Nell’azione volta a far valere l’invalidità del testamento l’intervento del PM non è necessario ed è onere della parte che vi ha interesse (alla validità) a dare la prova della capacità del de cujus a disporre testamento

Cass. civ. Sez. VI – 2, 10 luglio 2017, n. 17024
ORDINANZA
sul ricorso 5899/2016 proposto da:
L.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CONCILIAZIONE 44, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO BRIZZOLARI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CRISTINA LAZZARINI, WALTER LAGANA’ giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.G., D.R., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA GREGORIO VII 396, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO GIUFFRIDA, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIAN EUGENIO FERLA in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1252/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 11/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/04/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
P.G. e D.M.R., assumendo di essere state nominate eredi universali di R.V., deceduta in data (OMISSIS), con testamento olografo del 28/2/2006, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Savona, L.C. che a sua volta era stata istituita erede universale dalla R. con testamento olografo recante la data successiva del 29/9/2006, assumendo che il testamento a favore della convenuta era annullabile o nullo.
Il Tribunale in primo grado rigettava la domanda attorea, escludendo che la volontà testamentaria fosse affetta da vizi del volere ed escludendo altresì che la de cuius fosse incapace di intendere e di volere alla data della redazione dell’atto di ultima volontà oggetto di impugnativa.
A seguito di appello proposto dalle attrici, la Corte d’Appello di Genova con la sentenza n. 1252/2015 dell’11/11/2015, riformava integralmente la decisione di prime cure, e riteneva che il testamento fosse invalido exart. 591 c.c., in quanto redatto dalla de cuius, allorché era del tutto incapace di intendere e di volere.
Dopo avere osservato che in realtà le attrici avessero proposto anche la domanda di annullamento ai sensi della norma ora citata, dovendosi altresì ritenere che la decisione del Tribunale era comunque scesa nella disamina nel merito della domanda, senza che la questione della sua ammissibilità fosse stata contestata con uno specifico motivo di appello incidentale da parte della L., nel merito riteneva non condivisibile la valutazione delle risultanze istruttorie sì come operata dal giudice di primo grado.
A tal fine valorizzando gli esiti della CTU, e ritenendo invece inattendibili le deposizioni rese dai testi addotti da parte convenuta, reputava che alla data del testamento oggetto di causa, la de cuius già versava in condizioni di salute tali da renderla del tutto incapace di intendere e di volere, non potendosi attribuire rilievo in senso contrario agli episodi riferiti dalle testi in questione.
Opinava che quindi fosse onere della beneficiaria del testamento dimostrare che lo stesso era stato redatto in un momento di lucido intervallo, non risultando nemmeno adeguatamente dimostrata l’esistenza di un rapporto affettivo o di familiarità tra la de cuius e la L. che potesse giustificare la designazione della seconda quale erede universale.
L.C. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di cinque motivi.
P.G. e D.R. hanno resistito con controricorso.
Il ricorso è manifestamente infondato.
Il primo motivo di ricorso, con il quale si denunzia la nullità della sentenza d’appello per la violazione degliartt. 70, 71, 158 e 331 c.p.c., per la mancata partecipazione al giudizio di secondo grado del Pubblico Ministero che pure era intervenuto nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale, è evidentemente privo di fondamento.
E’ indubbio che, esulando la fattispecie dalle ipotesi per le quali è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero a mente dei primi due commidell’art. 70 c.p.c., (non potendosi fare rientrare nell’ambito delle azioni riguardanti lo stato e la capacità delle persone, la controversia concernente la validità del testamento per incapacità naturale della de cuius), l’intervento pur spiegato in primo grado va ricondotto all’ipotesi di intervento facoltativo di cui all’ultimo comma del menzionatoart. 70 c.p.c..
In tal caso, costituisce orientamento più volte ribadito da questa Corte quello per il quale nei giudizi in cui l’intervento del pubblico ministero è facoltativo a normadell’art. 70 c.p.c., u.c., questi non acquista la qualità di parte necessaria, sicché non sussiste, in grado di appello, la necessità di integrare il contraddittorio nei suoi confronti (Cass. n. 12228/2003; Cass. n. 3093/1974).
I motivi dal secondo al quinto possono invece essere congiuntamente esaminati, in quanto gli stessi, sotto vari profili censurano la sentenza impugnata, che non avrebbe fatto corretta applicazione delle previsioni in materia di invalidità del testamento per incapacità della testatrice, procedendo ad un’indebita inversione dell’onere della prova (onerando cioè la L. della dimostrazione dell’effettiva capacità della de cuius al momento del testamento).
Inoltre, la decisione gravata non avrebbe dato adeguata contezza delle critiche mosse all’operato del CTU, nonostante le corpose contestazioni sollevate dal proprio perito di parte, violando, anche quanto alla valutazione degli altri mezzi istruttori, le previsioni di cui agliartt. 115 e 116 c.p.c..
Inoltre si assume che vi sarebbe stata l’omessa disamina di fatti decisivi per il giudizio (quali il rilascio e la revoca della delega bancaria, ovvero le risposte dell’attrice P. in sede di interrogatorio formale, quanto all’utilizzo della delega stessa) nonché, quanto alla verifica circa l’esistenza di un rapporto affettivo tra la ricorrente e la de cuius, l’omessa disamina del fatto decisivo rappresentato dalla indicazione della prima nel testamento, quale amica e collaboratrice.
I motivi nel loro complesso in realtà mirano unicamente ad una non consentita rivalutazione dei fatti di causa ad opera di questa Corte, sollecitando quindi un diverso apprezzamento delle circostanze fattuali così come insindacabilmente operato da parte dei giudici di merito.
Trattasi di conclusione che appare oltre modo impedita alla luce della novellata previsione di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile al presente procedimento ratione temporis, che nell’interpretazione che ne è stata offerta dalle Sezioni Unite che (cfr. Cass. 8054/2014), è stata intesa nel senso che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”.
In tal ottica la decisione gravata, con dovizia di argomentazioni, ha chiarito le ragioni in base alle quali riteneva inattendibili alcune deposizioni testimoniali, evidenziando altresì come questa valutazione si riflettesse sull’interpretazione delle deposizioni di altri testi (quale ad esempio quella della dott.ssa C.), portando ad una valutazione diversa da quella invece sostenuta dal Tribunale.
La sentenza ha ampiamente argomentato circa le ragioni in base alle quali era da condividere l’assunto del CTU (cfr. pag. 12 e ss.), al quale erano peraltro state sottoposte le osservazioni critiche del perito di parte ricorrente, non potendosi ritenere che la divergenza di opinioni infici la decisione che invece mostri di preferire le valutazioni espresse dal consulente d’ufficio.
La sentenza si fonda sul convincimento, chiaramente di natura fattuale, e come detto riservato al giudice di merito, circa la totale incapacità della de cuius già all’epoca della redazione del testamento oggetto di causa, avendo altresì fornito giustificazione dell’irrilevanza a tal fine delle condotte riferite dai testi addotti dalla convenuta, e tra queste, in particolare, del rilascio e della revoca della delega bancaria, che non costituiscono quindi affatto circostanze non esaminate.
Ne consegue che non appare in alcun modo configurabile il dedotto vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge exart. 360 c.p.c., n. 3, che consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass. n. 26307/2014). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 8315/2013).
E’ evidente che le doglianze di parte ricorrente presuppongono che sia erronea la valutazione in fatto compiuta dalla Corte distrettuale circa la assoluta incapacità della de cuius, sicchè una volta reputata insindacabile tale valutazione, devono reputarsi anche prive di fondamento le censure con le quali si assume essere stata violata la previsione di cuiall’art. 591 c.c., ovvero che lamentano un’indebita inversione dell’onere della prova.
In particolare quanto a quest’ultimo profilo, deve evidenziarsi che la Corte di merito, anche qui con valutazione in fatto non sindacabile in questa sede, ha ritenuto a monte che la patologia di cui era affetta la de cuius alla data cui risale il testamento fosse tale da determinarne l’assoluta incapacità di intendere e di volere, e con carattere permanente, sicché, proprio alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, era appunto onere della parte che invoca la validità del testamento, e quindi della ricorrente, dimostrare che lo stesso era stato predisposto in un lucido intervallo, dovendosi quindi escludere che la sentenza gravata abbia indebitamente invertito l’onere della prova.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore delle controricorrenti che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.

La Corte Costituzionale riafferma il principio che l’acquisizione di una nuova identità di genere, in quanto risultato di un processo individuale, non postula la necessità di intervento chirurgico

Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185
ORDINANZA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 1, dellaL. 14 aprile 1982, n. 164(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dal Tribunale ordinario di Avezzano, nel procedimento vertente tra S. T. e Pubblico ministero presso la Procura della Repubblica del Tribunale ordinario di Avezzano, con ordinanza del 12 gennaio 2017, iscritta al n. 58 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato.
Ritenuto che il Tribunale ordinario di Avezzano ha sollevato, in riferimento agliartt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 1, dellaL. 14 aprile 1982, n. 164(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nell’interpretazione data dalla sentenza n. 221 del 2015 di questa Corte e dalla sentenza 20 luglio 2015, n. 15138 della Corte di cassazione, in quanto il riconoscimento del diritto alla rettifica dell’attribuzione di sesso, anche in assenza di modifica dei caratteri sessuali primari, finirebbe per prevalere sul diritto della gran parte dei consociati a conservare “il pieno duopolio uomo/donna”, comprimendo irragionevolmente i doveri inderogabili di solidarietà sociale, e imporrebbe alla collettività la necessità di adeguarsi alla sua estrinsecazione anche nei confronti di minori, lavoratori, istituzioni, imponendo loro un mutamento dei tradizionali valori, comunemente accettati;
che il giudice a quo è chiamato a decidere in ordine ad una domanda di rettificazione dell’attribuzione di sesso, da maschile a femminile, in assenza dell’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali; d’altra parte, la consulenza tecnica d’ufficio, acquisita nel corso del giudizio, ha affermato l’idoneità psicofisica della parte istante al cambiamento di genere;
che, dopo avere illustrato le recenti pronunce della Corte di cassazione (prima sezione civile, sentenza 20 luglio 2015, n. 15138) e di questa Corte (sentenza n. 221 del 2015), con le quali è stata riconosciuta al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare il proprio percorso di transizione, il rimettente deduce che nelle stesse sarebbe mancata la dovuta attenzione verso l’aspetto relazionale, essendo stata trascurata, sia la valutazione dell’entità delle modificazioni ritenute necessarie, sia la rilevanza degli effetti di tale impostazione sulla collettività;
che, ad avviso del giudice a quo, laddove anche nel trattamento ormonale fosse ravvisata una costrizione della propria identità personale, o comunque una violazione del diritto alla salute, si arriverebbe all’accoglimento di qualsiasi istanza di rettifica, ancorché sorretta dal solo elemento volontaristico, ossia dall’esigenza di adeguare la propria identità fisica a quella psichica, a prescindere da qualsiasi intervento;
che, tuttavia, il dato normativo continua a richiedere l’intervenuto mutamento dei caratteri sessuali, poiché l’inciso “quando necessario”, contenuto nell’art.31, comma 4, delD.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150(Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo54dellaL. 18 giugno 2009, n. 69), sarebbe riferibile ai casi nei quali il mutamento sia l’effetto di malformazioni congenite, ovvero di trattamenti chirurgici eseguiti all’estero;
che, a suo avviso, la domanda di rettificazione dovrebbe, quindi, essere respinta laddove essa si fondi esclusivamente “su un desiderio irrefrenabile del soggetto agente, senza che questi appaia conforme, anche esteticamente ed esteriormente, al sesso richiesto”; viceversa, l’accezione del diritto all’identità di genere sostenuta dalle due pronunce in esame varrebbe a configurare l’identità sessuale come oggetto di una mera scelta soggettiva dell’interessato, di cui la consulenza medica si limiterebbe ad accertare la serietà ed univocità;
che, d’altra parte, tale impostazione trascurerebbe la considerazione dei rapporti interpersonali; viceversa, il principio personalista andrebbe declinato anche nelle relazioni sociali, attraverso un bilanciamento dell’interesse del singolo con l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici;
che, sotto questo profilo, si osserva che la vita di relazione conterrebbe numerose occasioni di contatto, nelle quali rilevano anche i caratteri sessuali primari della persona; in ciascuna di esse ricorrerebbe l’esigenza di stabilirne con sicurezza il “genere”, al fine di evitare che alcuno, a fortiori se minorenne, possa essere disorientato in ordine all’identità di genere del “mutato di sesso”;
che, viceversa, laddove l’elemento documentale prevalesse su quello fisico, la società non sarebbe più fondata sul “duopolio uomo/donna”, ma su un numero indeterminato di generi; si verificherebbe una “promiscuità fondata sul dato cartolare”, in danno della maggioranza dei cittadini, la quale, essendo ancorata ad altri valori, sarebbe costretta “ad elaborare regole di comportamento certamente molto lontane dalla tradizione secolare”;
che, pertanto, ad avviso del rimettente, sarebbe insufficiente il mutamento dei caratteri secondari, dovendosi attribuire rilievo anche ai caratteri sessuali primari; la scelta meramente personalistica del proprio orientamento sessuale costituirebbe un aspetto sicuramente degno di considerazione, ma dovrebbe essere valutata alla luce di regole di analogo rilievo costituzionale, che devono essere bilanciate con criteri di ragionevolezza e proporzionalità;
che si porrebbe un problema di tutela delle maggioranze ed una questione di parità di trattamento “al contrario”; si dovrebbe, infatti, rendere compatibile la situazione di coloro che abbiano ottenuto la rettifica anagrafica senza intervento chirurgico con il diritto degli altri consociati a ricevere servizi differenziati in ragione della propria appartenenza ad un sesso;
che, ad avviso del rimettente, sarebbe privo di fondamento costituzionale l’adeguamento che la società sarebbe chiamata a compiere al fine di consentire l’integrale esplicazione del diritto in esame;
che, inoltre, nel caso oggetto del giudizio a quo, la consulenza tecnica d’ufficio attesterebbe un'”idoneità alla prosecuzione dell’iter transizionale”, ma non la sua definitiva maturazione; si avrebbe, infatti, la percezione autonoma e soggettiva della condizione femminile, ma non già quella obiettiva, da parte della collettività; tale situazione non sarebbe indicativa di un definitivo ed irreversibile cambiamento di genere ma, anzi, porterebbe al riconoscimento del transgender come tertium genus, rispetto al quale verrebbero in rilievo le sole caratteristiche psichiche del soggetto, restando, viceversa, molto sfumata l’identità sessuale secondaria;
che viceversa, laddove si escludesse la rilevanza dei soli aspetti psicologici, ovvero del trattamento ormonale, il test sui caratteri sessuali secondari non sarebbe così evanescente e, pertanto, inidoneo a dimostrare la definitiva trasmigrazione all’altro genere;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Considerato che il Tribunale ordinario di Avezzano ha sollevato, in riferimento agliartt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 1, dellaL. 14 aprile 1982, n. 164(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso);
che il giudice a quo ritiene che la disposizione censurata – nell’interpretazione adottata dalla sentenza n. 221 del 2015 di questa Corte e da quella della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20 luglio 2015, n. 15138 – contrasti con gliartt. 2 e 3 Cost., perché il riconoscimento del diritto alla rettifica dell’attribuzione di sesso, anche in assenza di intervento chirurgico, finirebbe per prevalere sul diritto della gran parte dei consociati a conservare il pieno “duopolio uomo/donna” ed implicherebbe che la società debba adeguarsi all’estrinsecazione delle sue conseguenze anche verso minori, lavoratori, istituzioni, imponendo loro un mutamento dei tradizionali valori, comunemente accettati;
che il giudice a quo ritiene che nella scelta ermeneutica compiuta nelle due pronunce in esame sia mancata la dovuta considerazione dei suoi effetti sulla collettività; egli paventa il rischio che, nonostante il dato normativo continui a richiedere l’intervenuto mutamento dei caratteri sessuali ai fini della rettifica anagrafica, questa linea interpretativa porti ad accogliere qualsiasi istanza in tal senso, purché sorretta dal solo elemento volontaristico, a prescindere da ogni intervento;
che, tuttavia, l’analisi e le osservazioni del giudice a quo non tengono adeguatamente conto dei principi affermati dalle decisioni richiamate, le quali hanno indicato un’interpretazione della disposizione censurata, rispettosa dei valori costituzionali e posta “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”, come già affermato da questa Corte sin dalla sentenza n. 161 del 1985;
che, in particolare, la Corte di cassazione ha ritenuto non obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari, affermando che l’acquisizione di una nuova identità di genere, in quanto risultato di un processo individuale, non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale siano oggetto di accertamento tecnico in sede giudiziale;
che, nello stesso senso, la successiva sentenza n. 221 del 2015 di questa Corte ha affermato che un’interpretazione costituzionalmente adeguata della L. n. 164 del 1982consenta di escludere la necessità del ricorso all’intervento chirurgico di normoconformazione, ai fini della rettifica anagrafica dell’attribuzione di sesso;
che, in particolare, l’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, pur escludendo la necessità di modificazioni chirurgiche dei caratteri sessuali, ha mantenuto fermo il dato testuale dell’art. 1, comma 1, il quale prevede, comunque, le “intervenute modificazioni dei caratteri sessuali”;
che, d’altra parte, tale pronuncia non ha sottovalutato, né tanto meno escluso, la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata, il quale corrobora e rafforza l’intento così manifestato;
che la linea interpretativa adottata nelle pronunce sopra richiamate mostra di tenere nella dovuta considerazione proprio le esigenze evidenziate dallo stesso rimettente, in particolare laddove si riconosce che nellaL. n. 164 del 1982la realizzazione del diritto del singolo al riconoscimento del proprio diritto all’identità personale, di cui è parte l’identità di genere, trova la sua realizzazione attraverso un procedimento giudiziale che garantisce, al contempo, sia il diritto del singolo individuo, sia quelle esigenze pubblicistiche di certezza delle relazioni giuridiche, sulle quali si fonda il rilievo dei registri anagrafici;
che, sebbene l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici con quello soggettivamente percepito e “vissuto” costituisca espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere, il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia – in un quadro di “irriducibile varietà delle situazioni soggettive” (sentenza n. 221 del 2015) – è stato individuato affidando al giudice, nell’ambito di un giudizio cui partecipa anche il pubblico ministero, l’accertamento delle modalità attraverso le quali le modificazioni siano intervenute, tenendo conto di tutte le componenti, compresi i caratteri sessuali, che concorrono a determinare l’identità personale e di genere;
che, pertanto, risulta del tutto privo di fondamento l’assunto del rimettente circa la possibilità che, ai fini dell’accertamento della transizione, rivesta esclusivo o comunque prioritario rilievo il solo elemento volontaristico;
che, d’altra parte, va rilevato che la denunciata imposizione di un onere di adeguamento da parte della collettività non costituisce affatto una violazione dei doveri inderogabili di solidarietà, ma anzi ne riafferma la perdurante e generale valenza, la quale si manifesta proprio nell’accettazione e nella tutela di situazioni di diversità, anche “minoritarie ed anomale” (sentenza n. 161 del 1985);
che, a questo riguardo, va rilevato che le preoccupazioni del rimettente attengono a situazioni di fatto destinate a verificarsi a prescindere dalla disciplina della rettificazione anagrafica, la quale è volta a regolare una realtà che, prima ancora che nel diritto, esiste nella natura;
che, pertanto, le censure del rimettente in ordine alla prospettata lesione dei principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. si rivelano manifestamente infondate.
Visti gli artt.26, secondo comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 1, dellaL. 14 aprile 1982, n. 164(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sollevata, in riferimento agliartt. 2 e 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Avezzano, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

La condotta di un genitore “non consona dal punto di vista morale” ove non pregiudichi l’interesse del minore non esclude l’affidamento condiviso

Cass. civ. Sez. VI – 1, 11 luglio 2017, n. 17137
ORDINANZA
sul ricorso 17689-2016 proposto da:
S.E., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato EUGENIA PERRI;
– ricorrente –
contro
G.N.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1720/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata l’11/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/06/2017 dal Consigliere Dott. SAMBITO MARIA GIOVANNA C..
Svolgimento del processo
Con Decreto in data 11.5.2016, la Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato il provvedimento col quale, a modifica delle condizioni della separazione consensuale dei coniugi S.E. e G.N. è stato disposto l’affidamento esclusivo al padre delle figlie minori A. e N.. Per la cassazione del decreto, ha proposto ricorso la S. sulla base di due motivi, con cui deduce le illegittime modalità di audizione della figlia A. e l’erronea valutazione delle sue dichiarazioni, nonché l’insussistenza dei presupposti per l’affidamento esclusivo. L’intimato non ha svolto difese.
Motivi della decisione
1. Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.
2. Affermata l’ammissibilità del ricorso (cfr. Cass. n. 6132 del 2015; n. 18559 del 2016) per avere il decreto carattere di decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile rebus sic stantibus a quella del giudicato, il secondo motivo, che va esaminato con priorità, è fondato.
3. La regola dell’affidamento condiviso dei figli minori ad entrambi i genitori, posta dall’art. 337 ter c.c. (applicabile ratione temporis) in funzione del diritto dei figli al mantenimento della bigenitorialità, è derogabile, a norma del successivo art. 337 quater c.c., solo, ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore. Tale disciplina è stata falsamente applicata dalla Corte territoriale, che ha focalizzato la sua attenzione non già, come avrebbe dovuto, sulla sussistenza di un pregiudizio delle minori, che la norma impone dover esser specificamente esplicitato, ma direttamente sullo stile di vita della madre ritenuto “non consono dal punto di vista morale” in riferimento ad imprecisate vicende relative al contesto familiare di appartenenza della stessa, e senza neppure considerare che le bambine sono collocate presso il padre.
4. Il decreto va, in conclusione, cassato, restando assorbito il primo motivo, con rinvio alla Corte d’Appello di Catanzaro, in diversa composizione, che provvederà, anche, a regolare le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo, assorbito il primo, cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Catanzaro, in diversa composizione. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.

L’onere del mantenimento grava su entrambi i genitori a prescindere dalle diverse potenzialità economiche

Cass. 31 luglio 2017 n. 19052
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha elevato l’assegno posto
a carico di Lu. Mo. in favore delle figlie S. e L., maggiorenni e non autosufficienti, disponendone la
corresponsione in favore della madre De. Te.. Per la cassazione di tale statuizione, ricorre il Mo. sulla base
di cinque motivi (violazione artt. 2729 e 337 ter c.c.; 132 n. 4 e 112 c.p.c). La Te. resiste con
controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
1. Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la
redazione della motivazione in forma sintetica.
2. In relazione ai primi due motivi va osservato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass.
02/04/2009 n. 8023; n 01/10/2003, n. 15737; ord. 08/01/2015 n. 101), spetta al giudice di merito di
valutare l’opportunità di far ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del
relativo processo logico ed apprezzarne la rispondenza ai requisiti di legge, con valutazione di fatto che
sfugge al sindacato di legittimità, restando escluso che la censura in ordine all’utilizzo o meno del
ragionamento presuntivo possa limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal
giudice di merito.
3. A tale risultato mirano le censure in esame, come non ha mancato di sottolineare la controricorrente,
in quanto, a fronte della valutazione globale delle emergenze probatorie compiuta dalla Corte territoriale
per pervenire alla determinazione della capacità economica del padre, le doglianze parcellizzano gli
elementi considerati (riferiti all’attività lavorativa ed al tenore di vita), svalutandone la singola portata
indiziante (con procedimento opposto a quello corretto, che impone la valutazione complessiva dei dati
salienti considerati, cfr., da ultimo, Cass. ord. 02/03/2017 n. 5374). Essendo la sentenza stata depositata
il 24.3.2016, non giova alla tesi del ricorrente la giurisprudenza da lui citata in sede di memoria (Cass.
23201 del 2015 e massime ivi richiamate), che afferma, bensì, la sindacabilità della motivazione del
percorso logico-giuridico in tema di prova presuntiva, ma nella vigenza dell’art. 360, co 1 n. 5 c.p.c. nel
testo antecedente alla novella di cui alla L. n. 134 del 2012.
4. Non risulta, poi, violato il principio di cui all’art. 337 ter c.c., secondo cui ciascuno dei genitori deve
provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie risorse economiche in
riferimento ai parametri oggetto di comparazione, che non devono necessariamente esser presi tutti in
considerazione. Se, peraltro, non consta che il ricorrente abbia addotto alcuno specifico tenore di vita
dalle figlie in costanza di convivenza con entrambi i genitori (a pag. 27 del controricorso si legge che,
secondo la decisione di primo grado, sarebbe stato “altissimo”), va ribadito il principio secondo cui la
determinazione del contributo che per legge grava su ciascun coniuge per il mantenimento, l’educazione e
l’istruzione della prole non si fonda su di una rigida comparazione della situazione patrimoniale dell’altro.
Pertanto, le maggiori potenzialità economiche del genitore affidatario o convivente col figlio concorrono a
garantirgli un migliore soddisfacimento delle sue esigenze di vita, ma non comportano una proporzionale
diminuzione del contributo posto a carico dell’altro genitore (Cass. n. 18538 del 2016).
5. Le censure di nullità della sentenza, per inesistenza o mera apparenza della motivazione ex art. 132,
co 2, n. 4, c.p.c, e per l’omessa pronuncia riferita alla mancata valutazione delle condizioni economiche di
esso ricorrente (in tesi peggiorate) sono infondate, essendo le argomentazioni svolte per la
determinazione del quantum (maggiori esigenze economiche delle figlie, studentesse universitarie fuori
sede, pag. 15 in fondo della sentenza) del tutto idonee a rivelare la ratio decidendi, e rapportate alle
sostanze sia della madre che del padre (quali ricostruite dalla stessa Corte), dovendo, al riguardo,
evidenziarsi che il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione
dell’art. 112 c.p.c, rilevante ai fini di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, dello stesso codice, si configura
esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione al mancato (o non
soddisfacente) apprezzamento di elementi fattuali. La motivazione della sentenza dà conto, in conclusione, dei fatti di causa e delle ragioni della decisione con completezza e chiarezza, tenuto conto
dei canoni di concisione imposti del legislatore, per evitare inutili ripetizioni ed argomentazioni
sovrabbondanti.
6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che si liquidano in complessivi Euro
7.100,00, di cui Euro 100,00 per spese vive, oltre a spese generali ed accessori. Ai sensi dell’art. 13, co 1
quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a
norma del comma I-bis dello stesso articolo 13. Dispone che, ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 198 del
2003 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione.

La nuova convivenza elide completamente il diritto all’assegno divorzile, anche se è cessata.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile- 1, ordinanza 21 luglio 2017, n. 18111
Fatto e diritto
Rilevato che:
Con sentenza del 18/9 – 2/10/2015, la Corte d’appello di Cagliari ha dichiarato insussistente il diritto di F.G. all’assegno divorzile ed ha confermato in Euro 400 mensili l’assegno a carico di Fr.Re. per il mantenimento del figlio M. .
Per quanto ancora interessa, nello specifico, la Corte del merito, ritenuto la rilevanza, ai fini del diritto all’assegno di divorzio, della verifica della prosecuzione della convivenza con altro compagno della sig. F. , ha evidenziato che nel ricorso introduttivo di primo grado il Fr. aveva fatto riferimento alla convivenza della moglie; questa non aveva sollevato contestazioni e solo in sede di comparizione aveva affermato che detta convivenza era venuta meno nel 2008, ma non aveva provato detta circostanza, come era onerata trattandosi di fatto nuovo allegato “costitutivo del diritto all’assegno divorzile e alla stregua del principio della vicinanza della prova”.
Ne conseguiva la perdita del diritto all’assegno.
Ricorre la F. , sulla base di tre motivi.
L’intimato non ha svolto difese.
Considerato che:
Col primo motivo di ricorso, la ricorrente si duole della violazione dell’art. 2697 cod. civ., degli artt. 115,116, 167 in materia di contestazione e valutazione della prova, e degli artt.183 e 190 cod. proc. civ., in materia di determinazione del thema probandum, sostenendo che nel ricorso introduttivo il sig.Fr. non ha fatto menzione dell’instaurazione o prosecuzione della convivenza more uxorio della sig.F. con altra persona e di avere essa dichiarato, nella comparizione personale del 17/1/2010 avanti al Presidente del Tribunale, che la convivenza extra coniugale era cessata nel 2008 (quindi prima della instaurazione del procedimento di divorzio introdotto col ricorso del 5/10/2010), che il F. aveva fatto valere la mancata prova della cessazione della convivenza solo in comparsa conclusionale, infine che la Corte del merito avrebbe dovuto verificare la stabilità e continuità della eventuale convivenza.
Col secondo motivo, si duole la ricorrente della violazione e falsa applicazione dell’art.5 della 1.898/1970, per avere la Corte del merito omesso di accertare la sussistenza di una nuova famiglia ancorché di fatto, dotata dei caratteri della stabilità e continuità, quale presupposto giustificante l’esclusione dell’assegno. Col terzo motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza o del procedimento, per avere la Corte del merito posto a base della decisione una questione rilevata d’ufficio, ovvero l’asserita convivenza more uxorio, senza concedere il termine ex art.101, comma 2, cod. proc. civ., per garantire il contraddittorio.
I tre motivi di ricorso, strettamente collegati, vanno valutati unitariamente e sono da ritenersi manifestamente infondati.
Nel suo nucleo essenziale, la tesi della ricorrente è basata sul rilievo processuale dell’introduzione da parte del Fr. solo in sede di comparsa conclusionale di primo grado della mancata prova della cessazione della convivenza della F. , come accertata in sede di modifica delle condizioni di separazione con il decreto del Tribunale del 21/11/2008, da cui, secondo l’odierna ricorrente, la violazione del principio ex art. 2697 cod. civ., l’introduzione da parte della Corte del merito di una questione rilevata d’ufficio (la prosecuzione della convivenza more uxorio), la violazione dell’art. 5 legge divorzile, per la mancata verifica delle caratteristiche dell’assunta convivenza. Di contro a detta pur articolata prospettazione, va in via assorbente rilevato che deve trovare applicazione il principio espresso nella pronuncia 6855/2015, declinato secondo la specificità del caso.
La pronuncia citata, come è noto, ha affermato che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Ora, nella specie, il fatto rilevante della convivenza con altri da parte della sig.F. ha fatto parte del giudizio, per quanto dichiarato dalla stessa parte in sede di comparizione personale del 17/1/2010, anche se con l’aggiunta della cessazione della convivenza dal 2008, come poi ribadito anche in sede di costituzione di secondo grado, ma detta ulteriore circostanza non può ritenersi rilevante, volta che si ponga attenzione alla cesura che si è ormai determinata con l’instaurazione della nuova convivenza che non può essere posta nel nulla a seguito della prospettata cessazione della stessa, per il rilievo, già espresso nella pronuncia del 2015, che il diritto all’assegno non entra in fase di quiescenza, ma viene definitivamente eliso, di talché sono irrilevanti le successive evoluzioni del nuovo rapporto.
Ne consegue il rigetto del ricorso, stante la correttezza della decisione impugnata nella sua statuizione finale, pur dovendosi correggere la motivazione nei sensi di cui sopra.
Non v’è luogo alla pronuncia sulle spese, non essendosi costituito l’intimato.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Vista l’ammissione della ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, non si applica l’art.13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nell’ordinanza.

Rifiutare di sottoporsi al test del DNA è indice supportatore di prova decisiva di paternità

Cass. civ., sez. I, 27 luglio 2017, n. 18626

FATTO
1. Con sentenza depositata in data 18 marzo 2010 il Tribunale di Ferrara, accogliendo l’impugnazione per difetto di veridicità proposta dal sig. C.M. in relazione al riconoscimento, da parte del sig. Z.G., dei figli gemelli, partoriti fuori dal matrimonio dalla sig.ra B.E., Za.Fe. e F., dichiarava che il predetto convenuto non era il padre biologico degli stessi, affermando al contempo la propria incompetenza in merito alla domanda attorea di riconoscimento del rapporto di filiazione.
2. Tale decisione si fondava sui seguenti elementi: l’inizio della convivenza fra lo Z. e la B. in epoca successiva al concepimento, che viceversa era avvenuto durante il periodo cui risaliva la relazione fra la madre dei minori e il C.; il rifiuto dei convenuti al prelievo dei campioni per l’effettuazione di una consulenza genetica, la compatibilità del C. al 99,99 per cento risultante da un test di laboratorio prodotto dall’attore, sulla base di campioni biologici prelevati dai predetti gemelli.
3. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte di appello di Bologna ha accolto l’impugnazione proposta dalla sig.ra B., ed ha quindi rigettato la domanda del C..
4. E’ stato in particolare osservato che, non potendo attribuirsi valore probatorio al risultato dell’esame di laboratorio eseguito nell’interesse del C. in assenza del rispetto di qualsiasi garanzia di veridicità e del principio del contraddittorio, la circostanza stessa del prelievo all’insaputa dello Z. – dei campioni sui minori da parte della madre, per consegnarli al C., dimostra che la B. evidentemente aveva dei dubbi sulla effettiva paternità dei minori. Ne conseguiva che, essendo evidente che all’epoca la madre intratteneva rapporti tanto con lo Z. quanto con il C., mancava la prova certa dell’impossibilità oggettiva che l’autore del riconoscimento fosse il padre dei gemelli.
5. Per la cassazione di tale decisione il C. propone ricorso, affidato ad unico motivo, illustrato da memoria, cui resiste con controricorso la signora B..
Lo Z. e la curatrice speciale dei minori, avv. Ba.Fe., non svolgono attività difensiva.
DIRITTO
1. Con unico e articolato motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 263 e 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., si sostiene che erroneamente la Corte felsinea avrebbe disatteso il principio secondo cui, in materia di accertamenti afferenti alla paternità ed alla validità dei correlati atti dichiarativi, il rifiuto di consentire il compimento dell’esame biologico è sufficiente ad integrare la prova in ordine alla sussistenza ovvero all’insussistenza del rapporto parentale.
2. Il ricorso è fondato.
Vale bene prendere le mosse da una recente decisione di questa Corte nella quale viene particolarmente approfondito il tema della rilevanza degli aspetti probatori nelle azioni di status, rimarcandosi come, prima della disciplina introdotta con il D.lgs. n. 154 del 2013, in materia di impugnazione del riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio per difetto di veridicità, si affermava che l’attore dovesse fornire piena prova della non veridicità del riconoscimento, apparendo tale maggior rigore giustificato dall’ampiezza dei soggetti legittimati alla proposizione della relativa azione. L’accesso alla prova genetica doveva quindi essere preceduto dal positivo vaglio del materiale probatorio acquisito, nel senso che si riteneva la necessità della previa acquisizione, secondo i più recenti orientamenti, di almeno un principio di prova per poter dare ingresso ad un esame genetico (tra le altre, Cass. n. 10585/2009; n. 17895/2013; n. 3217/2014). Di recente, poi, si è data rilevanza al rifiuto di sottoporsi al predetto esame, pur richiedendosi l’acquisizione di congrua documentazione, ovvero un’adeguata istruttoria testimoniale (Cass., 26 marzo 2015, n. 6136, in cui si afferma, fra l’altro, che “nell’attuale contesto socioculturale caratterizzato da ampie possibilità di accertamento del patrimonio bio-genetico dell’individuo, pensare di “segregare” l’atto negoziale di accertamento della paternità, escludendo il controinteressato dal fornire la prova del suo difetto di veridicità significa, ignorando il livello attuale delle cognizioni scientifiche e delle potenzialità di indagine, consentire ogni forma di abuso del diritto e, quindi, di adozione mascherata e fraudolenta del minore, non tollerabile in una società civile e trasparente”).
3. Con riferimento al procedimento relativo all’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, è stato ribadito il carattere “decisivo” della consulenza tecnica d’ufficio ematologica, o genetica (Cass., 13 novembre 2015, n. 23290), tanto “da rendere comportamento processuale dotato di pregnante rilevanza il suo ingiustificato rifiuto (Cass., 25 marzo 2015, n. 6025; Cass., 21 maggio 2014, n. 11223).
4. Il ricorso all’accertamento tecnico, e quindi, la valutazione del comportamento della parte che con il proprio rifiuto non ne consenta l’effettuazione, è stato giustificato anche in presenza della “non univocità e alla discordanza tra gli elementi acquisiti” (Cass., 16 aprile 2008, n. 10007). Tale assunto appare assolutamente condivisibile, in quanto il mancato ricorso a uno strumento, reso disponibile dal progresso scientifico e dotato di un elevato grado di attendibilità (Cfr. Corte cost., n. 266/2006), non appare del tutto coerente rispetto all’esigenza di verificare la fondatezza di una domanda attinente a una delicata questione attinente allo status della persona. Sotto tale profilo non sembra del tutto condivisibile la riferita tesi secondo cui la maggiore ampiezza dei soggetti legittimati alla proposizione della domanda ex art. 263 c.c., legittimerebbe un diverso regime probatorio, caratterizzato, quanto a quest’ultima, da maggior rigore, relativo alle azioni, sostanzialmente speculari, in materia di filiazione. D’altra parte, l’orientamento secondo cui “l’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità postula, a norma dell’art. 263 c.c., la dimostrazione dell’assoluta impossibilità che il soggetto, autore dell’originario riconoscimento, sia, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio”, con conseguente impossibilità di prendere in considerazione come prova della non veridicità del riconoscimento il rifiuto del figlio riconosciuto di sottoporsi al prelievo ematologico (Cass., 11 settembre 2015, n. 17970; Cass., 10 luglio 2013, n. 17095), non trova alcun riscontro nel tenore della norma, apparendo poi distonico non solo rispetto al carattere decisivo dell’accertamento di natura genetica come sopra delineato, ma anche rispetto alla circostanza che l’attore è chiamato a fornire la prova di un fatto negativo.
5. In proposito giova richiamare il principio secondo cui tale prova deve essere resa mediante l’allegazione di fatti positivi di segno contrario, e può essere raggiunta anche attraverso dichiarazioni testimoniali o presunzioni (cfr., ex multis, Cass., 20 agosto 2015, n. 17009, nonchè, con riferimento all’azione ex art. 263 c.c., Cass., 19 marzo 2002, n. 3976). In tale ambito si colloca il principio, già affermato da questa Corte (Cass., 22 novembre 1995, n. 12085), secondo cui l’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità può essere accolta non solo quando l’attore provi che l’autore del riconoscimento, all’epoca del concepimento, era affetto da “impotentia generandi” o non aveva la possibilità di avere rapporti con la madre, ma anche quando fornisca la prova di essere il vero genitore.
6. Tanto premesso, deve verificarsi come debba essere valutato, nel procedimento in esame, il rifiuto di sottoporsi ai prelievi di natura biologica, che, com’è noto, deve ricondursi nella previsione dell’art. 116 c.p.c., comma 2. Come sottolineato da recente e attenta dottrina, l’argomento di prova delineato da tale disposizione, che la giurisprudenza di questa Corte considera componente sufficiente a fondare il convincimento del giudice (cfr., Cass., 3 aprile 2013, n. 8088; Cass., 16 dicembre 2011, n. 27149; Cass., 29 settembre 2009, n. 20819), assume un valore intrinsecamente “relazionale”, nel senso che il grado di intensità della connessione fra il thema probandum e taluna delle circostanze indicate nella norma sopra richiamata può consentire, nei casi in cui assuma particolare rilevanza, di utilizzare anche in via esclusiva l’argomento di prova come fonte esclusiva del convincimento.
Ove si consideri l’elevato grado di certezza che si può conseguire attraverso l’acquisizione della prova scientifica in esame, appare evidente come al comportamento ingiustificato della parte che non consenta di raggiungere quel risultato debba attribuirsi un elevato di significatività, tale da renderlo, come sostenuto da autorevole dottrina, “autosufficiente ai fini del giudizio di fatto”.
7. La Corte di appello di Bologna non si è conformata ai principi sopra esposti.
Dopo aver sottolineato che la ricostruzione della vicenda presentava delle incertezze (sulla base del rilievo che, avendo la B. prelevato i campioni utilizzati per un accertamento genetico ante causam all’insaputa dello Z., evidentemente “il concepimento poteva essere anche opera sua”), il giudice del merito afferma che, dovendosi “escludere la certezza pretesa dall’art. 263 c.c.”, l’inizio della convivenza fra lo Z. e la madre dei gemelli quando costei si trovava al settimo mese di gravidanza assume un carattere “equivoco”, e “ancor meno vale la sottrazione processuale alla consulenza tecnica d’ufficio sul D.N.A.”. In tale modo l’argomento di prova desumibile dal rifiuto di sottoporsi all’esame genetico, il cui carattere decisivo è stato assolutamente negletto, sarebbe utilizzabile quando, essendosi già conseguita la prova dell’assenza del rapporto di filiazione biologica, non si tratterebbe di superare una situazione di incertezza, ma di aggiungere certezza a certezza.
8. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere cassata, con rinvio alla Corte di appello di Bologna che, in diversa composizione, applicherà il seguente principio di diritto: “Nel giudizio di impugnazione del riconoscimento di figlio nati fuori dal matrimonio per difetto di veridicità, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad esame genetico, in presenza di una situazione di incertezza, sul piano probatorio, circa la sussistenza o meno del rapporto di filiazione biologica fra l’autore del riconoscimento ed il figlio, deve essere valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, come decisiva fonte di convincimento”.
Il giudice del rinvio provvederà, inoltre, al regolamento delle spesa relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 9 gennaio 2017.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2017.

Affidamento dei figli minori e nomina del coordinatore genitoriale

Tribunale di Mantova, sez. I. Sentenza del 5 maggio 2017. Pres.,
est. Bernardi.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tribunale Ordinario di Mantova
Prima Sezione
Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti
magistrati:
dott. Mauro Pietro Bernardi Presidente Relatore
dott. Alessandra Venturini Giudice
dott. Luigi Pagliuca Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 3767/2014 promossa da:
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con ricorso ex art. 706 c.p.c. depositato in data 5-8-2014 D. M. T. (nato a
P. il *-1969) assumeva 1) di avere contratto in data *-2004 in P.
matrimonio con G. C. (nata a N. il *-1969), matrimonio trascritto
nell’anno 2004, atto n. *, parte II, serie A e che i coniugi avevano optato
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per il regime della comunione dei beni; 2) che dall’unione erano nati, a
N., i figli S. (il *-2005) e F. (il *-2008); 3) che la convivenza nel corso del
tempo era divenuta intollerabile a causa dell’atteggiamento della moglie
che, nel corso del rapporto, aveva assunto atteggiamenti sempre più
offensivi anche nei confronti della cerchia parentale, di distacco affettivo
ed anche aggressivi tanto che egli si era indotto a lasciare la casa
coniugale; 4) che la madre aveva iniziato a ostacolare il rapporto di esso
con i figli.
Alla stregua di tali circostanze il ricorrente evidenziava che sussistevano i
presupposti, previsti dall’articolo 151 c.c., affinché venisse pronunciata la
separazione personale con addebito alla moglie alle condizioni riportate
alle pagine 6,7,8 e 9 del ricorso e riguardanti, l’affidamento dei figli a
entrambi i coniugi in via condivisa con collocazione preferenziale presso
la madre previa regolazione del diritto di visita di esso istante,
l’assegnazione alla moglie della casa coniugale, la determinazione a
proprio carico di un assegno di mantenimento in favore sia dei figli che
della moglie oltre al concorso nelle spese straordinarie, il trattenimento
degli assegni familiari ed infine l’autorizzazione ai coniugi a conseguire il
rinnovo o il rilascio dei documenti validi per l’espatrio sia per sé che per i
figli.
Si costituiva G. C. la quale aderiva alla domanda di separazione rilevando
che il fallimento dell’unione era dipeso dal comportamento del marito
sempre più distaccato nei suoi confronti e che aveva scoperto avere da
tempo allacciato una relazione extraconiugale.
La resistente, rimarcato il fatto di essere disoccupata e che il marito
ancor prima della separazione contribuiva al mantenimento suo e dei
figli versando circa € 1.150,00 al mese, chiedeva che la separazione
venisse addebitata al marito, l’affido congiunto dei figli con collocamento
presso di sé, l’assegnazione della casa coniugale, un più restrittivo regime
di visita del padre nonché un più elevato contributo economico del
marito per il mantenimento proprio e dei figli.
All’esito dell’udienza del 26-11-2014, tenutasi per la comparizione
personale delle parti ed il tentativo di conciliazione, stante l’esito
negativo dello stesso, il Presidente autorizzava i coniugi a vivere separati,
impartiva i provvedimenti provvisori di cui all’art. 708 c.p.c. e disponeva
per la prosecuzione del processo.
Assunte le prove orali, disposte indagini tramite i Servizi Sociali ed
espletata c.t.u., affidata alla dott. M., la causa veniva quindi rimessa al
Collegio per la decisione.
In primo luogo va ribadito il giudizio negativo già espresso nel corso
dell’istruttoria in ordine all’ammissione delle prove orali dedotte dalle
parti e per il cui ingresso la difesa del ricorrente ha insistito in sede di
precisazione delle conclusioni atteso che i capitoli formulati sono
superflui ovvero di contenuto generico o valutativo ed essendo
comunque stati acquisiti sufficienti elementi per la decisione.
La verificazione delle condizioni di intollerabilità della convivenza, che
legittimano la separazione, può dirsi incontestata tra le parti e provata
dal fallimento del tentativo di conciliazione, dalle conclusioni formulate
dalle parti nonché dal consolidamento della situazione obiettiva e
giuridica conseguente ai provvedimenti adottati dal Presidente in sede di
comparizione personale delle parti per il tentativo di conciliazione sicché
sussistono i presupposti di cui all’art. 151, comma 1, c.c. per la richiesta
pronuncia di separazione personale tra i coniugi.
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Per quanto concerne la domanda di addebito proposta dal ricorrente e
fondata sull’assunto secondo cui la moglie avrebbe assunto atteggiamenti
sempre più offensivi anche nei confronti della cerchia parentale nonché
di distacco affettivo, va rilevato che tali assunti hanno carattere generico,
non sono risultati provati e, comunque, paiono essere la conseguenza di
una progressiva incompatibilità di caratteri; quanto alle aggressioni
verbali le stesse trovano spiegazione nella scoperta da parte della moglie
della relazione extramatrimoniale intrattenuta dal marito. Nessun rilievo
può inoltre attribuirsi al certificato medico prodotto sub 10 dalla difesa
del ricorrente, non sussistendo elementi che possano far ritenere che i
problemi sessuali manifestati dall’istante fossero derivati da
comportamenti posti in essere dallamoglie.
Merita invece accoglimento la domanda di addebito proposta dalla
moglie atteso che il ricorrente ha ammesso in sede di comparizione
avanti al Presidente di aver intrattenuto una relazione con un’altra donna
e che siffatta circostanza risulta inequivocabilmente documentata dalla
relazione investigativa allegata, comportamento questo che costituisce
grave violazione dei doveri nascenti dal matrimonio; le aggressioni
verbali e il distacco affettivo lamentati dal ricorrente costituiscono la
conseguenza della scoperta della relazione extraconiugale da parte della
moglie sicché appare evidente la sussistenza del nesso di causalità tra il
predetto comportamento del marito e la insanabile frattura dell’unione
matrimoniale.
In ordine alla regolamentazione dell’affidamento dei figli, va osservato
che sia il Servizio Sociale incaricato dell’indagine sia il consulente tecnico
hanno potuto verificare che entrambi i genitori sono in grado di gestire
singolarmente i figli e che le difficoltà nelle relazioni (in particolare del
padre) dipendono esclusivamente dalla mai sopita conflittualità
(presente anche durante la convivenza) fra gli adulti sicché non può
disporsi l’affido esclusivo, non risultando positivamente dimostrata
l’inidoneità educativa ovvero la manifesta carenza del ricorrente (cfr.
Cass. 15-9-2014 n. 19386; Cass. 29-3-2012 n. 5108; Cass. 19-5-2011 n.
11068; Cass. ord. 2-12-2010 n. 24526; Cass. 17-12-2009 n. 26587; Cass.
18-6-2008 n. 16593); non può inoltre andare sottaciuto che le stesse
parti hanno chiesto che venga disposto l’affido condiviso (misura questa
suggerita anche dal c.t.u.); occorre precisare che, per le questioni di
ordinaria amministrazione, le parti eserciteranno separatamente la
responsabilità genitoriale quando i figli rimangono presso di esse.
Quanto al collocamento non vi è dubbio che i minori debbano vivere con
prevalenza presso la madre avendo i figli instaurato un più solido legame
affettivo con essa ed essendo costei in grado di offrire maggiore stabilità
e sicurezza psicologica, come chiaramente emerge dalla consulenza
tecnica.
Da ciò consegue che la casa coniugale (condotta in locazione), sita in C.,
Via C. n. 16 con i beni che la arredano, deve essere assegnata alla madre.
In ordine alle modalità di visita, il padre potrà vedere e tenere con sé i
figli secondo le seguenti modalità:
a) due fine settimana al mese (dalle ore 9.00 del sabato alle ore 21.00
della domenica), alternati, avendo cura di riaccompagnarli dalla madre;
b) due pomeriggi alla settimana (orientativamente nei giorni di martedì e
giovedì), dalla uscita di scuola sino alle ore 21.00 quando avrà cura di
riaccompagnarli dalla madre;
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c) per metà delle vacanze natalizie alternando di anno in anno con la
madre il periodo dalle ore 9,00 del 23 dicembre alle ore 21,00 del 30
dicembre e dalle ore 9.00 del 30 dicembre sino alle ore 21.00 della sera
precedente la ripresa della scuola;
-d) per tre giorni durante le festività pasquali, alternando di anno in
anno il giorno di Pasqua e il Lunedì dell’Angelo;
e) per tre settimane, anche non consecutive, nel periodo delle vacanze
estive, da concordarsi tra le parti di volta in volta entro il mese di giugno
di ogni anno, con impegno reciproco di comunicare la località della
vacanza ed il luogo del pernottamento;
– ogni variazione delle modalità di visita e di intrattenimento con il figlio
minore da parte del padre, oltre che previamente concordato con la
madre, dovrà necessariamente tenere conto degli impegni dei minori in
attività scolastiche ed extrascolastiche.
In conformità con quanto prospettato dal c.t.u., va disposto che
l’andamento dei rapporti familiari venga monitorato da una figura
esterna (c.d. coordinatore genitoriale o educatore professionale: v. Trib.
Milano 7-7-2016 in www.il.caso.it; Trib. Pavia 21-7-2016, inedita) la
quale, una volta al mese (e sino al 31-1-2018) dovrà essere presente per
osservare le relazioni genitori/figli operando una mediazione costante e
svolgendo i compiti meglio specificati in dispositivo, tenendo conto delle
indicazioni fornita dalla dott. M., professionista che si individua nella
persona della dott. C. M., indicata dalla c.t.u. ed il costo delle cui
prestazioni dovrà essere sopportato dalle parti nella misura come sopra
prevista per le spese straordinarie.
Va aggiunto che entrambi i genitori vanno ammoniti a non porre in
essere comportamenti che ostacolino il corretto svolgimento delle
modalità di affidamento ed a collaborare con la dott.M.
In ordine ai rapporti patrimoniali, premesso che sono stati acquisiti
sufficienti elementi per la valutazione e che non occorre disporre
ulteriori indagini (cfr. Cass. 12-1-2017 n. 605; Cass. 5-11-2007 n. 23051),
va osservato che il ricorrente percepisce uno stipendio mediamente pari
a € 1.650,00 mensili, che vive in una casa condotta in locazione per la
quale corrisponde un canone di € 400,00 e che è proprietario un
modesto immobile (classificato C 1) da cui non risulta trarre un reddito.
Quanto alla moglie va osservato che essa è disoccupata, che non è
proprietaria di immobili, che vive nella casa coniugale (condotta in
locazione) e che dispone di modesti risparmi come risulta dalla
documentazione dimessa in corso di giudizio.
Alla stregua della situazione patrimoniale come sopra ricostruita, il
collegio ritiene di porre a carico di D. M. T. l’obbligo di concorrere al
mantenimento dei figli versando alla madre l’assegno mensile di €
500,00 (€ 250,00 per ciascun figlio) rivalutabile annualmente secondo
gli indici ISTAT e ciò a far data da maggio 2018.
In conseguenza delle sopra accertate condizioni patrimoniali, vanno
poste a carico di entrambi i genitori, nella misura del 70% a carico del
ricorrente e del 30% a carico della resistente, senza necessità di previo
accordo e con obbligo di rimborso entro 20 giorni a fronte della semplice
esibizione del documento attestante la spesa da parte del genitore che
l’ha anticipata per intero, le seguenti spese straordinarie:
a) spese mediche: tutte quelle per visite mediche, esami, trattamenti e
cure, anche odontoiatriche, debitamente prescritte da un medico ed
erogate in ambito pubblico con pagamento di ticket (e quindi non
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interamente coperte dal SSN); quelle (sempre su prescrizione medica)
per accertamenti, trattamenti e cure non erogabili dal Servizio Sanitario
Nazionale, ma solo in ambito privato; quelle per esami, accertamenti e
cure in ambito privato urgenti ed indifferibili, non erogabili in ambito
pubblico in tempi rapidi (sempre su prescrizione medica);
b) spese scolastiche: tasse di iscrizione (ivi comprese eventuali
assicurazioni obbligatorie richieste dall’istituto) alla scuola elementare,
media e superiore pubblica e, dopo la maturità, ad università pubblica
(qualora i figli proseguano negli studi); acquisto dei libri di testo
scolastici ed universitari; corredo scolastico di inizio anno; spese per la
partecipazione alla gita scolastica senza pernottamento organizzata dalla
scuola; spese per il trasporto da e per la sede di studi (anche
universitaria) con mezzo pubblico; spese per tempo prolungato, prescuola,
per centro ricreativo estivo e gruppo estivo (solo se entrambi i
genitori lavorano); spese per il conseguimento della patente (pratica e
teoria);
c) altre spese straordinarie: tutte le altre spese di natura straordinaria (a
titolo meramente esemplificativo: spese per tempo prolungato, prescuola,
per centro ricreativo estivo e gruppo estivo, se uno dei genitori
non lavora; per cure – anche dentistiche, ortodontiche e oculistiche –
erogate in ambito privato e non indifferibili ed urgenti; per cure termali e
fisioterapiche; per cure e farmaci non convenzionali; per tasse
scolastiche ed universitarie imposte da istituti privati; per corsi di
specializzazione; per gite scolastiche con pernottamento; per corsi di
recupero e lezioni private; per alloggio presso la sede universitaria; per la
baby sitter; per l’acquisto di computer o telefono cellulare; per l’acquisto
di motorino od autovettura; per viaggi e vacanze; per corsi di istruzione,
attività sportive, ricreative e ludiche e pertinenti attrezzature, etc)
saranno parimenti suddivise tra i genitori, secondo le percentuali,
modalità e tempistiche sopra precisate, ma solamente se previamente
concordate tra i medesimi.
A tal fine il genitore che propone la spesa dovrà inviare all’altro genitore
richiesta scritta di adesione in cui sia specificata la tipologia della spesa
ed il suo esatto ammontare.
L’altro genitore dovrà fornire risposta, sempre per iscritto, entro 20
giorni dalla ricezione della richiesta.
In mancanza di risposta entro il suddetto termine la spesa si intenderà
autorizzata e dovrà quindi essere divisa tra i genitori nella misura e
secondo lemodalità sopra specificate.
In caso di diniego di consenso alla spesa, invece, la stessa rimarrà
totalmente a carico del genitore che l’abbia comunque sostenuta.
Merita precisare che, nel determinare la misura dell’assegno di
mantenimento, si è tenuto conto della percezione da parte del D. degli
assegni familiari.
Sussistono inoltre i presupposti di legge per porre a carico del marito un
assegno di mantenimento in favore della moglie che viene determinato in
€ 200,00 rivalutabile annualmente secondo gli indici ISTAT a far data da
maggio 2018, rilevandosi che la resistente per età e per capacità acquisite
(si rileva che G. C., nel 2015, aveva avuto la possibilità di svolgere attività
lavorativa, quale ATA, presso un istituto scolastico e che la stessa lo
rifiutò per asserita difficoltà di conciliare l’impegno lavorativo con la
possibilità di gestire i figli) possiede comunque una piena capacità di
dedicarsi ad attività lavorativa.
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Merita accoglimento la domanda proposta ex art. 709 ter c.p.c. dal
ricorrente atteso che dagli atti emerge come, in più occasioni, la
resistente abbia ingiustificatamente frapposto ostacoli alla regolare
frequentazione fra il padre e i figli (si veda ciò che viene riportato nella
relazione predisposta dal Servizio Tutela Minori del 30-3-2015, quanto
emerge dalla dettagliata denuncia-querela del 1-1-2017 nonché quanto
verbalizzato all’udienza del 6-12-2016), rilevandosi che, in relazione a
tutti gli episodi riferiti dalla difesa del ricorrente circa il mancato rispetto
delle visite, non è stata fornita dalla resistente specifica e convincente
smentita, il tutto in un contesto caratterizzato da notevole conflittualità
fra i genitori (si noti che il c.t.u. ha dato atto che i minori non
frequentano la famiglia di origine del padre) e dalla difficoltà, più volte
lamentata da parte del padre, di avere anche solo regolari contatti
telefonici con i figli: in considerazione della frequenza con cui ciò è
avvenuto e delle condizioni patrimoniali delle parti, reputa il collegio di
condannare G. C. a risarcire il danno patito dal ricorrente liquidato,
complessivamente, in € 1.000,00.
Infine va dichiarata inammissibile la domanda volta a ottenere
l’autorizzazione al rinnovo e/o al rilascio dei passaporti o dei documenti
validi per l’espatrio delle parti e dei minori, posto che, in caso di
contrasto, tale domanda deve essere proposta al Giudice Tutelare nelle
forme previste per i procedimenti camerali.
In considerazione della natura del giudizio e della parziale reciproca
soccombenza le spese di lite vengono integralmente compensate,
provvedendosi con separato decreto alla liquidazione delle spese del
difensore della resistente ammessa al patrocinio a spese dello stato.
P.Q.M.
Il Tribunale di Mantova, in composizione collegiale, definitivamente
pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita,
così dispone:
1) dichiara la separazione personale di D. M. T. (nato a P. il *-1969) e di
G. C. (nata a N. il 8-2-1969),matrimonio celebrato il *-2004 in P.;
2) dichiara che la separazione è addebitabile a D.M. T.;
3) rigetta la domanda di addebito proposta contro la resistente;
4) affida i figli minori S. e F. congiuntamente a entrambi i genitori con
collocamento prevalente presso la madre, disponendosi che, per le
questioni di ordinaria amministrazione, le parti eserciteranno
separatamente la responsabilità genitoriale quando i figli rimangono
presso di esse;
5) dispone che D. M. T. possa vedere e tenere con sé i figli secondo le
seguenti modalità:
a) due fine settimana al mese (dalle ore 9.00 del sabato alle ore 21.00
della domenica), alternati, avendo cura di riaccompagnarli dalla madre;
b) due pomeriggi alla settimana (orientativamente nei giorni di martedì e
giovedì), dalla uscita di scuola sino alle ore 21.00 quando avrà cura di
riaccompagnarli dalla madre;
c) per metà delle vacanze natalizie alternando di anno in anno con la
madre il periodo dalle ore 9,00 del 23 dicembre alle ore 21,00 del 30
dicembre e dalle ore 9.00 del 30 dicembre sino alle ore 21.00 della sera
precedente la ripresa della scuola;
-d) per tre giorni durante le festività pasquali, alternando di anno in
anno il giorno di Pasqua e il Lunedì dell’Angelo;
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e) per tre settimane, anche non consecutive, nel periodo delle vacanze
estive, da concordarsi tra le parti di volta in volta entro il mese di giugno
di ogni anno, con impegno reciproco di comunicare la località della
vacanza ed il luogo del pernottamento;
– ogni variazione delle modalità di visita e di intrattenimento con i figli
minori da parte del padre, oltre che previamente concordato con la
madre, dovrà necessariamente tenere conto dei loro impegni in attività
scolastiche ed extrascolastiche;
6) nomina quale coordinatore genitoriale la dott. C. M., con compenso a
carico dei genitori (nella misura del 70% a carico del padre e del 30% a
carico della madre) e attribuisce alla stessa il compito (avente scadenza al
31-1-2018):
i) di monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le
opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti
disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di
mediazione;
ii) di coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in
particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il
padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei
figli) in caso di disaccordo;
iii) di redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al
Giudice Tutelare entro il 28-2-2018;
7) assegna la casa familiare sita in C. in via C… n. 16, con gli arredi che la
compongono, a G. C.;
8) pone a carico di D. M. T. l’obbligo di concorrere al mantenimento dei
figli versando a G. C. (entro il giorno 10 di ogni mese) un assegno
mensile di € 500,00 (€ 250 per ciascun figlio) da rivalutarsi
annualmente secondo gli indici ISTAT a far data da maggio 2018 oltre al
70% delle spese straordinarie secondo le modalità e il dettaglio riportati
in motivazione e che qui si intendono espressamente richiamate;
9) pone a carico di D.M. T. l’obbligo di concorrere al mantenimento della
moglie versandole (entro il giorno 10 di ogni mese) un assegno mensile
di € 150,00 da rivalutarsi annualmente secondo gli indici ISTAT a far
data da maggio 2018;
10) condanna G. C. a risarcire il danno patito da D. M. T. liquidato nella
somma di € 1.000,00;
11) ammonisce entrambi i genitori a non porre in essere comportamenti
che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento ed a
collaborare con la dott. M.;
12) dichiara inammissibile la domanda avente ad oggetto il rilascio e/o il
rinnovo di documenti validi per l’espatrio in favore delle parti e dei figli
minori;
13) compensa integralmente fra le parti le spese di lite, provvedendosi
con separato decreto alla liquidazione dei compensi in favore del
difensore della resistente, ammessa al patrocinio a spese dello stato.
Dispone la trasmissione della sentenza all’Ufficiale di Stato Civile di P.
per le annotazioni di legge.

Il coerede che ha avuto il possesso dei beni ereditari all’atto dello scioglimento è sempre tenuto al rendiconto ex art. 723 c.c

Cass. 30 maggio 2017 n. 13619
SENTENZA
sul ricorso 26339-2012 proposto da:
(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente e c/ricorrente all’incidentale –
contro
(OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– c/ricorrenti e ricorrenti incidentali –
avverso la sentenza n. 1190/2011 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 10/10/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/10/2016 dal Consigliere Dott. D’ASCOLA PASQUALE;
udito l’Avvocato (OMISSIS), difensore della ricorrente, che si e’ riportato agli atti depositati ed ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS), con delega dell’Avvocato (OMISSIS) difensore dei ricorrenti incidentali, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS PIERFELICE che ha concluso per l’accoglimento del secondo e del terzo motivo del ricorso principale e per il rigetto del ricorso incidentale.
FATTI DI CAUSA
1) Su iniziativa dell’odierna ricorrente e’ in discussione lo scioglimento della comunione ereditaria riveniente alle parti, dalla madre signora (OMISSIS), deceduta nel 1988 lasciando un testamento olografo con cui nominava eredi i tre figli in parti uguali.
Le principali questioni affrontate dal tribunale sono state due: 1) includere nell’attivo da dividere l’appartamento sito in (OMISSIS) acquistato da (OMISSIS) con danaro della famiglia.
2) stabilire il tempo di valutazione dei beni.
In sede di appello l’attrice (OMISSIS) ha lamentato l’inclusione del proprio appartamento milanese nell’attivo da dividere e ha chiesto, in subordine che oggetto di collazione fosse solo la somma di danaro donatale dal padre, inferiore al prezzo di acquisto. Ha negato comunque che l’immobile fosse valutabile all’attualita’, dovendo invece computarsi, in via subordinata, alla data di apertura della successione.
L’appellante ha lamentato inoltre: 1) l’insufficiente rendicontazione dei beni ereditari goduti dai fratelli; 2) la mancata inclusione dell’indennita’ di occupazione dei beni siti in (OMISSIS), goduti, dopo l’apertura della successione, soltanto dai fratelli; 3) il rigetto della domanda di risarcimento danni per l’incuria degli appellati nel custodire gioielli e beni di famiglia, oggetto di furto in casa.
La Corte di appello di Bologna con sentenza 10 ottobre 2011 ha accertato che il danaro della casa in Milano proveniva da conto corrente intestato ai due genitori e che anche le spese di acquisto e ristrutturazione provenivano da assegni tratti dal padre. Ne ha desunto che, sebbene le parti avessero rinunciato all’eredita’ paterna, l’immobile doveva essere incluso nella eredita’ devoluta in morte della madre.
La valutazione e’ stata fatta all’attualita’ per tutti i beni immobili devoluti in eredita’.
Quanto ai rendiconti, la Corte ha disatteso le maggiori pretese dell’attrice.
La Corte ha negato anche ogni indennita’ sull’uso dei beni, perche’ (OMISSIS), che aveva utilizzato l’immobile in Milano, non avrebbe mai chiesto di fruirne.
Ha rigettato la domanda relativa al furto dei gioielli.
Il ricorso per cassazione di (OMISSIS) espone 9 motivi.
I fratelli (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno resistito congiuntamente con controricorso e ricorso incidentale condizionato.
Sono state depositate memorie in vista dell’udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
2) Il primo motivo di ricorso denuncia motivazione illogica e contraddittoria con riguardo alla inclusione nell’attivo ereditario del valore dell’immobile di Milano.
La ricorrente mira a far affermare di non essere “tenuta a porre in collazione ne’ il danaro ricevuto dal padre ne’ il valore dell’immobile da lei acquistato con il pagamento di un prezzo superiore alle somme ricevute dal padre”.
La censura e’ fondata nei termini in cui si dira’.
La ricorrente pone in dubbio (pag. 24) l’esistenza di prova della utilizzazione dei soldi donati a lei e al marito per la ristrutturazione della casa.
Tale rilievo e’ infondato, giacche’ il convincimento dei giudici di merito sulla destinazione di tutto il danaro donato si regge sulla presunzione, circostanziata efficacemente, derivata dal fatto che il padre verso’ direttamente ai promittenti venditori e alla agenzia immobiliare intermediaria decine di milioni di lire per quell’acquisto. Dunque era l’acquisto di un immobile da destinare ad abitazione, previo eventuale adattamento, la finalita’ del versamento.
Inoltre avrebbe dovuto essere l’attrice ad allegare e dimostrare che il danaro fosse stato da lei destinato a scopo diverso, documentando le relative spese, senza che a tal fine possa bastare una vaga ipotesi di “altri scopi”.
E’ invece fondata la doglianza relativa all’imputazione tra i beni provenienti dalla madre di tutto il danaro e non soltanto del 50%: la sentenza d’appello da’ atto infatti che si trattava di somme tratte da conto cointestato dei genitori. Pertanto, poiche’ la cointestazione di un conto corrente attribuisce agli intestatari la qualita’ di creditori o debitori solidali dei saldi del conto sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, si deve presumere la contitolarita’ dell’oggetto del contratto (Cass. 809/14 tra le tante), salvo la prova del contrario, prova di cui la Corte di appello non ha fatto cenno.
in sede di rinvio la Corte di appello dovra’ spiegare i motivi che l’hanno indotta a ritenere che si trattasse di sola donazione materna o dovra’ prendere atto che meta’ del danaro si presume appartenesse al padre e non poteva essere soggetta a collazione, E’ quindi necessario un accertamento che chiarisca la appartenenza del danaro tratto dal conto corrente esclusivamente alla madre. La donazione indiretta da sottoporre a collazione era poi da ridurre ulteriormente, se donatari furono la (OMISSIS) e il di lei marito, acquirenti dell’immobile cui era finalizzato il danaro, come si deduce sempre nel primo motivo, in puntuale critica alla sentenza di appello. Quest’ultima sembra considerare il marito dell’attrice quale donatario (la sentenza lo evidenzia, quasi incidentalmente, a pag. 6 primo rigo), ma non ne ha tratto le conseguenze piu’ regolari, come se avesse accertato che unica donataria sia stata la attrice.
Anche tale ipotesi di attribuzione non si giustifica senza specifica motivazione, del tutto mancata, e dovra’ essere nuovamente riconsiderata.
Se cosi’ non fosse, per effetto dei rilievi di cui sopra, da approfondire in sede di rinvio, ne conseguirebbe che e’ fondata anche altro profilo del) primo motivo, nella parte in cui deduce che non si sia trattato di donazione indiretta dell’immobile, ma di donazione di danaro.
La donazione indiretta dell’immobile non e’ infatti configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacche’ la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalita’ per attuare l’identico risultato giuridico – economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo (Cass. 2149/2014). Ne’ rileva la circostanza “incidentalmente ricordata” dalla Corte che nel corso del giudizio di primo grado la parte abbia dichiarato di essere disponibile alla imputazione dell’appartamento, giacche’ tale disponibilita’, evidentemente enunciata a fini transattivi, non trattandosi di dichiarazioni confessorie, e’ stata poi ritirata nel prosieguo processuale.
La Corte di appello ha considerato tutto il danaro come riferibile a donazione materna e sufficiente all’acquisto.
Il giudice di rinvio dovra’ riconsiderare questa affermazione alla luce dei principi sopraevidenziati, tenendo presente, ove occorra, quello, basilare in materia, enunciato da Sez. Un. n. 9282 del 1992, secondo cui: “Nel caso di soggetto che abbia erogato il denaro per l’acquisto di un immobile in capo ad uno dei figli si deve distinguere l’ipotesi della donazione diretta del denaro, impiegato successivamente dal figlio in un acquisto immobiliare, in cui, ovviamente, oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisce il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale caso il collegamento tra l’elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si e’ in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto”.
3) E’ infondato il secondo motivo di ricorso, che dopo alcune enunciazioni in premessa, ripetitive di quanto altrove trattato espressamente (soprattutto nel primo motivo), si incentra sulla inammissibilita’ ex articolo 345 c.p.c., della produzione di tre documenti (rinuncia all’eredita’ paterna, estratto conto a scalare e copia assegno bancario del 1979), che sarebbero stati utilizzati dalla Corte di appello per porre in collazione il valore dell’immobile di Milano.
Al di la’ di quanto gia’ statuito circa la sorte della collazione del danaro utilizzato per l’acquisto dell’appartamento, va chiarito che la censura e’ inammissibilmente formulata, perche’ non specifica in qual modo le suddette produzioni documentali – sul contenuto preciso delle quali nulla si dice piu’ di quanto soprariportato – abbiano inciso in modo determinante sulla decisione contestata.
Va comunque ribattuto al ricorso che l’insegnamento della citata sentenza delle Sezioni Unite 8203/05 non e’ nel segno del divieto di produzione dei documenti in appello in ogni caso, ma solo se non siano indispensabili alla decisione (tra le tante cfr Cass 15228/14; 13432/13; 21980/09).
4) Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 726, 746 e 747 c.c., ed e’ relativo alla determinazione del valore dell’immobile di Milano, “dovendo al piu’ considerare solo la parte di denaro donata dalla madre defunta”.
Parte ricorrente chiarisce, richiamando il doc. 56, che l’immobile e’ stato alienato nel 2001 e che comunque esso, o il danaro per esso utilizzato, deve essere sottoposto a collazione per imputazione avendo riguardo al valore dell’immobile al tempo dell’apertura della successione, e non all’attualita’ come ritenuto dalla Corte di appello.
Il quarto motivo, da esaminare congiuntamente, pone la medesima questione sotto il profilo della “motivazione gravemente illogica e contraddittoria”.
La complessa censura e’ fondata.
L’articolo 746 stabilisce infatti che a scelta del conferente la collazione di un bene immobile si puo’ fare, anziche’ in natura, per imputazione. Tale scelta e’ obbligata qualora l’immobile sia stato alienato (articolo 746, comma 2). Inoltre e’ vero che la collazione per imputazione si fa avuto riguardo al valore dell’immobile al tempo dell’aperta successione.
Ne consegue che qualora in esito al giudizio di rinvio dovesse essere confermata la donazione indiretta dell’immobile, l’equivalente pecuniario del valore del bene deve essere determinato con riferimento alla sua consistenza al tempo dell’apertura della successione e non anche a quello della divisione (Cass. 14553/04), ma con l’avvertenza che la collazione per imputazione di beni immobili deve comprendere, oltre al valore di stima del bene al momento di apertura della successione, anche gli interessi legali rapportati a tale valore e decorrenti dal predetto momento (Cass. 25646/08; 5659/15).
L’imputazione del danaro, se di questo si trattera’, sara’ invece effettuata secondo l’articolo 751 c.c..
5) Il quinto e il sesto motivo sono relativi alla presentazione dei rendiconti richiesti dall’attrice ai fratelli e lamentano vizi di motivazione, nonche’ violazione e falsa applicazione degli articoli 723, 1130, 1713 e 2030 c.c..
La Corte di appello ha negato il diritto a una rendicontazione “dettagliata e completa”, affermando che i convenuti non avevano alcun obbligo giuridico in tal senso; che non avevano obbligo esclusivo perche’ anche la sorella avrebbe dovuto aver cura dei beni ereditati e non avrebbe potuto esser pretermessa, se non per sua scelta di delegare i fratelli o per suo disinteresse.
La ricorrente ha efficacemente contrastato tali affermazioni.
Ha evidenziato che gia’ durante la vita della madre il fratello (OMISSIS) gestiva i beni, tanto che la de cuius aveva chiesto un rendiconto (doc. 22) e aveva indicato in un allegato al testamento che il figlio (OMISSIS) aveva investito proprio danaro. Ha specificato che ella viveva in Milano, come e’ incontroverso, considerato quanto si e’ detto in causa circa l’appartamento da lei acquistato, e i fratelli in (OMISSIS) con la madre. Ha richiamato il verbale di causa del 17/2/1994 in cui i fratelli si dichiaravano disposti a darle le chiavi di immobili. Ha ricordato di aver presentato tre ricorsi ex articolo 700 c.p.c., per domandare la nomina di un amministratore e le vicende seguite alla conseguente nomina nel 1995 dell’avv. (OMISSIS).
Tali circostanze non sono state esaminate dalla Corte di appello e rendono viziata la sentenza impugnata da grave insufficienza, che rileva ex articolo 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile anteriormente alla novella di cui alla L. n. 134 del 2012.
La carenza motivazionale si salda con la erroneita’ dei principi giuridici enunciati per giustificare la mancanza di un rendiconto dettagliato, addebitata al disinteresse o alla delega che la attrice avrebbe manifestato.
In proposito va per contro ripetuto che all’atto di scioglimento della comunione il possessore del cespite ereditario ha l’obbligo di rendere il conto in relazione ai frutti maturati prima della divisione (Cass. 21013/2011), giacche’ il coerede che abbia goduto in via esclusiva dei beni ereditari e’ obbligato, per il fatto oggettivo della gestione, sia al rendiconto che a corrispondere i frutti agli altri eredi a decorrere dalla data di apertura della successione (o dalla data posteriore in cui abbia acquisito il possesso dei beni stessi), senza che abbia rilievo la sua buona o mala fede (Cass. 2148/2014). Il presupposto della resa dei conti e’ la gestione di affari altrui condotta da uno dei partecipanti, restando irrilevante, quanto al relativo obbligo, la condotta disinteressata del coerede escluso dal possesso.
6) I principi teste’ enunciati conducono all’accoglimento anche del settimo motivo di ricorso nella parte in cui viene lamentato che sia stato negato l’obbligo dei coeredi convenuti “di pagare i frutti e/o l’indennita’ di occupazione per l’uso esclusivo di beni comuni”.
Con sommaria argomentazione la Corte d’appello e’ giunta a tale conclusione affermando che ciascun coerede aveva diritto di godere delle cose comuni e che la (OMISSIS) non aveva mai chiesto di utilizzarle e inoltre aveva goduto in via esclusiva dell’appartamento in Milano.
Queste proposizioni, al di la’ forse di considerazioni equitative che ne sono il fondamento, sono giuridicamente errate, poiche’ diverso e’ il trattamento, quanto ai frutti e al godimento, dei beni entrati nella massa perche’ comuni e indivisi – che sono quelli goduti dai convenuti – e dei beni soggetti a collazione, appartenenti gia’ all’erede al momento della successione.
Il beneficio legittimamente tratto per se’ dall’erede che era gia’ esclusivo proprietario di beni anteriormente donatigli non e’ compensabile imponendogli la perdita del diritto di godere di altri beni anche da lui ereditati e indivisi.
Per contro, come si e’ detto, all’atto dello scioglimento della comunione, il possessore del cespite ereditario ha l’obbligo di rendere il conto in relazione ai frutti maturati prima della divisione.
7) Fondato e’ anche l’ottavo motivo di ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1718 e 2043 ed e’ relativo alla domanda di risarcimento del danno per furto di gioielli e altri beni.
La Corte di appello ha escluso la responsabilita’ dei convenuti affermando che la sottrazione dei beni era dipesa da causa ad essi non imputabile, e che li aveva danneggiati.
Quest’ultimo argomento non ha rilievo in ordine alla dedotta responsabilita’, avendo una consistenza di natura equitativa inappropriata al valore della lite.
Il presupposto della responsabilita’ per il danno provocato dalla cosa in custodia puo’ consistere infatti anche nella comproprieta’ della cosa e in tale ipotesi danneggiato puo’ essere anche uno dei comproprietari (Cass. 255/89).
La non imputabilita’ e’ stata enunciata apoditticamente, giacche’ parte convenuta aveva l’onere di provare di aver custodito i beni con ordinaria diligenza e quindi di dimostrare la corretta chiusura della casa e la adozione di cautele (serrature, cassaforte, nascondigli, ricovero in cassette di sicurezza, etc.) proporzionati al valore patrimoniale e alla destinazione dei singoli oggetti rubati.
Su questi profili il giudice di rinvio dovra’ compiutamente rispondere all’atto di appello.
8) L’accoglimento del ricorso principale impone di esaminare il ricorso incidentale.
Infondatamente (OMISSIS) ne ha eccepito l’inammissibilita’ per vizio della notifica.
Va ribadito che nel caso in cui il ricorso (o il controricorso) per cassazione sia notificato non al procuratore costituito nel giudizio di merito ma alla parte presso il suo procuratore e domiciliatario o nel domicilio eletto dal procuratore medesimo (caso odierno, ben diverso da quello evocato dalla ricorrente incidentale), la notifica, sempre che non sia stata ricevuta personalmente dallo stesso difensore, non puo’ ritenersi effettuata presso persona e in luogo non aventi alcun riferimento con il destinatario dell’atto e, pertanto, non e’ inesistente ma solo nulla per inesatta individuazione della persona del destinatario (Cass. 16578/08); ne consegue che la predetta nullita’ e’ sanata ove l’intimato abbia svolto la propria attivita’ difensiva, come nella specie, con la notifica del controricorso (o di altro atto difensivo) (Cass. 15236/14). In mancanza la Corte avrebbe disposto rinnovazione della notifica, non essendo configurabile alcuna decadenza di carattere sostanziale (cfr. Cass SU 14916/2016).
8.1) I fratelli convenuti eccepiscono che si e’ formato un giudicato parziale per omessa impugnazione – da parte della sorella – dell’ordinanza 22 luglio 2000, resa dal giudice istruttore.
Lamentano pertanto che la Corte territoriale abbia ritenuto ammissibile l’appello.
La censura e’ infondata per almeno due ragioni.
In primo luogo perche’ si tratta di ordinanza resa dall’istruttore e non dal collegio che doveva decidere e ha poi deciso la causa, secondo il rito al tempo vigente, collegio che e’ stato investito dall’istruttore.
Per questa ragione e per la forma del provvedimento, avente per ogni aspetto la forma dell’ordinanza interlocutoria il principio dell’apparenza escludeva comunque la configurabilita’ di una impugnazione o della necessita’ di una riserva di impugnazione.
Trattavasi in ogni caso di ordinanza di contenuto istruttorio e interlocutorio. Essa e’ riportata diligentemente nel corpo ricorso incidentale, il che consente di valutarne il contenuto, chiaramente finalizzato a sfrondare la materia del contendere al solo fine di far comprendere il senso dell’unica iniziativa istruttoria adottata: la consulenza tecnica. Il carattere assertivo di alcune proposizioni, quale quella che preannunciava la non necessita’ di valutare i gioielli o di indagare ulteriormente sulla indennita’ di occupazione (di cui “e’ dubbio che spetti” scriveva significativamente l’ordinanza, lasciando spazio allo scrutinio finale) costituiscono forma collaborativa ed esemplare di dialogo processuale ex articolo 183 c.p.c., innescato indicando le questioni come inquadrate dal giudice e su cui le parti avrebbero dovuto soffermarsi nel prosieguo di causa.
Se cosi’ non avesse fatto, il giudice si sarebbe esposto a critica per avere assunto decisione a sorpresa, senza aver indicato alle parti i profili (la compensazione tra godimento di immobile donato e immobili posseduti dai fratelli; il furto come “causa di forza maggiore”) ritenuti rilevanti per la futura decisione.
8.2) L’inammissibilita’ dell’appello e’ invocata anche sotto altro profilo: la (OMISSIS) ha sottoposto ad appello la sentenza non definitiva del tribunale di Ferrara senza attendere la pronuncia della sentenza definitiva, sebbene avesse formulato riserva di appello differito ex articolo 340 c.p.c..
Secondo i ricorrenti incidentali il ripensamento della (OMISSIS) sarebbe inammissibile e vizierebbe irrimediabilmente l’impugnazione.
La cesura e’ infondata, giacche’, come dedotto in ricorso, la sentenza 1149/03, che non si autoqualificava come sentenza non definitiva, aveva contenuto pienamente decisorio, provvedendo espressamente a dividere l’eredita’ relitta da (OMISSIS) in tre parti uguali, decidendo, sia pure con motivazione sincopata e carente, riverberatasi dannosamente sul giudizio di appello, tutte le ragioni di contrasto.
La separata ordinanza preannunciata a chiusura solo del dispositivo della sentenza – e non della motivazione – era infatti volta solo alla rimessione all’istruttore per l’assegnazione, da effettuare evidentemente con estrazione a sorte.
L’assegnazione dei lotti non e’ soggetta a ricorso per Cassazione, ai sensi dell’articolo 111 Cost., trattandosi di provvedimento carente dei requisiti formali e sostanziali della sentenza, il quale costituisce un mero atto esecutivo delle decisioni gia’ assunte.
Ne consegue che, ravvedutasi, parte ricorrente bene fece a interporre immediato appello e la Corte a procedere all’esame senza attendere una sentenza definitiva che non sarebbe arrivata, dovendo soltanto essere pronunciato un provvedimento di assegnazione.
Cio’ in quanto in tal caso sia sostanza che forma del provvedimento conducevano nel senso della sua immediata appellabilita’.
Significativamente la eccezione ora proposta non risulta in sentenza essere stata sollevata davanti alla Corte felsinea.
Va riaffermato che ha natura definitiva la sentenza che, intervenendo nel corso del giudizio divisorio, risolva tutte le contestazioni insorte fra i condividenti, in ordine ai rispettivi diritti, nonche’ ai limiti e alle particolari connotazioni di questi, rimettendo ad una successiva fase esclusivamente le operazioni (stima, sorteggi di lotti, determinazioni di eventuali plusvalenze o minusvalenze e relativi conguagli) relative alla concreta determinazione ed all’attribuzione delle quote. (Cass. 12818 del 12/07/2004; 3788/94).
Pertanto non valgono nella specie le argomentazioni, peraltro non condivisibili, svolte circa l’irretrattabilita’ della riserva di impugnazione.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi del ricorso principale che hanno meritato l’accoglimento e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Bologna per il riesame dell’appello alla luce dei principi enunciati nei §§ 2-4-5 e per sanare le carenze motivazionali rilevate.
Il giudice di rinvio liquidera’ le spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso incidentale. Rigetta il secondo motivo del ricorso principale. Accoglie gli altri motivi del ricorso principale nei sensi di cui in motivazione.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Bologna, che provvedera’ anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimita’

Cessata la convivenza tra coniugi, le condotte violente ed aggressive rilevano come stalking e non come maltrattamenti in famiglia

Cass. pen. Sez. VI, 19 luglio 2017, n. 35673
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
T.A., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 28/04/2016 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ANGELO CAPOZZI;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. ROSSI Agnello, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
Uditi i difensori:
L’avvocato MARRO Mariapaola, in difesa delle PC F.P.A.A. in proprio e in qualità di genitore esercente la potestà sulla figlia minore V.V., che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, depositando conclusioni e nota spese;
L’avvocato ANDREANO Michele, in difesa di T.A., riportandosi anche ai motivi già depositati, rilevando la prescrizione del reato di cuiall’art. 582 c.p., insiste per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Milano – a seguito di gravame interposto dall’imputato T.A. avverso la sentenza emessa il 10.4.2014 dal locale Tribunale – ha confermato la decisione con la quale il predetto è stato riconosciuto colpevole dei reati di cui ai capi A) (art. 572 cod. pen.ai danni della convivente e delle figlie) e B) (art. 582 cod. pen. ai danni della convivente) e condannato a pena di giustizia, oltre le statuizioni civili.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato che, a mezzo del difensore, deduce:
2.1. Vizio della motivazione in relazione alla valutazione di attendibilità della persona offese ed al giudizio di fondatezza del parere reso dal teste qualificato d.ssa B.. La sentenza risulterebbe assolutamente carente in relazione alla rilievo difensivo sulla quantità indefinita di denunce-querele subite dalla stessa parte offesa, tra le quali quella di C.A. per l’ipotesi di cuiall’art. 368 cod. pen..In tale contesto si colloca la insufficiente valutazione della Corte in ordine alla incidenza della mendacità commessa da V.V. – sulle cui motivazioni la Corte di merito sorvolerebbe e la cui ritrattazione risulterebbe solo frutto di timori conseguenti alle indagini in ordine alla calunnia perpetrata ai danni del C. – sul complessivo contributo dichiarativo di questa, della sorella e della madre. Inoltre, ingiustificata sarebbe la riconduzione all’imputato di condotte poste in essere da terzi, ivi comprese le vicende relative all’invio della foto di nudo, del manifesto o della missiva con le foto di proiettili. Quanto al contributo dichiarativo della d.ssa B., risulterebbe del tutto illogico evidenziare, da un lato, l’assenza di un vaglio di credibilità ad opera della teste de relato del narrato ricevuto e, da altro lato, ritenere egualmente genuino il contenuto riportato così come dalla teste ricevuto, a fronte di un incontestato mendacio rilasciato nell’ambito del medesimo procedimento nel quale la teste depone. Dovendosi, inoltre, tenere conto del contesto temporale in cui ha operato la teste, coincidente con quello in cui si è generato il processo penale ed a distanza di due anni dall’episodio che ha segnato la conclusione della relazione tra l’imputato e la p.o. (nella notte tra il 7 e 8 maggio 2009).
2.2. Mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla contestata attualità della condotta, rispetto alla rilevata cessazione della relazione tra il T. e la F. nel 2009. Risulterebbe, poi, priva di motivazione la concorsuale responsabilità dell’imputato nelle interferenze poste in essere dal fratello A. ed incongruo il giudizio sulla difficoltà da parte delle vittime di collocare temporalmente gli episodi vessatori, rispetto alla ripetuta presentazione di ben 17 denunce-querele per 25 fatti.
2.3. Mancata assunzione di prova decisiva e vizio di motivazione sulla richiesta di rinnovazione istruttoria per l’espletamento di una perizia psichiatrica sulla p.o. con riferimento alla convocazione presso l’Unità Psichiatrica di (OMISSIS) e la esigenza di una verifica delle cause dell’induzione al mendacio della figlia.
2.4. Mancanza della motivazione in ordine alla deduzione difensiva volta alla derubricazione del reato di maltrattamenti in quelli di ingiurie ed al contenimento della pena nei minimi edittali.
3. All’udienza del 26.4.2017 questa Corte ha emesso ordinanza con la quale ha indicato, ai fini della integrazione del contraddittorio, la possibilità di diversa qualificazione dei fatti successivi al maggio 2009 ai sensi dell’art. 612 bis cod. pen. e rinviato all’odierna udienza.
4. Con memoria difensiva nell’interesse del ricorrente nell’evidenziare la novità della prospettata riqualificazione si sostiene l’impossibilità di un contraddittorio di sola legittimità sul punto da parte della difesa. Una conclusione eventualmente diversa dall’annullamento della sentenza impugnata – secondo il ricorrente – apporterebbe un vulnus difensivo in considerazione del fatto che il ricorrente si troverebbe ad essere giudicato su un thema non corrispondente alla realtà processuale vissuta. E lo stesso intervallo temporale intercorrente tra la precedente udienza e quella odierna non escluderebbe la natura di “atto a sorpresa” nei confronti del ricorrente della paventata più grave riqualificazione, la quale non potrebbe prescindere – ai sensi dell’art. 6 par. 3 CEDU – dalla sua dettagliata formulazione, nella specie non verificatasi, anche ai fini della necessaria difesa nel merito.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è solo in parte fondato.
2. Il primo motivo è generico ed in fatto rispetto alle ragioni poste a base della affermazione di responsabilità che – da un lato – hanno del tutto correttamente considerato l’episodio del mendacio ritenendo che esso non influisse sul complessivo molteplice dato dichiarativo dal quale emergevano i reiterati episodi di insulti, aggressioni e violenze poste in essere dall’imputato ai danni della convivente e delle figlie – dall’altro – del pari correttamente valutato il contributo dichiarativo della d.ssa B. che ebbe a constatare le condizioni di grave rischio in cui versavano la madre e le figlie, cogliendone reali condizioni di malessere e sofferenza, non risultando fuorviata nelle sue valutazioni dal noto episodio di mendacio narrativo, costituente un frammento di un ben più ampio compendio conoscitivo del quale la teste era stata investita. Quanto, infine, alla censura dell’attribuzione all’imputato di condotte di terzi, non solo risulta ineccepibilmente motivata la genericità della accusa mossa alla madre ed alle figlie di condotte ai danni di abitanti di (OMISSIS), ma correttamente e specificamente valutata la compartecipazione dell’imputato alle condotte di terzi in termini concorsuali o sinergici.
3. Il secondo motivo è fondato nei termini che seguono.
3.1. Ferma restando la ineccepibile valutazione in ordine alle condotte di terzi, la Corte ha correttamente giustificato la prosecuzione delle condotte pesantemente aggressive e persecutorie del ricorrente nei confronti della donna successivamente alla fine del rapporto (di cui consta la cessazione alla data del 9 maggio 2009) – su iniziativa della donna – attraverso ripetute minacce anche di morte mediante l’uso di armi, appostamenti sotto casa o nei centri commerciali, telefonate alle figlie, gomme tagliate e aggressioni dietro appostamenti (v. pag. 8/9 della sentenza impugnata).
3.2. La prima sentenza, ha già richiamato la situazione di disagio di V.V. la quale non frequentava più le lezioni a causa di una forte preoccupazione personale maturata a seguito di una situazione di rischio quotidiano derivante dalle condotte di tipo persecutorio poste in essere nei confronti del suo nucleo familiare (v. pg. 8 della sentenza di primo grado). Quanto alla F., il primo giudice ha accertato che la donna risulta essere stata oggetto di una propalazione diffamatoria e minacciosa, realizzata nel contesto cittadino di (OMISSIS) mediante l’affissione di scritti ed immagini subito dopo l’interruzione relazionale con l’imputato avvenuta a seguito dell’aggressione lesiva subita in data 7-8 maggio 2009, incominciata in data 29 maggio 2009 (v. pg. 8 della prima sentenza), alla quale seguiva l’inoltro di minacce con raffigurazione di cartucce e frasi del tipo “abbiamo seguito i vostri movimenti…uscite e rientri a casa per giorni e giorni…potevamo sequestrare una delle tue figlie.. non ci costringere a fare questo così come di non usare queste pallottole” (v. pg. 9, ibidem). Ancora, il primo giudice ha rilevato che, “sempre a conferma di attività decisamente persecutorie sofferte dalle parti lese” si segnalano le stesse sproporzionate attività di polizia posta in essere dai carabinieri di (OMISSIS), rispetto ai quali emerge una “contiguità relazionale” con i fratelli T. (v. pg. 10, ibidem). Infine, il primo Giudice individua la denuncia alla A.G. del 24.12.2012 del Soccorso violenza sessuale e domestica della clinica (OMISSIS), dalla quale emerge una chiara sintomatologia di V.S. (crisi di asma, attacchi di panico, disturbi psicosomatici) associabile, come descritto anche dalla d.ssa C.M.J. nella relazione del 17.12.2013 la quale evidenzia l’esistenza di “una grava condizione di stress e timore per la sua incolumità fisica che trovano espressione tramite sintomatologia corporea, alla paura per gli atti violenti posti in essere dai fratelli T.” (v. pg. 13, ibidem).
Lo stesso Giudice di primo grado conclude qualificando nell’ambito del delitto di cui all’art. 612 bis cod. pen. gli episodi di “stalking” consumati dall’imputato dopo la cessazione della convivenza (v. pg. 14 della prima sentenza), pur non applicando per tale diversa condotta alcuna pena (l’incremento di pena è stato applicato, in ragione della continuazione, per il solo reato di cui al capo B). Invece, i Giudici di appello hanno ritenuto di ascrivere all’imputato dette condotte nell’ambito della ipotesi di cuiall’art. 572 cod. pen., così giustificandone la permanenza attuale.
3.3. E’ stato affermato che, in tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà previstadall’art. 612-bis cod. pen., comma 1, – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (previstadall’art. 612-bis cod. pen., comma 2) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale (Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011, Frasca, Rv. 252906). E’ stato chiarito che l’oggettività giuridica delle due fattispecie di cui agli (artt. 572 e 612 bis c.p.) è diversa e diversi sono i soggetti attivi e passivi delle due condotte illecite, ancorché le condotte materiali dei reati appaiano omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva. Il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia (per la precisione contro l’assistenza familiare) e il suo oggetto giuridico è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti; vessatori e violenti e dell’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. La latitudine applicativa della fattispecie è determinata dall’estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità (pur ricorrente in tal genere di consorzi umani) della convivenza o di una stabile coabitazione. Al di là della lettera della norma incriminatrice (“chiunque”) il reato di maltrattamenti familiari è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famigliadall’art. 572 c.p.(organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte). Specularmente il reato può essere commesso soltanto in pregiudizio di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate. Il reato di atti persecutori è un reato contro la persona e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” (reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche. Il rapporto tra tale reato e il reato di maltrattamenti è regolato dalla clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 1 (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), che rende applicabile – nelle condizioni date prima descritte – il reato di maltrattamenti, più grave per pena edittale rispetto a quello di atti persecutori nella sua forma generale di cui all’art. 612 bis c.p., comma 1.
Soltanto la forma aggravata del reato prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 2, recupera ambiti referenziali latamente legati alla comunità della famiglia (in senso stretto e suo proprio, con esclusione delle altre comunità assimilate exart. 572 c.p., comma 1) e che ne costituiscono – se così può dirsi – postume proiezioni temporali, allorché il soggetto attivo (in questa forma aggravata il reato acquista natura di reato proprio) sia il coniuge legalmente separato o divorziato o un soggetto che sia stato legato da relazione affettiva alla persona offesa (cioè da una aggregazione in sostanza surrogatoria della famiglia stricto sensu).
Sotto questo profilo, ferma l’eventualità ben possibile di un concorso apparente di norme che renda applicabili (concorrenti) entrambi i reati di maltrattamenti e di atti persecutori, il reato di cui all’art. 612 bis c.p. diviene idoneo a sanzionare con effetti diacronici comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulerebbero dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale. Ciò che può valere, in particolare (se non unicamente), in caso di divorzio o di “relazione affettiva” definitivamente cessata, giacché anche in caso di separazione legale (oltre che di fatto) questa S.C. ha affermato la ravvisabilità del reato di maltrattamenti, al venir meno degli obblighi di convivenza e fedeltà non corrispondendo il venir meno anche dei doveri di reciproco rispetto e di assistenza morale e materiale tra i coniugi (cfr.: Cass. Sez. 5, 1.2.1999 n. 3570, Valente, rv. 213515; Cass. Sez. 6,27.6.2008 n. 26571, rv. 241253) (conforme Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A., Rv. 267942).
3.4. Ritiene la Corte che la cessazione della convivenza da parte dell’imputato – non legato con la donna maltrattata da rapporto di coniugio – non consente di qualificare la prosecuzione della condotta persecutoria nell’ambito del reato di cuiall’art. 572 cod. pen.ipotizzato dall’accusa, dovendosi tale parte della condotta qualificare nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 612 bis cod. pen., comma 2.
3.5. Quanto al contraddittorio sulla qualificazione giuridica delle condotte successive alla cessazione della convivenza (a partire dall’episodio sub B) va detto quanto segue.
3.6. Va richiamato per la sua valenza generale l’orientamento secondo il quale l’attribuzione all’esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazionedell’art. 521 cod. proc. pen., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla lucedell’art. 111 Cost., comma 2, e dell’art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte Europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438).
3.7. Deve, inoltre, rilevarsi che è manifestamente infondata la eccepita novità della qualificazione giuridica delle condotte successive alla cessazione della convivenza nell’ambito del reato di cui all’art. 612 bis cod. pen., risultando essere già stata operata dal primo giudice di merito. Cosicché alcuna violazione del diritto di difesa è verificabile nella specie.
3.8. Pertanto, la condotta exart. 572 cod. pen.ascritta al ricorrente deve ritenersi terminata nel maggio 2009, al momento della cessazione della convivenza tra l’imputato e le parti offese, mentre quella successiva a tale momento deve essere qualificata ai sensi dell’art. 612 bis cod. pen., comma 2, rigettandosi – in parte qua – il ricorso.
4. Il terzo motivo è manifestamente infondato, quando non proposto per ragioni che esulano da quelle previste dall’ordinamento.
4.1. In riferimento al giudizio di appello, la mancata assunzione di una prova decisiva può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensidell’art. 606 cod. proc. pen., lett. d) solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse secondo il dispostodell’art. 603 cod. proc. pen., comma 2. Negli altri casi, la decisione istruttoria è ricorribile, ai sensidell’art. 606 cod. proc. pen., lett. e), sotto il solo profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione come risultante dal testo del provvedimento impugnato e sempre che la prova negata, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da poter determinare una diversa conclusione del processo (Sez. 2, n. 44313 del 11/11/2005, Picone, Rv. 232772).
4.2. Pertanto, in assenza di prove sopravvenute, sfugge a censure di legittimità la risposta priva di vizi logici e giuridici, data in relazione alla richiesta di rinnovazione probatoria dalla Corte di merito per la esaustività delle acquisizioni probatorie.
5. Manifestamente infondato è il quarto motivo rispetto alla ricostruzione del fatto in termini di maltrattamenti, che – pertanto implicitamente ha escluso una diversa e meno grave qualificazione dei fatti medesimi.
6. La parziale fondatezza del ricorso impone di rilevare, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., comma 1, ed in assenza delle condizioni di cui all’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, l’avvenuto decorso della prescrizione in ordine al reato di maltrattamenti sub A) commesso fino al maggio 2009 ed al reato di cui al capo B). Non rileva ai fini penali la susseguente condotta qualificata ai sensi dell’art. 612 bis cod. pen., comma 2, in ragione del fatto che alcuna pena risulta essere stata inflitta in primo grado per tale parte di condotta (senza che ciò sia stato oggetto di impugnazione da parte del P.M.).
7. In conclusione deve essere disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alle condotte ex art. 572 cod. pen.commesse in costanza di convivenza per intervenuta prescrizione alla data del novembre 2016, riqualificando i fatti ad esse successivi nell’ambito dell’art. 612 bis cod. pen., rigettandosi – per questa parte – il ricorso a riguardo, non sussistendo – per quanto si è detto – elementi per una declaratoria ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., comma 2.
8. Vanno confermate le statuizioni civili ed il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle costituite parti civili che si stima equo determinare come in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, in riferimento al reato di cui all’art.572 c.p. commesso fino al maggio 2009 e in riferimento al reato di cui al capo B), perché estinti per prescrizione rigetta il ricorso in riferimento alle condotte successive al maggio 2009 di cui al capo A), qualificate ai sensi dell’art. 612 bis c.p., comma 2. Conferma le statuizioni civili e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle costituite parti civili, che liquida complessivamente in Euro 3.500,00 oltre 15% per spese generali, Iva e Cpa.

In sede di separazione l’attitudine al lavoro del beneficiario dell’assegno assume rilievo solo se si sostanzia in un’effettiva impossibilità di un’attività lavorativa retribuita

Cass. civ. Sez. VI – 1, 20 luglio 2017, n. 17971:
ORDINANZA
sul ricorso 14206-2016 proposto da:
N.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 35/B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO COLAGRANDE, rappresentato e difeso dagli avvocati CINZIA MELLA, LUCIA TEDESCHI;
– ricorrente –
contro
ìS.S. elettivamente domiciliata in LARGO GEN. GONZAGA DEL VODICE 2, presso dell’avvocato ALESSANDRO PAZZAGLIA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FULVIA BACCOS;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2778/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 03/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/05/2017 dal Consigliere Dott. CARLO DE CHIARA.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Padova sulla separazione dei coniugi sig. N.M. e sig.ra S.S., ha determinato in Euro 650,00, comprensivi della rata del mutuo contratto per l’acquisto della casa coniugale, l’assegno mensile dovuto dal marito in favore della moglie, e ha condannato l’appellato alle spese processuali in considerazione della sua prevalente soccombenza.
Accertato che la sig.ra S. era disoccupata, la Corte ha valutato che sussisteva tra i coniugi una consistente disparità economica. In particolare, quanto al primo profilo, ha chiarito che la signora, a partire dall’8 agosto 2014, non aveva più svolto attività lavorative retribuite di carattere continuativo, e che quindi non rilevava la sua astratta attitudine al lavoro proficuo, difettando comunque qualunque concreta capacità di guadagno; quanto, poi, al profilo della disparità economica tra i coniugi, ha evidenziato che, a differenza della moglie, il sig. N. poteva contare su una fonte di reddito stabile e continuativa, esercitando la professione di promotore finanziario, ed ha disatteso le dichiarazioni dei redditi da lui prodotte, tra cui quella del 2014, dalla quale risultava un reddito mensile nello di Euro 1.375,08. Tale somma, infatti, non era neppure sufficiente a far fronte agli esborsi mensili accertati, quali il pagamento dell’assegno di Euro 837,60 per le due figlie e altre spese fisse su di lui gravanti; le rate del mutuo ipotecario pari a Euro 550,00; i canoni di locazione di Euro 430,00 e di Euro 110,00 rispettivamente per l’abitazione e l’ufficio e gli ulteriori costi di quest’ultimo.
In mancanza di elementi attendibili per la ricostruzione delle effettive disponibilità economiche dell’obbligato, per determinare l’entità dell’assegno la Corte si è quindi basata sull’accordo stipulato dai coniugi il 16 febbraio 2010, con il quale il marito si era impegnato a versare alla moglie, per il mantenimento di lei e delle figlie, la somma di Euro 1.500,00 mensili, comprensiva della rata di mutuo e delle spese per utenze domestiche.
2. Il sig. N. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, cui l’intimata ha resistito con controricorso.
Il ricorrente ha anche presentato memoria.
Il Collegio ha deliberato che la motivazione della presente ordinanza sia redatta in forma semplificata, non ponendosi questioni rilevanti ai fini della funzione nomofilattica di questa Corte.
Motivi della decisione
1. Con il primo e il secondo motivo di ricorso, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, il ricorrente censura le statuizioni relative all’an e al quantum dell’assegno di mantenimento riconosciuto in favore della moglie.
1.1. La censura riguardante la capacità lavorativa della sig.ra S. è infondata, poiché l’attitudine del coniuge al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche (Cass. 3502/2013, 18547/2006, 6427/2016). Per il resto le censure sono inammissibili in quanto, a dispetto della loro rubrica, si sostanziano in critiche di merito.
2. Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione, si censura la condanna del ricorrente alle spese processuali, contestando la valutazione di sua prevalente soccombenza.
2.1. Il motivo è inammissibile perché la valutazione in questione è tipicamente di merito, dunque è censurabile soltanto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 mediante indicazione – nella specie del tutto mancante – di un fatto decisivo di cui si sia discusso in causa e del quale il giudice abbia omesso l’esame.
3. Il ricorso va in conclusione rigettato.
Quanto alle spese processuali, data l’ammissione della controricorrente vittoriosa al patrocinio a spese dello Stato, questa Corte deve limitarsi a condannare il ricorrente soccombente a versare il relativo importo, sia per il giudizio di legittimità che per quello di merito (art. 385 c.p.c., comma 2), all’Amministrazione Finanziaria dello Stato, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.113senza procedere ad alcuna liquidazione, spettante invece, ai sensi della corretta lettura degli artt. 82 e 83 D.P.R. cit., al giudice di merito (cfr., da ult., Cass. Sez. Un. 22792/2012), individuato nel giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (cfr. Cass. 23007/2010).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Amministrazione Finanziaria dello Stato, delle spese del giudizio di legittimità, da liquidarsi a cura della Corte d’appello di Venezia.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.