Azienda coniugale e azienda personale

Di Gianfranco Dosi

I Impresa e azienda nel regime di comunione e di separazione dei beni
Un’attività imprenditoriale può essere esercitata da un coniuge personalmente o insieme all’altro coniuge. La disciplina giuridica applicabile alle due situazioni è influenzata dal regime patrimoniale.
In separazione dei beni l’esercizio personale di una attività imprenditoriale da parte di un coniuge non ha particolari conseguenze essendo i beni aziendali in genere di esclusiva proprietà dell’imprenditore che li utilizza e quindi non si producono particolari interferenze con l’altro coniuge. L’esercizio in comune da parte dei coniugi, invece, di un’attività imprenditoriale, si traduce in una gestione societaria e di conseguenza le regole applicabili sono quelle della società.
Il regime di comunione legale, influenza, viceversa in modo significativo la disciplina dell’azienda e dell’impresa dei coniugi, nel senso che l’esercizio di una attività imprenditoriale da parte di un coniuge determina l’ingresso in comunione de residuo dei beni (se l’impresa è costituita dopo il matrimonio) o degli incrementi (se l’impresa era già esistente da prima del matrimonio), mentre se l’impresa è cogestita i beni aziendali ovvero gli utili e gli incrementi entrano in comunione immediata a seconda che l’azienda sia costituita dopo il matrimonio o fosse personale di uno dei due coniugi da prima del matrimonio. La gestione, quindi, da parte del solo coniuge imprenditore comporta acquisizioni alla comunione de residuo, mentre la cogestione dell’impresa determina acquisizioni in comunione immediata. In quest’ultimo caso, per quanto, attiene alla disciplina dell’impresa (cogestita) troveranno, però, applicazione sempre le sole regole societarie essendo inconcepibile nel nostro sistema una comunione di impresa in quanto un’impresa collettiva è sempre una impresa societaria.
Come si vedrà, la giurisprudenza in materia di azienda e impresa dei coniugi in regime di comunione, pur significativa, è numericamente contenuta, segno evidente che nella realtà della vita sociale l’attività imprenditoriale è evidentemente soprattutto esercitata da coniugi in regime di separazione dei beni. E, come si è sopra detto, la separazione dei beni non interferisce quasi per nulla con l’attività imprenditoriale separata o comune dei coniugi.
Con queste premessa di carattere generale è ora possibile scendere all’esame del diverse tipologia che il codice civile prevede in caso di azienda e di impresa dei coniugi, con particolare riferimento alle interferenze con la comunione legale.
II Azienda coniugale (cogestita) e comunione immediata dell’azienda
L’espressione “azienda coniugale” non è una espressione usata genericamente, ma si riferisce – nella lettera d dell’art. 177 (oggetto della comunione)1 – all’azienda costituita dai coniugi in comunione legale dopo il matrimonio e cogestita da entrambi.
1 177 (Oggetto della comunione)
L’azienda costituita da entrambi i coniugi dopo il matrimonio (si pensi a due coniugi entrambi fotografi – in regime di comunione dei beni – che avviano una impresa da esercitare insieme e che acquistano i macchinari e le attrezzature necessarie) fa parte della comunione immediata in quanto l’acquisto dei beni aziendali è effettuato insieme dopo il matrimonio. Si tratta in fondo di un acquisto che come tutti gli acquisti fanno entrare il bene in comunione. D’altro lato l’azienda – come definita nell’art 2555 – è “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” ed è quindi conseguenziale che l’art. 177 consideri l’azienda coniugale come un insieme di beni (acquistati come beni strumentali dell’impresa) che hanno a che fare con la comunione.
Oggetto della comunione è quindi, l’azienda (e quindi i beni che compongono). Si ricorda che l’art, 179 (beni personali) alla lettera d esclude che siano beni personali, appunto, i beni destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione.
La gestione comune da parte dei coniugi in comunione di una determinata impresa imprime ai beni destinati a quell’impresa la natura di un acquisto che ne giustifica l’inclusione nella comunione dei beni.
Con l’espressione “azienda coniugale” ci si riferisce quindi al complesso dei beni destinati da coniugi in comunione legale all’esercizio di una impresa costituita dopo il matrimonio e da essi cogestita durante il matrimonio.
Può trattarsi di beni immobili (locali commerciali, una fabbrica, capannoni) o beni mobili (strumenti di lavoro, attrezzature, mobilio) o anche mobili registrarti (autovetture, camion).
La collocazione di questa situazione all’interno della comunione dei beni (art. 177 c.c.) giustifica il nome che l’istituto ha. Non impresa coniugale ma “azienda coniugale” proprio per richiamare la dimensione dell’acquisto dei beni necessari per l’esercizio di una impresa. In ogni caso l’azienda coniugale è, da un punto di cista dinamico, una vera e propria impresa coniugale.
È appena il caso di osservare che se l’azienda non fosse cogestita dai coniugi – e quindi se fossimo in presenza di una azienda personale di uno dei coniugi (gestita, perciò, solo dal coniuge proprietario dell’azienda) – si verificherebbe la situazione descritta nell’art. 178 e i beni e gli incrementi aziendali entrerebbero in comunione de residuo.
III Azienda personale (cogestita) e comunione immediata degli utili e degli incrementi
Il codice si riferisce all’“azienda personale” per fare riferimento a quanto prevede il capoverso dell’art. 177 (“Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi”). Si tratta di una azienda, quindi, appartenente ad uno dei coniugi da prima del matrimonio e, tuttavia, cogestita da entrambi.
L’ipotesi è quella in cui i beni aziendali (nell’esempio di sopra i macchinari e le attrezzature di fotografia) sono di proprietà da prima del matrimonio di uno dei coniugi che li aveva destinati alla propria attività imprenditoriale. Questi beni rimangono evidentemente beni personali (art. 179, lettera a) del coniuge imprenditore che li ha acquistati. In questo senso l’azienda è “appartenente” al coniuge imprenditore. Tuttavia, se dopo il matrimonio il coniuge imprenditore proprietario di quei beni chiama l’altro a partecipare e a gestire l’azienda, questa gestione comune fa sì che (non l’azienda ma solo) gli utili e gli incrementi dell’azienda entrino nella comunione immediata, avvantaggiando anche il coniuge non proprietario in virtù del fatto che anche lui gestisce l’azienda. Utili ed incrementi vengono pertanto equiparati agli acquisti ed entrano in comunione come tali.
Gli incrementi sono tutti gli acquisti effettuati dai coniugi successivamente all’inizio della cogestione aziendale insieme o separatamente. Gli utili sono i vantaggi monetari detratte le spese derivanti dalla cogestione. Oggetto della comunione è una entità (appunto gli utili) che può essere facilmente desunta dalla contabilità aziendale e dalla documentazione fiscale. E’ un caso in cui oggetto della comunione è in sostanza il denaro che normalmente non entra in comunione immediata ma in comunione de residuo.
Anche in questo caso se l’azienda personale di uno dei coniugi non fosse cogestita da entrambi si verificherebbe la situazione descritta nell’art. 178 e gli incrementi dell’azienda entrerebbero in comunione de residuo.
IV Azienda personale (gestita dal solo coniuge imprenditore) e comunione de residuo
L’art. 178 c.c. 2 prevede – analogamente a quanto si verifica in caso di proventi non consumati di attività separata (art. 177 lett. c) – che i beni aziendali di uno dei coniugi entrano nella comunione di residuo, se esistenti ancora al momento dello scioglimento del regime, a condizione che si tratti di “beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio” e di “incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” e perciò anche dell’impresa costituita dopo il matrimonio.
L’azienda (costituita dopo il matrimonio o esistente da prima del matrimonio) è di proprietà del coniuge imprenditore che rimane tale senza che l’altro coniuge sia chiamato a cogestirla.
Si verifica una situazione che è molto simile a quella dei risparmi dei coniugi in comunione. In pratica i beni
Costituiscono oggetto della comunione:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.
2 178 (Beni destinati all’esercizio di impresa)
I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa.

aziendali dell’impresa di un coniuge acquistati dopo il matrimonio e gli incrementi aziendali dell’impresa di uno dei coniugi (iniziata prima o dopo il matrimonio) diventano anche dell’altro coniuge se esistenti al momento dello scioglimento del regime della comunione legale.
Si tratta perciò di “beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio” e di “incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” che secondo l’art. 178 “si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.
In definitiva, i beni che il coniuge imprenditore destina alla sua impresa costituita dopo il matrimonio non entrano in comunione immediata ma, se esistenti al momento dello scioglimento della comunione, fanno parte della comunione de residuo.
Altrettanto avviene per i beni destinati ad un’impresa che il coniuge esercitava già da prima del matrimonio. In tal caso, appunto, resteranno in comunione de residuo gli incrementi di tale impresa.
Il diritto del coniuge non imprenditore sugli incrementi, al momento dello scioglimento della comunione legale, ha natura di diritto di credito.
Il codice tratta quindi i beni (della nuova impresa di un coniuge) e gli incrementi (dell’impresa già avviata da un coniuge da prima del matrimonio) come proventi di attività separata e li destina alla comunione de residuo.
VI concetti di gestione e di cogestione
a) Proprietà dei beni aziendali e gestione dell’impresa sono due piani diversi
Come si è visto, oggetto della comunione immediata nel caso dell’azienda coniugale prevista nell’art. 177 lett. d (comunione dell’azienda) e nel caso dell’azienda personale prevista nel capoverso del medesimo art. 177 (comunione degli utili e degli incrementi) è la cogestione. Non c’è invece nessuna cogestione della situazione descritta nell’art. 178.
In entrambe le situazioni, per potersi parlare di comunione immediata dell’azienda ovvero degli utili e degli incrementi, elemento imprescindibile è che l’azienda sia cogestita. E ciò, indipendentemente dal fatto che l’azienda sia stata costituita da entrambi i coniugi dopo il matrimonio (azienda coniugale) o che appartenesse ad uno dei coniugi prima del matrimonio (azienda personale) (Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164; App. Milano, 10 maggio 2006).
In verità il termine cogestione fa riferimento logico ad una situazione dinamica, quindi all’impresa esercitata dai coniugi e non ad un elemento statico come l’azienda. Poiché però il legislatore ha dato prevalenza all’elemento strutturale del trovarsi i beni aziendali ovvero gli utili e gli incrementi in comunione legale, la norma parla di cogestione dell’azienda, ma tecnicamente si tratta di una cogestione dell’impresa.
Proprio per questo Tribunale Roma 16 settembre 1999 – una delle pochissime sentenze reperibili su questo argomento – ha in passato affermato che cogestire un’impresa significa in sostanza per due coniugi trovarsi tra loro in società di fatto. La sentenza in questione (che si occupò del fallimento di una società di fatto tra due coniugi in comunione che cogestivano un’impresa di commercio di oggetti preziosi) faceva rilevare che “nel caso in cui ambedue i coniugi siano proprietari e cogestiscano l’azienda familiare, ai fini dell’individuazione delle norme applicabili occorre distinguere i rapporti concernenti la proprietà, art. 177 c.c., dai rapporti concernenti la gestione, art. 2247 c.c..
In sostanza il tribunale sostenne che il problema centrale, nel caso di impresa esercitata da entrambi i coniugi nella forma dell’azienda coniugale, è quello di stabilire se all’impresa collettiva, vadano applicate le disposizioni che disciplinano la comunione legale oppure le norme di diritto societario, in quanto vera e propria società di fatto.
La dottrina è stata a lungo impegnata nella questione della sottoposizione della gestione dell’impresa coniugale alla regolamentazione delle società (e, in particolare, a quella della società di fatto) ovvero alla disciplina della comunione legale. Molti hanno sostenuto la tesi dell’applicazione delle norme della comunione negando in radice la stessa possibilità per i coniugi in comunione legale di concludere un contratto di società con cui esercitare in comune l’attività di impresa, con la conseguenza che la gestione in forma societaria di un’azienda di proprietà dei due coniugi sarebbe ammissibile solamente ove la stessa venisse previamente estromessa dalla comunione con una modifica convenzionale (art. 210 c.c.). Altri sono stati propensi a riconoscere, invece, alla disciplina della comunione legale un rilievo tale da non sconvolgere i rapporti con i terzi, ma da esplicarsi per quanto possibile nei soli rapporti interni, ammettendo che la gestione in comune dell’azienda da parte dei coniugi dà luogo ad una società di fatto alla quale dovrà applicarsi tutta la disciplina di tali società, compresa la responsabilità illimitata dei soci come se si trattasse sempre di obbligazioni assunte congiuntamente per le quali i beni della comunione rispondono sempre (art, 186, lett. d) e senza applicazione della regola prevista per le obbligazioni contratte separatamente (art. 189).
Nella scarsissima giurisprudenza reperibile il problema è stato risolto – come si è visto (Tribunale Roma 16 settembre 1999) – ritenendo sempre applicabili alla (co)gestione le regole della società.
In verità precedentemente era anche sta proposta la tesi contraria: che ciò si applicassero le regole della comunione (Trib. Catania, 21 gennaio 1983 affermò, infatti, che un’azienda gestita di fatto da entrambi i coniugi in regime di comunione legale, in assenza di precisi accordi formali, ricade nell’ipotesi di cui all’art. 177, lett. d), cod. civ., ovvero, qualora si tratti di azienda già appartenente ad uno dei coniugi prima del matrimonio, nell’ipotesi di cui al comma 2 del medesimo articolo”).
Secondo questo orientamento più attempato l’applicazione del regime proprio della comunione familiare alla gestione in comune da parte dei coniugi di un’azienda coniugale si giustificherebbe con l’esigenza di evitare (applicandosi altrimenti il più gravoso regime societario) che l’azienda coniugale, concepita a tutela del lavoro coniugale e familiare, possa comportare pesanti conseguenze per il coniuge più debole che ha prestato la propria attività lavorativa nell’azienda del consorte. Tuttavia, all’inquadramento dell’azienda coniugale nell’ambito della comunione legale tra coniugi, osta effettivamente l’impossibilità di configurare imprese collettive non di tipo societario, ma nelle forme della comunione d’impresa. Un’impresa collettiva è nel nostro sistema sempre una impresa societaria.
Non resta, perciò, che distinguere i due aspetti: una cosa è la comunione dell’azienda ed un’altra cosa è l’esercizio collettivo dell’impresa in forma societaria.
Il primo aspetto, che riguarda l’appartenenza dei beni (e cioè la disciplina dell’acquisto dei diritti reali e patrimoniali da parte dei coniugi) rientra nell’ambito di applicazione delle norme di cui all’art. 177, lett. d) e 2° comma, c.c., mentre il secondo aspetto e cioè l’esercizio in comune dell’impresa, troverà la propria disciplina all’interno della materia societaria, posto che, in assenza di una espressa previsione di deroga da parte del legislatore, la disciplina dell’esercizio in comune di una attività economica, non può che essere demandata alle norme in materia di società.
Con la precisazione, importante, che la comunione legale tra coniugi non implica, per ciò stesso, l’esistenza di una società di fatto tra gli stessi, occorrendo sempre la prova della (co)gestione (Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 1995, n. 6142 che ammette quindi che due coniugi in comunione possano esercitare un’attività in società).
Seguendo tale interpretazione si perviene alla conclusione che, quando due coniugi utilizzano beni aziendali per l’esercizio in comune di una attività economica, danno luogo ad una società di fatto, regolata secondo gli artt. 2247 e segg. c.c. se vi è la effettiva gestione comune. Le norme di cui all’art. 177, lett. d), e 2° comma, c.c. disciplinano, invece, l’attribuzione della titolarità di determinati beni aziendali, allorquando l’azienda, costituita prima o dopo il matrimonio, sia gestita da entrambi i coniugi.
In questa prospettiva per esempio Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164 aveva annullato una decisione di merito “in quanto la sentenza impugnata ha fatto applicazione dell’ultimo comma dell’art. 177 cod. civ. che comprende nella comunione familiare gli utili e gli incrementi delle aziende appartenenti a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio, ma gestite da entrambi, senza alcun riferimento alla cogestione dell’azienda”.
Va anche considerato che la gestione comune dell’azienda coniugale fa assumere ai coniugi, per ciò stesso, la qualifica di (co)imprenditori, con tutte le conseguenze previste nel caso di insolvenza dalla legge fallimentare (RD 16 marzo 1942, n. 267 nel testo vigente dopo le riforme attuate con il Decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169).
b) Che significa cogestione?
A questo punto occorre chiedersi che cosa significa cogestione.
Su questo aspetto viene spesso richiamata una decisione piuttosto significativa (App. Milano, 10 maggio 2006) nella quale i giudici procedono proprio alla verifica delle modalità di gestione di una impresa di attività di parrucchiere, ritenendo che determinante è verificare il ruolo rispettivamente svolto dai coniugi nella fase gestionale. “Già nella sentenza impugnata si dà correttamente atto che la L. assumeva con il marito le scelte relative all’impiego degli utili, all’assunzione di nuovo personale, agli indirizzi dell’attività e, in particolare, si sottolinea che era la L. che organizzava il lavoro con le dipendenti e gestiva le clienti, che incassava, che verificava le necessità relative ai prodotti e ad eventuale manodopera, in quanto il marito era occupato pressoché per l’intera giornata nel negozio”. Né ad avviso della Corte “pare significativo per escludere la configurabilità di una gestione della L. in comune con il marito che fosse quest’ultimo a mantenere i rapporti con i fornitori ed a gestire il conto corrente relativo all’attività dell’impresa o a consultare il commercialista, al quale trasmetteva la documentazione contabile. Una divisione dei compiti nell’ambito dell’esercizio in comune dell’azienda sembra infatti pienamente rispondente ad un’ottica di efficienza: da una parte il M. seguiva i rapporti con i professionisti e consulenti, dall’altra la L. seguiva gli aspetti più propriamente operativi dell’impresa, che per le sue caratteristiche artigianali si concretizzano soprattutto nello svolgimento in prima persona del “mestiere”, nel tenere i rapporti con la clientela, nell’incassare e rilasciare ricevute fiscali, coordinare e dirigere il personale”
Quindi assumere le scelte relative all’impiego degli utili, all’assunzione di nuovo personale, agli indirizzi dell’attività, all’organizzazione del lavoro dei dipendenti, ai rapporti con i clienti, lasciando che l’altro coniuge si occupi della contabilità e dei rapporti con i fornitori significa cogestire un’azienda.
Spesso un elemento che viene in evidenza è l’avvenuta concessione, da parte del coniuge formalmente estraneo all’attività, di fideiussioni o di altre forme di garanzia a favore dell’impresa, ovvero l’avvenuto compimento di atti di pagamento. Rispetto a tali comportamenti la Cassazione ha statuito che trattasi di atti di per sé neutri, normalmente ispirati da ragioni di solidarietà familiare (o necessitati dalla prassi delle banche di subordinare i finanziamenti alle aziende alla prestazione di garanzie da parte dei familiari dell’imprenditore) ed inidonei in quanto tali a far inferire, anche solo nei rapporti con i terzi, la sussistenza di un vincolo societario. Per l’accertamento del vincolo societario serve una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; essendo, peraltro, sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società. Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra familiari (non necessariamente coniugi), la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris, sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione, per esempio, di finanziamenti o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare. Soltanto ove contrassegnati da un carattere di sistematicità tali comportamenti potrebbero consentire il superamento della qualifica individuale dell’impresa, e determinare, attraverso la qualificazione societaria dell’attività d’impresa, l’assoggettamento del loro autore alla procedura fallimentare.
Applicando questi principi la giurisprudenza di legittimità sostiene ormai da tempo che ai fini dell’estensione del fallimento è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto , attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del nomen della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la (simulata) qualificazione dei familiari come collaboratori di impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla affectio societatis (società tra consanguinei: Cass. civ. Sez. II, 20 giugno 2013, n. 15543; Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580; Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1999, n. 3163; Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 1996, n. 6770; società tra coniugi: Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16829 e Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2000, n. 3520).
In linea generale la giurisprudenza di merito si è adeguata a questi principi (Trib. Bari Sez. IV, 7 gennaio 2009; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15 gennaio 2003; Trib. Cassino, 21 gennaio 2001; Trib. Roma, 5 luglio 1995; Trib. Cassino, 14 giugno 1995; Trib. Pordenone, 8 aprile 1993; Trib. Catania, 15 luglio 1992).
c) La differenza con l’impresa familiare
E’ a questo punto molto chiara la differenza tra l’impresa coniugale esercitata cogestendo un’azienda in comunione (nei casi di cui all’art. 177 lett. e di cui all’art. 177 capoverso) e l’impresa familiare3 a cui si riferiscono l’art. 230-bis per la famiglia fondata sul matrimonio e l’art. 230-ter per i conviventi di fatto.
Nell’azienda coniugale vi è cogestione dell’attività imprenditoriale. Nell’impresa familiare non c’è alcuna cogestione: l’imprenditore è solo uno, mentre il familiare che collabora è un semplice collaboratore. Se vi fosse cogestione sarebbe in radice esclusa l’impresa familiare.
Vi è, invece, possibile sovrapposizione di disciplina giuridica tra impresa personale appartenente ad un coniuge in regime di comunione (a cui fa riferimento l’art. 178) e impresa familiare ove il familiare dell’imprenditore presti continuativamente la sua collaborazione lavorativa. In tal caso non c’è nessuna incompatibilità e la disciplina della comunione si sovrappone a quella dell’impresa familiare.
E’ anche questa l’opinione della giurisprudenza che tuttavia sul punto non ha detto nulla di più di quanto non possa desumersi dalle espressioni usate nelle due diverse disposizioni delle disposizioni (cfr per esempio l’importante Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 che precisava sull’argomento la diversità degli elementi costitutivi tra le fattispecie dell’impresa coniugale e dell’impresa familiare “atteso che solo nella prima ipotesi la collaborazione dei coniugi si realizza attraverso la gestione comune dell’impresa”.
VIIl fallimento dell’impresa coniugale cogestita
Si è detto che tra coniugi la prevalenza dell’affectio societatis produce l’inquadramento del rapporto di impresa all’intero della categoria generale della società di fatto (cfr la giurisprudenza sopra citata). Tale è, infatti, quella che sorge in base anche ad un semplice comportamento concludente dal quale emerga inequivocabilmente la volontà delle parti di costituire un rapporto sociale. Naturalmente, come anche si è già detto, non è escluso che i coniugi in regime di comunione (per i coniugi in separazione dei beni non vi è alcun problema) possano anche costituire tra di loro una società a responsabilità illimitata, come per esempio, una società in nome collettivo (art. 2291 ss c.c.), che sarebbe del tutto compatibile con la responsabilità illimitata che deriva, nel regime di comunione, da obbligazioni assunte congiuntamente per le quali i beni della comunione rispondono sempre (art, 186, lett. d).
Tuttavia la fattispecie più consueta che si presenta è quella in cui i coniugi, cogestendo una impresa di quelle di cui si è parlato, di per sé realizzano un rapporto societario di fatto, rapporto che, sempre ferma la responsabilità illimitata di ciascuno dei coniugi (art. 2267 c.c.)4, è anche sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale tra di loro ai sensi dell’art. 2297 c.c. 5 in quanto l’impresa coniugale esercitata in via di fatto non è certo registrata.
Pacificamente la giurisprudenza riconosce (naturalmente anche al di fuori del rapporto societario tra coniugi o consanguinei a cui si riferisce la giurisprudenza sopra citata) che la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi
3 cfr la v oce IMPRESA FAMILIARE
4 Art. 2267 (Responsabilità per le obbligazioni sociali)
I creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci.
Il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza, la limitazione della responsabilità o l’esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza.
5 Art. 2297 (Mancata registrazione)
Fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese i rapporti tra la società e i terzi ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice.
Tuttavia si presume che ciascun socio che agisce per la società abbia la rappresentanza sociale, anche in giudizio. I patti che attribuiscono la rappresentanza ad alcuno soltanto dei soci o che limitano i poteri di rappresentanza non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza.
comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 c.c., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società (Cass. civ. Sez. VI, 5 maggio 2016, n. 8981; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2010, n. 5961).
Le aziende coniugali sono strumentali all’esercizio di una attività commerciale (art. 2195 c.c. Imprenditori soggetti a registrazione) per le quali il codice prevede l’obbligo di costituzione “secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti “ del titolo V (art. 2249). Pertanto la società di fatto tra coniugi – che non è, cioè, costituita secondo uno di quei tipi – potrebbe essere considerata società in nome collettivo irregolare, perché non iscritta nel registro delle imprese. In ogni caso trova applicazione il citato articolo art. 2297 (Mancata registrazione: “Fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese i rapporti tra la società e i terzi ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice”). La responsabilità dei soci è quindi illimitata.
Trattandosi di società di persone, il fallimento della società di fatto è disciplinato nella legge fallimentare dagli artt. 147 6 e 1487 che trattano proprio il caso del fallimento delle società con soci a responsabilità illimitata, ferma sempre l’esclusione del fallimento nelle ipotesi indicate in via generale per tutti gli imprenditori dal secondo comma dell’art. 1 della legge fallimentare che fa riferimento a determinati parametri quantitativi di esclusione.
Se l’esistenza della società di fatto, quindi, è individuata dal soggetto che ne chiede il fallimento e accertata in giudizio, si procede ai sensi dell’art. 147, primo comma, della legge fallimentare e “la sentenza che dichiara il fallimento… produce anche il fallimento dei soci… illimitatamente responsabili”. Può avvenire che gli elementi per l’individuazione dell’esistenza della società di fatto siano scoperti dal curatore del fallimento di uno dei soci. La legge dispone, perciò, che sia dichiarato il fallimento della società (e di tutti i suoi soci) “qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile” (art. 147, quinto comma, legge fallimentare).
Per quanto concerne invece le imprese individuali (art. 178) che pongono problemi di comunione de residuo , poiché il fallimento determina lo scioglimento della comunione (art. 191 c.c.), si è posto il problema di come intendere la comunione de residuo su “i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” che “si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.
Si è ritenuto in giurisprudenza che il fallimento di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiusura della procedura (Cass. civ. Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7060) ed in effetti i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa, prima dello scioglimento della comunione, sono aggredibili per intero dai creditori del coniuge imprenditore e sarebbe del tutto irragionevole pensare che con la dichiarazione di fallimento la garanzia dei creditori possa ridursi. Inoltre la dichiarazione di fallimento determina lo scioglimento della comunione, e quindi anche lo spossessamento del debitore ed il vincolo di tutti i suoi beni al soddisfacimento dei creditori. Pertanto la comunione de residuo si attua, in caso di fallimento di un coniuge, su ciò che rimane dopo aver pagato le passività.
6 Art. 147 (Società con soci a responsabilità illimitata)
La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili.
Il fallimento dei soci di cui al comma primo non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata anche in caso di trasformazione, fusione o scissione, se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati. La dichiarazione di fallimento è possibile solo se l’insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata.
Il tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, deve disporne la convocazione a norma dell’articolo 15.
Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi.
Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile.
Contro la sentenza del tribunale è ammesso reclamo a norma dell’articolo 18.
In caso di rigetto della domanda, contro il decreto del tribunale l’istante può proporre reclamo alla corte d’appello a norma dell’articolo 22.
7 Art. 148 (Fallimento della società e dei soci)
Nei casi previsti dall’articolo 147, il tribunale nomina, sia per il fallimento della società, sia per quello dei soci un solo giudice delegato e un solo curatore, pur rimanendo distinte le diverse procedure. Possono essere nominati più comitati dei creditori.
Il patrimonio della società e quello dei singoli soci sono tenuti distinti.
Il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende dichiarato per l’intero e con il medesimo eventuale privilegio generale anche nel fallimento dei singoli soci. Il creditore sociale ha diritto di partecipare a tutte le ripartizioni fino all’integrale pagamento, salvo il regresso fra i fallimenti dei soci per la parte pagata in più della quota rispettiva.
I creditori particolari partecipano soltanto al fallimento dei soci loro debitori.
Ciascun creditore può contestare i crediti dei creditori con i quali si trova in concorso.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 5 maggio 2016, n. 8981 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 c.c., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società
Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16829 (Giur. It., 2014, 6, 1428 nota di MORINO)
Se si assume l’esistenza di una società di fatto fra consanguinei, per accertarne la costituzione non solo è necessario procedere all’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del nomen della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di tale vincolo, ma occorre altresì che l’esteriorizzazione sia provata in modo rigoroso, giacché essa deve basarsi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dall’ affectio familiaris.
Cass. civ. Sez. II, 20 giugno 2013, n. 15543 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
In tema di società di fatto tra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo societario deve essere rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla “ affectio familiaris” e deporre, invece, nel senso di una sua compartecipazione all’attività commerciale.
Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
Ai fini dell’estensione del fallimento del titolare dell’impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto , attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del “nomen” della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell’impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla “ affectio societatis”.
Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2010, n. 5961 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
La mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento “aliunde”, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’”affectio societatis”, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi,. peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 cod. civ., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società. Tali accertamenti, risolvendosi nell’apprezzamento di elementi di fatto, non sono censurabili in sede di legittimità, se sorrette da motivazioni adeguate ed immuni da vizi logici o giuridici.
Trib. Bari Sez. IV, 7 gennaio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esistenza di un vincolo parentale e familiare, lo svolgimento della medesima attività e negli stessi locali con un’identica ragione sociale, la costante presenza nell’adempimento delle obbligazioni contratte dall’altra parte, sono tutti indici presuntivi della sussistenza di una società di fatto . (Sulla base di tale presupposto il giudice ha rigettato l’opposizione proposta contro la sentenza dichiarativa del fallimento in estensione).
App. Milano, 10 maggio 2006 (Famiglia e Diritto, 2008, 4, 363 nota di BECCARA)
La peculiarità della fattispecie disciplinata dall’art. 177, comma 1, lett. d), c.c. per quanto attiene all’azienda sta nel fatto che quando la costituzione (o l’acquisto) della stessa avviene dopo la celebrazione del matrimonio e non si tratti, in forza del titolo, di un bene personale, l’attribuzione della titolarità a uno solo dei coniugi ovvero alla comunione coniugale viene a dipendere non dalle modalità con cui si costituisce o viene acquistata l’azienda medesima, bensì dal dato rappresentato dalla gestione.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Elemento costitutivo del diritto – al momento dello scioglimento della comunione – alla ripartizione degli utili e degli incrementi dell’ azienda appartenente a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio da parte dell’altro è la gestione comune dell’ azienda stessa in costanza di matrimonio, gestione comune la cui sussistenza non può essere ritenuta in mancanza di prova da parte di colui che propone la domanda di divisione.
Cass. civ. Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fallimento di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiusura della procedura.
Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15 gennaio 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esistenza di una società di fatto può inferirsi dal capitale comune, dall’affectio societatis, dalla partecipazione agli utili o alle perdite, nonché dall’esteriorizzazione del vincolo sociale. A tal fine, non è necessaria la prova della stipulazione del patto sociale, essendo sufficiente la dimostrazione di un comportamento da parte dei soci tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole sull’esistenza della società.
Trib. Cassino, 21 gennaio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le fideiussioni e gli avalli, se realizzati in maniera sistematica, possono costituire sufficiente elemento di prova circa la sussistenza di una società di fatto tra i coniugi e legittimare l’estensione del fallimento, ai sensi dell’art. 147 legge fallimentare, anche a quello tra i due che non risulta titolare dell’impresa
Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2000, n. 3520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A prescindere dal problema più generale relativo alla natura in sé societaria o meno dell’impresa familiare, in ogni caso, quando il rapporto fra i componenti della stessa si strutturi all’esterno, come un rapporto societario, nell’ambito del quale i soci partecipino agli utili ed alle perdite, intrattengano rapporti con i terzi assumendo le conseguenti obbligazioni, spendano il nome della società, manifestando palesemente, nei rapporti esterni, l’”affectio societatis”, si costituisce fra i componenti stessi una società di fatto che si sovrappone al rapporto regolato dall’art. 230 bis c.c., di talché tale rapporto perde di rilevanza esterna, con conseguente applicazione – ad esempio – in relazione alle procedure concorsuali, dei principi generali che regolamentano le società di fatto, tra i quali l’assoggettabilità al fallimento di tutti i soggetti che partecipano al rapporto societario.
Tribunale Roma 16 settembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La semplice circostanza che i coniugi siano comproprietari di azienda, non è sufficiente di per sé a ritenere che quest’ultima sia necessariamente cogestita da entrambi e che, pertanto, tra essi sussista una società di fatto (artt. 177, 178, c.c.). Nel caso in cui ambedue i coniugi siano proprietari dell’azienda familiare, ai fini dell’individuazione delle norme applicabili occorre distinguere i rapporti concernenti la proprietà, art. 177 c.c., dai rapporti concernenti la gestione, art. 2247 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1999, n. 3163 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di società di fatto che si assuma intercorrente tra soggetti legati da stretti vincoli familiari, la prova della esteriorizzazione del vincolo societario, necessaria e sufficiente per poter considerare esistente la società, deve essere rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dall’”affectio familiaris”, e da deporre, invece, in modo non equivoco nel senso di una sua compartecipazione all’attività commerciale del consanguineo (nella fattispecie, la S.C., alla stregua di tale principio, ha cassato la decisione della Corte di merito che aveva ritenuto indici non equivoci della asserita compagine sociale, senza dare sufficientemente conto dell’”iter” logico seguito per convincersi che essi fossero da qualificare come atti di partecipazione all’attività commerciale, e non fossero, invece, inquadrabili in atti di solidarietà familiare, la partecipazione agli utili nella percentuale del 60 per cento da parte della moglie e del figlio dell’imprenditore, l’intervento della prima in favore del coniuge come terzo datore di ipoteca e fideiussore, con rinunzia al beneficio di escussione del debitore principale, ed inoltre con rilascio di cambiali all’ordine del marito, e da lui girati al terzo fornitore effetti cambiari al garante ed avallante, attraverso finanziamento ed apertura di credito con garanzia ipotecaria e – richiedendo, pertanto, ai giudici di merito un riesame della controversia sotto tale profilo).
Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 1996, n. 6770 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per poter considerare esistente una società di fatto, agli effetti della responsabilità delle persone e/o dell’ente, anche in sede fallimentare, non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse. Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris, sicché, di regola, non è di per sè sufficiente la dimostrazione di finanzia-menti e/o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare.
Trib. Roma, 5 luglio 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve essere dichiarata l’estensione il fallimento di un farmacista alla società di fatto (occulta) fra il farmacista e sua moglie, quando risulti che il marito si sia occupato solo della parte tecnico – farmaceutica e la moglie abbia gestito la parte contabile – amministrativa.
E’ ben ipotizzabile l’esistenza di una società di fatto per l’esercizio di una farmacia, anche se la legislazione speciale ne esclude la gestione da parte di persona non munita di titolo e non iscritta nell’ordine professionale dei farmacisti.
Trib. Cassino, 14 giugno 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le fideiussioni e gli avalli, anche se ripetuti ed ingenti, non possono costituire nel rapporto tra coniugi circostanze idonee ad esteriorizzare un vincolo sociale, in quanto effettuati nell’ambito del rapporto coniugale ed al fine di sopperire alle difficoltà del soggetto garantito.
Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 1995, n. 6142 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché alle pronunce della commissione tributaria centrale non è direttamente applicabile l’art. 360 n. 5 c.p.c., ma solo l’art. 111 cost., il controllo della motivazione, in sede di legittimità, deve limitarsi alla verifica della sua esistenza effettiva, della sua non contraddittorietà, della sua non incomprensibilità (nell’affermare tale principio la cassazione ha ritenuto del tutto sfornita di motivazione la decisione della commissione tributaria centrale che aveva dedotto dalla sola comunione la esistenza di una società di fatto tra i coniugi, che avevano proceduto alla vendita di un bene immobile; ciò perché la comunione legale tra coniugi non implica l’esistenza di una società di fatto tra gli stessi.
Trib. Pordenone, 8 aprile 1993 (Nuova Giur. Civ., 1994, I, 217 nota di COLUSSI)
L’accertamento dei presupposti dell’esistenza di una società fra parenti deve condursi con criteri assai cauti e più intensi rispetto alla norma, dei rapporti fra estranei; in particolare la prestazione di una fideiussione della moglie a favore del marito non costituisce manifestazione di “affectio societatis”.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 (Nuova Giur. Civ., 1993, 1, 609 nota di BONTEMPI)
In relazione al disposto dell’art. 230 bis c. c., l’ipotesi di impresa familiare realizzata mediante la partecipazione del coniuge all’attività aziendale si differenzia dalla fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177, lett. d, c. c., in cui la collaborazione dei coniugi si attua con la gestione comune dell’impresa; ai fini di tale distinzione non ha alcuna rilevanza diretta il regime di comunione dei beni vigente tra i coniugi, che può spiegare effetti solo sul piano della tutela, ex art. 178 c. c., dei diritti sui beni destinati all’esercizio di impresa.
Trib. Catania, 15 luglio 1992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’accertamento di una società di fatto, la prestazione di fideiussioni può dar luogo alla configurazione di un conferimento di capitale da destinare a fondo sociale, quando essa sia caratterizzata da un’estensione generalizzata, da una reiterazione nel tempo e da una notevole entità degli affidamenti compiuti; tale regola è valida ancorché si tratti di soggetti legati da un rapporto di parentela stretta o di coniugio, ma in questa evenienza è necessario che la valutazione delle risultanze processuali sia più rigorosa, dovendosi tener conto delle naturali implicazioni di siffatti rapporti.
Trib. Catania, 21 gennaio 1983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Un’azienda gestita di fatto da entrambi i coniugi in regime di comunione legale, in assenza
i precisi accordi formali, ricade nell’ipotesi di cui all’art. 177, lett. d), cod. civ., ovvero, qualora si tratti di azienda già appartenente ad uno dei coniugi prima del matrimonio, nell’ipotesi di cui al comma 2 del medesimo articolo.

Linee guida sul contributo al mantenimento dei figli

adottate dal Gruppo famiglia e minori
nell’ambito dell’Assemblea Nazionale degli Osservatori sulla giustizia civile
il 20 maggio 2017

PREMESSA
Finalità delle proposte Linee Guida è quella di individuare in via preventiva, nel prioritario interesse dei figli, le modalità per determinare la misura dell’assegno mantenimento il più possibile comprensivo di voci di spesa caratterizzate dall’ordinarietà o, comunque, dalla frequenza, anche al fine di consentire al genitore beneficiario una corretta ed oculata amministrazione del budget di cui sa di poter disporre, riducendo le occasioni di richiesta al coobbligato e di possibile conflitto.
Nella determinazione del contributo economico e nelle questioni inerenti il mantenimento dei figli, i genitori dovranno conformare l’esercizio della responsabilità genitoriale al rispetto del superiore interesse del minore, costituendo quest’ultimo punto di resistenza e garanzia per una giustizia a misura di minore1, in ossequio alla lettera B, numero 1, dei principi fondamentali delle Linee Guida del Consiglio d’Europa, secondo cui “ Gli Stati membri dovrebbero garantire l’effettiva attuazione del diritto dei minori affinché il loro interesse superiore sia posto davanti a ogni altra considerazione in tutte le questioni che li coinvolgono o li riguardano”.
1 Nell’ambito dei principi fondamentali delle Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010 con il fine di fungere da indirizzo per gli Stati membri per adeguare i “loro sistemi giuridici agli interessi e alle esigenze specifiche dei minori”, l’art.36, così recita:” L’interesse superiore dei minori dovrebbe essere tra i primi aspetti da considerare in tutti i casi in cui sono coinvolti. La valutazione della situazione specifica deve essere svolta con accuratezza…”.
In attuazione dell’indicata finalità connessa all’esercizio della responsabilità genitoriale è necessario che le parti si comunichino preventivamente, con il mezzo più idoneo in relazione alla eventuale urgenza del caso, la necessità di una spesa non ricompresa nell’assegno perequativo e perseguano, in quanto possibile, la ricerca dell’accordo.
In quest’ottica la determinazione dell’assegno periodico di mantenimento tiene conto di quelle che già erano le specifiche spese correnti della famiglia in regime di convivenza, che le parti hanno l’onere di esporre con il maggior dettaglio possibile nei rispettivi atti introduttivi, al fine di consentire, in caso di mancato accordo tra le stesse, una quantificazione giudiziale adeguata alle complessive esigenze quotidiane di vita dei figli e, nel contempo, correlata alla situazione reddituale e patrimoniale, spesso più gravosa, determinata dalla crisi della famiglia.
Al di fuori di queste voci di spese correnti vi sono le spese extra assegno, così dette straordinarie, non soltanto perché, talvolta, oggettivamente imprevedibili, ma, altresì, perché, quantunque relative a necessità o utilità prevedibili, non sono determinabili nel quantum, ovvero attengono ad esigenze saltuarie ovvero sono di importo apprezzabile rispetto alle capacità economiche dei genitori.
Efficacia
La concreta attuazione degli obiettivi perseguiti dalle presenti linee guida dipenderà dalla più che auspicabile recezione di esse, anche per relationem, nei protocolli adottati nei vari tribunali in materia di contribuzione economica e di mantenimento della prole, fatti salvi gli effetti dei provvedimenti aventi ad oggetto le spese straordinarie di cui non sia chiesta la modifica o la revisione”.
Invito
agli avvocati, al Presidente del tribunale, al tribunale in funzione collegiale ed ai giudici
Si invitano gli avvocati a specificare, in maniera dettagliata, nei rispettivi atti introduttivi le voci di spesa inerenti ai figli e ciò in quanto il criterio preminente per fissare l’assegno è costituito dalle attuali esigenze dei figli2 , indicando le esigenze correnti di natura primaria (tra cui, ad es., quelle alimentari3, abitative4, di cura della persona5 e di abbigliamento), nonché quelle di natura sanitaria, scolastica, parascolastica, sportiva e sociale, così da consentire al giudice, funzionalmente competente, di provvedere, ai sensi del IV comma dell’art. 337 ter c.c.6 (o dell’art. 316 bis c.c.), alla imputazione dei costi diretti a carico di ciascun genitore e alla quantificazione dell’assegno di mantenimento7.
2 Cass .n. 26198/10 secondo cui “ l’interesse morale e materiale della prole è il criterio guida che deve essere tenuto presente dal giudice il quale deve provvedere attribuendo sicura preminenza al criterio delle “attuali esigenze del figlio”.
3 Ad esempio celiachia, intolleranze alimentari, gluten sensitive, etc
4 Ad esempio il concorso alle spese di casa per canone locativo, utenze , consumi: così Prot. Torino, pag.2.
5 Ad esempio estetista, parrucchiere, etc
6 Cfr.. art. 337 ter, IV comma, c.c.: “il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalita’, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.”
7 citata Cass 26198/10 in ordine alla preminenza del criterio delle attuali esigenze del figlio.
8 Così art.14, protocollo Reggio Emilia (2014) e vedasi criterio guida in trib. di Roma (decreto 4.3.2016)
Il Presidente del tribunale, nell’emanazione dei provvedimenti provvisori ai sensi dell’art. 708 c.p.c. e nelle ordinanze emesse ai sensi dell’art. 316 bis c.c., il Collegio, nei provvedimenti provvisori e definitivi aventi ad oggetto le richieste economiche riguardanti i figli non matrimoniali ex art. 337 bis e ss c.c., provvederanno a:
– individuare, in modo dettagliato, le spese incluse nell’assegno di mantenimento per i figli e quelle extra, indicando i criteri guida cui le parti dovranno attenersi per l’individuazione delle spese extra assegno8,
– distinguere quali tra le spese extra, ai fini della rimborsabilità, richiedono il consenso dell’altro genitore da quelle che non lo richiedono
– ed indicare la quota di riparto gravante sui genitori da determinare nel rispetto del principio di proporzionalità (o l’onere esclusivo a carico di un solo genitore).
Contenuto dell’assegno di mantenimento
Si intendono ricomprese nell’assegno di mantenimento (quelle chiamate sinora spese ordinarie) le voci di spesa che soddisfano esigenze della vita quotidiana dei figli e, in ogni caso, quelle che hanno, quale requisito temporale, la periodicità, come requisito quantitativo, la non gravosità, e per requisito funzionale, l’utilità e/o necessarietà.
Salva diversa previsione, si considerano comprese nell’assegno di mantenimento, a titolo esemplificativo, le seguenti spese: le visite pediatriche di routine e medicinali da banco9, il vitto (e quindi la mensa scolastica, in quanto sostitutiva del pranzo)10, il contributo alle spese abitative, l’abbigliamento ordinario (inclusi i cambi di stagione), le tasse scolastiche di istituti pubblici sino al ciclo di studi medio-superiore, i trasporti pubblici (tessera autobus, metro, ecc.), i trattamenti estetici (limitatamente intesi al parrucchiere ed estetista), la ricarica del cellulare, il materiale scolastico di cancelleria, le gite scolastiche giornaliere senza pernottamento; le rette di iscrizione e frequenza di istituti scolastici privati e baby sitter11 purchè già presenti nell’organizzazione familiare prima della separazione o conseguenti al nuovo assetto familiare determinato dalla cessazione della convivenza, a condizione che si tratti di una spesa sostenibile.
9 Cass. n.16664/12.
10 Cfr tribunale di Milano, decreto del 27.11.2013, così ha deciso: “La mensa scolastica non riveste alcuna connotazione straordinaria, essendo solo una modalità sostitutiva della voce “vitto” domestico già compresa in qualsiasi assegno mensile”.
Anche il tribunale di Novara ha stabilito che: “Giova precisare che nel concetto di spese scolastiche straordinarie non rientrano i buoni mensa che costituiscono mera sostituzione del pasto casalingo rientrante nel mantenimento ordinario” (Trib. Novara, Sent. del 26.03.2009). Così tribunale di Roma (sez. I, sentenza del 09.10.2009).
Contra tribunale di Bergamo, protocollo sulle spese straordinarie del 2014, ritiene le spese della mensa “non coperte dall’assegno di mantenimento“. I Giudici bergamaschi, pertanto, inseriscono espressamente la voce “mensa scolastica” nei propri provvedimenti identificandola come “spese scolastiche straordinarie per cui non è richiesto il preventivo accordo fra i genitori”.
11 Cass. n. 16983/07.
12 Cfr così protocollo Udine, Trieste (entrambi del 2015) e Sulmona (2016) in conformità alla Cass. n.7972/13.
13 Cass. n.15098/05 e Cass. n. 28987/08.
Il contributo dovuto per tali spese dal genitore non collocatario (o non affidatario) dovrà intendersi soddisfatto mediante la corresponsione dell’assegno periodico di mantenimento, determinato come sopra, in maniera omnicomprensiva da frazionarsi in 12 rate annue12, attesa la natura non meramente alimentare di quest’ultimo, e salvi sempre diversi accordi liberamente sottoscritti dalle parti, nel rispetto del principio di proporzionalità.
Non compensabilità tra spese comprese nell’assegno perequativo e spese extra.
Divieto di inclusione delle “spese extra” nell’assegno perequativo.
Non sono ammesse le compensazioni tra le somme dovute per spese extra e l’assegno mensile di
mantenimento e viceversa.
Le spese extra assegno non devono essere incluse nell’ammontare dell’assegno di mantenimento in quanto la loro forfettizzazione può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità e con quello di adeguatezza del mantenimento e recare grave danno ai figli.14
14 Cass. n. 9372/12, Cass.18869/14 e Cass. 11894/15.
15 Sull’onere di documentazione della spesa tutti i protocolli esaminati concordano. Sulle somme spese per i bisogni ordinari dei figli è utile ricordare che non è previsto alcun obbligo di rendicontazione da parte del genitore percettore.
16 Sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità sull’onere di concertazione, si veda Cass. n. 19607/11, Cass. n. 16175/15, Cass. n. 2127/16 e Cass. n. 4182/16.
17 Cass. n. 16664/12.
18 La Cassazione colloca alcune spese per i figli, diversamente dalla giurisprudenza di merito, all’interno dell’assegno ordinario. Esse riguardano le spese scolastiche, libri e corredo scolastico, spese sportive, cure mediche ordinarie (come le visite pediatriche ed alcune periodiche), che, pur di costo elevato, riguardino la cura di un figlio disabile.
19 Cass n. 2127/16.
Spese extra assegno:
documentazione, ripartizione e concertazione.
Tutte le spese extra assegno devono essere documentate15.
Anche le spese extra assegno vanno ripartite tra i genitori pro quota, secondo una misura da determinarsi espressamente dal giudice in conformità al principio di proporzionalità, fatta salva l’ipotesi in cui siano poste a carico di un solo genitore per altre ragioni.
Alla stregua delle superiori considerazioni possono essere indicati i seguenti ambiti di spese: sanitarie, scolastiche ed extrascolastiche.
Rientrano nelle spese extra, in quanto non richiedono il previo accordo dei genitori, comunque suscettibili di rimborso pro quota in relazione alla loro obiettiva necessità16:
a) sanitarie: di norma, quelle connotate dai caratteri della necessarietà od urgenza, non richiedono mai il preventivo accordo, come pure i trattamenti sanitari, gli esami e le visite specialistiche prescritte dal pediatra o dal medico di base, effettuate nell’ambito del SSN, compresi i relativi tickets sanitari e spese farmaceutiche conseguenziali (a titolo esemplificativo, rientrano le spese per impianti di ausilio sanitario, oculistiche, compresi occhiali da vista17 e lenti a contatto, ortopediche ed acustiche). Tutte le spese mediche e sanitarie in ambito privatistico devono essere concordate tra i genitori.
b) scolastiche18: iscrizione e retta dell’asilo nido infantile 19, tasse ed assicurazioni scolastiche per scuole o istituti privati, tasse universitarie, libri scolastici e universitari, tablet e p.c. per uso scolastico (con costi da rapportare alle condizioni economiche della famiglia), se sorte dopo la separazione o dopo la cessazione della convivenza e non incluse nell’assegno e compatibili con le possibilità economico/patrimoniali dei genitori;

c) extrascolastiche: spese sportive per un’attività, spese di manutenzione (ordinaria e straordinaria, per meccanica e/o carrozzeria) relative ai mezzi di locomozione (bicicletta e bici elettrica, ciclomotore, motociclo, mini-car, auto) acquistati in accordo tra i genitori, nonché le relative spese connesse (bollo e assicurazione, corso per il conseguimento della patente di guida).

Costituiscono, invece, spese extra assegno, richiedenti il necessario accordo, espresso o tacito (con riguardo alle spese extra assegno da concordare, il genitore, a fronte di una richiesta scritta dell’altro, dovrà manifestare un motivato dissenso per iscritto nell’immediatezza della richiesta, al massimo 10 giorni, ovvero in un termine all’uopo fissato; in difetto il silenzio sarà inteso come consenso alla richiesta), tra i genitori o, in difetto di accordo e/o di rifiuto al rimborso20, una valutazione giudiziale di rispondenza della spesa all’interesse del figlio (sostenibilità della detta spesa rapportata alla condizione economico/patrimoniale dei genitori) o alla necessità e congruità rispetto alla entità e sostenibilità della spesa 21, quelle relative a :
20 Ad esempio, vedasi protocollo di Torino, pag.3, art.3, sulla prova del preventivo accordo, secondo cui il genitore richiedente il rimborso dovrà provare di aver inviato comunicazione all’altro, con mezzo idoneo, ed in caso di silenzio nei successivi 10 gg, la relativa spesa s’intenderà accettata.
21 Cass civ. n.2127/16 (sulla retta di asilo) secondo cui la rispondenza delle spese straordinarie viene effettuata mediante la commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità derivante ai figli e della sostenibilità della detta spesa rapportata alla condizione economica dei genitori.
22 Cass.civ. n.18077/14.
23 Cass. civ. n.19607/11.
a) sanitarie: visite mediche, esami diagnostici, prestazioni sanitarie erogate da strutture private non urgenti e non accompagnate da prescrizione medica, apparecchi sanitari e ortodontici;
b) scolastiche: lezioni private (c.d. ripetizioni), stages, corsi di lingua, corsi di musica ed acquisto strumento musicale, corsi di preparazione e selezione per l’ingresso nelle facoltà universitarie, per la formazione o specializzazione universitaria o per l’avvio nel mondo del lavoro, spese per università all’estero22 e alloggio fuori sede inerente alla frequenza universitaria e relative utenze domestiche, corsi di formazione post universitari (specializzazioni o master), gite scolastiche con pernottamento, viaggi studio all’estero 23, scuole e università private;
c) extra scolastiche: baby sitter post separazione, viaggi e vacanze trascorsi autonomamente dal figlio, attività sportiva agonistica, comprensiva dell’attrezzatura e di quanto necessario per la partecipazione a gare e tornei (ivi comprese le spese di trasporto e stages); attività ludico-ricreative (centri estivi), cellulare, spese per acquisto di mezzi di locomozione (bicicletta e bici elettrica, ciclomotore, motociclo, mini-car, auto), casco, corso per conseguimento della patente, attività artistiche, culturali e ricreative (come acquisto di strumenti musicali, corsi di informatica, ecc.), spese per comunione-cresima-matrimonio (trattenimento,servizio fotografico, regalo madrina/padrino, parrucchiere).

Il rimborso al genitore anticipatario: quota e modalità.
E’ auspicabile che entrambi i genitori provvedano contestualmente al pagamento della spesa extra assegno per i figli (anche mediante la messa a disposizione della provvista), secondo la ripartizione proporzionale di pertinenza, evitando così di addossare ad un solo genitore l’anticipazione della quota spettante all’altro.
Ove ciò non avvenga, il genitore anticipatario, entro 30 giorni dall’effettuazione della spesa, dovrà richiedere il rimborso pro-quota, previa esibizione e consegna di idonea documentazione, e l’altro genitore dovrà provvedere entro 30 giorni dalla richiesta.
Ai fini di una responsabile gestione delle spese per i figli, è opportuno che ciascuna delle parti comunichi preventivamente all’altra, con il mezzo più idoneo in relazione all’eventuale urgenza del caso, la necessità di una spesa extra.
Deducibilità fiscale
I documenti fiscali di ogni spesa extra assegno sostenuta dovranno, ove possibile, essere intestati ai figli24 e periodicamente (entro trenta giorni e, in ogni caso, entro la scadenza fiscale o assicurativa) consegnati, in copia, all’altro genitore, ai fini della deducibilità fiscale dal reddito, che opererà nella stessa quota proporzionale della spesa sostenuta.
24 Prot. Bologna (2017).
Le deduzioni per i figli a carico saranno effettuate, salvo diverso accordo, al 50% tra i genitori.
Rimborsi e sussidi
Gli eventuali rimborsi erogati dallo Stato e da altri enti pubblici o privati, per spese scolastiche e sanitarie relative ai figli vanno ripartiti tra entrambi i genitori nella stessa percentuale della loro partecipazione alle spese extra assegno.
Assegni familiari
Gli assegni familiari devono essere corrisposti al genitore collocatario (o affidatario) dei figli e rappresentano una voce aggiuntiva rispetto all’assegno di mantenimento, anche se erogati dal datore di lavoro dell’altro genitore, salvi diversi accordi tra le parti o diversa indicazione giudiziale.
Per evidenti ragioni di semplificazione, i provvedimenti giudiziari adottandi in tale materia conterranno l’esplicita previsione dell’attribuzione ex lege al genitore collocatario e/o affidatario, anche dei predetti assegni familiari.

Riconciliazione

Di Gianfranco Dosi
I
Il quadro normativo
Di riconciliazione – non meglio definita nei codici – si parla nel diritto di famiglia per riferirsi a quella condizione di “integrale ripresa del consortium vitae” tra coniugi (come si esprimono Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318; Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318) che era stato infranto dallo stato di separazione.
La prima norma che ne tratta è l’art. 154 c.c. (Riconciliazione) dove si legge che “La riconciliazione tra i coniugi comporta l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta”. Una norma analoga non è prevista per il procedimento di divorzio. L’aspetto giuridico più problematico che si presenta è quello di differenziare gli effetti della riconciliazione (che porta o dovrebbe portare all’abbandono della causa di separazione) rispetto agli effetti dell’abbandono della causa da parte dei coniugi senza alcuna riconciliazione (art. 181 c.p.c.) ed in cui il giudice dichiara l’estinzione del processo. Il tema comporta l’approfondimento del discutibile principio contenuto nell’art. 189 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (applicabile, come si dirà, sia alla separazione che al divorzio).
La seconda norma che si occupa della riconciliazione è l’art. 157 c.c. (Cessazione degli effetti della separazione) in cui si prevede al primo comma che “I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione” e al secondo comma che “La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione”. Qui la norma fa riferimento alla ripresa del consortium vitae dopo il giudicato di separazione e l’intenzione evidente del legislatore è quella di agevolare la ripresa della vita matrimoniale non gravando i coniugi che si riconciliano di oneri processuali imposti come necessari per la cancellazione della pronuncia.
C’è una terza disposizione che tratta espressamente il tema della riconciliazione ed è contenuta nella legge sul divorzio, dove si prescrive che in caso di domanda di divorzio in seguito al giudicato di separazione “L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta” (art. 3, n. 2 b, ultima parte, legge 1 dicembre 1970, n. 898 come modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74). Qui il legislatore non usa il termine “riconciliazione” ma è questo il significato della disposizione il cui fondamento appare solo quello di imporre il rispetto formale della sequenza prevista tra il procedimento di separazione e quello di divorzio.
È appena il caso di osservare che alla riconciliazione tra coniugi tende anche, nella interpretazione tradizionale della norma, il “tentativo di conciliazione” che il presidente del tribunale è chiamato a fare all’inizio del procedimento di separazione (art. 708 c.p.c.) e di divorzio (art. 4, comma 8, legge 1 dicembre 1970, n. 898), prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori e urgenti.

Che cosa significa e quale natura ha la riconciliazione?
Il concetto di “integrale ripresa del consortium vitae” tra coniugi (Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318; Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318) è quello che rende meglio di tutti il significato della riconciliazione.
Riconciliarsi vuol dire, insomma, riprendere la “comunione spirituale e materiale” in cui consiste la vita matrimo¬niale, secondo la definizione che è rinvenibile, paradossalmente, nella legge sul divorzio dove all’art. 1 si legge che il giudice pronuncia il divorzio quando “accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita”.
Come precisato da una ormai copiosa giurisprudenza, la riconciliazione deve concretizzarsi in una durevole ri¬costituzione del preesistente nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali sì da ridar vita al pregresso vincolo coniugale, e non in un semplice riavvicinamento occasionale dei coniugi, pur con la ripresa della convivenza e dei rapporti sessuali (Cass. civ. Sez. VI, 24 dicembre 2014, n. 27386; Cass. civ. Sez. VI, 21 novembre 2014, n. 24833; Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535; Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28655; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2000, n. 1227; Cass. civ., 17 novembre 1983, n. 6860; Cass. civ., 24 marzo 1983, n. 2058; Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 1979, n. 1400; App. Napoli, 9 novembre 2012; Trib. Potenza, 27 maggio 2011; Trib. Trento, 18 gennaio 2011; Trib. Reggio Emilia, 12 maggio 2008; App. Roma, 13 febbraio 2008; App. Catania, 26 aprile 2007).
Non basta quindi certamente la sola ripresa della coabitazione che non costituisce, di per sé, quindi, un dato sufficiente per far ritenere intervenuta fra gli stessi una riconciliazione, occorrendo una stabile e consapevole ripresa della vita in comune, con una compartecipazione responsabile rispetto agli eventi incidenti sulla gestio¬ne familiare (Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 369; Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26165; Cass. civ. Sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19497; Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2004, n. 12427; Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 2001, n. 12428; Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2000, n. 2217; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 1998, n. 6031). In passato alla coabitazione era stato tuttavia attribuito un forte valore presuntivo. Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 25 maggio 2007, n. 12314 secondo cui l’elemento oggettivo del ripristino della coabitazione tra i coniugi, è potenzialmente idoneo a fondare, nel giudice, il positivo convincimento circa l’avve¬nuta riconciliazione e spetterà, quindi, al coniuge interessato a negarla dimostrare che il nuovo assetto posto in essere era, per intercorsi accordi tra le parti o per le modalità di vita familiare sotto lo stesso tetto, tale da non integrare una ripresa della convivenza, e quindi tale da non poter essere configurato come evento riconciliativo.
Interessante la pronuncia di Corte Conti Sez. III Pens. civ., 13 gennaio 1987, n. 59770 (risalente ai tempi in cui l’addebito era considerata causa di esclusione della pensione di reversibilità) secondo cui la sola ripresa della coabitazione non costituisce indice sicuro ed univoco dell’avvenuta riconciliazione fra i coniugi, idonea a superare l’impedimento per la corresponsione del trattamento di riversibilità a favore della vedova separata per sua colpa.
Anche la giurisprudenza di merito ha sempre applicati da tempo i medesimi principi (App. Napoli, 19 luglio 2013; Trib. Milano, 22 maggio 2013; Trib. Benevento, 22 gennaio 2010; Trib. Trani, 19 maggio 2008; Trib. Chieti, 18 ottobre 2007; Trib. Monza Sez. IV, 11 aprile 2006; App. Napoli, 17 gennaio 2005; App. Perugia, 9 ottobre 2003; Trib. Vercelli, 9 maggio 2001). La giurisprudenza di merito utilizza in generale criteri così rigorosi per la verifica dell’avvenuta riconciliazione da lasciare margini molto esigui per l’accoglimento dell’eccezione. Questo è molto evidente per esempio in Trib. Milano Sez. IX, 12 marzo 2009 secondo cui va esclusa la sussistenza di una vera e propria riconciliazione in presenza di incontri dei coniugi nei fine settimana o nelle vacanze, in presenza di visite anche giornaliere dettate da motivi umanitari, in relazione al semplice fatto che uno dei coniugi si rechi a consumare i pasti nell’abitazione familiare, in presenza di ritorni saltuari del marito nel luogo di residenza della moglie e di rapporti sessuali tra loro intervenuti in dette occasioni, in presenza del fatto che il marito, convivente con la moglie, corrisponda con continuità a quest’ultima somme di denaro: tali comportamenti non integrano ex se la prova dell’intervenuta riconciliazione, occorrendo per converso che que¬sti siano stati accompagnati da un insieme di altri comportamenti che realmente e concretamente dimostrino il ripristino della comunione di vita in tutti i suoi profili, sia materiali che spirituali.
L’accertamento deve compiersi “attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei compor¬tamenti posti in essere dagli stessi coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ripresa della convivenza e alla costituzione di una rinnovata comunione, piuttosto che con riferimento a supposti elementi psicologici, tanto più difficili da provare in quanto appartenenti alla sfera intima dei sentimenti e della spiritualità soggettiva” e, naturalmente, implicando un’indagine di fatto, certamente non è censurabile in sede di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 2012, n. 16661; Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2008, n. 21001; Cass. civ. Sez. I, 25 maggio 2007, n. 12314; Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2001, n. 3744).
Secondo Trib. Roma Sez. I, 19 luglio 2010 e App. Roma, 12 aprile 2006 a fronte dell’allegazione da parte di un coniuge degli elementi da cui desumere la riconciliazione, è onere del coniuge che contesti l›interruzione degli effetti della pregressa separazione dimostrare le modalità di svolgimento della vita coniugale sotto lo stesso tetto tali da far escludere l›intento conciliativo.
Il concetto di riconciliazione a cui si riferiscono le tre disposizioni alle quali si è sopra fatto cenno è un concetto unitario. La circostanza che solo l’art. 157 richiami la necessità che vi sia un “comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione” è comprensibile dal momento che in caso di contrasti sull’avvenuta riconciliazione – così come in caso di eccezione del convenuto in sede divorzile – è attribuito al giudice il compito di verifica dell’esistenza della ripresa della comunione di vita. Viceversa nel caso indicato nell’art. 154 la valuta¬zione è lasciata alla sola iniziativa dei coniugi essendo escluso che il giudice della causa in corso abbia il potere di verifica dell’esistenza o meno dei requisiti per potersi parlare di riconciliazione.
Il comportamento non equivoco a cui di riferisce l’art. 157 rileva come fatto giuridico più che come manifesta¬zione di volontà negoziale dei coniugi. Perché vi sia riconciliazione non basta una semplice dichiarazione (come ha tuttavia ritenuto Cass. civ. Sez. VI, 12 gennaio 2012, n. 334 in controtendenza rispetto all’orientamento prevalente) ma occorre che vi sia l’effettiva ricostituzione dei rapporti spirituali e materiali propri del vincolo coniugale. Tuttavia l’art. 157 afferma che i coniugi possono riconciliarsi “con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco” e pertanto, ferma la possibilità per il giudice di verifica della effettiva ripresa del consortium vitae, allorché la dichiarazione dei coniugi è fatta (come meglio si dirà in seguito) davanti all’uffi¬ciale di stato civile, non sarà possibile opporre ai terzi quanto meno l’inesistenza dell’effetto ripristinatorio della comunione legale. In questi limiti la “dichiarazione” ha valore negoziale.
III La riconciliazione nel corso della causa di separazione
a) Che vuol dire che la riconciliazione comporta l’abbandono della causa?
Come si è detto l’art. 154 c.c. prescrive che “La riconciliazione tra i coniugi comporta l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta”. Una norma analoga, come si è detto, non è prevista nella normativa sul divorzio. Pertanto ove due coniugi si dovessero riconciliare nel corso della causa di divorzio, troverà applicazione l’art. 157 c.c. (operativo ovviamente fino al giudicato sullo status di divorzio) e i coniugi potranno rinunciare al giudizio in corso.
Allorché nel corso della causa di separazione due coniugi si riconciliano riprendendo il loro consortium vitae si ve¬rifica automaticamente quella situazione che l’art. 154 c.c. chiama, come si è visto, “abbandono della domanda di separazione”. Quindi alla riconciliazione il legislatore attribuisce effetti preclusivi del giudizio di separazione in corso.
Prima della riforma del 1975 la norma prevedeva anche l’effetto sostanziale, consistente nella estinzione del diritto di chiedere la separazione per fatti anteriori (si ricorda che prima della riforma del 1975 la separazione poteva essere chiesta solo adducendo specifici fatti previsti dal codice).
Ebbene se è vero che la riconciliazione comporta ipso iure l’abbandono della causa in corso (su cui in genere c’è evidentemente accordo tra i coniugi) è anche vero, però, che se la riconciliazione non viene portata a cono¬scenza del giudice, il processo inevitabilmente continuerà. Con l’effetto che la mancata comparizione delle parti alle udienze condurrà all’estinzione del processo ai sensi degli articoli 181 e 309 del codice di procedura civile, con l’inevitabile applicazione delle conseguenze indicate nell’art. 189 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (di cui si parlerà tra breve) che prevede l’ultrattività dei provvedimenti provvisori e urgenti dati all’inizio della causa.
Per i coniugi riconciliati, però, non sarebbe accettabile l’ultrattività dei provvedimenti presidenziali, dal momento che questa conseguenza non è, peraltro, quella che i coniugi vogliono, riconciliandosi.
In che modo, quindi, si può evitare il rischio dell’applicazione automatica dell’art, 189 delle disposizioni di attua¬zione del codice di procedura civile?
b) Il rischio dell’ultrattività dell’ordinanza presidenziale
Per capire il senso dell’art. 189 disp. att. c.p.c. occorre considerare che capita di frequente che i coniugi, ottenuti i provvedimenti presidenziali, non abbiano più interesse alla prosecuzione della causa (perché magari non inten¬dono divorziare o semplicemente perché non vogliono affrontare gli ulteriori costi del giudizio) e – soddisfatti di quei provvedimenti – decidano di abbandonare il processo non presentandosi più alle udienze.
A tale evenienza nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, si riferisce l’art. 189 (Provvedi¬menti relativi alla separazione personale dei coniugi) – applicabile anche al divorzio in base all’art. 4, comma 8, ultima parte, della legge 1 dicembre 1970, n. 898) – che, dopo aver prescritto al primo comma che “L’ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore dà i provvedimenti di cui all’articolo 708 del codice costituisce titolo esecutivo” prevede al secondo comma che “Essa conserva la sua efficacia anche dopo l’estinzio¬ne del processo finché non sia sostituita con altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione del ricorso per separazione personale [o di divorzio] dei coniugi”.
Pertanto se i coniugi che si sono riconciliati e i rispettivi avvocati non si presentano più alle udienze, il proces¬so si estinguerà per mancata comparizione delle parti (art. 309 c.p.c.1 che richiama l’art. 181 c.p.c. 2) e in tal
1 Art. 309 (Mancata comparizione all’udienza)
Se nel corso del processo nessuna delle parti si presenta all’udienza, il giudice provvede a norma del primo comma dell’articolo 181.
2 Art. 181 (Mancata comparizione delle parti)
Se nessuna delle parti compare alla prima udienza, il giudice fissa un’udienza successiva, di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite. Se nessuna delle parti compare alla nuova udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo.

caso rimarrebbero in vita per i coniugi riconciliati i provvedimenti provvisori e urgenti dati all’inizio della causa di separazione o di divorzio, come previsto nell’art. 189 di cui si è detto. Il che è un assurdo. Diversa infatti è la condizione dei coniugi riconciliati (che sono coniugi a tutti gli effetti) e quella dei coniugi per i quali, essendosi verificata l’estinzione della causa per inattività, continuano a valere tutte le condizioni stabilite in sede presiden¬ziale, pur non essendo la causa giunta alla sentenza di separazione.
Quindi occorre un meccanismo che eviti l’applicazione automatica dell’art. 189 disp. att. c.p.c., che consegue all’abbandono della causa, giacché i provvedimenti presidenziali non possono certo conservare la loro efficacia per i coniugi riconciliati.
c) La rinuncia al giudizio e la cessazione della materia del contendere
Questo meccanismo non può essere che la rinuncia al giudizio (di cui, in verità, tratta l’art. 306 c.p.c.3 che po¬trebbe, però, portare ugualmente alla dichiarazione di estinzione del processo). Per questo nella prassi il giudice, in seguito alla rinuncia delle parti, anziché dichiarare l’estinzione (come vorrebbe l’art. 306 c.p.c.) dichiara con ordinanza la cessazione della materia del contendere.
Così, espressamente Trib. Benevento, 7 marzo 2007 secondo cui l’avvenuta riconciliazione nelle more del processo – prodotta in giudizio mediante deposito della rinunzia alla stessa, sottoscritta dai coniugi ed autenti¬cata dal legale – comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere.
Si tratta di una prassi ragionevole anche se, come si è accennato, processualmente anomala dal momento che il meccanismo di cui all’art. 306 c.p.c. dovrebbe portare alla dichiarazione di estinzione con la conseguenza di rendere applicabile automaticamente l’art. 189 disp. att. c.p.c. che porterebbe, però, a sovrapporre i prov¬vedimenti provvisori e urgenti di separazione e di divorzio a coniugi che non intendono esserne destinatari, essendosi riconciliati.
La prassi, perciò, seguita – di dichiarare su richiesta delle parti la cessazione della materia del contendere – è l’unica capace di evitare l’applicazione dell’art. 189 disp. att. c.p.c. anche se richiede ai coniugi un adempimento processuale (appunto, l’atto di rinuncia) di cui il codice civile, con la formulazione dell’art. 154, non intendeva gravare gli interessati.
d) L’eccezione di avvenuta riconciliazione nel corso della stessa causa di separazione
Nel corso di una causa di separazione non può escludersi (sebbene dovrebbe essere del tutto infrequente visto che i coniugi riconciliati abbandonano la causa) che un coniuge eccepisca che dopo l’introduzione della causa vi sarebbe stata una riconciliazione e che, nonostante ciò, il processo sia proseguito in violazione del principio contenuto nell’art. 154.
In tal caso il giudice potrebbe ritenere l’eccezione fondata e che la causa non avrebbe dovuto proseguire; questo accertamento sarebbe possibile anche d’ufficio. E’ quanto si è verificato nella vicenda trattata da Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535 in cui i giudici, dopo aver chiarito la differenza tra l’art. 154, secondo cui la riconciliazione determina l’abbandono della domanda di separazione, e l’art. 157, che ne regola gli effetti succes¬sivamente alla sentenza, affermano che In nessuna delle due norme la riconciliazione può essere ricondotta ad un fatto impeditivo, qualificabile come eccezione in senso stretto, trattandosi della sopravvenienza di una nuova con¬dizione da accertarsi ufficiosamente dal giudice ancorché sulla base delle deduzioni e allegazioni delle parti. Il regi¬me giuridico – afferma inoltre la sentenza – è diverso rispetto a ciò che avviene nel giudizio di divorzio, in quanto l’art. 3, comma 5, della legge sul divorzio, stabilisce espressamente che l’interruzione della separazione, in quanto fatto specificamente impeditivo della realizzazione della condizione temporale stabilita nella medesima disposizio¬ne, deve essere eccepita dalla parte convenuta e non può essere eccepita dal giudice (eccezione in senso stretto).
IV La riconciliazione dopo la separazione
Dopo la separazione (passata in giudicato) la riconciliazione ne fa cessare gli effetti senza che sia necessario l’in¬tervento del giudice (art. 157 c.c.). Non serve quindi null’altro che riconciliarsi riprendendo la vita matrimoniale. La norma intende evidentemente agevolare la voluta ripresa della vita matrimoniale, senza gravare i coniugi che si riconciliano di oneri processuali particolari finalizzati alla cancellazione degli effetti della separazione.
a) La dichiarazione e il comportamento non equivoco
L’art. 157 prevede che la riconciliazione dei coniugi debba evidenziarsi “con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco”. Come si è già detto la riconciliazione è un fenomeno unitario e pertanto deve ugualmente qui avvenire la ripresa effettiva della comunione di vita anche quando la volontà di riconciliazione
Se l’attore costituito non comparisce alla prima udienza, e il convenuto non chiede che si proceda in assenza di lui, il giudice fissa una nuova udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all’attore. Se questi non comparisce alla nuova udienza, il giudice, se il convenuto non chiede che si proceda in assenza di lui, ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l’e¬stinzione del processo.
3 Art. 306.(Rinuncia agli atti del giudizio)
Il processo si estingue per rinuncia agli atti del giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite che potrebbero aver interesse alla prosecuzione. L’accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni.
Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o da loro procuratori speciali, verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti.
Il giudice, se la rinuncia e l’accettazione sono regolari, dichiara l’estinzione del processo.
Il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro. La liquidazione delle spese è fatta dal giudice istruttore con ordinanza non impugnabile.

sia espressa in una dichiarazione (quale che ne sia l’atto o la forma). In altre parole la dichiarazione in sé non esime dalla verifica della effettiva ripresa del consortium vitae.
b) La pubblicità notizia
Se il “comportamento non equivoco” è ritenuto sufficiente tra le parti per considerare riconciliati i coniugi che lo hanno messo in essere, è evidente che questo non è sufficiente nei confronti dei terzi.
La separazione è, infatti, annotata nell’atto di matrimonio (art. 49. lett. d dell’Ordinamento di stato civile appro¬vato con DPR 3 novembre 2000, n. 396) e pertanto i coniugi continueranno ad essere pubblicamente considerati “separati”. Per questo motivo l’ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) ha previsto all’art. 49, lett. f che negli atti di matrimonio si annotano anche “le dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano [cioè rendono manifesta] la loro riconciliazione”.
Sulla necessità dell’annotazione negli atti di stato civile della dichiarazione di riconciliazione cfr Trib. Monza, 1 aprile 2004.
La dichiarazione in questione – che si rende davanti all’ufficiale di stato civile (decreto ministeriale del 5 aprile 2002, formula n. 121-bis4) – non ha, però, certamente funzione costitutiva ma soltanto di pubblicità notizia5 pre¬disposta per assicurare la conoscibilità legale di determinati fatti e, quindi, con una funzione informativa. Serve, cioè, a rendere conoscibile l’atto al quale il legislatore reputa che si debba dare notorietà legale. In questi casi l’atto pubblicizzato nel modo previsto ha piena validità senza che il terzo possa dichiarare di non averne avuto conoscenza. Ove la riconciliazione, non fosse stata annotata perché non dichiarata all’ufficiale di stato civile, essa ha ugualmente valore ma sarà l’interessato che deve dimostrare che il terzo ne era comunque a conoscenza. La pubblicità-notizia si limita, perciò, a dare notizia di determinati fatti, senza che la sua omissione impedisca ai medesimi di produrre i loro effetti giuridici che, nel caso della riconciliazione, sono quelli di ripristinare tra le parti la condizione coniugale piena facendo cessare gli effetti della separazione.
Soltanto ai fini del ripristino del regime della comunione legale – come si dirà – si può ritenere che la formalità abbia funzione dichiarativa, non potendo la riconciliazione, in difetto di pubblicità, essere opposta ai terzi. In tutti gli altri casi l’effetto ripristinatorio della condizione coniugale si verifica, quindi, anche se per ipotesi i coniugi non dichiarassero l’avvenuta riconciliazione. Proprio su questi aspetti Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 2003, n. 18619 ha affermato in passato che occorre distinguere tra effetti interni ed esterni del ripristino della comunione legale e, conseguentemente, in mancanza di pubblicità della riconciliazione, la ricostituzione della comunione legale derivante dalla riconciliazione non può essere opposta al terzo in buona fede che abbia acquistato a titolo oneroso un immobile dal coniuge che risultava unico ed esclusivo del medesimo, benché lo avesse acquistato successivamente alla riconciliazione .
c) La cessazione degli effetti personali della separazione
Secondo la pacifica interpretazione dell’art. 157 gli effetti della separazione che cessano sono quelli personali cioè collegati allo status e non quelli patrimoniali.
Si annullano, quindi, gli effetti dell’eventuale addebito e tutti gli altri effetti personali collegati alla pronuncia di separazione. Riprendono vita perciò i diritti e i doveri coniugali (fedeltà coabitazione, dovere di assistenza morale e materiale) nonché le obbligazioni contributive di cui parla l’art. 143 c.c. oltre che le altre regole della vita matri¬moniale come quella dell’accordo (art. 144 c.c.). Rientrano tra gli obblighi di natura personale che vengono meno ex nunc anche quelli collegati agli eventuali obblighi di mantenimento (coniugale e per i figli) (Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1992, n. 7442) oltre che le statuizioni relative all’affidamento stabilite in sede di separazione.
La riconciliazione produce anche il ripristino della presunzione di concepimento durante il matrimonio (Cass. civ. 23 gennaio 1984, n. 541; Trib. Napoli, 19 marzo 1991).
Come è stato ben precisato da Cass. civ. Sez. III, 26 agosto 2013, n. 19541 l’effetto di caducazione del provvedimento di separazione decorre dal ripristino della convivenza spirituale e materiale, propria della vita coniugale. Con la conseguenza che, in caso di successiva separazione, occorre una nuova regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi, a cui il giudice deve provvedere sulla base di una nuova valutazione della situa¬zione economico-patrimoniale dei coniugi stessi, che tenga conto delle eventuali sopravvenienze e, quindi, anche delle disponibilità da loro acquisite per effetto della precedente separazione.
d) La sopravvivenza degli obblighi negoziali assunti con la separazione
Gli obblighi di tipo negoziale e contrattuale assunti con la separazione non vengono meno, naturalmente, trat¬tandosi di obbligazioni contrattuali indipendenti dalla pronuncia di separazione.
A questo riguardo occorre dare conto della distinzione – a fini descrittivi accettabile – accolta in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 2015, n. 16909; Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066; Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321) tra contenuto necessa¬rio degli accordi di separazione (da qualcuno definito “tipico” e in sostanza coincidente con le clausole collegate ai diritti e agli obblighi nascenti dal matrimonio) e contenuto eventuale (da qualcuno definito “atipico” concernente clausole di vario contenuto che le parti possono sempre liberamente inserire nella loro separazione o nel loro divorzio). Nel contenuto necessario si indicano anche clausole negoziali collegate al mantenimento mentre nel contenuto eventuale si aggregano clausole contrattuali soltanto “occasionate dalla separazione” e che potrebbe¬ro anche essere stipulate al di fuori della separazione. Le clausole contrattuali non possono essere considerate azzerata dalla riconciliazione, ostandovi la loro natura non collegata agli aspetti essenziali della separazione.
Il fatto che le obbligazioni negoziali assunte con la separazione restano ferme è opinione pacifica in giurispru¬denza (Trib. Genova Sez. IV, 29 marzo 2016 secondo cui le pattuizioni relative a trasferimenti di diritti reali non possono ritenersi condizionate dalla intervenuta riconciliazione).
e) Gli effetti della riconciliazione sul regime patrimoniale
Poiché la riconciliazione, cancellando la separazione, ripristina la vita matrimoniale, si è sempre discusso se il regime patrimoniale nel quale si trovavano i coniugi riconciliatisi, si ripristina automaticamente o meno.
La risposta a questa domanda è positiva nel senso che si può affermare che i coniugi rientrano ex nunc nel re¬gime patrimoniale nel quale si trovavano. Se erano in separazione di beni, quindi, ritornano in separazione dei beni. Se erano in comune legale ritornano in comunione legale.
Effettivamente la giurisprudenza (salvo qualche eccezione come Trib. Monza Sez. II, 5 maggio 2008) ha ritenuto, con orientamento che appare oggi consolidato, che ove il regime patrimoniale dei coniugi in corso di matrimonio era quello della comunione dei beni, alla riconciliazione si accompagna il ripristino della comunione legale ex nunc ma non certo per quanto riguarda i beni acquistati dopo l’avvenuto scioglimento della comunione (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 2003, n. 18619; Cass. civ. Sez. I, 12 novembre 1998, n. 11418; Trib. Milano Sez. IX, 10 novembre 2003; App. Trento, 2 settembre 1996).
L’avvenuta riconciliazione dei coniugi separati spiega effetti soltanto interni alla coppia e non può operare ester¬namente al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di buona fede, e quindi non può essere opposta agli acquirenti di un bene immobile dalle mani del coniuge che si è dichiarato legittimato a disporne, dopo che l’avvenuta separazione aveva sciolto il precedente regime di comunione legale (Trib. Bo¬logna, 28 gennaio 1998; Trib. Palermo, 29 marzo 1997).
Perché questo effetto possa, però, essere opposto ai terzi occorrerà che i coniugi rendano la dichiarazione di ri¬conciliazione e che questa – analogamente a quanto avverrebbe se scegliessero ex novo un regime determinato – venga annotata nell’atto di matrimonio (Trib. Napoli, 21 dicembre 1998). In tal caso, però l’annotazione ha, quindi, funzione analoga all’annotazione delle convenzioni matrimoniali che è quella di pubblicità dichiarativa, nel senso che l’annotazione serve a rendere opponibili ai terzi le convenzioni e le loro modifiche, non potendo in difetto, essere surrogate dal fatto che il terzo ne sia venuto altrimenti a conoscenza.
f) L’effetto di resetting
La riconciliazione ha l’effetto di azzerare il conflitto coniugale nel senso che “La separazione può essere pro¬nunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione” (art.157 capoverso). L’effetto di resetting (secondo il nome che qui si suggerisce) comporta l’annullamento di tutto il con¬tenzioso che aveva caratterizzato la causa di separazione e quindi, per esempio, anche dell’eventuale pronuncia di addebito.
Un effetto analogo non è previsto nel caso di riconciliazione durante la separazione; situazione che non è apparsa illegittima alla Corte costituzionale (Corte cost. 21 aprile 1983, n. 104).
Ha espresso bene questo concetto anche App. Roma, 7 marzo 2007 dove si afferma che la riconciliazione è fonte non soltanto di effetti processuali – preclusivi come tali del giudizio di separazione in corso – ma anche di effetti propriamente sostanziali, consistenti specificamente nel determinare la inidoneità di fatti anteriori alla stessa ad assumere autonomo valore probatorio ai fini di una pronuncia di addebito di separazione avanzata dopo l’evento riconciliativo di fatto non riuscito.
Ove i coniugi dovessero di nuovo separarsi, l’addebito potrà essere eventualmente pronunciato solo per fatti suc¬cessivi alla riconciliazione (Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16873¸Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 1991, n. 26; Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 1990, n. 11523). Questa è l’interpretazione più logica che deriva dalla lettura del capoverso della disposizione, essendo evidente che ai fini della domanda di separazione non è neces¬sario dare conto di alcun fatto o comportamento che giustifichi l’esercizio di tale diritto. A differenza di quanto avveniva nel regime precedente alla riforma del 1975 in cui – secondo il codice del 1942 – la separazione era fondata su ipotesi tipiche di colpa per violazione di specifici doveri derivanti dal matrimonio e la riconciliazione implicava l’impossibilità di utilizzare i fatti anteriori come causa petendi di una nuova domanda di separazione.
g) La riconciliazione estingue i reati commessi tra coniugi nel corso della separazione?
A questa domanda ha dato implicitamente risposta negativa in passato Corte cost. 20 luglio 1990, n. 357 dichiarando manifestamente inammissibile – in riferimento agli art. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione – la que¬stione di legittimità costituzionale dell’art. 572, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede come causa di estinzione del reato di maltrattamenti in famiglia la seria riconciliazione dei coniugi ed il normale svolgimento della vita coniugale, giudizialmente accertati; e ciò in quanto spetta esclusivamente al legislatore stabilire se esistano fatti successivi al reato in grado di estinguere il carattere criminale delle violazioni commesse e le rela¬tive conseguenze sanzionatorie.
Una volta riconosciuta e confermata l’attuale validità della rilevanza penale di fatti che violano i principi su cui si fonda l’unità della famiglia e l’etica della coesistenza pacifica dei suoi membri (anche nell’interesse dei figli minori), non può spettare che allo stesso legislatore stabilire se esistano fatti successivi in grado di estinguere, sotto condizioni che ancora una volta solo il legislatore può disciplinare, il carattere penale di quelle violazioni e le relative conseguenze sanzionatorie.
In ordine al reato di violazione degli obblighi di assistenza Corte cost. 18 aprile 1983, n. 102 dichiarò inam-missibile una questione di costituzionalità che era stata sollevata. Alte questioni vennero affrontate da Corte cost. 29 luglio 1982, n. 157 che restituì gli atti ai giudici remittenti sulla base della introduzione ad opera della riforma penale del 1981 della querela di parte per i reati sui quali si erano concentrate le censure di inco¬stituzionalità.
h) Può la riconciliazione essere eccepita in un giudizio di modifica delle condizioni di separazione?
Secondo Trib. Modena Sez. II, 10 marzo 2011 nel procedimento di modifica delle condizioni di separazione promosso ai sensi dell’art. 710 c.p.c. sarebbe irrilevante in relazione all’oggetto del processo, se non addirittura inammissibile, l’eccezione di intervenuta riconciliazione tra i coniugi.
La decisione non appare condivisibile dal momento che ove si fosse verificata effettivamente la riconciliazione si sarebbero verificati gli effetti previsti dall’art. 157 e dovrebbe quindi essere dichiarata l’improponibilità del procedimento di modifica delle condizioni di separazione.
V L’eccezione di riconciliazione in sede divorzile
Si è detto all’inizio che in caso di domanda di divorzio fondata su una precedente pronuncia di separazione (con¬sensuale o giudiziale) l’art. 3, n. 2 b, ultima parte, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 prescrive che “L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta”.
Si tratta di un’eccezione in senso stretto. Non è rilevabile d’ufficio, deve essere tempestivamente proposta ad istanza della parte convenuta ed è inammissibile se proposta per la prima volta in appello (Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11885; Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535; Cass. civ. Sez. I, 19 novembre 2010, n. 23510).
Quindi il legislatore consente al convenuto di neutralizzare la domanda di divorzio presentata dall’altro coniu¬ge, eccependo l’“interruzione della separazione”, espressione che è usata come sinonimo di “riconciliazione”. Il fondamento della norma è quello di imporre il rispetto formale della sequenza prevista tra il procedimento di separazione e quello di divorzio.
La legge 6 maggio 2015, n. 55 che ha ridotto i termini minimi necessari per la presentazione della domanda di divorzio – un anno dall’udienza presidenziale se la separazione è giudiziale e sei mesi dalla consensuale o dalla consensualizzazione6 – ha reso molto improbabile l’eventualità di una riconciliazione in così poco tempo di vita da separati.
Ciononostante ove il convenuto eccepisse e provasse l’avvenuta riconciliazione il tribunale dovrebbe dichiarare inammissibile la domanda.
E’ frequente il caso in cui, respinta l’eccezione di riconciliazione, la causa prosegua magari giungendo alla sen¬tenza non definitiva di divorzio. E’ questo uno dei pochi casi in cui il ricorrente deluso dal rigetto dell’eccezione potrebbe, avendovi interesse, presentare appello immediato avverso la decisione sullo status, con la conseguen¬za che la causa potrebbe prolungarsi per molto tempo in appello e magari anche davanti alla Corte di cassazione.
Interessante la pronuncia di Trib. Verona, 5 giugno 2002 secondo cui il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 397 c.p.c. è legittimato a chiedere la revocazione della sentenza di divorzio pronunziata sulla base della ininter¬rotta durata della separazione, senza che emergesse la sopravvenuta riconciliazione dei coniugi, giacché è ben vero che ai sensi dell’art. 3 n. 2 lett. b) l. n. 898 del 1970 l’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta, ma nella specie la mancata allegazione e prova in giudizio della riconciliazione integrava una collusione dei coniugi volta a evitare che il giudice appurasse anche d’ufficio l’avvenuta riconcilia¬zione, stante la rilevanza pubblicitaria della disciplina. Questo presupposto, però – che il giudice potesse rilevare d’ufficio la riconciliazione – è errato.
6 In tutti i casi di divorzio chiesto in seguito alla pregressa separazione, “per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta” (art. 3, n. 2, b, seconda parte, delle legge sul divorzio dopo le modifiche apportate dalla legge 6 maggio 2015, n. 55 ).
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318 (Giur. It., 2017, 3, 594 nota di EMILIOZZI)
In tema di riconciliazione, nulla ha mutato al riguardo, limitandosi a ridurre i termini dall’udienza presidenziale, la recente L. n. 55 del 2015. D’altra parte, l’eventuale interruzione della separazione dovrà essere eccepita, ai sensi dell’art. 3 L. Divorzio, dalla parte convenuta, che dovrà dunque fornire piena prova dell’intervenuta riconciliazione e dell’integrale ripresa del consortium vitae tra i coniugi.
Trib. Genova Sez. IV, 29 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La clausola con la quale i coniugi nel verbale di separazione consensuale riconoscano la proprietà esclusiva di beni immobili, costituisce negozio attributivo della proprietà e soddisfa, per i beni immobili, l’esigenza della forma scritta, non essendo neces¬sario l’atto notarile. L’anzidetta concorde attribuzione della proprietà sugli immobili costituisce, dunque, atto dispositivo della proprietà, immediatamente efficace, che non può essere condizionato dalla successiva riconciliazione, ma, eventualmente, solo da un successivo concorde ed autonomo atto di disposizione della stessa proprietà.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11885 (Foro It., 2015, 7-8, 1, 2301)
Nei giudizi di divorzio l’eccezione di sopravvenuta riconciliazione non è rilevabile d’ufficio, ma deve essere tempestivamente proposta esclusivamente ad istanza della parte convenuta, in quanto non ne è ammissibile la successiva proposizione da parte del coniuge che aveva chiesto il divorzio (nella specie, è stata cassata la sentenza di merito che aveva invece accolto l’eccezione di riconciliazione proposta dalla ricorrente, dopo che il marito, costituendosi, aveva aderito alla domanda di divorzio, sussistendo però contrasto quanto ai profili economici).
Cass. civ. Sez. VI, 24 dicembre 2014, n. 27386 (Giur. It., 2015, 5, 1076 nota di DALMASSO DI GARZEGNA)
La convivenza ripresa dopo la separazione ed idonea ad interromperla, non deve essere caratterizzata dalla temporaneità, do¬vendosi ricostituire concretamente il preesistente vincolo coniugale, nella sua essenza materiale e spirituale, di certo non realiz¬zabile se l’altro coniuge si trova in carcere. Nella disciplina della cessazione degli effetti civili del matrimonio, il pregresso stato di separazione tra i coniugi (concretante un vero e proprio requisito dell’azione, ex art. 3 n. 2 della legge n. 898 del 1970) può legittimamente dirsi interrotto nel caso in cui si sia concretamente e durevolmente ricostituito il preesistente nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali sì da ridar vita al pregresso vincolo coniugale, e non anche quando il riavvicina¬mento dei coniugi, pur con la ripresa della convivenza e dei rapporti sessuali, rivesta caratteri di temporaneità ed occasionalità.
Cass. civ. Sez. VI, 21 novembre 2014, n. 24833 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione coniugale non può consistere nel mero ripristino della situazione quo ante, bensì si sostanzia nella ricostitu¬zione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la pro¬secuzione della convivenza e che si concretizzino in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per provare la riconciliazione tra coniugi separati, non è sufficiente che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale.
L’art. 154 cod. civ., stabilisce che la riconciliazione determina l’abbandono della domanda di separazione personale. Il successivo art. 157 cod. civ., ne regola gli effetti successivamente alla sentenza con la quale è stata dichiarata la separazione personale. In nessuna delle due norme la riconciliazione può essere ricondotta ad un fatto impeditivo, qualificabile come eccezione in senso stretto, trattandosi della sopravvenienza di una nuova condizione da accertarsi officiosamente dal giudice ancorché sulla base delle deduzioni e allegazioni delle parti. Il regime giuridico è nettamente diverso nel giudizio di divorzio in quanto l’art. 3, comma 5, così come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 5, stabilisce espressamente che l’interruzione della separazione, in quanto fatto specificamente impeditivo della realizzazione della condizione temporale stabilita nella medesima disposizione, deve esse¬re eccepita dalla parte convenuta. Ne consegue, limitatamente a questa ipotesi, l’improponibilità per la prima volta in appello dell’eccezione (Cass. 23510 del 2010).
Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 369(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La coabitazione dei coniugi non costituisce, di per sé, un dato sufficiente per far ritenere intervenuta fra gli stessi una riconci¬liazione, essendo al contrario necessario, a tal fine, che sia concretamente ricostituito il preesistente nucleo familiare nell’insie¬me dei suoi rapporti materiali e spirituali. Occorre, pertanto, che sia data dimostrazione dell’avvenuto raggiungimento di una stabile e consapevole ripresa della vita in comune, con una compartecipazione responsabile rispetto agli eventi incidenti sulla gestione familiare.
Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28655 (Foro It., 2014, 2, 1, 480)
La cessazione degli effetti civili della separazione si determina a seguito di riconciliazione , che non consiste nel mero ripristino della situazione “quo ante”, ma nella ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniu¬gale di vita, vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e che si concretizzino in un comportamento non equi¬voco incompatibile con lo stato di separazione.
Cass. civ. Sez. III, 26 agosto 2013, n. 19541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione successiva al provvedimento di omologazione della separazione consensuale, ai sensi dell’art. 157 cod. civ., determina la cessazione degli effetti della precedente separazione, con caducazione del provvedimento di omologazione, a far data dal ripristino della convivenza spirituale e materiale, propria della vita coniugale. Ne consegue che, in caso di successiva separazione, occorre una nuova regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi, cui il giudice deve provvedere sulla base di una nuova valutazione della situazione economico-patrimoniale dei coniugi stessi, che tenga conto delle eventuali sopravve¬nienze e, quindi, anche delle disponibilità da loro acquisite per effetto della precedente separazione.
App. Napoli, 19 luglio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Perché possa configurarsi la riconciliazione dei coniugi separati non è sufficiente che i coniugi abbiano ripristinato la convivenza, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali tipici del rapporto coniugale, la cui prova va individuata nella ripresa dell’affectio coniugalis, nella sussistenza di circostanza di fatto incompatibili con il permanere dello stato di sepa¬razione, con la ripresa di frequentazioni di amici e conoscenti, con lo svolgimento di viaggi, con la cura e l’educazione costante della prole, lo scambio di regali in occasione di feste e ricorrenze e quindi con tutto ciò che costituisce espressione del ripristino della solidarietà familiare caratterizzante la vita dei coniugi.
Trib. Milano, 22 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione tra i coniugi va intesa quale ricostituzione di un’affectio coniugalis piena e profonda, quale ripristino del con¬sorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi (Cass. Sez. I 25.5.2007 n. 12314, Cass. Sez. I 6.10.2005 n. 19497). Non è elemento sufficiente il fatto che i coniugi, dopo la separazione, per un certo periodo, abbiano scelto di tornare a coabitare.
App. Napoli, 9 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione tra i coniugi, successiva alla separazione legale (giudiziale o consensuale) toglie efficacia a quest’ultima e osta al divorzio sempre che si risolva – e il coniuge istante ne offra la prova – nella ripresa della comunione di vita, vale a dire della convivenza con le ordinarie modalità della stessa, sempre che siano riconducibili allo schema legale di rapporto coniugale (nella specie la Corte ha rigettato l’eccezione di riconciliazione della moglie, secondo cui già in epoca precedente alla separazione i due concordemente non convivevano, e la moglie stessa tollerava i continui adulteri del marito, assetto che si sarebbe riproposto anche successivamente alla riconciliazione).
Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 2012, n. 16661 (Famiglia e Diritto, 2013, 2, 199)
La dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3 della legge n. 898 del 1970 (oggi dagli artt. 1 e 7 della legge n. 74 del 1987), ma presuppone, in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza (dell’essen¬ziale condizione) della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio coniugale per effetto della definitiva rottura del legame di coppia, onde, in questo senso, lo stato di separazione dei coniugi concreta un requisito dell’azione, necessario secondo la previsione dell’art. 3, n. 2, lett. b), della citata legge n. 898 del 1970, la cui interruzione, da opporsi a cura della parte convenuta (art. 5 della legge n. 74 del 1987) in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall’altra parte, postula l’avvenuta riconciliazione, la quale si verifica quando sia stato ricostituito l’intero complesso dei rapporti che caratterizzano il vincolo ma¬trimoniale e che, quindi, sottende l’avvenuto ripristino non solo di quelli riguardanti l’aspetto materiale del consorzio anzidetto, ma altresì di quelli che sono alla base dell’unione spirituale tra i coniugi.
L’accertamento dell’avvenuta riconciliazione tra coniugi separati, per avere essi tenuto un comportamento non equivoco che risulti incompatibile con lo stato di separazione (da compiersi attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei ge¬sti e dei comportamenti posti in essere dagli stessi coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ripresa della convivenza e alla costituzione di una rinnovata comunione, piuttosto che con riferimento a supposti elementi psicologici, tanto più difficili da provare in quanto appartenenti alla sfera intima dei sentimenti e della spiritualità soggettiva), implicando un’indagine di fatto, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae, quindi, a censura, in sede di le¬gittimità, là dove difettino vizi logici o giuridici.
Cass. civ. Sez. VI, 12 gennaio 2012, n. 334 (Foro It., 2012, 2, 1, 417)
Deve essere dichiarata improponibile per difetto dei requisiti di cui all’art.3 n.2 lett.b) della legge 1 dicembre 1970, n.898, la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel caso in cui le parti, all’udienza presidenziale di un precedente ana¬logo giudizio, abbiano dichiarato di aver ripristinato la convivenza spirituale e materiale, propria delle vita coniugale, in quanto tale dichiarazione, ai sensi dell’art.157 cod.civ., è sufficiente a fare cessare gli effetti della precedente separazione personale.
Osta alla pronuncia del divorzio l’esibizione di una espressa dichiarazione dei coniugi relativa alla loro intervenuta riconciliazione, verbalizzata in un precedente giudizio di divorzio tra le stesse parti, non essendo invece necessaria anche la prova dell’effettivo ripristino della convivenza.
Trib. Potenza, 27 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione, i coniugi possono far cessare gli effetti della separazione giudiziale o consensuale senza che sia ne¬cessario l’intervento del giudice con un’espressa dichiarazione ovvero con un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione. Ne consegue che in caso di riconciliazione la separazione può essere pronunciata solo in relazione a fatti o comportamenti sopravvenuti. Perché possa parlarsi di riconciliazione occorre che venga ricostituito il consorzio familiare attra¬verso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi, cessata con la separazione.
Trib. Modena Sez. II, 10 marzo 2011 (Famiglia e Diritto, 2011, 5, 492 nota di GRAZIOSI)
Nel procedimento di modifica delle condizioni di separazione promosso ai sensi dell’art. 710 c.p.c. è irrilevante in relazione all’og¬getto del processo, se non addirittura inammissibile, l’eccezione di intervenuta riconciliazione tra i coniugi.
Trib. Trento, 18 gennaio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio non consegue automaticamente alla constatazione della pre¬senza di una delle cause che costituiscono il requisito dell’azione. La pronunzia di cessazione presuppone, infatti, in ogni caso, l’accertamento, da parte del giudice, della concreta impossibilità di ricostituire il consorzio familiare a causa della definitività della rottura dell’unione spirituale e materiale tra i coniugi. L’asserito venir meno dello stato di separazione, opposto da un co¬niuge a fronte della domanda di divorzio dell’altro, ha pertanto, come suo indefettibile presupposto, l’avvenuta riconciliazione, ossia la ricostruzione del nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali. Detta riconciliazione va accertata attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ricostruzione del rapporto matrimoniale, piuttosto che con riferimento al mero elemento psicologico, tanto più difficile da provare in quanto appartenente alla sfera intima dei sentimenti e della spi¬ritualità soggettiva. La ricostruzione della comunione spirituale e materiale tra i coniugi, va intesa, sotto il primo aspetto, come animus di riservare al coniuge la posizione di esclusiva compagna di vita e di adempiere ai doveri coniugali e, sotto il secondo aspetto, come convivenza caratterizzata da una comune organizzazione domestica.
Cass. civ. Sez. I, 19 novembre 2010, n. 23510 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi di divorzio, l’art.3, secondo comma, lett. b) della legge 1 dicembre 1970 espressamente stabilisce che l’eccezione di sopravvenuta riconciliazione deve essere proposta ad istanza di parte; pertanto, il giudice non può rilevarla d’ufficio, non inve¬stendo profili d’ordine pubblico, ma aspetti strettamente attinenti ai rapporti tra i coniugi, in ordine ai quali è onere della parte convenuta eccepire e conseguentemente provare l’avvenuta riconciliazione (nella fattispecie la ricorrente, contumace in primo grado, aveva per la prima volta proposto l’eccezione di riconciliazione in fase di appello con conseguente e confermata declara¬toria d’inammissibilità da parte del giudice di secondo grado).
Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16873 (Nuova Giur. Civ., 2011, 2, 1, 178 nota di MAIONE)
L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, determinando di regola l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, co¬stituisce in genere circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, con un accertamento rigoroso e una valutazione comples¬siva del comportamento di entrambi i coniugi, rimessa al giudice di merito per accertare se vi è la preesistenza d’una crisi irri¬mediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza solo formale. Sussiste pertanto l’addebito per il coniuge che a seguito di riconciliazione non ha rispettato l’obbligo di fedeltà sul presupposto che la stessa fosse stata soltanto formale.
Trib. Roma Sez. I, 19 luglio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione coniugale, costituiscono elementi univoci e convergenti in ordine alla volontà riconciliativa da parte dei coniugi idonei ad interrompere gli effetti della precedente separazione, l’aver continuato a convivere per ben due anni succes¬sivamente all’omologa della separazione consensuale nonché l’aver trascorso addirittura insieme le vacanze estive. In siffatta situazione è, dunque, onere del coniuge che contesti l’interruzione degli effetti della pregressa separazione dimostrare la sussi¬stenza di diversi accordi intercorsi con l’altro coniuge o le modalità di svolgimento della vita coniugale sotto lo stesso tetto tali da far escludere l’intento conciliativo, sì da superare l’elemento oggettivo del ripristino della loro coabitazione presunto dalle circostanze suesposte (convivenza dopo l’omologazione della separazione; vacanze comuni).
Trib. Benevento, 22 gennaio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi, la riconciliazione non può farsi discendere dalla coabitazione dei coniugi che può trovare ragioni non incompatibili con il perdurare di quello stato, quale, ad esempio, l’esigenza di dissimulare temporaneamente la sepa¬razione ai figli minori, ovvero sia riconducibile ad una comunanza di indirizzo e dei servizi forniti dall’immobile ma non si inserisce nell’ambito di una normale vita matrimoniale.
Trib. Milano Sez. IX, 12 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va esclusa la sussistenza di una vera e propria riconciliazione in presenza di incontri dei coniugi nei fine settimana o nelle vacan¬ze, in presenza di visite anche giornaliere dettate da motivi umanitari, in relazione al semplice fatto che uno dei coniugi si rechi a consumare i pasti nell’abitazione familiare, in presenza di ritorni saltuari del marito nel luogo di residenza della moglie e di rapporti sessuali tra loro intervenuti in dette occasioni, in presenza del fatto che il marito, convivente con la moglie, corrisponda con continuità a quest’ultima somme di denaro: tali comportamenti non integrano ex se la prova dell’intervenuta riconciliazione, occorrendo per converso che questi siano stati accompagnati da un insieme di altri comportamenti che realmente e concreta¬mente dimostrino il ripristino della comunione di vita in tutti i suoi profili, sia materiali che spirituali.
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2008, n. 21001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che osta alla pronuncia del divorzio l’intervenuta riconciliazione dei coniugi, consistente nel ripristino non solo della convi¬venza materiale, ma anche della unione spirituale tra gli stessi, ai fini della prova relativa, che incombe sul coniuge che si oppone al divorzio, deve attribuirsi prevalente valore, piuttosto che ad elementi psicologici e soggettivi, a quelli esteriori, oggettivamente diretti a dimostrare la volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita, quali la ripresa della convivenza e le sue modalità.
Ai fini dell’interruzione della separazione tra coniugi, è necessario che tra loro venga ripristinata la comunione materiale e spiri¬tuale. Particolare importanza deve essere data agli elementi esteriori che rivelano il ripristino della convivenza, perché costitui¬scono prova dell’avvenuta riconciliazione, non rilevando le eventuali riserve mentali di uno dei coniugi. La convivenza dimostra una disponibilità alla ricostruzione del matrimonio e ove protrattasi nel tempo, rappresenta la prova dell’avvenuta riconciliazione.
Trib. Trani, 19 maggio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine del riscontro dei requisiti per il divorzio, la cessazione di uno stato di separazione giudiziale dei coniugi, per effetto di una riconciliazione, richiede la ricostituzione del consorzio familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali e, pertanto, non può discendere dalla mera coabitazione, che può trovare ragioni non incompatibili con il perdurare di quello stato.
Trib. Reggio Emilia, 12 maggio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il venir meno dello stato di separazione per effetto dell’intervenuta riconciliazione va provato dando rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti dei coniugi più che al mero elemento psicologico (nella specie, il Tribunale ha accolto la domanda di separazione proposta dal marito rigettando l’eccezione di improcedibilità sollevata dalla moglie con riguardo alla pregressa separazione consensuale omologata).
Trib. Monza Sez. II, 5 maggio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, la riconciliazione tra gli stessi, avvenuta dopo l’omologa della separazione con¬sensuale, non comporta di per sé l’automatico ripristino del previgente regime di comunione legale, né ex tunc né ex nunc, in quanto se così fosse il regime pubblicistico relativo al regime patrimoniale della famiglia verrebbe ad essere irrimediabilmente inficiato; tra i coniugi riconciliati continua a sussistere il regime patrimoniale della separazione dei beni, conseguenza ex lege dell’omologazione della separazione consensuale.
App. Roma, 13 febbraio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione tra coniugi, perché si abbia riconciliazione, con conseguente cessazione degli effetti della separazione, occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi, cessata appunto con la separazione; a tal fine, il giudice di merito deve attribuire prevalente valore agli elementi esteriori oggettivamen¬te diretti a dimostrare la volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita piuttosto che a elementi psicologici permeati di soggettività. (Cass. n. 12314/2007; Cass. n. 26165/2006; Cass. n. 6031/98)
Trib. Chieti, 18 ottobre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mera convivenza – pur essendo un elemento altamente indiziate – non può costituire la prova di una riconciliazione tra i co¬niugi. In particolare, la ripresa della convivenza “a scopo sperimentale”, nell’ottica di una verifica delle possibilità di ricostituire l’unione spirituale, non può in alcun caso dar luogo ad una riconciliazione. In simili casi, infatti, i coniugi riprendono ad avere rapporti interpersonali con l’evidente riserva di verificare l’eventuale superamento delle condizioni che avevano condotto alla separazione; nel periodo in cui si attua tale tentativo, non può, dunque, ritenersi sussistente una reale volontà di ripristinare l’originario rapporto coniugale. (Cass., n. 12427/04)
Cass. civ. Sez. I, 25 maggio 2007, n. 12314 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 879 nota di RUSSO)
Perché si abbia riconciliazione, con conseguente cessazione degli effetti della separazione, occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi cessata appunto con la separazione; a tal fine, il giudice di merito deve attribuire prevalente valore agli elementi esteriori oggettivamente diretti a dimostrare la volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita piuttosto che a elementi psicologici permeati di soggettività (nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che non aveva adeguatamente valutato l’elemento del ripristino della convivenza sopravvalutando aspetti legati alla sfera dei sentimenti).
L’elemento oggettivo del ripristino della coabitazione tra i coniugi, è potenzialmente idoneo a fondare, nel giudice, il positivo convincimento circa l’avvenuta riconciliazione. Da ciò discende che spetterà al coniuge interessato a negarla dimostrare che il nuovo assetto posto in essere era, per intercorsi accordi tra le parti o per le modalità di vita familiare sotto lo stesso tetto, tale da non integrare una ripresa della convivenza, e quindi tale da non poter essere configurato come evento riconciliativo.
App. Catania, 26 aprile 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché lo stato di separazione possa ritenersi interrotto a causa di riconciliazione occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi cessata con la separazione, consistendo la ri¬conciliazione nella volontà di questi ultimi di ricostituire in pieno non solo la loro convivenza materiale, ma anche quell’unione spirituale che è alla base della convivenza medesima.
App. Roma, 7 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione coniugale, l’avvenuta riconciliazione del rapporto materiale e morale tra i coniugi – da intendersi quale effettivo ripristino della convivenza – è fonte non soltanto di effetti processuali – preclusivi come tali del giudizio di separazione in corso – ma anche di effetti propriamente sostanziali, consistenti specificamente nel determinare la inidoneità di fatti anteriori alla stessa ad assumere autonomo valore probatorio ai fini di una pronuncia di addebito di separazione avanzata dopo l’evento riconciliativo di fatto non riuscito. Purtuttavia non può negarsi che il giudice possa egualmente tenere conto dei fatti anteriori, anche se al solo scopo di definire il contesto storico nel quale va operato l’apprezzamento in ordine alla pronuncia suddetta.
Trib. Benevento, 7 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione personale dei coniugi, l’avvenuta riconciliazione nelle more del processo – prodotta in giudizio mediante deposito della rinunzia alla stessa, sottoscritta dai coniugi ed autenticata dal legale – comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26165 (Famiglia e Diritto, 2007, 8-9, 805 nota di VALENTE)
La dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3 della legge n. 898 del 1970 (oggi dagli artt. 1 e 7 della legge n. 74 del 1987), ma presuppone, in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza (dell’essen¬ziale condizione) della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio coniugale per effetto della definitiva rottura del legame di coppia, onde, in questo senso, lo stato di separazione dei coniugi concreta un requisito dell’azione, necessario secondo la previsione dell’art. 3, n. 2, lett. b), della citata legge n. 898 del 1970, la cui interruzione, da opporsi a cura della parte convenuta (art. 5 della legge n. 74 del 1987) in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall’altra parte, postula l’avvenuta riconciliazione, la quale si verifica quando sia stato ricostituito l’intero complesso dei rapporti che caratterizzano il vincolo ma¬trimoniale e che, quindi, sottende l’avvenuto ripristino non solo di quelli riguardanti l’aspetto materiale del consorzio anzidetto, ma altresì di quelli che sono alla base dell’unione spirituale tra i coniugi.
L’accertamento dell’avvenuta riconciliazione tra coniugi separati, per avere essi tenuto un comportamento non equivoco che risulti incompatibile con lo stato di separazione (da compiersi attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei ge¬sti e dei comportamenti posti in essere dagli stessi coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ripresa della convivenza e alla costituzione di una rinnovata comunione, piuttosto che con riferimento a supposti elementi psicologici, tanto più difficili da provare in quanto appartenenti alla sfera intima dei sentimenti e della spiritualità soggettiva), implicando un’indagine di fatto, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae, quindi, a censura, in sede di le¬gittimità, là dove difettino vizi logici o giuridici.
App. Roma, 12 aprile 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Dal provvedimento di separazione legale (sia esso giudiziale che consensuale) discende una presunzione di non convivenza dei coniugi separati sicché, in costanza di pregresso provvedimento di separazione debitamente omologato, sul coniuge nuovamente ricorrente per la separazione incombe l’onere di dimostrare che il precedente provvedimento è stato posto nel nulla per succes¬siva riconciliazione. In difetto di tale prova il nuovo ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Trib. Monza Sez. IV, 11 aprile 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda proposta per ottenere lo scioglimento del matrimonio non può essere accolta laddove sia intervenuta la riconcilia¬zione dei coniugi, a norma dell’art. 157 cod. civ. La riconciliazione, che ricorre ove ripristinato il consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi, può risultare da una dichiarazione espressa ovvero da un comportamento concludente non equivoco ed incompatibile con lo stato di separazione e, ove deve essere ritenuta per facta concludentia, abbisognia non di singoli comportamenti in sé considerati, quali la ripresa della mera coabitazione temporanea o la riunione durante le vacanze o la presenza di sporadici rapporti sessuali, ma di una ripresa della convivenza coniugale accompa¬gnata da una stabile coabitazione, dall’organizzazione domestica e, normalmente, da rapporti sessuali e da altre manifestazioni di affetto. Tali fatti concludenti si ravvisano, considerandoli nel loro complesso, nell’aver trascorso vacanze unitamente al loro cane, nell’acquisto comune di una lavatrice, nelle telefonate che dall’utenza fissa casalinga risultano effettuate sul telefono mo¬bile della moglie, nell’aver sottoscritto, in qualità di testimone, il verbale di consegna della salma del suocero, tutte attività che comprovano la partecipazione alle attività ed alle incombenze quotidiane della ricostituita famiglia.
Cass. civ. Sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19497 (Famiglia e Diritto, 2006, 1, 22 nota di CARBONE)
Non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra i coniugi separati, per gli effetti che ne derivano, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale, essendo invece necessaria la completa ripresa dei rapporti caratteristici della vita coniugale.
App. Napoli, 17 gennaio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per aversi la riconciliazione occorre che il consorzio familiare sia stato integralmente ricostituito, ossia ripristinato attraverso la piena ripresa della convivenza materiale e della unione spirituale. La riconciliazione configurata dal legislatore, infatti, non consiste in un semplice riavvicinamento dei coniugi, né è attestata dalla sola ripresa, per un certo periodo, della convivenza e dei rapporti sessuali, ma richiede la riunificazione della famiglia, accompagnata dalla ferma intenzione di ricomporre l’unione di coppia, in condizioni di rinnovata comunione e di reciproca solidarietà.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2004, n. 12427 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, per gli effetti che ne derivano, che i medesimi abbiano ripri¬stinato la convivenza a scopo sperimentale, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale.
Trib. Monza, 1 aprile 2004 (Foro It., 2004, 1, 2272)
L’espressa dichiarazione dei coniugi, idonea ai sensi dell’art. 157 c.c. a far cessare gli effetti della separazione, deve essere, sotto il profilo formale, inequivoca e verificabile in ogni momento, anche mediante la sua iscrizione tra gli atti dello stato civile, ed inoltre deve essere accompagnata da elementi tali che ne confermino la valenza reale e non astratta, quali la ripresa effettiva della convivenza (nella specie, il tribunale ha escluso l’idoneità, ai fini della riconciliazione, di una comunicazione telefonica, nel corso della quale il marito separato avrebbe dichiarato alla moglie – che avrebbe contestualmente accettato – di voler riprendere la vita coniugale, seguita da una breve ripresa della convivenza).
Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 2003, n. 18619 (Famiglia e Diritto, 2004, 253 nota di SESTA)
In materia di comunione legale tra i coniugi, la separazione personale costituisce causa di scioglimento della comunione, che è rimossa dalla riconciliazione dei coniugi, dalla quale deriva il ripristino del regime di comunione originariamente adottato; tut¬tavia, in applicazione dei principi costituzionali di tutela della buona fede dei contraenti e della concorrenza del traffico giuridico (artt. 2 e 41 Cost.), occorre distinguere tra effetti interni ed esterni del ripristino della comunione legale e, conseguentemente, in mancanza di un regime di pubblicità della riconciliazione , la ricostituzione della comunione legale derivante dalla riconciliazione non può essere opposta al terzo in buona fede che abbia acquistato a titolo oneroso un immobile dal coniuge che risultava unico ed esclusivo del medesimo, benché lo avesse acquistato successivamente alla riconciliazione. (Fattispecie alla quale “ratione temporis” non era applicabile l’art. 69 del D.P.R. n. 396 del 2000, che ha previsto l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione).
A seguito della riconciliazione tra coniugi si ripristina automaticamente tra loro il previgente regime di comunione legale dei beni. Tuttavia, in difetto di alcuna segnalazione esterna di quell’evento, detto ripristino non è opponibile a terzi di buona fede che abbiano acquistato a titolo oneroso dal coniuge che risultava unico ed esclusivo titolare dell’immobile alienato, poiché operano le norme generali che governano la pubblicità delle vicende giuridiche a tutela dei terzi (ed ora il meccanismo di annotazione specificamente predisposto per la riconciliazione dei coniugi agli artt. 63 e 69 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396).
II ripristino automatico dell’originario regime patrimoniale legale di comunione, tra coniugi separatisi, in conseguenza di succes¬siva riconciliazione ex articolo 157 del c.c., non può essere opposto ai terzi che hanno acquistato in buona fede, a titolo oneroso, dal coniuge che risultava unico ed esclusivo titolare dell’immobile alienato, per averlo egli, a sua volta, acquistato, a seguito di annotazione a margine dell’atto di matrimonio, in regime di separazione dei beni.
Trib. Milano Sez. IX, 10 novembre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione compiuta dai coniugi successivamente alla loro separazione personale consensuale omologata, oltre a far ces¬sare gli effetti personali della separazione, comporta la ricostituzione ipso iure della comunione legale già disciolta al momento della separazione stessa.
App. Perugia, 9 ottobre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elemento oggettivo, da cui è possibile desumere la ricostituzione del nucleo familiare, prevale sul mero elemento psicologico, nel caso in cui questo non si sia estrinsecato in gesti quotidiani che lo rivelino con chiarezza e senza fraintendimenti. Tale ele¬mento oggettivo, può consistere nella ripresa della convivenza, purché concreta, durevole, e non temporanea ed occasionale, nonché nella redazione di un testamento olografo a favore dei figli, unito alla revoca delle disposizioni testamentarie a favore della precedente convivente (nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che nessuna rilevanza potesse essere attribuita al fatto che il coniuge avesse riallacciato dei rapporti con la propria amante, non essendovi prova che la moglie fosse a conoscenza di tale relazione, né fosse significativo il fatto che i coniugi avessero vissuto in camere separate, non avendo da tempo rapporti di natura sessuale, anche in considerazione dell’età dei due coniugi).
Trib. Verona, 5 giugno 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il p.m. ai sensi dell’art. 397 c.p.c. è legittimato a chiedere la revocazione della sentenza di divorzio pronunziata sulla base della ininterrotta durata della separazione, senza che emergesse la sopravvenuta riconciliazione dei coniugi, giacché è ben vero che ai sensi dell’art. 3 n. 2 lett. b) l. n. 898 del 1970 l’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte con¬venuta, ma nella specie la mancata allegazione e prova in giudizio della riconciliazione integrava una collusione dei coniugi volta a evitare che il giudice appurasse anche d’ufficio, stante la rilevanza pubblicitaria della disciplina, la mancanza dei presupposti di legge del divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 2001, n. 12428 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinchè lo stato di separazione possa ritenersi interrotto a causa di riconciliazione, occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi cessata appunto con la separazione, consistendo la riconciliazione nella volontà di questi ultimi di ricostituire in pieno non solo la loro convivenza materiale, ma anche quell’unione spirituale che è alla base della convivenza medesima.
Trib. Vercelli, 9 maggio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di eccezione alla domanda di scioglimento degli effetti civili del matrimonio, l’accertamento della riconciliazione dei co¬niugi non può non solo implicare necessariamente una ripresa della convivenza materiale, ovvero concretarsi in una coabitazione “sotto lo stesso tetto”, ma anche la ripresa della c.d. “affectio maritalis”, per la cui prova non basta tuttavia il certificato storico di residenza dell’attore prodotto dalla parte convenuta, dato il valore presuntivo di tali risultanze.
Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2001, n. 3744 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Perché si abbia riconciliazione, con conseguente cessazione degli effetti della separazione, occorre il ripristino del consorzio fami¬liare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi cessata appunto con la separazione. Il relativo accertamento, implicando un’indagine di fatto, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito e non è, quindi, censurabile in cassazione in mancanza di vizi logici o giuridici.
Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2000, n. 2217 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinchè lo stato di separazione possa ritenersi interrotto a causa di riconciliazione, occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi cessata appunto con la separazione, consistendo la riconciliazione nella volontà di questi ultimi di ricostituire in pieno non solo la loro convivenza materiale, ma anche quell’unione spirituale che è alla base della convivenza medesima.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2000, n. 1227 (Giur. It., 2000, 2035 nota di DE CANDIA)
Affinché lo stato di separazione tra i coniugi possa ritenersi per effetto della riconciliazione, con conseguenze preclusive della successiva domanda di divorzio, non è sufficiente un semplice e transitorio riavvicinamento tra i coniugi, anche con la eventuale ripresa della convivenza e dei rapporti sessuali, essendo necessaria a tal fine la ricostituzione del nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali, con il fine di ridare vita al vincolo coniugale. (Nella specie non può ritenersi che abbia dato luogo ad una stabile ricostituzione di duraturi rapporti familiari la convivenza protrattasi per soli dieci giorni in occasione dello stato di detenzione domiciliare del marito).
Trib. Napoli, 21 dicembre 1998 (Nuova Giur. Civ., 2000, I, 359 nota di SASSOLI)
La riconciliazione avvenuta tra i coniugi già consensualmente separati comporta “ex se”, automaticamente, il ripristino dell’ante¬cedente regime di comunione legale, solo quanto ai rapporti tra i coniugi, ma tale efficacia immediata della riconciliazione non si estende ai terzi, atteso che occorre tutelare l’affidamento e la buona fede di questi ultimi. Infatti ai fini dell’opponibilità ai terzi occorre (come anche per lo stesso provvedimento di separazione) l’annotazione dell’avvenuta riconciliazione a margine dell’atto di matrimonio o la stipulazione di una convenzione matrimoniale debitamente annotata e trascritta (alla stregua di tale principio, nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di annullamento dell’atto di vendita a terzi di un immobile che era stato acquistato dal marito successivamente alla separazione consensuale).
La riconciliazione dei coniugi di per sé non determina l’automatico ripristino del previgente regime di comunione legale poiché, se così fosse, il sistema pubblicistico relativo al regime patrimoniale dei coniugi, stabilito proprio al fine di predisporre un’adeguata e necessaria tutela dei terzi, verrebbe di fatto ad essere inficiato.
Cass. civ. Sez. I, 12 novembre 1998, n. 11418 (Famiglia e Diritto, 1999, 185, 252 nota di DE MICHEL)
Posto che, ai sensi dell’art. 191 c.c., la separazione personale dei coniugi costituisce causa di scioglimento della comunione dei beni, una volta rimossa con la riconciliazione tale causa si ripristina automaticamente tra le parti il regime di comunione origina¬riamente adottato, con esclusione di quegli acquisti effettuati durante il periodo della separazione.
La riconciliazione, intervenuta tra coniugi separati, fa cessare con effetto “ex nunc” tutti gli effetti della separazione, sia personali che patrimoniali, con il conseguente ripristino del regime della comunione dei beni esistente in origine tra i coniugi, venuto meno in seguito al provvedimento di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 1998, n. 6031 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 317 nota di CARBONE)
La dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3 l. n. 898 del 1970 (oggi dagli art. 1 e 7 l. n. 74 del 1987), ma presuppone, in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza (dell’essenziale condizione) della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio familiare per effetto della definitività della rottura dell’unione spi¬rituale e materiale tra i coniugi (accertamento di ampiezza ed approfondimento diversi, secondo le circostanze emergenti dagli atti e le deduzioni svolte in concerto dalle parti). L’asserito venir meno dello stato di separazione, opposto da uno dei coniugi in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall’altro coniuge, ha, pertanto, come suo indefettibile presupposto, l’avvenuta riconciliazione (ossia la ricostituzione del nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali), e va accertato at¬tribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi – valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ricostruzione del rapporto matrimoniale – piuttosto che con riferimento al mero elemento psicologico, tanto più difficile da provare in quanto appartenente alla sfera intima dei sentimenti e della spi¬ritualità soggettiva.
Trib. Bologna, 28 gennaio 1998 (Dir. Famiglia, 1998, 1047 nota di CONTE)
Ritenuto che l’eventuale carattere simulatorio del verbale di separazione consensuale omologata non può, ex art. 1415 c.c., essere opposto ai terzi, e ritenuto altresì che l’eventuale rinconciliazione dei coniugi ritualmente separati può spiegare effetti soltanto interni alla coppia, non potendo rilevare al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di buona fede, nè l’asserita simulazione della separazione, né l’asserita riconciliazione dei “partners” dopo l’omologa possono essere opposte agli acquirenti di un bene immobile dalle mani di un coniuge legittimato a disporne per avere acquistato il bene dopo l’omologa della separazione, che aveva sciolto il precedente regime di comunione legale.
Trib. Palermo, 29 marzo 1997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ritenuto che l’avvenuta riconciliazione dei coniugi ritualmente separati spiega effetti soltanto interni alla coppia e non può operare esternamente al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di buona fede, l’asserita riconciliazione dei coniugi in regime di separazione omologata non può essere opposta agli acquirenti di un bene immobile dalle mani del coniuge che si è dichiarato legittimato a disporne, dopo che l’avvenuta separazione aveva sciolto il precedente regime di comunione legale.
App. Trento, 2 settembre 1996 (Famiglia e Diritto, 1996, 6, 549 nota di FIGONE)
La riconciliazione, intervenuta fra coniugi separati, fa cessare con effetto “ex nunc” tutti gli effetti della separazione, sia personali che patrimoniali, con l’effetto anche di ripristinare il regime della comunione dei beni esistente in origine tra i coniugi, venuto meno in seguito al provvedimento di separazione.
Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1992, n. 7442 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, non costituisce circostanza idonea a far ritenere cessati gli effetti della separazione tra i coniugi ex art. 157 c.c., e, conseguentemente, sufficiente a far venire meno l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento fissato a favore della coniuge nel corso del procedimento di separazione, il fatto che si siano verificate delle mani¬festazioni di buona volontà da parte del marito con doni, elargizioni di denaro ed esecuzione di opere nella casa coniugale. Infatti, affinché lo stato di separazione tra i coniugi possa ritenersi interrotto a causa di riconciliazione , è necessaria la ricostituzione del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi, cessata con la pronuncia di separazione, per cui non sono sufficienti a tale fine la ripresa della convivenza anche per periodi di tempo considerevoli e quella degli stessi rapporti sessuali, trattandosi di fatti inidonei a privare di valore lo stato di perdurante separazione. In altri termini la riconciliazione consiste nella volontà di entrambi i coniugi di ripristinare in pieno non solo la loro convivenza materiale, ma anche quell’unione spirituale che è alla base medesima della convivenza materiale, in modo che si debba considerare perdonata e posta nell’oblio ogni eventuale colpa attribuita reciprocamente dall’uno all’altro coniuge.
Trib. Napoli, 19 marzo 1991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Perché si abbia riconciliazione per fatti concludenti, che ai sensi dell’art. 157 c.c. faccia cessare gli effetti della sentenza di sepa¬razione, è necessario che vi sia il ripristino del consorzio familiare nei suoi rapporti materiali e spirituali (nella specie, il tribunale ha ravvisato tali rapporti, tipici della convivenza coniugale, nella coabitazione della stessa casa, con l’uso dei servizi che essa offre nella sua quotidianeità; nella pratica dei rapporti sessuali; nei ricevimenti di amici comuni nella propria abitazione; nelle visite agli amici comuni; nel soggiorno in località di vacanza; nei fine settimana; nelle preoccupazioni e nelle attenzioni per la salute dell’altro coniuge).
Posto che l’avvenuta riconciliazione fra i coniugi ed il conseguente ripristino del consorzio familiare annullano gli effetti propri della separazione, compreso quello previsto dall’art. 232, 2° comma, c.c., ne consegue che riprende ad operare la presunzione di concepimento in costanza di matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 1991, n. 26 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussistono i presupposti della separazione con addebito a carico della moglie che, dopo la riconciliazione seguita a separazione consensuale, venga sorpresa in compagnia dell’uomo che era stato la causa dei precedenti contrasti tra i coniugi, con il quale aveva convissuto durante il periodo di separazione consensuale e con il quale riprenda poi a convivere dopo la proposizione del ricorso introduttivo del giudizio di separazione giudiziale.
Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 1990, n. 11523 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione fra i coniugi – intesa quale situazione di completo ed effettivo ripristino della convivenza, mediante ripresa dei rapporti materiali e spirituali che, caratterizzando il vincolo del matrimonio ed essendo alla base del consorzio familiare, appaiono oggettivamente idonei a dimostrare una seria e comune volontà di conservazione del rapporto, a prescindere da irrilevanti riser¬ve mentali – è fonte non soltanto di effetti processuali, preclusivi del giudizio di separazione in corso, ma altresì di effetti sostan-ziali, consistenti nel determinare l’inidoneità dei fatti ad essa anteriori – posti in essere durante la convivenza o la separazione di fatto – ad assumere autonomo valore giustificativo di una pronuncia di separazione personale, emessa su domanda successiva all’evento riconciliativo rimasto privo di esito definitivo, con la conseguenza che, ai fini di tale pronuncia e della valutazione dell’addebito, sono utilizzabili soltanto i fatti successivi all’evento medesimo, mentre quelli anteriori possono essere considerati al solo scopo di lumeggiare il contesto storico nel quale va operato l’apprezzamento in ordine all’intollerabilità della convivenza.
I fatti anteriori alla riconciliazione, intesa come completo ed effettivo ripristino della convivenza mediante ripresa dei rapporti materiali e spirituali, avvenuti prima della proposizione della domanda di separazione nel periodo di convivenza o di separazione di fatto, pur non potendo da soli valere a giustificare la domanda di separazione, possono valere a lumeggiare il contesto storico nel quale valutare la intollerabilità della convivenza.
Corte cost. 20 luglio 1990, n. 357(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente inammissibile – in riferimento agli art. 2, 3, 29, 30 e 31 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede come causa di estinzione del reato di maltrattamenti in famiglia la seria riconciliazione dei coniugi ed il normale svolgimento della vita coniugale, giudizialmente accertati; e ciò in quanto spetta esclusivamente al legislatore stabilire se esistano fatti successivi al reato in grado di estinguere il carattere criminale delle vio¬lazioni commesse e le relative conseguenze sanzionatorie.
Una volta riconosciuta e confermata l’attuale validità della rilevanza penale di fatti che violano i principi su cui si fonda l’unità della famiglia e l’etica della coesistenza pacifica dei suoi membri (anche nell’interesse dei figli minori), non può spettare che allo stesso legislatore stabilire se esistano fatti successivi in grado di estinguere, sotto condizioni che ancora una volta solo il legisla¬tore può disciplinare, il carattere criminale di quelle violazioni e le relative conseguenze sanzionatorie. (Manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 cod. pen. sollevata in riferimento agli artt. 2,3, 29, 30 e 31 Cost.).
C. Conti Sez. III Pens. civ., 13 gennaio 1987, n. 59770 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sola ripresa della coabitazione non costituisce indice sicuro ed univoco dell’avvenuta riconciliazione fra i coniugi, idonea a superare l’impedimento per la corresponsione del trattamento di riversibilità a favore della vedova separata per sua colpa.
Cass. civ. 23 gennaio 1984, n. 541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di riconciliazione dei coniugi, già autorizzati a vivere separati, riprende ad operare la presunzione di concepimento in costanza di matrimonio, di cui all’art. 232 c. c., onde il figlio nato dopo la riconciliazione, avvenuta prima del decorso di trecento giorni da quella autorizzazione, si reputa legittimo, salva l’azione di disconoscimento ex art. 235, n. 1 c. c.
Cass. civ., 17 novembre 1983, n. 6860 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché lo stato di separazione tra i coniugi di cui all’art. 3 l. 1 dicembre 1970, n. 898 possa ritenersi interrotto per effetto di riconciliazione e quindi non idoneo per la pronunzia di divorzio è necessaria la ricostituzione del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi, cessata con la pronunzia di separazione, onde non sono sufficienti a tal fine i saltuari ritorni del marito nel luogo di residenza della moglie nonché gli stessi rapporti sessuali avvenuti in tali occasioni, trattandosi di fatti inidonei a privare di valore lo stato perdurante di separazione.
Corte cost. 21 aprile 1983, n. 104 (Foro It., 1983, I, 2350 nota di RUNFOLA TESTINI)
Non è fondata, in riferimento agli art. 29 e 3 cost., la questione di legittimità costituzionale del novellato art. 154 c. c.
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale del novellato art. 154 c. c., nella parte in cui attribuisce rilevanza, nel giu¬dizio di separazione addebitabile, a fatti anteriori alla riconciliazione, in riferimento agli art. 3 e 29 cost.
La norma che (secondo l’interpretazione della Cassazione) attribuisce rilievo (sia pur limitato) ai fatti anteriori alla riconciliazione e al giudizio di separazione, nel senso che tali fatti confluiscono, insieme a quelli successivi alla riconciliazione , a formare il libero convincimento del Giudice, non viola la garanzia dell’unità familiare, in quanto ben potrebbe ritenersi che proprio una norma che viceversa prevedesse sempre l’irrilevanza dei fatti anteriori alla riconciliazione scoraggerebbe o ritarderebbe il rappacificamento dei coniugi; e comunque tale apprezzamento appartiene all’ambito delle valutazioni del legislatore. Né è violato il principio di eguaglianza rispetto al caso di riconciliazione seguita a una precedente pronuncia di separazione (art. 157 c.c.), in quanto la assoluta irrilevanza in quest’ultima ipotesi dei fatti anteriori alla riconciliazione è giustificata dal rilievo che nel giudizio conclu¬sosi con la precedente sentenza i pregressi rapporti fra i coniugi sono stati giudicati e, per così dire, assorbiti nella pronunzia di separazione e si comprende come soltanto i fatti e i comportamenti successivi possano motivare una nuova pronunzia di separa¬zione. (Non fondatezza, in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., della questione di legittimità` costituzionale dell’art. 154 cod. civ.).
Corte cost. 18 aprile 1983, n. 102 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente inammissibile, perché sollevata con ordinanza motivata mediante il semplice rinvio alla motivazione di altre ordinanze emesse dallo stesso giudice a quo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 570 c. p., nella parte in cui non esclude la punibilità del coniuge che sia venuto meno agli obblighi di assistenza familiare, nel caso di avvenuta riconciliazione con l’altro coniuge, in riferimento agli art. 2, 3, 29, 31 cost.
Cass. civ., 24 marzo 1983, n. 2058 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione dei coniugi implica, oltre al perdono delle colpe precedenti, anche il completo ripristino della convivenza coniu¬gale mediante la ripresa dei rapporti che caratterizzano il vincolo matrimoniale e che sono costituiti dalla comunione spirituale (intesa come animus di riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita e di adempire ai doveri coniugali) e dalla comunione materiale nella convivenza caratterizzata da una comune organizzazione domestica e, normalmente, da rapporti sessuali; pertanto, quando detti rapporti siano avvenuti sporadicamente senza essere accompagnati da altre manifestazioni di affetto, essi non possono da soli valere come riconciliazione non essendo sufficienti a dimostrare la ripresa della predetta comu¬nione materiale e spirituale, in rapporto con il corrispondente concetto di separazione personale dei coniugi.
Corte cost. 29 luglio 1982, n. 157 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale degli art. 570 1° comma c. p. (violazione degli obblighi di assistenza familiare) e 146 2° comma c. c. (allontanamento dalla residenza familiare); il pretore di Nardò, con ordinanze 27 aprile 1978 e 25 maggio 1978, ha denunciato, in riferimento agli art. 2, 3, 29 e 31 cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 570, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede, quale causa di non punibilità del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’avvenuta riconciliazione tra i coniugi; ed il pretore di Venafro, con ordinanza 29 gennaio 1979, investe, in riferimento agli art. 3 e 29 cost., il combinato disposto degli art. 570, 1° comma, c. p. e 146, 2° comma, c. c., nella parte in cui punisce la violazione, mediante abbandono del domicilio, degli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge, salvo il caso in cui l’allontanamento dalla residenza familiare segua alla presentazione di una delle domande di cui all’art. 146 c. c. (separazione, annullamento, scioglimento, cessazione degli effetti civili); successivamente alla pronuncia delle ordinanze in epigrafe, è entrata in vigore la l. 24 novembre 1981, n. 689 (modifiche al sistema penale), che, all’art. 90, ha reso procedibile soltanto a querela della persona offesa il reato previsto dall’art. 570, 1° comma, c. p., precedentemente perseguibile d’ufficio; conseguentemente, si rende necessario (v. ordinanza della corte n. 129 del 1982) che i giudici a quibus, cui gli atti vanno restituiti, riesaminino la rilevanza delle questioni proposte, tenendo conto di tale nuova normativa.
Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 1979, n. 1400 (Giur. It., 1981, I,1, 994 nota di RUNFOLA TESTINI)
Una sporadica ripresa dei rapporti sessuali tra coniugi separati di fatto, anche con conseguente nascita di un figlio, non può da sola avere valore di riconciliazione.

Il genitore che pretende di essere prevalente viola il diritto del figlio al paritario accesso ad entrambi

Tribunale di Salerno, 28 giugno 2017
I SEZIONE CIVILE
Il Collegio, riunito in Camera di Consiglio nelle persone dei magistrati:
Dottor Giorgio Jachia Presidente Est.
Dottor Guerino Iannicelli Giudice
Dottoressa Valentina Chiosi Giudice
DECRETO
In materia di provvedimenti relativi all’affidamento e al mantenimento del figlio nato
fuori dal matrimonio nel procedimento civile di Volontaria Giurisdizione vertente tra
le seguenti
PARTI
1) Padre
Rappr. E difeso da avv. E.B.
RICORRENTE
AVVERSO
2) Madre
Rappr. E difeso da avv. M.R.D.C
RESISTENTE
3) Pubblico Ministero in persona del Procuratore della Repubblica
PARTE NECESSARIA
ESAMINATI GLIATTI , I DOCUMENTI E LE
CONCLUSIONI
RICORRENTE
affidare il figlio minore ad entrambi i genitori, con esercizio disgiunto della
responsabilità genitoriale per le sole questioni di ordinaria amministrazione;
stabilire che il minore vivrà prevalentemente con la madre, con facoltà per il
padre di tenerlo ed averlo con sé, salvo diverso accordo tra in genitori,
secondo le seguenti modalità: (omissis)
stabilire che il padre corrisponderà alla madre per il mantenimento del figlio,
l’assegno perequativo di Euro 400,00 mensili ovvero la diversa somma
ritenuta di giustizia; detto importo sarà adeguato annualmente secondo
l’indice ISTAT;
stabilire che saranno divise al 50 % tra i genitori le spese straordinarie
(omissis).
RESISTENTE IN COMPARSA IL 12.04.17
IL CASO.it
disporre l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori con
residenza stabile e privilegiata presso la madre e con la turnazione prevista
nella parte motiva;
richiedere l’intervento dei Servizi Sociali onde accertare le precarie
condizioni dell’abitazione del padre in cui egli dovrà ospitare il minore;
prevedere, fintantochè persiste lo stato di malessere del bambino, che il padre,
nei giorni di sua spettanza, lo veda a Salerno prendendo in fitto un
appartamento o un bad and breakfast fino a quando il minore non sarà in
grado di recarsi a Castellabate;
disporre che il padre versi un assegno di mantenimento per il figlio non
inferiore ad euro 1000,00, oltre alla corresponsione del 70% delle spese
straordinarie concordate e documentate (scolastiche, ricreative, di studio e
medico-specialistiche non coperte dal SSN), da versarsi entro il giorno 5 di
ogni mese con rivalutazione annuale secondo gli indici Istat; detto assegno
sarà comprensivo del contributo per la locazione di un appartamento in cui la
ricorrente andrà a vivere con il figlio;
ordinare le indagini di Polizia Tributaria volte all’esatta quantificazione dei
redditi del ricorrente con estensione delle indagini ai beni immobili e ai conti
correnti riferiti e/o riferibili al padre anche se intestati a soggetti diversi e
movimentazioni delle carte di credito.
RESISTENTE IN UDIENZA IL 18.04.17
La parte resistente modifica le conclusioni chiedendo affido condiviso, uno o
due pomeriggi alla settimana possibilmente senza pernotto, con pernotto nei
w.e. alternati e nelle vacanze estive.
ESPONE LE
RAGIONI DELLADECISIONE
1 ILLEGITTIMO AFFIDO ESCLUSIVO DI FATTO
1.1 SITUAZIONE DI FATTO
In fatto va subito evidenziato che vi sono state due udienze (14.04 e 18.04) e che nel
corso della prima udienza è stato attribuito al padre il diritto di vedere da solo il figlio
il giorno 17.04.17
Va poi precisato che la madre, presente solo alla seconda udienza ha ammesso che il
padre non aveva mai visto il minore da solo prima del 17.04.17.
Tale comportamento concreta a giudizio del Tribunale un affido esclusivo di fatto.
In comparsa di costituzione al madre rivendica l’ineluttabilità di tale situazione per
via: – dell’età del minore; – della possibilità che il minore abbia conati di vomito in
caso di trasporto con autovetture verso il domicilio del padre distante circa 30 km da
quello della madre; – dell’indispensabilità della presenza materna ad ogni incontro del
padre con il minore in quanto il padre sarebbe intrinsecamente inidoneo a curare
anche temporaneamente il minore; – di una minore frequentazione paterna del minore
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già all’epoca della convivenza in quanto fuori tutto il giorno per lavoro; – infine
dell’insalubrità del domicilio paterno.
Nel corso della seconda udienza la madre compare in udienza e prende atto di avere
un reddito formato da 14 mensilità e non di 1500,00 ma di circa 2.000,00 avendo
sottratto un finanziamento personale di € 375,00 circa.
Ma non solo: precisa che il bambino non soffre di mal d’auto e che ella stesa ha
portato il minore la domenica dal proprio fratello che abita vicino al padre.
Soggiunge che la casa del padre non è in condizioni insalubri per quanto visto.
Prende atto che il bambino è stato bene con il padre per la prima volta il giorno
prima. Dice che il bambino oggi costa € 600,00 di baby sitter (circostanza nuova e
non documenta) ed € 400,00 circa di varie. Quel che preoccupa è quanto accaduto al
momento del passaggio del bambino al ritorno a causa di un incidente (ammesso da
entrambe le parti) con la nonna materna davanti al bambino .
In diritto si deve introduttivamente precisare che l’art. 337 quater c.c. impone al
giudice di valutare il solo chiedere infondatamente l’affido esclusivo (Art. 337 quater
c.c. Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l’affidamento esclusivo
… Se la domanda risulta manifestamente infondata, il giudice può considerare il
comportamento del genitore istante ai fini della determinazione dei provvedimenti da
adottare nell’interesse dei figli, …) il che dimostra quanto sia illegittimo il realizzarlo
con comportamenti concludenti, anche e soprattutto nelle crisi genitoriali con infanti
così privati illegittimamente di uno dei genitori. Inaccettabile la pretesa materna di far
vedere al padre il bambino solo alla sua presenza fino all’ordine del Giudice Relatore
del 14.04.18 ed alla sua esecuzione del 17.04.17
Di qui la considerazione che ogni riscontrata ingiustificata realizzazione di affido
esclusivo di fatto debba essere immediatamente interrotta; di qui il corollario della
necessità in tutti questi casi di valutare se attribuire al genitore estromesso
specifici compiti di cura per equilibrare eventuali maggiori tempi comunque lasciati
al genitore estromettente ma solo e soltanto in funzione dell’interesse del minore.
2DELL’AFFIDO CONDIVISO
2.1 DIFFERENTI RICHIESTE DIAFFIDO CONDIVISO
Le parti chiedono entrambe di applicare l’affido condiviso ma con così differenti
modalità di estrinsecazione da rendere necessaria una riflessione attenta sull’istituto
al fine di rappresentare ai genitori quale sia il concreto interesse del minore ed
invitarle non solo ad applicare in concreto congiuntamente l’astratto schema
individuato nel dispositivo di questo provvedimento ma a valorizzare il principio
legislativo (dettato dal secondo comma dell’337 ter c.c.) della prevalenza (se non
contrari all’interesse dei figli) degli accordi intervenuti tra i genitori e quindi a
ripartirsi in futuro i compiti e i tempi (non in funzione di una schematica alternanza)
in funzione dell’interesse del minore ad un equilibrato ed armonico sviluppo della
personalità, che si sostanzia: nel mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con
ciascuno dei genitori; nel ricevere cure, educazione e istruzione da entrambi i
genitori; nel conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di
ciascun ramo genitoriale; nel vivere con ognuno dei genitori momenti di
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quotidianità (se necessario differenti) nelle forme (tempi e modalità) o concordate
tra le parti (genitori e con il progredire dell’età anche i figli) o determinate dal
giudice; nell’avere libero accesso ad entrambi i genitori.
In quest’ottica va rammentato che l’affido condiviso è disposto per attuare al
contempo il diritto di ogni genitore a mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30
cost.) ed il diritto della prole (art. 315 bis primo comma c.c.) a mantenere un rapporto
equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori nonché di ricevere cura,
educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti
significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Ciò non di meno (per le ragioni meglio di seguito evidenziate) l’affido condiviso è (in
applicazione stretta degli i artt. 337 bis e ter c.c.) inequivocabilmente funzionalizzato
alla realizzazione dell’interesse morale e materiale della prole e per questa ragione,
dopo e nonostante la crisi della coppia, i provvedimenti giudiziari mirano
(ovviamente ove possibile) alla conservazione (od al ripristino) del rapporto dei
minori con entrambi i genitori il che comporta l’attribuzione a ciascuno di essi di pari
opportunità quando abbiano capacità genitoriali omogenee e quando il minore abbia
in concreto l’interesse ad una frequentazione paritaria (cfr., Tribunale Roma,
sez. I, 20/01/2015 n. 1310; Corte appello Bologna, sez. I, 14/04/2016 n. 625) o,
viceversa, all’attribuzione a ciascuno di essi di compiti di cura e di tempi di
frequentazione differenti quando in concreto ciò corrisponda all’interesse del minore .
2.2 CURA E PROVVEDIMENTI FUNZIONALIZZATI
In quest’ottica i genitori devono comprendere che chiedere di attribuire all’altro il
20% del tempo mensile o di non attribuire all’altro nessun compito di cura comporta
il chiedere all’Autorità Giudiziaria di allontanare l’altro genitore dalla quotidianità
del bambino con effetti irrimediabili sulla relazione genitoriale e sulla crescita
psicologica del minore.
Non è certo, invece, impossibile conferire al genitore meno temporalmente presente il
potere di decidere il compito ordinario di scegliere con il minore quali siano gli sports
a lui più confacenti ed attribuire a tale genitore anche il dovere di accompagnarlo e di
comprargli gli indumenti all’uopo utili.
Soprattutto in tutti i casi, come questo, in cui emergano conflitti genitoriali gravi
l’attribuzione esclusiva al genitore meno temporalmente presente di singoli compiti
esclusivi di ordinaria cura modifica immediatamente gli equilibri all’interno della
coppia genitoriale e migliora la relazione di entrambi con il minore.
2.3 DIRITTI DEI MINORI
In generale, va preliminarmente rammentato, che il legislatore ha nei primi due
commi dell’art. 315 bis c.c. e nel primo comma dell’art. 337 bis c.c. scolpito il
passaggio da una visione adultocentrica ad una visione sensibile alla tutela ed agli
interessi dei minori ponendo in luce i diritti dei figli non a caso anteposti logicamente
all’art. 316 c.c. concernente la responsabilità genitoriale ed al secondo comma
dell’art. 337 bis c.c. concernente i provvedimenti giudiziari inerenti i minori.
IL CASO.it
Ai sensi dell’art. 315 bis primo comma c.c. il figlio ha diritto di essere mantenuto,
educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità,
delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
Ai sensi dell’art. 315 bis primo comma c.c. il figlio ha diritto di crescere in famiglia e
di mantenere rapporti significativi con i parenti.
Ai sensi del primo comma dell’art. 337 ter c.c. il figlio minore ha il diritto di
mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di
ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare
rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
In quest’ottica la definizione di responsabilità genitoriale collide con quella della
potestà genitoriale ove si leggeva il figlio è soggetto alla potestà paterna.
Infatti non si legge più alcuna soggezione del figlio ai genitori.
Oggi l’art. 316 c.c. dispone che entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale
che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni
naturali e delle aspirazioni del figlio.
Dispone inoltre sempre il primo comma dell’art. 316 c.c. che i genitori di comune
accordo stabiliscono la residenza abituale del minore.
Il terzo comma dell’art. 337 ter c.c. dispone che la responsabilità genitoriale è
esercitata da entrambi i genitori.
Sempre il terzo comma dell’art. 337 ter c.c. dispone poi che le decisioni di maggiore
interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della
residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle
capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.
Sempre il terzo comma dell’art. 337 ter c.c. dispone che in caso di disaccordo la
decisione è rimessa al giudice.
Sempre il terzo comma dell’art. 337 ter c.c. dispone che limitatamente alle decisioni
su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori
esercitino la responsabilità genitoriale separatamente
La chiave di volta del sistema è però il secondo comma dell’art. 337 ter che specifica
con una norma imperativa che il compito dell’Autorità Giudiziaria è realizzare la
finalità indicata dal primo comma dell’art. 337 ter, è concretizzare il diritto del
minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori,
di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di
conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale. Sempre tale norma architrave, sempre il secondo comma dell’art. 337 ter
c.c. dispone con norma inderogabile che il giudice adotta i provvedimenti relativi alla
prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale dei minori.
Non a caso tale norma imperativa ed inderogabile è posta prima delle norme che
descrivono il contenuto dei provvedimenti nei casi in cui entrambi i genitori siano
implicitamente confermati nell’esercizio pieno della responsabilità genitoriale: I)
modalità dell’affido congiunto, condiviso od esclusivo; II) determinazione dei tempi
e delle modalità della presenza dei minori presso ciascun genitore; III) fissazione
della misura e del modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento,
alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli; IV) determinazione in caso di
disaccordo della residenza abituale del minore.
IL CASO.it
Quindi (cfr Cassazione civile, sez. VI, I; 19/07/2016, ord. n. 14728) l’interesse del
minore ai sensi dell’art. 337 ter c.c. costituisce il parametro essenziale di riferimento
per l’adozione dei provvedimenti relativi alla prole: pertanto il giudice deve
salvaguardare il diritto del minore di mantenere un rapporto equilibrato e
continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e
assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti
e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
2.4 DEGLI EFFETTI DELLA DETERMINAZIONE GIUDIZIALE DELLA
RESPONSABILITÀ CONDIVISA
La precisazione generale sopra compiuta in ordine ai diritti dei minori trova la sua
ragione d’essere in questo provvedimento nella successiva esposizione di due
differenti problematiche: 1) l’individuazione del contenuto astratto della
responsabilità genitoriale; 2) l’individuazione del contenuto concreto della
responsabilità genitoriale con particolare riguardo alla ripartizione dei tempi e
dei compiti di cura tra i due genitori.
In astratto la responsabilità genitoriale condivisa si esplica con il mantenimento
diretto da parte di entrambi i genitori (compensato dall’erogazione eventuale di un
assegno perequativo) e con l’attribuzione ad entrambi i genitori di momenti (anche
differenti) di partecipazione alla quotidianità dei figli.
In concreto, caso per caso ed in funzione dell’età dei minori, il giudice, lasciando
comunque ai genitori la facoltà di assumere ulteriori accordi nell’interesse del minore
, determina il genitore co-residente ed i tempi di fissazione della misura e del modo
con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e
all’educazione dei figli; IV) determinazione in caso di disaccordo della residenza
abituale del minore.
2.5 DECISIONI DI ORDINARIAAMMINISTRAZIONE
Per chiarezza va rimarcato che i genitori possono esercitare la responsabilità
genitoriale separatamente per le decisioni di ordinaria amministrazione di regola
aventi carattere estemporaneo in relazione ai rispettivi tempi di permanenza del
minore presso di loro, nel rispetto di un indirizzo comune.
Per contro le decisioni di maggiore interesse, di regola aventi durevolezza nel tempo,
relative all’istruzione, all’educazione e alla salute vanno adottate di comune accordo.
In quest’ottica l’autorità giudiziaria può attribuire ad un genitore specifici compiti di
cura ordinaria in via esclusiva.
2.6 DEGLI EFFETTI DELLA DETERMINAZIONE GIUDIZIALE DELLA
RESIDENZA
Va ora precisato che l’istituto giuridico del genitore collocatario è di esclusiva origine
giurisprudenziale e che secondo parte della dottrina collide con la disciplina
sull’affidamento condiviso, è una scoria del vecchio impianto normativo e si
conforma al modello di affidamento esclusivo precedente alla riforma.
Si tratta, invece, di comprendere (a prescindere da dispute inerenti il nome degli
istituti) quali siano gli effetti reali della determinazione giudiziale della residenza
abituale del minore che non può certo comportare in tutti i casi e per tutte l’età dei
IL CASO.it
minori la creazione contra legem di un genitore prevalente attivamente coinvolto nei
compiti di cura, educazione e formazione della prole e di un genitore marginale o
ludico senza effettiva partecipazione alla quotidianità dei figli.
Si tratta di comprendere che la determinazione della residenza abituale non comporta
la designazione del genitore abituale perché la determinazione della residenza
abituale è del tutto autonoma rispetto alla determinazione dei tempi e delle modalità
della presenza dei minori presso ciascun genitore.
Anzi a seguito della determinazione dei tempi e della modalità della presenza dei
minori presso ciascun genitore il Tribunale fissa la residenza abituale del minore
presso uno di essi, fissa il domicilio del minore presso entrambi i coniugi in funzione
dei tempi della loro presenza presso i genitori e se del caso attribuisce la casa
familiare.
Quindi la decisione prioritaria resta quella da compiersi nell’interesse del minore
dell’individuazione dei tempi e della modalità della presenza dei minori presso
ciascun genitore cui seguono quelle dell’individuazione della residenza abituale dei
minori e dell’individuazione di un’eventuale assegno perequativo in favore di un
genitore.
Conferma di questa lettura si ha nelle decisioni merito (cfr., Tribunale Roma, sez. I,
20/01/2015 n. 1310; Corte appello Bologna, sez. I, 14/04/2016 n. 625) secondo le
quali i tempi di permanenza dei minori possono essere suddivisi in modo paritario tra
i due genitori e ciò non di meno può essere attribuita ad uno di essi la casa familiare e
così pure ciò non di meno può essere attribuito ad uno di essi un assegno perequativo
per il mantenimento del minore e sempre ciò non di meno può essere fissata la
residenza abituale del minore.
2.7 TESI DEL DIRITTO DELMINORE ALLA RESIDENZAABITUALE
Attenta dottrina osserva che è necessario che il minore abbia chiari punti di
riferimento, anche sotto il profilo abitativo; soggiunge che il principio stabilito
dall’art. 316 c.c., nella formulazione successiva al D. L vo 154/2013 (“I genitori di
comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore”) affermi il diritto del
minore di avere una residenza abituale e precisa che tale diritto deve valere anche per
i figli di genitori separati o divorziati.
In merito si tratta di prendere atto che, come già osservato nei precedenti paragrafi di
questo provvedimento, che la chiave di volta del sistema non è il diritto del minore
ad una residenza abituale ma è (come dispone il secondo comma dell’art. 337 ter c.c.
che specifica con una norma imperativa che il compito dell’Autorità Giudiziaria è
realizzare la finalità indicata dal primo comma dell’art. 337 ter c.c.) concretizzare il
diritto del minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno
dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e
di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale.
Sempre tale norma architrave, sempre il secondo comma dell’art. 337 ter c.c. dispone
con norma inderogabile che il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con
esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale dei minori.
IL CASO.it
Far coincidere l’interesse morale e materiale del minore sempre e comunque in una
residenza abituale appare francamente riduttivo e contraddetto dai casi già citati di
affido paritario
3MANTENIMENTO
3.1 MANTENIMENTO DIRETTO: FUNZIONE
Quanto al mantenimento, dal comma I dell’art. 337 ter c.c., che anticipa e si salda
con il successivo comma IV, discende che ciascun genitore deve assumere una parte
dei compiti di cura dei figli, restando obbligato a sacrificare parte del proprio tempo
per provvedere direttamente ai loro bisogni, comprensivi della parte economica.
Ciò vuol dire in concreto che la forma privilegiata dal legislatore è quella diretta non
potendosi ritenere completamente assolti i doveri di un genitore dalla fornitura di
denaro all’altro (forma indiretta) mediante un assegno.
Si tratta in concreto, caso per caso, vicenda per vicenda, di individuare quanto il
mantenimento indiretto sia residuale e quindi di individuarne l’entità in funzione
perequativa.
2.1 ATTRIBUZIONE DI COMPITI DI SPESA
In dottrina si propone di ripartire le spese prevedibili tra i due genitori attribuendo al
genitore più abbiente i capitoli di spesa più onerosi anche se inevitabilmente ciò
renderebbe più evidenti per il minore le differenti possibilità esistenti tra i due
genitori.
Alla luce di queste due differenti e contrapposte considerazioni sembra opportuno
attribuire compiti di spesa in uno all’attribuzione di compiti di cura in funzione
integrativa del ruolo genitoriale.
Quindi ad esempio nel caso in cui la figlia trascorra un maggior tempo con il padre
potrebbe essere opportuno attribuire alla madre il compito ordinario esclusivo della
cura della persona in senso stretto e quindi attribuire alla madre (con risorse proprie
e/o con risorse indirette) le spese del parrucchiere, dell’estetista e dell’abbigliamento.
All’opposto nel caso in cui il figlio maschio trascorra un maggior tempo con la madre
potrebbe essere opportuno attribuire al padre il compito ordinario esclusivo della
scelta con il minore dello sport a lui più confacente e quindi attribuire al padre (con
risorse proprie e/o con risorse indirette) le spese inerenti tale sport ed il relativo
abbigliamento.
Ancora nel caso in cui il padre risieda in città non limitrofa e quindi si debba disporre
la residenza abituale ed il domicilio del minore presso la madre occorre valorizzare il
minor tempo passato con il padre attribuendo a costui degli specifici compiti di cura
ordinaria ed in particolare non solo quello di decidere con il figlio gli sport che il
minore andrà a fare ma anche quello di acquistare – ovviamente coinvolgendo il figlio
dapprima solo nella scelta e poi con il crescere rappresentandogli il valore delle cose
e la loro proporzione con le concrete possibilità di vita – le scarpe, le tute, le felpe, i
maglioni ed i giubbotti sia per gli sport che per la vita quotidiana.
3.2 SPESE STRAORDINARIE
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In quest’ottica, prima di individuare l’assegno perequativo, vanno individuate le
spese straordinarie e va individuata la percentuale di ripartizione tra i due genitori.
Va precisato che le spese non espressamente qualificate come straordinarie rientrano
nell’assegno di mantenimento.
All’uopo (cfr., Cass. Civ. N. 9372 del 08/06/2012) si deve osservare che in tema di
mantenimento della prole, devono intendersi spese “straordinarie” quelle che, per la
loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario
regime di vita dei figli,.
Infatti la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico
di uno dei genitori, si rivelerebbe in contrasto con il principio di proporzionalità
sancito dall’art.155 cod. civ. e con quello
dell’adeguatezza del mantenimento, nonchè recherebbe grave nocumento alla prole,
che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo
genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri
indispensabili apporti.
Di regola dovrebbe valere il criterio che le spese straordinarie siano subordinate al
consenso di entrambi i genitori.
Di regola, salva diversa istanza dei genitori, le spese straordinarie sono quelle
mediche e quelle scolastiche.
In caso di richiesta delle parti possono essere considerate spese straordinarie
parascolastiche e quelle sportive.
3.3 INDIVIDUAZIONE DELLE SPESE STRAORDINARIE
In questo caso vi è richiesta di individuazione delle spese straordinarie che in questi
termini viene accolta:
In particolare vanno previamente concordate le seguenti spese scolastiche: iscrizioni
e rette a scuole pubbliche e private; iscrizioni e rette ad università pubbliche e private
ed eventuali spese alloggiative ove fuori sede, ripetizioni, viaggi di istruzione
organizzati dalla scuola superiori ad un giorno, prescuola, doposcuola.
In particolare se indicate come spese straordinarie vanno previamente concordate le
seguenti spese parascolastiche e sportive: corsi di lingua o attività artistiche, corsi di
informatica, centri estivi, viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente
senza i genitori, spese di acquisto e manutenzione straordinaria mezzi di trasporto
(motorini, moto e minicar), spese sportive, attività sportiva comprensiva
dell’attrezzatura e di quanto necessario per il relativo svolgimento.
In particolare vanno previamente concordate le seguenti spese medico- sanitarie:
spese per interventi chirurgici, spese odontoiatriche, oculistiche e sanitarie non
effettuate tramite SSN, spese mediche di degenza per interventi presso strutture
pubbliche o private convenzionate, esami diagnostici, analisi cliniche, visite
specialistiche, ciclo di psicoterapia e logopedia.
In particolare non vanno previamente concordate le spese straordinarie obbligatorie
quali: tasse scolastiche, libri scolastici, spese sanitarie urgenti, acquisto di farmaci
prescritti ad eccezione di quelli da banco che verranno comprati da ciascun genitore
all’occorrenza, spese per interventi chirurgici indifferibili, sia presso strutture
pubbliche che private, spese ortodontiche, oculistiche e sanitarie effettuate tramite il
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SSN in difetto di accordo sulla terapia con specialista privato, spese di bollo e
assicurazione per eventuali mezzi di trasporto utilizzati direttamente dai figli.
3.4 ASSEGNO PEREQUATIVO
Senza qui riprendere l’ampissima tematica dell’assegno di mantenimento va subito
respinta la tesi di quei genitori secondo i quali il giudice dovrebbe individuare sempre
e comunque tutti i cespiti, tutti i redditi dell’altro genitore anche quando costui è
disponibile a conferire la quota di sua spettanza del mantenimento del minore da
determinare certamente con riferimento al tenore di vita che aveva il minore con i
genitori e, in prospettiva, che avrebbe avuto se non avessero deciso di dividersi.
Quindi qualora sia agevole il determinare il costo del minore in quella fascia di
reddito e sia agevole accertare il reddito dichiarato di entrambi i genitori e tali
elementi siano sufficienti per individuare una equa ripartizione si deve respingere la
richiesta istruttoria di accertare se l’altro genitore abbia ulteriori redditi e/o di
individuare tutti i cespiti di sua pertinenza.
Per contro sarà obbligatorio disporre, ogni qualvolta le informazioni di carattere
economico fornite dai genitori non risultino verosimili e/o sufficientemente
documentate, un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni dichiarati,
allargando se del caso l’indagine ai beni intestati fittiziamente a soggetti terzi.
In quest’ottica non va dimenticato che l’assegno di mantenimento per la prole ha la
funzione di contribuire ad una gestione ordinata della crescita del figlio e va
determinato considerando:
1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con
entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da
ciascun genitore.
4SPECIFICHE EVENIENZE
4.1 FIGLIO DI 4 ANNI NATO FUORI DELMATRIMONIO
Come già osservato nel primo paragrafo si tratta i di un bambino piccolo, nato il
13.09.2013, il quale che conosce entrambi i genitori e che è stato riconosciuto alla
nascita da entrambi i genitori.
La madre afferma ma non prova che il padre abbia uno stile di vita non consono a
prendersi cura di un bambino così piccolo e non allega specifiche evenienze tali da
imporre una regolamentazione del diritto di visita così differente da quello dai casi
ordinariamente trattati.
Il punto centrale è il fatto che il padre rappresenta di non poter vedere il minore per
l’atteggiamento di chiusura materno con grave ed effettiva lesione della
bigenitorialità.
Tale affermazione paterna non è contraddetta dalla madre.
4.2 PIENA IDONEITÀ GENITORIALE
IL CASO.it
Quanto fin qui osservato in diritto va ora calato nello specifico caso nel quale con
ogni evidenza i documenti in atti comprovano che i genitori sono entrambi del tutto
idonei ad educare e curare la prole.
In particolare si deve osservare che le affermazioni rese dalla nonna materna nella
(allegata dalla madre) querela contro il padre del minore denota quanto sia micidiale
per il minore conflitto in atto ma non hanno, allo stato, alcuna valenza per intaccare la
piena idoneità genitoriale del padre.
In ordine alla credibilità della querela basti il fatto che si legge a pagina 3 che il
minore avrebbe descritto la casa del padre come non confortevole quando il minore
ha tre anni e mezzo circa.
Parimenti le affermazioni materne circa la contrarietà alla salute del minore dei brevi
trasferimenti verso il paese del padre non sono suffragate da specifiche attestazioni
mediche.
Parimenti la tesi che un bambino di anni quattro non possa passare con il padre un
fine settimana senza la costante e vigilante presenza della madre cozza con i dati
della pura esperienza di tutti in giorni e non è in questo caso suffragato da ulteriori
elementi specifici dai quali emerga la concreta inidoneità del padre.
Del resto si chiede da parte della madre affido condiviso e non si formulano istanze
ex art. 333 c.c. il che appare quanto meno contraddittorio con il chiedere così pesanti
limitazioni per il padre
Quindi ci si chiede perché ammettere prove finalizzate ad altre evenienze qui non
ricorrenti.
Le fotografie della casa del padre chiudono il cerchio circa la non necessità
dell’intervento, chiesto dalla madre, degli assistenti sociali per verificare lo stato dei
luoghi in cui il bambino andrà a vivere nei momenti in cui è con il padre.
4.3 COSTO DELMINORE
Va ora evidenziato che la madre chiede mille euro di mantenimento e ritiene che sia
un costo del minore anche l’affitto di una casa nella quale ella dovrebbe andare a
risiedere, il che in una coppia non coniugata che ha vissuto a casa della madre della
resistente non appare corrispondente al
tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
Certo è che nel determinare l’assegno di mantenimento del minore figlio di una
coppia di fatto non sia rilevante determinare il tenore di vita goduto dalla madre nel
periodo di convivenza ma solo quello del figlio: ciò non di meno è certo che tale
tenore di vita, per quel che rileva qui (tenore di vita dell’infante) è quello intervenuto
Quindi si devono valutare le attuali esigenze del figlio di anni tre la quali non
possono certo essere superiori , vivendo a casa della nonna materna, ad
€ 500 massimo comprensivo di quanto attribuito con i compiti di cura al padre; il
tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori che
non è allegato fosse elevatissimo.
In tale contesto si deve tenere conto dell’attribuzione al padre di minori tempi di
permanenza e dell’attribuzione al medesimo di specifici compiti di spesa, sempre più
significativi con il crescere dell’età del minore.
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Quindi tenuto conto delle attuali esigenze del minore, del modesto tenore di vita
goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, dell’attribuzione
al padre di specifici compiti di spesa, della presenza di redditi simili tra i due genitori,
l’assegno perequativo deve essere di molto ridotto rispetto alla pretesa materna.
4.4 ATTRIBUZIONE DI COMPITI DI CURA E DI SPESA
Quindi, con riferimento all’odierna vicenda, si deve prendere atto
gradatamente:
1.a) che è la prima volta che l’Autorità Giudiziaria esamina le vicende della
prole di questa coppia genitoriale, val a dire che non c sono
provvedimenti od accordi pregressi;
1.b) che vanno determinati giudizialmente i tempi ed i modi della presenza
della minore accanto ai due genitori non più conviventi e già domiciliati
in città differenti;
1.c) che è in atto un grave conflitto genitoriale nel cui contesto la madre ha
illegittimamente attuato un affido esclusivo di fatto estromettendo il
padre da ogni incontro con il minore e pretendendo di decidere ogni
forma e modalità inerente il minore;
1.d) che è in atto un grave conflitto della nonna materna con il padre giunta
a denunciare il genitore del proprio nipote ed a dare alla madre copia
della querela per allegarla alla comparsa di costituzione;
1.e) che si tratta di un bambino piccolo che però ha un effettivo rapporto
con il padre.
4.5 INOPPORTUNITÀ NEL CASO SPECIFICO DEL COLLOCATARIO
Nota è che la categoria giurisprudenziale del collocamento preferenziale presso uno
dei genitori sia una condizione eventuale del tutto distinta da quella obbligatoria
inerente la residenza abituale.
Conferma di questa lettura si ha nelle decisioni merito (cfr., Tribunale Roma, sez. I,
20/01/2015 n. 1310; Corte appello Bologna, sez. I, 14/04/2016 n. 625) secondo le
quali i tempi di permanenza dei minori possono essere suddivisi in modo paritario tra
i due genitori e ciò non di meno: a) può essere attribuita ad uno di essi la casa
familiare; b) può essere attribuito ad uno di essi un assegno perequativo per il
mantenimento indiretto del minore; c) può essere fissata la residenza abituale del
minore. In questo caso giudiziario il collocamento presso la madre determinerebbe il
permanere dell’attuale conflittualità tra i genitori e va quindi sostituito con la
ripartizione di tempi e compiti di cura descritta in dispositivo.
Certo, come meglio specificato, si tratta di individuare la residenza abituale del
minore e di attribuire i compiti di cura materna tenendo conto che in questo caso
giudiziario, a differenza di altri, è la madre ad essere stata il genitore più assiduo nella
cura della prole nel periodo in cui la coppia ha convissuto e che ella lo è ancora in
uno alla propria madre mentre lavora.
4.6 RIPARTIZIONE ORDINARI COMPITI DI CURA
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Poste queste due premesse, ribadito che in astratto il condividere esperienze
costituisce l’elemento essenziale della relazione genitore-figlio il presente caso
giudiziario va esaminato individuando in concreto l’interesse del singolo minore,
ripartendo i compiti di cura del minore per controbilanciare eventuali minori presenze
di un genitore, determinando in maniera significativa il tempo e le modalità della
presenza presso ciascun genitore in funzione delle pari opportunità di accesso del
minore ai genitori.
Attribuire il 20% del tempo mensile o non stabilire compiti di cura vuol dire
allontanare un genitore dalla quotidianità del bambino con effetti irrimediabili sulla
relazione genitoriale e sulla crescita psicologica del minore.
Soprattutto in tutti i casi in cui emergano conflitti genitoriali gravi l’attribuzione
esclusiva al genitore estromesso di singoli compiti di ordinaria cura modifica
immediatamente gli equilibri e migliora la relazione con il minore.
4.7 LE ISTANZE PATERNE
In sintesi il padre chiede di individuare la residenza anagrafica del figlio presso la
madre e di poter frequentare il figlio di quattro anni da solo come invece vuole la
madre
Il punto centrale è il fatto che il padre rappresenta di non poter vedere il minore per
l’atteggiamento di chiusura materno con grave ed effettiva lesione della
bigenitorialità.
4.8 LE ISTANZE MATERNE IN COMPARSA E LA LORO INFONDATEZZA.
Non è chi non veda che la madre riferisca che in questo momento è di fatto affidataria
esclusiva e chieda un affido condiviso nel quale i pochi tempi attribuiti al padre siano
comunque vissuti alla sua costante e vigilante presenza.
La tesi che il bambino sia malato e che quindi non possa recarsi dal padre non è
provata da alcuna attestazione medica.
La querela depositata dalla nonna materna non è un atto giudiziario ma un atto di
parte non idoneo a provare i fatti ivi rappresentati.
Tutto ciò non può essere un motivo per imporre l’allontanamento del padre Certo è
che la madre nel costituirsi non risponde alle precise indicazioni del padre circa il
fatto che egli non riesca a vedere il figlio quasi mai
4.9 LE ISTANZE MATERNE IN UDIENZA E LE INTERFERENZE DELLA
NONNA
Le rinunce in udienza, il giorno dopo che il padre aveva visto il bambino per la
prima volta da solo, la dicono lunga sulla strumentalità della tesi che il bambinon non
possa vedere il padre perché inidoneo, dimorante in un tugurio ed incurante delle
malattie del minore.
Il punto è che, quindi, si deve creare uno spazio effettivo per il rapporto tra il padre
ed il minore nonostante le interferenze della nonna materna giunte a rompere il
dialogo tra i genitori al sera del
17.04.17. Da qui la decisione di far prendere il minore direttamente all’asilo.
4.10 AFFIDO EFFETTIVAMENTE CONDIVISO
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Certo nel presente caso si deve disporre la residenza abituale ed il domicilio
prevalente del minore presso la madre atteso che il padre risiede in località non
limitrofa ed atteso che nel periodo in cui i genitori hanno vissuto insieme la madre si
è presa cura del minore maggiormente.
Tuttavia ciò non deve essere ostativo ad una ripartizione di tempi e di cure finalizzato
a far condividere per davvero momenti di crescita con il padre e la famiglia paterna.
Quindi si deve valorizzare il minor tempo passato con il padre attribuendo a costui
degli specifici compiti di cura ordinaria ed in particolare quello di decidere con il
figlio gli sport che il minore andrà a fare.
Inoltre, sempre per valorizzare il tempo che il padre andrà a trascorrere con il minore,
va attribuito al padre il compito di acquistare – ovviamente coinvolgendo il figlio
maschio nella scelta (e con il crescere insegnandogli il valore delle cose e la
proporzione con le concrete possibilità di vita) – le scarpe, le tute, le felpe, i maglioni
ed i giubbotti sia per gli sport che per la vita quotidiana.
4.11 ASSEGNO PEREQUATIVO
Va infine respinta la tesi della madre secondo la quale il figlio abbia diritto ad un
mantenimento per un importo superiore al suo effettivo costo.
Infatti con ogni evidenza il padre è disponibile a conferire la quota del mantenimento
che l’Autorità Giudiziaria andrà ad attribuirgli.
All’uopo la madre ha un reddito di € 2.000 circa esattamente come il padre di atteso
che costui subisce una trattenuta di € 1.000,00 di asegni di mantenimento per
pregresse vicende coniugali.
Il costo mensile di un minore di anni quattro/cinque non può certamente superare
l’importo di € 400,00 mensili sicchè appare equo attribuire al padre un assegno
perequativo di € 250,00 oltre l’acquisto diretto delle scarpe, delle tute, delle felpe, dei
maglioni e dei giubbotti sia per gli sports che progressivamente il bambino crescendo
andrà a compiere che per la vita quotidiana
4.12 GRADUALITÀ
I pernottamenti, tenuto conto della piena idoneità paterna, presso il padre andranno
introdotti progressivamente passando la prima settimana da uno a due per giungere in
un mese (salvo incidenti) al numero indicato nel dispositivo.
Certo è che in presenza di così gravi interferenze della nonna si rende opportuno
il prelievo del minore direttamene asilo, ove possibile e/o il riaccompagnamento
direttamente all’asilo.
DISPOSITIVO
Il Tribunale, I Sezione Civile, in composizione collegiale
P.Q.M.
5 Rigetta tutte le richieste istruttorie;
6 affida la prole minorenne ad entrambi i genitori;
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7 autorizza i genitori insieme a chiedere il rilascio del passaporto e della carta
di identità valida per l’espatrio per la prole;
8 dispone che le decisioni di maggiore interesse (di regola aventi durevolezza
nel tempo) relative all’istruzione, all’educazione e alla salute siano adottate
di comune accordo;
9 dispone che ognuno dei genitori riferisca all’altro le questioni significative
relative al figlio;
10 rappresenta ai genitori che la prole minorenne ha il diritto:
• di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei
genitori e di ricevere cure, educazione e istruzione da entrambi i
genitori;
• di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di
ciascun ramo genitoriale;
• di vivere con ognuno dei genitori momenti di quotidianità (se necessario
differenti) nelle forme (tempi e modalità) o concordate tra le parti
(genitori e con il progredire dell’età anche i figli) o determinate dal
giudice;
• di avere libero accesso ad entrambi i genitori;
11 invita i genitori a valorizzare il principio legislativo della prevalenza (se non
contrari all’interesse dei figli) degli accordi intervenuti tra i genitori e quindi
a ripartirsi in futuro i compiti e i tempi (non in funzione di una schematica
alternanza ma) in funzione dell’interesse del minore ad un equilibrato ed
armonico sviluppo della personalità;
12 dispone che la ripartizione di seguito specificata possa essere integrata e
modificata da successivi accordi tra i genitori tenendo conto dell’età, degli
interessi e degli impegni della prole;
13 attribuisce alla madre tutti i giorni feriali salvo quanto di seguito precisato;
14 determina la residenza anagrafica presso la madre;
15 dispone che ciascun genitore contribuisca al mantenimento della prole in
forma diretta per il periodo di permanenza del minore presso di sé;
16 dispone che i genitori esercitino, nel rispetto di un indirizzo comune,
separatamente, nei tempi di rispettiva convivenza, la responsabilità
genitoriale per le questioni di ordinaria amministrazione (di regola aventi
carattere estemporaneo);
17 attribuisce al padre un pomeriggio (tendenzialmente il mercoledì) dall’uscita
dall’asilo alla sera con eventuale pernottamento presso il padre soprattutto in
estate o quando si renda opportuno (per evitare due viaggi lo stesso
pomeriggio) che il padre riporti il
18 minore direttamente all’asilo la mattina dopo (4 pomeriggi/ser ogni 28);
19 attribuisce alla madre il w.e. dal 21 aprile 2017 ed i successivi ogni 15 giorni;
20 attribuisce al padre il w.e. dal 28 aprile 2017 ed i successivi ogni 15 giorni
specificando che essendo residente in località non limitrofa egli ha il compito
di incontrare la prole minorenne dal venerdì pomeriggio all’uscita dell’asilo
al lunedì mattina all’entrata all’asilo perché il minore non va ancora a scuola
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e quindi può perdere se del caso due sabati di asilo al mese al fine di
condividere momenti di effettiva crescita con il padre e la famiglia paterna (6
giorni ogni 28);
21 attribuisce alla madre la festa del 25 aprile 2017 (ed i successivi anni in via
alternata al padre) dalla sera prima alla mattina successiva;
22 attribuisce al padre la festa del 1 maggio 2017 (ed i successivi anni in via
alternata al madre) dalla sera prima alla mattina successiva all’entrata
all’asilo;
23 attribuisce le altre festività infrasettimanali alternandosi di anno in anno i
genitori a partire dal genitore non co-residente;
24 attribuisce ad ogni genitore il giorno del proprio compleanno e il giorno della
festa del papà e della mamma anche se dovessero capitare in giorni di
competenza dell’altro genitore e e senza modificare la pregressa alternanza;
25 dispone che se possibile il giorno del compleanno del minore sia trascorso
con entrambi i genitori;
26 dispone che salvo differenti accordi le vacanze natalizie siano ripartite in due
turni , dal 23.12 al 30.12 o dal 31.12. al 06.01, alternandosi di anno in anno
ed iniziando con il genitore non co- residente per il primo periodo nell’anno
in corso;
27 attribuisce per l’anno 2017 al padre dalla fine dell’anno dell’asilo all’inizio
dell’anno dell’asilo 4 giorni di fila in giugno da concordare tra le parti ; 5 in
luglio; 7 in agosto e 4 in settembre;
28 attribuisce dall’anno 2018 al padre dalla fine dell’anno dell’asilo all’inizio
dell’anno della scuola 5 giorni di fila in giugno da concordare tra le parti ; 5
in luglio; 15 in agosto e 5 in settembre;
29 attribuisce al padre, il quale vede meno il figlio, il compito di cura ordinaria
di decidere con il figlio gli sport che il minore andrà a fare;
30 attribuisce al padre l’acquisto diretto delle scarpe, delle tute, delle felpe, dei
maglioni e dei giubbotti sia per gli sport che per la vita quotidiana.
31 dispone inoltre che il padre versi quindi alla madre €250,00 a titolo di
assegno perequativo per mantenimento indiretto;
32 dispone inoltre che le spese straordinarie mediche (non coperte dal SSN) e
scolastiche documentate siano suddivise tra i coniugi al 50% avendo redditi
quasi equivalenti;
33 dispone che di regola le spese straordinarie siano concordate salva la prova
dell’indifferibilità o della loro automatica evenienza (es.: tasse per istituto
pubblico o privato se concordato, corredo scolastico di inizio anno, libri di
testo, iscrizioni a gite scolastiche);
34 precisa in particolare che sono spese “straordinarie” quelle che, per la loro
rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano
dall’ordinario regime di vita dei figli;
35 Dispone in particolare che vanno previamente concordate le seguenti spese
scolastiche: iscrizioni e rette a scuole pubbliche e private; iscrizioni e rette ad
università pubbliche e private ed eventuali spese alloggiative ove fuori sede,
ripetizioni, viaggi di istruzione organizzati dalla scuola superiori ad un
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giorno, prescuola, doposcuola; dispone anche che vanno considerate come
spese straordinarie da concordare le seguenti spese parascolastiche e
sportive: corsi di lingua o attività artistiche, corsi di informatica, centri estivi,
viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente senza i genitori, spese
di acquisto e manutenzione straordinaria mezzi di trasporto (motorini, moto e
minicar), spese sportive, attività sportiva comprensiva dell’attrezzatura e di
quanto necessario per il relativo svolgimento; dispone ancora che vanno
previamente concordate le seguenti spese medico-sanitarie: spese per
interventi chirurgici, spese odontoiatriche, oculistiche e sanitarie non
effettuate tramite SSN, spese mediche di degenza per interventi presso
strutture pubbliche o private convenzionate, esami diagnostici, analisi
cliniche, visite specialistiche, ciclo di psicoterapia e logopedia;
36 Dispone in particolare che non vanno previamente concordate le spese
straordinarie obbligatorie quali: tasse scolastiche, libri scolastici, spese
sanitarie urgenti, acquisto di farmaci prescritti ad eccezione di quelli da
banco che verranno comprati da ciascun genitore all’occorrenza, spese per
interventi chirurgici indifferibili, sia presso strutture pubbliche che
private, spese
37 ortodontiche, oculistiche e sanitarie effettuate tramite il SSN in difetto di
accordo sulla terapia con specialista privato, spese di bollo e assicurazione
per eventuali mezzi di trasporto utilizzati direttamente dai figli.
38 dispone che l’importo degli assegni e dei rimborsi per spese straordinarie sia
corrisposto via bonifico o assegno circolare o
39 780 bancario o vaglia telematico entro i primi cinque giorni di ogni mese a
decorrere dalla data della domanda;
40 dispone che l’importo degli assegni sia adeguato automaticamente ed
annualmente agli indici Istat a decorrere dalla data della domanda;
41 nulla per le spese non essendovi soccombenza;
DECISA IN SALERNO IL 18/04/2017
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità egli altri dati
identificativi delle parti a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto
imposto dalla legge
Il Presidente Estensore
Giorgio Jachia

Può essere chiesta la revoca dell’assegno di divorzio in seguito al nuovo orientamento della prima sezione della Cassazione sul criterio di attribuzione dell’assegno divorzile?

Il punto di vista di Gianfranco Dosi

Sommario
1) Il valore delle decisioni della Corte di cassazione
2) L’applicazione del nuovo orientamento nei procedimenti in corso
3) Il problema dell’applicabilità del nuovo orientamento dopo il giudicato sull’assegno
a) La ratio della regola rebus sic stantibus
b) L’intangibilità del giudicato
c) Solo la legge può disporre l’applicazione ai rapporti definiti con il giudicato di una normativa nuova
d) Il mutamento repentino di giurisprudenza (overruling)
4) Il nuovo orientamento della giurisprudenza come “motivo giustificato” di revisione?

Va affrontato il problema se il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio ex art. 9 della legge 898/70, possa essere azionato sulla base della sopravvenienza di un orientamento nuovo della giurisprudenza di legittimità. Si può prendere spunto dalle sentenze con cui la prima sezione della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 e Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481) ha ribaltato l’orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza da quasi trent’anni (a seguito di Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490) – con l’avallo di Corte Cost. 11 febbraio 2015 n. 11 – secondo cui il diritto all’assegno divorzile trova fondamento e giustificazione nella circostanza che l’ex coniuge richiedente non ha “mezzi adeguati” (art. 5, comma 6, della legge sul divorzio) a mantenere tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale. La prima sezione della Cassazione con le sentenze sopra richiamate ha ritenuto che questo criterio attributivo e giustificativo del diritto all’assegno divorzile debba essere sostituito da altro criterio basato su diversa interpretazione dell’espressione “mezzi adeguati”. Sarebbero tali, secondo l’interpretazione proposta, quelli che possono garantire, a chi li possiede, una autosufficienza economica.
Ci si chiede se questo nuovo orientamento possa legittimare l’ex marito obbligato al pagamento dell’assegno divorzile, a richiedere, in caso di autosufficienza economica della moglie, una revoca dell’assegno a suo tempo eventualmente stabilito sulla base del precedente criterio attributivo.

1) Il valore delle decisioni della Corte di cassazione
L’attività interpretativa della giurisprudenza nei Paesi di civil law racchiude in sé ineliminabili momenti di creazione del diritto. Tuttavia l’art. 1 delle preleggi non indica tra le fonti del diritto le sentenze dei giudici.
Un conto è, però, il valore della sentenza nell’ordinamentale generale e un conto è il valore che le sentenze, specificamente quelle della Corte di cassazione, hanno in ambito giudiziario. In base a quanto dispone l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario (Attribuzioni della corte suprema di cassazione) “La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni…”. Il che comporta che le decisioni della Cassazione sono di fatto vincolanti per i giudici. L’art. 374 c.p.c.[1] (Pronuncia a sezioni unite) pone solo una deroga riferibile al rapporto tra una sezione della Corte e le Sezioni unite prescrivendo al quarto comma che “…Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Proprio per sottolineare il valore delle decisioni della Corte di cassazione l’art. 360-bis[2] c.p.c. dichiara che il ricorso per cassazione è inammissibile, tra l’altro, “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”.
L’interpretazione delle norme di diritto da parte della Corte di cassazione (nell’esercizio della sua essenziale funzione nomofilattica) determina quello che viene chiamato significativamente “diritto vivente” ed in questi limiti è certamente corretto affermare che le sentenze acquisiscono in senso lato una funzione di creazione delle regole di diritto.
Pertanto un nuovo orientamento interpretativo della Corte di cassazione in una determinata materia si traduce in una sopravvenienza in grado di imporsi nell’applicazione al caso concreto come nuova regola di diritto applicabile nei giudizi aventi ad oggetto quella materia.

2) L’applicazione del nuovo orientamento nei procedimenti in corso
Si è visto che nella legge sul divorzio il diritto di richiedere in corso di causa la modifica dei provvedimenti è previsto nell’art. 4, comma 8, seconda parte della legge 898/1970 dove si legge che “L’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177 del codice di procedura civile”. Naturalmente il giudice istruttore ha poi sempre il potere di modificare anche i provvedimenti da lui stesso emessi.
Le ragioni della modifica che viene richiesta non sono rilevanti. Qualsiasi ragione può essere proposta al giudice, ivi compresa quindi quella di adeguare l’assetto economico ad una legge sopravvenuta o ad un nuovo orientamento giurisprudenziale di legittimità. Le norme sopra richiamate non impongono alcuna restrizione. E d’altra parte lo stesso giudice, ove il nuovo orientamento provenisse da decisioni della Corte di cassazione, avrebbe il dovere di applicarne i principi.
Ciò premesso, non possono esserci dubbi sul fatto che il nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità trovi applicazione nei procedimenti in corso, anche d’ufficio, fatta salva l’esistenza dei presupposti e l’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’interessato che ne potrebbe essere impedito dalla eventuali preclusioni processuali già intervenute. In tal caso nulla impedirebbe anche d’ufficio al giudice di rimettere la causa sul ruolo per la formazione della prova in ordine ai nuovi presupposti attributivi dell’assegno. Nei procedimenti in corso (in primo grado e in fase di impugnazione), insomma, prima del formarsi del giudicato, è sempre proponibile una richiesta di modifica dei provvedimenti vigenti per adeguarli al nuovo orientamento.

3) Il problema dell’applicabilità del nuovo orientamento dopo il giudicato sull’assegno
Più problematica si presenta, invece, la situazione ove si intendesse fare applicazione del nuovo orientamento dopo il giudicato già formatosi sull’assegno divorzile.
Per quanto si dirà, benché la soluzione possa apparire ingiusta, non sembra sussista la possibilità di poter pretendere, attraverso un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio, l’applicazione del nuovo orientamento.
Le ragioni sono connesse sostanzialmente al tema dell’intangibilità del giudicato.

a) La ratio della regola rebus sic stantibus
Come si è avuto modo di osservare, la validità rebus sic stantibus di tutti i provvedimenti sui figli di natura economica nel diritto di famiglia è alla base stessa dei principi di modificabilità espressi nell’art. 9 della legge sul divorzio. Il principio costantemente affermato è che la sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, anche se la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 dal giudice e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618; Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033; Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077).
La giurisprudenza considera quali presupposti della domanda di modifica “fatti nuovi sopravvenuti”, modificativi della situazione in relazione alla quale il provvedimento era stato adottato o l’accordo su quelle statuizioni era stato stipulato (tra le tante Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149).
La ratio di questa vera e propria deroga all’intangibilità del giudicato, quindi, sta proprio nella necessità che nell’ambito del diritto di famiglia i provvedimenti possano essere costantemente adeguati alla situazione di fatto che li aveva giustificati. Al di là di questo non è, però, ipotizzabile una generale modificabilità dei provvedimenti.

b) L’intangibilità del giudicato
L’art. 2909 c.c. (Cosa giudicata) afferma il principio che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Da un punto di vista sostanziale il giudicato si riferisce all’accertamento contenuto nella sentenza che abbia acquisito l’autorità della cosa giudicata formale, in quanto non sia più soggetta a regolamento di competenza o ad alcuno dei mezzi ordinari di impugnazione (appello, ricorso per cassazione, revocazione per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5), previsti nell’art. 324 c.p.c. traducendosi in un preciso vincolo giuridico, in forza del quale quell’accertamento fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. La conseguenza di questa preclusione è l’immodificabilità della sentenza.
La formula secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile significa che il giudicato copre non soltanto le ragioni giuridiche fatte valere (giudicato esplicito) ma anche tutte le altre – proponibili sia in via di azione che di eccezione – le quali, sebbene non dedotte specificamente si caratterizzano per la comune inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente svolte (giudicato implicito).
Questi concetti sono stati affermati in generale (Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2017, n. 9954; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2016, n. 3488; Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16824; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 agosto 2012, n. 14535; Cons. Stato Sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2833; Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2011, n. 22520; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 giugno 2009, n. 15343; Cass. civ. Sez. lavoro, 3 agosto 2007, n. 17078; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2007, n. 14055; Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2004, n. 5925; Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5263; Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 1993, n. 8784) ma anche spesso in vicende relative proprio all’assegno di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1863; Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2005, n. 17320; Cass. civ. Sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1998, n. 1031) dove il principio costantemente affermato è che le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Anche l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale trova un limite nei rapporti esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato (art. 136 Cost. e art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87 secondo cui la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione). Come è stato ben ribadito recentemente (Cons. Stato Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 4396; Cons. Stato Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1458) la dichiarazione di illegittimità costituzionale determina la invalidità originaria della legge, sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costituzionale, sicché essa elimina la norma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione; fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità.

c) Solo la legge può disporre l’applicazione ai rapporti definiti con il giudicato di una normativa nuova
Quanto sopra detto, circa l’intangibilità del giudicato, trova una conferma anche nella legge 8 febbraio 2006 n. 54 sull’affidamento condiviso. L’art. 4 di tale legge (disposizioni finali) prevedeva che “Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge”.
Questa norma – che si riferisce ai casi in cui era passata in giudicato la sentenza (imprecisa formulazione: “già stata già emessa”) che aveva fatto applicazione dei precedenti criteri di affidamento – ha senso solo se si considera che altrimenti anche la stessa legge nuova non avrebbe potuto estendere i suoi effetti ai rapporti definiti con decisioni passate in giudicato (ancorché rebus sic stantibus).
Anche la giurisprudenza affermò che questa norma non autorizzava a ritenere immediatamente applicabili le disposizioni della nuova legge al passato, non rinvenendosi una deroga al principio generale, sancito dall’art. 11 delle preleggi, della irretroattività della legge, ma che le nuove disposizioni potevano trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’art. 710 cod. proc. civ. (Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256; Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24996).
Pertanto se non ci fosse stata la legge a prevederlo espressamente, la normativa sopravvenuta non avrebbe potuto essere posta a fondamento di un procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, ostandovi l’intangibilità giudicato.

d) Il mutamento repentino di giurisprudenza (overruling)
Si ritiene in ambito processualistico che i fatti giuridici (costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi), i quali non sarebbero stati nemmeno “deducibili” (o suscettibili di allegazione e di prova) in un processo, per essere ontologicamente sopravvenuti dopo il maturarsi dell’ultima preclusione utile, non sono “coperti” o “preclusi” da quel giudicato. Ciò premesso ci si può infine porre il problema se l’orientamento nuovo della giurisprudenza possa essere considerato un “fatto” nuovo rilevante ai fini dell’istanza di modifica.
La risposta decisamente negativa emerge dall’esame della giurisprudenza formatasi sul tema dell’overruling.
Il cosiddetto overruling giurisprudenziale ricorre quando si registra una svolta repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato che si risolve in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. Secondo la giurisprudenza tale situazione ricorre quando il cambio di orientamento ha ad oggetto una norma processuale, quando si tratta di un mutamento imprevedibile e quando esso determina un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa.
Nel caso del cambiamento relativo ai presupposti attributivi dell’assegno non siamo in presenza di un cambiamento relativo ad una regola processuale.
I principi richiamati sono stati elaborati in applicazione dei valori del giusto processo, e tendono ad escludere la validità di un nuovo e improvviso orientamento giurisprudenziale nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata precedente interpretazione della stessa regola.
Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2011, n. 15144 – che ha precisato e riassunto tutti questi principi – per effetto di essi il comportamento processuale che si era conformato al precedente diritto vivente, va valutato con riferimento alla giurisprudenza vigente al momento dell’atto stesso e non con riferimento a quella nuova. Trattasi di una “soluzione confortata dall’esigenza di non alterare il parallelismo tra legge retroattiva e interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza. Ciò che non è consentito alla legge non può similmente essere consentito alla giurisprudenza”.
La giurisprudenza si è adeguata a questi limiti di rilevanza del cambiamento repentino rispetto al precedente diritto vivente (T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 10 agosto 2016, n. 291 secondo cui il giudicato è insensibile ai mutamenti legislativi e giurisprudenziali sopravvenuti; Cass. civ. Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15530, Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016, n. 4826 e Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2015, n. 22008, Cass. civ. Sez. VI, 9 gennaio 2015, n. 174; Cass. civ. Sez. Unite, 16 giugno 2014, n. 13676 nelle quali tutte si precisa che in tema di overruling rileva il solo mutamento imprevedibile di un consolidato orientamento giurisprudenziale di una regola del processo, che comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte).
Applicazione nell’ambito del diritto di famiglia è stata fatta da Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 secondo cui alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, convenuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardivamente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, innovando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stretto), che riteneva il relativo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore. In seguito, però, con altra decisione (Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188) la rimessione in termini, sulla stessa questione, non è stata riconosciuta.
Da quanto precede deriva che al mutamento improvviso di giurisprudenza viene riconosciuta rilevanza solo se il mutamento riguarda una regola processuale prima consolidata in giurisprudenza e sempre che il mutamento si rivolge in danno (e non a vantaggio) della parte che aveva incolpevolmente confidato nel precedente indirizzo.
Sulla base di queste premesse non è possibile attribuire al mutamento di giurisprudenza in ordine ai presupposti attributivi dell’assegno divorzile la forza idonea a giustificare un’istanza di revisione delle condizioni di divorzio.

4) Il nuovo orientamento della giurisprudenza come “motivo giustificato” di revisione?
Come si è ampiamente detto, l’art. 9 della legge sul divorzio al primo comma prevede espressamente che la domanda di revisione possa essere presentata solo “qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza…”.
La giurisprudenza, come anche si è già detto, ha sempre interpretato i giustificati motivi che autorizzano la modifica delle condizioni della separazione come “fatti” nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale i provvedimenti erano stati adottati (Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 2015, n. 8839; Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149) e che in genere consistono in circostanze sopravvenute che riguardano il peggioramento o il miglioramento dei redditi o della condizione patrimoniale – anche rispetto a nuovi eventi della vita quali la nascita id un figlio, un nuovo matrimonio o altro – e per le quali il giudice deve verificare se, ed in quale misura, abbiano alterato l’equilibrio stabilito in precedenza (Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 e Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487 ; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595; Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041; Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687; Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367; Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720; Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125).
Questa impostazione è assolutamente in linea con la ratio della validità rebus sic stantibus delle sentenze o dei provvedimenti camerali di divorzio e con il limite generale di cui si è parlato dell’intangibilità del giudicato.
Al di fuori di questi limiti l’attribuzione ad eventi diversi della capacità di violare il giudicato potrebbe essere arbitraria.
Pertanto non sarebbe accettabile una ricostruzione delle cause giustificative della revisione delle condizioni di divorzio che volesse intrepretare l’espressione “giustificati motivi” (art. 9 della legge sul divorzio) oltre il significato che la giurisprudenza ha fin qui dato a questa espressione.
Astrattamente pertanto – e volendo seguire una interpretazione solamente letterale dell’espressione – si potrebbe anche sostenere che un nuovo e diverso orientamento della giurisprudenza potrebbe integrare quei “giustificati motivi” che consentono l’istanza di revisione. Così facendo, però (e dando alla parola “motivi” un senso generico e completamente diverso da quello ristretto di “fatti sopravvenuti”) si finisce per violare e incrinare quei limiti di intangibilità del giudicato che, come si è sopra detto, costituiscono il fondamento del processo civile.
Viceversa si deve ribadire che l’unica eccezione all’intangibilità del giudicato nell’ambito del diritto di famiglia è la regola rebus sic stantibus prevista e valida al solo fine di consentire l’adeguamento dei provvedimenti alle circostanze di fatto che modificano i presupposti in base ai quali quei provvedimenti erano stati adottati.

Rinuncia all’azione di disconoscimento

Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2017, n. 14879
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
B.M.R., S.S.L. elettivamente domiciliato in Roma, via Cicerone, n. 49, nello studio dell’avv. Marco Pastacaldi; rappresentati e difesi dall’avv. Chiara Ceroni, giusta procura speciale autenticata dal notaio S. di Firenze in data (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
S.A., elettivamente domiciliato in Roma, via Simon Boccanegra, n. 8, nello studio dell’avv. Melina Martelli, che lo rappresenta e difende unitamente all’avv. Stefano Raddi, giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
S.P.F., PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI FIRENZE;
– intimati –
avverso le sentenze della Corte di appello di Firenze n. 1650 (R.G. 1712/2008), depositata in data 25 novembre 2009 e n. 489 (R.G. 836/2011) depositata in data 25 novembre 2009;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16 novembre 2016 dal Consigliere relatore dott. Pietro Campanile;
sentito per i ricorrenti l’avv. Chiara Ceroni;
Viste le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1 – Con sentenza non definitiva depositata in data 7 agosto 2009 il Tribunale di Firenze rigettava l’eccezione di decadenza dall’azione di disconoscimento della paternità proposta dal sig. S.A. nei confronti dei figli S.P.E. e S.L., nati durante il matrimonio dell’attore con la sig.ra B.M.R..
2 – La Corte di appello di Firenze in data 15 dicembre 2009 rigettò l’appello immediato interposto dalla sig.ra B. e dal sig. S.S.L., soffermando che, rispetto alla conoscenza effettiva dell’adulterio della moglie, acquisita nel corso di un litigio verificatosi del giugno del 2005, la domanda risultava tempestivamente proposta, non potendosi attribuire rilievo a una precedente diagnosi di oligospermia, non comportante incapacità assoluta di procreare, nè alla domanda di addebito formulata anni primo nel corso del giudizio di separazione personale, non riferibile all’adulterio concernente l’azione di disconoscimento.
3 – Con sentenza definitiva depositata il 15 marzo 2011 il Tribunale di Firenze dichiarava che l’attore non era il padre di S.P.E. e S.L., disponendo le relative annotazioni.
4 – La Corte di appello di Firenze in data 20 marzo 2014 ha confermato tale decisione.
In particolare, ribadita l’ammissibilità della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel corso del primo grado del giudizio, è stato affermato che, concorrendovi le dichiarazioni stragiudiziali rese dalla madre al riguardo, l’esclusione del rapporto di filiazione doveva desumersi dall’esplicito ed ingiustificato rifiuto, da parte dei figli, di sottoporsi ai prelievi ematici da eseguirsi ai fini dell’espletamento degli esami di natura genetica.
5 – Per la cassazione delle suindicate decisioni della Corte di appello di Firenze i signori B. e S.S.L. propongono ricorso, affidato ad unico ed articolato motivo, cui l’intimato resiste con controricorso.
6. Con istanza in data 9 novembre 2016 le parti e i loro difensori, premesso che in data 18 novembre 2015, con parziali modifiche introdotte il 31 marzo 2016, era intervenuta una transazione con la quale venivano definite tutte le questioni pendenti, hanno congiuntamente richiesto che venisse dichiarata la cessazione della materia del contendere.
Motivi della decisione
1. Deve esaminarsi preliminarmente la questione inerente al documento in data 9 novembre 2016 prodotto dalle parti, con particolare riferimento all’istanza di cessazione della materia del contendere.
2. Non può a tal fine prescindersi dal rilievo, sottolineato anche dal Procuratore Generale d’udienza, secondo cui l’azione di disconoscimento della paternità verte in materia di diritti indisponibili, in relazione ai quali non è ammesso alcun tipo di negoziazione o di rinuncia (Cass., 17 agosto 1998, n. 8087).
3. Si tratta quindi di interpretare – in relazione alle ricadute nel presente procedimento – la volontà delle parti, non nel senso di indagare sui limiti di validità e di efficacia della transazione alla quale si fa riferimento nell’istanza, ma sotto il profilo della permanenza o meno dell’intenzione di ottenere, nell’ambito del presente giudizio, una pronuncia di merito. Il tema, a ben vedere, attiene non tanto all’invocata cessazione della materia del contendere, che, in ogni caso, prevede una caducazione, per varie ragioni, degli aspetti sostanziali sottesi alla domanda proposta e, di conseguenza, una sopravvenuta carenza dell’interesse ad agire (Cass., 4 giugno 2009, n. 12887; Cass., 3 marzo 2006, n. 4719; Cass. Sez. U, 28 settembre 2000, n. 1048), bensì al profilo della validità della richiesta – implicitamente contenuta nell’istanza suddetta – di porre fine al presente processo senza pervenire a una pronuncia di merito.
4. A tale riguardo deve richiamarsi il tenore dell’istanza medesima, sottoscritta da tutte le parti e dai difensori, laddove, in relazione al contenuto della scrittura privata del 18 novembre 2015, si fa riferimento alla “rinuncia definitiva da parte del prof. S.A. all’azione di disconoscimento nei confronti dei figli S.P.E. e S.L.”: premesso che la qualificazione della rinuncia come “definitiva” impinge contro l’evidenziata indisponibilità del diritto e, quindi dell’azione (cfr. Cass., 26 febbraio 1993, n. 2465), la rinuncia stessa – nei termini testè richiamati spiega i suoi limitati effetti nel presente procedimento, dovendosi intendere come comprensiva di un atto giuridico processuale realizzato ai sensi dell’art. 306 cod. proc. civ., essendo del tutto evidente come, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. civ., la tutela giurisdizionale – salve alcune ipotesi di impulso ufficioso, nella specie non rilevanti – non possa prescindere dall’osservanza del principio della domanda.
5. Soccorre a tale proposito il principio, già affermato da questa Corte in materia di status, secondo cui “in tema di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, il genitore esercente la potestà può rinunciare – esplicitamente ovvero lasciando che la causa sia cancellata o si estingua per inattività – al procedimento instaurato. Peraltro, vertendosi in tema di diritti indisponibili, in relazione ai quali non è ipotizzabile rinuncia o transazione, l’azione può essere successivamente riproposta dallo stesso genitore, o personalmente dal figlio, una volta raggiunta la maggiore età” (Cass., 1 dicembre 1999, n. 13408).
6. Per il vero non mancano pronunce favorevoli alla predicabilità, anche in relazione a diritti indisponibili, della rinuncia all’azione. Si è infatti affermato che “ogni qualvolta il giudizio sia disciplinato valorizzando il principio dispositivo e quindi rimettendo alle parti la concreta possibilità di agire, ivi deve ammettersi la possibilità per le parti stesse di porre fine al giudizio, senza che la natura degli interessi sottesi permetta di potere superare tale principio. Il nostro ordinamento, infatti, nel disciplinare il processo civile, prevede quale principio fondamentale quello per il quale la definizione del giudizio è rimessa alla volontà delle parti con la conseguenza che come l’inattività di queste ultime impedisce la conclusione normale del giudizio, attraverso l’emanazione di una pronuncia che riconosca o neghi il bene della vita richiesto dall’attore, ancorchè si tratti di bene riconosciuto da norme inderogabili di legge, allo stesso modo deve ritenersi che le norme che disciplinano le c.d. vicende anormali del processo, ricomprendendo fra queste tutte le ipotesi in cui il giudizio non si concluda con la pronuncia sul bene della vita richiesto dall’attore sono di applicazione generale.
Da quanto precede deriva, quindi che – in difetto di qualsiasi norma che deroghi agli esposti principi per quanto riguarda l’azione ex art. 263 c.c. – la rinuncia a tale azione è regolata dai principi generali e cioè la stessa non deve essere accettata dalle controparti, estingue l’azione, avendo l’efficacia di un rigetto nel merito, della domanda e fa quindi venire meno l’interesse delle controparti alla prosecuzione del giudizio. Tale rinuncia non importa l’estinzione del processo, dovendo questo concludersi – salvo che le parti lo facciano estinguere per inattività o che la rinuncia avvenga in sede di conciliazione davanti al giudice – con una sentenza che dichiari cessata la materia del contendere per effetto della rinuncia, restando l’obbligo dell’esame della fondatezza necessario solo per la decisione sulle spese” (Cass., 26 febbraio 1993, n. 2465, in motivazione; v. anche Cass., 8 maggio 1992, n. 5506).
7. Ritiene il Collegio di dover ribadire l’indirizzo, già affermato nella citata sentenza n. 13408 del 1999, circa il limitato effetto della rinuncia nell’ambito del procedimento in cui venga manifestata, con facoltà, quindi, di riproporre successivamente la domanda, in base all’ovvia considerazione che la rinuncia “definitiva” (secondo il termine adoperato dalle parti) all’azione investe direttamente il diritto sostanziale (Cass., 18 marzo 1981, n. 1583; Cass., 9 agosto 1973, n. 2280), e contrasta, quindi, con l’indisponibilità delle posizioni soggettive, come quelle relative allo status familiae, che sono riconducibili ai diritti della personalità.
8. Deve pertanto dichiararsi l’estinzione del processo, rilevandosi che la dichiarazione congiunta, sottoscritta anche dai difensori, implica un accordo sulla compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte dichiara l’estinzione del processo e l’integrale compensazione fra le parti delle relative spese.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi.

Incostituzionale per le detenute madri il divieto di domiciliari in caso di reati gravi

Corte cost., 12 aprile 2017, n. 76

SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Bari nel procedimento relativo a L.A., con ordinanza del 12 ottobre 2015, iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 marzo 2017 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Svolgimento del processo
1.- Con ordinanza del 12 ottobre 2015, iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2016, il Tribunale di sorveglianza di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui impedisce che le modalità di espiazione della pena ivi previste siano concesse alle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della medesima L. n. 354 del 1975.
1.1.- Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nell’ambito del procedimento di sorveglianza relativo ad L.A., condannata, con sentenza pronunciata il 12 aprile 2012, alla pena di anni sette di reclusione per il delitto di cui all’art. 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), con decorrenza dal 19 febbraio 2014 e fine pena al 18 febbraio 2021.
Il giudice a quo ricorda che la condannata è stata ammessa alla detenzione domiciliare sino al 17 ottobre 2015, ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della L. n. 354 del 1975, in relazione all’art. 147, comma 1, numero 3), del codice penale, in quanto madre di prole di età inferiore a tre anni. Ricorda anche che, all’approssimarsi del compimento dei tre anni di età della minore, e, dunque, del ripristino della detenzione in carcere, il difensore di L.A. ha chiesto al magistrato di sorveglianza la proroga in via provvisoria della detenzione domiciliare, e al Tribunale di sorveglianza la concessione della detenzione domiciliare speciale ai sensi dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della L. n. 354 del 1975; in via subordinata, ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione da ultimo citata, nella parte in cui esclude dalla concessione del beneficio i soggetti condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975.
Il giudice rimettente osserva che, con sentenza n. 239 del 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della L. n. 354 del 1975, nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima L. n. 354 del 1975, nonché quella della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
Il giudice a quo ritiene che, pur a seguito di tale pronuncia, non sia possibile accogliere la richiesta del difensore di L.A., in quanto la ricordata sentenza n. 239 del 2014 ha riguardato il solo comma 1 dell’art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975, in base al quale, se non è possibile concedere il beneficio di cui all’art. 47-ter della medesima L. n. 354 del 1975, la detenuta madre di prole di età inferiore ai dieci anni può espiare la parte residua di pena anche in ambito domiciliare, purché sia stato scontato almeno un terzo della pena ovvero quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo. La pronuncia della Corte costituzionale, invece, non avrebbe inciso sul comma 1-bis del ricordato art. 47-quinquies, il quale prevede modalità “agevolate” per espiare la frazione iniziale della pena, con esclusione, tuttavia, proprio dei condannati per i delitti elencati all’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975, anche nel caso in cui costoro collaborino con la giustizia.
Il giudice rimettente – ritenuto, dunque, che difettino i presupposti per la concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975, in quanto non è stato ancora espiato un terzo della pena, e ritenuto che la natura ostativa del reato oggetto della condanna impedisca l’applicazione del comma 1-bis del medesimo articolo – chiede alla Corte costituzionale di dichiarare l’illegittimità di quest’ultimo in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost., poiché “le esigenze superiori di tutela della maternità e del minore anziché prevalere risulterebbero recessive rispetto alla pretesa punitiva dello Stato”. In particolare, il giudice rimettente, sul presupposto che la ratio ispiratrice dell’istituto della detenzione domiciliare ex art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975 prescinderebbe da qualsiasi contenuto rieducativo e sarebbe volto esclusivamente a ripristinare la convivenza tra madri e figli, osserva che la logica sottesa alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 239 del 2014 dovrebbe applicarsi anche con riferimento alla preclusione assoluta per le madri condannate per taluno dei delitti elencati nel citato art. 4-bis L. n. 354 del 1975 contenuta nella disposizione censurata: l’applicazione di quest’ultima, anche in assenza di concreta pericolosità della detenuta, determinerebbe infatti l’interruzione del rapporto di convivenza della detenuta stessa con la figlia minore, rapporto che era stato, invece, già preservato grazie alla pregressa concessione della misura di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, della L. n. 354 del 1975.
Il rimettente sottolinea infine, in ordine al comportamento della detenuta, l'”assoluta regolarità comportamentale serbata durante il pregresso periodo di restrizione domiciliare”, nonché la “risalenza nel tempo dei reati oggetto della condanna”.
2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 31 marzo 2016, ha chiesto che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.
Osserva, anzitutto, l’Avvocatura generale dello Stato che il giudice rimettente avrebbe richiamato la sentenza della Corte costituzionale n. 239 del 2014 in modo non conferente. Mentre, infatti, con tale decisione sarebbe stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975, in quanto impediva in modo assoluto alle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della medesima L. n. 354 del 1975 l’accesso al beneficio, la disposizione ora all’esame della Corte costituzionale non precluderebbe l’espiazione della frazione iniziale della pena con modalità agevolate in caso di riconoscimento del requisito della collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter della L. n. 354 del 1975, secondo le disposizioni contenute nello stesso art. 4-bis L. n. 354 del 1975. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Bari sarebbero, dunque, inammissibili “in quanto già oggetto di specifica considerazione” da parte della Corte costituzionale.
Esse sarebbero comunque non fondate, in quanto – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – il rapporto tra i detenuti condannati per i delitti compresi nell’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975 e i propri figli sarebbe tutelato attraverso i colloqui effettuati in istituto, i quali non sono ricompresi nel divieto imposto da tale disposizione.
L’Avvocatura statale ritiene, infine, che il legislatore, introducendo la misura alternativa della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975, avrebbe effettuato un bilanciamento tra due valori costituzionalmente protetti, la tutela della famiglia e del rapporto tra le detenute madri e i propri figli, da un lato, e l’interesse dello Stato ad esercitare la potestà punitiva, dall’altro, limitando l’accesso alle modalità agevolate indicate nella disposizione censurata nei soli casi di condotte incriminatrici che assumono un significativo grado di offensività in relazione alla rilevanza del bene protetto, come quelle relative ai delitti elencati al citato art. 4-bis L. n. 354 del 1975, comma 1, e soltanto nei casi in cui non sussista né la collaborazione prevista dall’art. 58-ter della L. n. 354 del 1975, né alcuna delle forme di collaborazione con la giustizia richiamate nel comma 1-bis del più volte citato art. 4-bis L. n. 354 del 1975.

Motivi della decisione

1.- Il Tribunale di sorveglianza di Bari dubita della legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui impedisce alle madri condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della medesima L. n. 354 del 1975 l’accesso alle modalità di espiazione della pena ivi previste.
La disposizione censurata stabilisce che, “salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis”, l’espiazione di un terzo della pena, o di almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo – condizione necessaria per accedere alla detenzione domiciliare speciale prevista nel comma 1 del medesimo art. 47-quinquies L. 26 luglio 1975, n. 354 – può avvenire presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. Essa prevede inoltre che, in caso d’impossibilità di scontare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la stessa può essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite.
Secondo il rimettente, la preclusione all’accesso a tali modalità agevolate di espiazione della pena per le madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975 si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto ispirata dalla volontà di far prevalere la pretesa punitiva statale rispetto alle esigenze, che pur dovrebbero essere preminenti, di tutela della maternità e del minore. Sarebbe così vanificata la stessa ratio ispiratrice della detenzione domiciliare speciale, in tesi volta primariamente a ripristinare la convivenza tra madri e figli. È in particolare richiamata la sentenza di questa Corte n. 239 del 2014, la cui ratio decidendi sarebbe conferente anche nel caso in esame nel giudizio principale.
Osserva, infine, il rimettente che la disposizione censurata si inserirebbe disarmonicamente in un sistema che consente, anche alle madri condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975, di essere ammesse sin dall’inizio alla detenzione domiciliare, a prescindere dall’entità della pena da espiare, quando può essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione di questa, ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale (art. 47-ter, comma 1-ter, della L. n. 354 del 1975). Tale disarmonia sarebbe ben illustrata dalle peculiarità del caso che ha dato origine al presente giudizio di legittimità costituzionale, nel quale la madre condannata, inizialmente ammessa alla detenzione domiciliare sino al compimento dei tre anni di età della figlia, dovrebbe entrare in carcere – interrompendo la convivenza con la bambina – al fine di scontare il terzo di pena necessario per essere, successivamente, ammessa alla detenzione domiciliare speciale.
2.- La questione è fondata.
2.1.- La disposizione censurata è contenuta nell’art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975, che disciplina l’istituto della detenzione domiciliare speciale. Tale istituto, introdotto dall’art. 3, comma 1, della L. 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), è finalizzato ad ampliare la possibilità, per le madri (o i padri) condannati a pena detentiva, di scontare quest’ultima con modalità esecutive extracarcerarie, per meglio tutelare il loro rapporto con i figli minori e per evitare il fenomeno della “carcerizzazione degli infanti”.
L’art. 47-ter, comma 1, della L. n. 354 del 1975 già prevedeva (e prevede tuttora) che la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possano essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, quando la condannata è donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente (ovvero padre, quando la madre è deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole).
Con l’introduzione del citato art. 47-quinquies L. 26 luglio 1975, n. 354, si è stabilito, al comma 1, che, “quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo”.
In tal modo, si è consentito anche alle madri condannate a pene detentive superiori a quattro anni, o che devono ancora scontare più di quattro anni di pena, di accedere alla detenzione domiciliare speciale, alla condizione, però, che abbiano già scontato almeno un terzo della pena, ovvero almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo.
Al medesimo beneficio sono ammessi i padri detenuti, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre.
Successivamente, la L. 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di procedura penale e alla L. 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori), ha novellato il comma 1 dell’art. 47-quinquies, stabilendo che la prima parte di pena (un terzo o quindici anni in caso di ergastolo) possa essere espiata “secondo le modalità di cui al comma 1-bis”, e ha introdotto tale comma, oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale.
Anche in questo caso, il legislatore ha l’obiettivo di ampliare la possibilità, per le madri condannate a pene detentive, di espiare la pena attraverso misure extracarcerarie che permettano di meglio provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. A tal fine, il comma 1-bis consente loro di espiare, sin dall’inizio, la pena detentiva secondo le descritte modalità agevolate, anche nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, di cura, assistenza o accoglienza, purché non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga.
Tuttavia, e questo è l’oggetto della censura del giudice a quo, dall’accesso a tali modalità agevolate di espiazione della prima frazione di pena sono espressamente escluse le madri condannate per un delitto indicato nell’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975.
Che tale sia, in effetti, il significato della formulazione letterale del primo periodo del comma 1-bis dell’art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975 (“salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis”) non può essere revocato in dubbio.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, invece, la disposizione censurata consentirebbe alle condannate che abbiano collaborato con la giustizia, o che si siano trovate nell’impossibilità di farlo, di accedere alle descritte modalità di espiazione della pena. Nella prospettazione della difesa statale, il riferimento alle madri condannate per i delitti indicati nel ricordato art. 4-bis non sarebbe, infatti, che un rinvio al regime sostanziale ivi descritto (che, appunto, consente la concessione dei benefici penitenziari ai condannati per i delitti elencati al comma 1 del medesimo art. 4-bis L. n. 354 del 1975, a condizione che collaborino con la giustizia o che tale collaborazione non sia possibile).
L’assunto della difesa statale non coglie nel segno. A prescindere dal fatto che il giudice a quo non fornisce indicazioni su un’eventuale collaborazione della condannata con la giustizia, questa Corte ha già escluso che il riferimento all’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975, contenuto nella disposizione censurata, possa intendersi come un richiamo alle differenziate condizioni (tra le quali la collaborazione con la giustizia) che tale articolo prevede, a seconda del reato commesso, per la concessione dei benefici penitenziari. Come è fatto palese dalla sua formulazione letterale, il significato del comma 1-bis dell’art. 47-quinquies è quello di impedire in assoluto, alle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis, di espiare la frazione iniziale di pena secondo le ricordate modalità agevolate, anche laddove si sia verificata la condizione della collaborazione con la giustizia (sentenza n. 239 del 2014).
È dunque questo significato della disposizione censurata a doversi confrontare con i parametri costituzionali evocati.
2.2.- Il comma 1-bis dell’art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975 si inserisce nell’ambito di un istituto – la detenzione domiciliare speciale – che, pur partecipando della finalità di reinserimento sociale del condannato, è primariamente indirizzato a consentire l’instaurazione, tra madri detenute e figli in tenera età, di un rapporto quanto più possibile “normale” (sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009). In tal senso, si tratta di un istituto in cui assume rilievo prioritario la tutela di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, qual è il minore (ancora sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009, e sentenza n. 350 del 2003).
Questa Corte ha evidenziato in numerose occasioni (sentenze n. 17 del 2017, n. 239 del 2014, n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012) la speciale rilevanza dell’interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, ed ha riconosciuto che tale interesse è complesso ed articolato in diverse situazioni giuridiche. Queste ultime trovano riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento costituzionale interno – che demanda alla Repubblica di proteggere l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, secondo comma, Cost.) – sia nell’ordinamento internazionale, ove vengono in particolare considerazione le previsioni dell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176, e dell’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo.
Queste due ultime disposizioni qualificano come “superiore” l’interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative ad esso, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, tale interesse deve essere considerato “preminente”: “precetto che assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell’interesse del bambino in tenera età a godere dell’affetto e delle cure materne” (così, in particolare, sentenza n. 239 del 2014).
L’elevato rango dell’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali sono quelli di difesa sociale, sottesi alla necessaria esecuzione della pena. Lo dimostra, del resto, la stessa disposizione censurata, che consente alle madri (tranne a quelle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975) di espiare la prima frazione di pena presso un istituto a custodia attenuata, ovvero richiede al giudice di valutare l’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, prima di concedere alla condannata l’accesso alla detenzione domiciliare ovvero in altri luoghi di privata dimora, di cura, di assistenza o di accoglienza.
Il bilanciamento dell’interesse del minore con le esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato, in via di principio, è rimesso alle scelte discrezionali del legislatore (sentenza n. 17 del 2017) e può realizzarsi attraverso regole legali che determinano, in astratto, i limiti rispettivi entro i quali i diversi principi possono trovare contemperata tutela. In tal senso, varie disposizioni dell’ordinamento penitenziario e del codice di procedura penale assicurano tutela all’interesse dei minori, figli di soggetti sottoposti a misure cautelari o condannati in via definitiva a pene detentive, a mantenere un rapporto costante, fuori dal carcere, con le figure genitoriali, ma stabiliscono che tale esigenza di tutela si arresta al compimento, da parte del minore, di una determinata età.
Se invece il legislatore, tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena e, così, impedisce al giudice di valutare la sussistenza in concreto, nelle singole situazioni, delle ricordate esigenze di difesa sociale, non si è più in presenza di un bilanciamento tra principi, che si traduce nella determinazione di una ragionevole regola legale: si è al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, il quale comporta il totale sacrificio dell’interesse del minore.
Questa Corte, tuttavia, ha già chiarito che, affinché il preminente interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine, la legge deve consentire che sussistenza e consistenza di queste ultime siano verificate in concreto, e non già sulla base di automatismi che impediscono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni (ancora, sentenza n. 239 del 2014).
Proprio una tale preclusione è contenuta nella disposizione censurata. Il legislatore, infatti, esclude in assoluto dall’accesso ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto con il minore in tenera età le madri accomunate dall’aver subito una condanna per taluno dei delitti indicati in una disposizione (l’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975) che contiene, oltretutto, un elenco di reati complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità (sentenza n. 32 del 2016).
Non è in principio vietato alla legge differenziare il trattamento penitenziario delle madri condannate, a seconda della gravità del delitto commesso, ma la preclusione assoluta ora in esame è certamente lesiva dell’interesse del minore, e perciò dell’art. 31, secondo comma, Cost.
A causa della disposizione censurata, vengono del tutto pretermessi l’interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata, non estranea, come si è già detto, alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa alla detenzione. Questa sorta di esemplarità della sanzione – la madre deve inevitabilmente espiare in carcere la prima frazione di pena – non può essere giustificata da finalità di prevenzione generale o di difesa sociale (sentenza n. 313 del 1990). Infatti, le esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica criminale non possono essere perseguiti attraverso l’assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole.
La disposizione censurata è dunque costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole “Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis,”.
L’accertata violazione dell’art. 31, secondo comma, Cost., determina l’assorbimento delle censure relative agli altri parametri costituzionali evocati.
È appena il caso di rilevare, infine, che la presente pronuncia d’accoglimento non mette in pericolo le esigenze di contrasto alla criminalità che avevano indotto il legislatore ad introdurre la preclusione qui caducata.
Da un lato, il comma 1-bis dell’art. 47-quinquies della L. n. 354 del 1975, oltre a consentire che la prima frazione di pena sia scontata in un istituto a custodia attenuata per detenute madri, affida al prudente apprezzamento del giudice – come si è evidenziato – l’accesso della condannata alla detenzione nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero di cura, assistenza o accoglienza, condizionandolo all’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga.
Dall’altro, rientrando l’istituto in oggetto tra le misure alternative alla detenzione, ai condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis della L. n. 354 del 1975 resta pur sempre applicabile il complesso ed articolato regime previsto da tale disposizione per la concessione dei benefici penitenziari, in base, però, alla ratio della sentenza n. 239 del 2014 di questa Corte, secondo la quale la mancata collaborazione con la giustizia non può ostare alla concessione di un beneficio primariamente finalizzato a tutelare il rapporto tra la madre e il figlio minore.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole “Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis,”.

Il giudice d’ufficio decide sul mantenimento dei figli senza incorrere nel vizio di ultra petizione

Cass. civ. Sez. IV – 1, 14 giugno 2017, n. 14830
ORDINANZA
sul ricorso 13579/2016 proposto da:
C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. CESI 30, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI MANCUSO, rappresentato e difeso dall’avvocato RINALDO OCCHIPINTI;
– ricorrente –
contro
V.A.;
– intimata –
avverso il decreto n. 182/2015 D’APPELLO di CATANIA depositato il 17/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 19/05/2017 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE.
Svolgimento del processo
– che il ricorrente ha proposto ricorso, per due motivi, avverso il decreto della Corte d’appello di Catania del 16.11.2015 il quale, in accoglimento del reclamo del medesimo ricorrente, ha escluso l’obbligo del padre di pagare il canone di locazione, relativamente all’immobile in cui vive la moglie con i figli minori, ma ha, nel contempo, aumentato l’assegno di mantenimento in favore dei figli da Euro 600,00 ad Euro 800,00 mensili, nonostante la contumacia della reclamata;
– che è stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.
Motivi della decisione
– che il primo motivo è manifestamente inammissibile, perchè deduce il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e mira ad una riconsiderazione degli elementi di fatto, censure che tuttavia non possono essere fatte valere, non appartenendo al catalogo dei vizi deducibili in Cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (quindi, dall’11 settembre 2012);
– che il secondo motivo è manifestamente infondato, censurando esso il vizio di ultrapetizione ai sensi dell’art. 112 c.p.c., mentre, secondo giurisprudenza costante di questa S.C., i provvedimenti necessari alla tutela degli interessi morali e materiali della prole, qual è l’attribuzione e la determinazione dell’assegno di mantenimento a carico del genitore non affidatario, possono essere adottati d’ufficio, essendo rivolti a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche sottratte all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti (e multis, Cass. 27 gennaio 2012, n. 1243, in motivazione; Cass. 3 agosto 2007, n. 17043; Cass. 13 gennaio 2004, n. 270);
– che non si dà condanna alle spese, non svolgendo difese l’intimata;
– che si tratta di procedimento esente dal contributo, onde non si provvede alla dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 (art. 10 del citato decreto).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Adozione e riconoscimento stato adottivo minore da parte di coppia omoaffettiva

Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2017, n. 14987
SENTENZA
sul ricorso 16901/2015 proposto da:
M.J.E., elettivamente domiciliato in Roma, Via Nomentana n.257, presso l’avvocato Dosi Gianfranco, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale autenticata dal (OMISSIS) in data (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Campobasso;
– intimati –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositato il 30/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/03/2017 dal cons. ACIERNO MARIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI Francesca, che ha concluso:
– in tesi per l’improcedibilità o l’inammissibilità del ricorso ovvero perché venga procedimento;
– in subordine, ai sensi degli artt. 374 e 376 c.p.c., perché il Collegio voglia trasmettere gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ove la Corte ritenga di dover affrontare i temi più ampi connessi sull’interpretazione della L. n. 184 del 1983, artt. 29, 35, 36, con specifico riferimento ai principi della Convenzione dell’Aja ed alla clausola di “conformità”, trattandosi di questione di massima e particolare importanza;
– in ulteriore subordine eventualmente emendando territoriale per il rigetto del ricorso la motivazione della Corte.
Svolgimento del processo
M.J.E. ha chiesto il riconoscimento nello Stato Italiano del figlio minore adottivo M.K.E.S. (nato il (OMISSIS)). Lo status filiale è fondato su un provvedimento giudiziale di adozione emesso dalla Family Court of the County of Suffolk dello Stato di New York (USA) nel quale sono indicati come genitori adottanti il ricorrente e M.S. (provvedimento emesso il 9/4/2010).
Il Tribunale per i minorenni ha rigettato la domanda ritenendo la necessità che l’adozione non sia contraria ai principi che regolano nello Stato italiano il diritto di famiglia e dei minori ed in particolare i requisiti per procedere all’adozione legittimante nel ns. ordinamento, dovendosi applicare la L. n. 184 del 1983, art. 35 commi 1 e 3. Il Tribunale ha precisato che nel nostro ordinamento non è consentita l’adozione a coppie dello stesso sesso a ciò ostando la L. n. 184 del 1983, art. 6, comma 1, ed è esclusa l’adozione legittimante del singolo.
Il tribunale ha inquadrato la domanda all’interno del paradigma costituito dalla L. n. 184 del 1983, art. 36, comma 4, riconoscendo che si tratta di domanda proposta da un cittadino italiano stabilmente residente all’estero da oltre due anni ma ritiene comunque di dover verificare la corrispondenza con i requisiti per l’adozione legittimante secondo il diritto positivo interno.
Proposto appello, la Corte territoriale ha confermato la pronuncia di primo grado sulla base delle seguenti affermazioni:
Il riferimento all’art. 74 c.c., e all’unicità dello stato di figlio dal quale dovrebbe emergere l’incostituzionalità di discriminazioni relative al raffronto del regime giuridico proprio delle adozioni legittimanti e di quelle non legittimanti è ininfluente ai fini della decisione perché i parametri normativi nella specie sono la L. n. 183 del 1984, artt. 35 e 36, nel testo modificato dalla L. n. 476 del 1998, di ratifica della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993. In particolare, trova applicazione l’art. 36, comma 4, relativo ai cittadini italiani residenti all’estero. Secondo tale paradigma il riconoscimento dell’adozione di minori pronunciata all’estero deve essere conforme ai principi della Convenzione ed in particolare all’art. 24, nel quale è contenuto il parametro della manifesta contrarietà all’ordine pubblico, tenuto conto dell’interesse superiore del minore. Al riguardo, come affermato nella sentenza di questa Corte n. 5372 del 2011, anche le adozioni richieste da cittadini italiani residenti all’estero devono sottostare al principio generale della non contrarietà ai principi fondamentali che regolano nello stato il diritto di famiglia e dei minori. Ne consegue che le adozioni internazionali sono ammissibili nei limiti in cui sono ammesse le adozioni nazionali legittimanti.
Deve pertanto rilevarsi la contrarietà all’ordine pubblico di un provvedimento di adozione di un minore pronunciato all’estero in favore di una coppia omosessuale.
– Il principio della necessità di un intervento legislativo è stato anche affermato da Corte Cost. n. 183 del 1994. – La Convenzione di Strasburgo del 24/4/1967 ratificata con L. n. 357 del 1974, prevede la facoltà per i legislatori nazionali di consentire l’adozione anche per persone singole ma è necessaria l’interposizione di una legge interna che nel nostro ordinamento è stata attuata mediante l’adozione in casi particolari (art. 44) escludendo quella legittimante.
Avverso questa pronuncia sono stati proposti due motivi di ricorso per cassazione accompagnati da memorie.
Motivi della decisione
Nel primo motivo viene dedotta la violazione della L. n. 184 del 1983, art. 36 comma 4, per avere la Corte d’Appello fondato la contrarietà al canone dell’ordine pubblico sul rilievo che il ricorrente fosse sposato con una persona dello stesso sesso, in questo modo spostando il parametro sulla coppia adottante e non sulla domanda proposta dal singolo da valutarsi alla stregua del preminente interesse del minore. Il ricorrente è già genitore adottivo e vuole l’estensione di questo status anche nell’ordinamento italiano essendo cittadino italiano e potendo così attribuire la cittadinanza italiana anche al proprio figlio.
Se la riforma della filiazione determina l’unicità dello status di figlio non è giustificata l’esclusione del riconoscimento dell’adozione del singolo solo perché piena e legittimante.
Il parametro indicato dall’art. 36, u.c., conduce all’art. 24 Convenzione dell’Aja sopra citata la quale non esclude l’adozione legittimante per i singoli.
Il giudice italiano, di conseguenza, è tenuto in conformità alla Convenzione a riconoscere, o con effetti legittimanti o con effetti non legittimanti, l’adozione del singolo dal momento che il sistema normativo attuale, fondato sull’unicità dello status filiationis, esclude il rilievo di questa distinzione, relativa alla diversità di effetti. L’adozione pronunciata all’estero è sempre trascrivibile perché non è più possibile una distinzione tra effetti legittimanti e non. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 8 CEDU sotto il profilo del diritto alla vita familiare che verrebbe ingiustificatamente compresso dal diniego, dal momento che il figlio minore del cittadino italiano non potrebbe godere di tutti i diritti connessi allo status filiale verso il genitore e i parenti e, conseguentemente, verrebbe leso anche nel diritto alla pienezza delle relazioni familiari.
L’esame delle censure richiede un’indagine preliminare, così come esattamente sottolineato nella requisitoria del Procuratore Generale, sull’effettiva fattispecie dedotta in giudizio.
Dagli atti e dai fascicoli di parte, ai quali la Corte può avere accesso al fine di verificare la corretta instaurazione del contraddittorio è emerso che il ricorrente, cittadino italiano è riconosciuto genitore adottivo di un minore unitamente ad altro genitore, dello stesso sesso, cittadino americano. Nei due certificati di nascita prodotti il minore risulta figlio del ricorrente e dell’altro genitore. Il riconoscimento, per quel che si può evincere, è stato contestuale ed appare frutto di una richiesta congiunta, accolta dalla autorità giudiziaria competente e trascritta sull’atto di nascita.
Il ricorrente, ancorché cittadino italiano, è residente negli Stati Uniti. L’atto di nascita del quale si chiede la trascrizione nel registro degli atti dello stato civile italiano ha ad oggetto l’indicazione di entrambi i genitori adottivi, coerentemente con il titolo giudiziale proveniente dalla Family Court of the County of Suffolk dello Stato di New York (USA).
L’atto di cui si chiede il riconoscimento riguarda la titolarità congiunta dello status genitoriale da parte di una coppia formata da persone dello stesso sesso nei confronti di un minore dichiarato figlio adottivo di entrambi.
Come esattamente rilevato dal Procuratore Generale nella sua requisitoria, la domanda proposta non può essere qualificata, (come prospettato dal ricorrente) come diretta ad ottenere un titolo di filiazione adottiva da parte di una sola persona, né, di conseguenza, può essere applicato alla fattispecie dedotta in giudizio il recente orientamento giurisprudenziale relativo all’adozione del figlio del partner L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d), (Cass. 12962 del 2016). Osta a tale soluzione in primo luogo la mancata formulazione di una domanda avente tale oggetto, essendo stato richiesto il riconoscimento di uno status genitoriale contenuto in un titolo giudiziale estero ed in secondo luogo l’assenza del consenso dell’altro genitore, requisito del quale non è stato né richiesto l’accertamento, né vi è stato l’esercizio di poteri istruttori officiosi né risultano allegazioni o prove al riguardo.
La fattispecie dedotta in giudizio, non è sovrapponibile, sul piano fattuale, neanche con quella posta a base della sentenza n. 19599 del 2016 perché in quest’ultima pronuncia la domanda di riconoscimento del titolo di filiazione formato all’estero è stata formulata da entrambi i genitori, la madre biologica e la madre sociale, le quali avevano ottenuto il riconoscimento del proprio status genitoriale all’estero.
Nel presente giudizio il ricorrente fonda la domanda proposta, da singolo, su un atto che attribuisce al minore uno status bi genitoriale. Ne consegue, ai fini del riconoscimento di tale atto, la necessità preliminare dell’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro partner indicato come genitore nel titolo giudiziale in contestazione, la cui peculiarità consiste proprio nel fatto che la genitorialità adottiva viene riconosciuta congiuntamente e contestualmente a due partners di una coppia omoaffettiva.
Al riguardo non può invocarsi un riconoscimento parziale degli effetti dell’atto in Italia, senza che l’altro genitore sia stato messo in grado d’interloquire nel giudizio in oggetto, trattandosi di un atto che ha un contenuto inscindibile e che produce l’effetto di costituire uno status bigenitoriale e non monogenitoriale.
Così definito il contenuto e gli effetti dell’atto di cui si chiede il riconoscimento, soltanto all’esito dell’integrazione del contraddittorio, potrà essere svolto l’esame in concreto sul regime giuridico applicabile alla specie. Al riguardo la Corte Costituzionale con la sentenza n. 76 del 2016 ha tracciato i confini del perimetro applicativo della disciplina normativa relativa all’adozione internazionale, in relazione al riconoscimento di atti contenenti status genitoriali adottivi, precisando quali siano le condizioni fattuali per l’applicazione dell’art. 41, primo comma, e quali quelle della L. n. 218 del 1995, comma 2. Anche dai più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità (Cass. 19599 del 2016), peraltro, possono trarsi rilevanti principi di diritto in tema di definizione del parametro dell’ordine pubblico internazionale in correlazione con l’interesse superiore del minore, posto come fattore di primaria rilevanza anche dalla Convenzione dell’Aja, fatta il 29 maggio 1993 (Convenzione sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale) e ratificata con la L. n. 476 del 1998, che all’art. 24, stabilisce: “Il riconoscimento dell’adozione può essere rifiutato da uno Stato contraente solo se essa è manifestamente contraria all’ordine pubblico, tenuto conto dell’interesse superiore del minore”.
In conclusione, pronunciando sul ricorso, deve essere cassata la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale per i minorenni di presente giudizio, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 3, e dell’art. 354 c.p.c., comma 1.
P.Q.M.
Pronunciando sul ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale per i minorenni di Campobasso, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.