delle obbligazioni di mante¬nimento nei confronti dei figli maggiorenni, rendendo quasi superfluo il riferimento a quella giuri¬sprudenza che da molto prima della riforma sull’affidamento condiviso e sulla filiazione (allorché dei figli maggiorenni non vi era traccia nella legislazione) avevano affermato, anticipandoli, gli stessi principi (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2006, n. 8221; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975; Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719; Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2002, n. 4765; Cass. civ. Sez. I, 16 febbraio 2001, n. 2289). ; La legislazione è quindi oggi in piena sintonia con il principio di fondo che la giurisprudenza ha sempre sostenuto e cioè che il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il conseguimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma per¬dura sino a quando i medesimi non abbiano raggiunto un’indipendenza economica, ovvero abbiano concorso colpevolmente alla determinazione della propria non autosufficienza economica.
Al figlio maggiorenne portatore di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni pre¬viste in favore dei figli minori (art. 337-septies c.c. già art. 155-quinquies, secondo comma, c.c. che subordinava il diritto ai soli casi di inclusione dell’handicap grave nelle qualificazioni della legge 104/1992) come ha avuto modo anche di chiarire la giurisprudenza che ha precisato che trovano applicazione, in tal caso, le disposizioni previste in favore dei figli minori, quali quelle in tema di cura e di mantenimento da parte dei genitori non conviventi, di assegnazione della casa coniugale, ma non anche quelle sull’affidamento, condiviso od esclusivo (Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12977).
Il prolungamento della responsabilità genitoriale oltre la maggiore età – anche per le funzioni non legate strettamente al mantenimento – è anche il segnale che proviene, come si è detto, dal nuovo testo dell’art. 315-bis del codice civile che abbandona il concetto desueto e un po’ ottocentesco di “prole” cui faceva riferimento l’abrogato art. 147 c.c. per abbracciare una concezione della filiazio¬ne più attuale riferendosi al diritto del figlio (minorenne o maggiorenne che sia) “di essere mante¬nuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori”. Che si tratti di diritti che il figlio ha in quanto tale e non in quanto minore di età è assolutamente reso evidente da quella giurisprudenza che sempre più spesso ha sottolineato il diritto del figlio anche maggiorenne e fino all’autosuffi¬cienza economica di essere adeguatamente mantenuto secondo i criteri indicati nell’art. 337-ter (già 155) del codice civile. Per convincersi che questo prolungamento dei doveri genitoriali è molto ampio basti fare riferimento all’obbligo di pagamento posto pacificamente a carico dei genitori se¬parati delle spese straordinarie per i figli, non solo minorenni ma anche maggiorenni, che in modo immediato danno l’idea di spese non riferibili alla sola componente alimentare in senso tradizionale ma che sono poste a garanzia della soddisfazione di esigenze (di cura, di salute, di educazione, di studio) destinate a permanere anche per molti anni dopo il compimento della maggiore età. Chi potrebbe dubitare di questo nel secolo attuale della adolescenza prolungata?
In questo contesto assume anche una rilevanza nuova la riaffermazione che “il figlio deve rispetta¬re i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa” (ultimo comma dell’art. 315-bis che riproduce testualmente il previgente art. 315 c.c.).
La stessa relazione illustrativa alle norme di attuazione non dubita che – salvo nei casi in cui il legislatore ha ritenuto di dover inserire la precisazione sulla durata fino alla maggiore età (per esempio negli articoli 318, 320, 324 c.c.) la responsabilità genitoriale “vincola i genitori ben oltre il raggiungimento della maggiore età, fino al raggiungimento dell’indipendenza economica”.
L’espressione “responsabilità genitoriale” richiama quindi un arco temporale di vita del figlio che supera quello tradizionale della minore età. Già la potestà, come si è detto, aveva certamente assunto negli ultimi decenni una portata e una dimensione temporale più ampia di quella passata ma ora la nuova espressione “responsabilità genitoriale” – con le norme che la definiscono e la disciplinano – rende più chiaramente visibile ed evidente questo aspetto.
Naturalmente così come la potestà / responsabilità supera i confini della minore età, potrebbe an¬che verificarsi che la stessa responsabilità venga a cessare prima del compimento della maggiore età, per il verificarsi di circostanze che la legge prevede come cause di cessazione o di riduzione del¬le stesse funzioni genitoriali, quali la morte del genitore o del figlio, la decadenza (che lascia intatto il dovere di mantenimento), la dichiarazione di adottabilità, il veni meno dello status di filiazione.

VI Il contrasto tra genitori in ordine all’esercizio della “responsabilità genitoriale”
Il sistema normativo vigente conosce tre tipologie di contrasti sull’esercizio della potestà/respon¬sabilità tutti risolvibili dal tribunale ordinario (nuovo art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo di attuazione 28 dicembre 2013, n. 154).
1) La prima tipologia è il contrasto che può verificarsi tra genitori (coniugati o non coniugati) che convivono tra di loro e con il figlio. La regola dell’accordo è contenuta nell’art. 316 c.c. che prescrive l’esercizio della responsabilità genitoriale “di comune accordo” in applicazione, in fondo, di quella regola primaria che, quanto meno per le coppie coniugate, è indicata nel fondamentale articolo 144 c.c. (“i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare”). Ai contrasti nel corso della vita familiare fa riferimento il secondo comma dell’art. 316 c.c. che prevede un sistema di soluzione già conosciuto nell’assetto previgente. “In caso di contrasto su questioni di particolare importanza cia¬scuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore se capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio”. In verità difficilmente i genitori ricorrono al giudice nel contesto della vita di coppia; i con¬trasti vengono risolti nella negoziazione quotidiana e quando assumono forme molto gravi portano in genere alla separazione. Proprio per questo il meccanismo giudiziario indicato – che prima della riforma sulla filiazione del 2012/2013 era di competenza del tribunale per i minorenni – non ha quasi mai trovato applicazione nella prassi. Il giudice in ogni caso non ha potere di decisione nel contrasto ma solo il potere di attribuire la decisione al genitore che ritiene più idoneo a risolvere il contrasto.
In ordine a questo tipo di contrasti non è inopportuno ricordare ciò che ha affermato Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2000, n. 14360 che ha ribadito quanto la legge (anche il nuovo testo oggi dell’art. 316 c,c.) precisa in modo molto chiaro e cioè che “in tema di soluzione dei contrasti tra i genitori per questioni di particolare importanza, l’articolo 316 del codice civile prevede che ciascu¬no di essi può ricorrere al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei” e che questa disposizione “trova applicazione per le ipotesi di famiglia unita mentre i provvedimenti di cui all’ar¬ticolo 155, comma 3 [oggi 337-bis ss c.c.] si collocano invece durante lo stato di separazione tra i coniugi e rientrano nella disciplina di questa”.
2) La seconda tipologia di contrasto sulla responsabilità genitoriale è prevista nell’art. 709-ter c.p.c. che si occupa della “soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni” – accomunando quindi contrasti e inadempimenti – ed è ipotizzabile nel contesto della vita separata della coppia genitoriale (coniugata o non coniugata). La norma venne inserita nell’ordinamento nel 2006 con la riforma sull’affidamento condiviso (specificamente dall’art. 2, secondo comma, della legge 14 febbraio 2006, n. 54) il cui articolo 3, secondo comma, espres¬samente ne indicava l’applicazione “anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati” tutti procedimenti oggi di competenza del tribunale ordinario. Come afferma l’art. 709-ter c.p.c. “per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità ge¬nitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso” al¬trimenti – e cioè quando il procedimento non è più in corso – “è competente il tribunale del luogo di residenza del minore”. A seguito del ricorso il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni potendo anche modificare i provvedimenti vigenti ove lo ritenga necessario in relazione al contrasto emerso o per la sua soluzione.
L’art. 709-ter c.p.c. rende non soltanto desueto ma anche inutilizzabile l’art. 337 c.c. sopravvis¬suto alla riforma sulla filiazione del 2012/2013. La disposizione è molto nota perché fino al 2006 (cioè fino all’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c.) era l’unica utilizzata per risolvere i contrasti sull’affidamento: “Il giudice tutelare – prevede la norma – deve vigilare sull’osservanza delle con¬dizioni che il tribunale abbia stabilito per l’esercizio della potestà e per l’amministrazione dei beni”.
Dopo il passaggio delle funzioni compositive dei contrasti al giudice del merito della causa o al tribunale in camera di consiglio, non vi è più spazio per l’utilizzazione di questa norma.
3) La terza tipologia di contrasti sulla responsabilità genitoriale è quella cui fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 316 del codice civile il quale prevede espressamente che “il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio”. Il contrasto può verificarsi nel caso in cui uno dei genitori sia stato escluso dall’affidamento e dall’eser¬cizio della potestà/responsabilità (ultima parte dell’art. 337-quater c.c. dove si prevede che il genitore escluso dall’affidamento dei figli “può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte de¬cisioni pregiudizievoli ai loro interessi”). Ancorché il genitore in questione non sia affidatario dei figli il testo della legge gli riconosce (sebbene si discuta della plausibilità di questo riconoscimento) il potere di adottare insieme all’altro genitore le decisioni di maggiore interesse e quindi di rivolgersi anche al giudice. Si tratta quindi di un contrasto tra due genitori dei quali uno soltanto esercita la responsabilità genitoriale. La soluzione di questo tipo di contrasti è affidata ex art. 709-ter o 710 c.p.c. al giudice della causa o al tribunale.
Una modalità per intervenire nel contrasto è quella della nomina del coordinatore genitoriale, cui fan¬no riferimento alcuni tribunali (Trib. Milano Sez. IX, 29 luglio 2016 che, al fine di assistere i geni¬tori nelle situazioni familiari altamente conflittuali che si possono ripercuotere negativamente sui figli, ritiene opportuna la nomjna di un “coordinatore genitoriale”, figura di matrice americana che si sta diffondendo anche in altri paesi, al quale affidare il compito di aiutare la risoluzione delle controversie familiari, in via stragiudiziale, vale a dire senza adire l’autorità giudiziaria. Al coordinatore genitoriale viene demandato il compito di facilitare la risoluzione delle dispute tra genitori altamente conflittuali e prevenire il ricorso a ulteriori iniziative giudiziali in punto di responsabilità genitoriale. Il coordinatore genitoriale – a differenza del curatore speciale – non ha poteri processuali, poiché il suo obiettivo è risolvere i conflitti al di fuori del processo (e prima ancora ridurre al massimo i conflitti stessi).
Sempre al tribunale di Milano si deve l’invito agli avvocati ad assumere una funzione (sociale) di protezione verso il minore nelle controversie in cui assistono i genitori (Trib. Milano Sez. IX, 23 marzo 2016).

RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Giurisprudenza
Trib. Lecce, Sez. II, 29 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3 c.c. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione “de residuo”, solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale ex art. 177, comma 1, lett. a) c.c., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, comma 1 c.c., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali, indipenden¬temente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Trib. Torre Annunziata Sez. I, 8 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi sono inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si possono proporre solo al momento della divisione dei beni comuni che coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia.
App. Taranto 16 gennaio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, la norma di cui all’art. 192, comma 3° c.c., attribu¬isce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegare in spese ed investimenti del patrimonio comune e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale, rispetto ai quali si applica il principio inderogabile secondo cui, in sede di divisione, l’attivo ed il passivo sono ripartiti in parti uguali indipendentemente dalla misura di partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi ne¬cessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
App. Palermo Sez. II, 18 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, in seguito alla pronuncia della separazione persona¬le, la domanda giudiziaria di divisione dei beni non può essere introdotta prima del passaggio in giudicato della pronuncia di separazione. I rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni si effettuano solo al momento dello scioglimento della comunione in funzione della divisione dei beni comuni, momento che, in caso di separazione tra coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della rela¬tiva pronuncia. I presupposti della comunione non cessano di configurarsi solo perché uno dei due coniugi abbia eventualmente distolto a fini del tutto personali i beni oggetto della stessa, convertendosi, in tal caso, il conte¬nuto delle pretese dell’altro coniuge, in quello relativo ai rimborsi ed alle restituzioni, a norma dell’art. 192 c.c.
Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21751(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accertamento dell’eventuale destinazione dei beni già in comunione legale al soddisfacimento delle obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia non condiziona in alcun modo la legittimazione dei coniugi a promuovere la divisione dei beni comuni, a seguito del verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione. Esso, infat¬ti, non incide né sulla titolarità né sulla disponibilità dei beni da dividere, in quanto, ferma restando la distinzione operata dagli artt. 186 e ss. cod. civ. tra le obbligazioni contratte per un interesse comune e quelle facenti capo ad interessi particolari dei coniugi, con la connessa sussidiarietà della responsabilità rispettivamente dei beni personali e comuni per ciascuna categoria di obbligazioni, la disciplina dei debiti gravanti sui beni in comunione non comporta l’assoggettamento degli stessi ad alcun vincolo di destinazione, ma si risolve in un regolamento dei rapporti reciproci tra i coniugi, inteso alla tutela di ciascuno di essi, che dà luogo, nel caso di prelievo di beni comuni per il soddisfacimento di obbligazioni contratte nell’interesse esclusivo, ad un credito per rimborsi e restituzioni, da far valere in sede di divisione, ai sensi dell’art. 192 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454 (Nuova Giur. Civ., 2013, 4, 340 nota di PALADINI)
Allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ai sensi dell’art. 192, terzo comma, cod. civ., devono es¬sere restituiti solo gli importi impiegati in spese ed investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l’acquisto di immobile che concorre a formare la comunione, trovando, in tale ipotesi, applicazione l’art. 194, comma primo, cod. civ., secondo il quale all’atto dello scioglimento l’attivo ed il passivo devono essere ripartiti in quote uguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi. (Rigetta, App. Roma, 18/09/2007)
Il denaro personale o i proventi dell’attività separata non possono essere restituiti se impiegati nell’acquisto di un bene caduto in comunione legale ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a), cod. civ.. Il diritto alla restituzione sorge invece, se i beni già facenti parte della comunione legale e, conseguentemente, del “patrimonio comune” (come indicato nell’art. 192, comma 3, cod. civ.) siano oggetto di spese o investimenti anche finalizzati all’in¬cremento del loro valore in epoca successiva all’acquisto, mediante lavori di ristrutturazione o miglioramenti.
Trib. Salerno, 14 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per il combinato disposto degli artt. 186, 191 e 192 c.c. i coniugi, che abbiano optato per il regime patrimoniale della comunione dei beni, non possono richiedere alcuna forma di restituzione o di rimborso, fino a quando è vigente il regime della comunione, salvo espressa autorizzazione del giudice in deroga, ma solo ove lo esiga l’interesse superiore della famiglia e dei figli in particolare.
Trib. Rovigo, 14 febbraio 2011(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 192, comma terzo, c.c., nella parte in cui attribuisce a ciascuno dei coniu-gi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale e impiegate per spese e investimenti a favore del patrimonio comune, escluse quelle adoperate per l’acquisto di singoli beni caduti in comunione, opera nei soli limiti dei beni personali ex art. 179 c.c., con esclusione dei beni destinati a cadere nella comunione de residuo. La disposizione di cui al citato comma terzo, inoltre, ha carattere residuale e si riferisce sostanzialmente al denaro personale pervenuto al coniuge per cause diverse anche dalla vendita di un bene personale. In tal senso non possono rilevare versamenti e/o pagamenti di provvista di cui non si offre prova della provenienza.
Trib. Salerno, Sez. I, 21 novembre 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 192 c.c. prevede che, una volta intervenuto lo scioglimento della comunione, i coniugi hanno diritto alla restituzione di quanto da essi versato per spese non riguardanti gli obblighi reciproci di contribuzione previsti dall’art. 143 c.c., ovvero gli obblighi gravanti sui beni della comunione, come quelli relativi il mantenimento della famiglia, l’istruzione e la educazione dei figli.
Trib. Monza, 11 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2008, n. 23391 (Famiglia e Diritto, 2009, 2, 133 nota di OBERTO)
Il credito a titolo di rimborso ex art. 192 c.c., comma 1, rappresenta un credito di valuta e non di valore (Nella specie, la Cassazione ha confermato la decisione d’appello che aveva escluso la rivalutazione del credito vantato da un coniuge alla metà del corrispettivo incassato per intero dall’altro, a seguito dell’alienazione, da parte di quest’ultimo, di un autoveicolo già formante parte della comunione legale, scioltasi a seguito di separazione personale).
App. Catania, 7 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3, c.c., attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, non già quello alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale di uno dei coniugi e conferiti alla comunione, atteso che, per effetto della trasformazio¬ne dei beni personali in beni comuni, detti beni restano immediatamente soggetti alla disciplina della comunione legale, e quindi al principio inderogabile di cui all’art. 194, comma 1, c.c., il quale impone che, in sede di divi¬sione, l’attivo e il passivo siano ripartiti in parti eguali, indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177, comma 1, lett. a) c.c., cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante.
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 (Giur. It., 2006, 5, 936 nota di GALATI)
In tema di scioglimento della comunione legale, l’art. 192 c.c., nel prevedere il diritto del coniuge alla restitu¬zione delle somme prelevate dal patrimonio personale impiegate per spese ed investimenti a favore dei beni del patrimonio comune, non attribuisce anche un diritto alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale del coniuge e conferiti alla comunione, né prevede il diritto al rimborso del denaro proprio, speso per l’acquisto di beni poi caduti in comunione. Conseguentemente, ai fini della norma, occorre distinguere tra spese effettuate con denaro proprio per migliorie ed addizioni delle cose comuni, da quelle effettuate con denaro della comunione.
Le spese e gli investimenti del patrimonio comune, rimborsabili a ciascun coniuge se effettuate con somme prelevate dal patrimonio personale, riguardano solamente gli esborsi effettuati per la gestione, la manutenzione e il miglioramento dei beni comuni, e non quelli per l’acquisto dei medesimi beni (categoria nella quale vanno ricomprese anche le spese notarili e fiscali resesi necessarie per l’acquisto)
Le somme percepite a titolo di proventi dell’attività separata (destinate alla comunione “de residuo” se non consumate al momento dello scioglimento della comunione) non costituiscono somme prelevate dal patrimonio personale.
Il credito alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, spettante al coniuge ai sensi dell’art. 192, comma 3, c.c. all’esito dello scioglimento della comunione legale, è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.) e, determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, esso produce interessi ex art. 1282 c.c., salvo il diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore di quello dai medesimi coperto (art. 1224 c.c.).
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 (Famiglia e Diritto, 2005, 3, 237 nota di CARBONE)
Il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista “ipso iure” al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177 c.c., primo comma, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matri¬monio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non proprietario che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese.
Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564 (Giur. It., 2006, 2, 275 nota di SORRENTINO)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra i coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione e, quindi, con il vincolo di destinazione delle somme relative al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli.
Trib. Taranto 9 maggio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme di cui si può chiedere la restituzione ai sensi dell’art. 192 c.c. devono essere riconducibili alla fattispe¬cie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Trib. Milano 25 maggio 1998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di rimborso delle anticipazioni effettuate in favore della comunione presuppone la prova della consa¬pevolezza dell’altro coniuge del fatto che si trattasse di mere anticipazioni e non di donazioni indirette in favore dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 1992, n. 3141 (Giust. Civ., 1992, I, 1731 nota di FINOCCHIARO)
Nel regime di comunione legale, la costruzione realizzata in costanza di matrimonio su suolo di proprietà perso¬nale di uno dei coniugi, appartiene esclusivamente a questo, a titolo originario, in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e, pertanto, non costituisce oggetto della comunione medesima, ai sensi dell’art. 177, 1° comma, lett. a) c. c., che prevede il diverso caso di un acquisto a titolo derivativo da parte di un coniuge; peraltro, quando per la detta costruzione sia stato impiegato danaro comune, il coniuge che si è giovato dell’ac¬cessione è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune ed utilizzate per l’edificazione a norma dell’art. 192, 1° comma, c. c., mentre, nel caso in cui nella costruzione sia stato impiegato danaro appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, quest’ultimo ha diritto di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 c. c.
Trib. Catania, 21 aprile 1987 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme di cui si può chiedere la restituzione ai sensi dell’art. 192 c.c. devono essere riconducibili alla fattispe¬cie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Trib. Bergamo, 18 marzo 1983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché, in sede di divisione dei beni-oggetto di comunione legale tra i coniugi, i beni devono, inderogabilmente, dividersi in parti uguali, un coniuge può pretendere, dall’altro, la restituzione delle somme che assume prelevate dal patrimonio personale e impiegate in spese ed investimenti per la comunione solo ove dimostri che esisteva un accordo, quantomeno tacito, tra le parti, e che trattavasi di un investimento a favore della comunione e non di donazioni, indirette, all’altro.

Nel giudizio di separazione vale ancora il parametro del tenore di vita

Cass. civ. Sez. VI – 1, 11 settembre 2017, n. 21082
ORDINANZA
sul ricorso 5075-2015 proposto da:
M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIEPOLO 21, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO DE BELVIS, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITTORIA CUOCO;
– ricorrente –
contro
MA.GR., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARTIRI DE LA STORTA 39, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA GIGLIO, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO BACCARI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6412/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/10/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/05/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza resa in data 16-07-29-09/2010 il Tribunale di Roma, pronunciando sul ricorso per la separazione personale dei coniugi proposto da Ma.Gr. nei confronti di M.S., avendo già dichiarato con sentenza non definitiva la separazione, ha respinto le domande di addebito; ha determinato il contributo per il mantenimento della sig.ra Ma. in Euro 2500 mensili a decorrere dal mese successivo alla pubblicazione della sentenza, fermo quanto previsto per il passato (Euro 3500) con l’ordinanza presidenziale del 09/05/2007; ha revocato l’assegnazione della casa coniugale al marito; ha dichiarato inammissibili le domande restitutorie e risarcitorie.
La Corte d’appello di Roma, investita dell’impugnazione proposta dalla Ma., con sentenza n. 6412/2014 ha accolto parzialmente il gravame, respingendo la domanda di addebito proposta dalla medesima e rideterminando l’assegno di mantenimento posto a carico del M. nella misura di Euro 3500 anche per il periodo successivo alla pubblicazione della sentenza di primo grado. La Corte territoriale, esaminata la complessiva situazione reddituale e patrimoniale delle parti, ha rilevato, per quel che ancora interessa, che la notevole sproporzione esistente tra le rispettive condizioni economiche non consentiva alla Ma. il mantenimento del medesimo tenore di vita reso possibile durante il coniugio grazie all’attività lavorativa del M., il quale gode di una notevole disponibilità finanziaria grazie alle rilevanti entrate e alle proprietà immobiliari.
Avverso suddetta pronuncia propone ricorso per cassazione M.S. sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso Ma.Gr..
Con il primo motivo viene lamentata la violazione, ai sensidell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5,dell’art. 116 c.p.c., quanto alla valutazione degli atti delle parti, dei documenti e degli accertamenti relativi alla ricostruzione delle complessive condizioni economiche degli ex coniugi.
Con il secondo motivo viene lamentata la violazione, in relazioneall’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5,dell’art. 156 c.c., in quanto la Ma. non ha mai provato che i propri mezzi economici fossero inidonei a mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio. La Corte d’appello non ha peraltro valutato la circostanza che la Ma. ha capacità di produrre reddito, trovandosi nella condizione di poter svolgere un’attività lavorativa retribuita.
Le parti non hanno depositato memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.
Il primo e secondo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono inammissibili, dal momento che gli accertamenti di fatto posti a base della decisione impugnata sono censurati attraverso pure e semplici censure di merito, senza individuare fatti decisivi, oggetto di discussione tra le parti, il cui esame sarebbe stato omesso dai giudici d’appello ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5. Va osservato, invero, che il controllo di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5, non riguarda la motivazione della sentenza ma concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico che abbia costituito oggetto di discussione ed abbia carattere decisivo, nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Ne deriva che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla predetta norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass. n. 24027/2016), risultando, d’altra parte, del tutto estranea all’ambito del vizi () di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 2142/2017).
Nella specie risulta che la Corte d’appello ha motivato in maniera ampia, dettagliata e completa circa la condizione reddituale e patrimoniale delle parti sulla base di molteplici elementi istruttori, concludendo che, considerate le entrate personali della Ma., ella non è in grado di mantenere il tenore di vita goduto durante il coniugio. Invero, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, al fine della determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede necessariamente l’accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi (Cass. n. 25618 del 07/12/2007, Rv. 600714 – 01).
Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4000 per compensi e in Euro 100 per esborsi, oltre accessori di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

La scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni non “annotata” vale solamente tra i coniugi

Cass. civ. Sez. I, 27 settembre 2017, n. 22594
SENTENZA
sul ricorso 16418/2015 proposto da:
D.M.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuliani Lorenzo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
R.F., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Di Liberatore Luigi, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 505/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 09/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2017 dal cons. DOGLIOTTI MASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale FEDERICO Sorrentino, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Giuliani Lorenzo che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato Di Liberatore Luigi che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato, R.F. conveniva in giudizio D.M.M., ex coniuge, perché si dichiarasse che era simulato un atto pubblico di compravendita, nella parte in cui si indicava, quale acquirente di immobile (rogito notaio C., (OMISSIS)), la D.M.; che il prezzo di acquisto era stato pagato da esso R. con i proventi della propria attività imprenditoriale; che l’immobile era di sua proprietà esclusiva; in via subordinata, chiedeva che questo fosse dichiarato di proprietà di entrambi i coniugi, in quanto parte della comunione de residuo al momento della separazione personale tra essi. Affermava l’attore che la D.M. aveva precisato al notaio rogante di trovarsi in regime di comunione legale.
Costituitosi il contradditorio, la D.M. eccepiva che l’acquisto dell’immobile era stato effettuato in regime di separazione dei beni e con proprie disponibilità economiche (in particolare la provvista era stata a lei trasmessa dalla madre, a seguito della vendita di un suo appartamento); evidenziava altresì che i coniugi in data 14/01/2002 (dopo la loro separazione personale) avevano sottoscritto una dichiarazione d’impegno, con la quale chiarivano di trovarsi in regime di separazione dei beni e di non avere in proprietà comune alcun immobile.
Il Tribunale di Teramo-sezione distaccata di Atri, con sentenza in data 15/05/2008, rigettava la domanda del R., ritenendo comprovato che l’acquisto dell’immobile era stato effettuato con denaro della D.M. e in regime di separazione dei beni tra i coniugi.
Proponeva appello il R.. Costituitosi il contraddittorio, l’appellata ne chiedeva il rigetto.
La Corte d’Appello de l’Aquila, con sentenza in data 09/04/2015, accoglieva l’appello ed affermava che l’immobile era stato acquistato in regime di comunione legale dei beni, precisando che i coniugi avevano bensì dichiarato in forma scritta davanti al ministro del culto cattolico che aveva celebrato il matrimonio concordatario, la loro scelta del regime di separazione dei beni, ma la relativa annotazione non compariva nella copia dell’atto di matrimonio inviato all’ufficiale dello stato civile per la trascrizione.
Ricorre per cassazione l’appellata.
Resiste con controricorso l’appellante.
Motivi della decisione
Va preliminarmente osservato che il ricorso appare ammissibile: sono chiaramente indicati le violazioni di legge e i vizi di motivazione (e non rileva che nel medesimo motivo, ci si riferisca ad entrambi i profili); le violazioni di legge sono trattate adeguatamente.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta violazione degliartt. 162 e 163 c.c., e dellaL. n. 121 del 1985,art. 8; insufficiente e contraddittoria motivazione, precisando che al matrimonio concordatario sono riconosciuti effetti civili al momento della celebrazione, nonostante trascrizione tardiva, e che tale principio opera anche con riferimento all’eventuale dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni, per cui l’istanza del R. in data 21/11/2001 di effettuare l’annotazione di scelta del regime di separazione dei beni a margine dell’atto di matrimonio, ha attribuito alla dichiarazione stessa efficacia retroattiva fino alla celebrazione del matrimonio stesso. Nessuna rilevanza si doveva attribuire alla dichiarazione della D.M. di trovarsi in regime di comunione dei beni, davanti al notaio rogante.
Con il secondo, violazionedell’art. 112 c.p.c., ravvisando una non corrispondenza tra richiesto e pronunciato, essendosi limitato l’odierno resistente, nel giudizio d’appello, a chiedere l’accoglimento della sua domanda di simulazione, e in subordine di dichiarazione della sussistenza del regime di comunione de residuo tra i coniugi.
Con il terzo, violazionedell’art. 2909 c.c., nonché omessa motivazione, eccependo l’esistenza di un giudicato interno, in quanto l’appellante non avrebbe impugnato l’affermazione del primo giudice circa la sussistenza del regime di separazione dei beni.
Pacifici i fatti di causa.
I coniugi celebrarono il matrimonio secondo il rito concordatario in data 20/07/1985 e dichiararono al ministro del culto cattolico officiante, alla presenza di due testimoni, la loro volontà di scegliere il regime di separazione dei beni. L’atto di matrimonio fu trasmesso all’ufficiale dello stato civile italiano e regolarmente trascritto, privo peraltro dell’annotazione relativa al regime. Questa fu apposta su richiesta del R. soltanto il 15/10/2001, dopo la separazione dei coniugi. In data 16/12/1993 era stato rogato atto di compravendita di terreno, ove era indicata come acquirente la D.M. che dichiarava di trovarsi in regime di comunione dei beni con il marito.
Afferma la ricorrente, richiamando laL. n. 121 del 1985,art. 8, a seguito della revisione del concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, con gli accordi di Villa Madama del 1984, che al matrimonio con il rito concordatario vengono riconosciuti effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l’ufficiale dello stato civile abbia effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto. L’argomentazione non ha pregio, in quanto non si controverte sulla trascrizione del matrimonio, regolarmente effettuata, ma sulla mancata annotazione della scelta di regime,a margine dell’atto trascritto.
L’art. 162 c.c., precisa che le convenzioni matrimoniali (necessariamente attinenti al regime patrimoniale dei coniugi) sono stipulate con atto pubblico sotto pena di nullità. E si tratterà, almeno di regola, di atto pubblico notarile (anche sel’art. 1382 c.c.1865, esplicitamente parlava di “contratti matrimoniali” – peraltro non del tutto coincidenti con le “convenzioni” – da stipularsi con atto pubblico davanti al notaio). Esse non potrebbero dunque stipularsi davanti all’ufficiale dello stato civile. Eccezioni al principio sono contenuti nellaL. n. 151 del 1975,art.228, (riforma del diritto di famiglia) per cui ciascun coniuge poteva escludere l’applicazione del nuovo regime legale di comunione dei beni, con dichiarazione entro il 20/09/1975 (termine poi variamente prorogato) davanti al notaio o all’ufficiale dello stato civile; nonchénell’art. 167 c.c., per cui il fondo patrimoniale può essere costituito da un terzo, anche per testamento (pur essendo necessario l’accettazione dei coniugi con atto pubblico). Eccezioni peraltro più apparenti che reali, perché si tratta di atti unilaterali che incidono sul regime patrimoniale dei coniugi.
Ma la regola dell’atto pubblico notarile soffre un’altra eccezione contenutanell’art. 162 c.c., comma 2, per cui la scelta del regime può essere dichiarata anche “nell’atto di matrimonio”: previsione dettata all’evidenza da ragioni di semplificazione (la scelta del regime di separazione dei beni, totalmente regolato dal codice civile, senza ulteriori clausole o specificazioni). All’entrata in vigore della norma, era stato espresso qualche dubbio circa la scelta, se questa dovesse comunque effettuarsi (anche per i matrimoni concordatari) davanti all’ufficiale dello stato civile ovvero pure davanti al ministro del culto cattolico officiante. Giurisprudenza di merito e dottrina risposero, in netta prevalenza, in senso positivo. E la stessaL. n. 121 del 1985, che recepisce, come si diceva, l’accordo di revisione del Concordato del 1929, precisa, all’art. 8, che nell’atto di matrimonio (canonico) potranno essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite dalla legge civile. Sussiste, anche al riguardo, una sorta di delega dello Stato italiano al sacerdote officiante che svolge il ruolo dell’ufficiale dello stato civile, e dunque una funzione pubblica.
In generale, le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, sia prima che dopo la celebrazione del matrimonio, e tuttavia non possono essere opposte a terzi, se non vi è annotazione, a margine dell’atto di matrimonio, della data, del notaio rogante, della generalità dei contraenti ovvero della scelta del regime (di separazione dei beni).
Chiarisce dunque la previsione (e al riguardo la giurisprudenza è ormai ampiamente consolidata: per tutte Cass. n. 8824 del 1987 e numerosa giurisprudenza successiva; v. pure Corte cost. n. 111 del 1995) che solo con l’annotazione il regime prescelto e dunque le convenzioni stipulate (anche atipiche) sono opponibili ai terzi, i quali vengono dunque a conoscenza delle convenzioni e del regime relativo attraverso l’annotazione dell’atto di matrimonio contenuto nei registri pubblici dello stato civile.
Ma non si potrebbe certo parlare di invalidità delle convenzioni o della scelta del regime nei rapporti interni tra i coniugi, ove l’atto di matrimonio, come nella specie, sia stato regolarmente trascritto, ma privo dell’annotazione del regime. Ciò varrà per le convenzioni matrimoniali, nonché per la scelta del regime (di separazione), effettuata davanti all’ufficiale dello stato civile (per il matrimonio civile) e con l’equiparazione della dichiarazione davanti al sacerdote, già affermata dalla giurisprudenza di merito e poi confermata da una prassi assai consolidata ma pure da un riscontro normativo chiaro ed esplicito già indicato (L. n. 121 del 1985,art. 8). Non sussiste ragione alcuna per escludere, nei rapporti interni tra le parti, la validità di una scelta comune, espressione della loro libera volontà.
E’ da ritenere dunque che la scelta di regime di separazione, espressa in forma scritta, alla presenza di due testimoni, davanti al ministro del culto cattolico officiante, ancorché non annotata nell’atto di matrimonio trascritto nei registri dello stato civile, nei rapporti interni tra i coniugi mantenga la sua validità.
Né si potrebbe sostenere che sia sufficiente una dichiarazione unilaterale di un coniuge davanti al notaio per effettuare una modifica di regime (che tale sarebbe da separazione a comunione di beni). La stessa giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2954 del 2003) ha chiarito che non può modificarsi il regime patrimoniale con atto unilaterale di un coniuge, e che non potrebbe escludersi un bene singolo dal regime prescelto, senza una modifica generale del regime stesso, nelle forme di cuiall’art. 162 c.c.Dunque nessuna rilevanza avrà la dichiarazione della D.M. davanti al notaio circa il regime di comunione, in occasione della compravendita de qua.
Va pertanto accolto, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Va cassato il provvedimento impugnato. Non dovendosi effettuare ulteriori accertamenti di fatto, può pronunciarsi nel merito, rigettando la domanda di R.F., e precisandosi che le parti si trovavano, quanto ai rapporti interni, in regime di separazione dei beni.
La complessità della questione e la sua relativa novità richiedono la compensazione delle spese per ogni grado di giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; decidendo nel merito, rigetta la domanda di R.F.; compensa tra le parti le spese per ogni grado di giudizio.

Le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre

Cass. civ., 9 agosto 2017, n. 19746
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Z.M.G., elettivamente domiciliata in Roma, via Federico Cesi 72, presso lo studio dell’avv. Luigi Albisinni (fax n. 06/6961331, p.e.c.: luigialbisinni.ordineavvocatiroma.org) dal quale è rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso, unitamente all’avv. Michele Sesta (p.e.c.: michele.sesta.ordineavvocatibopec.it fax n. 051/2750131) con dichiarazione di voler ricevere le comunicazioni relative al processo ai nn. di fax e agli indirizzi di 2017 p.e.c. sopra indicati;
– ricorrente –
nei confronti di:
T.M., elettivamente domiciliato in Roma, via Crescenzio 25, presso lo studio dell’avv. Marco Bignardi (che indica il fax n. 06/6868769, e la p.e.c. marcobignardi.ordineavvocatiroma.org) dal quale, con l’avv. Mauro Pacilio (che indica il fax n. 051/6447122, e la p.e.c. mauropacilio.ordineavvocatibopec.it), è rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine della copia del ricorso notificata;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna, emessa il 24 maggio 2013 e depositata il 17 giugno 2013, n. R.G. 490/2012;
sentito il Pubblico Ministero in persona del sostituto procuratore generale dott. Zeno Immacolata che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso.
Svolgimento del processo
che:
1. Il Tribunale di Bologna, con decreto del 14/28 febbraio 2012, ha pronunciato come segue sul ricorso exart. 710 c.p.c.proposto da T.M. e sulle richieste proposte in via riconvenzionale da Z.M.G. per la modifica delle condizioni della separazione personale omologata dal Tribunale di Bologna in data 6 novembre 2006. Ha accolto la domanda di revoca dell’assegno di 1.800 Euro mensili a titolo di contributo al mantenimento del figlio Francesco in ragione della sua acquisita indipendenza economica, ha ridotto a 1.000 Euro mensili l’assegno imposto al T. a titolo di contributo al mantenimento del figlio A., ha confermato l’ammontare dell’assegno di 1.800 Euro mensili relativo al figlio minorenne F.. Ha incrementato l’assegno mensile in favore della Z. elevandolo da 1.600 Euro a 2.400 Euro in relazione all’incremento delle disponibilità economiche del T. conseguenti alla riduzione dell’onere contributivo a favore dei figli.
2. La Corte di appello di Bologna, con decreto del 24 maggio – 17 giugno 2013, ha respinto il reclamo principale proposto dalla Z. e ha accolto quello incidentale proposto dal T., relativamente alla domanda di incremento dell’assegno mensile di mantenimento in favore della Z.. La Corte di appello non ha condiviso sul punto la decisione del Tribunale che aveva accolto la domanda della Z. per effetto della riduzione del contributo di mantenimento in favore dei figli.
3. Ricorre per cassazione Z.M.G. affidandosi a quattro motivi di impugnazione.
4. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazionedell’art. 156 c.c., commi 1, 2 e u.c. in quanto la Corte di appello non ha tenuto conto degli incrementi di reddito del marito, derivanti non solo dal miglioramento della sua posizione economica ma anche dal raggiungimento (totale o parziale) dell’indipendenza economica dei figli maggiorenni che ha comportato l’incremento dei redditi disponibili del signor T. e, parallelamente, un depauperamento in capo alla ricorrente che traeva dalle somme corrisposte in favore dei figli anche le risorse necessarie alle ingenti spese di manutenzione e gestione della casa familiare di cui è assegnataria.
5. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, art. 155 c.c., comma 6 eart. 2697 c.c., nonchè degliartt. 61, 115, 116 e 191 c.p.c.per erroneo esercizio del potere discrezionale in ordine alla mancata disposizione delle indagini tributarie e della CTU sulla situazione patrimoniale del T. e sul miglioramento, successivo alla separazione, delle sue condizioni reddituali e patrimoniali.
6. Con il terzo motivo la ricorrente deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti e cioè il miglioramento delle condizioni economiche del T. dopo la separazione e l’incremento del reddito disponibile in conseguenza del raggiungimento della autosufficienza dei figli maggiori e per converso l’impoverimento della signora Z..
7. Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazionedell’art. 155 c.c.e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio: e cioè il mancato raggiungimento della condizione di indipendenza economica da parte di T.A. e la necessità dell’adeguamento del contributo al mantenimento dei due figli A. e F. ancora conviventi con la madre.
8. Si difende con controricorso T.M..
9. Le parti depositano memorie difensive.
Motivi della decisione
Che:
10. Il primo motivo è infondato. Presupposto per la modifica delle condizioni della separazione è il sopravvenire di circostanze nuove rispetto a quelle esistenti al momento della pronuncia o della omologa della separazione e in ordine alle quali sussiste a carico della parte ricorrente l’onere di dedurle e provarle (cfr. Cass. civ., sez. 1, n. 4905 del 20 maggio 1999 secondo cui, ai fini della modifica dell’assegno di mantenimento, stabilito o concordato in sede di separazione personale dei coniugi, si rende presupposto necessario la sopravvenienza di giustificati motivi la cui sussistenza deve essere provata dal coniuge che detta modifica richieda). La Corte di appello di Bologna ha riscontrato la generica deduzione di un miglioramento delle condizioni economiche dell’obbligato al versamento dell’assegno e l’assenza di qualsiasi prova sul punto. Quanto invece al dedotto miglioramento delle disponibilità economiche del T. derivante dalla riduzione quantitativa dell’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli connesso al raggiungimento della loro totale o parziale indipendenza economica la Corte di appello ha rilevato che “le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre”. Il rilievo della Corte di appello è corretto e deve essere condiviso affermando che, in tema di revisione delle condizioni economiche della separazione personale, e per il caso che uno dei coniugi sia obbligato a corrispondere assegni periodici per il mantenimento dell’altro coniuge e dei figli, qualora uno di questi ultimi beneficiari raggiunga l’indipendenza economica e sia accolta la domanda del genitore di revoca dell’assegno precedentemente destinato al suo mantenimento, il beneficio economico che ne trae il genitore esonerato non legittima di per sé l’accoglimento della contrapposta domanda di automatico aumento delle contribuzioni rimaste a suo carico. In particolare, per ciò che concerne l’assegno di mantenimento in favore del coniuge più debole economicamente, deve aversi riguardo alla circostanza per cui la misura dell’assegno, precedentemente stabilita o concordata, fosse o meno condizionata dal concorrente onere economico nei confronti dei figli e quindi se risultasse o meno sufficiente a integrare di per sé la previsione normativa che impone la corresponsione dell’assegno per il mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri. Circostanze che spetta a quest’ultimo dedurre e provare perchè altrimenti deve presumersi che la misura dell’assegno corrispondesse alla prescritta necessità di cuiall’art. 156 c.c.e non risultasse compressa dal concorrente onere di contribuire al mantenimento dei figli.
11. Diversa è l’ulteriore deduzione di parte ricorrente secondo cui la riduzione o l’eliminazione del contributo al mantenimento dei figli ha portato una incidenza negativa sul reddito della ricorrente in quanto è venuta meno una quota delle risorse economiche precedentemente destinate alla onerosa manutenzione della casa familiare. Sul punto il ricorso appare privo di autosufficienza perché non chiarisce se e quando tale profilo sia stato portato all’esame dei giudici di merito né chiarisce in che termini tale asserita ripercussione economica sia stata dedotta e documentata. Dalle stesse deduzioni della ricorrente si desume peraltro che “la casa familiare, di circa mq 500 (composta catastalmente da due unità immobiliari distinte e acquistate dai coniugi in tempi diversi, ancorché materialmente unite e interamente utilizzate dal nucleo familiare) era in comproprietà tra coniugi in costanza di matrimonio” mentre, “in sede di separazione, i sigg.ri Z. e T., mediante reciproca cessione all’altro del 50% di ciascuna particella, ne hanno attuato la divisione (al signor T. è stata assegnata l’unità acquistata nell’anno 1983; alla signora Z. quella comprata nel 1991). Nella medesima sede, inoltre, il signor T. si è fatto integralmente carico delle opere di materiale separazione delle due particelle, nel momento in cui sarebbero venuti meno i presupposti dell’assegnazione della casa familiare alla signora Z.”. L’onere di manutenzione della casa familiare è stato pertanto valutato, in sede di separazione consensuale, per un verso, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento della Z., e, per altro verso, nella previsione della progressiva cessazione della destinazione della parte di proprietà del T. alle esigenze abitative dei figli.
12. Il secondo motivo è inammissibile perché contesta la non ammissione della richiesta c.t.u., ritenuta di carattere meramente esplorativo sia dal Tribunale che dalla Corte di appello, e la mancata disposizione delle indagini tributarie senza fornire alcun elemento idoneo a conferire specificità alla prospettazione di circostanze sopravvenute rispetto alla separazione. In sostanza, sia il riferimento alle disposizioni normative di cui si deduce la violazione sia la illustrazione del motivo dimostrano che la ricorrente assume ab origine la inadeguatezza dell’assegno di mantenimento se rapportato alle reali condizioni economiche del T. e non come conseguenza dell’elevato contributo al mantenimento dei figli. Laddove tale giudizio è precluso dalla definizione delle condizioni della separazione, e specificamente dalla determinazione dell’ammontare dell’assegno di mantenimento, da parte degli stessi coniugi.
13. Il terzo motivo appare in parte ripetitivo rispetto al precedente anche se rubricato come omesso esame di fatti decisivi. In realtà il sopravvenire di un miglioramento delle condizioni economiche del T. doveva costituire l’oggetto dell’accertamento che la Corte di appello ha ritenuto di non poter effettuare in assenza di deduzioni e richieste istruttorie da parte della ricorrente dotate della necessaria specificità.
Per altro verso si è detto che la Corte di appello ha valutato la deduzione di una incidenza positiva della riduzione dell’obbligo di mantenimento dei figli sul reddito spendibile del T. escludendone la automatica rilevanza ai fini del giudizio exart. 710 c.p.c..
14. Infine il quarto motivo appare inammissibile in quanto consiste in censure alle valutazioni prettamente di merito che hanno condotto la Corte di appello a confermare sia la riduzione dell’assegno di mantenimento in favore del secondogenito A., sia la quantificazione dell’ammontare dell’assegno, 1.800 Euro mensili, stabilito in favore dell’ultimogenito. La Corte di appello è pervenuta a tale decisione ritenendo rilevante la decisione di T.A. di rinunciare al contratto di apprendistato che gli garantiva, nell’ambito di una società partecipata dal padre, una retribuzione mensile di 1.400 Euro, per tredici mensilità, decisione adottata al fine di intraprendere una diversa attività professionale in campo immobiliare. Quanto all’ultimogenito F. la Corte distrettuale ha constatato assenza di nuove e giustificative condizioni per l’incremento dell’assegno e per la forfetizzazione delle spese straordinarie cui il T. è interamente tenuto in forza della separazione consensuale rilevando che non è provato un comportamento inadempiente da parte del padre. Anche con riguardo alla posizione dei figli A. e F. non possono che ribadirsi le considerazioni sulla non automaticità del diritto a ottenere un aumento dell’assegno di mantenimento in considerazione del venir meno e della riduzione degli assegni di cui erano beneficiari gli altri fratelli. Si tratta di decisioni che non possono dirsi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità specificamente per ciò che riguarda il venir meno dell’obbligo di mantenimento a seguito non solo dell’acquisizione di uno status di indipendenza economica ma anche dell’idoneità, valutata in concreto, a ottenere una adeguata retribuzione sul mercato del lavoro in base alla formazione acquisita (cfr. fra le altre Cass. civ., sezione 1, n. 1858 del 1 febbraio 2016 secondo cui il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa non solo ove il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l’autosufficienza economica, ma pure quando il genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita). Nella specie la Corte di appello ha rilevato l’acquisizione di una tale retribuzione e di una tale capacità da parte di T.A. e in assenza di un’impugnazione incidentale da parte dell’odierno controricorrente non è entrata nel merito della decisione di primo grado che aveva verificato le condizioni per la riduzione e non per la revoca dell’assegno di mantenimento.
15. I1 ricorso va pertanto respinto con compensazione delle spese in relazione alla assenza di specifici precedenti di legittimità sulla questione dei riflessi automatici della riduzione dell’obbligo contributivo al mantenimento dei figli sull’obbligo di mantenimento del coniuge in seguito alla separazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Se costituita una nuova famiglia (ancorchè venuta meno) il diritto all’assegno di divorzio si perde definitivamente

Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 luglio 2017, n. 18111
ORDINANZA
sul ricorso 344/2016 proposto da:
F.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI, 55, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CARTA rappresentata e difesa dall’avvocato SANDRO GRIMALDI;
– ricorrente –
contro
FR.RE.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 596/2015 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 02/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 07/06/2017 dal Consigliere Dott. ROSA DI VIRGILIO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
Con sentenza del 18/9 – 2/10/2015, la Corte d’appello di Cagliari ha dichiarato insussistente il diritto di F.G. all’assegno divorzile ed ha confermato in Euro 400 mensili l’assegno a carico di Fr.Re. per il mantenimento del figlio M..
Per quanto ancora interessa, nello specifico, la Corte del merito, ritenuto la rilevanza, ai fini del diritto all’assegno di divorzio, della verifica della prosecuzione della convivenza con altro compagno della sig. F., ha evidenziato che nel ricorso introduttivo di primo grado il Fr. aveva fatto riferimento alla convivenza della moglie; questa non aveva sollevato contestazioni e solo in sede di comparizione aveva affermato che detta convivenza era venuta meno nel 2008, ma non aveva provato detta circostanza, come era onerata trattandosi di fatto nuovo allegato “costitutivo del diritto all’assegno divorzile e alla stregua del principio della vicinanza della prova”.
Ne conseguiva la perdita del diritto all’assegno.
Ricorre la F., sulla base di tre motivi.
L’intimato non ha svolto difese.
Considerato che:
Col primo motivo di ricorso, la ricorrente si duole della violazionedell’art. 2697 c.c., degli artt. 115, 116 e 167, in materia di contestazione e valutazione della prova, e degliartt. 183 e 190 c.p.c., in materia di determinazione del thema probandum, sostenendo che nel ricorso introduttivo il sig. Fr. non ha fatto menzione dell’instaurazione o prosecuzione della convivenza more uxorio della sig. F. con altra persona e di avere essa dichiarato, nella comparizione personale del 17/1/2010 avanti al Presidente del Tribunale, che la convivenza extra coniugale era cessata nel 2008 (quindi prima della instaurazione del procedimento di divorzio introdotto col ricorso del 5/10/2010), che il F. aveva fatto valere la mancata prova della cessazione della convivenza solo in comparsa conclusionale, infine che la Corte del merito avrebbe dovuto verificare la stabilità e continuità della eventuale convivenza.
Col secondo motivo, si duole la ricorrente della violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, per avere la Corte del merito omesso di accertare la sussistenza di una nuova famiglia ancorché di fatto, dotata dei caratteri della stabilità e continuità, quale presupposto giustificante l’esclusione dell’assegno. Col terzo motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza o del procedimento, per avere la Corte del merito posto a base della decisione una questione rilevata d’ufficio, ovvero l’asserita convivenza more uxorio, senza concedere il termine exart. 101 c.p.c., comma 2, per garantire il contraddittorio.
I tre motivi di ricorso, strettamente collegati, vanno valutati unitariamente e sono da ritenersi manifestamente infondati.
Nel suo nucleo essenziale, la tesi della ricorrente è basata sul rilievo processuale dell’introduzione da parte del Fr. solo in sede di comparsa conclusionale di primo grado della mancata prova della cessazione della convivenza della F., come accertata in sede di modifica delle condizioni di separazione con il decreto del Tribunale del 21/11/2008, da cui, secondo l’odierna ricorrente, la violazione del principio exart. 2697 c.c., l’introduzione da parte della Corte del merito di una questione rilevata d’ufficio (la prosecuzione della convivenza more uxorio), la violazione dell’art. 5 legge divorzile, per la mancata verifica delle caratteristiche dell’assunta convivenza. Di contro a detta pur articolata prospettazione, va in via assorbente rilevato che deve trovare applicazione il principio espresso nella pronuncia 6855/2015, declinato secondo la specificità del caso.
La pronuncia citata, come è noto, ha affermato che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensidell’art. 2 Cost., come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Ora, nella specie, il fatto rilevante della convivenza con altri da parte della sig. F. ha fatto parte del giudizio, per quanto dichiarato dalla stessa parte in sede di comparizione personale del 17/1/2010, anche se con l’aggiunta della cessazione della convivenza dal 2008, come poi ribadito anche in sede di costituzione di secondo grado, ma detta ulteriore circostanza non può ritenersi rilevante, volta che si ponga attenzione alla cesura che si è ormai determinata con l’instaurazione della nuova convivenza che non può essere posta nel nulla a seguito della prospettata cessazione della stessa, per il rilievo, già espresso nella pronuncia del 2015, che il diritto all’assegno non entra in fase di quiescenza, ma viene definitivamente eliso, di talché sono irrilevanti le successive evoluzioni del nuovo rapporto.
Ne consegue il rigetto del ricorso, stante la correttezza della decisione impugnata nella sua statuizione finale, pur dovendosi correggere la motivazione nei sensi di cui sopra.
Non v’è luogo alla pronuncia sulle spese, non essendosi costituito l’intimato.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Vista l’ammissione della ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, non si applica ilD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nell’ordinanza.

Il coniuge richiedente l’assegno di mantenimento può utilizzare nel giudizio di separazione l’estratto conto richiesto alla banca presso cui l’obbligato ha il conto

Cass. civ. Sez. VI – 1, 31 agosto 2017, n. 20649
ORDINANZA
sul ricorso 7694/2016 proposto da:
B.E., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la Cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE LEVONI;
– ricorrente –
contro
R.L.;
– intimata –
avverso l’ordinanza n. 1958/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 28/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 12/06/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Modena, con sentenza 7 aprile 2014, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta da B.E. contro R.L., per avere illecitamente chiesto a Unicredit e ottenuto notizie relative al proprio estratto conto, poi utilizzate nella causa di separazione personale nei confronti della B., in violazione della normativa in tema di tutela della privacy e della riservatezza. L’appello è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello di Bologna, con ordinanza in data 28 dicembre 2015, perchè privo di una ragionevole probabilità di essere accolto (art. 348 bis c.p.c.).
B. ha proposto ricorso per cassazione, a norma dell’art. 348 ter c.p.c., comma 4; la R. non ha svolto difese.

Motivi della decisione
Con un unico motivo la ricorrente ha denunciato l’errata interpretazione di imprecisate norme delD.Lgs. n. 196 del 2003, in tema di privacy e trattamento dei dati sensibili.
Il ricorso è inammissibile. Con l’ordinanza impugnata la Corte bolognese ha richiamato la motivazione del Tribunale, secondo la quale, nel richiedere informazioni o documenti alla banca, la R. non aveva violato alcuna norma di legge né aveva tenuto un comportamento fraudolento; la Corte ha anche ritenuto che l’attore non avesse offerto alcuna indicazione circa il danno subito.
Tanto premesso, con il ricorso per cassazione, il B. ha censurato soltanto la prima ratio decidendi, lamentando l’illiceità del comportamento della convenuta R., ma non la seconda ratio, distinta ed autonoma, la quale è da sola sufficiente a sorreggere il provvedimento impugnato.
Il ricorso è inammissibile (v. Cass., sez. un., n. 7931/13 e 16602/2005).
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Va revocata l’assegnazione della casa coniugale al genitore non più convivente con il figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente

Cass. civ. Sez. VI – 1, 28 settembre 2017, n. 22746
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
C.A., elettivamente domiciliata in Roma piazza del Fante 8, presso l’avv. Paolo Scipinotti che la rappresenta e difende, giusta procura speciale in calce al ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/3222741 e alla p.e.c. paoloscipinotti.ordineavvocatiroma.org;
– ricorrente –
nei confronti di:
G.V., elettivamente domiciliato in Roma, via Ippolito Nievo 61, presso l’avv. Giuseppina Menicucci che lo rappresenta e difende per delega a margine del controricorso e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/89360453 e alla p.e.c. giuseppinamenicucci.ordineavvocatiroma.org;
– controricorrente –
avverso il Decreto n. 13095 del 2014 della Corte di appello di Roma, emesso il 23 ottobre 2013 e depositata il 5 novembre 2013, n. R.G.61732/10.
Svolgimento del processo
che:
1. La controversia concerne la richiesta del G. di modifica delle condizioni di divorzio al fine di ottenere il collocamento della figlia G.S., maggiorenne ma non ancora autosufficiente economicamente, presso di sé, con conseguente assegnazione della casa familiare e imposizione alla madre C.A. di un assegno di mantenimento in favore della figlia.
2. Il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso ritenendo fondate le deduzioni del ricorrente circa il rapporto fortemente conflittuale fra madre e figlia e fissato in 150 Euro l’assegno di mantenimento a carico della C..
3. La Corte di appello ha respinto il reclamo della C. che ricorre ora per cassazione deducendo contrasto fra dispositivo e motivazione; illogicità e contraddittorietà della motivazione, nullità del decreto.
4. Si difende con controricorso G.V..
5. La ricorrente deposita memoria difensiva.
Motivi della decisione
che:
6. Con l’unico motivo di ricorso si rileva che la Corte di appello dopo aver affermato la fondatezza della censura della reclamante secondo cui la maggiore età di S. avrebbe dovuto precludere al giudice di primo grado la pronuncia sul collocamento, ha, tuttavia, ritenuto corretta la revoca dell’assegnazione della casa coniugale in favore della madre senza però riversare tali conclusioni nel dispositivo che si limita a rigettare il reclamo.
7. Il ricorso è inammissibile. Infatti esso non coglie né impugna la ratio decidendi della decisione della Corte distrettuale secondo cui “alla cessazione della convivenza tra genitore e figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente, conseguentemente alla scelta del primo di cambiare residenza – rispetto a quella già costituente casa coniugale consegue la revoca dell’assegnazione della casa coniugale per carenza dei relativi presupposti”. Nella specie la Corte di appello ha rilevato che, già dal 2007, la C. soggiornava regolarmente presso il suo nuovo compagno fuori Roma.
8. La Corte di appello ha precisato che il decreto reclamato merita di essere confermato ma ha attribuito, per quanto si è detto al precedente punto, rilevanza alla conferma del decreto reclamato solo per ciò che concerne la revoca dell’assegnazione in favore della C. della casa familiare e le statuizioni relative al contributo economico in favore di G.S..
9. Non vi è pertanto contraddizione fra dispositivo e motivazione perché la Corte di appello ha ritenuto tamquam non esset la previsione di collocamento della figlia maggiorenne presso il padre ma ha ritenuto invece rilevante la volontà di quest’ultima di continuare a vivere nella casa familiare insieme al padre e di conseguenza ha confermato la revoca dell’assegnazione alla madre della casa familiare e l’assegnazione della stessa al padre sino al raggiungimento della indipendenza economica della figlia S. con lui convivente.
10. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile con condanna della ricorrente alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 3.600 di cui 100 per spese. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma delLo stesso art. 13, comma 1 bis.

BENI PERSONALI di Gianfranco Dosi

I. I beni personali esclusi dalla comunione legale
II. I beni propri di ciascun coniuge da prima dell’instaurazione del regime di comunione
III. Le donazioni dirette e indirette
a) L’estensione alle donazioni indirette della natura personale del bene
b) La prova della donazione indiretta
IV. I beni strettamente personali e che servono all’esercizio della professione
V. I risarcimenti
VI. I beni acquistati per surrogazione
VII. Possono i coniugi convenire che un acquisto immobiliare sia escluso dalla comunione?
I I beni personali esclusi dalla comunione legale
Il regime della comunione legale non è un regime totalizzante. Non riguarda tutti i beni dei coniugi, ma soltanto quelli indicati espressamente nell’art. 177 del codice civile1 e cioè sostanzialmente le acquisizioni di ricchezza effettuate, insieme o separatamente anche per l’azienda cogestita, nel corso della vita matrimoniale (acquisti che entrano in comunione immediata) e i risparmi esistenti al momento della cessazione del regime, cioè i proventi dell’attività lavorativa di ciascuno dei co¬niugi che non siano stati consumati (risparmi che entrano in comunione de residuo).
Nella disposizione sopra richiamata si esclude espressamente che facciano parte della comunione i beni cosiddetti personali che sono poi analiticamente indicati nell’art. 179 del codice civile.
Art. 179 (Beni personali)
Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge:
a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o succes¬sione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli desti¬nati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione;
e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno (5) nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.
L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del

1 Art. 177 (Oggetto della comunione)
Costituiscono oggetto della comunione:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione
c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio
Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.

precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge.
Si tratta di cinque categorie di beni.
Il legislatore li ha esclusi dalla comunione legale per lasciare a ciascuno dei coniugi in comunione uno spazio di autonomia senza il quale il regime legale sarebbe stato eccessivamente penalizzante.
L’elencazione è da considerare tassativa pur con le valutazioni interpretative che, come si dirà, la giurisprudenza ha indicato nel tempo.
II I beni propri di ciascun coniuge da prima dell’instaurazione del regime di comunione
La prima categoria (art. 179 lett. a) è quella de “i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento” e non richiede partico¬lari spiegazioni. Non è altro che la conseguenza della norma principale della comunione (art. 177 codice civile) che prevede che solo gli acquisti effettuati durante la vita matrimoniale entrano in comunione.
E’ necessaria però osservare che l’espressione riportata dal codice contiene in sé una imprecisione in quanto, ove i coniugi abbiano optato in sede di matrimonio per il regime di separazione e magari decidano in seguito di passare al regime di comunione, è evidente che anche gli acquisti effettuati prima di cambiare regime restano beni personali. Pertanto è più corretto riferire alla categoria dei beni personali cui fa riferimento la lettera a dell’art. 179 non i beni propri “da prima del matrimo¬nio” ma dei beni propri “da prima dell’instaurazione del regime di comunione”.
Naturalmente se l’atto di acquisto si forma nel tempo (cosiddetti acquisti a formazione progres¬siva), come nel caso di un contratto preliminare prima del matrimonio (o dell’instaurazione del regime) e di atto definitivo stipulato successivamente, si deve aver riguardo al momento in cui il bene entra nella proprietà del coniuge (Cass. civ. Sez. II, 24 gennaio 2008, n. 1548).
Ugualmente se un coniuge diviene titolare di un bene personale in seguito ad una divisione, è evidente che, avendo la divisone natura dichiarativa, quell’acquisto non entrerà in comunione.
Un problema che si è posto spesso nella prassi è quello dell’acquisto di edifici costruiti in regime di edilizia residenziale pubblica (per esempio cooperative edilizie a contributo statale, in cui l’asse¬gnazione provvisoria dell’appartamento viene effettuato a favore di una persona prima del matri¬monio e con la stipulazione del contratto di vendita dopo il pagamento delle rate del prezzo o del frazionamento del mutuo, che avviene dopo il matrimonio). In questi casi la giurisprudenza ritiene che l’assegnazione attribuisca al beneficiario un semplice diritto di godimento di natura personale; soltanto al momento della conclusione del contratto traslativo – e cioè nelle cooperative a sovven¬zione pubblica, al momento del frazionamento del mutuo (legge 14 febbraio 1963, n. 60 e legge 24 dicembre 1993, n. 560) – si verifica l’acquisto suscettibile di far entrare in comunione il bene. Il principio è stato ribadito ultimamente da Cass. civ. Sez. II, 26 luglio 2011, n. 16305 dove si chiarisce che il momento determinativo dell’acquisto della titolarità dell’immobile da parte del sin¬golo socio, al fine di stabilire se il bene ricada, o meno, nella comunione legale tra coniugi, è quello della stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale contestuale alla convenzione di mutuo individuale, poiché solo con la conclusione di tale negozio il socio acquista, irrevocabilmen¬te, la proprietà dell’alloggio (assumendo, nel contempo, la veste di mutuatario dell’ente erogato¬re), mentre la semplice qualità di socio, e la correlata “prenotazione”, in tale veste, dell’alloggio, si pongono come vicende riconducibili soltanto a diritti di credito nei confronti della cooperativa, inidonei, come tali, a formare oggetto della comunione dei beni.
Si deve ricordare che l’art. 210 del codice civile2 consente ai coniugi di derogare alla disposizione in questione, ammettendo che sia i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario, sia quelli acquisiti successivamente per effetto di donazione o successione, possano essere esclusi dalla comunione con atto pubblico (cosiddetta comunione convenzionale).
III Le donazioni dirette e indirette
Nella seconda categoria l’art. 179 lett. b include i beni acquistati successivamente al matrimonio (all’instaurazione del regime di comunione) per effetto di donazione o successione, quando nell’at¬to di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione.
Anche questa categoria di beni personali è del tutto ragionevolmente esclusa dalla comunione sempre che l’autore della donazione o della disposizione testamentaria – come precisa la disposi¬

2 Art. 210 (Modifiche convenzionali alla comunione legale dei beni)
I coniugi possono, mediante convenzione stipulata a norma dell’articolo 162, modificare il regime della comunio¬ne legale dei beni purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni dell’articolo 161.
I beni indicati alle lettere c), d) ed e) dell’articolo 179 non possono essere compresi nella comunione conven¬zionale.
Non sono derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale.

zione – non intenda arricchire entrambi i coniugi. Il che deve essere indicato chiaramente nell’atto di donazione.
Anche le azioni, naturalmente, possono essere oggetto di donazione o disposizione testamentaria (Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2007, n. 21098).
a) L’estensione alle donazioni indirette della natura personale del bene
La giurisprudenza si è interrogata sul tenore letterale dell’art. 179 lett. b, osservando che la di¬sposizione parla di “atto di liberalità” e non di “donazione” e che quindi non consente di limitarne la portata alle sole liberalità previste dall’articolo 769 del codice civile, con la conseguenza che la struttura della donazione indiretta3 non è incompatibile con l’applicazione dell’art. 179 lett. b.
La ratio del disposto normativo dell’art. 179, lett. b, ben si attaglia alla natura delle donazioni in¬dirette che, al pari delle altre liberalità, non presuppongono alcun apporto nell’acquisto né diretto (mediante il pagamento anche parziale del corrispettivo) né indiretto (mediante l’apporto coniu¬gale alla vita familiare) da parte del coniuge che non è destinatario della donazione e per questo evidentemente il legislatore le ha considerate escluse dalla comunione.
La donazione indiretta consiste in una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico di donazione, mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento “animo donandi” del destinatario della liberalità medesima. Ne deriva che non sussiste un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’art. 179 lett. b del codice civile, sicché il bene oggetto di essa non rien¬tra nella comunione legale (Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680). In altre parole la giu¬risprudenza sostiene che l’arricchimento che deriva per il beneficiario da una donazione è identico sia che tale arricchimento derivi da una donazione diretta sia che dipenda da una liberalità attuata indirettamente, per esempio rimettendo un debito ad un debitore o intestando un bene ad un terzo ma corrispondendone il prezzo: in entrambi i casi non avrebbe senso escludere dalla comunione queste che sono vere e proprie liberalità come la donazione classica attuata con l’atto pubblico cui fa riferimento l’art. 769 del codice civile.
Pertanto il bene acquistato da uno solo dei coniugi in regime di comunione dei beni, con denaro di un terzo, e pertanto oggetto di donazione indiretta, non entra nella comunione legale, ancorché il terzo non abbia dichiarato esplicitamente di voler destinare il denaro stesso in favore del solo coniuge acquirente (Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327).
La giurisprudenza oggi ormai pacificamente ritiene che la donazione indiretta sia esclusa dalla comunione legale in base all’art. 179, primo comma, lett. b), cod. civ. (da ultimo Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197, Trib. Salerno Sez. I, 29 giugno 2013).
L’ipotesi più diffusa di donazione indiretta trattata dalla giurisprudenza è quella dell’immobile, intestato successivamente al matrimonio (all’instaurazione del regime di comunione) ad uno dei coniugi in regime di comunione legale, ma il cui prezzo è corrisposto dal genitore.
Si deve naturalmente distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest’ultimo (Trib. Genova, 20 febbraio 2015), da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale se¬condo caso, il collegamento tra l’elargizione del danaro del genitore e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio – che deve essere oggetto di prova se si vuole escludere il bene dalla comunione – porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immobile stesso e non già del danaro impiegato per il suo acquisto.
E’ irrilevante che il prezzo sia pagato anteriormente alla compravendita ma serve comunque la prova che la dazione di denaro sia stata effettuata al fine di acquistare l’immobile. Così ha chiarito Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494 con la quale – accogliendo il ricorso del marito il quale sosteneva che un acquisto immobiliare era entrato in comunione e non configurava invece una donazione indiretta a vantaggio della moglie – si è affermato che l’elargizione di una somma di denaro “finalizzata all’acquisto di un immobile da parte del beneficiario” si configura come do¬nazione indiretta “se l’elargizione è mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto di un immobile da parte del destinatario”, che il disponente intenda in tal modo beneficiare. Tuttavia la prova della liberalità non può essere desunta dalla mera dichiarazione, resa dalle parti nel rogito notarile, dell’avvenuto pagamento del corrispettivo dell’immobile con denaro fornito dal padre della con¬venuta: poiché, come ha precisato la stessa Corte di merito, dal medesimo atto risultava che il predetto pagamento non era stato effettuato contestualmente alla stipulazione dell’atto pubblico di compravendita, ma in data precedente, la relativa attestazione del notaio non poteva considerarsi sufficiente, trattandosi di una mera presa d’atto della dichiarazione resa al riguardo dalle parti, in ordine alla quale non risulta che egli avesse effettuato alcun riscontro; ai sensi dell’art. 2700 c.c., infatti, l’atto pubblico forma piena prova soltanto della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, nonché delle dichiarazioni rese dalle parti dinanzi a lui o degli altri fatti che egli attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, e non anche della veridicità intrinseca delle predette dichiarazioni o della loro rispondenza alle effettive intenzioni delle parti.
3 Nella voce DONAZIONE INDIRETTA è contenuto un approfondimento delle molte questioni che questo istituto pone.

b) La prova della donazione indiretta
Si è visto sopra che Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494 ha ritenuto che la prova della liberalità non può essere desunta dalla mera dichiarazione, resa dalle parti nel rogito notarile, dell’avvenuto pagamento del corrispettivo dell’immobile con denaro fornito dal padre della conve¬nuta, in quanto, l’atto pubblico forma piena prova soltanto della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, nonché delle dichiarazioni rese dalle parti dinanzi a lui o degli altri fatti che egli attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, e non anche della veridicità intrinseca delle predette dichiarazioni o della loro rispondenza alle effettive intenzioni delle parti.
Il problema della prova non va sottovalutato in quanto l’immobile – nell’esempio sopra fatto – ri¬sulterà formalmente intestato al figlio (sebbene il pagamento del prezzo sia avvenuto ad opera del genitore) e l’altro coniuge al momento per esempio della crisi coniugale potrebbe volerlo includere nella comunione.
Per questo la giurisprudenza ha affermato che ai fini processuali è sufficiente che vi sia l’atto di com¬pravendita con la prova che il denaro è stato corrisposto dal genitore. Si è detto infatti che, essendo la donazione indiretta caratterizzata dal fine perseguito, che è quello di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, per la sua validi¬tà non è richiesta la forma dell’atto pubblico (come nella donazione), essendo sufficiente l’osservan¬za delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità (e quindi il solo atto scritto come per la compravendita) (Cass. civ. sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333). Non è quindi necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio – mezzo con l’arricchimento di uno dei coniugi per lo spirito di liberalità (Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778).
Pertanto – per tornare all’esempio che si è fatto sopra – ove un genitore abbia corrisposto il prezzo dell’immobile intestando il bene al figlio, sarà sufficiente esibire l’atto pubblico di compravendita nel quale è indicato obbligatoriamente (che il prezzo è stato pagato dal genitore.
Questa prova, per le donazioni indirette effettuate dopo il 2006 è facilitata dal fatto che il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il con¬tenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale) convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248 prevede all’art. 35 (Misure di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale), comma 22, che “All’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad IVA, le parti hanno l’obbligo di rendere apposita dichia¬razione sostitutiva di atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo”. Pertanto nell’atto pubblico relativo al trasferimento del bene al figlio con denaro corrisposto dal genitore saranno indicate le modalità di pagamento da cui sarà facile desumere la natura indiretta della donazione. Per le donazioni indirette effettuate prima del 2006 la tracciabilità dei mezzi di pagamento non è garantita e la prova sarà molto più ardua.
IV I beni strettamente personali e che servono all’esercizio della professione
In questi casi a escludere il bene dalla comunione legale è la sua destinazione funzionale al sod¬disfacimento di esigenze strettamente personali (art. 177 lett. c) o professionali (art. 177 lett. d) di uno dei coniugi. Destinazione che spesso può essere verificata soltanto a posteriori in relazione all’uso che di quel bene acquistato è stato fatto.
Per dare una risposta, per esempio, al problema diffuso se l’auto intestata ad un coniuge rientra in comunione o costituisce invece un suo bene personale, bisogna domandarsi cosa siano i “beni di uso strettamente personale ed i loro accessori”.
La questione, come si comprende, costituisce un accertamento di merito.
È stato detto in giurisprudenza, infatti, che laddove il giudice abbia ricondotto la fattispecie dell’acquisto alla disciplina dell’art. 179, lett. c, codice civile, in funzione della personalità del bene destinato ad abitazione del coniuge nell’ottica della separazione personale, a nulla varrebbe conte¬stare la dichiarazione resa nell’atto d’acquisto (Cass. civ. Sez. III, 15 gennaio 2003, n. 487). Di contro è insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente motivata, la valutazione delle circostanze di fatto compiuta dal giudice di merito che ritenga, in presenza di coniugi soggetti al regime della comunione legale dei beni e di veicolo intestato al solo marito, che il veicolo stesso sia soggetto al regime della comunione, escludendo addirittura – come nel caso deciso – che abbia rilevanza decisiva, in senso contrario, la circostanza che la moglie non sia abilitata alla guida “ben potendo il marito, che dispone della patente, provvedere al trasporto nel comune interesse fami¬liare, qualora non risulti che il denaro per l’acquisto apparteneva al peculio personale del marito stesso e il mezzo destinato alle sue necessità” (Cass. civ. Sez. VI, 12 gennaio 2012, n. 322).
Una sentenza di merito non vicina nel tempo (Trib. Monza, 10 maggio 1995) ha ben chiarito che “benché l’art. 179 non precisi cosa debba intendersi per bene di uso strettamente personale, l’interpretazione più corretta è quella di collegare la personalità dell’uso con la destinazione della cosa, pertanto, l’uso è personale se pertiene ad esigenze esclusive di uno solo dei coniugi, e non se uno solo di essi sia in grado di mettere in uso il bene”.
Che la questione pertanto non possa essere risolta dalle norme ma solo dall’accertamento di fatto, è precisato in altre sentenze.
Così si è detto che anche un veicolo in occasione dell’acquisto da parte di un coniuge, entra auto¬maticamente nel patrimonio di entrambi salvo che il giudice del merito, con valutazione insindacabile in sede di legittimità, ne accerti la natura personale (Cass. civ. Sez. III, 9 novembre 2000, n. 14575; Cass. civ. Sez. III, 6 febbraio 1998, n. 1292).
La stessa decisione chiarisce che per uso personale del bene, a norma dell’art. 179, 1° co., lett. c, codice civile, deve intendersi la disponibilità esclusiva della sua utilizzazione da parte del coniuge, anche se tramite altro soggetto. Detta disponibilità esclusiva non viene meno se il coniuge, che ne è titolare, permette che l’altro coniuge possa utilizzare il bene in specifiche circostanze e condizio¬ni, come un terzo. In questo caso, infatti l’altro coniuge, come un qualsiasi terzo, utilizza il bene non per diritto suo proprio, quale comproprietario, ma per effetto del consenso dell’unico titolare del diritto di disporne.
L’altra categoria di acquisti esclusa dalla comunione è costituita dai beni che servono all’esercizio della professione, cioè gli acquisti effettuati per una attività lavorativa autonoma o anche subor¬dinata con esclusione delle attività imprenditoriali. Professione e impresa sono due cose diverse.
Rientrano, invece, in comunione (immediata) gli acquisti destinati ad una azienda “facente parte della comunione” e cioè di una azienda gestita da entrambi i coniugi e costituita dopo il matrimo¬nio (art. 177 lett. d) mentre entrano in comunione de residuo (restando fino alla cessazione del regime di proprietà esclusiva del coniuge imprenditore) i beni, inclusi quelli immobili, che vengano acquistati da uno dei coniugi e destinati all’esercizio, da parte sua, dell’impresa costituita dopo il matrimonio (art. 178 c.c.) (Cass. civ. Sez. VI, 28 settembre 2015, n. 19204; Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2005, n. 18456).
V I risarcimenti
Non sono emerse nella pratica questioni interpretative nell’applicazione dell’art. 179 lett. e che considera personali i beni ottenuti “a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione atti¬nente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa” potendo ragionevolmente riferirsi la disposizione al risarcimento relativo a qualsiasi danno anche conseguente ad invalidità lavorativa (l’unica decisione edita della giurisprudenza esclude che possa qualificarsi personale l’indennità di accompagnamento: Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2005, n. 8578).
VI I beni acquistati per surrogazione
Sono molti i problemi soprattutto pratici sorti nell’applicazione dell’art. 179 lett. f che considera personali i beni “acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopra elencati o col loro scambio purché ciò sia espressamente dichiarato nell’atto di acquisto”. Intanto va chiarito che gli acquisti (cosiddetti “per surrogazione” ma anche per permuta) esclusi dalla comunione, pos¬sono essere solo quelli effettuati con denaro proveniente dalla vendita di beni personali (elencati nell’art. 179) e non quelli effettuati con denaro personale (cioè con i proventi dell’attività separata dei coniugi che producono l’effetto comunione: art. 177 codice civile) (Cass. civ. Sez. I, 27 feb¬braio 2003, n. 2954; Cass. civ. Sez. I, 23 settembre 1997, n. 9355) ed in secondo luogo che ricadono nella norma anche gli acquisti effettuati con denaro proveniente dalla vendita di beni personali che si prova essere stato accantonato in un conto corrente bancario personale (Cass. sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197; Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1994, n. 7437).
Per la dichiarazione del coniuge acquirente – contestuale all’acquisto – che afferma il carattere personale dell’acquisto non è prevista alcuna forma e pertanto è sufficiente una qualsiasi dichia¬razione a forma libera.
Il punto più delicato è però se la dichiarazione in parola sia considerata sempre necessaria o se vi siano situazioni in cui non è necessaria.
La giurisprudenza ormai consolidata afferma del tutto ragionevolmente che quando è certa la provenienza dai beni personali di uno dei coniugi in regime di comunione legale della provvista usata per l’acquisto di un bene, tale acquisto deve intendersi come effettuato in surrogazione di beni personali – ai sensi dell’art. 179, comma 1, lett. f, codice civile – con la conseguenza che il bene acquistato non ricade nella comunione legale, anche se manca l’espressa dichiarazione del coniuge acquirente all’atto dell’acquisto (Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454). La dichiarazione in questione sarebbe, quindi, necessaria solo quando possano sorgere dubbi circa la natura personale del bene impiegato per l’acquisto (ivi compreso il denaro) (Cass. sez. II, 5 maggio 2010, n. 10885; Cass. civ. Sez. I, 25 settembre 2008, n. 24061; Cass. civ. Sez. II, 8 febbraio 1993, n. 1556).
VII Possono i coniugi convenire che un acquisto immobiliare sia escluso dalla comunione?
Vi sono situazioni in cui i coniugi possono escludere l’acquisto di un bene dalla comunione attraver¬so una procedura specifica prevista nell’ultimo comma dell’art. 179 codice civile4.
La disposizione prevede che “L’acquisto di beni immobili o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge”.
Il che significa che nei casi di acquisto – sopra esaminati – di un bene di uso strettamente perso¬nale (lett. c), o di un bene che serve all’esercizio della professione (lett. d) o di un qualunque bene acquistato per surrogazione o permuta (lett. f) è possibile l’esclusione del bene dalla comunione e l’acquisizione al patrimonio dei beni personali del coniuge acquirente.
Naturalmente i creditori personali di uno dei coniugi, non possono essere pregiudicati nei loro di¬ritti quando il pignoramento del bene che ne forma oggetto risulta trascritto in epoca precedente la trascrizione della domanda di accertamento della comunione legale o in epoca precedente l’in¬staurazione del giudizio da parte del coniuge non acquirente (Cass. civ. Sez. III, 18 novembre 2013, n. 25865).
L’interpretazione della giurisprudenza sul significato da dare all’ultimo comma dell’art. 179 c.c. non era stata in passato univoca, almeno fino ad una pronuncia delle Sezioni Unite nel 2009 (Cass. civ. Sez. Unite, 28 ottobre 2009, n. 22755) che hanno dato al problema una soluzione di com¬promesso.
Il contrasto era il seguente.
Una lontana decisione del 1989 (Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 1989, n. 2688) aveva espresso il convincimento che “il consenso del coniuge, risultante dall’atto di acquisto, qualora questo abbia ad oggetto beni immobili o mobili registrati, vale ad impedire che il bene cada in comunione anche al di fuori delle ipotesi di beni personali”; in altre parole la sentenza del 1989 affermava che la par¬tecipazione del coniuge non acquirente all’atto avesse natura negoziale e come tale costituiva una manifestazione di volontà sempre valida anche se con essa si escludeva un bene dalla comunione al di fuori dei casi specifici in cui il secondo comma dell’articolo 179 del codice civile lo prevede. I coniugi avrebbero, secondo questa impostazione, sempre il diritto di escludere un bene dalla co¬munione (anche al di fuori dei casi previsti) purché vi sia il consenso di entrambi.
Il principio che passava era, in sostanza, quello della derogabilità della comunione, cioè che in re¬gime di comunione legale ciascuno dei coniugi può acquistare beni personali, anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 179 codice civile purché il coniuge non acquirente, presente al momento della stipula, dia il proprio consenso, che deve risultare dallo stesso atto di acquisto.
La maggioranza delle successive decisioni fu, invece, di parere contrario (Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1994, n. 7437; Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1917; Cass. sez. I, 27 feb¬braio 2003, n. 2954; Cass. sez. I, 24 settembre 2004, n. 19250; Cass. civ. Sez. II, 25 ottobre 1996, n. 9307; Cass. civ. Sez. II, 6 marzo 2008, n. 6120) facendosi prevalere il principio che “in regime di comunione legale dei beni, il coniuge non può validamente rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio, in quanto in tal modo il regime di comunione legale sarebbe modificabile ad nutum, secondo l’opzione estemporanea di ciascuno dei coniugi in relazione all’acquisto di singoli beni e ciò contrasterebbe con la funzione pubblicistica dell’istituto”. L’impostazione della sentenza dell’89 avrebbe finito per svuotare del tutto il senso della comunione legale privandola di garanzie. Si consolidò così il diverso orientamento che faceva leva sulla natura ricognitiva (confessoria) della dichiarazione del coniuge non acquirente il quale, con la partecipazione all’atto e con il suo assenso, finiva per riconoscere quanto dichiarato nell’atto dall’altro coniuge, realizzandosi così una presunzione di rispondenza al vero della dichiarazione di esclusione del bene dalla comunione e di acquisto come bene personale. Presunzione che il coniuge non acquirente avrebbe potuto vincere, al momento in cui avesse voluto chiedere l’accer¬tamento che quel bene era invece entrato in comunione, dando la prova di un errore di fatto o di una violenza (esattamente negli stessi termini con cui può essere revocata la confessione: articolo 2732 codice civile).
Poiché il dibattito, anche in dottrina, si fece intenso, la prima sezione della Cassazione decise di rimettere alle Sezioni Unite la questione se sia consentito ai coniugi in regime di comunione legale dei beni, nell’esercizio della loro autonomia privata, disporre degli effetti della comunione stessa, impedendo la caduta nel patrimonio comune di un acquisto, in assenza dei presupposti sostanziali di cui all’articolo 179 secondo comma codice civile (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2008, n. 30416).
Le Sezioni Unite sulla controversa natura – secondo alcuni negoziale (e quindi dispositiva) e se¬condo altri semplicemente confessoria (e quindi ricognitiva) – della dichiarazione del coniuge non acquirente, hanno aderito alla tesi della natura confessoria. E con una posizione interpretativa di compromesso hanno fatta salva la possibilità per il coniuge non acquirente di poter richiedere l’accertamento della comproprietà di un bene immobile o mobile registrato escluso provando l’er¬rore di fatto o la violenza allorché la dichiarazione ricognitiva, abbia realmente natura confessoria e cioè solo quando risulti descrittiva di una situazione di fatto realizzatasi. Diversamente – come nel caso di dichiarazione concernente l’uso futuro dell’immobile acquistato (e quindi in caso di dichiarazione di intenti) il coniuge non acquirente potrà sempre proporre azione di accertamento della comunione legale provando la destinazione diversa da quella dichiarata nell’atto. Per quanto riguarda l’efficacia dell’esclusione verso terzi, il sopravvenuto accertamento della comunione lega¬le non sarà opponibile al terzo acquirente in buona fede, salvi gli effetti della trascrizione (Cass. civ. Sez. Unite, 28 ottobre 2009, n. 22755).
Anche nella giurisprudenza di merito il principio è stato affermato con chiarezza. Per esempio re¬centemente Trib. Lecce, 7 marzo 2017 ha precisato che in regime di comunione legale, nel caso di acquisto di un bene da parte di un solo coniuge, la dichiarazione di esclusione dalla comunione legale del bene acquistato, effettuata, ex art. 179, comma 2 c.c., dal coniuge non acquirente che abbia partecipato all’atto di compravendita, non impedisce di esperire l’azione di accertamento negativo dell’esclusiva titolarità del medesimo bene acquistato da parte di uno solo dei coniugi.
Il coniuge non acquirente pertanto potrà sempre pretendere che il bene escluso dal coacquisto sia considerato in comunione (la sentenza avrà quindi natura dichiarativa) ma dovrà dare una prova diversa a seconda della situazione che si è verificata. In particolare dovrà provare di essere caduto in errore di fatto o di aver subìto violenza per esprimere il consenso, nelle ipotesi in cui l’assenso da lui manifestato alla stipula concerna la ricognizione di una situazione di fatto già realizzatasi (ipotesi in cui l’acquisto è stato effettuato con denaro proveniente dalla vendita di un bene perso¬nale del coniuge acquirente: articolo 179 lettera f) mentre potrà limitarsi a provare che la destina¬zione indicata nell’atto è diversa da quella dichiarata nelle ipotesi in cui il suo assenso ha riguar¬dato una destinazione futura (per esempio la prova che l’immobile dichiaratamente acquistato per uso professionale del coniuge acquirente è stato invece destinato a casa familiare o a casa delle vacanze: articolo 179 lettera d; ovvero che l’automobile acquistata non è stata destinata, diversa¬mente da quanto dichiarato nell’atto, all’uso personale del coniuge acquirente: articolo 179 lett.c).
La giurisprudenza successiva si è attestata sulle medesime posizioni delle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. VI, 18 novembre 2016, n. 23565; Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 2016, n. 2642; Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2012, n. 12197; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2012, n. 1523; Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2010, n. 18114; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2010, n. 14226; Trib. Trento, 30 maggio 2016; Trib. Ivrea, 2 dicembre 2014; Trib. Roma Sez. X, 26 otto¬bre 2012) da ultimo precisando che l’efficacia della dichiarazione del coniuge non acquirente in favore del coniuge formalmente acquirente vale nel giudizio tra i coniugi e non nel diverso giudizio fra i coeredi di colui che l’aveva resa, che sono terzi rispetto al suddetto atto (Cass. civ. Sez. II, 9 novembre 2012, n. 19513) e che l’ipotesi della donazione indiretta dell’immobile (articolo 179 lettera b) non rientra tra le ipotesi tassative in cui è necessaria la partecipazione all’atto del coniuge non donatario (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197).
L’unica possibilità, quindi che i coniugi avrebbero, se volessero escludere un immobile dalla co¬munione al di fuori delle ipotesi tassative indicate, sarebbe quella di procedere preventivamente ad una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario (Cass. civ. Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3647).

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 7 marzo 2017, n. 5652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 177, comma 1, lett. c), c.c. esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da cia¬scuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione.
Cass. civ. Sez. VI, 28 settembre 2015, n. 19204 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di comunione legale, l’art. 168 c.c. disciplina la particolare condizione dei beni acquistati dal coniuge per essere destinati all’impresa da lui gestita e costituita dopo il matrimonio, i quali sono soggetti al regime della comunione legale “ de residuo”, ossia ristretta ai soli beni sussistenti al momento dello sciogli-mento della comunione, sicché non opera per tali acquisti il meccanismo previsto dall’art. 179, comma 2, c.c., rimanendo essi esclusi automaticamente, seppur temporaneamente, dal patrimonio coniugale, senza necessità di specifica indi¬cazione o di partecipazione di entrambi i coniugi all’atto di acquisto, atteso che, mentre la prima norma prende in considerazione beni qualificati da un’oggettiva destinazione all’attività imprenditoriale del singolo coniuge, la seconda si occupa di beni soggettivamente qualificati dall’essere strumento di formazione ed espressione della personalità dell’individuo.
Cass. civ. Sez. I, 3 luglio 2015, n. 13760 (Giur. It., 2016, 5, 1102 nota di PIEMONTESE)
In caso di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, con riguardo ai beni che formano oggetto della co¬munione de residuo, tra i coniugi stessi si instaura una comunione ordinaria, sicché il coniuge non titolare vanta un diritto reale di comproprietà (e non un mero diritto di credito di entità corrispondente al metà del valore dei beni caduti in comunione).
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, il credito verso il coniuge socio di una società di per¬sone, a favore dell’altro coniuge in comunione de residuo, è esigibile al momento della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, consentendosi altrimenti al coniuge-socio di procrastinare sine die la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2013, n. 6876 (Famiglia e Diritto, 2013, 7, 659 nota di FALCONI)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, il credito verso il coniuge socio di una società di per¬sone, a favore dell’altro coniuge in comunione “ de residuo”, è esigibile al momento della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, consentendosi altrimenti al coniuge-socio di procrastinare “sine die” la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale.
Non cadono in comunione immediata – restando assoggettati alla disciplina di cui all’art. 178 c.c. e cioè alla co¬munione de residuo – gli acquisti di quote di società di persone. Pertanto, poiché l’attivo della massa comune si arricchisce allo scioglimento della comunione legale, a questo momento, e non ad epoca successiva, va ancorata la stima del valore della partecipazione societaria.
È caratteristica tipica della comunione “de residuo” che l’attivo della massa comune si arricchisca proprio nel momento in cui il vincolo di solidarietà tra i coniugi si allenta con la separazione personale dei coniugi che è causa dello scioglimento della comunione legale (art. 191 c.c.), momento quest’ultimo cui necessariamente va ancorata la stima del valore di quella massa. La compartecipazione al valore degli incrementi patrimoniali conseguiti post-nuptias dall’altro coniuge è differita al momento della separazione, non ad epoca successiva.
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2012, n. 9845 (Famiglia e Diritto, 2013, 1, 5 nota di OBERTO)
Anche i diritti di credito acquistati da ciascuno dei coniugi in costanza di regime legale ricadono nella comu-nione, allorquando si tratti di crediti aventi una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio. Tra questi rientrano le quote di fondi comuni di investimento, ancorché acquisite con i proventi dell’at¬tività di un solo coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2012, n. 1523 (Fam. Pers. Succ., 2012, 7, 493 nota di SERRENTINO)
Il consenso espresso dal coniuge non acquirente del bene ha funzione di ricognizione della natura personale del prezzo o dei beni personali ceduti nel caso dell’art. 179, lett. f), c.c. laddove invece il bene sia destinato all’eser¬cizio dell’impresa o professione la dichiarazione esprime la mera condivisione dell’altrui intento.
Cass. civ. Sez. II, 26 luglio 2011, n. 16305 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegnazione di alloggi di cooperative edilizie, il momento determinativo dell’acquisto della titola-rità dell’immobile da parte del singolo socio, onde stabilire se il bene ricada, o meno, nella comunione lega-le tra coniugi, è quello della stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale (contestuale alla convenzione di mutuo individuale), poiché solo con la conclusione di tale negozio il socio acquista, irrevoca-bilmente, la pro¬prietà dell’alloggio (assumendo, nel contempo, la veste di mutuatario dell’ente erogatore), mentre la semplice qualità di socio, e la correlata “prenotazione”, in tale veste, dell’alloggio, si pongono come vicende riconducibili soltanto a diritti di credito nei confronti della cooperativa, inidonei, come tali, a formare oggetto della “communio incidens” familiare.
Cass. civ. Sez. I, 21 ottobre 2010, n. 21648 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La c.d. comunione “de residuo”, prevista per i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi (art. 177 c.c., comma 1, lett. c) si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effetti¬vamente sussiste nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi ritenendo ad essa destinati “ex lege” i proventi personali che non siano stati provatamente impiegati per il soddisfacimento dei bisogni familiari, o che siano stati comunque investiti in acquisti già caduti in comunione. Pertanto, deve ritenersi che l’art. 177 c.c., lett. c) esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da cia¬scuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione. La comunione “de residuo”, quindi, non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della comunione ed a carico del singolo coniuge, ma dà luogo ad una semplice aspettativa di fatto.
Cass. civ. Sez. Unite, 28 ottobre 2009, n. 22755 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la dichiarazione resa nell’atto dall’altro coniuge non acquirente, ai sensi dell’art. 179, secondo comma, cod. civ., in ordine alla natura personale del bene, si atteggia diversamente a seconda che tale natura dipenda dall’acquisto dello stesso con il prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente o dalla desti¬nazione del bene all’uso personale o all’esercizio della professione di quest’ultimo, assumendo nel primo caso natura ricognitiva e portata confessoria di presupposti di fatto già esistenti, ed esprimendo nel secondo la mera condivisione dell’intento del coniuge acquirente. Ne consegue che l’azione di accertamento negativo della natura personale del bene acquistato postula nel primo caso la revoca della confessione stragiudiziale, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall’art. 2732 cod. civ., e nel secondo la verifica dell’effettiva destinazione del bene, indi¬pendentemente da ogni indagine sulla sincerità dell’intento manifestato.
Cass. civ. sez. II, 2 febbraio 2009, n. 2569 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le quote di partecipazione del coniuge ad una società di persone ed i loro successivi aumenti costituiscono og¬getto della comunione legale tra i coniugi e rientrano conseguentemente tra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a), c.c., non tra i beni personali. Lo status di socio non attribuisce al partecipante ad una società di persone una posizione giuridica soggettiva qualificabile in termini di diritto di credito avente ad oggetto la restituzione del conferimento o di una quota proporzionale del patrimonio sociale, dato che, anteriormente al verificarsi di una causa di scioglimento della società o del vincolo sociale, è ipotizzabile in favore del socio soltanto una aspetta¬tiva economica, legata all’eventualità che, al momento dello scioglimento, il patrimonio della società abbia una consistenza attiva tale da giustificare l’attribuzione pro quota ai partecipanti alla società di valori proporzionali alla loro partecipazione.
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2009, n. 799 (Famiglia e Diritto, 2009, 6, 571 nota di RIMINI)
Il credito per l’indennizzo, dovuto ai sensi dell’art. 936 cod. civ., dal proprietario del suolo per opere fatte dal terzo con materiali propri, non costituisce un acquisto che cade in comunione legale ai sensi dell’art. 177, lett. a), cod. civ., dovendo escludersi che la comunione degli acquisti provenienti da attività separata possa comprendere tutti indistintamente i diritti di credito, in quanto, posto che l’atto deve avere ad oggetto l’ac-quisizione di un “bene” ai sensi degli articoli 810, 812 e 813 cod. civ., restano esclusi i meri diritti di credito che non abbiano una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio. (Rigetta, App. Torino, 16 febbraio 2004)
Cass. civ. Sez. V, 16 luglio 2008, n. 19567 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di co¬munione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separa-ta svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. c), cod. civ., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo; lo sciogli¬mento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza del giudice tributario che aveva ritenuto che l’imposta di successione fos-se stata illegittimamente liquidata e corrisposta sull’intero asse ereditario mentre le attività relative ai conti correnti e titoli dovevano essere tassati al cinquanta per cento, con conseguente rimborso della maggiore imposta versata).
Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2007, n. 21098 (Giur. It., 2008, 7, 1704 nota di LUONI E CAVANNAONTI)
I titoli obbligazionari, acquistati da un coniuge in regime di comunione legale con i proventi della propria attività lavorativa, comportando la trasformazione del “provento” in bene giuridico diverso costituente una forma di inve¬stimento, rientrano nella nozione di acquisti di cui all’art. 177, lett. a, c.c. e quindi cadono in comunione immediata.
L’acquisto di obbligazioni societarie, comportando l’impiego del denaro, provento dell’attività personale e sepa¬rata di uno dei coniugi, in un bene giuridico diverso, costituente una forma di investimento, trasforma il provento dell’attività separata in un “quid alii” che, secondo la regola generale posta dall’art. 177, comma 1, lett. a), c.c. per tutti gli acquisti compiuti da ciascun coniuge in regime di comunione legale con i proventi della propria at¬tività, entra a far parte della comunione legale immediata e non della comunione “de residuo”, ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. c), c.c..
La comunione legale fra i coniugi può riguardare non soltanto i diritti reali, ma anche i diritti di credito, dovendosi ritenere fondata l’interpretazione dell’art. 177, 1° comma, lett. a), c.c. secondo cui fra gli «acquisti» ivi indicati, che entrano a far parte della comunione legale ove non espressamente esclusi, rientrano tutti gli «investimen¬ti» compiuti da ciascun coniuge, «qualunque sia la natura del diritto che ne formi oggetto». Ne consegue che i titoli obbligazionari acquistati con i proventi della propria attività personale nel corso del matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione dei beni, in quanto forma di investimento che rappresenta un quid alii rispetto al «provento» impiegato, entrano a far parte della comunione legale immediata, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell’art. 177 c.c., poste dall’art. 179 c.c.)
L’art. 177, lett. a), c.c. ricomprende nella comunione legale l’acquisto di ogni genere di bene, tra cui i diritti di credito.
Cass. civ. Sez. Unite, 24 agosto 2007, n. 17952 (Famiglia e Diritto, 2008, 7, 681 nota di PALADINI)
Nell’azione ex art. 2932 c.c. per l’adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento contrattuale promossa dal promissario acquirente nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comu¬nione dei beni, abbia stipulato un preliminare di vendita di un immobile oggetto di comunione legale senza il consenso dell’altro coniuge, quest’ultimo è litisconsorte necessario. Pertanto allorché il coniuge rimasto estraneo alla stipulazione del preliminare non sia stato convenuto in giudizio unitamente al coniuge stipulante e nei suoi confronti non sia stato integrato il contraddittorio, il giudizio svoltosi è nullo e va nuovamente celebrato a con¬traddittorio integro.
Trib. Catania 17 luglio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli acquisti di partecipazioni in società in nome collettivo sono soggetti alla comunione “de residuo” ex art. 178 c.c., mentre gli acquisti di quote di società a responsabilità limitata cadono in comunione imme-diata ex art. 177, comma 1, lett. a), c.c..
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2006, n. 2597 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La c.d. comunione “de residuo “, prevista per i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi (art. 177 c.c., comma 1, lett. c) si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettiva¬mente sussiste nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi ritenendo ad essa destinati “ex lege” i proventi personali che non siano stati provatamente impiegati per il soddisfacimento dei bisogni familiari, o che siano stati comunque investiti in acquisti già caduti in comunione. Pertanto, deve ritenersi che l’art. 177 c.c., lett. c) esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca prece-dente allo scioglimento della comunione. La comu-nione “ de residuo”, quindi, non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della comunione ed a carico del singolo coniuge, ma dà luogo ad una semplice aspettativa di fatto.
L’art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da cia¬scuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della co-munione.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2005, n. 18456 (Nuova Giur. Civ., 2006, 9, 933 nota di PALADINI)
Nel regime della comunione legale, i beni, inclusi quelli immobili, che vengano acquistati da uno dei coniugi e destinati all’esercizio, da parte sua, dell’impresa costituita dopo il matrimonio, fanno parte della comunione “ de residuo”, e quindi se e nei limiti in cui sussistano al momento dello scioglimento di questa. A tali acquisti, che rinvengono la loro compiuta disciplina nell’art. 178 cod. civ., non si applica la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 179 cod. civ. – la quale consente l’esclusione di immobili e mobili registrati dalla comunione, purchè all’atto di acquisto abbia “partecipato” anche il coniuge non acquirente e questi abbia rilasciato una di¬chiarazione di assenso ai fini dell’esclusione -, giacchè detta previsione si riferi-sce soltanto alle diverse ipotesi contemplate dal primo comma del medesimo art. 179, fra cui è compresa (ai sensi della lettera d) quella dei beni destinati all’esercizio della professione, non equiparabili ai beni de-stinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Elemento costitutivo del diritto – al momento dello scioglimento della comunione – alla ripartizione degli utili e degli incrementi dell’ azienda appartenente a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio da parte dell’altro è la gestione comune dell’ azienda stessa in costanza di matrimonio, gestione comune la cui sussistenza non può essere ritenuta in mancanza di prova da parte di colui che propone la domanda di divisione.
Cass. civ. Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7060 (Fallimento, 2005, 2, 146 nota di FIGONE)
Il fallimento di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiu¬sura della procedura.
Trib. Cagliari, 8 gennaio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della esclusione dalla comunione legale di alcuni immobili acquistati separatamente dal singolo coniuge, la partecipazione del coniuge dell’acquirente, ai sensi dell’art. 179 c.p.v. c.c., che si concreti nella dichiarazione di esclusione dalla comunione, ha natura meramente ricognitiva circa la sussistenza di uno dei presupposti di cui all’art. 179 lett. c), d) ed f) c. c. L’intervento del coniuge dell’acquirente non ha rilievo negoziale né dispositivo, non essendo ammissibile che un coniuge in regime di comunione legale rinunci efficacemente alla contitolarità di un singolo bene, e, comunque, che i coniugi apportino modifiche al regime le-gale in relazione ad un singolo bene. Per l’effetto, la dichiarazione di esclusione dalla comunione espressa dal coniuge, mediante l’attestazione che il bene acquistato è destinato all’esercizio della professione del coniuge acquirente (ex art. 179 lettera d) c. c.), non vale ad escluderlo dalla comunione de residuo (ai sensi dell’art. 178 c. c) qualora venga poi provato in giudizio che detto bene era in realtà destinato all’esercizio dell’impresa del coniuge acquirente.
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2003, n. 13441 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 177, lett. c), c.c. esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi dell’attività separata svolta da cia¬scuno di essi e consumati in epoca precedente allo scioglimento della comunione.
I redditi individuali dei coniugi, tanto che si tratti di redditi di capitali, quanto se si tratti di proventi della loro attività separata non cadono automaticamente in comunione, ma rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a divenire comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di sciogli¬mento della comunione.
In tema di comunione legale dei beni tra coniugi gli articoli 195 e 219, comma 2, del c.c. non richiedono alcuna prova qualificata, al fine di superare la presunzione ivi stabilita, essendo sufficiente una prova libera e, quindi, anche una prova per presunzioni. (Nella specie in applicazione del riferito principio la Suprema corte ha confer¬mato la pronuncia dei giudici di merito che con riguardo a somme di cui aveva disposto, in via esclusiva, uno dei coniugi anteriormente allo scioglimento della comunione, aveva escluso che le stesse potessero presumersi comuni, ai sensi delle richiamate disposizioni, atteso che trattavasi di somme depostole in conti correnti intestati al solo coniuge che ne aveva disposto).
Cass. civ. Sez. III, 20 dicembre 2001, n. 16073 (Corriere Giur., 2003, 2, 180 nota di ROSSETTI)
La morte del coniuge determina lo scioglimento della comunione legale, ex artt. 149 e 191 c.c.. Ne consegue che il coniuge separato della vittima di un atto illecito non ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale con¬sistente nella asserita perdita dei risparmi che il partner avrebbe accumulato se avesse continuato a lavorare, e che sarebbero entrati a far parte della comunione de residuo al momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 17 novembre 2000, n. 14897 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Costituiscono oggetto della comunione cosiddetta “de residuo “, ai sensi dell’articolo 177 lett. c) c.c., non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunio¬ne ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a di-mostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito secondo cui ricadevano in comunione de residuo le somme depositate su un conto corrente cointestato, ritirate prima della separazione e asseritamente utilizzate per l’attività d’impresa del coniuge prelevante).
Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 2000, n. 2680 (Fallimento, 2001, 1, 39 nota di CARAVAGLIOS)
In regime di comunione legale tra coniugi, il fallimento di uno di essi determina la comunione “de resi-duo” sui beni destinati “post nuptias” all’esercizio dell’impresa solo rispetto ai beni residui a seguito della chiusura della procedura.
Tribunale Roma 16 settembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La semplice circostanza che i coniugi siano comproprietari di azienda, non è sufficiente di per sé a ritenere che quest’ultima sia necessariamente cogestita da entrambi e che, pertanto, tra essi sussista una società di fatto (artt. 177, 178, c.c.). Nel caso in cui ambedue i coniugi siano proprietari dell’azienda familiare, ai fini dell’indivi¬duazione delle norme applicabili occorre distinguere i rapporti concernenti la proprietà, art. 177 c.c., dai rapporti concernenti la gestione, art. 2247 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 1999, n. 5172 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I titoli di partecipazione azionaria acquistati, in costanza di matrimonio, da uno solo dei coniugi ed allo stesso intestati, sono suscettibili di essere compresi nel regime della comunione legale contemplata dall’art. 177, com¬ma 1, lett. a), c.c.
Cass. civ. Sez. I, 23 settembre 1997, n. 9355 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel regime di comunione legale fra i coniugi, i beni acquistati con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione, senza che vi sia possibilità di esclusione mediante la dichiarazione prevista dall’art. 179, lett. f) c.c., applicabile soltanto all’acquisto effettuato con il prezzo del trasferimento dei beni “personali”, tassativamente elencati nel predetto art. 179. A tal riguar¬do, anche le azioni di società, sottoscritte da un coniuge in sede di aumento di capitale ed in virtù di diritto di opzione, costituiscono incrementi patrimoniali rientranti fra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a), c.c., e quindi nell’oggetto della comunione legale tra coniugi, in quanto, anche se esse non sono meri titoli di credito, ma titoli di partecipazione societaria, l’aspetto patrimoniale di esse è assolutamente prevalente rispetto ai diritti ed agli obblighi connessi con lo status di socio in essi incorporato, ed in quanto il carattere personale del diritto di opzio
Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 1997, n. 4533 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel regime della comunione legale tra i coniugi, perchè i benefici acquistati da uno dei coniugi cadano in co¬munione cosiddetta de residuo, ovvero solo al momento dello scioglimento della stessa e non al momento del loro acquisto, e nei limiti in cui sussistano a tale momento, è sufficiente che siano destinati all’esercizio dell’impresa, ancorchè di tale destinazione non si faccia menzione nell’atto di acquisto, con la conseguenza che tali beni, destinati all’uso predetto, sono liberamente aggredibili, prima di tale evento, da parte dei creditori del coniuge acquirente.
Trib. Trani, 12 maggio 1997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In regime di comunione legale ex art. 177 ss. c.c., data la mancanza di norme che attribuiscano al coniuge non titolare di frutti e proventi di attività separata svolta dall’altro coniuge un potere di controllo sulla sorte degli stessi, ovvero che loro imprimano un vincolo di destinazione, non possono ritenersi fondate la do-manda diretta ad accertare, prima del sorgere della comunione “de residuo”, la violazione, da parte del coniuge titolare dei frutti e dei proventi di cui sopra, degli obblighi nascenti dalla comunione legale, e la cor-relata domanda di ri¬sarcimento dei danni.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 1996, n. 8865 (Famiglia e Diritto, 1996, 515 nota di SCHLESINGER)
L’art. 177 lett. b) e c) c.c., nella parte in cui prevede che divengano oggetto di comunione, al momento del-lo scioglimento di questa “i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati” nonché “i proventi della attività separata di ciascuno dei coniugi, se allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati”, deve essere interpretato nel senso che costituiscono oggetto della cd. comunione “de residuo”, tutti i redditi percetti e percipiendi rispetto ai quali il titolare dei redditi stessi non riesca a da-re la prova che o sono stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comu-nione. (Nella specie, nell’ambito di un giudizio di separazione personale dei coniugi, pretendendo la moglie la condanna del marito, esercente una florida impresa di allevamento di suini, al versamento della “metà dei suoi redditi non utilizzati fino allo scioglimento della comunione” i giudici del merito avevano rigettato la domanda, sul rilievo che pure essendo emersa l’esistenza, in favore del marito, di elevati redditi, derivanti dall’esercizio della detta impresa, non risultavano apprezzabili disponibilità liquide, al momento della cessazione della comunanza dei rispettivi proventi. In termini opposti la S.C. ha cassato tale capo della pronuncia impugnata, enunciando il principio di diritto riassunto sopra).
Cass. civ. Sez. II, 8 maggio 1996, n. 4273 (Nuova Giur. Civ., 1997, I, 394 nota di DE MARTINIS)
Per individuare il regime giuridico applicabile ad un bene immobile assegnato a seguito di liquidazione di so-cietà in nome collettivo a uno dei coniugi, in regime di comunione legale dei beni ed in costanza di matri-monio, deve tenersi conto del particolare profilo relativo alla formazione del patrimonio sociale – cioè all’ac-quisto dei beni che hanno costituito quel patrimonio – alla natura del diritto del socio sul patrimonio di una società di persone e alla qualifica dei beni assegnati a seguito di liquidazione di detto patrimonio. Non è per-tanto sufficiente l’intervenuta assegnazione in costanza di matrimonio per affermare che detti beni rientrino nella comunione legale ai sensi dell’art. 177 lett. a) c.c. I predetti beni non rientrano comunque nella c.d. comunione “de residuo” prevista dagli art. 177 lett. b) e c), in quanto questi ultimi non possono che consistere in beni mobili – denaro in particolare – ovvero in diritti di credito verso terzi.
In regime di comunione legale fra coniugi, i beni che possono formare oggetto della comunione de re-siduo, che si forma ai sensi dell’art. 177 comma 1, lett. b e c, all’atto dello scioglimento della comunione stessa sui frutti non consumati dei beni propri e sui proventi della attività separata, possono consistere esclusivamente in beni mobili o in diritti di credito verso terzi, con esclusione, pertanto, degli immobili.
Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 1996, n. 875 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non costituisce oggetto della comunione legale l’alloggio di cooperativa edilizia assegnato in godimento, ma non ancora trasferito, o il credito vantato verso la cooperativa da parte del socio che validamente rinuncia all’as¬segnazione, in mancanza del trasferimento del diritto dominicale in base al contratto privatistico che richiede l’integrale pagamento del prezzo. Ne consegue che non facendo parte della comunione legale l’assegnazione provvisoria prima del trasferimento, non sussiste altresì alcun diritto della ricorrente ad ottenere la metà del credito spettante al coniuge nei confronti della cooperativa a seguito dell’effettuata rinuncia.

L’obbligo di mantenimento può essere adempiuto con il trasferimento di un immobile

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 7 maggio – 23 settembre 2013, n. 21736
(Presidente Triola – Relatore Falschi)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato l’8 aprile 2000 C.M.A., S.P. e F.C. evocavano, dinanzi al Tribunale di Genova, G.S., rispettivamente, coniuge e genitore degli attori, esponendo che all’epoca della separazione personale dei coniugi, intervenuta in via consensuale (con verbale di omologazione del 15.4.1997), era stata predisposta, con scrittura privata del 23.11.1996, una collaterale complessa convenzione, avente valenza transattiva, con la quale, ad integrazione delle intese formalizzate avanti al Tribunale, erano stati disciplinati i rapporti patrimoniali fra le parti conseguenti allo scioglimento della comunione legale, prevedendo l’obbligo a carico del convenuto del trasferimento di determinati beni mobili ed immobili in favore della moglie e dei figli, il quale non solo si rendeva inadempiente, ma poneva, altresì, in essere comportamenti intimidatori nei confronti degli attori per indurli a recedere dal dare esecuzione agli accordi, per i quali riportava una condanna penale; tanto premesso, formulavano domanda ex art. 2932 c.c. per conseguire il trasferimento dei beni di cui alla citata scrittura privata.

Instaurato il contraddicono, nella resistenza del convenuto, il quale assumeva di non avere sottoscritto alcun accordo, per cui disconosceva formalmente la sottoscrizione ivi apposta ex art. 214 c.p.c., difese che modificava nel senso di riconoscimento della firma in calce al documento, ma negando di riconoscere le date manoscritte in ogni foglio e l’intero contenuto dattiloscritto del documento, per cui spiegava riconvenzionale per la declaratoria di falsità della convenzione, e all’udienza del 20.3.2003 presentava personalmente querela di falso, per cui a fronte della dichiarazione degli attori di volersi avvalere del documento contestato, con l’intervento del p.m., intervenuta nel giudizio B..B. che aderiva alle domande attoree, il Tribunale adito, rimessa la causa in decisione, rigettava la domanda di querela di falso proposta dal convenuto e in accoglimento di quella attorea, in attuazione della scrittura privata del 23.11.1996, disponeva il trasferimento in favore degli attori, P. e F.C.S., pro indiviso fra loro, del diritto di nuda proprietà sull’appartamento sito in …, acquistato in regime di comunione legale dai coniugi e cointestato ad essi, assegnando alla C. il diritto di usufrutto vitalizio esclusivo su detto cespite; il diritto di nuda proprietà sull’appartamento sito in …, acquistato in regime di comunione legale dai coniugi e cointestato ad essi, assegnando a S.G. il diritto di usufrutto vitalizio esclusivo su detto cespite (diritto di usufrutto attualmente spettante a B.B.); il diritto di nuda proprietà sul locale interrato ad uso box sito in (omissis) , acquistato in regime di comunione legale dai coniugi ma intestato esclusivamente alla C., assegnando a G..S. il diritto di usufrutto vitalizio esclusivo su detto cespite; dichiarava il S. tenuto a mettere a disposizione e comunque a consegnare alla C. la somma di L. 20.000.000, con i frutti maturati dal 23.11.1996 al 30.6.1999, oltre agli interessi dalla domanda al saldo; dichiarava il S. tenuto a mettere a disposizione e comunque a consegnare ai figli, in solido fra loro, la somma di L. 55.000.000, con i frutti maturati dal 23.11.1996 al 22.4.1999, oltre alla rivalutazione monetaria da quest’ultima data e agli interessi legali dall’aprile 2000 (data della domanda) al saldo.

In virtù di appello interposto da G.S., con il quale censurava sotto plurimi profili la decisione circa il mancato accoglimento della proposta querela di falso del documento del 23.11.1996, la Corte di appello di Genova, nella resistenza degli appellati, i quali proponevano appello incidentale condizionato, nonché della interveniente B. , la quale chiedeva solo darsi atto della insussistenza di domande dell’appellante nei suoi confronti, in parziale accoglimento dell’appello e per l’effetto in parziale riforma della decisione impugnata, riduceva la condanna dell’appellante alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 226 c.p.c., alla misura di Euro 20,00, confermate in ogni altra sua parte le restanti statuizioni.

A sostegno della decisione adottata la corte distrettuale evidenziava che quanto alla denuncia di irregolarità del procedimento incidentale conseguito all’impugnazione del documento ex art. 223 c.p.c., non ponendo la censura alcun profilo di non veridicità della verbalizzazione, non poteva dare luogo ad alcuna nullità; nel merito, che proprio l’aver dato atto nel ricorso congiunto per la separazione dell’esistenza di un separato accordo, palesava la correttezza della ratio decidendi del giudice di prime cure che si basava sulla esistenza di un accordo parallelo e distinto rispetto alle condizioni di cui al ricorso per separazione consensuale e sulla esistenza di un documento rispondente a detta volontà negoziale.

Aggiungeva che l’eccezione di nullità della scrittura per carenza di forma in quanto prevedendo il trasferimento, a titolo gratuito, ai figli di un cospicuo patrimonio, avrebbe dovuto essere formalizzato a norma dell’art. 782 c.c., non poteva trovare accoglimento, giacché dal comune intento delle parti contraenti emergeva l’interesse giuridicamente qualificabile come preordinato al conseguimento di un risultato solutorio in relazione agli obblighi di mantenimento gravanti sul genitore nei confronti dei figli stessi, causa negoziale solutoria incompatibile con il prospettato animus donandi. Né rilevava la mancanza di sottoscrizione dell’atto da parte della B., relativamente al diritto di usufrutto sull’immobile sito in …, per avere egli ceduto esclusivamente il suo diritto di nuda proprietà del cespite, mentre la rinuncia della stessa all’usufrutto costituiva solo causa di caducazione del diritto reale limitato.

Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Genova ha proposto ricorso per cassazione G.S., basato su sei motivi, al quale hanno replicato la C. ed i figli S.P. e F.C. con controricorso, illustrato anche da memoria ex art. 378 c.p.c.; non costituita la B., pure intimata.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia contraddittoria ed illogica motivazione con riferimento alla errata attribuzione di natura solutoria, connessa all’obbligo alimentare, in ordine al trasferimento dei diritti reali immobiliari disposti a titolo gratuito e per mera liberalità in favore dei figli, con interpretazione abnorme, non potendo tale tipo di dazione assolvere all’obbligazione alimentare. Prosegue il ricorrente affermando che la corte di merito contraddittoriamente non avrebbe chiarito la ragione per la quale il testo allegato al verbale di separazione non sarebbe quello prodotto nel giudizio de quo e ciò nonostante ha ricollegato teleologicamente i due accordi. Il secondo motivo, con il quale è lamentata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. per avere il giudice proceduto all’interpretazione della convenzione nel modo sopra esposto, culmina nel seguente quesito di diritto: “L’indagine del giudice di merito che ha condotto nel caso di specie ad individuare il comune intento dei contraenti ove basata su motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria (per i motivi ut sopra evidenziati) integra violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. ed è censurabile nella sede di legittimità perché non sorretta da motivazione esauriente ed immune da vizi logici?”.

I motivi, che in ragione della loro connessione argomentativa vengono trattati congiuntamente, sono infondati.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte le pattuizioni intervenute tra coniugi, che abbiano in corso una separazione consensuale, con cui si obblighino a trasferire determinati beni facenti parte della comunione legale, successivamente od in vista dell’omologazione della loro separazione personale consensuale ed al dichiarato fine della integrativa regolamentazione del relativo regime patrimoniale, non configura una convenzione matrimoniale ex art. 162 c.c., postulante il normale svolgimento della convivenza coniugale ed avente riferimento ad una generalità di beni anche di futura acquisizione, né un contratto di donazione, avente come causa tipici ed esclusivi scopi di liberalità (e non l’esigenza di assetto dei rapporti personali e patrimoniali dei coniugi separati), bensì un diverso contratto atipico, con propri presupposti e finalità (Cass. 11 maggio 1984 n. 2887; Cass. 23 dicembre 1988 n. 2887; Cass. 12 settembre 1997 n. 9034).

Invero in base all’impianto complessivo dell’art. 711 c.p.c. (in combinato disposto con l’art. 158 c.c., comma 1), il procedimento in detta norma descritto dà vita ad una fattispecie complessa nella quale il contenuto del regolamento concordato tra i coniugi, se trova la sua fonte nel relativo accordo, acquista però efficacia giuridica soltanto in seguito al provvedimento di omologazione, cui compete l’essenziale funzione di controllare che i patti intervenuti tra i coniugi siano conformi agli interessi superiori della famiglia (Cass. 5 gennaio 1984 n. 14). Nel caso in cui, nell’ambito di un accordo destinato a disciplinare una separazione consensuale, sia inserita anche una convenzione avente una sua autonomia, in quanto non immediatamente riferibile né collegata al contenuto necessario del regime di separazione, si tratta di compiere una indagine ermeneutica, nel quadro dei principi di cui agli artt. 1362 c.c., e segg., diretta a stabilire se a quella convenzione possa essere riconosciuta autonoma validità ed efficacia, infatti, alle pattuizioni convenute dai coniugi prima del decreto di omologazione e non trasfuse nell’accordo omologato, può riconoscersi validità solo quando assicurino una maggiore vantaggiosità all’interesse protetto dalla norma (ad esempio concordando un assegno di mantenimento in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione), o quando concernano un aspetto non preso in considerazione dall’accordo omologato e sicuramente compatibile con questo in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, o quando costituiscano clausole meramente specificative dell’accordo stesso, non essendo altrimenti consentito ai coniugi incidere sull’accordo omologato con soluzioni alternative di cui non sia certa a priori la uguale o migliore rispondenza all’interesse tutelato attraverso il controllo giudiziario di cui all’art. 158 c.c. (Cass. 24 febbraio 1993 n. 2270; Cass. 20 ottobre 2005 n. 20290).

Nel caso di specie la Corte di appello si è conformata a questi principi, perché ha esaminato la convenzione intervenuta tra i coniugi con la scrittura privata del 23 novembre 1996 (omologato il verbale di separazione il 15.4.1997) ed ha affermato che tale convenzione non poteva ritenersi nulla per carenza di forma prevedendo il trasferimento, a titolo gratuito, di un cospicuo patrimonio ai figli proprio perché garantiva, nel comune intento delle parti, l’interesse preordinato al conseguimento di un risultato solutorio degli obblighi di mantenimento dei figli gravante sui genitori, né appariva in contrasto con norme imperative di legge o con diritti indisponibili dei due coniugi.

D’altra parte questa Corte ha reiteratamente affermato che l’obbligo di mantenimento dei figli minori, o maggiorenni non autosufficienti, può essere adempiuto dai genitori in sede di separazione personale o divorzio (id est: di cessazione degli effetti civili del matrimonio) mediante un accordo – formalmente rientrante nelle previsioni, rispettivamente, degli art. 155 c.c., comma 7, art. 158 c.c., comma 2, e dell’art. 711 c.c., comma 3, e della L. n. 898 del 1970, artt. 4, comma 8, e art. 6, comma 9 – il quale, anziché attraverso una prestazione patrimoniale periodica, od in concorso con essa, attribuisca o li impegni ad attribuire ai figli la proprietà di beni mobili od immobili, e che tale accordo non realizza una donazione, in quanto assolve ad una funzione solutoria – compensativa dell’obbligatone di mantenimento, in quanto costituisce applicazione del principio, stabilito dall’art. 1322 c.c., della libertà dei soggetti di perseguire con lo strumento contrattuale interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (cfr., Cass. 2 febbraio 2005 n. 2088; Cass. 17 giugno 2004 n. 11342; Cass. 21 dicembre 1987 n. 9500).

In tale caso l’accordo comporta l’immediata e definitiva acquisizione al patrimonio dei figli della proprietà dei beni che i genitori, od il genitore, abbiano loro attribuito o si siano impegnati ad attribuire e, in questo secondo caso, il correlativo obbligo, sanzionato in forma specifica dall’art. 2392 c.c., trova il suo titolo nell’accordo che estingue la prestazione di mantenimento, nei limiti costituiti dal valore dei beni attribuiti o da attribuire, convenzionalmente liquidata e sostituita dall’impegno negoziale de quo (cfr., Cass. 5 settembre 2003 n. 12939).

La corte territoriale ha, dunque, correttamente interpretato l’accordo de quo, alla luce dei principi sopra esposti, e non è condivisibile la censura formulata di carente o contraddittoria motivazione.

Con il terzo motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 782 c.c., nonché dell’art. 1421 c.c. per essere la corte territoriale incorsa nell’ulteriore violazione omettendo di rilevare la nullità dell’atto de quo che redatto in forma privata, è totalmente mancante della forma solenne necessaria per la donazione. A corollario del mezzo viene posto il seguente quesito di diritto: “Nel caso di specie, sulla preliminare premessa (ut sopra) che il negozio di cui è causa contiene, almeno in parte, disposizioni a titolo di mera liberalità, e quindi integra una donazione, consegue violazione e/o falsa applicazione degli artt. 782 e 1421 c.c. per non essere stata dichiarata d’ufficio la sua nullità totale o parziale per mancanza della forma solenne?”.

La condivisione della ratio da parte del giudice di merito che ha disconosciuto all’attribuzione degli immobili, di cui alla convenzione del 23.11.1996, natura di donazione, oggetto di eccezione del convenuto, esclude che sia ravvisabile il lamentato vizio di violazione delle disposizioni in tema di forma solenne.

Con il quarto mezzo è lamentata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2932 c.c. giacché la convenzione sottoscritta è assoggetta alla condizione vincolante ed assoluta che la titolare del diritto di usufrutto (relativamente all’appartamento sito in XXXX) rinunci a detto diritto reale in favore del ricorrente, condizione non avverata al momento della introduzione del giudizio, per cui andava ritenuta la improponibilità della domanda. A conclusione del mezzo è posto il seguente quesito di diritto: “Era nel caso di specie improponibile la domanda ex art. 2932 c.c. finalizzata ad ottenere l’attuazione del contratto preliminare essendo il medesimo assoggettato a condizione non ancora avveratasi al momento della proposizione della domanda giudiziale e neppure in corso del giudizio?”.

Anche detto mezzo è palesemente infondato.

Si osserva che, diversamente dall’assunto del ricorrente, la corte territoriale ha accertato la successiva rinuncia della B. all’usufrutto sull’immobile sito in XXXX, come emergeva dal tenore della comparsa di costituzione dell’interveniente, “avendo a cuore l’interesse dei coniugi e dei loro figli”.

Orbene, tale essendo la ratio della decisione della corte di appello, risulta evidente come la doglianza non colga nel segno, non censurando il profilo posto a fondamento della statuizione, con conseguente irretrattabilità e definitività dell’affermazione circa la caducazione del diritto reale limitato e conseguente fenomeno della consolidazione in capo al ricorrente della piena proprietà del bene da trasferire, per non avere formato oggetto di impugnazione.

Con il quinto ed il sesto motivo, collegati dallo stesso ricorrente, è lamentata la omessa motivazione sull’eccezione di mancanza dell’avveramento della condizione, con conseguente e correlata violazione e falsa applicazione dell’art. 782 c.c., per essere stata la rinuncia della B. meramente preannunciata nella comparsa di costituzione e risposta. Il motivo, relativamente alla denunciata violazione di legge, pone a conclusione il seguente quesito: “La rinuncia dell’usufrutto al diritto reale, che determina quindi ipso iure il consolidamento della piena proprietà in capo al nudo proprietario, ove realizzatasi senza corrispettivo e per puro spirito di liberalità integra i presupposti dell’atto di donazione e deve quindi essere formalizzata nella forma solenne prevista dall’art. 782 c.c., con la conseguenza che, nel caso di specie, mancando tale forma, essa è nulla?”.

Le censure – che pongono la medesima questione (mancato avveramento della condizione) – sono inammissibili, introducendo una circostanza che non risulta essere stata prospettata nei precedenti gradi di merito, in difetto di ogni specifica indicazione al riguardo da parte del ricorrente e non avendola la corte di appello riportata nella decisione impugnata, e che quindi non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità, richiedendo indagini di fatto in ordine all’esatto contenuto nel contratto per cui è causa ed alla reale volontà delle parti (sull’inammissibilità di questioni nuove in sede di ricorso per cassazione, cfr. ex pluribus, Cass. n. 25546 del 2006).

All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, per il principio della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Solo i provvedimenti a carattere decisorio in materia di amministrazione di sostegno possono essere impugnati ex art. 720 bis c.p.c.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 14 luglio – 28 settembre 2017, n. 22693
Presidente Di Palma – Relatore Di Marzio
Fatti di causa
con il provvedimento di reclamo impugnato, la Corte d’Appello di Bologna ha rigettato il reclamo proposto dalle odierne ricorrenti avverso la
nomina dell’Avv.to C.M. , estranea alla famiglia, quale amministratore di sostegno di t.a. , di cui T.A. è figlia, mentre M.A. , madre della
prima, ne è stata la convivente. La necessità della nomina, per vero, era stata condivisa anche dai fratelli dell’amministrato, gli odierni
controricorrenti. La ex convivente M.A. aveva domandato di essere nominata Amministratore di sostegno. Il Giudice Tutelare, però,
riscontrato che tra la figlia ventiduenne A. , e sua madre M.A. , da una parte, ed i fratelli del t.a. , dall’altra, si riscontrava una vivace
contrapposizione, aveva proceduto sì all’apertura dell’amministrazione di sostegno, stimandone sussistere la necessità, ma aveva preferito
nominare amministratore un soggetto estraneo alla famiglia. Contro questo provvedimento le odierne ricorrenti hanno proposto reclamo ex
art. 720 bis innanzi alla Corte d’Appello di Bologna, non contestando l’apertura dell’amministrazione di sostegno, bensì la sola scelta di
nominare quale amministratore una persona che le reclamanti affermavano non essere la più idonea allo svolgimento della funzione. La Corte
d’Appello, informate le parti che avrebbe valutato la questione dell’ammissibilità del reclamo perché potessero pronunciarsi in merito, a
seguito della discussione dichiarava effettivamente l’inammissibilità del reclamo, perché l’art. 720 bis cod. civ. consente la proposizione di
reclamo innanzi alla Corte d’Appello, ma solo in relazione ai provvedimenti di carattere decisorio, quali sono quelli che dispongono l’apertura
o la chiusura dell’amministrazione, e sono perciò assimilabili alle sentenze. Il reclamo in Corte d’Appello non è però un mezzo di
impugnazione utilizzabile in relazione ai provvedimenti che abbiano carattere gestorio, quale deve considerarsi anche la scelta della persona
dell’amministratore di sostegno che occorre nominare.
Avverso la decisione della Corte d’Appello di Bologna propongono reclamo T.A. e M.A. , affidandosi a due motivi. Resistono con controricorso
T.G. , Ti.An. e Ti.Gi. . Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1.1. – Con il primo motivo di impugnazione, proposto ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., le ricorrenti contestano la
violazione e falsa applicazione degli artt. 720 bis, co. III, e 739 cod. proc. civ., nonché degli artt. 405 cod. civ., e 45 disp. att. cod. civ., per
avere la Corte territoriale infondatamente sostenuto che possa distinguersi la natura della concreta disposizione impugnata ai fini della sua
contestazione, mentre l’art. 720 bis, comma II, cod. proc. civ., prevede che avverso il provvedimento di nomina dell’amministratore di
sostegno è ammesso reclamo alla Corte d’Appello, senza indicare alcuna distinzione. Nel caso di specie le ricorrenti hanno contestato proprio
il provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno.
1.2. – Con il secondo motivo di impugnazione, proposto ancora ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., le ricorrenti
contestano la violazione e falsa applicazione degli artt. 404, 405, 407, 408 e 410 cod. civ., nonché l’art. 44 disp. att. cod. civ., per avere la
Corte d’Appello trascurato che deve essere nominato amministratore di sostegno del bisognoso, la persona più idonea, quella che più lo
conosce e maggiormente è in grado di interpretarne i desideri. Risulta pertanto inidoneo a svolgere la funzione di amministratore di sostegno
di t.a. un soggetto estraneo alla sua famiglia ed ai suoi affetti, e sono invece idonee le odierne ricorrenti, che non mancano di ricordare la
facoltà di cui dispone la Suprema Corte di decidere la causa nel merito, quando non risultino necessari ulteriori accertamenti di fatto.
2.1. – 2.2. – I motivi di impugnazione possono essere esaminati congiuntamente, perché entrambi risultano compromessi da un vizio
pregiudiziale. Con il primo motivo le ricorrenti si lamentano che la Corte d’Appello non abbia ritenuto di dover pronunciare su un reclamo
proposto per contestare la nomina di persona non gradita quale amministratore di sostegno. Con il secondo si propongono argomenti per
sostenere che esistono, nel caso di specie, persone più idonee ad essere nominate amministratori di sostegno, in particolare le stesse
ricorrenti, e si domanda alla Suprema Corte l’espressione di una tipica valutazione di merito.
La impugnata decisione assunta dalla Corte d’Appello di Bologna, però, applica correttamente il diritto vigente ed appare anche esaustiva,
oltreché conforme al consolidato orientamento motivatamente e ripetutamente espresso in materia dalla Suprema Corte, e pertanto non
merita censura.
La Cassazione ha affermato con chiarezza, ad esempio, che “è inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti emessi in sede
di reclamo in tema di designazione o nomina di un amministratore di sostegno, che sono emanati in applicazione dell’art. 384 c.c.
(richiamato dal successivo art. 411, comma 1, c.c.) e restano logicamente e tecnicamente distinti da quelli che dispongono
l’amministrazione, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, quali
quelli che dispongono l’apertura o la chiusura dell’amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed
inabilitazione, senza estendersi ai provvedimenti a carattere gestorio”, Cass. sez. I, sent. 16.2.2016, n. 2985. Altrettanto esplicita, peraltro,
la Suprema Corte si era già manifestata anni prima, spiegando che “è inammissibile il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 720-bis,
ultimo comma, cod. proc. civ., avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di rimozione e sostituzione ad opera del giudice
tutelare di un amministratore di sostegno, avendo tali provvedimenti carattere meramente ordinatorio ed amministrativo e dovendo riferirsi
tale norma soltanto ai decreti, quali quelli che dispongono l’apertura o la chiusura dell’amministrazione, di contenuto corrispondente alle
sentenze pronunciate in materia di interdizione ed inabilitazione, a norma dei precedenti arti. 712 e seguenti, espressamente richiamati dal
primo comma dell’art. 720-bis”, Cass. sez. VII, ord. 10.5.2011, n. 10187.
Nessuna incidenza assume, in ordine alla individuazione dell’Autorità giudiziaria competente a conoscere del reclamo avverso il
provvedimento di prime cure, il dato di fatto che i provvedimenti di natura gestoria in esame siano contenuti nell’ambito del decreto che ha
pure disposto l’apertura dell’amministrazione di sostegno. Non è dato rinvenire nell’ordinamento vigente, invero, un principio assoluto che
imponga di assoggettare al medesimo regime di impugnazione le diverse statuizioni che possono essere contenute in un medesimo
provvedimento giurisdizionale, le quali seguiranno ognuna il regime impugnatorio proprio della categoria di appartenenza.
I provvedimenti di natura gestoria adottati dal Giudice Tutelare, del resto, sono comunque suscettibili di impugnazione, ma mediante
reclamo da proporsi, ai sensi dell’art. 739 cod. proc. civ., innanzi al Tribunale in composizione collegiale, da ultima, cfr. Cass. sez. I, cent.
13.1.2017, n. 784, ma anche di questa facoltà gli odierni ricorrenti si sono peraltro già avvalsi, come emerge dalla incontestata
documentazione che è stata allegata dai controricorrenti alla loro memoria.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Le spese di lite seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto da T.A. ed M.A. , che condanna al pagamento solidale delle spese di lite che liquida, in
favore di ciascuna delle costituite resistenti, in complessivi Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per
cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Dispone, ai sensi dell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, che, in caso di riproduzione per la diffusione della presente decisione,
le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti menzionati siano omessi.