ALIMENTI

Di Gianfranco Dosi
I
Le persone obbligate agli alimenti
a) Gli obbligati nell’ambito delle relazioni familiari
Delle obbligazioni alimentari si occupa l’intero titolo XIII del primo libro del codice civile.
La collocazione nell’ambito delle norme sul diritto di famiglia (da molti ritenuta non plausibile) appare, invece, del tutto ragionevole in quanto le obbligazioni di natura alimentare sono soprattutto riferibili, nel sentire comune, ai vincoli di solidarietà primaria esistenti tra componenti della famiglia, anche se l’art. 437 pone al primo posto tra gli obbligati il donatario, nei confronti del donante, e perciò un soggetto che per riconoscenza, e non per vincoli di solidarietà familiare, viene dichiarato tenuto all’obbligo.
In ogni caso è pacifico che l’ordinamento appresta, con queste norme, gli strumenti affinché chi non può mantenere se stesso possa ottenere i mezzi necessari alla propria sussistenza da parte di soggetti che si trovano con lui in una particolare relazione personale e che hanno la possibilità economica di provvedere.
L’applicazione delle disposizioni in questione è espressamente e interamente estesa anche alle unioni civili dal comma 19 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze).
All’obbligo ex lege di prestare gli alimenti a chi è incapace di provvedere al proprio sostentamento sono tenuti – secondo quanto previsto nell’art. 433 – nell’ordine: 1) il coniuge; 2) i figli, anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi; 3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti; 4) i generi e le nuore; 5) il suocero e la suocera; 6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali. Come detto, l’art. 437 aggiunge, collocandolo al primo posto, il donatario nei riguardi del donante.
L’elencazione è tassativa e progressiva, nel senso che il primo soggetto in grado di adempiere esclude gli altri.
Condizione, insomma, dell’azione alimentare proposta contro persone obbligate in un grado determinato è la man¬canza di obbligati di grado anteriore o la loro incapacità di prestare gli alimenti (Trib. Cassino, 23 agosto 2016).
Interessante è la decisione con cui T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, 24 giugno 2011, n. 933 ha ritenuto conforme ai principi costituzionali in un’ottica di solidarietà sociale, distinguere, per l’accesso ai servizi sociali, nell’ambito dei soggetti che maggiormente hanno bisogno di assistenza tra coloro che hanno comunque una fonte di sostentamento, costituita dalla presenza di un obbligato agli alimenti e chi tale fonte non ha; equiparare le due situazioni potrebbe comportare un vulnus agli stessi principi generali e livelli essenziali per l’accesso ai servizi sociali, potendo determinare in concreto una riduzione delle risorse da destinare ai soggetti più bisogne¬voli, perché sprovvisti di una rete di sostegno economico familiare.
Il coniuge
Il coniuge è tale fino al giudicato di divorzio. La conferma sta proprio nella norma (art. 156, comma 3, c.c.) che prevede il diritto alimentare per il coniuge in stato di bisogno al quale è stata addebitata la separazione e che perciò ha perso il diritto all’assegno coniugale.
I figli
I figli (nati nel matrimonio o fuori del matrimonio e anche quelli adottati in età minore o da maggiorenni) sono tenuti agli alimenti nei confronti dei genitori, mentre solo in loro mancanza sono obbligati i discendenti prossimi. Segnale inequivoco del riferirsi l’art. 433 alla famiglia estesa e non solo a quella nucleare.
I genitori
I genitori, anche adottanti, e in loro mancanza gli ascendenti prossimi, sono tenuti a prestare gli alimenti ai figli.
Questa obbligazione alimentare ha carattere evidentemente residuale rispetto al più generale obbligo di man¬tenere i figli fino a quando gli stessi non abbiano raggiunto l’autonomia economica. La giurisprudenza di legit¬timità considera venuto meno il diritto al mantenimento ove il figlio maggiorenne, conclusasi una esperienza lavorativa che lo aveva reso temporaneamente autosufficiente, perda la sua autonomia rientrando in famiglia. Hanno seguito questa interpretazione molte sentenze. In particolare Cass. civ. Sez. VI, 27 gennaio 2014, n. 1585 e Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2005, n. 26259 dove si afferma che le circostanze che hanno interrotto l’indipendenza economica non possono far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti erano già ve¬nuti meno; Cass. civ. Sez. II, 7 luglio 2004, n. 12477 e Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2010, n. 23590 secondo cui l’obbligo dei genitori non può protrarsi sine die e che pertanto esso trova il suo limite allorché il figlio risulti avviato ad una attività lavorativa la quale interrompe “il legame e la dipendenza morale e materiale con la famiglia d’origine”. In verità nessuna norma afferma (e se vi fosse una norma del genere sarebbe nell’attuale congiuntura economica certamente irragionevole) che il diritto al mantenimento venuto meno per una circo¬stanza determinata (perché per esempio un ragazzo ha trovato un’attività lavorativa temporanea) non possa poi riprendere vita quando il ragazzo dovesse terminare non per sua colpa tale attività. L’interpretazione opposta è stata sostenuta da Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 2008, n. 24018 secondo cui l’obbligo di mantenimento del figlio “riprende nel caso in cui il giovane abbia deciso di lasciare il lavoro che lo aveva reso economicamente indipendente per riprendere gli studi, seguire corsi di formazione e seguire così la propria inclinazione e aspira¬zione e ciò in quanto non ha colpa il figlio che rifiuta una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui tali aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale at¬teggiamento di rifiuto (nel proseguire a lavorare) sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia”.
L’art. 436 avverte che “l’adottante deve gli alimenti al figlio adottivo con precedenza sui genitori di lui”. Norma che vale naturalmente solo in caso di adozione di maggiorenni o per l’adozione di minori in casi particolari di cui all’art. 44 delle legge 4 maggio 1983, n. 184, giacché in entrambe le ipotesi – a differenza di quanto avviene con l’adozione piena dei minori – il vincolo adottivo non cancella quello genitoriale originario.
Gli affini in linea retta
L’art. 433 elenca poi come soggetti obbligati rispetto alla persona che si trova in stato di bisogno gli affini in linea retta (perciò il suocero o la suocera, il genero o la nuora). La famiglia estesa, da un punto di vista degli obblighi alimentari, non comprende quindi i cognati. Si deve ricordare che nelle unioni civili non esiste rilevanza giuridica del vincolo di affinità (cfr art. 1, comma 20, della legge 76/2016). L’obbligazione alimentare nei confronti del soggetto in stato di bisogno – secondo quanto prevede l’art. 434 – cessa non quando tale soggetto divorzia ma solo quando contrae nuovo matrimonio. Singolare che l’obbligo non cessi automaticamente con il divorzio o con la dichiarazione di nullità (Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 1978, n. 2848). Quindi il coniuge divorziato – benché in dottrina si ritiene il contrario – potrebbe essere chiamato a corrispondere gli alimenti all’ex suocero. L’obbligo cessa, inoltre, quando il coniuge, da cui deriva l’affinità, e i figli nati dalla sua unione con l’altro coniuge e i loro discendenti sono morti (altrimenti sarebbero questi soggetti, in vita, ad essere obbligati).
Se il matrimonio da cui sorge il vincolo di affinità è dichiarato nullo, cessa l’obbligo alimentare giacché l’affinità cessa se il matrimonio è dichiarato nullo (art. 78, ult. comma, c.c.).
I fratelli e le sorelle
Sono infine indicati come reciprocamente obbligati agli alimenti i fratelli/sorelle con precedenza (irragionevole) tra fratelli/sorelle che hanno gli stessi genitori (germani) rispetto a quelli che ne hanno in comune uno solo (unilaterali).
Come si è detto l’indicazione degli obbligati è progressiva (nel senso chiarito che il primo obbligato in grado di adempiere esclude gli altri) ed è veramente inspiegabile come mai il legislatore abbia ritenuto di collocare i fratelli dopo gli affini.
Si ricorda, infine, che l’art. 1, comma 65, della citata legge 20 maggio 2016, n. 76, prevede nella parte finale che “…l’obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma [alla cessazione della convivenza] è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle”. Il che vuol dire che, al momento della cessazione della convivenza, dopo gli eventuali figli e dopo gli eventuali genitori ma prima dei fratelli e delle sorelle sarà il convivente, ad essere tenuto agli alimenti.
b) Separazione, divorzio, nullità del matrimonio e obbligazioni alimentari
Come meglio si dirà più oltre, trattando il tema della differenza tra mantenimento e alimenti, l’obbligazione ali¬mentare, se ve ne sono i presupposti, permane a favore del coniuge separato senza mantenimento (non in sede di divorzio in cui cessa lo status coniugale) ed è prevista anche in caso di perdita del diritto al mantenimento a seguito di addebito della separazione (art. 156 c.c.). Gli alimenti spettano anche al convivente di fatto che al momento della cessazione della convivenza versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento (art. 1, comma 65, della legge 20 maggio 2016, n. 76).
Quanto alla nullità del matrimonio l’art. 129-bis, primo comma, c.c. chiarisce che “il coniuge al quale sia impu¬tabile la nullità… è tenuto altresì a prestare gli alimenti al coniuge in buona fede, sempre che non vi siano altri obbligati”. Si tratta di un caso di alimenti in cui pur non sussistendo più il rapporto di coniugio, resta fermo alle condizioni indicate, l’obbligo alimentare. In tal caso però la collocazione dell’obbligato è all’ultimo posto nell’or¬dine degli obbligati.
c) Obbligazioni alimentari al di fuori della famiglia
Il donatario
Il donatario è obbligato in base all’art. 437 a prestare gli alimenti al donante in virtù, evidentemente, del vincolo di gratitudine che lo dovrebbe lega al donante ed in effetti sarebbe ingiusto che la persona bisognosa si rivolges¬se ad un membro della famiglia esistendo qualcuno che in passato ha da lui ricevuto un beneficio patrimoniale e che continuerebbe a godere dei vantaggi della donazione pur potendo soccorrere il donante indigente.
L’obbligo è limitato al valore della donazione ancora esistente nel patrimonio del donatario (art. 438, terzo com¬ma).
Trattandosi di un’obbligazione ex lege come quelle indicate nell’art. 433, anche la concessione di alimenti a carico del donatario è subordinata all’assolvimento, da parte del richiedente, dell’onere probatorio in ordine al suo stato di indigenza e all’impossibilità, per cause incolpevoli, di procurarsi personalmente i mezzi di sostentamento.
E’ ragionevole ritenere che l’obbligo alimentare sussista anche in caso di donazione indiretta.
L’obbligo non sussiste – precisa sempre l’art. 437 – allorché “si tratti di donazione fatta in riguardo di un matri¬monio o di una donazione rimuneratoria” giacché in questi due casi l’arricchimento non è avvenuto per spirito di liberalità. Per gli stessi motivi, peraltro, nei medesimi casi – come avverte l’art. 805 – non si può chiedere la revocazione della donazione per ingratitudine e per sopravvenienza di figli.
Nel caso di presenza di più donatari, la soluzione ragionevole dovrebbe essere quella della proporzionalità (art. 438, secondo comma) nel senso che i donatari saranno tenuti agli alimenti, ciascuno in proporzione del valore delle donazioni tuttora esistenti nel suo patrimonio.
Altri casi
Non mancano figure che presentano alcuni caratteri propri degli obblighi alimentari pur senza poter essere pi¬enamente ricondotte ad essi. Per esempio l’art. 2154 c.c.1 prevede l’obbligo del concedente di somministrare quanto necessario al mantenimento della famiglia colonica se il mezzadro e la sua famiglia si trovano in stato di bisogno per insufficienza del raccolto; il vecchio testo dell’art. 560 c.p.c. consentiva al giudice dell’esecuzione immobiliare di concedere al debitore, che non abbia altri mezzi di sostentamento, un assegno alimentare sulle rendite del bene pignorato nei limiti dello stretto necessario, ma in realtà poiché qui il giudice aveva un potere discrezionale non sembrava di potersi ricondurre questa ipotesi all’obbligo legale alimentare; in ogni caso il testo attuale dell’art. 560 c.p.c. (modo della custodia) non prevede più questa possibilità: l’art. 47 della legge falli¬mentare 2 attribuisce al giudice delegato (anche qui discrezionalmente: Cass. civ. Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2755) il potere di concedere al fallito e alla sua famiglia un sussidio alimentare. La Cassazione ha ritenuto che il concetto di mantenimento del fallito e della sua famiglia, nell’art. 46, n. 2, legge fallimentare 3 (secondo cui non sono compresi nel fallimento tra gli altri i redditi da lavoro e “ciò che il fallito guadagna con la sua attività, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia), non debba intendersi con riferimento alle esigenze meramente alimentari, ma debba determinarsi in un qualcosa di più e cioè in una misura intermedia tra il minimo alimentare ed il minimo socialmente adeguato in base al principio costituzionale della retribuzione sufficiente (Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 1995, n. 971; Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 1994, n. 10736).
d) Obbligazioni alimentari nascenti da legato, da contratto e da atto illecito
L’art. 660 c.c.4 prevede espressamente il legato di alimenti che consiste in un lascito disposto dal testatore, a carico dell’erede o di un legatario, a favore di un beneficiario, per il soddisfacimento dei suoi bisogni di vita; in assenza di determinazione da parte del de cuius il legato comprende le somministrazioni indicate dall’art. 438.
Con il contratto atipico alimentare, una parte, quale corrispettivo del trasferimento di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale, assume, in via esclusiva o in aggiunta al pagamento di una somma di denaro, l’obbligo di prestare all’altra, per un determinato periodo di tempo o per tutta la durata della vita della stessa (o di altra persona), assistenza (in senso lato) materiale e morale nella forma, secondo i casi, di vitto, vestiario, alloggio, cure mediche, pulizia della casa e della persona 5.
Infine l’obbligazione alimentare può nascere da atto illecito (per esempio la morte del figlio per fatto illecito al¬trui), per lesione del diritto agli alimenti futuri dei genitori, qualora l’avente diritto non possa ottenere gli alimenti da altro obbligato (Cass. civ., 11 gennaio 1979, n. 224).
II
I presupposti del diritto agli alimenti
I presupposti per richiedere gli alimenti soni due e precisamente a) trovarsi in stato di bisogno; b) non essere in grado di provvedere al proprio mantenimento (art. 438, primo comma).
La sussistenza dei fatti costitutivi del diritto alimentare dev’essere verificata alla data della decisione e non della domanda (Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 2013, n. 15397).
a) Lo stato di bisogno
Il concetto di stato di bisogno va riferito alla mancanza dei mezzi necessari a soddisfare i bisogni primari della persona.
Il concetto è ben chiarito da Cass. civ. Sez. II, 8 novembre 2013, n. 25248 dove si afferma che lo stato di bisogno, quale presupposto del diritto agli alimenti esprime l’impossibilità per il soggetto di provvedere al sod¬
1 Art. 2154 (Anticipazioni di carattere alimentare alla famiglia colonica).
Se la quota dei prodotti spettante al mezzadro, per scarsezza del raccolto a lui non imputabile, non è sufficiente ai bisogni alimen¬tari della famiglia colonica, e questa non è in grado di provvedervi, il concedente deve somministrare senza interesse il necessario per il mantenimento della famiglia colonica, salvo rivalsa mediante prelevamento sulla parte dei prodotti e degli utili spettanti al mezzadro.
Il giudice, con riguardo alle circostanze, può disporre il rimborso rateale.
2 Art. 47 (Alimenti al fallito e alla famiglia)
1. Se al fallito vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori, può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia.
2. La casa di proprietà del fallito, nei limiti in cui è necessaria all’abitazione di lui e della sua famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla liquidazione delle attività.
3 Art. 46 (Beni non compresi nel fallimento)
1. Non sono compresi nel fallimento:1) i beni ed i diritti di natura strettamente personale; 2) gli assegni aventi carattere ali¬mentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il man¬tenimento suo e della famiglia; 3) i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’articolo 170 del codice civile; 4) (numero soppresso) 5) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.
2. I limiti previsti nel primo comma, n. 2), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato che deve tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia.
4 Art. 660 (Legato di alimenti)
Il legato di alimenti, a favore di chiunque sia fatto, comprende le somministrazioni indicate dall’articolo 438, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto.
disfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l’abitazione, il vestiario, le cure mediche, da valutarsi in re¬lazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie. In passato nello stesso senso si erano espresse Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3334 e Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 1990, n. 1099.
Il concetto è stato anche ribadito più volte in sede di merito (Trib. Monza, 21 marzo 2012; Trib. Milano Sez. IX, 15 aprile 2011; Trib. Padova Sez. I, 12 novembre 2010; Trib. Novara, 14 aprile 2009; Trib. Saler¬no Sez. I, 25 febbraio 2009).
Non sussiste lo stato di bisogno in chi, pur privo di redditi e di disponibilità economiche, venga mantenuto o sostentato da altri soggetti ancorché questi ultimi non vi siano obbligati, come il convivente di fatto.
Inoltre non c’è lo stato di bisogno quando sussista il diritto di ottenere un contributo al mantenimento a carico di altro soggetto: è il caso, in particolare, del diritto all’assegno divorzile.
b) L’impossibilità di provvedere al proprio mantenimento
L’alimentando deve fornire la prova non solo del proprio stato di bisogno ma anche dell’impossibilità di provve¬dere al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali (Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 2017, n. 9415; Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3334).
Secondo Trib. Monza, 21 marzo 2012 il presupposto del non poter provvedere al proprio mantenimento deve essere valutato con riferimento alle capacità fisiche ed intellettive di chi versa in stato di bisogno ed alle pos¬sibilità ambientali di svolgere una concreta e proficua attività.
c) La domanda di corresponsione degli alimenti
Il diritto agli alimenti sorge in astratto per il fatto di trovarsi in una condizione di bisogno e quindi quando sus¬sistono i presupposti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge, ma perché venga affermato in concreto occorre che vi sia evidentemente una domanda della parte, quanto meno rivolta ad uno dei soggetti indicati come ob¬bligato. Ed infatti l’art. 445 afferma che il diritto decorre dalla domanda giudiziale o dal giorno della costituzione in mora dell’obbligato.
E’ questo il senso da dare all’affermazione della giurisprudenza secondo cui il diritto agli alimenti sorge in seguito alla domanda dell’alimentando (Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1990, n. 2199; Trib. Genova Sez. IV, 14 gen¬naio 2008; Trib. Monza Sez. I, 8 gennaio 2007).
Secondo Trib. Bari, 14 agosto 1991 la domanda di alimenti certamente essere proposta dal procuratore ge¬nerale dell’alimentando.
Uguale potere va riconosciuto al tutore (che in base all’art. 357 c.c. ha la cura della persona dell’incapace, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni) previa autorizzazione del giudice tutelare (art. 374 c.c.), così come all’amministratore di sostegno (art. 404 e seguenti c.c.) sempre previa autorizzazione del giudice tutelare (art. 411 che richiama come applicabile l’art. 374 c.c.).
III
La misura degli alimenti
Il primo comma dell’art. 438 prescrive che gli alimenti sono dovuti da un punto di vista dei soggetti creditori “in proporzione del bisogno di chi li domanda” e dal punto di vista dei soggetti debitori “in proporzione …delle condizioni economiche di chi deve somministrarli”.
La misura degli alimenti non deve superare quanto necessario per la vita dell’alimentando, avuto riguardo alla sua posizione sociale (art. 438, secondo comma, seconda parte). Proprio quest’ultimo riferimento ha indotto la dottrina ad individuare il concetto di “alimenti congrui”, dove la congruità si deve desumere anche dalla posizione sociale del soggetto e quindi dalle sue aspettative a conservare un certo tenore di vita.
Inoltre “il donatario non è tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio” (art. 438 ultimo comma).
Tra fratelli e sorelle – come avverte inspiegabilmente l’art. 439 – “gli alimenti sono dovuti nella misura dello stretto necessario”.
Una sentenza di merito ha precisato che il concetto di “alimenti strettamente necessari” si riferisce non solo alla somministrazione del vitto e dell’alloggio, ma anche al vestiario, alle cure mediche e a tutto quanto è indispen¬sabile per la vita dell’alimentando (Trib. Bari Sez. I, 6 settembre 2007).
In ogni caso se l’interessato che ha diritto è un soggetto minore di età, l’obbligazione alimentare può “compren¬dere anche le spese per l’educazione e l’istruzione” e quindi qualcosa che supera “quanto necessario per la vita dell’alimentando” come si è già sopra detto.
L’obbligazione alimentare (come quella di mantenimento coniugale, divorzile o per i figli) è obbligazione di valore (Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 1995, n. 6737) per cui si deve tener conto del variare del potere d’acquisto della moneta, sia con riferimento alla liquidazione che al periodico aggiornamento.
IV
Quando cessa l’obbligo di somministrare gli alimenti?
Il problema del limite temporale dell’obbligazione alimentare è risolto dall’art. 440 che in verità si occupa anche delle vicende modificative (riduzione o aumento) dell’importo stabilito dal giudice.
Se dopo l’assegnazione degli alimenti mutano le condizioni economiche di chi li somministra o di chi li riceve, l’autorità giudiziaria provvede per la cessazione, la riduzione o l’aumento, secondo le circostanze. Si tratta quindi di una obbligazione di durata variabile e condizionata in quanto il suo perdurare nel tempo dipende dalla persistenza dei presupposti oggettivi e soggettivo in forza dei quali è sorta. Si può dire perciò che è soggetta implicitamente, come il mantenimento, alla clausola rebus sic stantibus.
Gli alimenti possono pure essere ridotti per la condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato.
Se, dopo assegnati gli alimenti, consta che uno degli obbligati di grado anteriore è in condizione di poterli som¬ministrare, l’autorità giudiziaria non può liberare l’obbligato di grado posteriore se non quando abbia imposto all’obbligato di grado anteriore di somministrare gli alimenti.
Il giudice, su domanda della parte interessata, può quindi intervenire per aumentare o ridurre la prestazione, o addirittura a far cessare l’obbligazione, tutte le volte che si verifica un’alterazione dell’equilibrio originario, ossia quando lo stato di bisogno dell’avente diritto o le condizioni economiche dell’obbligato subiscano variazioni o addirittura vengano meno.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 440, se dopo l’assegnazione degli alimenti consta che un obbligato di grado anteriore è in condizione di poterli somministrare, il debitore originario potrà ottenere la cessazione della sua ob¬bligazione; in tal caso, però, il giudice potrà liberare l’obbligato originario solo quando abbia imposto all’obbligato di grado anteriore di somministrare gli alimenti.
V
Più obbligati: la natura parziaria e non solidale dell’obbligazione alimentare
Nelle obbligazioni solidali allorché via sia un concorso nell’obbligazione di più soggetti obbligati (più debitori) tutti sono tenuti per l’intero (art. 1292 c.c.) e l’obbligazione si divide in parti uguali (art. 1298 c.c.).
Nell’ambito delle obbligazioni alimentari questa regola non vale.
Infatti, sulla base di quanto indicato nell’art. 441 (concorso di obbligati) la natura dell’obbligazione è parziaria – e non solidale – in quanto, come chiarisce il primo comma, “Se più persone sono obbligate nello stesso grado alla prestazione degli alimenti, tutte devono concorrere alla prestazione stessa, ciascuna in proporzione delle proprie condizioni economiche” e quindi non in misura uguale per tutti.
Il giudice, quindi, non deve ripartire l’assegno a carico dei coobbligati in uguale misura, ma deve porre a carico di ciascuno di essi una parte della prestazione, in proporzione alla sua capacità economica, e sempre che tutti i coobbligati abbiano tale capacità economica; diversamente, l’assegno alimentare dovrà essere posto a carico solo dell’obbligato economicamente capace (Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 1986, n. 1767).
La natura parziaria è rafforzata dalla previsione del secondo comma dove si legge che “Se le persone chiamate in grado anteriore alla prestazione non sono in condizioni di sopportare l’onere in tutto o in parte, l’obbligazione stessa è posta in tutto o in parte a carico delle persone chiamate in grado posteriore”. Ne conseguirebbe che il successo dell’azione alimentare esercitata contro un soggetto presuppone che l’avente diritto dimostri, in parti¬colare, la mancanza di obbligati di grado anteriore o la loro incapacità, in tutto o in parte, di prestare gli alimenti.
Effettivamente, come ha chiarito Trib. Bologna Sez. I, 2 febbraio 2006 in base al combinato disposto degli artt. 433 e 441 c.c., condizione dell’azione alimentare proposta contro persone obbligate in un grado determina¬to è la mancanza di obbligati di grado anteriore o la loro incapacità di prestare gli alimenti; inoltre, se più persone sono obbligate nello stesso grado, può essere accolta l’azione proposta contro solo alcuni di essi nel caso in cui gli altri risultino incapaci di sostenere la prestazione alimentare. Anche se non è necessario che tutti gli obbligati incapaci economicamente siano presenti nel giudizio, grava sempre sull’alimentando l’onere della prova delle suddette circostanze, sia pure nei confronti dei soli chiamati in giudizio, quale presupposto per l’accoglimento di una domanda volta ad ottenere gli alimenti da obbligati in un grado ulteriore o da una parte sola dei coobbligati nello stesso grado, tra i quali la prestazione alimentare dovrebbe essere ripartita.
L’art. 441 regola quindi i casi di concorso fra obbligati, siano essi dello stesso grado (primo comma), ovvero di grado diverso (secondo comma).
L’obbligo del condebitore ad adempiere l’obbligo giuridico che gli sia imposto con provvedimento giudiziale sussiste anche nell’ipotesi in cui i bisogni dell’avente diritto vengano soddisfatti per intero da uno soltanto dei condebitori (Trib. Monza Sez. IV, 11 gennaio 2012 e Trib. Bari Sez. I, 15 gennaio 2009 dove si chiarisce che in tal caso il condebitore solvente può agire in regresso nei confronti dell’altro, per la quota di sua spettanza, senza che sia necessaria una preventiva diffida ad adempiere.
Escludendosi correttamente l’esistenza di un’obbligazione solidale (come fa espressamente per esempio App. Bologna Sez. I, 10 aprile 2009) si deve coerentemente anche negare la possibilità che chi ha adempiuto per l’intero agisca in regresso nei confronti dei coobbligati ex art. 1299. Tuttavia si ammette in giurisprudenza l’azione di regresso pro quota in virtù delle regole dell’utile gestione (Trib. Monza Sez. IV, 11 gennaio 2012).
Si è posta la questione del diritto di rivalsa degli enti assistenziali, avente ad oggetto la retta di ricovero, nei con¬fronti dei parenti del ricoverato che siano tenuti agli alimenti. Una norma originariamente prevedeva tale diritto (art. 1, legge 3.12.1931, n. 1580) ma non è stata riprodotta nella legge di riforma del servizio sanitario nazionale (attuata con la legge 23.12.1978, n. 833). La prassi diffusa, degli istituti di assistenza pubblica di rivolgersi ai parenti del ricoverato, per chiedere un contributo per il pagamento della retta, deve quindi oggi ritenersi illegit¬tima. La giurisprudenza è divisa: la sussistenza del diritto alla rivalsa è stata affermata da Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 2004, n. 3629; Trib. Torino, 12 agosto 1994 ma è stata negata da Trib. Verona, 14 maggio 1996 e T.A.R. Veneto Sez. I, 3 novembre 1999, n. 1785 “poiché la domanda alimentare ha natura stret¬tamente personale e l’amministrazione sanitaria non può sostituirsi al beneficiario ed agire in via surrogatoria”.
Infine l’ultimo comma dell’art. 441 avverte che “Se gli obbligati non sono concordi sulla misura, sulla distribuzio¬ne e sul modo di somministrazione degli alimenti, provvede l’autorità giudiziaria secondo le circostanze”.
A tale proposito Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 1994, n. 9432 ha avuto modo di affermare che al fine del riconoscimento e della quantificazione del diritto agli alimenti, nonché della ripartizione del relativo onere in presenza di più obbligati, il raffronto fra le rispettive condizioni economiche va effettuato con riferimento alla situazione in atto, e, quindi, deve prescindere da vicende future, quale la probabile riscossione di crediti, le qua¬li potranno avere influenza, al loro verificarsi, per un’eventuale revisione di dette statuizioni, ai sensi dell’art. 440 c.c.
VI
Che succede se un solo obbligato deve provvedere a più persone bisognose?
L’art. 442 (concorso di aventi diritto) prevede che “Quando più persone hanno diritto agli alimenti nei confronti di un medesimo obbligato, e questi non è in grado di provvedere ai bisogni di ciascuna di esse, l’autorità giudiziaria dà i provvedimenti opportuni, tenendo conto della prossimità della parentela e dei rispettivi bisogni, e anche della possibilità che taluno degli aventi diritto abbia di conseguire gli alimenti da obbligati di grado ulteriore”.
Il problema risolto da questa disposizione è quello del concorso – non degli obbligati – ma degli aventi diritto agli alimenti.
Che avviene se un singolo obbligato debba prestare gli alimenti a più persone e non è in grado di provvedere ai bisogni di tutte?
In tale evenienza il giudice ha il potere discrezionale di ridurre la prestazione a favore dei diversi destinatari, tenendo però conto di alcuni criteri espressamente indicati: la prossimità del vincolo di parentela, l’entità dei bisogni di ciascuno, e la possibilità che taluno degli aventi diritto possa conseguire gli alimenti da obbligati di grado successivo.
VII
Il modo di somministrazione degli alimenti
Gli alimenti sono sostanzialmente una prestazione economica anche se giustamente è stato sottolineato che in questo concetto rientra anche l’attività di assistenza, intesa come prestazione personale di supporto globale al soggetto in stato di bisogno, in termini di presenza, di compagnia, di conforto e di affetto, che si deve, tuttavia tradurre in una prestazione di materialità concreta non potendo coincidere con il concetto di “presenza”, di “cu¬stodia” generica (App. Lecce, 2 novembre 2016).
Chi deve somministrare gli alimenti – come stabilisce l’art. 443 – “ha la scelta di adempiere questa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto”.
Anche l’autorità giudiziaria, su richiesta di chi si trova in stato di bisogno, può determinare il modo di sommini¬strazione (art. 443, secondo comma).
L’ultimo comma dell’art. 443 prescrive che “In caso di urgente necessità l’autorità giudiziaria può altresì porre temporaneamente l’obbligazione degli alimenti a carico di uno solo tra quelli che vi sono obbligati, salvo il re¬gresso verso gli altri”.
I primi due commi della norna in questione disciplinano i modi di adempimento dell’obbligazione alimentare. Fra le varie modalità astrattamente idonee ad adempiere l’obbligazione, il legislatore ne ha considerate in particolare due che sembrano meglio contemperare gli interessi in gioco: l’obbligato può scegliere di corrispondere un as¬segno alimentare periodico (analogamente a quanto avviene per il mantenimento nell’ambito della separazione e del divorzio), oppure di accogliere e mantenere l’avente diritto nella propria casa. In entrambi i casi si tratta naturalmente di prestazioni di carattere patrimoniale.
L’obbligazione si configura, pertanto, come obbligazione alternativa (art. 1285 ss c.c.), e la scelta spetta al debitore. Le regole della scelta sono tuttavia peculiari: in particolare il giudice (che comunque non può certo all’obbligato di ospitare in casa il debitore contro la volontà dell’uno o dell’altro (Trib. Prato, 9 novembre 2010) ha il potere di valutare l’opportunità della scelta effettuata, di modificarla e di determinare il modo di adempimento nel caso in cui il debitore non voglia effettuare la scelta.
VIII
L’adempimento della prestazione alimentare
L’art. 444 prescrive che l’assegno alimentare prestato secondo le modalità stabilite non può essere nuovamente richiesto, qualunque uso l’alimentando ne abbia fatto.
L’adempimento dell’assegno nei modi stabiliti dal provvedimento del giudice estingue l’obbligo relativo, di modo che l’assegno prestato non potrà essere nuovamente richiesto. Ciò vale nel caso in cui l’alimentando lo sperper¬asse o ne facesse un cattivo uso.
IX
La decorrenza dell’obbligazione alimentare
Gli alimenti sono dovuti – come prevede l’art. 445 – “dal giorno della domanda giudiziale o dal giorno della costi¬tuzione in mora dell’obbligato, quando questa costituzione sia entro sei mesi seguita dalla domanda giudiziale”.
La norma in commento regola la decorrenza degli alimenti, ossia la data a partire dalla quale sono dovuti gli alimenti.
Il termine iniziale coincide con la domanda giudiziale, ovvero con la costituzione in mora (da intendersi quale domanda stragiudiziale non formale), purché entro sei mesi sia seguita dalla domanda giudiziale.
Proprio da questa regola consegue la retroattività delle statuizioni della decisione anche di secondo grado che deve, però, contemperarsi con i principi di irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità delle prestazioni alimentari. In tal modo si è espressa Cass. civ. Sez. I, 5 novembre 1996, n. 9641 secondo cui chi abbia ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni stabilite nella pronuncia di primo grado, non è tenuto a resti¬tuirle, né può vedersi opporre in compensazione quanto ricevuto a tale titolo, mentre il soggetto obbligato, ove abbia corrisposto le somme poste a suo carico nella decisione di primo grado, non può ripeterle sulla base delle statuizioni a lui più favorevoli della sentenza di appello, né può rifiutare le prestazioni dovute in base alla stessa, opponendo in compensazione le maggiori somme versate in forza della pronunzia di primo grado; d’altra parte, in base al principio della retroattività della decisione d’appello, se il soggetto obbligato non abbia corrisposto, per periodi anteriori alla decisione stessa, le somme poste a suo carico dalla pronuncia riformata, non può es¬sere costretto ad adempiervi, essendo ormai tenuto unicamente, anche per il passato, a corrispondere quanto stabilito dalla sentenza di secondo grado.
La Cassazione, in sede di delibazione di una sentenza straniera che stabiliva la decorrenza degli alimenti da data anteriore alla domanda, ha ritenuto che la decisione non contrasti l’ordine pubblico italiano poiché, avendo l’obbligazione alimentare contenuto prettamente patrimoniale, non coinvolge valori d’ordine primario, né principi supremi ed inderogabili della convivenza civile, sì che l’ampiezza di contenuto e di decorrenza di una siffatta ob¬bligazione può essere variamente fissata (Cass. civ. Sez. I, 17 aprile 1991, n. 4103).
La decorrenza dell’obbligazione alimentare a far data dalla domanda sussiste solo nel rapporto diretto tra ali¬mentato e alimentando, mentre l’azione di regresso, esercitata da uno dei condebitori verso il co-obbligato, è riconducibile alle regole della negotiorum gestio (Cass. civ. Sez. I, 9 agosto 1988, n. 4883).
X
Il procedimento e l’assegno provvisorio
Il procedimento per la determinazione e l’attribuzione dell’assegno alimentare ha natura contenziosa. Non trat¬tandosi di una causa in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero è competente il tribunale in compo¬sizione monocratica del luogo di residenza dell’obbligato convenuto in giudizio.
Analogamente a quanto avviene nell’ambito dei procedimenti di separazione e di divorzio, l codice prevede all’art. 446 che, nel corso della causa e “finché non sono determinati definitivamente il modo e la misura degli alimenti, il presidente del tribunale può, sentita l’altra parte, ordinare un assegno in via provvisoria ponendolo, nel caso di concorso di più obbligati, a carico anche di uno solo di essi, salvo il regresso verso gli altri”.
L’esistenza di questa possibilità rende inammissibile altre forme di tutela d’urgenza e cautelare (Trib. Milano Sez. IX, 3 aprile 2013; Trib. Modena Sez. II, 27 ottobre 2008). Per l’applicabilità, invece, anche in materia di alimenti della disciplina dei procedimenti cautelari Trib. Firenze, 7 novembre 1994 che ha ritento compe¬tente il giudice alla corresponsione in corso di causa di un assegno provvisorio di alimenti.
L’ultima parte dell’art. 446 dispone che, in caso di urgente necessità, il giudice può porre temporaneamente l’obbligazione alimentare a carico di uno dei coobbligati, salvo il diritto al regresso nei confronti degli altri. Si ha quindi un caso di condanna di un solo obbligato, le cui condizioni economiche lo consentano, al pagamento dell’intera prestazione, mediante sentenza non definitiva, con prosecuzione del processo per la suddivisione dell’obbligazione tra i condebitori e per la determinazione dei rimborsi.
Il procedimento in questione, in assenza (irragionevole) di una specifica diversa procedura prevista nel comma 65 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 – di cui si tratterà più oltre – dovrebbe trovare applicazione anche per il caso in cui alla cessazione della convivenza uno dei conviventi intendesse richiedere l’assegno ali¬mentare previsto dal comma indicato.
XI
L’indisponibilità dell’obbligazione alimentare: il divieto di cessione e di compensazione
Secondo quanto dispone espressamente l’art. 447 il credito alimentare non può essere ceduto né può essere opposto in compensazione “neppure quando si tratta di prestazioni arretrate”.
Il divieto di cessione si fonda sulla necessità di garantire il soddisfacimento delle esigenze di vita dell’avente diritto e costituisce un’applicazione dell’art. 1260 c.c., che sancisce l’incedibilità dei crediti di carattere stretta¬mente personale6. La giurisprudenza sottolinea che il credito alimentare non può essere oggetto di cessione o di compensazione (T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, 4 luglio 2011, n. 1738), pur precisandosi, però che gli accordi fra coobbligati in merito alla misura dell’assegno alimentare sono leciti, poiché non incidono sul diritto dell’alimentando e non comportano rinunzia (Trib. Brescia Sez. II, 27 ottobre 2003).
Il divieto di compensazione è espressamente sancito anche per le prestazioni arretrate.
Il principio, insomma, è quello dell’indisponibilità dell’obbligazione alimentare (e della conseguente inammissi¬bilità della rinuncia e della transazione) che viene ricostruito proprio sulla base delle regole sancite dall’art. 447.
Conseguenza della natura indisponibile è anche la imprescrittibilità del diritto alimentare (art. 2934, secondo comma c.c.) mentre si prescrivono in cinque anni le annualità scadute, a norma dell’art. 2948, n. 2).
Il credito alimentare (“gli assegni aventi carattere alimentare”: art. 46, n. 2, della legge fallimentare) è anche impignorabile, tranne che per causa di alimenti (art. 545 c.p.c. 7), e quindi insequestrabile (art. 671 c.p.c. 8).
XII
La cessazione dell’obbligo per morte della persona tenuta agli alimenti
L’obbligo degli alimenti cessa – stante la previsione dell’art. 448 – con la morte dell’obbligato, anche se la som¬ministrazione è avvenuta in esecuzione di una sentenza.
Si comprende quindi l’obbligazione alimentare ha natura è strettamente personale con la conseguenza che legittimato attivo è solo colui che si trova in stato di bisogno, o il suo rappresentante legale, e che è, quindi, in¬concepibile un’azione surrogatoria dei creditori dell’alimentando (T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, 4 luglio 2011, n. 1738)
Gli alimenti risulteranno dovuti fino al momento della morte, mentre il debito per gli alimenti arretrati graverà sugli eredi del debitore, e il credito per gli alimenti arretrati sarà a favore degli eredi del creditore.
Qualora la morte dell’obbligato sia imputabile a fatto doloso o colposo di un terzo, l’autore dell’illecito potrebbe essere tenuto a risarcire il danno subito dal creditore per la morte del suo debitore.
Alla morte va equiparata la morte presunta (art. 63). In caso invece di assenza la prestazione a favore dell’assente rimane temporaneamente sospesa (art. 50, quarto comma c.c.) e il coniuge dell’assente può ottenere dal tribu¬nale un assegno alimentare (art. 51 c.c.).
Un’altra causa di cessazione dell’obbligo alimentare è il fallimento del debitore. In tal caso il creditore potrà in¬sinuarsi al passivo per le rate scadute prima della dichiarazione di fallimento
La cessazione dell’obbligo alimentare costituisce poi – ai sensi del terzo comma dell’art. 609-novies c.p. – pena accessoria della sentenza irrevocabile di condanna per uno dei reati di violenza contro la persona indicati dagli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale.
XIII
Decadenza dalla responsabilità genitoriale: l’esclusione degli alimenti e della successione
La riforma sulla filiazione operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicem¬bre 2013, n. 154 ha inserito nel codice civile l’art. 448-bis (cessazione per decadenza dell’avente diritto dalla responsabilità genitoriale sui figli) in base al quale “Il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi non sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla responsabilità genitoriale”.
Il genitore decaduto dalla responsabilità genitoriale perde ogni potere inerente alla cura della persona del figlio e
6 Art. 1260 (Cedibilità dei crediti)
Il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge.
Le parti possono escludere la cedibilità del credito; ma il patto non è opponibile al cessionario, se non si prova che egli lo cono¬sceva al tempo della cessione.
7 Art. 545 (Crediti impignorabili)
Non possono essere pignorati i crediti alimentari, tranne che per cause di alimenti, e sempre con l’autorizzazione del presidente del tribunale o di un giudice da lui delegato e per la parte dal medesimo determinata mediante decreto…(omissis)
8 Art. 671 (Sequestro conservativo)
Il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento.
all’amministrazione del suo patrimonio, nonché la sua rappresentanza legale, l’usufrutto legale sui beni del figlio ed è indegno di succedere al figlio, qualora, alla data di apertura della sua successione, non sia stato in essa reintegrato (art. 463 n. 3-bis c.c.). In passato, tuttavia, il genitore decaduto conservava, nei confronti del figlio, e, in mancanza, dei suoi discendenti prossimi, il diritto agli alimenti, dovuti ai sensi dell’art. 433, n. 2.
a) L’esclusione degli alimenti
L’art. 448 bis, nella sua prima parte, esonera, in modo espresso, il figlio, e in mancanza, i suoi discendenti pros¬simi, dall’obbligo di prestare gli alimenti al genitore, nei cui confronti sia stata pronunziata la decadenza dalla responsabilità genitoriale.
La lettera della norma fa riferimento ad una decadenza «pronunciata», ma non vi sono motivi per non dare alla norma una interpretazione estensiva applicandola a tutti i casi di decadenza (per esempio, come si è detto, al¬lorché costituisce pena accessoria della sentenza irrevocabile di condanna per un reato di violenza sessuale).
La Corte Costituzionale ha escluso l’illegittimità dell’art. 448-bis, nella parte in cui non prevede che l’esonero dalla prestazione alimentare possa essere invocato dal figlio anche nei confronti del genitore che, pur non es¬sendo decaduto dalla responsabilità genitoriale, abbia nel passato tenuto una condotta trascurata nei suoi con¬fronti (Corte cost., 27 gennaio 2016, n. 34).
Naturalmente la reintegrazione nella responsabilità genitoriale avrà anche l’effetto di ripristinare il diritto del genitore agli alimenti.
b) L’esclusione dalla successione
L’art. 448-bis nella sua seconda parte aggiunge anche che i figli possono escludere dalla successione il genitore decaduto “per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’articolo 463” (che già di per sé prevedono l’esclusione dalla successione).
Il genitore che sia decaduto dalla responsabilità genitoriale, quindi, può essere escluso dalla successione del figlio quando la sua decadenza sia dovuta a fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’art. 463 9. Il rif¬erimento è al n. 3-bis) dell’art. 463, che contempla, quale causa di indegnità a succedere, la decadenza di uno dei genitori, o di entrambi, dalla responsabilità genitoriale, ma solo se pronunziata ex art. 330. Le altre ipotesi di decadenza dalla responsabilità genitoriale non comportavano fini ad oggi l’indegnità a succedere, essendo quest’ultima una sanzione civile e operando, quindi, il principio di tassatività, a tutela della persona. Il nuovo art. 448-bis, dunque, colma le lacune della normativa sull’indegnità, riconoscendo che, per i fatti diversi da quelli contemplati dall’art. 463, e, quindi, in particolare, per le ipotesi di decadenza dalla responsabilità genitoriale di¬verse da quelle pronunciate dal giudice ai sensi dell’art. 330, sia possibile l’esclusione della successione e quindi per esempio nei casi in cui la legge penale prevede la decadenza come pena accessoria.
In che modo il genitore decaduto dalla responsabilità genitoriale può essere escluso dalla successione del figlio? La legge tace sulle modalità con le quali l’esclusione possa essere attuata. Di fatto la nuova normativa concede al figlio la facoltà di diseredare il genitore, privandolo anche della quota di riserva con un testamento nel quale dichiara di escludere il genitore dalla propria successione.
La diseredazione, anche in questo caso, potrà essere disposta solo nei confronti del genitore che sia decaduto dalla responsabilità non per effetto di un provvedimento adottato dal giudice ex art 330 in quanto se la decaden¬za è fondata su quest’ultima norma, e non sia stata seguita da reintegrazione, il genitore è indegno di succedere al figlio (art. 463, n. 3-bis) e non si pone, allora, il problema della sua diseredazione.
XIV
Le differenze tra il mantenimento e gli alimenti
a) La natura in senso lato alimentare del mantenimento e le conseguenze
Gli alimenti ai quali fa riferimento il titolo XIII del primo libro del codice civile sono una prestazione diversa dal mantenimento cui fanno riferimento le norme in materia di separazione. Ne sono diversi i presupposti e i criteri di quantificazione. È lo stesso codice che indica le differenze tra le due forme di sostentamento: il mantenimento (che ha la funzione di consentire al coniuge debole di conservare lo stesso tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale) e gli alimenti (la cui funzione è quella di sostenere – ai sensi dell’art. 438 c.c. – “chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere da solo al proprio mantenimento”. Sono pertanto com¬

9 Art. 463 (Casi d’indegnità)
È escluso dalla successione come indegno:
1) chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente della medesima, purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale;
2) chi ha commesso, in danno di una di tali persone, un fatto al quale la legge dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio;
3) chi ha denunziato una di tali persone per reato punibile con l’ergastolo o con la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denunzia è stata dichiarata calunniosa in giudizio penale; ovvero ha testimoniato contro le persone me¬desime imputate dei predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata, nei confronti di lui, falsa in giudizio penale;
3-bis) Chi, essendo decaduto dalla responsabilità genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta a norma dell’articolo 330, non è stato reintegrato alla data di apertura della successione della medesima.
4) chi ha indotto con dolo o violenza la persona, della cui successione si tratta, a fare, revocare o mutare il testamento, o ne l’ha impedita;
5) chi ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata;
6) chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso.

Rinuncia tardiva all’eredità e debiti tributari del defunto

Cass. civ. Sez. V, 29 marzo 2017, n. 8053
SENTENZA
sul ricorso 9049-2011 proposto da:
C.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA VIA DI MONTE FIORE 22, presso lo studio dell’avvocato STEFANO GATTAMELATA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO NICOLA FORTUNATO giusta delega a margine;
– ricorrente – contro
AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE GENERALE CENTRALE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
MINISTERO ECONOMIA E FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO LOCALE DI TARANTO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 177/2010 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di TARANTO, depositata il 30/09/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/12/2016 dal Consigliere Dott. ANNA MARIA FASANO;
udito per la ricorrente l’Avvocato FORTUNATO che ha chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato PUCCIARIELLO che ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
C.G., parte alienante in un atto di compravendita registrato in data (OMISSIS), impugnava l’avviso di accertamento di valore innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Taranto, che respingeva il ricorso. Nelle more del giudizio C.G. decedeva. L’Ufficio emetteva avviso di liquidazione finalizzato al recupero dell’imposta complementare INVIM, susseguente al maggior valore finale accertato, derivante dalla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale passata in giudicato. C.M.G. impugnava l’avviso di liquidazione, deducendo il difetto motivazionale dell’atto e il difetto di legittimazione passiva, avendo rinunciato all’eredità. La Commissione Tributaria Provinciale, respingeva il ricorso. La contribuente proponeva appello che veniva rigettato dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia.
C.M.G. propone ricorso per cassazione, svolgendo tre motivi. Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, si censura la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 459, 470 e 476 c.c., nonché dell’art. 2697 c.c., in quanto il giudice di appello è incorso in error in iudicando, laddove afferma, apoditticamente, che “la ricorrente era parte attiva, in qualità di erede, nella dichiarazione di successione presentata in data (OMISSIS) e, proprio in relazione a tale atto a causa di morte, risulta, unitamente agli eredi, proprietaria di un immobile…”. Con il secondo motivo di ricorso, si censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma, n. 5, per omessa e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in quanto il giudice di appello avrebbe confuso il semplice chiamato all’eredità con l’erede, omettendo di valutare le prove documentali prodotte dalla ricorrente.
Con il terzo motivo di ricorso, si censura la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 346 del 1990, e dell’art. 2648 c.c., in quanto il giudice di appello avrebbe erroneamente affermato che l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sarebbe priva di fondamento, anche in ragione del fatto che la rinuncia all’eredità, successiva alla pretesa erariale, si presenta del tutto irrilevante ai fini fiscali se non fatta seguire da denuncia rettificativa e/o modificativa da presentarsi al competente ufficio finanziario con le modalità previste del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 28, comma 6.
3. I motivi di ricorso possono essere esaminati in una prospettiva unitaria perché gli stessi convergono in un’unica sostanziale censura della sentenza impugnata, in ordine alla questione se possa assumere valore la semplice denuncia di successione ai fini dell’accettazione dell’eredità, e se si sia del tutto irrilevante ai fini fiscali la rinuncia all’eredità tardivamente proposta, non seguita da denuncia di successione rettificativa e/o modificativa con le modalità previste dal D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 28, comma 6.
3.1. I motivi di ricorso sono fondati.
L’assunzione della qualità di erede non può certamente desumersi dalla mera chiamata all’eredità, né dalla denuncia di successione trattandosi di un atto di natura meramente fiscale (Cass. Sez. 2, n. 10729 del 2009) che non ha rilievo ai fini dell’assunzione della qualità di erede che consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio quale successore del de cuius (Cass. n. 6479 del 2002, Cass. n. 2849 del 1992).
In ipotesi di debiti del de cuius di natura tributaria, pertanto, l’accettazione dell’eredità è una condizione imprescindibile affinché possa affermarsi l’obbligazione del chiamato all’eredità a risponderne. Non può ritenersi obbligato chi abbia rinunciato all’eredità, ai sensi dell’art. 519 c.c..
Premesso ciò, la questione che viene in discussione nel giudizio de quo è il valore da attribuire, con riferimento ai debiti di natura tributaria del de cuius, nel contesto delle formalità di cui all’art. 519 c.c., all’atto di rinuncia all’eredità effettuato tardivamente e senza provvedere alle modalità previste dal D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 28, comma 6.
3.2. Nella specie, dopo il decesso di C.G., avvenuto in data (OMISSIS), la ricorrente provvedeva tardivamente a rinunciare all’eredità, oltre il termine stabilito dal T.U. n. 346 del 1990, art. 36 ossia in data 18.4.2005, quando in data (OMISSIS) era stata presentata presso l’Ufficio del Registro una dichiarazione di successione in cui, tra gli eredi, era stata indicata anche C.M.G..
L’Ufficio controricorrente deduce che la rinuncia all’eredità è di per sé irrilevante ai fini fiscali, se non è seguita da una denuncia di successione rettificativa e/o modificativa da presentarsi al competente ufficio finanziario con le modalità del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 28, comma 6.
Orbene, ritiene questa Corte, che, tenuto conto che l’accettazione dell’eredità è il presupposto perché si possa rispondere dei debiti ereditari, una eventuale rinuncia, anche se tardivamente proposta, esclude che possa essere chiamato a rispondere dei debiti tributari il rinunciatario, sempre che egli non abbia posto in essere comportamenti dai quali desumere una accettazione implicita dell’eredità (art. 476 c.c.), ma della relativa prova l’Amministrazione finanziaria è parte processualmente onerata.
Nella specie, la dichiarazione di rinuncia è stata proposta in data 18.4.2005, decorso il termine di dieci anni per accettare l’eredità (art. 480 c.c.), dovendosi ritenere in concreto del tutto inutile, in quanto riguardava un’eredità rispetto alla quale il diritto ad accettare si era ormai prescritto. Invero, la giustificazione causale dell’atto di rinunzia tardiva si è espressa nell’interesse della rinunziante a stabilizzare e chiarire la sua condizione e volontà di “non essere erede”.
Ai sensi dell’art. 521 c.c., la rinuncia ha effetto retroattivo, pertanto, chi rinuncia all’eredità è considerato come se non fosse stato mai chiamato. Il principio è analogo a quello che vale in tema di accettazione (art. 459 c.c.), e ne condivide la medesima funzione: l’erede succede al de cuius senza soluzione di continuità.
3.3. Sulla base dei rilievi espressi, ritenuto che, come sopra precisato, la denuncia di successione non ha alcun rilievo ai fini dell’accettazione dell’eredità, e quindi con riferimento all’assunzione della qualità di erede, le formalità stabilite ai sensi del D.P.R. n. 360 del 1990, art. 28, comma 6 non possono essere considerate essenziali per l’esistenza di una valida rinuncia, ma hanno la funzione di mera “pubblicità notizia”, dovendosi negare alle stesse natura costitutiva o integrativa dell’atto di dismissione di un diritto, oltre che a costituire requisito necessario per la validità della rinuncia stessa nei confronti del Fisco.
3.4. Nondimeno, un atto di rinuncia tardivo, effettuato senza le formalità stabilite dalla legge perché sia opponibile all’Amministrazione finanziaria, determina la conseguenza che quest’ultima è legittimata a notificare al contribuente rinunciatario gli atti impositivi, e costui è tenuto a costituirsi in giudizio per far valere il proprio difetto di legittimazione passiva, e quindi la sua estraneità ai debiti tributari del de cuius. Mentre l’Amministrazione finanziaria, se vuole far valere la pretesa fiscale, è onerata della prova che il contribuente è decaduto dal diritto di esercitare una valida rinuncia, ad esempio per aver posto in essere atti incompatibili con la volontà di rinunciare che siano concludenti e significativi della volontà di accettare l’eredità. Onere processuale a cui, nella specie, l’Agenzia delle Entrate non ha ottemperato.
4. Sulla base dei rilievi espressi, il ricorso va dunque accolto e l’impugnata sentenza cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con conseguente accoglimento del ricorso originario della contribuente.
Tenuto conto della novità della questione e della peculiarità del caso, si ravvisano giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario proposto dalla contribuente. Compensa integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.
.

La riduzione dell’assegno di separazione decorre dalla data della pronuncia che ne modifica l’importo non essendo ripetibile il maggior importo precedentemente corrisposto

Cass. civ. Sez. VI – 1, 6 giugno 2017, n. 14027
ORDINANZA
sul ricorso 27036-2014 proposto da:
V.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, via Salaria n.290 presso lo studio dell’avvocato Carlo Di Marcantonio che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VAL PASSIRIA 23, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI ANASTASIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO MATTIANGELI;
– controricorrente –
nonchè V.M., domiciliata presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI POLVANI;
– intervenuta –
avverso la sentenza n. 5060/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/07/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/03/2017 dal Consigliere Dott. ANDREA SCALDAFERRI. La Corte:
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che, con sentenza numero 5060 del 2014, la Corte di appello di Roma ha parzialmente accolto il gravame proposto da G.G. avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Roma aveva determinato la misura dell’assegno mensile di mantenimento dovuto in favore dell’ex coniuge V.M.L., riducendolo a 2.000,00 Euro mensili con decorrenza da ottobre 2005;
che avverso tale pronuncia, V.M.L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a un motivo, con il quale deduce la violazione di legge con riguardo alla decorrenza della riduzione dell’assegno, che sostiene erroneamente collocata alla data della domanda di modificazione delle condizioni di separazione;
che G.G. ha resistito con controricorso;
che, fissata con decreto del 14 febbraio 2017 l’adunanza in camera di consiglio non partecipata ex art. 380 bis cod. proc. civ., con comparsa datata 27 febbraio 2017 V.M., nella dichiarata qualità di erede testamentaria con beneficio di inventario della sorella M.L. deceduta il (OMISSIS), come da documentazione allegata, ha inteso costituirsi nel presente giudizio in prosecuzione;
ritenuto, quanto a tale profilo preliminare, che, alla stregua dell’orientamento affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sentenza n.9692 del 22/04/2013), l’atto di intervento del successore universale nel giudizio di cassazione doveva essere notificato, insieme con la documentazione allegata a dimostrazione della sopravvenuta morte della ricorrente e della qualità di erede della interveniente, al controricorrente ex art. 372 cod. proc. civ. onde assicurare il contraddittorio sulla sopravvenuta innovazione soggettiva, non essendo sufficiente il semplice deposito nella Cancelleria della Corte, cui ha fatto nella specie ricorso l’erede: sì che, non essendo peraltro possibile nel procedimento regolato dal nuovo art. 380 bis (come modificato dal D.L. n. 168 del 2016 convertito in L. n. 197 del 2016) la sanatoria per mancata contestazione della controparte in sede di discussione orale (cfr. S.U. n.9692/13 cit.), l’intervento deve ritenersi inammissibile, restando comunque priva di rilievo nel presente giudizio di cassazione la sopravvenuta morte di una delle parti (da ultimo Cass. n. 1757/16);
ritenuto nel merito che il ricorso merita accoglimento, in continuità con l’orientamento secondo il quale, in tema di separazione personale, la riduzione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge decorre dal momento della pronuncia giudiziale che ne modifica la misura, non essendo rimborsabile quanto percepito dal titolare di alimenti o di mantenimento (cfr. tra le altre: Cass. n. 15186/15; n.28987/08);
che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, stabilendo che la nuova misura dell’assegno di mantenimento determinata nella sentenza impugnata decorre dalla data (25 luglio 2014) di deposito della sentenza stessa;
che, quanto alle spese del giudizio – da compensarsi nel rapporto tra il controricorrente e l’interveniente essendo stata rilevata d’ufficio la inammissibilità dell’intervento -, l’accoglimento del ricorso non giustifica, da un lato, una modificazione della compensazione delle spese dei due gradi di merito come disposta dalla sentenza di appello, dall’altro comporta la condanna del G., soccombente in questa sede, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo, escluso il raddoppio del contributo a carico del ricorrente previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
dichiarato inammissibile l’atto di intervento nel presente processo di V.M., accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, stabilisce che l’importo dell’assegno mensile determinato dalla impugnata sentenza n.5060/2014 della Corte d’appello di Roma decorre dal 25 luglio 2014, data di deposito della sentenza stessa; condanna altresì G.G. al rimborso in favore della ricorrente V.M.L. delle spese di questo giudizio di cassazione, in Euro 4.100,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi), oltre spese generali forfetarie e accessori di legge, fermo restando il regolamento delle spese dei due gradi di merito disposto dalla sentenza di appello qui impugnata; compensa le spese tra l’interveniente e il controricorrente.

La trascrizione del cognome di entrambe le madri (biologica e sociale) non è contraria all’ordine pubblico

Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2017, n. 14878
SENTENZA
sul ricorso 429-2016 proposto da:
S.F., M.R., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA FRANCESCO DENZA 15, presso l’avvocato SUSANNA LOLLINI, che le rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI VENEZIA;
– intimato –
avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 19/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/10/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO DOGLIOTTI;
udito, per le ricorrenti, l’Avvocato SUSANNA LOLLINI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; in subordine invio degli atti alle Sezioni Unite; in ulteriore subordine.
Svolgimento del processo
Con ricorso in data 5-11-2014, S.F. e M.R., cittadine italiane, residenti e coniugate all’estero, chiedevano, ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 95 e segg., al Tribunale di Venezia la “rettificazione” (o sostituzione) dell’atto di nascita del minore S.E., figlio di S.F. (a seguito di fecondazione assistita), emesso dall’Ufficio dello stato civile britannico di (OMISSIS), trascritto nei registri dello stato civile del Comune di Venezia.
Il predetto Ufficio britannico, come precisavano le ricorrenti, aveva successivamente chiarito che la registrazione del minore, come figlio della sola S., era da considerarsi invalida, dovendo il nato essere registrato anche come figlio della M., di cui assumeva il cognome, pur non avendo essa alcun rapporto biologico con lui.
L’ufficiale dello stato civile di Venezia aveva rifiutato la rettificazione (la sostituzione) dell’atto.
Il Tribunale di Venezia, con decreto in data 6/7/2015, rigettava la domanda, sostenendo che la richiesta “rettificazione” era contraria all’ordine pubblico italiano.
Le odierne ricorrenti proponevano reclamo alla Corte di Appello di Venezia.
La Corte, con provvedimento in data 19/10/2015, rigettava il reclamo. Essa richiamava il D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, per cui gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se contrari all’ordine pubblico, nonchè la L. n. 218 del 1995, art. 16, per cui la legge straniera non è applicabile se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico.
Affermava ancora la Corte che la questione relativa alla trascrizione richiesta non costituiva una mera “rettificazione”, ma atteneva necessariamente alla validità in Italia del matrimonio tra persone dello stesso sesso, e che la giurisprudenza italiana di legittimità era “granitica” nell’individuare, nella diversità di sesso tra i nubendi, un requisito indispensabile per l’esistenza del matrimonio civile. Ammetteva che in alcuni Stati Europei era stato introdotto il riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso, e addirittura il matrimonio tra esse, e precisava che la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, all’art. 9, garantisce il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia, ma ciò deve avvenire secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.
Concludeva affermando che, mancando a livello Europeo ed extraeuropeo una disciplina sostanziale comune e cogente delle unioni dello stesso sesso, non si poteva prescindere dall’esaminare la corrispondenza dei modelli normativi liberamente scelti dai vari Stati, essendo inammissibile il riconoscimento di nuove realtà di tipo familiare, che devono trovare ingresso nella sede e nelle forme istituzionali proprie.
Ricorrono per cassazione S. e M. che pure depositano memoria difensiva.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 112 c.p.c., censurando l’affermazione del giudice a quo circa l’esistenza di una questione, sottesa alla loro domanda di rettificazione (o sostituzione) dell’atto di nascita di S.E., attinente al loro matrimonio, osservando che esse non hanno chiesto la trascrizione del matrimonio stesso, celebrato all’estero, nè che ne vengano riconosciuti gli effetti in Italia. Aggiungono che la Corte di merito nulla ha precisato sull’eventuale contrarietà all’ordine pubblico dell’atto di nascita di un minore, indicante due genitori dello stesso sesso.
Con il secondo motivo, le ricorrenti lamentano violazione dell’art. 360 c.c., n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. Richiamano il preminente interesse del minore, da valutarsi alla luce della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo nonchè del Regolamento CE n. 2201 del 2003, e precisano che la trascrizione del nuovo atto di nascita del minore gli garantirebbe il pieno diritto all’identità personale e al suo status di figlio di una coppia di genitori, indipendentemente dal fatto che siano di sesso diverso o di sesso uguale. Secondo le ricorrenti, il diniego di trascrizione sarebbe incompatibile con il diritto comunitario e costituirebbe violazione della vita privata e familiare del minore oltre che delle stesse ricorrenti. Esse sottolineano il principio della conservazione degli stati familiari costituiti all’estero, e si riferiscono a varie sentenze della Corte EDU e ad alcuni precedenti della giurisprudenza di questa Corte.
Nell’odierna udienza di discussione il Procuratore Generale ha chiesto in via preliminare la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte, perchè attinente ad una questione di particolare importanza. Va ribadito quanto già osservato da questa Corte (che costituisce orientamento consolidato e condiviso) (tra le altre, Cass. N. 359 del 2003, 8016 del 2012, 19599 del 2016): l’istanza volta all’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, che non è soggetto ad obbligo di motivazione. Va comunque precisato che la funzione nomofilattica è attribuita anche alle sezioni semplici di questa Corte nè può certo ritenersi che tutte le questioni relative a diritti fondamentali, per le quali non esista un orientamento consolidato o su cui questa Corte non si sia ancora pronunciata, debbano essere oggetto di esame da parte delle Sezioni Unite.
Il ricorso è sicuramente ammissibile, ai sensi dell’art. 111 Cost., ancorchè avverso un’ordinanza emessa dalla Corte di Appello, su reclamo, in materia di volontaria giurisdizione.
Per giurisprudenza costante, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, il termine “sentenza”, non va inteso nel significato proprio di provvedimento emesso nelle forme e sui presupposti di cui agli artt. 132 e 279 c.p.c., ma, va interpretato estensivamente, così da ricomprendervi tutti i provvedimenti giurisdizionali, anche se emessi sotto forma di ordinanza o decreto, ove essi siano decisori, incidenti su diritti soggettivi e con piena attitudine a produrre effetti definitivi di diritto sostanziale o processuale (tra le altre, Cass. N. 184 del 2003; S.U. n. 9042 del 2008; n. 11218 del 2013).
Nel caso di specie è indubbia l’incidenza su diritti soggettivi (nella specie, attinenti allo status delle persone e alla loro identità personale), così come il carattere decisorio e definitivo del provvedimento assunto dalla Corte di Appello, contro cui non è previsto alcun rimedio specifico se non il presente ricorso.
Venendo all’esame dei due motivi di ricorso, che possono trattarsi congiuntamente, va osservato che la richiesta rettificazione (sostituzione) dell’atto di nascita del minore (già trascritto in Italia), come figlio delle ricorrenti, nonostante esse non abbiano chiesto la trascrizione del loro atto di matrimonio, presuppone, seppur incidentalmente, un esame circa la contrarietà o meno all’ordine pubblico del matrimonio o di una forma di convivenza legale tra di loro. E’ pur vero che, come sottolinea l’impugnativa in esame, il giudice a quo erra, affermando che il matrimonio tra persone dello stesso sesso, pronunciato all’estero, è da considerarsi inesistente nel nostro ordinamento. Al contrario, questa Corte (Cass. N. 4184 del 2012) ha evidenziato che esso non può considerarsi inesistente, ma soltanto inefficace.
Tuttavia il provvedimento impugnato e lo stesso ricorso in esame scontano l’assenza in Italia, all’epoca, di una normativa sulle coppie dello stesso sesso, introdotta, come è noto, dalla L. 20 maggio 2016, n. 76, nonchè di alcune pronunce di questa Corte, assai rilevanti, e che questo Collegio pienamente condivide (Cass. 12962 del 2016; Cass. N. 19599 del 2016).
La disciplina italiana dell’unione civile tra coppie omosessuali è molto simile (anche se non mancano significative differenze) a quella del matrimonio, dall’atto al rapporto, dal regime della nullità al contenuto degli obblighi nascenti dall’unione, dai rapporti patrimoniali alle vicende dello scioglimento, ai rapporti successori,…e si delega il Governo ad adottare un Decreto Legislativo per applicare la disciplina dell’Unione Civile alle persone dello stesso sesso che abbiano contratto matrimonio all’estero (un decreto ha successivamente chiarito e specificato tale previsione).
Si precisa, al comma 20 dell’art. 1, che le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e quelle che contengono le parole “coniuge, coniugi” o termini equivalenti in qualsiasi fonte normativa (anche nei regolamenti, negli atti amministrativi e nei contratti collettivi) si applicano a ognuna delle parti dell’unione civile, ma non le norme del codice civile, al di là di quelle espressamente indicate dalla legge in esame, e neppure quelle della L. n. 184 del 1983 (affidamento e adozione). Si aggiunge peraltro che “resta fermo quanto previsto e consentito dalle norme vigenti in materia di adozione”. Non si potranno dunque disporre adozioni piene e neppure adozioni in casi particolari ex art. 44 L. n. 184, quanto alla lettera b): adozione del figlio del coniuge. Resta aperta una via già praticata da alcune pronunce di merito che avevano applicato la lettera d) dell’art. 44: impossibilità di affidamento preadottivo, secondo un’interpretazione estensiva, che attiene pure all’impossibilità giuridica, oltre a quella di fatto (ove ad esempio non vi siano adottanti disponibili), e può prescindere dunque dall’abbandono.
Tale interpretazione ha trovato, dopo la L. n. 76, sicuro avallo in una recente pronuncia di questa Corte, già ricordata (Cass. N. 12962 del 2016).
Nella specie, due donne, legate da una relazione sentimentale di convivenza, decidono di avere un figlio, ricorrendo in Spagna alla fecondazione assistita di una di esse (con seme di donatore anonimo). Nasce una bambina che instaura un profondo legame affettivo con entrambe. La compagna della madre chiede di poter adottare la bambina ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d). Questa Corte privilegia appunto l’interpretazione estensiva della predetta norma, alla luce del quadro costituzionale e convenzionale ed in particolare dei principi affermati dalla Corte EDU in ordine al reale interesse del minore.
Ancor più rilevante, per il caso in esame, altra recente decisione, anch’essa già ricordata (Cass. N. 19599 del 2016). Due donne, una spagnola e l’altra italiana, si sposano in Spagna; per realizzare il loro progetto familiare, una di esse mette a disposizione un proprio ovulo che, fecondato con gamete di donatore anonimo, viene impiantato nell’utero dell’altra. Nasce in Spagna un bambino che, nell’atto relativo, viene indicato come figlio di entrambe. Interviene il divorzio tra di esse e l’ufficiale di stato civile italiano rifiuta la trascrizione dell’atto di nascita straniero, in quanto contrario all’ordine pubblico. Questa Corte conferma la pronuncia, favorevole alla trascrizione, della Corte di Appello.
Vengono enucleati espressamente vari principi di diritto: l’ordine pubblico, la cui contrarietà impedisce la trascrizione in Italia di atti dello stato civile formati all’estero, D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 18, attiene ad “esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonchè dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo; la trascrizione in Italia di un atto di stato civile validamente formato all’estero, nel quale risulti la nascita del figlio da due madri non contrasta con l’ordine pubblico (nell’accezione anzidetta), per il fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti tale fattispecie; la donazione di un ovulo da una donna alla propria partner, che partorisce grazie al gamete di maschio anonimo, realizza una fattispecie differente dalla maternità surrogata, trattandosi di “una tecnica fecondativa simile ad una fecondazione eterologa (..) in virtù dell’apporto genetico di un terzo (ignoto)”; il disposto di cui all’art. 269 c.c. (per cui madre è colei che partorisce) non impedisce il riconoscimento in Italia di un atto di nascita estero, in cui il nato risulti figlio di due madri (quella che ha partorito e quella genetica): la norma non introduce un principio di ordine pubblico, alla luce del preminente interesse del minore, e considerando che essa attiene piuttosto alla prova della filiazione.
Più in generale, si potrebbe osservare che, anche in passato, frequentemente non vi è stata esatta coincidenza tra verità biologica e legale, in relazione all’interesse perseguito dal legislatore (si pensi al divieto per il padre, fino alla riforma del 1975, di riconoscere il figlio, nato fuori del matrimonio, a preminente tutela del matrimonio stesso e della prole nata al suo interno). Tornando al provvedimento impugnato, il giudice a quo richiama il D.P.R. n. 396 del 2000, art. 17, ove si precisa che gli atti formati all’estero non possono essere trascritti, se contrari all’ordine pubblico, nonchè la L. n. 218 del 1995, art. 16 per cui parimenti la legge straniera non si applica, se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico.
Quanto alla nozione di ordine pubblico, si distingue correntemente tra ordine pubblico internazionale e interno, costituendo il primo un limite all’applicazione del diritto straniero, il secondo, un limite all’autonomia privata, indicato dalle norme imperative di diritto interno.
Al riguardo si è pronunciata ripetutamente questa Corte (tra le altre, Cass. N. 17349 del 2002, Cass. S.U. n. 19809 del 2008), per cui quello richiamato dall’art. 16 L. 218 del 1995 (e, necessariamente, pure dall’art. 18 D.P.R. n. 396) non è l’ordine pubblico interno, bensì l’ordine pubblico internazionale, costituito “dai principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico: dunque in oggi il complesso di principi a carattere generale, intesi alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, spesso sanciti da dichiarazioni o convenzioni internazionali”.
Il giudice italiano deve dunque esaminare la contrarietà all’ordine pubblico internazionale dell’atto estero, con riferimento ai principi della nostra Costituzione, ma pure, tra l’altro, alla Dichiarazione ONU dei Diritti dell’Uomo, alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ai Trattati Fondativi e alla Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea e, con particolare riferimento alla posizione del minore e al suo interesse, alla Dichiarazione ONU dei diritti del Fanciullo, alla Convenzione ONU dei Diritti del Fanciullo, alla Convenzione Europea di Strasburgo sui diritti processuali del minore.
Quanto ai diritti delle coppie di egual sesso, vanno ricordati, in particolare, l’art. 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, predetta, circa il diritto di sposarsi e formare una famiglia, nonchè gli artt. 8 e l’art. 14, riguardo al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso e su ogni altra condizione.
Va pure richiamata la Carta Europea dei diritti fondamentali (all’origine Carta di Nizza del 2000): l’art. 9 sancisce il diritto, per ogni individuo, di sposarsi e costituire una famiglia, garantito dalle leggi dei singoli Stati; l’art. 21 vieta le discriminazioni:non solo quella del sesso (e si intende in genere la discriminazione della donna rispetto all’uomo), ma anche per “orientamento sessuale”.
Relativamente alla nostra Costituzione, può ricordarsi il principio di uguaglianza, indipendentemente dal sesso (e dunque anche dall’orientamento sessuale) (art. 3) e la protezione dei diritti fondamentali nelle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo (art. 2) (e tra esse possono sicuramente annoverarsi tipologie familiari, diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio, garantita dall’art. 29). E, ancora, l’impegno ad eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana, riguardante ogni individuo, in particolare quelli soggetti a discriminazione tra cui storicamente possono considerarsi le coppie omosessuali (art. 3).
Quanto al preminente interesse del minore, nella Dichiarazione ONU dei diritti del Fanciullo, si afferma che questi deve godere di una particolare protezione così da svilupparsi in modo sano e normale, fisicamente, intellettualmente, moralmente, spiritualmente e socialmente, in condizioni di libertà e dignità (art. 2), che ha diritto al nome e ad una nazionalità (art. 3); all’affetto e alla comprensione, possibilmente nell’ambito della sua famiglia (art. 6); all’educazione, così da sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale, il suo senso di responsabilità morale e sociale (art. 7).
La Convenzione ONU sui diritti del Fanciullo costituisce un vero e proprio statuto dei suoi diritti. Si inizia con la solenne affermazione (art. 2) del principio di uguaglianza tra minore e minore contro qualsiasi discriminazione, e con l’altra rilevantissima affermazione della preminente tutela del suo interesse. Segue l’enunciazione dei diritti del minore nei più diversi settori: in particolare alla vita, al nome, alla nazionalità, alle relazioni familiari, alla identità personale, all’educazione da parte dei genitori, ove possibile.
Nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea si indicano i diritti dei minori alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere; ad intrattenere regolarmente relazioni e contatti diretti con i genitori salvo che ciò appaia contraria al loro interesse (art. 24). Ovviamente il diritto alla protezione e al rispetto della dignità umana e alla propria vita privata e familiare vale per qualsiasi individuo, e massimamente proprio per il minore, che si trova nella fase delicata dello sviluppo psicofisico e della formazione graduale di una personalità compiuta.
Va ancora ricordato che l’art. 23 Reg. C.E. n. 2201 del 2003 stabilisce espressamente che la valutazione dell’ordine pubblico deve effettuarsi, tenendo conto del preminente interesse del minore.
Relativamente alla nostra Costituzione, si può richiamare il diritto del minore ad essere mantenuto, istruito, educato dai propri genitori, ma, nel caso di loro incapacità la legge provvede a che siano assolti i loro compiti; la garanzia di ogni tutela giuridico-sociale dei figli nati fuori dal matrimonio (e le riforme del 2012-2013 hanno delineato un unico status per i figli nati dentro e fuori del matrimonio, dopo che quella del 1975 aveva eliminato alcune gravi discriminazioni). Allo stesso modo la protezione dei diritti fondamentali dell’individuo nelle formazioni sociali in cui si svolge la personalità e l’impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana, sembrano attagliarsi particolarmente al minore, per il quale lo sviluppo della personalità è caratteristico dato biologico.
Ma, al fine di valutare il contenuto dell’ordine pubblico internazionale, almeno per quanto attiene agli Stati componenti del Consiglio d’Europa, è sicuramente rilevantissima la giurisprudenza della Corte EDU, interpretativa della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (al riguardo, Corte Cost. n. 317 del 2009).
Quanto alla posizione di coppie dello stesso sesso, la Corte EDU (di cui si richiamano alcune pronunce, a puro titolo esemplificativo), ha affermato che il diritto di sposarsi non deve limitarsi a persone dello stesso sesso (pur precisando che la materia è di competenza dei singoli Stati, i quali però devono permettere che le coppie omosessuali possano godere di una vita familiare), (Corte EDU 24/6/2010, ricorso n. 30141/04); ha sanzionato le scelte del legislatore (nella specie, greco) che aveva previsto unioni registrate alternative al matrimonio, escludendo coppie omosessuali (Corte EDU 7/11/2013, ricorsi n. 29381/09; 326884/09), ha condannato l’Italia per non materia di coppie omossessuali, affermando che tale omissione, ripetuta nel tempo, comporta una violazione degli artt. 8 e 14 della CEDU (Corte EDU 21/7/2015, ricorsi nn. 18766/11, 36030/11).
Quanto alla posizione del minore, ripetutamente la Corte EDU è intervenuta, affermando la preminenza del suo interesse, da valutarsi in concreto, nonchè il suo diritto al riconoscimento ed alla continuità delle relazioni affettive, anche in assenza di vincoli biologici ed adottivi con gli adulti di riferimento, all’interno del nucleo familiare. (Con riguardo al principio della prevalenza del superiore interesse del minore, tra le altre, ancora a titolo esemplificativo: Corte EDU, 13/6/1979, M. v. Belgio; 26/5/1994, K. v. Irlanda; 27/4/2010, M. e B. v. Italia; 27/1/2015, P. e C. v. Italia, ove espressamente si afferma che l’esigenza di tutelare l’ordine pubblico non può utilizzarsi in modo automatico senza prendere in considerazione l’interesse del minore e la relazione genitoriale, indipendentemente dal legame genetico (la pronuncia è stata riformata dalla Grande Chambre, con sentenza del 24/1/2017, che peraltro non ha modificato il principio suindicato); 26/6/2014, M v. Francia, che ha condannato la Francia per aver negato la trascrizione di un atto di nascita formato all’estero, in violazione della normativa interna che vieta la surrogazione di maternità.
Nella specie, come chiariscono le ricorrenti, la nascita del bambino costituì un progetto condiviso della coppia, espressione di affetto e solidarietà reciproca.
Nella sentenza di questa Corte n. 19599 del 2016, che costituisce il naturale precedente di questa (pur essendo le fattispecie dedotte, come si è visto, parzialmente diverse), si afferma che la donazione di ovulo fecondato alla partner che partorisce, non si configura come maternità surrogata, ma piuttosto come una situazione analoga alla fecondazione eterologa.
Come è noto, la L. n. 40 del 2004 aveva originariamente escluso la procreazione mediante fecondazione eterologa (con seme diverso da quello del marito o del partner). La Corte Costituzionale, con sentenza n. 162 del 2014, ha dichiarato illegittima la previsione, ammettendo quindi a tutti gli effetti tale tipo di procreazione assistita. Ma già erano previsti, all’art. 9, gli effetti della fecondazione eterologa, ancorchè all’epoca vietata, che dunque sono stati confermati e rafforzati dall’intervento della Consulta.
L’art. 9 precisa che, in caso di tecnica eterologa, il donatore non acquisisce relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere diritti o essere titolare di obblighi nei suoi confronti; il coniuge o il convivente il cui consenso alla tecnica sia ricavabile da atti concludenti, non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nè impugnare il riconoscimento. E’ vero che la L. n. 40 prevede che i conviventi siano di sesso diverso e che la procreazione assistita si effettui solo in caso di sterilità della coppia.
Tuttavia, trattandosi di fattispecie effettuata e perfezionata all’estero e certificata dall’atto di stato civile di uno Stato straniero, si deve necessariamente affermare, per quanto si è andato finora osservando, che la trascrizione richiesta non è contraria all’ordine pubblico (internazionale).
Conclusivamente il ricorso va accolto e cassata l’ordinanza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, può decidersi nel merito, con l’accoglimento della domanda proposta dalle ricorrenti di “rettificazione” dell’atto di nascita del minore, già trascritto nei registri dello stato civile di Venezia, come modificato rispetto a quello orginario dall’Ufficio dello stato civile britannico di (OMISSIS).
Non si fa luogo a pronuncia sulle spese.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa l’ordinanza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie la domanda proposta dalle odierne ricorrenti.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 26 ottobre 2017.

Il retratto successorio si estende all’impresa familiare senza il limite dell’ “estraneità” del terzo acquirente

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 aprile 2017, n. 10147
SENTENZA
sul ricorso 6831-2011 proposto da:
BAGNI SELIN DI G.R. S.A.S., P.I. (OMISSIS), in persona del socio accomandatario e legale rappresentante G.R., G.R. C.F. (OMISSIS), in proprio e in qualità di erede di G.G., G.C. C.F. (OMISSIS), B.T. C.F. (OMISSIS), quali eredi di G.G. e in qualità di soci accomandanti della BAGNI SELIN DI G.R. S.A.S. elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 14 A-4, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE PAFUNDI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE FARRAUTO, giusta delega in atti;
– ricorrenti –
contro
G.P. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 55, presso lo studio dell’avvocato CAMILLO GRILLO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 738/2010 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 15/12/2010 R.G.N. 609/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/12/2016 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;
udito l’Avvocato PAFUNDI GABRIELE;
udito l’Avvocato GRILLO CAMILLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 15 dicembre 2010 la Corte di Appello di Genova, in riforma delle pronunce di primo grado, ha accertato che “tra G.P. e G.G. è intercorsa impresa familiare dall'(OMISSIS) al (OMISSIS)”, con conseguente “inefficacia del trasferimento a terzi dell'(OMISSIS) dello stabilimento (OMISSIS)” e declaratoria del “diritto di G.P. allo stabilimento medesimo previa dazione di Euro 5.700,00 ai convenuti”.
Per quanto qui ancora interessa la Corte territoriale ha accertato, sulla base delle deposizioni testimoniali acquisite, la sussistenza di una impresa familiare per la gestione dell’indicato stabilimento balneare tra G.P. ed il padre G., con la partecipazione minoritaria del fratello R. e della madre B.T., senza che ciò potesse essere escluso dal fatto che il padre avesse assicurato il figlio come collaboratore, trattandosi di adempimento dell’obbligo contributivo gravante in forza della disposizione di cui alla L. n. 613 del 1966, art. 1.
Inoltre ha ritenuto che, alla data del 10 aprile 2006 in cui G.G. aveva conferito l’azienda alla neo costituita Sas Bagni Selin, di cui assumeva la carica di accomandatario, il figlio P. non era stato messo nelle condizioni di esercitare il diritto di prelazione, avendo avuto conoscenza del conferimento contestualmente all’atto traslativo.
Indi la Corte, equiparando quanto agli effetti la mancata concessione dello spatium deliberandi di due mesi all’omesso avviso di cui all’art. 732 c.c., richiamato dall’art. 230 bis c.c., ha riconosciuto il diritto di riscatto di G.P. esercitato con la proposizione del ricorso in primo grado in data 21.11.2006; per altro verso, anche a non voler riconoscere tale equiparazione, ha ritenuto errata la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato la decadenza del diritto di prelazione del G. senza che i convenuti onerati avessero svolto tempestiva eccezione.
2. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso la Bagni Selin sas di G.R. e gli altri epigrafati soccombenti con 7 motivi. Ha resistito con controricorso G.P..
Le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., in relazione agli artt. 1362 e ss. c.c., per non avere la sentenza impugnata considerato il fatto che il G.G. aveva continuato negli anni ad essere titolare della propria impresa individuale ed il figlio P. ad essere un mero coadiutore e che ciò era determinante ai fini della configurabilità del “diverso rapporto” espressamente fatto salvo dalla disposizione codicistica citata.
Con il secondo motivo si denuncia omessa e/o insufficiente motivazione riguardante la configurazione presunta dell’impresa familiare ad opera della Corte territoriale, mentre avrebbe dovuto dare “preponderante valutazione all’inquadramento dato dalle parti ai loro rapporti contrattuali”.
I motivi, congiuntamente esaminabili per connessione in quanto investono la sentenza impugnata nella parte in cui ha accertato l’esistenza di una impresa familiare, non risultano meritevoli di accoglimento.
Invero la Corte di Appello ha fondato il suo convincimento circa l’esistenza dell’impresa familiare su elementi di fatto complessivamente e congruamente valutati, altresì motivatamente escludendo la significatività del pagamento di contributi ritenuto effettuato a fini evidentemente previdenziali.
Come noto al giudice di legittimità non è conferito il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estraneo al sindacato di legittimità procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie.
Per conseguenza, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima a mente della formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, pro tempore vigente, anche laddove assuma la veste solo formale della violazione e falsa applicazione di legge, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibili tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; al contempo deve osservarsi che il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza – nonché di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti – spetta in via esclusiva al giudice del merito; ne deriva che le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata. Infine va considerato che, affinché la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.
Nel caso in esame la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente e immune da contraddizioni e vizi logici emergenti dalla sentenza stessa; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole e che, pur non escludendo la possibilità di altre scelte interpretative anch’esse ragionevoli, è espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio in questa sede (cfr., ex plurimis, Cass., n. 7123 del 2014; Cass. n. 25927 del 2015).
2. Con il terzo motivo si denuncia omessa motivazione della sentenza impugnata per non aver considerato, ai fini della sussistenza del diritto di prelazione di cui all’art. 230 bis c.p.c., che il conferimento di una azienda in una società nella quale il conferente resti socio e amministratore della stessa non è equiparabile al trasferimento d’azienda a favore di terzi.
Con il quarto motivo si lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., in relazione all’art. 732 c.c. nonché all’art. 12 preleggi, per erronea equiparazione della norma relativa all’alienazione a terzi estranei con quella relativa al conferimento dell’azienda in una società nella quale socio illimitatamente responsabile e amministratore è rimasto il titolare dell’azienda stessa.
I motivi con i quali si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto sussumibile la fattispecie concreta nell’ambito di applicabilità delle richiamate disposizioni del codice sono scrutinabili congiuntamente e si palesano infondati.
Opportuno, anche per l’esame dei successivi motivi di ricorso, riportare il contenuto delle norme di cui si controverte.
Secondo l’art. 230 bis c.c., comma 5: “In caso di divisione ereditaria o di trasferimento di azienda i partecipi di cui al comma 1, hanno diritto di prelazione sulla azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell’art. 732 c.c.”.
Quest’ultima disposizione stabilisce che “Il coerede che vuole alienare ad un estraneo la sua quota o parte di essa, deve notificare la proposta di alienazione, indicandone il prezzo, agli altri coeredi, i quali hanno diritto di prelazione. Questo diritto deve essere esercitato nel termine di due mesi dall’ultima delle notificazioni. In mancanza della notificazione, i coeredi hanno diritto di riscattare la quota dall’acquirente e da ogni successivo avente causa, finché dura lo stato di comunione ereditaria”.
Questa Corte (v. Cass. n. 27475 del 2008), nell’esaminare la ratio che ha esteso l’istituto del retratto successorio anche ai partecipi dell’impresa familiare, ha evidenziato che il legislatore ha inteso predisporre una più intensa protezione per il lavoro familiare, favorendo nell’acquisto dell’azienda coloro che hanno dato un contributo attivo all’impresa nell’ambito della comunità familiare. A fondamento dell’istituto sono pertanto rinvenibili giustificazioni ispirate alla tutela del lavoro cui partecipa la comunità familiare. Trattasi pertanto di valori espressivi di principi di rilievo costituzionale, che hanno indotto la Corte, in sede di interpretazione, ad individuare un ambito quanto più possibile esteso dell’istituto in esame, giungendo alla conclusione che la prelazione prevista dalla norma in favore del familiare, nel caso di alienazione dell’impresa di cui è partecipe, è una prelazione legale, che consente il riscatto nei confronti del terzo acquirente, senza che all’applicazione di tale istituto possa essere d’ostacolo la mancanza di un sistema legale di pubblicità dell’impresa familiare, avendo il legislatore inteso tutelare il lavoro più che la circolazione dei beni.
Ciò posto, ai fini dell’operatività della disposizione contenuta nell’art. 230 bis c.c., comma 5, una volta accertata la partecipazione ad una impresa familiare, è sufficiente che vi sia “trasferimento di azienda” affinché il partecipe debba essere messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto di prelazione.
Stante il chiaro tenore letterale della norma è del tutto ininfluente che la cessione avvenga, come nella specie, mediante il conferimento dell’azienda in una società di persone – che è comunque un soggetto giuridico terzo – nel quale conservi un ruolo dominante il titolare dell’azienda medesima quale socio illimitatamente responsabile ed amministratore, perché ciò che conta è che di vicenda traslativa si tratti e perché la norma tutela il familiare partecipe che sia stato estromesso e non certo colui che invece sia stato incluso nell’operazione di trasferimento. La lettera della norma non consente l’interpretazione restrittiva patrocinata dalle parti ricorrenti, né in tal caso giova il riferimento all’ “estraneo” destinatario dell’operazione di cui all’art. 732 c.c. atteso che, come correttamente sostenuto in dottrina, a differenza della comunione ereditaria, l’estraneità non è richiesta per l’impresa familiare, considerando altresì che il rinvio all’art. 732 c.c. è effettuato dall’art. 230 bis c.c. “nei limiti in cui è compatibile”.
3. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., in relazione all’art. 732 c.c. nonché all’art. 12 delle preleggi, nella parte in cui la sentenza impugnata non ha dichiarato l’inammissibilità della domanda con la quale G.P. ha esercitato il retratto, per essere venuto meno lo stato di comunione. Si specifica il motivo chiedendo a questa Corte “se il riferimento alla clausola “in mancanza di notificazione” – contenuto nell’art. 732 c.c. ai fini dell’inoperatività della decadenza dalla possibilità di esercitare il riscatto – possa essere estesa anche ai casi in cui tale notificazione vi sia stata, anche se contestualmente al conferimento del bene nella società di persone di cui si tratta”.
La censura non può essere condivisa.
Correttamente la Corte di Appello ha ritenuto che, ai fini dell’esercizio del retratto, la mancanza di notificazione è equivalente all’ipotesi in cui la denuntiatio sia avvenuta contestualmente alla cessione. Invero così come la mancanza di notificazione anche l’atto dispositivo avvenuto prima che si sia consumato il termine essenziale concesso al compartecipe per l’esercizio della prelazione priva quest’ultimo della possibilità di far valere il suo diritto, dando luogo all’azionabilità del riscatto dell’azienda nei confronti del terzo cessionario.
Inoltre la conoscenza da parte di G.P. del trasferimento d’azienda, in ragione della mera presenza dello stesso presso lo studio del notaio redigente l’atto di conferimento, non è comunque idonea a produrre gli effetti di una valida denuntiatio atteso che, secondo questa Corte, la “notifica di alienazione” ai sensi dell’art. 732 c.c., costituisce una proposta contrattuale che deve contenere con certezza tutti gli elementi idonei alla conclusione del negozio e, pertanto, va realizzata in forma scritta e notificata con modalità idonee a documentarne il giorno della ricezione da parte del destinatario, ai fini dell’esercizio della prelazione (cfr. Cass. n. 5865 del 2016).
4. Dal rigetto del quinto motivo, una volta che l’equiparazione operata dalla Corte territoriale tra mancanza di notificazione e denuntiatio senza rispetto del termine bimestrale ha superato il vaglio di legittimità, deriva l’inammissibilità del settimo motivo di gravame.
Con esso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2969 c.c., in relazione all’art. 112 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha affermato che i convenuti nel giudizio di primo grado non avrebbero svolto l’eccezione di decadenza dall’azione, reiterata in appello.
La critica si rivolge alla seconda ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia dalla Corte territoriale espressamente nel caso di “non voler equiparare, quanto agli effetti, la mancata concessione dello spatium deliberandi all’omesso avviso”. Tuttavia, una volta che la prima fondamentale ragione della decisione sulla ritenuta equiparazione “resiste” all’impugnazione proposta è ultronea la verifica di ogni ulteriore censura sul punto, sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo dictum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossigli con l’impugnazione comporta che la decisione deve essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato privando in tal modo l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (Cfr., in merito, ex multis, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del 2001; Cass. n. 24540 del 2009).
La doglianza è peraltro infondata perché dalle parti degli atti processuali riportate nel ricorso per cassazione la formulazione dell’eccezione di decadenza di G.P. dall’azione di cui all’art. 732 c.c. non risulta adeguatamente formulata nel corso del giudizio.
5. Residua l’esame del sesto motivo di ricorso con cui si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., in relazione all’art. 732 c.c. nonché all’art. 12 preleggi, nella parte in cui la sentenza impugnata non ha dichiarato l’inammissibilità della domanda con la quale G.P. ha esercitato il retratto, per essere venuto meno lo stato di comunione per la morte del padre Giuseppe in data 11 luglio 2006.
Fermo il principio statuito da Cass. n. 27475 del 2008 innanzi richiamata, secondo cui anche la prelazione prevista dall’art. 230 bis c.c., comma 5, in favore del familiare, nel caso di alienazione dell’impresa di cui è compartecipe, è una prelazione legale, che consente il riscatto nei confronti del terzo acquirente, la questione proposta nel sesto motivo risulta inammissibilmente affetta dal carattere della novità.
Invero, secondo giurisprudenza consolidata di questa S.C., qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. SS. UU. n. 2399 del 2014; Cass. n. 2730 del 2012; Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 25546 del 2006; Cass. n. 3664 del 2006; Cass. n. 6542 del 2004).
Orbene questa Corte, circa il momento sino al quale può essere esercitata l’azione di riscatto, ha statuito che, dal tenore dell’art. 732 c.c., si evince che “I coeredi hanno diritto di riscattare la quota dall’acquirente e da ogni successivo avente causa, finchè dura lo stato di comunione ereditaria”, facendone discendere che il concetto di liquidazione della quota da assumere quale riferimento ai fini dell’individuazione del limite temporale del perdurare del diritto al riscatto non può che coincidere con il consolidarsi, al momento della cessazione della permanenza del suo rapporto con l’impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione (Cass. n. 17639 del 2016). Pertanto la questione nuova sottoposta a questa Corte richiederebbe ulteriori accertamenti di fatto certamente preclusi in questa sede.
6. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le parti ricorrenti in solido al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 6 dicembre 2016.

Il comodato di immobile destinato a casa familiare non è precario

Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2017, n. 13716
sul ricorso 18805-2014 proposto da:
M.G. (o G.), M.A.M. e M.C., le ultime due quali eredi di M.A. (v. ricorso p. 7), elettivamente domiciliate in ROMA, PIAZZA RE DI ROMA 21, presso lo studio dell’avvocato ANGELO FIUMARA, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA RITA FELLI giusta procura, per le ultime due, a margine del ricorso e, per la prima, in calce del ricorso;
– ricorrente –
contro
M.E., D.P.M.;
– intimati –
nonchè da:
M.E., D.P.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE RASPONI 40, presso lo studio dell’avvocato ORIANA CIANCA, che li rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrenti incidentali –
contro
M.G. (o G.), M.A.M. e M.C., le ultime due quali eredi di M.A. (v. ricorso p. 7), elettivamente domiciliate in ROMA, PIAZZA RE DI ROMA 21, presso lo studio dell’avvocato ANGELO FIUMARA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA RITA FELLI giusta procura, per le ultime due, a margine del ricorso e, per la prima, in calce del ricorso principale;
– controricorrente all’incidentale –
avverso la sentenza n. 3302/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/06/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/04/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. SOLDI ANNA MARIA, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso principale e dell’incidentale.
Svolgimento del processo
M.G. nonchè M.A.M. e M.C., le ultime due quali eredi di M.A., ricorrono per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 3302/2013 che, rigettando sia l’appello principale sia quello incidentale, ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma/sezione distaccata di Ostia, il quale, respinta la domanda proposta da M.E. e D.P.M. nei confronti di M.D. (deceduto nel corso del giudizio di appello, nel quale si sono costituiti, quali suoi eredi, G., indicata nella sentenza di secondo grado anche come G., v. ricorso p. 5 e 7, e M.A.), volta alla declaratoria di acquisto per usucapione, da parte degli originari attori, del diritto di proprietà sull’immobile sito in (OMISSIS), ed accertata la operatività tra le parti di un contratto di comodato non “precario”, ha rigettato la domanda di restituzione avanzata in via riconvenzionale dal convenuto.
M.E. e D.P.M. hanno resistito con controricorso contenente ricorso incidente, al quale hanno resistito con controricorso le ricorrenti principali Il P.M. ha depositato le sue conclusioni scritte.
Motivi della decisione
1. Ricorso principale.
1.1. Con il primo motivo le ricorrenti principali, lamentando la “violazione degliartt. 1803, 1809 e 1810 c.c.in riferimento (all’)art. 360 c.p.c., n. 3”, sostengono che la Corte di merito avrebbe erroneamente qualificato il rapporto di comodato in questione come a tempo indeterminato, per le esigenze abitative del nucleo familiare di M.E. e D.P.L., dovendosi invece lo stesso qualificarsi come comodato precario exart. 1810 cod. civ., sicchè il comodante potrebbe richiedere ad nutum la restituzione del bene, indipendentemente dal sopraggiungere di uno stato di bisogno urgente ed imprevisto.
1.2. Con il secondo motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione delle norme di leggeartt. 1803, 1809 e 1810 c.c.art. 2697 c.c.,artt. 115 e 116 c.p.c.in relazioneart. 360 c.p.c., n. 3”, deducono le ricorrenti principali che l’assunto della Corte di appello, secondo cui M.D. avrebbe concesso il godimento dell’appartamento agli originari attori, rispettivamente figlia e genero dell’originario convenuto e attuali controricorrenti ricorrenti incidentali, perchè lo adibissero a loro casa familiare, sarebbe palesemente infondato per essere frutto di un esame insufficiente degli atti di causa e di erronea loro interpretazione nonchè di erronea valutazione delle prove.
1.3. I due motivi che precedono, i quali, essendo connessi, ben possono essere esaminati congiuntamente, non possono essere accolti.
Va anzitutto evidenziato che è inammissibile la censura proposta con il secondo motivo, in quanto, pur prospettando una violazione di legge, le ricorrenti si limitano a non condividere l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte di merito nella parte in cui ha ritenuto che l’immobile di cui si discute in causa fosse stato concesso in comodato da M.D. ai coniugi M. – D.P. affinchè lo adibissero a casa familiare.
Stante l’inammissibilità di tale censura, cui consegue la conferma della sentenza impugnata in relazione al ritenuto vincolo di destinazione che connota il comodato intercorso tra le parti, occorre valutare se sia o meno corretta la soluzione in diritto fornita dalla Corte di appello. Al riguardo si osserva che risulta del tutto condivisibile l’assunto secondo cui il comodato, quando caratterizzato da vincolo di destinazione quale quello riscontrato nel caso in esame (destinazione dell’immobile alle esigenze abitative di un nucleo familiare), non può ritenersi “precario”.
Va, infatti, sul punto data continuità all’orientamento (sopravvenuto alla emanazione della pronuncia impugnata) secondo cui il comodato di un bene immobile, stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha un carattere vincolato alle esigenze abitative familiari, sicchè il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento, anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno ai sensidell’art. 1809 c.c., comma 2, ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante (Cass., sez. un., 29/09/2014, n. 20448; Cass. 3/12/2015, n. 24618).
1.4. Con il terzo motivo, lamentando la violazione dell’art. 91 e ss. cod. proc. civ., le ricorrenti si dolgono della compensazione delle spese del primo e del secondo grado di giudizio operata dalla Corte territoriale alla luce della reciproca soccombenza e sostengono che la riforma della sentenza di merito con il conseguente accoglimento dell’appello incidentale dovrebbe comportare la violazione del principio della soccombenza per cui le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito dovrebbero essere poste a carico dei coniugi M. – D.P., con conseguente riforma della sentenza impugnata sul punto.
1.4.1. La doglianza è per un verso infondata, non potendo essere sindacata la scelta di disporre la compensazione delle spese di lite tutte le volte in cui non sia stato violato il criterio secondo cui gli oneri processuali debbono restare a carico della parte soccombente, e, per altro verso, inammissibile, nella parte in cui si censura la regolamentazione delle spese non con riferimento all’esito del giudizio di secondo grado, nel quale tale regolamentazione trova il suo fondamento, ma in relazione ad una ipotizzata e sperata cassazione della sentenza impugnata che, oltre tutto, travolgerebbe la pronuncia sulle spese.
1.5. Per le ragioni esposte il ricorso principale deve, pertanto, essere rigettato.
2. Ricorso incidentale.
2.1. Va evidenziato che con l’atto intitolato “controricorso con ricorso incidentale”, i coniugi M. – D.P. non hanno proposto rituale ricorso incidentale, non avendo articolato specifici motivi, debitamente rubricati, con la precisazione delle norme di diritto su cui si fondano ma, nell’esaminare i motivi del ricorso principale, i medesimi hanno dedotto che erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto la sussistenza di un contratto di comodato intercorrente tra le parti e qualificato come detenzione e non possesso il rapporto tra gli originari attori e l’immobile di cui si discute in causa e ciò – a loro avviso – sulla base di una errata e superficiale valutazione delle risultanze istruttorie; hanno poi concluso chiedendo, oltre che il rigetto del ricorso principale, anche, in “accoglimento del ricorso proposto in via incidentale”, l’annullamento della sentenza impugnata “relativamente al capo che ha respinto le domande di accertamento dell’usucapione ai sensidell’art. 1158 c.c.dell’immobile” di cui si discute in causa “a favore degli odierni resistenti-ricorrenti in via incidentale”.
In ogni caso, pur a voler qualificare tali doglianze quale ricorso incidentale, le stesse sono comunque inammissibili, atteso che i ricorrenti incidentali si dolgono esclusivamente dell’accertamento in fatto compiuto dalla Corte di merito, limitandosi a non condividerlo.
2.2. Il ricorso incidentale deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.
3. In considerazione della reciproca soccombenza, le spese del giudizio di cassazione vanno compensate per intero tra le parti.
4. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti principali e dei ricorrenti incidentali, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater nel testo introdotto dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando sui ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale, compensa per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità; ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater, nel testo introdotto dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti principali e dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 aprile 2017.

Contratto fiduciario

Di Gianfranco Dosi

I
Fiducia e contratto come categorie antitetiche
Fiducia e contratto sono due categorie sostanzialmente antitetiche. La fiducia è, infatti, una condizione psicologica che comporta l’affidarsi alla lealtà e all’onore di un’altra persona, mentre il contratto ha forza di legge tra le parti ed obbliga all’adempimento.
Queste caratteristiche, fanno sì che la fiducia sia per lo più irrilevante nell’esperienza formale del mondo giuridico. Se per non apparire proprietario di un bene o per evitare l’aggressione di una mia proprietà da parte di un creditore, mi accordo per intestare ad un amico un mio bene immobile o mie quote societarie fidandomi del fatto che egli mi restituirà quello che io gli cedo (fiducia cum amico) non compio nessuna attività su cui giuridicamente io possa contare per poter reagire all’eventuale adempimento da parte del mio amico. Posso solo sperare che questa persona adempia a quanto mi assicura sulla parola che farà. Ugualmente non ha nessuna forza giuridico il fatto del debitore che trasferisce al creditore la proprietà di un bene con l’intesa fiduciaria che, quando il debito sarà estinto, il diritto gli sarà retrocesso (fiducia cum creditore).
La rilevanza di questi impegni rimane, insomma, interna al rapporto tra le persone che li pongono in essere. Nessuna azione giuridica potrà mai avere il fiduciante nei confronti del fiduciario.
La riprova di questo si ha nell’unico caso in cui il codice civile si occupa della fiducia che è l’art. 627 (la cui rubrica è “disposizione fiduciaria”), il cui primo comma afferma che “Non è ammessa azione in giudizio per accertare che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel testamento sono soltanto apparenti e che in realtà riguardano altra persona, anche se espressioni del testamento possono indicare o far presumere che si tratti di persona interposta”. In caso di disposizione fiduciaria, insomma, non esiste azione. Tuttavia, precisa il secondo comma, se la persona dichiarata nel testamento esegue la disposizione e trasferisce i beni alla persona voluta dal testatore, “non può agire per la ripetizione”.
Il meccanismo è quello dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.) e, benché riferito alla disposizione fiduciaria testamentaria, non vi sono motivi per non considerarlo esportabile all’adempimento di altre disposizioni fiduciarie. In effetti il riferimento alla fiducia come qualcosa che vincola solo moralmente costituendo perciò un dovere morale è pienamente plausibile e giustifica l’inquadramento dell’adempimento delle disposizioni fiduciarie nell’ambito delle obbligazioni naturali.
Fiducia e contratto si confermano quindi come categorie sostanzialmente antitetiche fondate la prima sul vincolo morale e la seconda sul vincolo giuridico.
Parlare, quindi, di contratto fiduciario, di pactum fiduciae, di causa fiduciae, di fiduciante e fiduciario ha senso solo se si comprende che queste espressioni non si riferiscono certo più alla fiducia romanistica, priva di azione in giudizio, ma al contesto in cui determinati rapporti giuridici negoziali hanno insieme effetti reali esterni ed effetti obbligatori interni garantiti da clausole che ne assicurano l’adempimento.

II
Esiste ancora la fiducia come causa di un contratto? L’inquadramento in giurisprudenza del negozio fiduciario come negozio atipico ad effetti obbligatori risultante dal collegamento tra due negozi

La realtà giuridica attuale non conosce di fatto più la storica fiducia romanistica (fiducia cum amico e fiducia cum creditore) quella cioè in cui il fiduciante non ha mezzi per essere tutelato, o, perlomeno, potrebbe avere solo quello del risarcimento del danno. Oggi la causa fiduciae è scomparsa e confusa all’interno di clausole contrattuali che rendono il negozio cosiddetto fiduciario un vero e proprio negozio obbligatorio. Nei negozi giuridici cosiddetti fiduciari il trasferimento del bene è reale e l’adempimento del ritrasferimento è garantito da obbligazioni accessorie e non certo dalla sola fiducia.
Il che non vuol dire, naturalmente, che nella prassi non siano rinvenibili trasferimenti per così dire provvisori di diritti – spesso elusivi di obblighi verso il fisco o verso i creditori – basati solo sulla fiducia.
A differenza della fiducia romanistica in cui il trasferimento del diritto è reale, nella fiducia germanistica non vi è trasferimento effettivo della titolarità del bene, perché il fiduciario riceve solo la legittimazione ad esercitare in nome proprio un diritto che però continua a rimanere in capo al fiduciante. A tale proposito va segnalata Trib. Milano, 19 novembre 2001 che ha approfondito l’ammissibilità del contratto fiduciario, riconducibile alla “fiducia germanistica”, con cui un fiduciante attribuisce ad una società fiduciaria la legittimazione all’esercizio dei diritti inerenti le quote di s.r.l. ma non la titolarità delle quote.
In dottrina si è spesso negata dignità al negozio fiduciario (romanistico) anche sul presupposto che il trasferimento della proprietà con causa fiduciaria contrasterebbe con i caratteri tipici della proprietà, venendosi ad ammettere un tipo di proprietà (la proprietà fiduciaria, appunto) che avrebbe caratteristiche diverse da quelle previste dall’articolo 832 c.c.; si tratterebbe infatti di una proprietà solo formale svuotata del tutto da ogni contenuto e quindi di un diritto reale atipico, contrastante con il principio del numero chiuso dei diritti reali. Se il negozio fiduciario si fondasse solo su questo la tesi potrebbe avere una sua plausibilità. In verità il negozio giuridico cosiddetto fiduciario non ha più quasi nulla in comune con quello causa fiduciae del diritto romano.
Il trasferimento della proprietà, infatti, è del tutto reale, sia pure sottoposta ad una condizione concordata tra le parti. E poiché questa condizione ha carattere obbligatorio ed è, quindi, capace di attribuire rilevanza giuridica al programma concordato tra le parti, di fatto il negozio atipico che le parti realizzano perde la connotazione fiduciaria pura ed acquista una connotazione di obbligatorietà che l’avvicina molto a qualsiasi altro contratto atipico.
In sostanza non siamo più in presenza di un negozio fiduciario ma di un negozio obbligatorio, sia pure, in taluni casi, largamente permeato da una ampia libertà di scelta circa le modalità migliori di adempimento (si pensi al trust o ai cosiddetti contratti di affidamento fiduciario). La fiducia è solo affidabilità nelle capacità del soggetto incaricato dell’adempimento.
Per questo in giurisprudenza si considera il negozio (che ancora viene chiamato) “fiduciario” un vero e proprio negozio atipico obbligatorio dando quindi ragione alla constatazione che di fatto è oggi inesistente nel nostro ordinamento un negozio fiduciario puro, basato cioè sulla sola fiducia.
Sintomatico quanto si afferma in Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 dove si legge che l’obbligo di ritrasferimento che trae le sue origini da un pactum fiduciae concluso oralmente, può rinvenire la sua fonte non solo in un accordo contrattuale ma anche in una dichiarazione unilaterale, qualora essa contenga la chiara enunciazione dell’impegno attuale del soggetto ad effettuare una determinata prestazione in favore di altro soggetto, ai sensi dell’art. 1174 c.c. Per cui la dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un precedente accordo fiduciario non costituisce semplice promessa di pagamento ma autonoma fonte di obbligazioni se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, e, qualora il firmatario non dia esecuzione a quanto contenuto nell’impegno unilaterale, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., purché l’atto unilaterale contenga l’esatta individuazione dell’immobile, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali. In questa sentenza la differenza tra patto fiduciario (di per sé non obbligatorio) e obbligazione unilaterale (eseguibile coattivamente) è molto chiara.
Per questo motivo si parla qui di negozio giuridico cosiddetto fiduciario. In verità non è la fiducia a connotare questo negozio ma la clausola contrattuale che rende obbligatorio il ritrasferimento della proprietà. La clausola contrattuale dà azione al fiduciante. Come si è già detto il negozio fiduciario puro, invece, è quel negozio per il cui adempimento non è prevista azione, e che si basa, appunto sulla fiducia delle parti che intendono proprio sottrarre agli schemi legali la realizzazione del risultato da esse perseguito.
Se, oltre alla vendita, viene stipulato quindi un patto con cui il fiduciario si obbliga a ritrasferire il bene a richiesta del fiduciante, siamo nell’ipotesi del patto di retrovendita, cui sono applicabili i rimedi del risarcimento del danno e dell’esecuzione in forma specifica. In altre parole, il patto non si basa più sulla fiducia, ma sulla tutela che la legge appresta a qualsiasi contratto, tipico o atipico che sia. Molto efficacemente Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 esprime il concetto chiarendo che l’intestazione fiduciaria di un bene, frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, ha luogo solo ove il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae.
La giurisprudenza ritiene da sempre che, il negozio cosiddetto fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, entrambi voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, inter partes ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo (da ultimo Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17785 secondo cui sarebbe negozio fiduciario l’intestazione fiduciaria di quote di partecipazione societaria che integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista – diversamente dal caso d’interposizione fittizia o simulata – la titolarità delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, ed a ritrasferirgliele ad una scadenza concordata, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario). Nella specie si trattava di una scrittura privata con cui una persona aveva alienato una parte della propria partecipazione in una società, al prezzo di svariati milioni, al figlio il quale aveva a sua volta rilasciato una procura in favore del padre, nominato procuratore speciale e autorizzato a trasferire tutte le quote a terzi e anche a se stesso. Poiché il padre nella qualità di procuratore del figlio aveva alienato agli altri figli le quote ne nacque un contenzioso. La Corte ha ritenuto che l’alienazione di quote societarie dal padre ai figli, con contestuale rilascio di procura irrevocabile alla retrocessione o al trasferimento a terzi, realizza un pactum fiduciae volto ad attribuire ai figli i poteri gestionali della società e a lasciare al genitore quelli di controllo.
La tesi del collegamento negoziale è del tutto ragionevole, corrisponde effettivamente alla sostanza del negozio cosiddetto fiduciario ed è stata proposta in molte altre sentenze (Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024; Cass. civ. Sez. II, 1 aprile 2003, n. 4886; App. Napoli Sez. III, 17 febbraio 2006; Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010).
Con il negozio cosiddetto fiduciario si opera, perciò, il trasferimento della titolarità di un diritto dal fiduciante al fiduciario o l’acquisto da terzi di un diritto da parte del fiduciario stesso con danaro fornito dal fiduciante, il cui esercizio viene disciplinato da un’intesa interna, con la quale l’interposto si obbliga a comportarsi in una maniera determinata. Il negozio fiduciario si realizza, quindi, mediante il collegamento dei due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno e obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è obbligato a trasferire, in tutto o in parte, la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o a un terzo.
III
Le caratteristiche del negozio giuridico cosiddetto fiduciario come negozio atipico indiretto
a) La liceità e la meritevolezza dell’interesse perseguito
Innanzitutto vi è da dire che si può parlare plausibilmente di valido negozio giuridico cosiddetto fiduciario nei soli casi in cui il trasferimento non assume una funzione elusiva di norme imperative che lo renderebbero nullo (articoli 1322 e 1418 c.c.).
Non è certamente affetta da nullità la situazione che si determina quando, per esempio, una persona, dovendosi assentare per lungo tempo, trasferisce in proprietà i suoi beni ad un amico con l’accordo accessorio che quest’ultimo li amministri nel periodo dell’assenza, ovvero quando un debitore trasferisca la proprietà di un bene ad un creditore, con l’intesa contrattuale che quest’ultimo lo mantenga in buono stato fino al momento della soddisfazione del debito (si ricorda che il divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. colpisce il solo patto con cui si conviene che in mancanza di adempimento il creditore possa diventare proprietario del bene ipotecato o dato in pegno).
In base a principi che presiedono all’autonomia contrattuale, il negozio fiduciario è riconosciuto dalla legge quale contratto atipico, in quanto si proponga di realizzare interessi leciti. Invece esso deve essere dichiarato nullo al pari di ogni altro negozio, che adempia alla stessa funzione se, è diretto ad eludere la legge, ponendo in essere un risultato vietato e sanzionato da nullità (il principio trova affermazione da sempre: cfr per esempio Cass. civ. Sez. II, 17 febbraio 1961, n. 339).
In altri casi il negozio fiduciario potrebbe non essere affetto da nullità ma revocabile (art. 2901 c.c.). Si pensi al caso in cui si trasferiscano momentaneamente i propri beni per sottrarli ai creditori. In assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito, sicché la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, apprestando l’ordinamento, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione dell’inefficacia (Cass. civ. Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23158).
Non sono naturalmente revocabili ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti posti in essere in adempimento di un’obbligazione e, conseguentemente, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario salvo il caso in cui – come detto – sia provato il carattere fraudolento del negozio, con cui il debitore ha assunto l’obbligo poi eseguito, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un pactum de contraendo validamente posto in essere cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi (Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2008, n. 9970; Trib. Trieste, 10 agosto 2011; Trib. Gallarate, 5 febbraio 2010 che fanno applicazione del principio generale di revocabilità del contratto definitivo, ancorché atto dovuto, solo allorché sia provato il carattere fraudolento del preliminare).
Inoltre ai fini dell’inquadramento della fattispecie concreta tra i negozi cosiddetti fiduciari rileva lo scopo dell’operazione che deve essere meritevole di tutela (art. 1322, cpv, c.c. che ammette le parti alla conclusione di contratti atipici “purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela”) ed è proprio la meritevolezza dell’interesse (ancorché si tratti di un concetto così vasto che finisce per confondersi con la liceità del contratto) che potrebbe non rendere plausibile l’inquadramento dell’operazione in concreto realizzata dalle parti tra i negozi giuridici aticipi. Si pensi al negozio fiduciario che persegue finalità di evasione fiscali (per evitare il pagamento della tassa di successione intesto un bene al mio erede, che diventerà effettivamente suo alla sua morte).
Pacificamente, quanto meno in giurisprudenza, si ritiene che l’evasione fiscale avuta di mira dai contraenti non consente di qualificare un accordo diretto all’evasione fiscale come nullo in quanto “giusta quanto assolutamente pacifico presso la giurisprudenza più che consolidata, la frode fiscale, diretta ad eludere le norme tributarie trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio” (tra le tante Cass. Civ. Sez. III, 18 marzo 2008, n. 7282). Il principio applicato è quello secondo cui la violazione della normativa fiscale non incide sulla validità o efficacia di un contratto, ma ha rilievo esclusivamente tributario. Quindi l’intenzione comune fraudolentemente tesa all’evasione fiscale non renderebbe di per sé nullo un negozio cosiddetto fiduciario.
La meritevolezza dell’interesse – scrutinata in sede di azione di adempimento – potrebbe costituire, perciò, il solo criterio utile, in questi casi, ai fini dell’ammissibilità della figura negoziale in questione.
A proposito della meritevolezza degli interessi perseguiti dal negozio atipico, va segnalata proprio Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1898 che ritenendo plausibile il ragionamento fatto dal giudice di merito per ritenere sussistente il negozio fiduciario, ha affermato che il giudice, nel procedere all’identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all’individuazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione “in concreto” della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l’interprete, della generale conformità a legge dell’attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell’art. 1343 c.c. (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l’ordinamento giuridico).
Ed è certamente proprio la valutazione della meritevolezza dell’interesse alla base della sentenza in cui si è recentemente sostenuto, in tema di locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo, che l’obbligo di vendita dell’immobile, assunto dal locatore in forza di un patto fiduciario stipulato con un terzo anche anteriormente alla conclusione del contratto di locazione, non è idoneo a sopprimere il diritto di prelazione del conduttore, che trova fondamento nella salvaguardia del suo interesse – dotato di rilessi pubblicistici – alla prosecuzione dell’attività svolta per tutta la durata del rapporto, così che il diritto di prelazione del conduttore prevale sull’interesse delle parti del negozio fiduciario (Cass. civ. Sez. III, 28 dicembre 2016, n. 27180 dove l’interesse a fondamento del patto fiduciario è stato ritenuto inidoneo a superare l’interesse del conduttore alla salvaguardia del suo diritto di prelazione. Nella decisione in questione si fa applicazione del principio di diritto ai sensi del quale la promessa di vendita stipulata prima della locazione con un soggetto a questa estraneo non è idonea a sopprimere il diritto di prelazione derivante, in favore del conduttore, dal rapporto locativo successivamente venuto ad esistenza (principio affermato in passato da Cass. civ. Sez. III, 31 marzo 2008, n. 8288) rilevandosi come “la circostanza secondo cui la fattispecie oggetto dell’odierna controversia abbia riguardo a un obbligo di vendita derivante dalla precedente stipulazione di un patto fiduciario anziché dalla conclusione di un formale contratto preliminare di compravendita, non vale a modificare i termini sostanziali del principio di diritto richiamato”.
b) I tre caratteri del negozio fiduciario
I caratteri del negozio fiduciario che persegua finalità lecite e meritevoli di tutela sono sostanzialmente tre.
a) In primo luogo l’esistenza di un negozio tipico (in genere un trasferimento di un diritto effettuato attraverso una compravendita).
b) In secondo luogo l’effettivo (e voluto) trasferimento del diritto al fiduciario (essendosi in presenza in caso contrario, di un negozio non fiduciario ma simulato). A tale proposito ha chiarito in passato molto bene il concetto Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 secondo cui l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un reale trasferimento in favore del fiduciario, sia pure limitato dagli obblighi pattiziamente stabiliti tra le parti. Ugualmente si legge, in tempi più vicini, in Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695 secondo cui l’intestazione fiduciaria di un bene – frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante – comporta che il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al soggetto fiduciante, oppure al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae.
Il bene oggetto del trasferimento è indifferente. In genere si tratta della proprietà immobiliare ma anche azioni e titoli di credito possono essere trasferiti con un pactum fiduciae. In un caso di intestazione fiduciaria di azioni Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1999, n. 13261 ha affermato che in base al principio secondo cui, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, prevale “l’effettiva” proprietà del fiduciante rispetto alla titolarità “formale” del fiduciario , non può considerarsi affetta da nullità la specifica convenzione con la quale – all’interno del pactum fiduciae – il fiduciante si obblighi a tenere indenne il fiduciario dalle imposizioni fiscali gravanti su quest’ultimo in conseguenza dell’intestazione dei titoli azionari, non integrando tale traslazione dell’obbligazione tributaria gli estremi del pagamento di imposta da parte di soggetto diverso dal materiale percettore del corrispondente reddito.
Non necessariamente deve trattarsi di diritti reali. Anche obbligazioni (diritti di natura personale, quindi) possono essere oggetto di trasferimento. Come è stato ben sottolineato da Cass. civ. Sez. II, 5 febbraio 2000, n. 1289 e Cass., civ. Sez. II, 21 novembre 1988, n. 6263 il pactum fiduciae può configurarsi in relazione a situazioni giuridiche soggettive di natura reale o personale, assumendo rilievo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene o il diritto acquistato al fiduciante o a terzi. E’, pertanto, ravvisabile un contratto fiduciario nell’ipotesi in cui il ritrasferimento al fiduciante concerne i diritti derivanti al fiduciario dal contratto preliminare di compravendita immobiliare già stipulato con terzi. Mai la giurisprudenza ha assunto ad elemento decisivo per la ravvisabilità del pactum fiduciae la sola natura reale della posizione giuridica soggettiva da ritrasferire. Al contrario, è stato sempre correttamente ritenuta irrilevante la natura giuridica di tale posizione soggettiva assumendo rilievo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene od il diritto acquistato al fiduciante o ad una terza persona.
c) infine vi è nel negozio fiduciario una finalità ulteriore – chiarita attraverso clausole contrattuali di natura obbligatoria – restrittiva e specificativa rispetto al mezzo utilizzato (in dottrina si parla, con un’espressione entrata nel lessico del negozio fiduciario di “eccedenza del mezzo rispetto allo scopo dei contraenti” nel senso che il risultato giuridico che si ottiene con la conclusione del contratto eccede il reale intento delle parti, che viene perseguito con pattuizioni di natura obbligatoria che restringono gli effetti dell’atto compiuto). Il contratto viene posto in essere con un fine pratico diverso rispetto a quello che si ha nella struttura causale del negozio utilizzato. Per questo il negozio fiduciario è un vero e proprio negozio indiretto, attraverso il quale si raggiungono, cioè, finalità ulteriori rispetto a quelli che sono tipici dello strumento negoziale utilizzato. Il concetto è ribadito da Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134; Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 e ben ripreso anche nella giurisprudenza di merito da Trib. Vicenza Sez. II, 13 aprile 2016; Trib. Monza Sez. I, 11 maggio 2015; Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 nelle quali si osserva in sostanza che il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, destinato a realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae. Questa posizione di titolarità creata in capo al fiduciario è provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante o di un terzo (così già Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134) nel senso che, ove l’effetto reale non risulta essere accompagnato da alcun patto contenente l’obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato, non può parlarsi di negozio giuridico fiduciario e l’intestazione effettuata dal presunto fiduciante dovrebbe invece qualificarsi come donazione indiretta e non come intestazione fiduciaria.
L’adempimento del negozio fiduciario non è lasciato, perciò, all’affidamento sull’impegno assunto dall’alto contraente ma ha natura obbligatoria. E’ giusto quindi il principio affermato da Trib. Genova, 23 maggio 2005 secondo cui la cessione di azioni tra l’intestatario fiduciario e un terzo, avvenuta con l’intento comune alle due parti di rendere possibile al fiduciario di sottrarsi al proprio obbligo di trasferimento a favore del fiduciante, va dichiarata inefficace nei confronti del fiduciante, mentre resta accertato l’obbligo in capo al fiduciario di trasferimento delle dette azioni, siccome conseguente all’accertamento della intestazione fiduciaria da cui tale obbligo consegue.
Molto chiara, in ordine alla funzione del negozio fiduciario come negozio indiretto è Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654 che ricostruisce in generale il negozio fiduciario come accordo tra due soggetti, con cui il fiduciante trasferisce, o costituisce, in capo al fiduciario una situazione giuridica soggettiva per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore. Il fiduciario, per la realizzazione di tale obiettivo, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, avendo un comportamento coerente e congruo. Sulla stessa linea di muove App. Napoli Sez. II bis, 14 settembre 2011 secondo cui nell’ambito di un negozio fiduciario, un soggetto-fiduciante trasferisce in proprietà un bene ad un altro soggetto fiduciario non già per realizzare uno scambio, quanto piuttosto per conseguire uno scopo diverso dall’effetto traslativo, con l’obbligo del fiduciario di ritrasferire la proprietà del bene a semplice richiesta al fiduciante o ad un terzo indicato dal medesimo.
La causa concreta dell’operazione consiste, quindi, in un fine ulteriore che trascende gli effetti tipici del negozio utilizzato, proprio in ragione del collegamento negoziale tra il negozio tipico utilizzato e le obbligazioni che vi sono collegate (Cass. civ. Sez. III, 17 maggio 2010, n. 11974; Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2010, n. 11314; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024; Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402).
Va segnalata infine Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2001, n. 14375 secondo cui il diritto del fiduciante alla restituzione dei beni intestati al fiduciario si prescrive con il decorso dell’ordinario termine decennale, che decorre, in difetto di una diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario, avutane richiesta, abbia rifiutato il trasferimento del bene. Sulla stessa linea, di recente, Trib. Massa, Sez. Unica, 3 febbraio 2017 secondo cui le norme che determinano i termini di prescrizione dei diritti vanno lette ed interpretate alla luce dell’art. 2935 c.c., secondo il quale il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui il diritto può essere fatto valere; va da sé che nell’ipotesi di intestazione fiduciaria di quote societarie, il diritto del fiduciante ad ottenere il “ritrasferimento della quota” da parte del fiduciario può essere fatto valere, in difetto di diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario riceve la richiesta di restituzione e rifiuta l’adempimento, considerato che prima di tale data sussiste solo un obbligo di trasferimento a richiesta del fiduciante e non una obbligazione inadempiuta.
IV
Fiducia dinamica e fiducia statica
La categoria del negozio fiduciario di cui si sta parlando – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende innanzitutto l’accordo classico con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, per poi ritrasferirlo a lui stesso o ad un terzo (cosiddetta fiducia dinamica). Qui l’aggettivazione dinamica sta proprio a intendere il fatto che vi è stato un trasferimento di diritti da una persona ad un’altra.
Il negozio fiduciario può, però, anche essere “statico” riferendosi all’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio – come fosse un mandatario senza rappresentanza – da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cosiddetta fiducia statica). In questo secondo caso il fiduciario non acquista il bene dal fiduciante (quindi non vi è un effetto di tipo traslativo tra l’alienante e l’acquirente) ma lo possiede in nome proprio avendolo acquistato da un terzo, in virtù di un precedente patto con cui si era obbligato a traferirlo successivamente al fiduciante.
La differenza è stata approfondita spesso dalla giurisprudenza non solo di merito (Trib. Chiavari, 30 aprile 1991; Trib. Napoli, 16 gennaio 1993; Trib. Cagliari, 10 dicembre 1999) ma anche da quella di legittimità. Di recente per esempio Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2014, n. 6514, nel ritenere pienamente ammissibile il negozio fiduciario statico, intendendosi tale quella figura negoziale atipica che si esprime allorquando fra due soggetti si conviene che un bene debba essere trasferito nel presupposto che la sua titolarità da parte del trasferente fosse in realtà espressione di un precedente accordo diretto a crearla, ma con l’intesa della sua non corrispondenza alla titolarità effettiva del bene e con l’impegno del fiduciario a ripristinare la titolarità formale.
Si legge in questa sentenza che già in passato era stata individuata la ricorrenza del negozio fiduciario non solo nel “negozio fiduciario di tipo traslativo (che importa l’attribuzione originaria di una determinata posizione giuridica – normalmente del diritto di proprietà o di altro diritto reale – al fiduciario) anteriore o coevo all’acquisto”, ma anche nella “fiducia statica”. Si deve soprattutto a Cass. civ. Sez. II, 7 agosto 1982, n. 4438 la precisazione che: “Negli schemi del pactum fiduciae rientra, oltre il negozio fiduciario di tipo traslativo, anche la cosiddetta fiducia statica i cui estremi sono rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo “disegno” del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giuridica di cui si tratta. Insomma il fiduciario ha già la proprietà di qualcosa e accetta con un patto di trasferirla ad altri.
Ugualmente delle due situazioni si ebbe ad occupare Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1988, n. 5663 secondo cui il negozio fiduciario è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamento tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
La figura viene ulteriormente evocata da Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025, la quale precisò che “Il negozio fiduciario, sia quando venga preceduto da un atto di trasferimento del diritto del fiduciante al fiduciario (cosiddetta fiducia dinamica) sia quando non lo sia, per essere il fiduciario già titolare del diritto che si obblighi a trasferire all’altro contraente o al terzo (cosiddetta fiducia statica), è sempre un atto realmente dovuto, con la conseguenza che ad esso non sono estensibili le norme che prevedono l’inopponibilità del negozio simulato ai creditori del titolare apparente”.
Ancora: la distinzione fra fiducia cd. statica a fiducia cosiddetta dinamica è evocata da Cass. civ. Sez. II, 3 maggio 1993, n. 5113 nella chiara supposizione della legittimità di entrambe, per escludere che vi fosse riconducibile il negozio in concreto oggetto del giudizio, avendo detta sentenza affermato che: “Il patto con il quale si conviene che uno dei contraenti acquisti un fondo in proprietà comune e trasferisca agli altri contraenti la quota ad essi rispettivamente spettante non può essere qualificato come negozio fiduciario di tipo traslativo, che è stipulato tra l’alienante e l’acquirente in vista di uno scopo pratico ulteriore rispetto a quello proprio della alienazione, né come una situazione di cosiddetta fiducia di tipo statico, che si innesta in una situazione giuridica preesistente in testa alla persona che, con il pactum fiduciae, accetta di dirottarla dal suo naturale esito, ma deve essere ricondotto alla figura giuridica del mandato senza rappresentanza ed, avendo per oggetto un bene immobile, deve essere, stipulato per iscritto”.
V
La forma e la prova del patto fiduciario
Secondo l’impostazione generale richiamata dalla citata Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654, non essendo il contratto cosiddetto fiduciario espressamente disciplinato dalla legge e non essendoci una disposizione esplicita in senso contrario, esso è soggetto al principio generale della libertà della forma. Nella vicenda trattata dalla sentenza in questione si trattava della cessione di titoli senza corrispettivo nella quale la Corte ha ritenuto configurabile, non una donazione ma un negozio fiduciario.
Nella stessa prospettiva Trib. Bari Sez. IV, 17 dicembre 2008 ha ritenuto che il negozio fiduciario costituisce una figura negoziale atipica retta dal principio della libertà delle forme, e ha affermato (in un caso di trasferimento di quote societarie) che, non essendo richiesta la forma scritta né ad substantiam né ad probationem, la sussistenza del pactum fiduciae può essere provata con qualsiasi mezzo, anche con prova testimoniale.
Se è vero che in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà di forma, è anche vero, però, che se il patto ha ad oggetto beni immobili, esso deve rivestire la forma scritta.
Recentemente Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 ha ribadito che il negozio fiduciario, quando si riferisce a beni immobili, deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, né tale forma può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti. Il principio consolidato è quello secondo cui ogni obbligazione che importa l’obbligo di vendere un bene immobile deve seguire la forma prevista per la vendita (art. 1351 c.c.) come ha messo più volte in evidenza la giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163; Cass. civ. Sez. II, 7 aprile 2011, n. 8001; Cass. civ. Sez. II, 13 ottobre 2004, n. 20198; Cass. civ. Sez. II, 13 aprile 2001, n. 5565; Cass. civ. Sez. II, 19 luglio 2000, n. 9489; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993 n. 6024) precisando che la ratio dell’art. 1351 c.c., dettato in tema di contratto preliminare, è invocabile anche in caso di negozio fiduciario.
Anche la designazione da parte del fiduciante della persona a favore della quale deve essere traferito il bene deve rivestire ad substantiam la forma scritta ( art. 1350 n. 1 e 1351 c.c.), non bastando a tal fine la prova presuntiva. Tale designazione, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, deve risultare chiaramente dalla scrittura documentale (Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 1995, n. 1086; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993, n. 6024).
Qualora l’obbligazione assunta dal soggetto nell’atto unilaterale abbia ad oggetto il trasferimento di un diritto reale immobiliare, il creditore della prestazione, in difetto del suo spontaneo adempimento da parte dell’obbligato, potrà ottenere dal giudice l’emissione di una sentenza che tenga luogo dell’atto traslativo non compiuto (art. 2932 c.c.) soltanto se la dichiarazione unilaterale sia stata redatta per iscritto e sottoscritta e qualora essa contenga una analitica descrizione degli immobili degli immobili da trasferire. L’art. 2932 c.c., infatti può essere utilizzato non soltanto in presenza di un contratto preliminare cui non abbia fatto seguito il contratto definitivo, ma anche in presenza di un impegno unilaterale che abbia i requisiti essenziali per consentire il trasferimento della proprietà, ovvero contenga un impegno attuale del promittente a cui lo stesso non abbia dato volontariamente corso, benché il termine sia scaduto o in mancanza di termine, e l’indicazione precisa degli immobili oggetto dell’impegno di ritrasferimento, nonché la forma scritta prescritta dalla legge ad substantiam per il trasferimento della proprietà dei beni immobili.
Molto opportunamente nella sopra richiamata Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163 si afferma che la mera dichiarazione confessoria non può valere né quale elemento integrante il contratto, né come prova del medesimo in quanto nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà immobiliare (e relativi preliminari), il requisito della forma scritta prevista ad substantiam comporta che l’atto scritto, costituendo lo strumento necessario ed insostituibile per la valida manifestazione della volontà produttiva degli effetti del negozio con efficienza pari alla volontà dell’altro contraente, non può essere sostituito da una dichiarazione confessoria dell’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – quando anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo; pertanto, il requisito di forma può ritenersi soddisfatto solo se il documento costituisca l’estrinsecazione formale diretta della volontà negoziale delle parti e non anche quando esso si limiti a richiamare un accordo altrimenti concluso, essendo in tal caso necessario che anche tale accordo rivesta la forma scritta e contenga tutti gli elementi essenziali del contratto non risultanti dall’altro documento, senza alcuna possibilità di integrazione attraverso il ricorso a prove storiche, non consentite dall’art. 2725 c.c. (che in questi casi ammette solo la prova della perdita del documento scritto).
Anche nella giurisprudenza di merito la forma scritta è considerata essenziale. Per esempio Trib. Milano Sez. IV, 10 giugno 2013; precisa che negozio fiduciario deve annoverarsi nella più ampia categoria dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico in via non diretta, ma indiretta e poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento dello stesso in favore del fiduciario, ove il patto abbia ad oggetto beni immobili, esso deve necessariamente risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam. Ugualmente Trib. Roma Sez. X, 10 febbraio 2011 afferma che il negozio fiduciario, allorché si riferisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. e tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo siffatta dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante del contratto, né come prova dello stesso, tenuto conto che il medesimo non può essere dimostrato mediante la prova testimoniale (art. 2725 c.c.) , all’infuori dell’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del documento. Ugualmente per Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010 e Trib. Genova, 13 ottobre 2005 il negozio fiduciario che inerisca al trasferimento di beni immobili deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale della sua validità, ai sensi dell’ art. 1350 c.c., forma che assolutamente non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo tale dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori della sola ed eccezionale ipotesi di perdita incolpevole del documento. In passato anche App. Bologna, 14 giugno 1991 aveva già affermato che la stipulazione di un patto fiduciario avente ad oggetto il trasferimento di un immobile deve essere effettuata con il rispetto della forma scritta ad substantiam ed inoltre che la prova di tale negozio fiduciario non può essere data per testimoni (ad eccezione dell’ipotesi consacrata nel n. 3 dall’art. 2724 c.c.), né mediante giuramento e nemmeno mediante confessione, cui tende essenzialmente l’interrogatorio formale.
Al di fuori dei casi in cui vi sia un trasferimento di beni immobili (che come detto deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam e non è dimostrabile con testimoni), la prova per testimoni relativamente al pactum fiduciae è ammessa nel caso in cui il patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di accordo, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento. Qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento (Cass. civ. Sez. III, 23 marzo 2017, n. 7416; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11757; Cass. civ. Sez. I Sent., 1 agosto 2007, n. 16992).
VI
Contratto fiduciario e contratto simulato: le differenze
Il negozio simulato non produce effetti tra le parti (art. 1414 c.c.). Un esempio di simulazione (relativa) è l’interposizione fittizia con cui le parti fanno comparire come intestatario del bene acquistato un soggetto che non è quello – per i motivi più vari – che tra di loro vogliono sia il proprietario. Simulano una intestazione ma in verità il titolare della proprietà secondo accordi tra le parti è un altro.
Questo fenomeno non ha niente a che vedere con l’interposizione reale (ipotesi di negozio fiduciario) in cui il vero proprietario è quello che risulta intestatario, mentre tra le parti si conviene che costui dovrà ritrasmettere in seguito la proprietà all’altro.
L’intestazione fiduciaria (per esempio la vendita dal fiduciante al fiduciario ovvero l’acquisto di quanto alienato da un terzo al fiduciario, sia pure con provvista erogata dal fiduciante) è realmente voluta e pienamente efficace, e segna la differenza rispetto al negozio simulato, nel quale le parti in realtà non vogliono la produzione degli effetti. Nel negozio fiduciario gli effetti del trasferimento sono realmente voluti dalle parti che correggono con patti obbligatori la situazione creata dal negozio. Nel negozio simulato gli effetti sono invece voluti al solo fine di creare un’apparenza per i terzi, di modo che si palesi una esteriorità difforme da quanto effettivamente voluto dalle parti.
Molto efficacemente, per delineare la differenza radicale tra le due situazioni, Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 ha affermato che costituisce domanda nuova – e non semplice precisazione o modificazione della domanda già proposta – la richiesta volta al riconoscimento della proprietà del bene, sul presupposto del carattere fittizio dell’intestazione, discendente dalla simulazione, data la diversità tra l’interposione fiduciaria e la simulazione, deducendosi con la prima l’esistenza di un contratto valido ed efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell’obbligo di ritrasferire il bene a vantaggio del fiduciante, e con la seconda, invece, un’ipotesi di divergenza tra volontà e manifestazione.
In passato si era espressa negli stessi termini Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402 dove si afferma che, tenuto conto che il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo, l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nel caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
La differenza tra interposizione fittizia (simulazione) e interposizione reale (negozio fiduciario) è ben chiarita anche da Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 secondo cui il negozio fiduciario si realizza (come la giurisprudenza consolidata ritine, come si è visto) mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, costituito da un negozio reale traslativo realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio (il vero e proprio pactum fiduciae) per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o a un terzo; l’intestazione fiduciaria (nella specie di titoli azionari) integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista la titolarità del bene (a differenza di quanto avviene nella interposizione fittizia o simulata) pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire il bene a quest’ultimo, ad una scadenza convenuta ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
Anche nella meno vicina Cass. civ. Sez. I, 28 settembre 1994, n. 7899 la Corte, nel chiarire la differenza fra interposizione fittizia e interposizione reale, aveva verificato l’esistenza del pactum fiduciae, statuendo che si versa nell’ipotesi del negozio fiduciario qualora i soci si accordano per creare una società di capitali il cui capitale sia stato effettivamente conferito solo da uno di loro effettivamente mentre gli altri sono soltanto apparentemente intestatari di azioni o quote sociali “l’operazione, che si realizza con la creazione della società, integra l’intestazione fiduciaria delle quote, con il conseguente obbligo per gli intestatari apparenti di trasferire le loro quote a colui che aveva conferito interamente il capitale sociale.
Già in passato per Trib. Roma 30 maggio 2001 e per Trib. Milano, 1 febbraio 2001 la simulazione si concretizza nella divergenza tra volontà e manifestazione, mentre la fiducia consiste nella effettività del contratto, valido ed efficace, che costituisce a carico del fiduciario l’obbligo di provvedere al ritrasferimento al fiduciante. Il negozio fiduciario – si afferma – è una categoria non espressamente disciplinata dalla legge, e pur tuttavia tutelata dalla legge in base ai principi dell’autonomia contrattuale, che si realizza mediante il collegamento tra due negozi, uno di carattere esterno, realmente voluto (a differenza del contratto assolutamente o relativamente simulato) e spiegante i suoi effetti nei confronti dei terzi – comportante il trasferimento di un diritto in capo ad un soggetto ( fiduciario ) e l’altro, di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato del negozio esterno, comportante l’obbligo per il fiduciario di trasferire il diritto attribuitogli con negozio esterno all’altra parte del negozio interno (fiduciante).
Secondo Trib. Modena, 16 dicembre 2005 Il carattere fiduciario della titolarità di un diritto non può costituire il fondamento di una domanda di accertamento della proprietà esclusiva del fiduciante, in quanto l’intestazione del fiduciario è reale. Può invece fondare l’azione di carattere obbligatorio mirante ad ottenere il ritrasferimento del diritto.
VII
L’attuazione del patto fiduciario: gli obblighi di correttezza e la conseguenza della loro violazione
Mentre l’inadempimento di un negozio fiduciario puro non prevede alcuna possibile azione attivabile dal fiduciante, nei negozi fiduciari atipici di cui si è fin qui parlato all’inadempimento può reagirsi con al richiesta di adempimento coattivo.
Nel caso in cui l’inadempimento consista nell’omissione del fiduciario, il quale non voglia trasferire il bene, si potrà agire con l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre ex articolo 2932. Del resto l’articolo 2932 si applica a tutti i casi in cui c’è un obbligo di contrarre; e quindi anche nei casi in cui l’obbligo derivi da un patto aggiunto o collegato ad un negozio tipico di trasferimento (Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 e Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5160 hanno nel tempo ribadito che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c., al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere ex lege.
La possibilità di adempimento coattivo non è, però, l’unica conseguenza. Infatti secondo Cass. civ. Sez. III, 14 novembre 2011, n. 23728 l’obbligo di ritrasferimento del bene deve essere adempiuto dal fiduciario acquirente a prescindere dalla relativa eventuale richiesta da parte del fiduciante venditore. Ne consegue che, in caso di inadempimento all’anzidetto obbligo, ove le parti non abbiano stipulato al riguardo una clausola risolutiva espressa determinante la risoluzione dello stesso contratto di trasferimento, il fiduciario è tenuto, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., al risarcimento del danno ed è privo di legittimazione sostanziale a disporre del bene sia inter vivos che mortis causa.
L’inadempimento può anche però consistere nella vendita a terzi da parte del fiduciario del bene del fiduciante, in violazione dell’accordo di ritrasferimento. In tal caso secondo la tesi prevalente, il fiduciante potrà ottenere il risarcimento del danno. Ed anche, il terzo, qualora sia a conoscenza del pactum fiduciae, dovrà risarcire il danno ex articolo 2043.
In Cass. civ., Sez. II, 29 novembre 1985, n. 5958 il pactum fiduciae consisteva in un divieto di alienazione posto a carico dell’acquirente ì; divieto che spiega effetti meramente interni (art. 1379 c. c.); l’inosservanza di tale divieto, pertanto, non interferisce sulla validità del contratto con il quale il fiduciario abbia trasferito il bene ad un terzo, indipendentemente dalla buona o mala fede di quest’ultimo, salvo restando il diritto del fiduciante di essere risarcito del danno derivantegli dall’inadempimento di quel patto.
Già in passato Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025 aveva ben chiarito che il negozio fiduciario , nella parte contenente il pactum fiduciae, non è trascrivibile, in considerazione della sua natura obbligatoria, nulla impedisce al fiduciario di trasferire, in sua violazione, il diritto cedutogli ad un terzo, il cui acquisto è pienamente valido ed efficace anche nei confronti del fiduciante.
Interessante la più recente precisazione di Cass. civ. Sez. III, 8 aprile 2014, n. 8153 che nei rapporti fiduciari (nella specie si trattava di un contratto di sponsorizzazione) assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., contribuendo essi ad individuare obblighi, ulteriori o integrativi di quelli tipici del rapporto stesso, il cui inadempimento è patrimonialmente valutabile, ai sensi dell’art. 1174 cod. civ., e tale da giustificare una richiesta di risarcimento danni, purché siano specificati e provati i comportamenti pregiudizievoli e i loro concreti effetti lesivi.
Interessante la vicenda riguardante un conto corrente bancario fiduciariamente intestato a persona diversa dal proprietario dei fondi in cui Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 2009, n. 8127 afferma che, qualora un soggetto acconsenta, su richiesta di un altro, ad intestarsi un conto corrente in via fiduciaria, cioè con l’intesa che le somme che su di esso transitino sono di pertinenza dell’altro soggetto, che costui avrà in concreto la gestione del conto e che esso sarà, però, utilizzato per lo svolgimento di un’attività lecita di detto soggetto, l’intestatario del conto (fiduciario) è tenuto, per il fatto stesso di apparire verso i terzi come intestatario del conto ed a maggior ragione per il fatto di non averne la concreta gestione, ad esercitare la necessaria vigilanza sul rispetto da parte di quel soggetto della finalizzazione dell’utilizzo del conto corrente esclusivamente all’esercizio della detta attività, conforme agli accordi presi. Ne consegue che, qualora l’intestatario ometta di esercitare tale vigilanza, disinteressandosi completamente della gestione del conto, e l’altro soggetto utilizzi il conto corrente per realizzare un illecito in danno di terzi, l’intestatario del conto corrente può rispondere sul piano causale a titolo di imprudenza e negligenza, ai sensi dell’art. 2043 c.c., del danno cagionato ai terzi per effetto dell’illecito.

VIII
Il trust come negozio fiduciario
Con il trust – al quale in questa sede si accenna solo per completezza trattandosi di un tipico rapporto giuridico fiduciario – alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un “fiduciario” detto trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato.
La Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, prevede che il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di “amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee”.
Il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione. Riceve quindi, relativamente a tali beni, un diritto di proprietà segregato e temporaneo nell’interesse altrui, diritto che non corrisponde in alcun modo ad un suo arricchimento o tutela, essendo preordinato ad una diversa destinazione la cui attuazione è rimessa al disponente stesso (da ultimo Trib. Modena, 22 novembre 2016; Trib. Milano, 20 maggio 2015).
La fiducia nel trust rileva – in conformità a quanto si è detto sopra trattando della natura non fiduciaria ma obbligatoria del pactum fiduciae – nel senso di affidabilità nelle capacità del soggetto incaricato dell’adempimento e non certo nel senso di non obbligatorietà dell’adempimento. Il concetto è messo bene in risalto da Cass. civ. Sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022 che affronta il tema delle violazioni dell’incarico fiduciario da parte del “trustee” – quali la cattiva gestione dei beni oggetto di trust, atti di gestione perfezionati in conflitto di interessi, omesso rendiconto, depauperamento del patrimonio destinato – che costituiscono presupposti sufficienti all’accoglimento della domanda di revoca del trustee infedele. Nella sentenza si segnala che tale incarico non si sostanzia e non si esaurisce nel compimento di un singolo atto giuridico (come nel mandato), bensì in una attività multiforme e continua che deve essere sempre improntata a principi di correttezza e diligenza. Non a caso, le norme di cui all’art. 334 c.c., in tema di usufrutto legale, e art. 183 c.c., in tema di comunione legale, contemplano la possibilità della revoca per aver “male amministrato”, formula, necessariamente generica e lata, che può concretarsi non solo per effetto di specifiche violazioni di legge, ma anche quando l’assolvimento della funzione non sia, nel complesso, improntato alla diligenza richiesta dalla natura fiduciaria dell’incarico, così da riuscire lesivo degli interessi che l’istituto mira a proteggere.
IX
Il contratto di affidamento fiduciario
La legge 22 giugno 2016, n. 112 (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare) al terzo comma dell’art. 1 prevede che “La presente legge è volta, altresì, ad agevolare le erogazioni da parte di soggetti privati, la stipula di polizze di assicurazione e la costituzione di trust, di vincoli di destinazione di cui all’articolo 2645-ter del codice civile e di fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario anche a favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale… in favore di persone con disabilità grave, secondo le modalità e alle condizioni previste dagli articoli 5 e 6 della presente legge.”
La nuova disciplina si propone di “favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone con disabilità” (art. 1, comma 1) ed a tal fine individua, dunque, quattro diversi strumenti giuridici astrattamente idonei a proteggere gli interessi dei soggetti con disabilità grave: le polizze di assicurazione; il trust; i vincoli di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. e, come sopra detto, i “fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario”.
Viene quindi riconosciuta (ma non ancora disciplinata) la figura (finora elaborata solo dalla dottrina) del “contratto di affidamento fiduciario” che, al pari del trust e dei vincoli di destinazione, deve rispettare alcune condizioni al fine dell’ottenimento delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 6 della stessa legge e che è ritenuta capace conseguire due effetti fondamentali per la realizzazione del programma di tutela del disabile che sono da un lato la costituzione di un patrimonio separato in capo al fiduciario, composto dai beni (i “fondi speciali”) destinati all’attuazione del programma fiduciario e dall’altro l’opponibilità ai terzi del vincolo di destinazione (e quindi dello stesso programma fiduciario).
La nuova figura dovrà essere disciplinata quanto prima da una legge che potrà fondarsi sulla elaborazione finora proposta dalla dottrina secondo la quale il contratto in questione stipulato tra un “affidante” e un “affidatario fiduciario” con un garante (guardian) che potrebbe essere lo stesso affidante o un terzo, titolare dei poteri che le parti gli attribuiscono, in particolare quello di agire sul patrimonio dedicato per gli scopi di tutela programmati. Il contratto di affidamento fiduciario richiede, appunto, un programma che mira a realizzare da parte del soggetto fiduciario interessi meritevoli di tutela e di protezione. L’inadempimento del fiduciario potrà dare luogo alla nomina di altro fiduciario ed eventualmente a una azione per il risarcimento del danno. Il soggetto affidante – parte del contratto – può legittimamente intervenire nell’esecuzione del contratto per la migliore realizzazione del programma e potrà anche agire in giudizio contro il fiduciario. L’attuazione del programma è affidata al fiduciario al quale debbono essere trasferiti i mezzi necessari per attuarlo che formano il “patrimonio dedicato” separato, naturalmente, dai sui beni personali, ed aggredibile dai soli creditori della destinazione.
Giurispudenza
Cass. civ. Sez. III, 23 marzo 2017, n. 7416 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, la prova per testimoni del “ pactum fiduciae” è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e ss. c.c. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, onde realizzare uno scopo ulteriore in rapporto a quello naturalmente inerente al tipo di contratto stipulato, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento, mentre ove il patto si ponga in antitesi con quanto risulta dal contratto, la qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.
Trib. Massa, Sez. Unica, 3 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le norme che determinano i termini di prescrizione dei diritti vanno lette ed interpretate alla luce dell’art. 2935 c.c., secondo il quale il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui il diritto può essere fatto valere; va da sé che nell’ipotesi di intestazione fiduciaria di quote societarie, il diritto del fiduciante ad ottenere il “ritrasferimento della quota” da parte del fiduciario può essere fatto valere, in difetto di diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario riceve la richiesta di restituzione e rifiuta l’adempimento, considerato che prima di tale data sussiste solo un obbligo di trasferimento a richiesta del fiduciante e non una obbligazione inadempiuta.
Trib. Modena, 22 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con il trust alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un “fiduciario” detto trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato. La Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, prevede che il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di “amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee”. Benché il trust non abbia personalità giuridica, dunque, il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione. Riceve quindi, relativamente a tali beni, un diritto di proprietà segregato e temporaneo nell’interesse altrui, diritto che non corrisponde in alcun modo ad un suo arricchimento o tutela, essendo preordinato ad una diversa destinazione la cui attuazione è rimessa al disponente stesso. Pertanto, quando il trustee in una istauranda causa sia interessato in proprio contro il trust, sussistendo nel caso di specie un conflitto “d’interesse processuale”, va disposta la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c.
Cass. civ. Sez. III, 28 dicembre 2016, n. 27180 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo, l’obbligo di vendita dell’immobile, assunto dal locatore in forza di un patto fiduciario stipulato con un terzo anche anteriormente alla conclusione del contratto di locazione, non è idoneo a sopprimere il diritto di prelazione del conduttore, che trova fondamento nella salvaguardia del suo interesse – dotato di rilessi pubblicistici – alla prosecuzione dell’attività svolta per tutta la durata del rapporto, così che il diritto di prelazione del conduttore prevale sull’interesse delle parti del negozio fiduciario.
Trib. Vicenza Sez. II, 13 aprile 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, destinato a realizzare un determinato effetto giuridi¬co non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti “inter partes”, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del “pactum fiduciae”.
Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17785 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Realizzandosi il negozio fiduciario mediante il collegamento di due negozi, parimenti voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, “inter partes” ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo, l’intestazione fiduciaria di quote di partecipazione societaria integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (diversamente dal caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, ed a ritrasfe¬rirgliele ad una scadenza concordata, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’alienazione di quote societarie dal padre ai figli, con contestuale rilascio di procura irrevo¬cabile alla retrocessione o al trasferimento a terzi, realizzasse un “pactum fiduciae” volto ad attribuire ai figli i poteri gestionali della società e a lasciare al genitore quelli di controllo).
Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’intestazione fiduciaria di un bene – frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantag¬gio del fiduciante – comporta che il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, “inter partes”, del ritrasferimento al soggetto fiduciante, oppure al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del “pactum fidu¬ciae”, laddove manca in detta figura qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest’ultimo si rivela soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante.
Trib. Milano, 20 maggio 2015 (Trust, 2016, 7, 380)
Il trustee è litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal terzo creditore del disponente per sentir dichiarare la simulazione o, in subordine, l’inefficacia ex art. 2901 c.c. dell’atto di conferimento di beni in trust, in considerazione del fatto che il trustee è il soggetto che amministra il patrimonio nell’interesse dei beneficiari, nonché il proprietario fiduciario del bene o del diritto il cui trasferimento è impugnato.
Trib. Monza Sez. I, 11 maggio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di obbligazioni e contratti, il “negozio fiduciario “ rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente, in sostanza, alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae.
Trib. Taranto Sez. II, 27 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In considerazione del rapporto fiduciario che caratterizza il contratto di prestazione d’opera intellettuale, ciascuna parte può recedere dal contratto indipendentemente dalla presenza di giusti motivi a carico del prestatore d’opera, permanendo in capo a quest’ultimo il diritto ad ottenere il rimborso delle spese sostenute ed a percepire il compenso per l’opera svolta fino al momento del recesso. Ciò non esclude, tuttavia, che, ove si inseriscano nel contratto clausole estranee al contenuto tipico del negozio di prestazione d’opera, alle stesse possano applicarsi le ordinarie regole in tema di inadempimento contrattuale con la conseguente possibilità, nel caso di contratti a prestazioni corrispettive, di azionare la forma di autotutela rappresentata dall’eccezione di inadempimento.
Cass. civ. Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23158 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito, sicché la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, apprestando l’ordinamento, a tutela di chi risulti dan¬neggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione dell’inefficacia
Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, costituito da un negozio reale traslativo realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbliga¬torio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio (il vero e proprio “pactum fiduciae”) per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o a un terzo; l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nella in¬terposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interpo¬nente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo, ad una scadenza convenuta ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11757 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato, richiede, qualora riguardi beni immobili, la forma scritta “ad substantiam” e la prova per testimoni di tale patto è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e segg. cod. civ. – sempre che non comporti, il trasfe¬rimento, sia pure indiretto, di beni immobili – soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di accordo, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento. Qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’ap¬plicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito osservando che il “pactum fiduciae” comportante il trasferimento indiretto di beni immobili attraverso l’intestazione di quote di partecipazione della società proprietaria di tali beni deve essere stipulato per iscritto e non può essere provato con testimoni)
Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 (Giur. It., 2015, 3, 582 nota di STEFANELLI)
L’obbligo di ritrasferimento che trae le sue origini da un pactum fiduciae concluso oralmente, può rinvenire autonoma fonte in una dichiarazione unilaterale, qualora essa contenga la chiara enunciazione dell’impegno attuale del soggetto ad effettuare una determinata prestazione in favore di altro soggetto, ai sensi dell’art. 1174 c.c. Il riferimento alla causa di questo impegno, indicata nel negozio fiduciario intercorso tra le parti, non rileva ai soli fini dell’astrazione processuale, ma è idoneo a dare liceità causale e meritevolezza all’impegno assunto con l’atto unilaterale.
La dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un precedente accordo fiduciario non costituisce semplice promessa di pagamento ma autonoma fonte di obbligazioni se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, e, qualora il firmatario non dia esecuzione a quanto contenuto nell’impegno unilaterale, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., purché l’atto unilaterale contenga l’esatta individuazione dell’immobile, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali. (Cassa con rinvio, App. Catania, 28/09/2009)
In tema di negozio fiduciario una dichiarazione scritta contenente un impegno che nasce come unilaterale e che come atto uni¬laterale ha una propria autonoma dignità è atto a costituire fonte di obbligazioni in quanto è volto ad attuare l’accordo fiduciario preesistente. Tale atto è quindi idoneo a consentire al giudice di disporre coattivamente il trasferimento del bene fiduciariamente intestato ai sensi dell’art. 2932 c.c.
La dichiarazione unilaterale scritta, con cui un soggetto, in attuazione di un precedente accordo fiduciario stipulato oralmente, si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili, costituisce autonoma fonte di obbligazione se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, il quale è suscettibile di esecuzione in forma specifica, purché l’atto unilaterale individui con esattezza gli immobili, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali.
Cass. civ. Sez. III, 8 aprile 2014, n. 8153 (Danno e Resp., 2014, 12, 1125 nota di SANTORO)
Nel contratto di sponsorizzazione, in quanto rapporto caratterizzato da un rilevante carattere fiduciario, assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., contribuendo essi ad individuare obblighi, ulteriori o integrativi di quelli tipici del rapporto stesso, il cui inadempimento è patrimonialmente valutabile, ai sensi dell’art. 1174 cod. civ., e tale da giustificare una richiesta di risarcimento danni, purché siano specificati e provati i comportamenti pre¬giudizievoli e i loro concreti effetti lesivi.
Anche se il contratto di sponsorizzazione si caratterizza per il rilevante carattere fiduciario del rapporto, nell’ambito del quale assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali possono indurre ad individuare obblighi ulteriori o integrativi rispetto a quelli tipici del rapporto, a fini risarcitori non è sufficiente che la società sponsorizzata richiami generici doveri di salvaguardia degli interessi e dell’immagine dello sponsor. Per poter considerare tali doveri oggetto di obblighi di comportamento patrimonialmente valutabili ai sensi dell’art. 1174 c.c., lo sponsor deve addurre, invece, la specifica prova dei comportamenti pregiudizievoli, della loro accessorietà rispetto all’accordo di sponsorizzazione e dei loro concreti effetti lesivi per lo sponsor tali da giustificare una richiesta di risarcimento del danno all’immagine subito, ovvero l’effettiva sussistenza ed entità delle sue perdite di profitti e soprattutto il nesso causale fra dette perdite e le vicende che hanno condotto al preteso inadempimento.
Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2014, n. 6514 (Foro It., 2014, 10, 1, 2884)
È ammissibile, in quanto non risulta privo di causa, il negozio fiduciario statico.
Trib. Milano Sez. IV, 10 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario 23deve annoverarsi nella più ampia categoria dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un de¬terminato effetto giuridico in via non diretta, ma indiretta. Poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento dello stesso in favore del fiduciario, pertanto, ove il patto abbia ad oggetto beni immobili, esso deve necessaria¬mente risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam. Formulata domanda di rilascio dell’immobile occupato dalla con-venuta ed eccepita, da parte di questa, l’intestazione solo fittizia del bene a parte attrice, l’esistenza del contratto asseritamente dissimulato deve essere, pertanto, necessariamente provata per iscritto, con conseguente inammissibilità di tutte le istanze istruttorie eventualmente formulate da parte convenuta al fine di ricostruire in via testimoniale la esistenza del factum fiduciae.
Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario è un accordo tra due soggetti, con cui il fiduciante trasferisce, o costituisce, in capo al fiduciario una situa¬zione giuridica soggettiva per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore. Il fiduciario, per la realizzazione di tale obiettivo, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, avendo un com¬portamento coerente e congruo. Ciò premesso, non essendo tale fattispecie contrattuale espressamente disciplinata dalla legge e non essendoci una disposizione esplicita in senso contrario, essa è soggetta al principio generale della libertà della forma. (Nel caso di specie, l’attribuzione di titoli di credito oggetto di contestazione è stata giustificata, stante le risultanze istruttorie, alla luce di un obbligo che la resistente aveva assunto con un dato soggetto (fiduciante) e non, invece, per spirito di liberalità, come sostenuto dal ricorrente).
La cessione di titoli senza corrispettivo non è sempre sorretta dall’animus donandi, atteso che non ogni attribuzione patrimoniale gratuita integra una donazione, ma solo quella fatta per spirito di liberalità. È configurabile, invece, un negozio fiduciario allorché un soggetto (fiduciante) trasferisce ad un altro soggetto (fiduciario) la titolarità di un diritto il cui esercizio viene limitato da un accordo tra le parti (pactum fiduciae) per uno scopo che il fiduciario si impegna a realizzare, ritrasferendo poi il diritto allo stes¬so fiduciante o ad un terzo beneficiario. La fattispecie si sostanzia in un accordo tra due soggetti, con cui il primo trasferisce (o costituisce) in capo al secondo una situazione giuridica soggettiva (reale o personale) per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore, ed il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, e di porre in essere un proprio comportamento coerente e congruo. Trattandosi di fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge, e, in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà di forma.
Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5160 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rimedio previsto dall’art. 2932 cod. civ., al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere “ex lege”.
Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 (Trust, 2012, 6, 633)
L’intestazione fiduciaria di un bene, frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, ha luogo solo ove il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae. Manca, dunque, nell’istituto qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest’ultimo è soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante. Qualora, dunque, l’effetto reale non risulta esse¬re accompagnato da alcun patto contenente l’obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato, non può intendersi posto in essere il menzionato negozio. Stante quanto innanzi, la fattispecie dell’acquisito di un’azienda da parte del nominato con denaro del preteso fiduciante, stipulante, deve correttamente qualificarsi come donazione indiretta e non come intestazione fiduciaria.
Affinché si verifichi l’intestazione fiduciaria di un bene, che deriva dalla combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, è necessario che il trasferimento in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae, in mancanza del quale non si può ritenere sussistente l’intestazione fiduciaria del bene, bensì una donazione indiretta.
In tema di modificazioni della domanda giudiziale, laddove l’atto di citazione sia diretto ad ottenere il trasferimento di un de¬terminato bene in favore dell’attore in forza dell’obbligo assunto dall’intestatario fiduciario , costituisce domanda nuova – e non semplice precisazione o modificazione della domanda già proposta, consentita in virtù della facoltà concessa alle parti dall’art. 183 cod. proc. civ. – la richiesta volta al riconoscimento della proprietà dello stesso bene, sul presupposto del carattere fittizio dell’intestazione, discendente dalla simulazione tanto della dichiarazione di nomina da parte dello stipulante, quanto dell’accet¬tazione della persona nominata, e ciò data la diversità tra le due anzidette fattispecie, deducendosi con la prima l’esistenza di un contratto valido ed efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell’obbligo di ritrasferire il bene a vantaggio del fiduciante, e con la seconda, invece, un’ipotesi di divergenza tra volontà e manifestazione. (Rigetta, App. Roma, 14/07/2009)
Cass. civ. Sez. III, 14 novembre 2011, n. 23728 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fiduciario è obbligato a ritrasferire il bene al fiduciante prescindendo dalla sua eventuale richiesta. Il fiduciario risulta privo della legittimazione sostanziale a disporre del bene sia inter vivos che mortis causa.
Nel contratto fiduciario di compravendita immobiliare l’obbligo di ritrasferimento del bene deve essere adempiuto dal fiduciario acquirente a prescindere dalla relativa eventuale richiesta da parte del fiduciante venditore. Ne consegue che, in caso di ina¬dempimento all’anzidetto obbligo, ove le parti non abbiano stipulato al riguardo una clausola risolutiva espressa determinante la risoluzione dello stesso contratto di trasferimento, il fiduciario è tenuto, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., al risarcimento del danno ed è privo di legittimazione sostanziale a disporre del bene sia “inter vivos” che “mortis causa”.
App. Napoli Sez. II bis, 14 settembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un negozio fiduciario, un soggetto-fiduciante trasferisce in proprietà un bene ad un altro soggetto fiduciario non già per realizzare uno scambio, quanto piuttosto per conseguire uno scopo diverso dall’effetto traslativo, con l’obbligo del fi¬duciario di ritrasferire la proprietà del bene a semplice richiesta al fiduciante o ad un terzo indicato dal medesimo. Ne deriva, dunque, che l’effetto traslativo è limitato nei rapporti interni da un patto obbligatorio, che non richiede la forma scritta e che può essere provato liberamente, non comportando alcun ampliamento o modificazione del contenuto del contratto stipulato fiduciariamente.
Trib. Trieste, 10 agosto 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti posti in essere in adempimento di un’obbligazione e, conseguen¬temente, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario. Quanto detto non trova applicazione nel caso in cui sia provato il carattere fraudolento del negozio, con cui il debitore ha assunto l’obbligo poi eseguito, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un factum de contraendo validamente posto in essere cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163 (Giur. It., 2012, 5, 1045 nota di PERROTTA, MICHETTI)
Il negozio fiduciario come specie del più ampio genere dei negozi indiretti si contraddistingue per il fatto di realizzare un determina¬to effetto giuridico non in via diretta, bensì indiretta. Pertanto, poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, ove tale patto abbia a oggetto beni immobili, esso deve risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile a un contratto preliminare; né l’atto scritto può essere so¬stituito da una dichiarazione confessoria proveniente dall’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – anche quando contenga il preciso riferimento a un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo.
Il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti “inter partes”, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del “pactum fiduciae”. Ne consegue come necessario corollario che se il “pactum fiduciae” riguardi beni immobili, occorre che esso risulti da un atto in forma scritta “ad substantiam”, atteso che la “ratio” dell’art. 1351 c.c., dettato in tema di contratto preliminare, è invocabile anche in caso di negozio fiduciario.
Cass. civ. Sez. II, 7 aprile 2011, n. 8001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fidu¬ciante o di altro soggetto da costui designato, richiede, allorché riguardi beni immobili, la forma scritta ad “substantiam”, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 cod. civ. prescrive la stessa forma del contratto definitivo.
Trib. Roma Sez. X, 10 febbraio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario, allorché si riferisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo siffatta dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante del contratto, né come prova dello stesso, tenuto conto che il medesimo non può essere dimostrato mediante la prova testimoniale, all’infuori dell’ipotesi eccezio¬nale di perdita incolpevole del documento.
Trib. Milano, 1 febbraio 2001 (Società, 2001, 8, 973 nota di DI MAIO)
La simulazione si concretizza nella divergenza tra volontà e manifestazione, mentre la fiducia consiste nella effettività del con¬tratto, valido ed efficace, che costituisce a carico del fiduciario l’obbligo di provvedere al ritrasferimento al fiduciante.
Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con il negozio fiduciario si opera il trasferimento della titolarità di un diritto dal fiduciante al fiduciario o l’acquisto da terzi di un diritto da parte del fiduciario stesso con danaro fornito dal fiduciante, il cui esercizio viene disciplinato da un’intesa interna, con la quale l’interposto si obbliga a comportarsi in una maniera determinata. Il negozio fiduciario si realizza mediante il collega¬mento dei due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno e obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a trasferire, in tutto o in parte, la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o a un terzo. Il negozio fiduciario che inerisca al trasferimento di beni immobili deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale della sua validità, ai sensi dell’ art. 1350 c.c., forma che assolutamente non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo tale dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori della sola ed eccezionale ipotesi di perdita incolpevole del documento. Ciò posto, nel caso di specie, relativo all’accertamento dell’esistenza di un negozio fiduciario tra le parti in causa con conseguente trasferimento del 50% delle quote di proprietà dell’immobile acquistato in favore dell’appellante, il Tribunale, difettando il requisito della forma scritta ad substantiam, definitivamente pronunciando, rigetta la domanda di parte attrice.
Cass. civ. Sez. III, 17 maggio 2010, n. 11974 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un re¬quisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale. Accertare la natura, l’entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2010, n. 11314 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’acquisto di una quota di società di persone operato dal fiduciante non produce effetti reali immediati nel patrimonio del fidu¬ciario: infatti il negozio fiduciario si qualifica come una combinazione di due fattispecie negoziali collegate, l’una costituita da un negozio reale traslativo, a carattere esterno, realmente voluto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altra (il vero e proprio pactum fiduciae) avente carattere interno ed effetti meramente obbligatori, diretta a modificare il risultato finale del negozio esterno mediante l’obbligo assunto dal fiduciario di ritrasferire al fiduciante il bene o il diritto che ha formato oggetto dell’acquisto.
Il “pactum fiduciae” avente ad oggetto la cessione di quota di società di persone con patrimonio immobiliare non richiede la forma scritta, non comportando essa anche un trasferimento, dal cedente al cessionario, dei diritti immobiliari, che restano vi¬ceversa nella titolarità della società, che non è essa stessa parte del negozio di cessione.
Trib. Roma Sez. X, 29 aprile 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il pactum fiduciae con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato richiede, allorché immobili, la forma scritta ad substantiam atteso che essa è sostanzial¬mente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 c.c., prescrive la stessa firma del contratto definitivo.
Trib. Gallarate, 5 febbraio 2010 (Contratti, 2010, 4, 375)
A norma dell’art. 2901, comma 3, c.c., non sono soggetti a revoca i c.d. atti dovuti ovvero gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione, ed in particolare, i contratti conclusi in esecuzione di un preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto. E ciò perché la stipulazione del negozio definitivo non è che l’esecuzione doverosa di un “pactum de contraendo”, validamente posto in essere – “sine fraude” – cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 2009, n. 8127 (Contratti, 2009, 8-9, 761 nota di SCARPA)
Qualora un soggetto acconsenta, su richiesta di un altro, ad intestarsi un conto corrente in via fiduciaria, cioè con l’intesa che le somme che su di esso transitino sono di pertinenza dell’altro soggetto, che costui avrà in concreto la gestione del conto e che esso sarà, però, utilizzato per lo svolgimento di un’attività lecita di detto soggetto, l’intestatario del conto (fiduciario) è tenuto, per il fatto stesso di apparire verso i terzi come intestatario del conto ed a maggior ragione per il fatto di non averne la concreta gestione, ad esercitare la necessaria vigilanza sul rispetto da parte di quel soggetto della finalizzazione dell’utilizzo del conto corrente esclusivamente all’esercizio della detta attività, conforme agli accordi presi. Ne consegue che, qualora l’intestatario ometta di esercitare tale vigilanza, disinteressandosi completamente della gestione del conto (astenendosi, come nella specie, dal controllare gli estratti conto e rimettendoli senza leggerli all’altro soggetto, firmando assegni in bianco che venivano riempiti dal medesimo e non preoccupandosi neppure di conoscere quale fosse l’importo accreditato), e l’altro soggetto utilizzi il conto corrente per realizzare un illecito in danno di terzi, l’intestatario del conto corrente può rispondere sul piano causale a titolo di imprudenza e negligenza, ai sensi dell’art. 2043 c.c., del danno cagionato ai terzi per effetto dell’illecito.
Nell’ambito del negozio fiduciario il soggetto che assume nei confronti dei terzi la titolarità di una posizione giuridica (nella specie, intestazione di un conto corrente), non è esonerato dal controllo verso l’altro contraente del factum fiduciae affinché lo svolgimento del rapporto sia costantemente mantenuto entro i limiti del regolamento negoziale giusta le motivazioni che hanno dato luogo alla stipulazione del patto.
Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero trasferimento in favore del fiduciario. Tuttavia, l’efficacia del detto tra¬sferimento può essere limitata dagli obblighi pattiziamente stabiliti. Quindi deve ritenersi valido il negozio in cui si afferma che l’acquisto di un immobile da parte di un fratello è fatto anche quale fiduciario dell’altro, nel caso in cui l’effettivo trasferimento debba effettuarsi oltre il temine decennale del divieto di alienazione previsto in materia di edilizia popolare.
L’intestazione fiduciaria di un bene determina sin da subito un vero trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti tra le parti, compreso per primo quello del trasferimento al fiduciante. Il negozio fiduciario, infatti, rientra nella categoria dei negozi indiretti con cui un certo contratto viene posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico e corrispondente in sostanza alla funzione di un altro negozio.
Trib. Bari Sez. IV, 17 dicembre 2008 (Trust, 2009, 6, 652)
Il negozio fiduciario costituisce una figura negoziale atipica retta dal principio della libertà delle forme. Non essendo richiesta la forma scritta né “ad substantiam né ad probationem” la sussistenza del “pactum fiduciae” può essere provata con qualsiasi mezzo, anche con prova testimoniale.
Il trasferimento di quote societarie in favore del fiduciante che ne abbia fatto richiesta può essere ordinato ex art. 2932 c.c. a fronte del rifiuto del fiduciario di provvedervi.
Cass. civ. Sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022 (Corriere Giur., 2009, 2, 215 nota di GALLUZZO)
Violazioni dell’incarico fiduciario da parte del “trustee” – quali la cattiva gestione dei beni oggetto di trust, atti di gestione per¬fezionati in conflitto d’interessi, omesso rendiconto, depauperamento del patrimonio destinato – costituiscono presupposti suffi¬cienti all’accoglimento della domanda di revoca del “trustee” infedele.
Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2008, n. 9970 (Nuova Giur. Civ., 2008, 11, 1, 1352 nota di MARTONE)
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione (cosiddetti atti dovuti) e, quindi, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un “pactum de contrahendo” validamente posto in essere (“sine fraude”) cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione (cosiddetti atti dovuti) e, quindi, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un “pactum de contrahendo” validamente posto in essere (“sine fraude”) cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi. (Nella specie la S.C., in applicazione del riportato principio, ha confermato la sentenza impugnata di rigetto della domanda ex art. 2901 cod. civ. proposta in relazione ad un contratto di vendita di un immobile stipulato in esecuzione di un precedente contratto preliminare, evidenziando che la verifica della sussistenza dell’”e¬ventus damni” va compiuta con riferimento alla stipulazione definitiva mentre il presupposto soggettivo del “consilium fraudis” va valutato con riferimento al contratto preliminare).
Cass. civ. Sez. III, 18 marzo 2008, n. 7282 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Giusta quanto assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, si osserva – infatti – che la frode fiscale, diretta ad eludere le norme tributarie trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio (Cass. 5 novembre 1999, n. 12327; Cass. 24 ottobre 1981, n. 5571).
Proprio con specifico riguardo alla materia locatizia, del resto, in molteplici occasioni questa Corte ha enunciato il principio se¬condo cui la violazione della normativa fiscale non incide sulla validità o efficacia di un contratto, ma ha rilievo esclusivamente tributario (cfr., ad esempio, Cass. 22 luglio 2004, n. 13621, resa in una fattispecie anteriore all’approvazione dello statuto del contribuente e della L. n. 431 del 1998, in cui per motivi fiscali erano stati redatti due originali del contratto di locazione recanti importi diversi).
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2007, n. 16992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, la prova per testimoni del “pactum fiduciae” è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e ss. cod. civ. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento con¬trattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di contratto stipulato, ma senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento; qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto ri¬sulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento
App. Napoli Sez. III, 17 febbraio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o ad un terzo.
Trib. Modena, 16 dicembre 2005 (Obbl. e Contr., 2006, 6, 560 nota di SCHIAVONE)
Il carattere fiduciario della titolarità di un diritto non può costituire il fondamento di una domanda di accertamento della pro¬prietà esclusiva del fiduciante, in quanto l’intestazione del fiduciario è reale. Può invece fondare l’azione di carattere obbligatorio mirante ad ottenere il ritrasferimento del diritto.
Trib. Genova, 13 ottobre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario, quando inerisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, quale elemen¬to essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo essa dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso contratto.
Trib. Genova Sez. IV, 20 giugno 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo.
Trib. Genova, 23 maggio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cessione di azioni tra l’intestatario fiduciario e un terzo, avvenuta con l’intento comune alle due parti di rendere possibile al fiduciario di sottrarsi al proprio obbligo di trasferimento a favore del fiduciante, va dichiarata inefficace nei confronti del fiducian¬te, mentre resta accertato l’obbligo in capo al fiduciario di trasferimento delle dette azioni, siccome conseguente all’accertamento della intestazione fiduciaria da cui tale obbligo consegue.
Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tenuto conto che il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo, l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nel caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza conve¬nuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario. (Nella specie, è stata negata la natura fiduciaria dell’intestazione a favore della moglie del ricorrente delle quote societarie alla medesima cedute dalla madre di quest’ultimo, essendo stata esclusa l’esistenza di un “pactum fiduciae” fra la cessionaria e il marito, che era risultato peraltro estraneo al negozio di cessione).
Cass. civ. Sez. II, 13 ottobre 2004, n. 20198 (Contratti, 2005, 5, 437 nota di VALENTINI)
La possibilità di attribuire efficacia costitutiva ad una dichiarazione ricognitiva dell’altrui diritto dominicale su un bene immobile (nella specie, contenuta in un contratto di compravendita di altro immobile) presuppone che anche la causa della dichiarazione risulti dall’atto, atteso che, trattandosi di un bene immobile per il cui trasferimento è necessaria la forma scritta “ad substan¬tiam”, tutti gli elementi essenziali del negozio debbono risultare per iscritto.
Cass. civ. Sez. II, 1 aprile 2003, n. 4886 (Corriere Giur., 2003, 8, 1041 nota di MARICONDA)
Il negozio fiduciario di natura traslativa si articola in due distinti ma collegati negozi, dei quali, il primo, avente carattere esterno, realmente voluto dalle parti ed efficace verso i terzi; l’altro, interno ed a contenuto obbligatorio, volto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire al fiduciante o ad un terzo il bene o il diritto acquistato col negozio reale.
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o a un terzo. La Corte, nel formulare il surrichiamato principio, ha confermato la correttezza della pronuncia di merito, la quale aveva ritenuto l’esistenza di un negozio fiduciario nella scrittura privata con la quale l’acquirente di un bene immobile, riconoscendo la natura fiduciaria dell’intestazione e – conseguen¬temente – la relativa proprietà a favore di un terzo, aveva contestualmente assunto l’obbligo di trasferirgli il diritto.
Trib. Milano, 19 novembre 2001 (Giur. It., 2002, 1438 nota di FIORIO)
Deve ritenersi ammissibile il contratto fiduciario, riconducibile alla “fiducia germanistica”, con cui un fiduciante attribuisca ad una società fiduciaria la legittimazione all’esercizio dei diritti inerenti le quote di s.r.l. ma non la titolarità delle quote.
Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2001, n. 14375 (Contratti, 2002, 2, 186)
Il diritto del fiduciante alla restituzione dei beni intestati al fiduciario si prescrive con il decorso dell’ordinario termine decenna¬le, che decorre, in difetto di una diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario, avutane richiesta, abbia rifiutato il trasferimento del bene.
Trib. Roma, 30 maggio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario è una categoria non espressamente disciplinata dalla legge, e pur tuttavia tutelata dalla legge in base ai principi dell’autonomia contrattuale, che si realizza mediante il collegamento tra due negozi, uno di carattere esterno, realmente voluto (a differenza del contratto assolutamente o relativamente simulato) e spiegante i suoi effetti nei confronti dei terzi – com¬portante il trasferimento di un diritto in capo ad un soggetto ( fiduciario ) e l’altro, di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato del negozio esterno, comportante l’obbligo per il fiduciario di trasferire il diritto attribuitogli con negozio esterno all’altra parte del negozio interno (fiduciante).
Cass. civ. Sez. II, 13 aprile 2001, n. 5565 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio, fiduciario quando inerisce al trasferimento di beni immobili deve rivestire la forma scritta “ad substantiam” quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Detta forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo detta dichiarazione essere utilizzata nè come elemento integrante il contratto, nè come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori dell’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del documento (art. 2725, comma 2, c.c., in relazione all’art. 2724 n. 3 c.c.).
Cass. civ. Sez. II, 19 luglio 2000, n. 9489 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiducian¬te o di altro soggetto da costui designato, richiede, allorché riguardi beni immobili, la forma scritta “ad substantiam” atteso che essa è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 c.c. prescrive la stessa forma del contratto definitivo.
Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1898 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice, nel procedere all’identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all’individuazione della disci¬plina che lo regola, deve procedere alla valutazione “in concreto” della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l’interprete, della generale conformità a legge dell’attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell’art. 1343 c.c. (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l’ordinamento giuridico) (Nell’enunciare il principio di diritto in questione la Corte ha annullatio la sentenza impugnata per avere omesso di accertare la conformità di un siffatto contratto ai parametri di liceità e meritevolezza previsti dalle citate disposizioni normative).
Cass. civ. Sez. II, 5 febbraio 2000, n. 1289 (Giur. It., 2000, 2289 nota di FORCHINO)
Il “pactum fiduciae” può configurarsi in relazione a situazioni giuridiche soggettive di natura reale o personale, assumendo rilie¬vo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene o il diritto acquistato al fiduciante o a terzi. è, pertanto, ravvisabile nell’ipotesi in cui il ritrasferimento al fiduciante concerna i diritti derivanti al fiduciario dal contratto preliminare di compravendita immobiliare già stipulato con terzi.
Trib. Cagliari, 10 dicembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto fiduciario, ove si consideri che il “pactum fiduciae”, oltre che per la dissociazione tra titolarità ed interesse, si caratte¬rizza soprattutto per l’obbligo del compimento di attività giuridica per conto del fiduciante, deve essere ricondotto alla fattispecie tipica del mandato senza rappresentanza.
La categoria del negozio fiduciario – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende sia l’accordo con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, ed eventualmente lo ritrasferisca a lui stesso o ad un terzo (cd. fiducia dinamica), sia l’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cd. fiducia statica).
La categoria del negozio fiduciario – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende sia l’accordo con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, ed eventualmente lo ritrasferisca a lui stesso o ad un terzo (cd. fiducia dinamica), sia l’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cd. fiducia statica).
Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1999, n. 13261 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di intestazione fiduciaria di azioni, ed in base al principio secondo cui, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, prevale “l’effettiva” proprietà del fiduciante rispetto alla titolarità “formale” del fiduciario , non può considerarsi affetta da nullità la specifica convenzione con la quale – all’interno del pactum fiduciae – il fiduciante si obblighi a tenere indenne il fiduciario dalle imposizioni fiscali gravanti su quest’ultimo in conseguenza dell’intestazione dei titoli azionari, non integrando tale traslazione dell’obbligazione tributaria gli estremi del pagamento di imposta da parte di soggetto diverso dal materiale percettore del cor¬rispondente reddito.
Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 1995, n. 1086 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, relativo a beni immobili, la designazione da parte del fiduciante della persona a favore della quale deve essere fiduciante il bene, in virtù dell’obbligo assunto dal fiduciario di modificare la situazione giuridica a lui facente capo, deve rivestire ad substantiam la forma scritta ( art. 1350 n. 1 e 1351 c.c.), non bastando a tal fine la prova presuntiva. Tale designazione, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, deve risultare chiaramente dalla scrittura documentale.
Cass. civ. Sez. I, 28 settembre 1994, n. 7899 (Nuova Giur. Civ., 1995, I, 959 nota di GIAMPAOLINO)
Integra una fattispecie di negozio fiduciario stipulato mediante interposizione reale di persona, e non già di simulazione relativa per interposizione fittizia, l’accordo con il quale due o più persone convengono di dare vita ad una società di capitali il cui capitale sociale sia stato conferito effettivamente da uno solo di essi, mentre gli altri sono solo apparentemente e fiduciariamente intesta¬tari di azioni o quote sociali ed hanno assunto l’obbligo di trasferire dette azioni o quote a chi ne ha somministrato i relativi mezzi economici; pertanto, a tale negozio non si applicano le limitazioni di prova previste dal c.c., qualora non venga in considerazione il trasferimento di diritti per i quali la legge richieda l’atto scritto “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993, n. 6024 (Corriere Giur., 1993, 855 nota di CARBONE)
Il negozio fiduciario (categoria non disciplinata legislativamente, ma elaborata dalla giurisprudenza e dalla dottrina e nella quale possono essere compresi alcuni contratti atipici) è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamento tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giu¬ridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
Il patto di fiducia che prevede l’obbligo del fiduciario di modificare la situazione giuridica a lui facente capo, a favore del fiduciante o di un altro soggetto da quest’ultimo designato, è soggetto, qualora riguardi beni immobili, alla forma scritta “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 3 maggio 1993, n. 5113 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il patto con il quale si conviene che uno dei contraenti acquisti un fondo in proprietà comune e trasferisca agli altri contraenti la quota ad essi rispettivamente spettante non può essere qualificato come negozio fiduciario di tipo traslativo, che è stipula¬to tra l’alienante e l’acquirente in vista di uno scopo pratico ulteriore rispetto a quello proprio della alienazione, né come una situazione di c.d. fiducia di tipo statico, che si innesta in una situazione giuridica preesistente in testa alla persona che, con il pactum fiduciae, accetta di dirottarla dal suo naturale esito, ma deve essere ricondotto alla figura giuridica del mandato senza rappresentanza ed, avendo per oggetto un bene immobile, deve essere stipulato per iscritto.
Trib. Napoli, 16 gennaio 1993 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fiducia comprende sia il negozio fiduciario, in cui il fiduciante trasferisce al fiduciario il diritto reale con il patto meramente obbligatorio e interno che l’acquirente ne faccia un uso determinato nell’interesse dell’alienante e/o lo ritrasferisca poi a quest’ul¬timo o ad un terzo (c.d. fiducia dinamica), sia la c.d. fiducia statica, in cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, almeno in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscere quest’ultimo come proprietario o compro¬prietario del bene acquistato. Mentre, nel primo caso, l’originaria proprietà del fiduciante consente, se si considera l’alienazione fiduciaria come investitura della mera legittimazione formale relativa al bene, di continuare a riconoscere la titolarità effettiva in capo al fiduciante stesso, al contrario, nel secondo caso, l’acquisto del fiduciante non può che trovare la sua fonte nel “pactum fiduciae”; pertanto, relativamente al trasferimento di beni immobili, e almeno in questa specifica situazione, il “pactum fiduciae” deve rivestire forma scritta “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché il negozio fiduciario, nella parte contenente il pactum fiduciae, non è trascrivibile, in considerazione della sua natura ob¬bligatoria, nulla impedisce al fiduciario di trasferire, in sua violazione, il diritto cedutogli ad un terzo, il cui acquisto è pienamente valido ed efficace anche nei confronti del fiduciante.
Il negozio fiduciario, sia quando venga preceduto da un atto di trasferimento del diritto del fiduciante al fiduciario (cosiddetta fi¬ducia dinamica) sia quando non lo sia, per essere il fiduciario già titolare del diritto che si obblighi a trasferire all’altro contraente o al terzo (cosiddetta fiducia statica), è sempre un atto realmente dovuto, con la conseguenza che ad esso non sono estensibili le norme che prevedono l’inopponibilità del negozio simulato ai creditori del titolare apparente.
App. Bologna, 14 giugno 1991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La stipulazione di un patto fiduciario avente ad oggetto il trasferimento di un immobile deve essere effettuata con il rispetto della forma scritta ad substantiam; la prova di tale negozio fiduciario non può essere data per testimoni (ad eccezione dell’ipotesi consacrata nel n. 3 dall’art. 2724 c.c.), né mediante giuramento e nemmeno mediante confessione, cui tende essenzialmente l’interrogatorio formale.
Trib. Chiavari, 30 aprile 1991 (Nuova Giur. Civ., 1992, I, 415 nota di GAGGERO)
La prova dell’esistenza di un negozio fiduciario, relativo a beni immobili, ascrivibile alla categoria dell’interposizione reale di per¬sona (tanto nell’ipotesi della fiducia statica che dinamica), può essere (tra le parti) soltanto documentale e non anche per testi, in applicazione dell’art. 2725 c. c.
Lo schema del negozio fiduciario si colloca interamente nell’ambito delle ipotesi dell’interposizione reale di persona, sia esso di tipo traslativo ovvero caratterizzato dalla cosiddetta.
Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1988, n. 5663 (Corriere Giur., 1988, 1268 nota di CATALANO)
Il negozio fiduciario (categoria non disciplinata legislativamente, ma elaborata dalla giurisprudenza e dalla dottrina e nella quale possono essere compresi alcuni contratti atipici) è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamento tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giu¬ridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
Deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo che prevede l’obbligo del fiduciario di trasferire beni immobili al fiduciante o ad altro soggetto, da quest’ultimo designato.
Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 1985, n. 5958 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il divieto di alienazione, posto a carico dell’acquirente in forza di pactum fiduciae, spiega effetti meramente interni (art. 1379 c. c.); l’inosservanza di tale divieto, pertanto, non interferisce sulla validità del contratto con il quale il fiduciario abbia trasferito il bene ad un terzo, indipendentemente dalla buona o mala fede di quest’ultimo, salvo restando il diritto del fiduciante di essere risarcito del danno derivantegli dall’inadempimento di quel patto.
Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 1985, n. 560 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo di beni immobili dal fiduciario al fiduciante in esecuzione del pactum fiduciae, ma non anche quest’ultimo.
Cass. civ. Sez. II, 7 agosto 1982, n. 4438 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o ad un terzo (nella specie: il supremo collegio, enunciando il surriportato principio, ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto l’esistenza di un negozio fiduciario, senza accertare l’esistenza del collegamento tra i due negozi, dei quali quello di carattere interno era risultato posteriore all’altro).
Negli schemi del pactum fiduciae rientra, oltre il negozio fiduciario di tipo traslativo, anche la cosiddetta fiducia statica i cui estre¬mi sono rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo scopo del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giuridica di cui si tratta.
Cass. civ. Sez. II, 17 febbraio 1961, n. 339 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In base al principio dell’autonomia contrattuale, il negozio fiduciario è riconosciuto dalla legge quale contratto innominato, in quanto si proponga di realizzare interessi leciti. Invece esso deve essere dichiarato nullo al pari di ogni altro negozio, che adem¬pia alla stessa funzione se, è diretto ad eludere la legge, ponendo in essere un risultato vietato e sanzionato da nullità.

Responsabilità civile del genitore

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 20 dicembre 2016 – 26 maggio 2017, n. 13412

Fatti di causa
Con atto notificato nel 1995 F. G. e G. C., genitori esercenti la potestà sul figlio minore L., agirono in giudizio nei confronti di C. I. e di R. C., in proprio e in rappresentanza del figlio minore S., esponendo che L. G. era stato ferito all’occhio sinistro con un ceppo dal compagno di giochi S. I. e che aveva riportato lesioni così gravi da essere costretto a lunga degenza ospedaliera e a subire due interventi chirurgici con la definitiva riduzione del visus di un 1/12 con lenti corneali.
Tanto premesso gli attori chiesero al Tribunale di Lanciano di dichiarare la responsabilità dei convenuti per l’infortunio occorso al figlio e di condannare gli stessi al risarcimento dei danni da liquidarsi equitativamente in lire 300.000.000, oltre rivalutazione ed interessi, con vittoria di spese di lite.
I convenuti si costituirono deducendo la genericità della domanda e l’estraneità del figlio S. alla causazione delle lesioni al piccolo L. e chiesero e ottennero di chiamare in causa i genitori di un terzo bambino, G. F., che nella circostanza stava giocando con i già indicati minori.
L. F. e R. S. si costituirono resistendo alle domande proposte nei loro confronti.
II Tribunale adito, con sentenza del 10 maggio 1997, dichiarò che l’infortunio di cui si discute in causa era attribuibile a colpa esclusiva del minore S. I. e per l’effetto condannò C. I. e R. C., quali genitori esercenti la potestà sul figlio minore, in solido tra loro, al pagamento dei danni in favore dell’infortunato, liquidati in lire 188.500.000, oltre rivalutazione ed interessi, rigettò la domanda proposta nei confronti dei coniugi I. in proprio e rigettò la domanda proposta da questi ultimi nei confronti dei genitori di G. F. e regolò tra le parti le spese di lite.
Avverso la decisione di primo grado C. I. e R. C., in proprio e in rappresentanza del figlio minore S., proposero appello cui resistettero da un lato, F. G. e G. C., in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sul minore L. G.., che proposero pure appello incidentale, e, dall’altra, R. S. e L. F., in proprio e in rappresentanza del figlio.
La Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza dell’8 giugno 2000, rigettò l’appello incidentale, con il quale F. G. e G. C., in proprio e nella dedotta qualità, avevano chiesto la condanna di C. I. e R. C., in proprio e nella dedotta qualità, al risarcimento dei danni ex art. 2048 cod. civ. nella misura già determinata dal Tribunale, accolse l’appello principale e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda proposta da F. G. e G. C., in proprio e nella dedotta qualità, nei confronti di C. I. e R. C., in proprio e nella detta qualità, con compensazione tra le predette parti delle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio di merito; condannò, inoltre, F. G. e G. C., in proprio e nella qualità, al pagamento delle spese di quel grado in favore di L. F. e R. S..
I genitori di L. G., in proprio e nella qualità, proposero ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resistettero soltanto C. I. e R. C., in proprio e nella qualità.
Questa Corte, con sentenza n. 1148 del 2005, accolse il primo motivo di ricorso, rigettò il secondo e rinviò la causa alla Corte di appello di Roma anche per le spese del giudizio di cassazione, affermando, tra l’altro, che: «la Corte di appello, nell’esaminare gli appelli principale e incidentale, ha corretto la qualificazione giuridica dell’azione di danno, riconducendola nell’ambito dell’art. 2047 del codice civile, essendo il fatto eziologicamente riferibile alla condotta di un bambino di sette anni compiuti e cioè, secondo le circostanze accertate, incapace di intendere e volere.
Tale norma prevede la responsabilità diretta del soggetto tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che non provi di non aver potuto impedire il fatto.
Orbene, poiché nessuno contesta il punto della accertata incapacità del minore (come si desume dal tenore del ricorso) la fattispecie appare esattamente inquadrata nello ambito dell’art. 2047 del codice civile, che ha una propria autonomia rispetto al successivo art. 2048 (Cfr. Cass. 24 maggio 1997 n.4633).
Ma la censura appare fondata sul punto relativo al cd. affidamento, come fatto traslativo della vigilanza.
Sul punto così motiva la Corte di appello (ff 13 della sentenza) “La presenza del G., padre di L., evidenziata dal primo giudice in riguardo alla condivisibile esclusione della culpa in vigilando della madre del S. (incapace e danneggiante) vale altresì ad impedire che nella specie possa assegnarsi fondamento critico alla censura che detto minore fosse abbandonato a sé stesso nella fase successiva del gioco, vero essendo al contrario che tale sorveglianza, nella consapevolezza materna della presenza di un adulto qualificato, che assisteva al gioco e della iniziale diversità ed innocuità dello stesso, non poteva che ritenersi tacitamente delegata a costui in virtù dell’id quod plerumque accidit, secondo i principi di civile convivenza”.
Questo ragionamento è giuridicamente errato proprio in relazione alla fattispecie normativa sotto cui sussumere il fatto storico lesivo, posto che la prova della traslazione della vigilanza incombeva al genitore dell’incapace danneggiale, ed è una prova particolarmente rigorosa, poiché la legge esige la dimostrazione di un fatto impeditivo assoluto (il non poter impedire un fatto, ad esempio perché determinato da forza maggiore o dal fortuito o dal fatto del terzo) mentre la Corte si affida ad una mera congettura di presunzione semplice (la normalità degli eventi tra persone dotate di buona educazione.) (cfr. Cass. 24 maggio 1997 n. 4633). Deve pertanto accogliersi il primo motivo di censura, sia sotto il profilo dell’error iuris che sotto quello della insufficienza della motivazione.
Infondata è invece la seconda censura in cui si richiede la applicazione in via equitativa della indennità di cui al secondo comma dell’art. 2047, sotto un duplice profilo: vuoi perché tale domanda non è stata mai proposta neppure in via implicita nella fase del merito, sia perché con l’accoglimento del primo motivo il danneggiato è posto in grado di ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza.
F. G., G. C. e L. G.. riassunsero quindi la causa dinanzi al giudice del rinvio.
Si costituirono in quella sede C. I., R. C. e S. I..
La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 31 luglio 2014, rigettò l’appello principale proposto da C. I. e da R. C., in proprio e nella qualità, e, in accoglimento dell’appello incidentale proposto da F. G., G. C. e L. G.., in totale riforma della sentenza impugnata, condannò C. I. e R. C., in solido, quali soggetti tenuti alla sorveglianza del minore S. I., al pagamento, in favore di L. G.., della somma di Euro 172.725,70, oltre interessi, e regolò tra le parti le spese di lite.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Roma C. I. e R. C. hanno proposto ricorso per cassazione basato su un unico motivo e illustrato da memoria.
F. G., G. C. e L. G.. hanno resistito con controricorso.
A seguito di deposito di proposta ex art. 380 bis cod. pro. civ. del relatore, il Presidente ha fissato l’adunanza della Corte con decreto comunicato alle parti.

Ragioni della decisione

1. Il Collegio ha disposto la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata.
2. L’unico motivo è così rubricato: «Violazione e falsa applicazione degli art. 384 comma 2 c.p.c. e 2047 c.c.. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ed omesso esame su di un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 codice di procedura civile)».
I ricorrenti sostengono che la Corte territoriale avrebbe solo in apparenza applicato il principio di diritto enunciato da questa Corte, perché non avrebbe «compiuto, nella sua interezza, l’accertamento che …[le] era stato demandato, volto ad accertare il verificarsi della traslazione della vigilanza di cui in narrativa».
Lamentano in particolare i ricorrenti che non sarebbe stato esaminato e valutato quanto riferito dagli attori nell’atto di citazione datato 21 novembre 1995, da cui emergerebbe che l’evento si sarebbe verificato nella campagna di F. G. e, quindi, nella sua proprietà, e alla presenza dello stesso soltanto quale adulto. Ad avviso dei ricorrenti, se tale circostanza fosse stata accertata avrebbe potuto ritenersi raggiunta la prova della traslazione della vigilanza del piccolo S. dai suoi genitori a F. G. e a tale conclusione dovrebbe pervenirsi tanto più valutando, nella sua interezza, la dichiarazione resa dalla nonna di S., che la Corte di merito avrebbe esaminato solo in parte.
2.1. Il motivo va rigettato.
2.2. Le doglianze proposte sono, infatti, per un verso infondate, non sussistendo la lamentata violazione dell’art. 384 cod. proc. civ. per l’asserita violazione del principio di diritto enunciato da questa Corte con la sentenza n. 1148 del 2005, essendosi a tale principio la Corte territoriale effettivamente – e non solo apparentemente, come lamentato dai ricorrenti – attenuta, né sussistendo la prospettata violazione dell’art. 2047 cod. civ., peraltro neppure sorretta da specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con la indicata norma regolatrice della fattispecie o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 15/01/2015, n. 635; Cass. 12/02/2013, n. 3285; Cass. 16/10/2007, n. 828), né sussistendo il vizio di omessa motivazione e di omesso esame su punti decisivi della controversia, avendo la Corte di merito motivato la sua decisione e avendo la stessa tenuto conto della presenza in loco di F. G. e della deposizione resa dalla teste A. M.. Va poi evidenziato che l’elemento di fatto desumibile dall’atto di citazione e della cui mancata valutazione si dolgono i ricorrenti (verificarsi dell’evento nella campagna di proprietà di F. G.), oltre a non risultare dall’atto di citazione, in cui manca ogni riferimento alla proprietà del fondo in cui si verificò il sinistro, risulta del tutto nuovo, non facendosi ad esso alcun cenno nella sentenza, né avendo i ricorrenti precisato in ricorso quando e in che termini si sia discusso dello stesso tra le parti, con conseguenti profili di inammissibilità della censura sollevata al riguardo. Si osserva infatti a tale ultimo riguardo che, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 3 marzo 2009, n. 5070; Cass. 30 novembre 2006, n. 25546 Cass. 18/10/2013, n. 23675). E comunque, ove sussistente, tale elemento di fatto sarebbe comunque privo di decisività.
2.3. Per altro verso, il motivo risulta inammissibile, nella parte in cui si censura la sentenza impugnata per insufficiente e contraddittoria motivazione.
Si evidenzia che, essendo la sentenza impugnata in questa sede stata pubblicata in data 31 luglio 2014, nella specie trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c, nella formulazione novellata dal comma 1, lett. b), dell’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella legge 7 agosto 2012, n. 134.
Alla luce del nuovo testo della richiamata norma del codice di rito, non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) del medesimo art. 360 c.p.c. (Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928; v. pure Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300) e va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257). E ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia – nella specie all’esame non sussistente, come già sopra evidenziato – si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
2.4. Si rileva, inoltre, che, con le doglianze proposte, i ricorrenti tendono, in sostanza, ad una rivalutazione del merito, non consentita in sede di legittimità (Cass., ord., 4/04/2017, n. 8758; Cass. 10/04/2006, n. 9233 e Cass. 21/10/2015, n. 21439).
Ed invero, con la proposizione del ricorso la parte ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., ord., 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 23/05/2014, n. 11511; Cass. 13/06/2014, n. 13485).
3. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
4. Sussistono i presupposti per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione, tenuto conto della particolarità della vicenda all’esame e alla luce della norma di cui all’art. 92 cod. proc. civ. nel testo ratione temporis applicabile nella specie.
5. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.

Difetto di giurisdizione del giudice italiano se il minore ha la residenza abituale all’estero

(Cass. civ., sez. un., 7 febbraio 2017 – 5 giugno 2017, n. 13912)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28848-2015 proposto da:
L.L.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DOMENICO CHELINI 20, presso lo studio dell’avvocato MARCO CALABRESE, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
B.M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MICHELE MERCATI 17/A, presso lo studio degli avvocati ROBERTA CESCHINI e ARMANDO RESTIGNOLI, che lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 5147/2015 del TRIBUNALE di ROMA.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/02/2017 dal Consigliere Dott. PIETRO CAMPANILE;
uditi gli Avvocati Marco CALABRESE e Armando RESTIGNOLI;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa CERONI Francesca, che ha chiesto che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, riunite in camera di consiglio, dichiarino il difetto di giurisdizione del giudice interno, con le conseguenze di legge.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso depositato in data 10 aprile 2015 il signor B.M. chiedeva al Tribunale di Roma la modifica delle condizioni della separazione consensuale dalla moglie sig.ra L.L.C., già omologate dallo stesso Tribunale con decreto in data 18 dicembre 2012, chiedendo che la figlia minore B.A., nata l'(OMISSIS), fosse affidata a lui in via esclusiva, con obbligo a carico della madre di contribuire al suo mantenimento e con conseguente nuova disciplina del diritto di visita.
2. Instauratosi il contraddittorio, la convenuta eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano, facendo presente che la figlia da due anni risiedeva abitualmente con lei a (OMISSIS), nello Stato di (OMISSIS).
3. Con decreto in data 28 ottobre 2015 il Presidente del Tribunale disponeva la comparizione personale delle parti, rilevando che l’eccezione preliminare della convenuta non appariva condivisibile, perchè il provvedimento di modifica delle condizioni della separazione aveva natura “integrativa” di quello di separazione, in relazione al quale la signora L.L.C. aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano.
4. La signora L.L.C. ha proposto ricorso ai sensi dell’art. 41 cod. proc. civ. affinchè sia risolta la questione relativa alla giurisdizione.
5. il sig. B. ha resistito con controricorso, eccependo in primo luogo l’inammissibilità del ricorso e sostenendo la giurisdizione del giudice italiano.
5. Il Procuratore Generale, al quale gli atti sono stati trasmessi ai sensi dell’art. 380 ter cod. proc. civ., ha chiesto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano, rilevando che nella specie la domanda attiene esclusivamente alla responsabilità genitoriale e che, quindi, deve operare il principio della vicinanza, fondato sulla residenza abituale della figlia minore, che pacificamente è inserita nel contesto sociale, scolastico e relazionale della cittadina dello Stato di (OMISSIS) in cui vive con la madre, trattandosi, per altro, di criterio non prorogabile;
6. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 12 del Regolamento U.E. n. 2201 del 27 novembre 2003: l’accettazione della giurisdizione del giudice italiano nel procedimento di separazione sarebbe stato erroneamente riferito – nel corso dello stesso – anche al successivo procedimento di revisione, laddove la norma testè richiamata, al n. 2, lett. b), prevede che “la competenza esercitata ai sensi del paragrafo 1 (domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio”), cessa non appena la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio sia passata in giudicato”.
1.1. Sotto altro profilo si denuncia la violazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 36, riferibile esclusivamente ai rapporti di natura sostanziale tra genitori e figli.
2. Con il secondo mezzo si denuncia l’omesso esame di un punto decisivo, per non essersi considerato che il padre della minore, indipendentemente dalle risultanze anagrafiche, si era trasferito in (OMISSIS), dove aveva avviato un’attività commerciale.
3. La terza censura riguarda l’interpretazione della citata L. n. 218 del 1995, art. 37, secondo cui la giurisdizione italiana sussiste “anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia”, nel senso che dovrebbe in ogni caso riconoscersi la primazia, affermata dalle fonte internazionali, della residenza abituale del minore; in via subordinata, si denuncia l’illegittimità di tale norma per contrasto con gli artt. 10 e 25 Cost..
4. In primo luogo deve disattendersi l’eccezione di inammissibilità del regolamento sollevata nel controricorso e fondata sulla emissione, nell’ambito del procedimento pendente davanti al giudice del merito, di un provvedimento in data 28 ottobre 2015, nel quale si dichiara che la competenza giurisdizionale appartiene al giudice italiano.
Il provvedimento suddetto, emesso all’esito di udienza presidenziale, pur contenendo rilievi in merito alla questione di giurisdizione sollevata dalla convenuta, non è ostativo alla proponibilità del regolamento di giurisdizione in quanto, essendosi concluso con l’ordine di comparizione personale delle parti “al fine di valutare anche la necessità di assunzione di provvedimenti di natura istruttoria”, non esorbita dalla funzione, attribuita ai provvedimenti presidenziali emessi ai sensi dell’art. 708 cod. proc. civ., meramente provvisoria ed interinale, con esclusione del carattere della decisorietà (Cass., 3 luglio 2014, n. 15186; Cass., 27 aprile 2006, n. 9688; Cass. 17 maggio 2002, n. 7299). Deve pertanto ribadirsi che la mera delibazione, in via incidentale, in ordine al tema della giurisdizione, contenuta in un provvedimento che, come chiaramente si desume anche dalla parte dispositiva, ha carattere meramente istruttorio ed è quindi privo di natura decisoria – essendo per altro nella specie ogni pronuncia riservata al collegio e non al presidente del tribunale – non può ritenersi preclusiva della proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione (Cass., Sez. U, 20 febbraio 2013, n. 4218; Cass., Sez. U., 27 novembre 2011, n. 22382).
4.1. Deve per altro affermarsi l’irrilevanza – per i fini che qui interessano – di ogni provvedimento – come quello depositato in data 8 gennaio 2016 e richiamato nel controricorso – emesso in epoca successiva alla proposizione dell’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione: deve invero ribadirsi che qualsiasi decisione di merito pronunciata dopo l’esperimento del regolamento preventivo di giurisdizione, in quanto condizionata alla conferma del potere giurisdizionale, non preclude la decisione sul regolamento medesimo, essendo inidonea a far venire meno l’interesse del ricorrente a coltivarlo (Cass. Sez. U, 16 maggio 2014, n. 10823; Cass., Sez. U, 23 maggio 2005, n. 10703).
4.2. Va infine osservato che tanto per le ragioni indicate, quanto per la stessa volontà manifestata al riguardo dalle parti, non può attribuirsi rilievo al successivo accordo di natura interinale, desumibile dal verbale dell’udienza in data 11 ottobre 2016, con i quali i genitori hanno previsto “in pendenza del regolamento di giurisdizione”, e fino al momento della relativa decisione, l’affidamento temporaneo della figlia al padre.
5. Occorre preliminarmente ribadirsi l’assoluta autonomia fra il giudizio di separazione e il successivo procedimento inerente alla revisione, in presenza di circostanze obiettive sopravvenute, delle relative condizioni: trattandosi di “novum iudicium”, sebbene ricollegato, in base al suo carattere di giudicato “rebus sic stantibus”, al regolamento attuato con la decisione divenuta definitiva o con l’omologa della separazione consensuale non più reclamabile (cfr., in tema di competenza, Cass., 22 marzo 2001, n. 4099; Cass. Sez. U, 16 gennaio 1991, n. 381), non può condividersi la tesi secondo cui l’accettazione della giurisdizione italiana da parte della signora L.L.C. nel giudizio di separazione personale riverbererebbe la sua efficacia anche nel giudizio di revisione. In realtà, indipendentemente dall’evidenziata autonomia dei giudizi, che trova uno specifico riferimento nel pur invocato art. 12, par. 2, lett. a) del citato regolamento n. 2201 del 2003, deve ribadirsi che il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla c.d. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore (Corte giustizia, 5 ottobre 2010, in causa 296/10), assume una pregnanza tale da comportare anche l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione (Cass., Sez. U, 30 dicembre 2011, n. 30646).
6. Ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione in esame, deve individuarsi in primo luogo l’esatta portata della domanda proposta dal sig. B. al Tribunale di Roma. Sotto tale profilo, come correttamente posto in evidenza dal Procuratore Generale, non è dubitabile che l’azione, sia pure prospettata come modifica delle condizioni della separazione, è unicamente rivolta all’affidamento della figlia minore al padre. Infatti il ricorrente, premesso che nell’ambito delle condizioni della separazione omologate era previsto che la madre e la figlia trasferissero la propria residenza nello Stato di (OMISSIS), e che tale trasferimento era stato attuato sin dall’anno 2013, ha chiesto l’affidamento in via esclusiva della figlia.
Si verte, pertanto, esclusivamente in materia di responsabilità genitoriale, in un caso in cui la figlia minore, che possiede sia la cittadinanza italiana che quella americana, da tempo risiede abitualmente in uno stato non membro dell’Unione Europea.
7. Come già affermato da questa Corte (Cass., Sez, U, 9 gennaio 2001, n. 1), la doppia cittadinanza della minore, italiana e americana, rende applicabile il principio secondo cui ai fini del riparto della giurisdizione e della individuazione della legge applicabile, i provvedimenti in materia di minori devono essere valutati in relazione alla funzione svolta; pertanto quelli che, pur incidendo sulla potestà dei genitori, perseguono una finalità di protezione del minore, rientrano nel campo di applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 42, il quale rinvia alla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961. Invero nel caso di minore con doppia cittadinanza non può applicarsi l’art. 4 della Convenzione, che stabilisce la prevalenza delle misure adottate dal giudice dello Stato di cui il minore è cittadino su quelle adottate nel luogo di residenza abituale.
Mette conto di sottolineare come l’ampiezza dell’ambito di applicazione, sotto il profilo oggettivo, del richiamo della citata L. n. 218 del 1995, art. 42 all’art. 1 della richiamata Convenzione dell’Aja, anche con riferimento alle misure relative ai figli minori che vengono adottate in sede di separazione personale o di divorzio dei genitori, trova giustificazione nella circostanza che l’Italia non si è avvalsa della facoltà, prevista dall’art. 15 della Convenzione stessa, di creare una competenza speciale per le misure attinenti ai minori.
Il riferimento alla residenza abituale del minore, anche con riferimento all’ipotesi in cui la stessa si verifichi in uno Stato terzo, del resto, è stato di recente ribadito, proprio in materia di affidamento di figlio minore, da questa Corte (Cass. Sez. U, 19 gennaio 2017, n. 1310), che ha affermato che il parametro della residenza abituale, posto a salvaguardia della continuità affettivo relazionale del minore, non è in contrasto ma, al contrario, valorizza la preminenza dell’interesse del minore (Cass., 22 luglio 2014, n. 16648 del 2014).
8. Tanto premesso, la circostanza della residenza abituale della minore negli Usa a partire dall’anno 2013 risulta pacificamente dagli atti di causa, ragion per cui deve affermarsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
9. Il regolamento delle spese, liquidate come in dispositivo, segue il criterio della soccombenza.
10. Va altresì disposto che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano. Condanna il resistente al pagamento delle spese del presente regolamento, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per compensi, oltre agli accessori di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi.

Filiazione e dichiarazione giudiziale di paternità

Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2017, n. 13880

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA N. 13880/2017
sul ricorso 29407/2015 proposto da:
B. G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Cassiodoro n. 1/a, presso l’avvocato Giuliano Scarselli, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Francesca Brombin, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B. D., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Bruno Buozzi n. 82, presso l’avvocato Antonella Iannotta, rappresentata e difesa dall’avvocato Carlo Ricchi, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1655/2015 della CORTE D’APPELLO di Firenze, depositata il 29 settembre 2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 marzo 2017 dal Cons. Dott. Maria Acierno;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Francesca Ceroni, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato Giuliano Scarselli che si riporta;
udito, per la controricorrente, l’Avvocato Ricchi Carlo che si riporta.
FATTO
B. D., …omissis…, ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Siena B. G. per chiedere che ne fosse accertata e dichiarata giudizialmente la paternità naturale, asserendo di essere nata da una relazione che quest’ultimo aveva avuto con sua madre, M. L., nel …omissis….
Il B. G., costituitosi in giudizio, ha affermato di non ricordare di aver avuto una relazione sessuale con M. L., conosciuta in occasione delle lezioni di matematica che ella gli impartiva, e comunque di non essere stato informato di nulla all’epoca della nascita della presunta figlia, ma di essere stato ricontattato dalla donna soltanto nel …omissis… con una lettera contenente riferimenti a fatti avvenuti nel …omissis…, poi nel …omissis… con messaggi recapitati alla segreteria telefonica e infine nel …omissis… da B. D. con una lettera in cui questa dichiarava di essere sua figlia e di avere bisogno di denaro.
Istruita la causa con le prove documentali (le lettere sopracitate), l’interrogatorio formale del convenuto e la testimonianza di A. A., cugina dell’attrice, il Tribunale ha disatteso l’istanza di ammissione di consulenza tecnica d’ufficio ed ha rigettato la domanda in quanto non ha rinvenuto alcun elemento, nemmeno di natura indiziaria, relativo al presunto rapporto di filiazione tra B. G. e B. D., non potendosi dare rilievo alle dichiarazioni della madre, chiamata in causa dal B.. La Corte d’appello di Firenze, investita dell’impugnazione proposta da B. D., ha invece disposto la consulenza tecnica d’ufficio genetica, cui l’appellato ha rifiutato di sottoporsi per ragioni di salute. Con sentenza del 4 settembre 2015, in riforma della pronuncia di primo grado, la corte territoriale ha accolto la domanda di B. D. ed ha dichiarato la stessa figlia di B. G., disponendo le relative annotazioni a margine dell’atto di nascita.
In particolare la Corte territoriale ha rilevato, per quel che ancora interessa:
che l’ordinanza di ammissione della c.t.u. genetica non era viziata d’illegittimità in quanto essa trovava fondamento, da un lato, nell’esistenza di elementi di prova circa la sussistenza di una relazione tra lui e M. L. in epoca compatibile con il concepimento; dall’altro, nella peculiarità dell’oggetto dell’accertamento, che richiede l’ausilio di specifiche indagini tecniche da parte di un accertamento peritale in funzione c.d. percipiente;
che il diniego opposto dal B. di sottoporsi ad esame peritale risultava ingiustificato anche alla luce del suo quadro clinico, attesa l’assoluta non invasività dell’indagine, consistente in un semplice prelievo salivare dalla mucosa boccale;
che tale rifiuto ingiustificato, valutato congiuntamente all’incontestata frequentazione tra il B. e M. L. in epoca compatibile con il concepimento, integrava la prova della fondatezza della domanda di accertamento di paternità.
DIRITTO
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione, accompagnato da memoria ex art. 378 cod. proc. civ., B. G.. Resiste con controricorso, anch’esso accompagnato da memoria, B. D.. Nel ricorso viene preliminarmente eccepita l’illegittimità costituzionale dell’art. 269 cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità del regime giuridico relativo alla maternità e alla paternità naturali. Infatti, mentre la donna può scegliere di non essere madre abortendo il feto ai sensi della Legge n. 194/1978 o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. n. 396/2000, l’uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perchè non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all’azione di cui all’art. 269 cod. civ.. L’eccezione deve essere disattesa per manifesta infondatezza, in condivisione con quanto espresso sul punto dalle pronunce di questa Corte n. 12350 del 18 novembre 1992 e n. 3793 del 15 marzo 2002. Le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non sono paragonabili, perchè l’interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della Legge n. 194/1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396/2000, non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale. Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse.
Il ricorrente censura altresì la sentenza impugnata con quattro motivi, deducendo:
1) nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 118, 258, 260 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. perchè la Corte d’appello ha disposto l’esame genetico sul B. non con ispezione corporale ex art. 118 cod. proc. civ., ma, illegittimamente, con consulenza tecnica d’ufficio, mancando di conseguenza di rispettare le garanzie che le norme processuali pongono a tutela della persona sottoposta a ispezione, in particolare i presupposti dell’indispensabilità dell’accertamento e dell’assenza di un grave danno per la parte. Tuttavia, pur non applicando dell’art. 118, comma 1, cod. proc. civ. la sentenza applica illogicamente il secondo comma, utilizzando come argomento di prova il rifiuto di comparizione all’ispezione.
2) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 118 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. perchè il secondo comma di detto articolo stabilisce che possono trarsi argomenti di prova dal rifiuto di consentire all’ispezione opposto dalla parte “senza giusto motivo”. La sentenza impugnata, oltre a non definire la clausola generale costituita dal “giusto motivo”, non ha dato alcun rilievo alle difficili condizioni di salute che impedivano al B. di sottoporsi all’esame, come attestato da due certificati medici. Dal combinato disposto dell’art. 30 Cost., comma 4 (“la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”) e art. 32 Cost. (che riconosce il diritto fondamentale alla salute) ben può argomentarsi che il rispetto della salute psico-fisica del presunto padre è un limite che integra il “giusto motivo” ex art. 118, comma 2, cod. proc. civ..
3) Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 196 e 356 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. perchè la Corte d’appello ha illegittimamente condiviso le conclusioni del c.t.u. sulla mancanza di un giusto motivo di rifiuto di sottoporsi all’esame biologico, malgrado il consulente stesso non abbia esaminato direttamente il ricorrente. Sarebbe stato necessario disporre una nuova c.t.u. per accertare se la sottoposizione del B. all’esame dovesse essere evitata per la sussistenza di un “grave danno” ex art. 118 cod. proc. civ., comma 1, o fosse giustificato un suo rifiuto.
4) Omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. in relazione al comportamento processuale leale e collaborativo del B., che in primo grado ha chiamato in causa M. L. e ha prodotto le lettere che gli erano state inviate. La Corte d’appello fonda la propria decisione unicamente sul rifiuto di sottoporsi all’esame biologico e sull’accertata frequentazione tra il B. G. e la B. D. in epoca compatibile con il concepimento, ma omette di considerare il fatto decisivo costituito dal comportamento del ricorrente.
Il primo motivo è infondato.
Nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti, ma di accertare i fatti stessi. E’ necessario e sufficiente in tal caso che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perchè la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova (Cass. n. 6155 del 13 marzo 2009, n. 4792 del 26 febbraio 2013). Nei giudizi in questione tale mezzo istruttorio rappresenta, dati i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale, e con esso il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sè suscettibile di rilevazione solo con l’ausilio di competenze tecniche particolari (Cass. n. 14462 del 29 maggio 2008). Al contrario, gli artt. 118, 258 e 260 cod. proc. civ., di cui il ricorrente asserisce la violazione, attengono all’ispezione corporale e sono pertanto estranei all’accertamento tecnico in questione, non costituendo il prelievo ematico (al pari del prelievo di saliva dalla mucosa buccale) un’ispezione corporale, ma un mezzo necessario per l’espletamento della consulenza genetica ed ematologica (Cass. n. 8733 del 9 aprile 2009).
Di conseguenza, priva di pregio è la censura di violazione di legge per aver fatto la sentenza impugnata applicazione dell’art. 118, comma 2, cod. proc. civ. che dispone che il giudice possa “desumere argomenti di prova” dal rifiuto ingiustificato di eseguire l’ordine di ispezione, pur senza aver applicato il comma 1, che disciplina le forme e le garanzie del subprocedimento istruttorio di ammissione e assunzione dell’ispezione giudiziale. In realtà il diniego opposto dal B. rispetto all’indagine genetica disposta dalla Corte d’appello è stato considerato, unitamente ad altri elementi, come contegno processuale valutabile dal giudice ai sensi dell’art. 116, comma 2, cod. proc. civ. alla stregua di argomento di prova (a pag. 7 della sentenza si legge infatti che “il comportamento difensivo della parte risulta suscettibile di valutazione ex art. 116 cod. proc. civ.”). Con particolare riferimento alla materia de qua giurisprudenza consolidata, invero, ammette che il contegno processuale possa di per sè solo costituire la base di un ragionamento presuntivo e assurgere così a fondamento della decisione del giudice (ex multis, Cass. n. 9307 del 19 settembre 1997, n. 3976 del 19 marzo 2002, n. 18224 del 22 agosto 2006, n. 12971 del 24 luglio 2012).
Anche il secondo motivo è infondato.
Non è censurabile la sentenza impugnata per aver ritenuto ingiustificato il rifiuto del B. di sottoporsi all’esame genetico anche a fronte dei certificati medici attestanti il suo impedimento a sottoporsi ad accertamenti clinici ed ematologici. Del tutto correttamente la Corte territoriale ha condiviso, al riguardo, la valutazione del consulente tecnico d’ufficio che ha spiegato in modo esauriente che non di “accertamento clinico” o “esame ematologico” si trattava, ma di un semplice prelievo salivare eseguito mediante strofinamento di un tampone all’interno della bocca, rispetto a cui i suddetti certificati medici non segnalavano nessun tipo di specifica controindicazione. Pienamente condivisibile e del tutto adeguatamente argomentata l’esclusione del rilievo dei disturbi ansiosi-depressivi di cui il B. è affetto rispetto all’esame da svolgere, essendo tali disturbi legati all’esito complessivo del giudizio e non ad una specifica scansione processuale, come insindacabilmente accertato nella sentenza impugnata.
Il terzo motivo, con cui il ricorrente lamenta il mancato espletamento di un’ulteriore consulenza tecnica d’ufficio volta ad accertare ex ante la sussistenza del “grave danno” ex art. 118 cod. proc. civ., derivante dalla sottoposizione del B. all’esame genetico, è manifestamente infondato in quanto, come illustrato supra, non di ispezione corporale si tratta, ma di consulenza tecnica (artt. 191 cod. proc. civ. e segg.), per cui l’applicazione dell’art. 118 cod. proc. civ., non è in questione. A identico rilievo soggiace la doglianza circa il mancato espletamento di una consulenza tecnica volta a verificare ex post la legittimità del rifiuto di sottoporsi all’esame. A tacere del fatto che non risulta che l’odierno ricorrente abbia formulato nel giudizio di merito alcuna specifica istanza in tal senso (il che introduce un profilo d’inammissibilità), deve sottolinearsi che la c.t.u. è un mezzo istruttorio rimesso all’apprezzamento officioso del giudice di merito, esercizio di una facoltà discrezionale (ex multis, Cass. n. 6144 del 13 marzo 2009). Vero è che, come spiegato nella sentenza richiamata dal ricorrente (Cass. n. 10894 dell’11 maggio 2007), tale potere discrezionale è censurabile in sede di legittimità ove la motivazione della sentenza sia affetta da vizi logici e giuridici, ma non è evidentemente questo il caso, mancando a monte (come rilevato pure a p. 34 del controricorso e non contrastato dal ricorrente nella memoria depositata) una qualsivoglia istanza di integrazione o rinnovazione della c.t.u. su cui il giudice avrebbe dovuto esprimersi.
Il quarto ed ultimo motivo, con cui il ricorrente si duole dell’omesso esame del proprio comportamento processuale leale e collaborativo, è inammissibile perchè mira a censurare nel merito l’accertamento dei fatti posto dalla Corte d’appello a fondamento della propria decisione. E’ pacifico, invero, che sia devoluta al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, e pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonchè la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, con l’unico limite dell’adeguata e congrua motivazione del criterio adottato (Cass. n. 9032 del 7 aprile 2017).
Nella specie, il ragionamento decisorio della sentenza impugnata è congruamente motivato e risulta privo di vizi logici e giuridici: rilievo fondamentale ha assunto l’ingiustificato rifiuto del B. di sottoporsi all’accertamento genetico, fatto dotato di così elevato valore indiziario da poter costituire esso solo la dimostrazione della fondatezza della domanda ex art. 269 cod. civ. (Cass. n. 6025 del 25 marzo 2015). Unitamente a ciò la Corte territoriale ha valutato la circostanza (incontestata) che il B. G. e la B. D. si fossero frequentati in epoca compatibile con il concepimento, nonchè la testimonianza di A. A., cugina dell’odierna controricorrente, la quale ha dichiarato essere noto in famiglia che la zia all’epoca avesse avuto una relazione con una persona molto più giovane di lei, quale poteva essere il B.. Peraltro, anche la condotta stragiudiziale dello stesso, consistente nell’aver ignorato le lettere inviategli da M. L. e D., è stata valorizzata, insindacabilmente, trattandosi di valutazione dei fatti, dal giudice di merito come ulteriore indizio del suo atteggiamento elusivo dell’accertamento dei fatti.
Per i rilievi che precedono il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5000 per compensi, euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.
In caso di diffusione omettere le generalità e i riferimenti geografici.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002 ai fini del versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.