SUICIDIO

di Gianfranco Dosi

I. Il suicidio tra illiceità e libertà
a) Il suicidio come atto deviante
b) Esiste un diritto alla morte? Il rifiuto delle cure (Eluana Englaro, Piergiorgio Welby)
c) Eutanasia e suicidio assistito (Fabiano Antoniani)
II. La responsabilità penale per istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.)
a) Le tre condotte penalmente illecite
1) La determinazione di altri al proposito suicida
2) Il rafforzamento dell’altrui proposito suicida
3) L’agevolazione del suicidio altrui
III. La tutela del minore e dell’incapace: i casi di responsabilità penale aggravata
IV. La responsabilità per omissione di vigilanza
V. Il suicidio come conseguenza non voluta di condotte illecite (maltrattamenti, minacce,
stalking, mobbing, bullismo)
a) Il nesso causale
b) La prevedibilità del suicidio
VI. Suicidio e assicurazione sulla vita
I
Il suicidio tra illiceità e libertà
a) Il suicido come atto deviante
Per suicidio si intende la morte che un soggetto si cagiona volontariamente e, quindi, con la consapevolezza degli atti compiuti allo scopo di procurarsela.
Le statistiche dicono che circa tra lo 0,5% e l’1,4% delle persone muoia per suicidio che viene indicata come la 10° causa di morte in assoluto, con circa un milione di persone che muoiono nel mondo ogni anno. Il tasso di mortalità per suicidi è dell’11,6 per 100.000 persone per anno. Il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti.
Nei giovani viene solo dopo la morte accidentale, rappresentando circa il 30% delle cause di mortalità.
Per ogni suicidio portato a termine, si calcola che vi siano tra i dieci e i quaranta tentativi.
Il tasso dei suicidi viene considerato nella sociologia tradizionale un indicatore di situazioni multiproblematiche; la dimensione deviante della condotta suicidaria è un postulato dell’approccio statistico indicando una condotta generata per lo più da alterazioni sociali o psicologiche. L’abuso di sostanze è statisticamente il secondo settore di rischio più comune per il suicidio dopo la depressione e i disturbi psichiatrici. Ugualmente il gioco d’azzardo è associato all’aumento dei suicidi e dei tentativi. Tra i coniugi dei giocatori d’azzardo, per esempio, si calcola che il tasso di suicidi sia tre volte superiore a quella della popolazione generale. Anche la crisi economica ha una incidenza, anche se non altissima sui numeri di suicidio.
In questa prospettiva i giuristi si interrogano in primo luogo sulla illiceità o meno del suicidio in sé. Operazione che potrebbe apparire anche impietosa considerata la drammaticità e la definitività del gesto. Tuttavia il giurista non può sottrarsi a questo compito. A tale proposito si potrebbe ragionevolmente sostenere che il suicidio costituisca senz’altro un fatto illecito, come è desumibile dall’art. 5 c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Cosa c’è di più permanente che la morte? E che senso avrebbe vietare gli atti di mutilazione e non il suicidio? Si potrebbe sostenere che la morte è altro rispetto alla diminuzione permanente dell’integrità fisica (come sostiene la giurisprudenza sul danno biologico) ma è forse superficiale applicare a questo problema la conclusione giurisprudenziale che nega il risarcimento agli eredi in caso di morte immediata della vittima, dal momento che questa conclusione non si fonda su un giudizio di non illiceità dell’evento mortale ma soltanto sulla sua non risarcibilità iure ereditario.
L’assenza, d’altro lato, di una sanzione rispetto al gesto di darsi la morte è una situazione del tutto comprensibile (non essendoci più un soggetto sanzionabile) ma di per sé questo non dovrebbe comportare un giudizio di liceità.
Il diritto conosce obblighi e doveri senza sanzione. Dal diritto romano abbiamo appreso che esistono leges imperfectae (o minus quam perfectae) prive di sanzione, in contrapposizione a quelle perfectae assistite da sanzione.
Proprio nel diritto di famiglia si discute, per esempio, se la norma che impone l’obbligo di fedeltà coniugale (art. 143 c.c.) abbia o meno una sua autonoma sanzione.
La dottrina che si è occupata di questi aspetti per lo più non ritiene che il suicidio possa essere considerato alla stregua di un illecito. C’è da chiedersi in ogni caso se la discussione abbia senso, dal momento che l’unico responsabile dell’illecito sarebbe il soggetto che si suicida e quindi un soggetto oggettivamente non più esposto ad alcuna sanzione. In passato non è sempre stato così: nella Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale del 1930 (II, 375) si legge che “il principio che l’individuo non possa liberamente disporre della propria vita, inteso in senso assoluto e rigoroso, indusse taluno ad affermare la penale incriminabilità del suicidio, e, in tempi remoti, trasse ad aberranti e spietate forme di persecuzione contro il cadavere o il patrimonio del suicida”. Ed effettivamente nel Medioevo la legislazione statutaria puniva il suicida con la confisca dei beni”. Tuttavia – continua la Relazione ministeriale – “prevalenti considerazioni politiche… hanno condotto le legislazioni più recenti ad escludere il suicidio dal novero dei reati, limitando la punizione ai casi di partecipazione all’altrui suicidio”..
Un problema di illiceità o meno della morte volontaria potrebbe apparentemente non porsi neanche in caso di suicidio tentato che non comporta conseguenze civilistiche per l’autore del fatto, seppure non è affatto escluso che si possa ipotizzare un danno, anche di natura patrimoniale per i congiunti verso i quali si potrebbero riverberare conseguenze economiche negative derivanti dal tentato suicidio (ma anche dal suicidio). Se tuttavia mancasse l’illecito – come si sostiene in dottrina – non potrebbe parlarsi neanche di danno ingiusto e di conseguenze risarcitorie.
Si può accettare, quindi, la conclusione che né il suicidio né il tentato suicidio assumano con certezza la configurazione di un fatto illecito e che il tema di tale qualificazione sia di fatto storicamente legato soprattutto ad esigenze generali di prevenzione, assicurate dalla configurazione del suicidio come un fatto eticamente e giuridicamente illecito.
Diverso dal tentato suicidio sono naturalmente gli atti autolesionistici in cui manca la volontà di darsi la morte ma in cui il gesto è diretto a raggiungere obiettivi fraudolenti altrimenti irraggiungibili (come una indennità infortunistica o assicurativa o – una volta – la possibilità di essere esonerati dal servizio militare di leva). In tal caso l’atto autolesionistico è indubitabilmente illecito, integrando gli estremi civili e penali di una frode o di una truffa.
Se da un punto civilistico il suicidio e il tentato suicidio potrebbero non essere giuridicamente di per sé fatti illeciti, non altrettanto può dirsi da un punto di vista religioso. La Bibbia considera il suicidio al pari dell’omicidio, dal momento che suicidarsi significa uccidere se stessi. “E’ Dio che deve decidere quando e come una persona dovrebbe morire”. Secondo la Bibbia, prendere quel potere nelle proprie mani significa commettere un peccato.
“Ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel’ha donata. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime”. E quindi: “Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo” (numero 2280 Catechismo della Chiesa Cattolica). Insomma “Chi uccide sé stesso uccide un uomo” (Sant’Agostino, De civitate Dei 1, 20). Il suicidio è un gesto “gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi” (numero 2281 Catechismo). Al numero 2282 del Catechismo si legge che: “Gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida”. Perché si possa compiere un peccato grave come il suicidio, infatti, servono tre elementi: la materia grave (ossia il suicidio), la piena avvertenza della mente (sapere cioè che cosa si vuole ottenere, ossia la propria morte) e il deliberato consenso della volontà (ossia la decisione di uccidersi presa lucidamente). Fino al Concilio Vaticano II la Chiesa non consentiva le esequie per i suicidi, che anzi non venivano seppelliti neanche in terra consacrata.
Anche l’Ebraismo tradizionalmente considera il suicidio come un peccato grave (Genesi 9:5). Per l’Islam, ugualmente, il suicidio è uno dei peccati maggiori. Un verso del Corano ammonisce: “E non uccidete voi stessi, sicuramente Allah sarà più misericordioso con voi.” (4:29). Gli studiosi musulmani considerano il suicidio un gesto proibito in qualunque circostanza, compresi gli attacchi suicidi, e citano il verso del Corano come un comandamento che vieta il suicidio. La giurisprudenza islamica è concorde nel qualificare come “martirio” la morte subita ma non quella ricercata o auto-inflitta.
SUICIDIO
b) Esiste un diritto alla morte? Il rifiuto delle cure (Eluana Englaro, Piergioro Welby)
Il giurista deve però anche interrogarsi – nella prospettiva dei diritti dell’uomo – sui limiti della concezione sociologica tradizionale del suicidio come atto deviante ed esplorare il tema della morte volontaria, pur legata evidentemente a condizioni di sofferenza, non solo come manifestazione di una libertà alterata (diffusa soprattutto tra criminologi, medici e psichiatri) ma nel suo presentarsi come morte anticipata scelta dall’individuo.
Il suicidio come espressione estrema di questa libertà (il diritto alla morte) va annoverato tra i nuovi ed ineludibili temi del sapere giuridico: il consenso informato, il diritto all’interruzione dei trattamenti terapeutici, il testamento biologico, l’eutanasia. Temi che non possono trovare approfondimento esauriente in questa sede nella quale ci si interroga soltanto sugli aspetti penali e civili collegati al suicidio (e al tentato suicidio) soprattutto se determinato o agevolato da terze persone.
Il tema del diritto alla morte è stato esplorato – e di fatto risolto in senso affermativo – tra l’altro nella vicenda molto nota che riguardava la giovane Eluana Englaro che nel gennaio 1992, alle porte di Lecco, appena ventunenne, a causa del fondo stradale ghiacciato perse il controllo dell’auto che guidava, andando a schiantarsi contro un muro e riportando un gravissimo trauma cranico-encefalico con paresi di tutti e quattro gli arti. Restò in coma per molti mesi. La giovane uscì poi dal coma, ma a causa delle lesioni cerebrali irreversibili, fu dichiarata in stato vegetativo. I genitori chiesero ai medici la sospensione dell’alimentazione artificiale effettuata con sondino naso gastrico, portando anche a supporto della richiesta testimonianze di amiche della figlia secondo le quali Eliana – rimasta in passato profondamente scossa dopo aver fatto visita in ospedale ad un amico in coma a seguito di un sinistro stradale – aveva dichiarato, anche ai genitori e pubblicamente a scuola, di ritenere preferibile la situazione di un altro ragazzo, che, nel corso dello stesso incidente, era morto sul colpo, piuttosto che rimanere immobile in ospedale in balia di altri attaccato ad un tubo. Di fronte al rifiuto dei medici il padre della giovane – nominato tutore della figlia nel frattempo interdetta – intraprese la strada giudiziaria.
Nel 1999 il tribunale di Lecco e la Corte d’appello di Milano respinsero la richiesta e la Corte di Cassazione nel 2005 dichiarò inammissibile il ricorso per un vizio del contraddittorio, non essendo stato nominato un curatore speciale (Cass. civ. Sez. I, 20 aprile 2005, n. 8291). Il padre della giovane chiese allora la nomina di un curatore speciale per la figlia e si rivolse di nuovo al Tribunale di Lecco per ottenere un ordine di interruzione dell’alimentazione forzata. Il tribunale nel febbraio 2006 dichiarò inammissibile la richiesta, sostenendo che né il tutore né il curatore speciale nominato che aveva aderito alla richiesta, avevano un potere di rappresentanza nella sfera di diritti personalissimi. Peraltro, anche ove si fosse ritenuto che il curatore o il tutore avessero avuto tale potere, la domanda – ad avviso del tribunale avrebbe dovuto essere rigettata, perché il suo accoglimento avrebbe dovuto essere considerato contrastante con i principi espressi dall’ordinamento costituzionale. Infatti, ai sensi degli artt. 2 e 32 della Costituzione un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo sarebbe lecito, ma addirittura dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando il soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà. Avverso tale decreto il tutore proponeva reclamo alla Corte d’appello di Milano che nel dicembre 2006, in riforma del provvedimento impugnato, dichiarava ammissibile il ricorso (in quanto “nel potere di cura della persona, conferito al rappresentante legale dell’incapace, non può non ritenersi compreso il diritto-dovere di esprimere il consenso informato alle terapie mediche”)ma lo rigettava nel merito (in quanto “la vita è un bene supremo, non essendo configurabile l’esistenza di un diritto a morire”).
La Corte di Cassazione, alla quale il tutore e il curatore speciale si rivolsero, accoglieva, invece, questa volta
l’impugnazione (Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748) premettendo che “il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi”. La Corte approfondiva quindi accuratamente i fondamenti del consenso informato e affermava che il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale e che “deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita”.
A tale proposito affermavano i giudici che “benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’”alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico”. Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche – concludevano i giudici – anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale.
E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui.
In caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono ed impongono l’effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente. E tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l’urgenza dell’intervento derivante dallo stato di necessità, l’istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati. Centrale, in questa direzione, è la disposizione dell’art. 357 cod. civ., la quale – letta in connessione con l’art. 424 cod. civ. – prevede che “Il tutore ha la cura della persona” dell’interdetto, cosi investendo il tutore della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell’incapace. Poteri di cura del disabile spettano altresì alla persona che sia stata nominata amministratore di sostegno (artt. 404 cod. civ. e ss., introdotti dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6), dovendo il decreto di nomina contenere l’indicazione degli atti che questa è legittimata a compiere a tutela degli interessi di natura anche personale del beneficiario (art. 405 c.c., comma 4).
In ogni caso il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. Sulla base delle considerazioni che precedono, la decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella vicenda del diritto alla vita come bene supremo, può essere nel senso dell’autorizzazione soltanto (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici
riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di
un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.
La Corte d’appello – concludeva la sentenza – ha omesso di ricostruire la presunta volontà della giovane e di dare rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti. Essi non hanno verificato se tali dichiarazioni – della cui attendibilità non hanno peraltro dubitato – ritenute inidonee a configurarsi come un testamento di vita, valessero comunque a delineare, unitamente alle altre risultanze dell’istruttoria, la personalità e il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive; e quindi hanno omesso di accertare se la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia. Tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall’istruttoria e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale) nella ricostruzione della personalità della ragazza.
Il decreto impugnato veniva annullato e la causa veniva rimessa per la decisione ad una diversa Sezione della Corte d’appello di Milano. Successivamente la Corte di appello di Milano con un decreto in data 9 luglio 2008 autorizzava il padre della giovane in qualità di tutore ad interrompere il trattamento di idratazione e di alimentazione forzata.
Vi furono manifestazioni di dissenso, forti polemiche politiche e numerose resistenze all’interno della stessa
magistratura e del mondo medico. Tuttavia il 6 febbraio del 2009 – dopo 17 anni di stato vegetativo – fu avviata la progressiva riduzione dell’alimentazione a seguito della quale il 9 febbraio successivo sopravveniva la morte di Eluana Englaro.
Ben diverso dalla storia di Eluana Englaro è stata la vicenda di Piergiorgio Welby la cui richiesta di morire senza inutili sofferenze venne rigettata dal tribunale di Roma.
A differenza di Eluana Englaro – da anni in stato vegetativo irreversibile – Piergiorgio Welby non era nelle stesse condizioni, sebbene avesse perso le capacita autonome di alimentazione, di respirazione e della parola. Anche per questo forse la soluzione giudiziaria fu diversa. In ogni caso la sentenza della Cassazione sulla vicenda Englaro è successiva alle decisioni del tribunale di Roma sulla vicenda di Piergiorgio Welby che, peraltro, è durata solo pochi mesi.
La malattia di Welby durava dal 1963, anno in cui, diciottenne, gli venne diagnosticata una distrofia muscolare scapolo omerale progressiva, dall’esito certamente infausto. Contrariamente alle previsioni dei medici, il decorso della malattia, seppure inesorabilmente tendente all’aggravarsi, si era dimostrato, da principio, piuttosto lento e graduale. Ciononostante, nel corso degli anni ottanta, Welby aveva perso l’uso delle gambe, per poi assistere, nel corso degli anni novanta, al progressivo deterioramento del proprio stato fisico. Nel luglio del 1997 Welby perde i sensi, a causa dell’insufficienza respiratoria e da quale momento vivrà tracheotomizzato; egli perde la capacità di alimentarsi, di respirare e, sostanzialmente, di parlare in maniera comprensibile: dunque verrà nutrito con un prodotto speciale, respirerà con l’ausilio di un apparato di ventilazione polmonare. Nel 2006 si rivolge al tribunale di Roma chiedendo l’autorizzazione all’interruzione della ventilazione artificiale e alla sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale. Il tribunale rigetta la richiesta sia in fase cautelare (Trib. Roma, 16 dicembre 2006) che di merito (Trib. Roma 23 luglio 2007) in quanto è inammissibile la richiesta di provvedimento avanzata da persona affetta da un gravissimo ed irreversibile stato morboso degenerativo, volta a conseguire la cessazione del suo sostentamento mediante ventilazione artificiale, nonché la contestuale sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale, atteso che – pur se è configurabile il diritto del paziente alla consapevole ed informata autodeterminazione nella scelta delle terapie cui sottoporsi – tale diritto non è in concreto tutelabile, a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative, in particolare con riferimento all’esatta individuazione del c.d. divieto di accanimento terapeutico.
Piergiorgio Welby si rivolge allora ad un medico che si dichiara disponibile e con l’aiuto del quale si spegne la sera del 20 dicembre 2006. Viene ipotizzato, a carico del sanitario, il reato di omicidio del consenziente (art. 579 cod. pen.). Il PM formula richiesta di archiviazione. Il GIP respinge la richiesta di archiviazione e impone al PM di formulare l’imputazione. Il giudice dell’udienza preliminare dichiara, ex art. 425 c.p.p. non luogo a procedere nei confronti del medico in quanto non punibile per la sussistenza, rispetto al suo operato, dell’adempimento di un dovere (G.U.P. Trib. Roma, 23 luglio 2007).
Anche Trib. Modena, 1 dicembre 2008 ha ritenuto che il giudice tutelare ben può prescrivere che l’amministratore di sostegno, mettendo in atto le direttive manifestate e poi reiterate dall’interessato possa legittimamente negare il consenso ai sanitari a praticare al beneficiario qualsivoglia trasfusione di sangue intero, ancorché ritenuta indispensabile per la sopravvivenza. Ed invero, a sensi degli artt. 2, 13 e 32 Cost., è preclusa al medico l’esecuzione di trattamenti sanitari in difetto di quel consenso libero e informato del paziente, che individua un diritto assoluto di quest’ultimo di accettare la terapia, di rifiutarla e di interromperla; e ciò per la sovrana esigenza di rispetto dell’individuo e dell’insieme delle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che improntano le determinazioni dell’individuo; va ulteriormente precisato che tutte le norme costituzionali a tutela e garanzia di diritti primari, come nel caso di specie l’art. 32 Cost., sono imperative, e di operatività ed applicabilità immediate senza che occorra a tal fine intervento alcuno del legislatore ordinario. Affermazione quest’ultima che suona di critica aperta alle due decisioni del tribunale di Roma relative a Piergiorgio Welby prima richiamate.
c) Eutanasia e suicidio assistito (Fabiano Antoniani)
Sul significato di questi termini vi sono contrasti nella letteratura giuridica e tra le due situazioni vi sono interferenze e sovrapposizioni.
Si parla comunemente di eutanasia quando una legge consente l’uccisione di una persona che si trova in una condizione di malattia o di sofferenza irreversibile o terminale, attraverso la somministrazione di farmaci (eutanasia attiva) o l’interruzione di una terapia di nutrizione o di idratazione (eutanasia passiva). Può essere praticata su richiesta dell’interessato capace di intendere e di volere oppure su richiesta di chi ne ha la rappresentanza ovvero anche a seguito di una dichiarazione di volontà già in precedenza espressa in un atto apposito.
Quindi secondo questa prospettiva, se la morte è l’esito di entrambe le situazioni, eutanasia e rifiuto della terapia dovrebbero essere collocate sullo stesso piano. Giuridicamente, però, si suole considerare l’eutanasia una forma di omicidio del consenziente mentre si colloca il rifiuto della terapie nell’agevolazione al suicidio.
Dal punto di vista dell’esito dei due comportamenti l’affermazione di Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n.
21748 nella vicenda di Eluana Englaro (Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche anche quando conduce alla
morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale) è evidentemente dettata dall’intento di non esasperare la problematicità della decisione. Di fatto, in verità, l’autorizzazione all’interruzione delle cure significa oggettivamente autorizzare la richiesta della morte.
Mentre, infatti, la terapia del dolore (legge15 marzo 2010, n. 38, Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) è certamente dettata dalla intenzione di alleviare le sofferenze e non di causare la morte, viceversa provocare la morte di un paziente con il suo consenso o interrompere le cure, sono atti che cagionano e sono diretti di fatto a cagionare la morte dell’interessato.
Dire quindi che il rifiuto delle cure che porta alla morte non costituisce un’ipotesi di eutanasia è solo un espediente verbale per rendere accettabile il risultato. Meglio sarebbe convenire, allora, sull’esistenza di un diritto a morire e in questa prospettiva non ci si dovrebbe scandalizzare se si usasse il termine eutanasia, che in alcuni ordinamenti indica proprio l’interruzione del trattamento terapeutico indesiderato richiesto dal paziente in gravissimo stato di malattia spesso irreversibile.
All’eutanasia, piaccia o non piaccia, possono perciò essere ricondotte sia la vicenda di Eluana Englaro che quella di Piergiorgio Welby dove l’interruzione del trattamento terapeutico è stato chiesto (ma solo nel primo caso ottenuto) proprio per raggiungere la fine della vita.
Con l’espressione suicidio assistito – meno ambigua ma che pur sempre indica la richiesta di essere aiutati a
morire – ci si riferisce alla possibilità di consentire ad una struttura medica di agevolare una persona nel suicidio.
Si tratta di una decisione in genere anch’essa legata a condizioni di sofferenza causata da una malattia
SUICIDIO
che tuttavia lascia residuare una capacità di intendere e di volere. In alcuni ordinamenti (es. Svizzera, Belgio, Olanda, Lussemburgo) la pratica è legalizzata ed infatti ha consentito di accedervi in Svizzera a persone di cui la cronaca ha ampiamente parlato.
È questo il caso di Fabiano Antoniani (il Dj Fabo) che, anziché rivolgersi ai tribunali, ha scelto nel febbraio 2017 la strada del suicidio assistito in Svizzera.
Secondo un Autore molto attento a queste problematiche (Marco Azzalini, Trattamenti life-saving e consenso del paziente: i doveri del medico dinanzi al rifiuto di cure, in Nuova Giur. Civ., 2008, 1, 76) la fattispecie del rifiuto di cure non dovrebbe essere inquadrata, ne’ all’interno dell’eutanasia, ne’ all’interno del suicidio assistito. Si riconosce che l’inquadramento è problematico dal momento che “le infinite precisazioni, distinzioni, definizioni e discrepanze che la dottrina non è riuscita mai ad evitare in tema di eutanasia finiscono con il rendere conto della vaghezza assoluta del concetto, che finisce per un verso con l’avere assai poco di giuridico e per altro verso con il non consentire, in effetti, una adeguata considerazione delle specificità delle singole ipotesi concrete”. Il che è come dire che non c’è alcune certezza sulle qualificazioni che vengono a tale proposito proposte. In ogni caso l’uccisione di un’altra persona per porre fine alle sue sofferenze – con il suo consenso o meno – non meriterebbe secondo la giurisprudenza neanche l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale.
In una vicenda trattata da Cass. pen. Sez. I, 12 novembre 2015, n. 12928 in cui l’imputato era stato condannato per omicidio nei confronti della moglie – anziché per omicidio del consenziente come reclamava – i giudici affermavano che è configurabile il delitto di omicidio volontario, e non l’omicidio del consenziente, in caso di mancanza di una prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima, dovendo in tal caso riconoscersi assoluta prevalenza al diritto alla vita, quale diritto personalissimo, che non attribuisce a terzi, neanche ad un familiare, il potere di disporre, anche in base alla propria percezione della qualità della vita, dell’integrità fisica altrui (su questo punto anche Cass. pen. Sez. 1, 17 novembre 2010 n. 43954). I giudici non accolsero neanche la richiesta di applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 1, c.p. (motivi di particolare valore morale intendendo perseguire esclusivamente la finalità altruistica di porre fine alle atroci sofferenze della consorte, vittima di degenerazione cronica), in quanto, ai fini della sua configurabilità occorre che i motivi del reato siano genericamente apprezzabili o positivamente valutabili, risultando inviolabile il bene primario della vita, situazione che non si riscontra nell’ipotesi di uccisione di un congiunto per porre fine alle sue sofferenze. Ciò in quanto i motivi considerati dall’art. 62 c.p., n. 1, devono corrispondere a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività ed intorno ai quali si realizzi un diffuso consenso (come anche precisato da Cass. pen. Sez. I, 8 aprile 2015 n. 20443; Cass. pen. Sez. I, 29 aprile 2010 n. 20312). Deve trattarsi di principi generalmente approvati dalla società, in cui agisce chi tiene la condotta criminosa ed in quel determinato momento storico, appunto per il loro valore morale o sociale particolarmente elevato, in modo da sminuire l’antisocialità dell’azione criminale. Le discussioni tuttora esistenti sulla condivisibilità o meno dell’eutanasia – affermano i giudici – sono sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea; non ricorre, pertanto, la generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale, condizionante la qualificazione del motivo come “di particolare valore morale e sociale”.
Attualmente sono in discussione dal febbraio 2017 in sede referente in Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati otto progetti di legge sul testamento biologico, ovvero, specificamente, sulla cosiddetta DAT (“Dichiarazione di volontà anticipata nei trattamenti sanitari). Nella relazione introduttiva dell’on. Donata Lenzi sono spiegati i punti qualificanti della normativa.
Al primo punto vi è il principio della volontarietà del trattamento medico riaffermandosi che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Il consenso informato ad ogni trattamento sanitario è quindi l’atto fondante dell’alleanza terapeutica, e il medico ha diritto di intervenire in mancanza di questo solo qualora il paziente si trovi in imminente pericolo di vita. Ogni persona capace di intendere e di volere ha il diritto di conoscere i dati sanitari che la riguardano e di esserne informata in modo completo e comprensibile. Tali informazioni costituiscono un obbligo per il medico. Per i minori e gli interdetti quasi tutti i progetti prevedono che il consenso sia espresso o negato dagli esercenti la responsabilità genitoriale, oppure dal tutore o dall’amministratore di sostegno.
Le persone maggiorenni capaci di intendere e di volere possono redigere una dichiarazione anticipata di trattamento (DAT) in cui indicano la propria volontà in merito ai trattamenti sanitari e di cura, inclusa la nutrizione artificiale, che si può rifiutare o a cui si può rinunciare, in previsione di un›eventuale futura perdita irreversibile della propria capacità di intendere e di volere, nonché le eventuali disposizioni relative alla donazione del proprio corpo post-mortem, alla donazione di organi e alle modalità di sepoltura e di assistenza religiosa. L’efficacia di tale dichiarazione produce effetto dal momento in cui interviene lo stato di privazione di capacità decisionale del paziente accertato da un collegio medico e notificata al fiduciario o al tutore o ai parenti. Alcune proposte collegano l’efficacia della dichiarazione anticipata di trattamento all’accertamento che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario da parte di un collegio medico. Il medico può disattendere le DAT qualora sussistano motivate e documentabili possibilità di poter altrimenti conseguire ulteriori benefìci per il paziente, in accordo con il soggetto fiduciario e con i familiari del medesimo paziente. In ogni caso il medico non può prendere in considerazione orientamenti volti a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica.
I progetti prevedono l›indicazione nella DAT di un soggetto fiduciario, che si impegna ad agire nell›esclusivo e migliore interesse della persona che lo ha nominato. In caso di contrasto tra fiduciario e parenti, la decisione è assunta dal comitato etico della struttura sanitaria, sentiti i pareri contrastanti. In caso di impossibilità del comitato etico a pervenire a una decisione, si ricorre al giudice.
La Commissione Affari sociali esaminerà solo consenso informato e dichiarazioni anticipate.
Un progetto soltanto – che verrà però discusso verosimilmente in Commissione giustizia – prevede il diritto del paziente al rifiuto, alla rinuncia o all›interruzione dei trattamenti sanitari mentre gli altri prevedono una norma contro l›accanimento terapeutico nel senso che è prevista l›astensione del medico da trattamenti sanitari non proporzionati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura.
Si conferma, poi, il divieto dell›eutanasia e dell›assistenza al suicidio (unite da un medesimo poco chiaro comune denominatore – senza specificare però in che cosa si differenzierebbero dall’esito del rifiuto delle cure.
Per concludere, nel panorama giuridico Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748 ha ammesso l’interruzione del trattamento in vita su persona in stato vegetativo irreversibile incapace di intendere e di volere, su domande del curatore e sul presupposto che in vita l’interessato aveva espresso una volontà non contraria a questo esito (caso Englaro); Trib. Roma, 16 dicembre 2006 e Trib. Roma 23 luglio 2007 hanno negato lo stesso diritto a persona capace di intendere e di volere affetta da un gravissimo ed irreversibile stato morboso degenerativo (caso Welby). Il suicidio assistito all’estero, in queste condizioni di disorientamento giurisprudenziale, è apparsa agli interessati l’unica strada percorribile (caso Antoniani).
II
La responsabilità penale per istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.)
a) Le tre condotte penalmente illecite
Il suicidio (commesso o tentato) – come si è detto – non è reato, ma il codice penale non ignora le condotte di terzi che portano una persona a suicidarsi o a tentare il suicidio.
A tale proposito tra i delitti contro la persona il codice penale prevede all’art. 580 sotto la rubrica “istigazione o aiuto al suicidio” una disposizione che al primo comma così dispone: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima”.
La distinzione tra le tre condotte (istigazione, rafforzamento, agevolazione) è molto bene evidenziata in Cass. pen. Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 3147 dove si legge che l’ordinamento penale, nel prevedere, all’art. 580 c.p., tre forme di realizzazione della condotta penalmente illecita (quella della determinazione del proposito suicida prima inesistente, quella del rafforzamento del proposito già esistente e quella consistente nel rendere in qualsiasi modo più facile la realizzazione di tale proposito) ha voluto punire sia la condotta di chi determini altri al suicidio o ne rafforzi il proposito, sia qualsiasi forma di aiuto o di agevolazione di altri del proposito di togliersi la vita, agevolazione che può realizzarsi in qualsiasi modo: ad esempio, fornendo i mezzi per il suicido, offrendo istruzioni sull’uso degli stessi, rimuovendo ostacoli o difficoltà che si frappongano alla realizzazione del proposito, ecc., o anche omettendo di intervenire, qualora si abbia l’obbligo di impedire la realizzazione dell’evento. L’ipotesi dell’agevolazione al suicidio prescinde totalmente dall’esistenza di qualsiasi intenzione, manifesta o latente, di suscitare o rafforzare il proposito suicida altrui. Anzi presuppone che l’intenzione di autosopprimersi sia stata autonomamente e liberamente presa dalla vita, altrimenti vengono in applicazione le altre ipotesi previste dal medesimo art. 580. È sufficiente che l’agente abbia posto in essere, volontariamente e consapevolmente, un qualsiasi comportamento che abbia reso più agevole la realizzazione del suicidio perché si realizzi l’ipotesi criminosa
di cui all’art. 580 c.p.
Molto chiara anche sulla distinzione tra le tre condotte oggetto dell’incriminazione Cass. pen. Sez. V, 26 ottobre 2006, n. 3924 secondo cui l’art. 580 incanala la condotta criminosa del reato di istigazione o aiuto al suicidio in distinte ipotesi di “determinazione” e “rafforzamento” (sul modello del concorso morale: istigazione) o di “agevolazione” (sul modello del concorso materiale: aiuto all’esecuzione).
Quale che sia la condotta con cui il reato resta integrato essa è sanzionata con la reclusione da cinque a dodici anni “se il suicidio avviene”, ovvero con la reclusione da uno a cinque anni se il suicidio non avviene, “purché dal tentativo di suicidio derivino lesioni personali gravi o gravissime”.
Le espressioni utilizzate nella disposizione (“…se il suicidio avviene”… “sempre che dal tentativo di suicidio
derivi una lesione personale grave o gravissima) impongono una riflessione preliminare sul loro significato dal momento che, ad una prima lettura, potrebbero essere interpretate entrambe come condizioni oggettive di punibilità; come fatti cioè che, se anche non voluti, determinano la punibilità dell’istigatore. Non è però questa la conclusione che se ne deve trarre. I reati di istigazione o aiuto al suicidio non sono reati di pericolo ma reati di danno (di evento), in cui la morte del suicida deve necessariamente essere oggetto di rappresentazione da parte dell’istigatore o dell’agevolatore (altrimenti non ci potrebbe essere istigazione o agevolazione al suicidio) e pertanto la morte del suicida costituisce l’evento che fa scattare la punibilità del reato. Viceversa sono senz’altro condizioni oggettive di punibilità (che determinano la punibilità dell’autore anche se non volute) le lesioni grave o gravissime che residuano in caso di tentato suicidio (che è indipendente dall’istigatore o dall’agevolatore che aveva di mira il suicidio e non il tentato suicidio). SUICIDIO
Con questa premessa si possono esaminare le tre condotte con cui il reato si può presentare (che prevedono indifferentemente condotte di determinazione del proposito suicida prima inesistente, condotte di rafforzamento di un proposito già esistente e condotte di agevolazione del gesto suicida). Per definire cumulativamente le condotte in questione il secondo comma l’usa l’espressione di persona istigata o eccitata o aiutata.
Non è escluso che uno stessa persona possa istigare e al tempo stesso agevolare il suicidio di un’altra; in tal caso non vi sarà continuazione dal momento che si tratta di un reato unico che si può commettere in forme diverse (che magari determineranno se cumulativamente realizzate la scelta di una pena maggiore nell’ambito del minimo e del massimo) e non di diverse ipotesi di reato. Vi sarà partecipazione nel reato, invece, tra più persone se una istiga e l’altra agevola.
1) La determinazione di altri al proposito suicida
Le condotte di istigazione sono studiate in ambito penale soprattutto con riferimento all’istigazione a commettere un reato (art. 115 c.p.) – dove la punibilità è esclusa se l’istigazione non è accolta – e determinano in genere, nel caso di accoglimento dell’istigazione, una compartecipazione aggravata nel reato che viene commesso (art. 110 e seguenti c.p.). Nel caso dell’istigazione al suicidio è evidente che non potrà parlarsi di nessuna compartecipazione dal momento che, come detto, il suicidio non costituisce un reato. L’art. 580 non punisce in sé l’istigatore (in questo costituendo, perciò, un’applicazione dell’art. 115) ma solo l’istigazione accolta, e quindi allorché ad essa consegua un gesto di suicidio anche rimasto nell’ambito del suicidio tentato che cagioni lesioni gravi o gravissime. Per questo motivo il testo della norma parla correttamente di determinazione di una persona a suicidarsi. Se manca questo effetto e cioè il suicidio o il tentato suicidio l’istigazione non è punibile (per tale motivo si tratta di un reato di evento).
L’istigazione può avvenire indifferentemente con comportamenti morali o materiali: il convincimento, l’abuso di autorità, il maltrattamento, la minaccia, l’induzione in errore, la somministrazione di sostanze o di farmaci. Comportamenti omissivi (quali il difetto di vigilanza) potrebbero essere determinanti per rafforzare un proposito suicida ma non per indurre il proposito. L’attività istigatrice deve essere, insomma, un’attività diretta a formare l’altrui proponimento suicida.
Il nostro ordinamento, pur avendo scelto, da un lato, la soluzione della non punibilità del suicidio e quindi anche della non punibilità del suicidio mancato o tentato, ha, dall’altro, inteso quindi tutelare il bene della vita, sanzionando penalmente qualsiasi interferenza o partecipazione, sia di natura psichica o morale che materiale nella ideazione e nel rafforzamento e nell’agevolazione del proposito suicida.
Ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato è sufficiente il dolo generico, mancando nella previsione normativa il riferimento ad uno scopo ulteriore rispetto alla realizzazione dell’evento del reato (Cass. pen. Sez. V, 28 aprile 2010, n. 22782 ).
Va chiarita la differenza tra l’istigazione al suicidio (art. 580 c.p.) e l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), presentando questi due delitti contro la persona un comune esito mortale collegato alla volontà della persona che accetta di essere ucciso o che si suicida.
La giurisprudenza ha ragionevolmente in proposito precisato che si ha omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica all’aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l’iniziativa, oltre che sul piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si ha istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria (Cass. pen. Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 31471 che, in un caso di doppio suicidio con sopravvivenza di uno dei soggetti, in parziale accoglimento del ricorso, aveva modificato l’originaria imputazione di omicidio del consenziente, ascritta all’imputato, qualificandola come agevolazione al suicidio di cui all’art. 580 c.p.).
Esempi di scuola: si ha omicidio del consenziente quando l’agente, con il consenso della vittima esplode contro quest’ultima un colpo di pistola uccidendola, mentre si avrà agevolazione al suicidio se l’agente si limita a fornire 1 I fatti si erano svolti a Messina come segue: M. M. (l’imputato) e A. C. (la vittima) erano due giovani studenti, fra i quali ad un certo punto era nata una fortissima ed intensa amicizia. Tale amicizia si era sviluppata in un periodo di particolare prostrazione psicologica per A.C., causata da una cocente delusione amorosa ad lui subita, coincidente con una condizione di forte disagio esistenziale
del M.M., dovuto a difficoltà di rapporto con i coetanei e a ripetuti insuccessi scolastici. Secondo il racconto di quest’ultimo, fu l’amico a maturare per primo, verso la metà del novembre del 1994, il proposito di suicidio, ma tale proposito divenne ben presto comune ad entrambi e decisero di attuarlo a distanza di poco più di un mese. Il 1 gennaio 1995, come da accordi presi, A.C. si recò infatti a casa di M.M. ed insieme, a bordo del ciclomotore del primo, si recarono a Portorosa di Furnari, ove la famiglia di M.M. aveva una villetta, dicendo che dovevano recarsi a Taormina per partecipare ad una festa in casa di amici. In tale immobile avevano invece deciso di togliersi la vita insieme, utilizzando il gas. Ivi giunti, spezzarono la chiave dentro la serratura della porta di ingresso per evitare che qualcuno potesse entrare, staccarono la bombola del gas dalla cucina e la sistemarono in camera da letto. Quindi, dopo avere chiuso le imposte, si misero a fumare degli “spinelli”, a bere alcool e ad ingerire delle compresse che ciascuno di loro aveva portato con sé; dopo di che, aprirono la bombola avendo cura di neutralizzare il “salvavita” e si addormentarono convinti che sarebbero morti. Senonché l’indomani mattina si svegliarono entrambi e, constatato l’insuccesso di tale tentativo e decisi ad attuare comunque il loro proposito, andarono a comprare due bombole di gas presso un rivenditore, in maniera tale da avere a disposizione una bombola ciascuno. Quindi le collocarono in camera da letto, richiusero le imposte, aprirono le bombole eludendo ancora una volta il salvavita e si stesero sul letto. Nell’occasione A.C. prese il tubo di gomma che era rimasto collegato alla cucina e, dopo averlo innestato in una delle due bombole, introdusse l’altra estremità nella propria bocca. Dopo qualche tempo cadde a terra privo di sensi e su di lui cadde, di lì a poco, M.M., stordito, ma ancora cosciente, il quale a quel punto decise di non proseguire nel tentativo di suicidio. Chiuse le bombole, aprì la finestra della camera e cercò di trascinare fuori dalla stanza l’amico, che era già morto, senza però riuscirvi. alla vittima, su richiesta di quest’ultima e conoscendo l’uso che ne farà, l’arma che poi essa utilizzerà contro se stessa. O ancora, commette omicidio ex art. 579 c.p. l’infermiere che inietta al paziente, affetto da una malattia incurabile che gli provoca dolori atroci, con il di lui consenso, una dose mortale di veleno, mentre è responsabile di istigazione al suicidio lo stesso infermiere che, prendendo lo spunto dalle condizioni di sofferenza del paziente, lo determini a porre fine alle sue sofferenze suicidandosi, o ne agevoli il proposito suicida, ponendogli a disposizione i mezzi per farlo.
2) Il rafforzamento dell’altrui proposito suicida
Il codice penale ritiene che, di fronte al proposito manifestato da una persona di suicidarsi (e quindi anche
quando non vi sia stata istigazione) non possa essere accettata la condotta di chi rafforzi il proposito suicida
già manifestatosi in una persona. Il rafforzamento deve esprimersi in una attività diretta a rendere definitivo un proposito suicida già manifestatosi ed è costituito in genere da un comportamento morale (come nel caso di chi incoraggia una persona a compiere il gesto suicida di cui ha esplicitato il proposito) ma può essere anche materiale (come nel caso in cui qualcuno falsifichi un certificato medico che convinca il paziente a mettere in esecuzione un proposito suicida già manifestato).
Anche in questo caso il comportamento incriminato è costituito per lo più da una condotta commissiva.
Chi, insomma, con la sua condotta finisce per rafforzare (oggettivamente) un proposito suicida espresso da
altra persona, è trattato penalmente allo stesso modo di chi realizza una condotta di istigazione al suicidio. È sufficiente, perciò, che l›agente abbia posto in essere, volontariamente e consapevolmente, comportamenti che rafforzino il proponimento già da altri maturato del suicidio perché si realizzi l›ipotesi criminosa di cui all›art. 580 c.p. Si ha rafforzamento del proposito suicida, in sintesi, quando l’agente riesce a dare al soggetto passivo del reato la capacità di tradurre in azione il proposito di suicidarsi già in lui insorto. Il concetto è stato precisato, sotto il profilo del nesso causale e dell’elemento soggettivo, da più di una sentenza. Così Cass. pen. Sez. V, 28 aprile 2010, n. 227822 – annullando la sentenza che aveva condannato un giovane accusato di aver rafforzato il proposito suicida della fidanzata – afferma che ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 580 cod. pen., sotto il profilo del rafforzamento dell’altrui proposito suicida, occorre sia la dimostrazione dell’obiettivo contributo al suicidio altrui, sia la prefigurazione dell’evento come dipendente dalla propria condotta, situazione quest’ultima che nella vicenda non appariva esistente.
In altre parole non solo per quanto riguarda l’ipotesi della determinazione ma anche per quanto concerne l’ipotesi del rafforzamento non si può prescindere senz’altro da un rapporto causale: il quale, se non è necessario che sia provato positivamente, quando, l’attività del colpevole appaia essersi concretata in un serio incitamento all’attuazione del proposito suicida già formatosi, deve invece ritenersi escluso quando possa sicuramente escludersi che l’esecuzione del proposito suicida abbia avuto un qualsiasi collegamento con l’opera di istigazione del colpevole.
Sul fronte dell’elemento soggettivo Cass. pen. Sez. V, 26 ottobre 2006, n. 39243– occupandosi anch’essa di
2 La Corte di assise di Torino aveva condannato un giovane ad oltre otto anni di reclusione anche per il reato di cui all’art. 580 c.p., per avere nel febbriao 2003 determinato o rafforzato o aver agevolato il proposito di suicidio della sua già fidanzata convivente (che si impiccava), dopo averla esposto a continue situazioni di conflitto con il proprio padre, sottraendole i beni che egli le aveva acquistati, utilizzandone la carta di credito e bancomat, formulando a lei ed a suo padre continue richieste di denaro, che usava per acquisito di stupefacenti e coltivando relazioni amorose con altre donne, che le rendeva note, dopo aver con lei condiviso un tentato suicidio, rideterminandola a riprendere l’uso degli stupefacenti e percuotendola, sino a che l’insieme poneva la P. in stato di prostrazione psicologica, tale da scemare la sua capacità decisionale ed infine la determinava al suicidio, con la promessa di condividere egli stesso il gesto. La Corte di assise di appello riduceva la pena ad anni 6 e mesi 9 di reclusione.
La Corte di cassazione accoglieva il ricorso dell’imputato ritenendo che mancava la prova della consapevolezza nell’imputato dell’eventualità del suicidio della fidanzata. 3 La Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di condanna pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Catanzaro, mandò assolto, con la formula “il fatto non costituisce reato”, V.O. dal reato di cui all’art. 580 cod. pen., sotto l’accusa – secondo quanto testualmente affermato nel capo d’imputazione – di avere “rafforzato il proposito di suicidio della sua fidanzata S.C., assumendo nei confronti della predetta un atteggiamento oppressivo, limitandone, per effetto di un attaccamento morboso, la libertà con continui comportamenti autoritari, soffocanti e restrittivi (ciò che da piccoli, nella stessa casa, poiché la madre di C. ed il padre di O., sentimentalmente legati, convivevano), pur sapendo che ciò era fonte di grande sofferenza e depressione per la giovane donna e nonostante fosse a conoscenza del proposito di suicidarsi che la stessa gli aveva più volte espressamente manifestato, nonchè di concreti tentativi di suicidio dalla predetta posti in essere, sfidandola anche, a seguito di una violenta scenata di gelosia consumatasi in luogo pubblico, a buttarsi dal balcone; così esasperando ulteriormente la ragazza che, effettivamente, alla presenza dello stesso V., si gettava dal balcone di casa decedendo a seguito della precipitazione”.
A sostegno della pronuncia assolutoria, la corte d’appello, premesso di condividere quanto affermato nella sentenza di primo grado circa la configurabilità del reato anche a titolo di dolo generico e la sussistenza, nella specie, di una “condizione di vulnerabilità” della vittima a cagione di sue “preesistenti, minorate condizioni psichiche” ritenne che non potesse tuttavia darsi per certo che della suddetta condizione di vulnerabilità il V. fosse chiaramente consapevole e che egli, nel porre in essere la condotta a lui addebitata (pur causalmente ricollegabile all’evento), avesse avuto la “previa rappresentazione di una seria ipotesi
suicidaria”, nulla potendo rilevare in contrario il fatto, riferito dallo stesso V., che la ragazza avesse già in precedenza manifestato l’intenzione di gettarsi dal balcone a scopo suicida come pure il fatto che, subito dopo il tragico evento, il V. avesse detto, rivolto all’intervenuto personale di polizia: “arrestatemi, è colpa mia” posto che, semmai, proprio da tale ultima circostanza si sarebbe potuto desumere che solo in quel momento l’imputato si era reso conto “che la sua partecipazione morale probabilmente aveva inciso nel determinismo della S.”. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la procura generale della Repubblica.
Il ricorso veniva respinto in quanto: a) se è vero che il reato di cui all’art. 580 c.p., richiede, sotto il profilo psicologico, soltanto il dolo generico, è altrettanto vero che, relativamente all’ipotesi del “rafforzamento” dell’altrui proposito di suicidio, una imputazione di rafforzamento del proposito suicida della fidanzata dell’imputato – aveva escluso il reato sulla base dell’affermazione che ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 580 c.p., sotto il profilo del rafforzamento dell’altrui proposito suicida, pur essendo richiesto, quanto all’elemento psicologico, il solo dolo generico, è però necessario che sussista, nell’agente, la consapevolezza della obiettiva serietà del suddetto proposito. Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che correttamente fosse stata esclusa, dal giudice di merito, la sussistenza del reato a carico del fidanzato di una ragazza il quale, a fronte del manifestato – e poi attuato – proposito della stessa di suicidarsi mediante precipitazione da un balcone, per reazione ad una scenata di gelosia, l’aveva verbalmente incoraggiata a porre in essere il detto proposito, nel presumibile convincimento che, come già avvenuto in passato, esso non avrebbe avuto seguito.
Si afferma nella sentenza che l’art. 580 c.p. conduce la figura di reato nei binari della causalità del fatto e del dolo generico, secondo le regole generali del Codice. Invero la ratio di incriminazione è la stessa dell’omicidio, perché l’autore del reato consapevole deve quantomeno non disvolere il suo contributo al risultato mortale, che dipende dal suicidio altrui. E, dal momento che l’evento è direttamente cagionato dall’offeso (a differenza dell’omicidio del consenziente: art. 579), l’art. 580 incanala la condotta criminosa del reato di istigazione o aiuto al suicidio in distinte ipotesi di “determinazione” e “rafforzamento” (sul modello del concorso morale: istigazione) o di “agevolazione” (sul modello del concorso materiale: aiuto all’esecuzione). Le prime due condotte incidono inversamente sull’azione del suicida, perché la “determinazione” suscita in lui il proposito, mentre il “rafforzamento” presumendolo, lo consolida. Questa seconda ipotesi è di difficile prova nel caso in cui l’agente si proponga un risultato del tutto diverso, perché implica sia la dimostrazione di obiettivo contributo all’azione suicida altrui, sia la prefigurazione dell’evento come dipendente dalla propria condotta.
3) L’agevolazione del suicidio altrui
Rientrano in questa terza ipotesi comportamentale tutte le condotte materiali che agevolano e facilitano il gesto suicida altrui. L’agevolazione può realizzarsi in qualsiasi modo: ad esempio, fornendo i mezzi per il suicidio, offrendo istruzioni sull’uso degli stessi mezzi, rimuovendo ostacoli o difficoltà che si frappongano alla realizzazione del proposito, o – secondo l’opinione di molti – anche omettendo di intervenire, qualora si abbia l’obbligo di impedire la realizzazione dell’evento.
E vi possono rientrare anche quei comportamenti attraverso i quali si aiuta concretamente una persona a porre fine alla sua vita, accompagnandola e assistendola per esempio in una struttura ospedaliera all’estero dove si effettua il suicidio assistito4.
Secondo la già richiamata Cass. pen. Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 3147 (un doppio suicidio con sopravvivenza
di uno dei due soggetti di cui la Corte ritiene la responsabilità ex art. 580 c.p.) l’ipotesi della agevolazione al
suicidio prescinde totalmente dall’esistenza di qualsiasi intenzione, manifesta o latente, di suscitare o rafforzare il proposito suicida altrui, presupponendo anzi che l’intenzione di autosopprimersi sia stata autonomamente e liberamente presa dalla vittima. Pertanto, perché si realizzi la suddetta ipotesi criminosa, è sufficiente che l’agente abbia posto in essere, volontariamente e consapevolmente, un qualsiasi comportamento che abbia reso più agevole la realizzazione del suicidio.
Per l’agevolazione del suicidio, insomma, oltre che la predisposizione dei mezzi necessari per l’esecuzione del suicidio e il loro impiego da parte del soggetto passivo, occorre che vi sia la conoscenza da parte dell’agente del proposito suicida.
Nella medesima prospettiva Ass. Messina, 10 giugno 1997 sempre in un caso di concordato doppio suicidio, ove uno dei partecipi sia morto mentre l’altro sia sopravvissuto, quest’ultimo non è punibile ex art. 580 c.p. quando il suicida si sia autonomamente determinato senza esser da lui minimamente influenzato, giacché anche l’agevolazione al suicidio sul piano soltanto materiale va ricondotta al fenomeno istigativo e un’interpretazione della norma conforme a Costituzione impone di circoscrivere le condotte punibili a quelle nelle quali l’aiuto al suicidio abbia esercitato un’apprezzabile influenza nel processo formativo della volontà della vittima, che ha trovato nella collaborazione dell’estraneo incentivo e stimolo a togliersi la vita.
L’idoneità dell’azione a determinare l’evento deve essere valutata ponendo in relazione le distinte personalità dei soggetto che agevola e di quello che si suicida, e ciò perché la resistenza morale e materiale del soggetto passivo nei confronti dell’azione del soggetto attivo del reato può essere variamente efficace a seconda delle particolari caratteristiche della personalità di entrambi.
Infine, come ha ben messo in rilievo Trib. Avellino, 23 febbraio 2011 la responsabilità penale è limitata alle
forme di agevolazione dolosa del fatto penalmente lecito descritte dall’art. 580 c.p. mentre l’agevolazione colposa del suicidio – come quella, nella vicenda tratta da questa sentenza, realizzata dal marito che custodiva in modo negligente, nell’abitazione familiare, l’arma impiegata dalla moglie per suicidarsi – non è riconducibile alla fattispecie dolosa di “aiuto al suicidio”.
tale “rafforzamento” in tanto può esistere ed assumere penale rilevanza, ove poi il suicidio abbia luogo, in quanto sussista il presupposto costituito dalla obiettiva esistenza, “ab origine” , di un serio e riconoscibile proposito suicida; b) nella specie, proprio sulla ritenuta inesistenza di elementi che dimostrassero la riconoscibilità del suddetto proposito la Corte di merito ha basato, nell’essenziale, il proprio giudizio, per cui non sussiste affatto la denunciata violazione di legge.
4 Art. 9, 1° comma, c.p. (Delitto comune del cittadino all’estero). Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato.
III
La tutela del minore e dell’incapace: i casi responsabilità penale aggravata
Il secondo comma dell’art. 580 c.p.c. prevede che Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata
o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la
persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio”.
Il rinvio alle persone che si trovano nelle condizioni di cui ai numeri 1 e 2 dell’art. 579 fa riferimento al caso in cui la vittima – e quindi in questo caso il suicida – abbia meno di 18 anni ovvero sia infermo di mente o in condizioni di inidoneità psichica derivante da infermità ovvero abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti. In tali casi queste condizioni costituiscono un’aggravate del reato di cui all’art. 580 c.p. Qui la vittima si trova in una condizione che non consente di comprendere pienamente il significato e il valore del gesto autolesivo. Se invece, la vittima, e cioè il suicida, ha meno di 14 anni o non aveva capacità di intendere e di volere – trovandosi, quindi, in una condizione personale, per presunzione legale assoluta, in cui manca del tutto la capacità di percepire il significato dell’atto – troveranno applicazione non le norme sull’istigazione e sull’agevolazione ma quelle sull’omicidio. Il rinvio è quoad poenam. In sostanza se un infraquattordicenne o un incapace di intendere e di volere si suicidano, le condotte di istigazione, rafforzamento o agevolazione non saranno punite in base all’art. 580 ma, ai fini della pena, in base alle norme sull’omicidio. Ma omicidio volontario o colposo? Poiché l’istigazione, il rafforzamento e l’agevolazione presuppongono che la vittima abbia capacità di scelta e decida di suicidarsi, sia pure istigato o aiutato da altri, è evidente che il legislatore ha ritenuto che un incapace o un infraquattordicenne non abbiano integra la capacità di scelta e non siano in grado, perciò, di resistere all’altrui istigazione o di sottrarsi all’altrui agevolazione. La sanzione applicabile sarà, quindi, quella dell’omicidio volontario. E se il suicidio non avviene? E’ evidente che se il suicidio non si verifica non potranno trovare applicazione, sia pure quoad poenam, le norme sull’omicidio e quindi saranno applicabili le sanzioni penali previste per le lesioni volontarie gravi o gravissime.
IV
La responsabilità per omissione di vigilanza
Il tema dell’omessa vigilanza quale concausa responsabile del suicidio è associato in genere al suicidio di pazienti nei reparti ospedalieri di psichiatria.
Già Cass. civ. Sez. I, 10 novembre 1997, n. 11038 in un caso di invalidità riportata in conseguenza di un
tentativo di suicidio messo in atto da un paziente, aveva in passato affermato che ai fini della responsabilità di una usl per lesioni riportate per omissione di vigilanza da un paziente durante il ricovero ospedaliero è irrilevante il carattere volontario ed obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto, non potendo quest’ultimo condizionare l’obbligo di sorveglianza da parte del medico e del personale sanitario, basato sulla stessa diagnosi dei sanitari, sulle precise prescrizioni affidate al personale infermieristico e sulla loro mancata osservanza A tale proposito è costante l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele Cass. pen. Sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292).
Anche Cass. pen. Sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430 aveva affermato che sussiste nesso di causalità,,
suscettibile di dar luogo a responsabilità penale a titolo di colpa a carico del direttore di una casa di cura per malattie mentali, tra la morte per suicidio di una paziente ivi ricoverata e la condotta del suddetto direttore costituita dall’avere egli disposto che la medesima paziente, affetta da sindrome depressiva psicotica e già reduce da precedenti tentativi di suicidio , fosse accompagnata, durante un ‘uscita dalla casa di cura (nel corso del quale il suicidio, mediante autoprecipitazione da una finestra, era avvenuto), da un’assistente volontaria priva di adeguata esperienza e non previamente informata dello stato mentale e delle pregresse iniziative suicidarie del soggetto, nulla rilevando in contrario, atteso il principio dell’equivalenza delle cause, che la suddetta assistente avesse a sua volta posto in essere una condotta censurabile, per aver contravvenuto, accompagnando la paziente presso la propria abitazione (ove poi era avvenuto il fatto) alle istruzioni ricevute, secondo le quali l’uscita avrebbe dovuto essere limitata ad una breve passeggiata, accompagnata dalla consumazione di un gelato.
Il principio è stato ribadito recentemente da Cass. pen. Sez. IV, 14 giugno 2016, n. 33609 secondo cui il
medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l’obbligo – quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie – di apprestare specifiche cautele (nello specifico la Corte ha ritenuto immune da censure la pronuncia che aveva affermato la responsabilità di un medico del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per il suicidio di una paziente, ricoverata con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva, nei confronti della quale aveva omesso di assicurare una stretta e continua sorveglianza, sebbene le notizie anamnestiche e la diagnosi di accettazione avessero reso evidente il rischio di suicidio).
Si legge nella sentenza che in applicazione dei consueti canoni in tema di responsabilità medica, il paziente che si trovi ricoverato in un reparto psichiatrico deve essere correttamente curato. In altre parole, lo psichiatra, al parii qualsiasi altro medico curante, ha l’obbligo giuridico di curare la malattia mentale nel miglior modo possibile, con tutti gli strumenti che ordinamento e scienza pongono a sua disposizione. Detto obbligo ha in sé quello di salvare il paziente dal rischio di condotte autolesive, dovendo ritenersi che le stesse rappresentino un’estrinsecazione, quando non una conseguenza, della patologia che lo affligge. Ciò che l’ordinamento richiede allo psichiatra è di contrastare il rischio di condotte siffatte, attivandosi con gli strumenti terapeutici di cui può disporre. E se lo psichiatra ha in cura una persona che presenti un concreto pericolo di suicidio, la posizione di garanzia comporta l’obbligo di apprestare cautele specifiche (così, ad esempio, nel caso di ricovero volontario, invitare il personale infermieristico alla massima sorveglianza; prevedere, nel caso in cui il paziente intenda uscire dalla struttura, che lo accompagnino persone qualificate ed informate). Anche il suicidio in carcere è stato oggetto di attenzioni da parte della giurisprudenza come attesta Cass. pen. Sez. IV, 4 febbraio 2016, n. 14766 che ha ritenuto immune da censure l’assoluzione del medico psichiatra e della psicologa, in servizio presso una casa circondariale, dall’imputazione di omicidio colposo per il decesso di un detenuto per impiccagione, sul rilievo che, alla luce dei dati clinici in loro possesso e ai parametri di valutazione individuabili nella letteratura scientifica, non poteva ravvisarsi un rischio di suicidio concreto ed imminente, dovendo per altro verso escludersi ogni loro responsabilità per le carenze organizzative della amministrazione penitenziaria, dovute alla presenza di una cella con finestra dotata di un appiglio per agganciare il lenzuolo utilizzato per il gesto autosoppressivo. Il principio affermato nell’occasione è che nell’ipotesi di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, va esclusa la sussistenza di un’omissione penalmente rilevante a carico dello psichiatra che ha in cura un detenuto, quando risulti che il medico, nella specifica valutazione clinica del caso, si sia attenuto al dovere oggettivo di diligenza ricavato dalla regola cautelare, applicando la terapia più aderente alle condizioni del malato e alle regole dell’arte psichiatrica.
In un caso di suicidio della moglie (non incapace), con un’arma regolarmente detenuta dal marito all’interno dell’abitazione, Trib. Avellino, 23 febbraio 2011, ha ritenuto che non è configurabile una responsabilità del marito per omicidio colposo realizzato in forma omissiva impropria, per asserita violazione delle norme sulla custodia delle armi. Ed infatti, da un lato deve escludersi la sussistenza di una posizione di garanzia in capo al coniuge di una persona capace, che la tuteli dagli eventi dannosi frutto di scelte deliberate, come il suicidio; dall’altro, sotto il profilo del nesso causale, se è vero che l’incauta od omessa custodia dell’arma utilizzata dal suicida rappresenta senz’altro una concausa materiale dell’evento morte, è altresì vero che il suicidio posto in essere da una persona dotata di autodeterminazione responsabile costituisce, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., una “causa sopravvenuta da sola sufficiente” a determinare l’evento lesivo. Il suicidio esula infatti dai rischi che la norma cautelare impositiva dell’obbligo di custodia delle armi mira a prevenire: se con riferimento a minori o incapaci quella norma istituisce una posizione di garanzia in capo al detentore dell’arma, in tal modo attraendo una condotta di suicidio nell’ambito dei rischi giuridicamente rilevanti connessi alla regola cautelare, altrettanto non può dirsi, come nel caso di specie, in relazione ai terzi dotati di ordinaria autodeterminazione responsabile, rispetto ai quali la norma che impone un’adeguata custodia delle armi è finalizzata a prevenire i pericoli rivolti ai beni altrui (l’interesse della sicurezza pubblica, richiamato dall’art. 20, comma 1, legge n. 110/1975) e non già ai beni propri. In relazione a tali ultimi soggetti, la morte a seguito di suicidio, ancorché legata a un nesso di causalità materiale alla condotta del detentore dell’arma incautamente custodita, rappresenta pertanto un evento non inquadrabile in una successione normale di accadimenti e appartiene a un genere di rischio del tutto differente rispetto a quello creato dall’agente.
V
Il suicidio come conseguenza non voluta di condotte illecite
(maltrattamenti, minacce, stalking, mobbing, bullismo)
Si è visto che nell’art. 580 c.p. l’evento morte è in definitiva voluto (o non disvoluto) dall’agente, il quale determina, rafforza o agevola il suicida proprio volendo l’esito mortale, ma non compiendolo direttamente. Se così fosse – come si è detto – si tratterebbe di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) oppure, ove facesse difetto il consenso della vittima, di omicidio vero e proprio (art. 575 c.p.).
In altre situazioni, come nel caso di maltrattamenti, di minacce, di stalking o di altri comportamenti integranti condotte riconducibili alla violenza privata (per esempio mobbing, bullismo), l’agente non vuole determinare il suicidio della vittima, ma il comportamento messo in atto conduce ugualmente la vittima al suicidio, che è un evento, quindi, non voluto ma legato da un nesso causale con la condotta.
Il problema è verificare se ai fini della punibilità dell’agente – al di là di una auspicabile riforma che unifichi tutte le condotte di violenza privata – sia sufficiente il solo collegamento causale o se debba esservi anche una qualche prevedibilità del suicidio.
In generale il problema è disciplinato dall’art. 586 del codice penale (Morte o lesione come conseguenza di altro delitto) dove si afferma che “Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 835, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate”. All’evento morte è equiparato naturalmente il suicidio e alle lesioni sono equiparate le eventuali lesioni conseguenti al tentato suicidio.
5 Art. 83 c.p. (Evento diverso da quello voluto dall’agente). Fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, se per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto si applicano le regole sul concorso dei reati.
La questione – con riferimento agli abusi o ai maltrattamenti – è del tutto sovrapponibile a quella di cui si occupano l’ultimo comma dell’art. 5716 e dell’art. 5727 in cui la pena è indicata in maniera più grave se dall’abuso dei mezzi di correzione o dai maltrattamenti derivi come esito non voluto la morte della vittima. In questi due casi la sanzione aggravata è espressamente indicata mentre nell’art. 586 –norma di carattere generale – si richiamano le pene previste per l’omicidio colposo e per le lesioni colpose.
Vediamo come la giurisprudenza affronta queste situazioni.
a) Il nesso causale
Il collegamento causale tra la condotta e l’evento morte è indubbiamente la prima necessaria coordinata per potersi addebitare all’agente il suicidio della vittima.
Proprio con riferimento ai maltrattamenti per esempio si è affermato che la morte della vittima – che pur sempre non deve essere voluto neanche a titolo di dolo eventuale (Cass. pen. Sez. I, 12 gennaio 1989, n. 4912) – è condizione oggettiva di punibilità ed addebitato in relazione ai principi posti dall’art. 41 c.p. imponendo, quindi, un rinvio alle regole con le quali viene regolamentata l’imputazione oggettiva degli eventi causati dall’autore di un reato (Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2010, n. 29631). E’ opportuno precisare, però, che il nesso causale – come si dirà tra breve – non è l’unico elemento richiesto in giurisprudenza ai fini della punibilità.
Vi è intanto da verificare se il gesto e la decisione suicida in sé possa dirsi un fatto che interrompa il nesso causale tra la condotta e la morte.
Il nesso causale è stato ritenuto sussistente, come sopra detto, nelle molte ipotesi in cui i giudici si sono occupati della responsabilità del medico rispetto al suicidio di pazienti psichiatrici (molto significativa n ordine proprio al nesso causale Cass. pen. Sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430).
Ugualmente è avvenuto in caso di incidenti connessi alla circolazione stradale. Per esempio, in seguito ad un incidente stradale un ciclomotorista aveva riportato la lesione del femore e dopo qualche tempo egli stesso riconobbe di essere affetto da anomalie psichiche. Proprio a causa di queste, durante uno dei tanti ricoveri ospedalieri, egli si gettò dalla finestra dell’ospedale, cadde dal quinto piano e riportò gravissime lesioni. I giudici hanno ritenuto responsabile del fatto il conducente della autovettura motivando che il trauma procurato con l’incidente stradale era una conseguenza prossima dell’evento finale (Trib. Milano, 13 luglio 1989 che ha, peraltro, ravvisato anche la responsabilità dell’ospedale dove avvenne il suicidio ritenendolo dovuto ad omessa vigilanza).
Lo stesso criterio è stato seguito quando i giudici hanno ritenuto che il suicidio della vittima, verificatosi nell’immediatezza ed in conseguenza dell’incidente, non è evento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra fatto antigiuridico ed evento-morte (Cass. civ. Sez. III, 7 febbraio 1996, n. 969 che ha ritenuto il conducente di un veicolo, che colposamente ha investito una persona, provocandole gravi lesioni ad una gamba, è responsabile dell’alterazione psichica transitoria insorta nell’investito e del conseguente suicidio posto in essere da quest’ultimo).
Si trattava di un militare della Guardia di finanza che, subito dopo essere stato investito da un’autovettura
ed aver riportato lo sfracellamento di una gamba, si era sparato con la pistola di ordinanza un colpo alla tempia, prima ancora che giungessero i soccorsi. L’autore del sinistro veniva ugualmente dichiarato responsabile di omicidio colposo.
Ugualmente – nel settore antiinfortunistico – se un dipendente, a causa di un infortunio addebitabile ad omissioni antiinfortunistiche, entra in un grave stato depressivo che lo conduce al suicidio, del fatto è responsabile anche il datore di lavoro (Cass., sez. lav., 23 febbraio 2000, n. 2037). Nel caso di specie, il dipendente di una impresa subiva un grave infortunio sul lavoro (intossicazione da monossido di carbonio); a causa di tale infortunio riportava un’invalidità permanente del 70%. Dopo tredici mesi, il lavoratore infortunato, a causa di una forte depressione determinata dall’incidente, si uccideva. Il nesso causale tra una grave malattia contratta sul luogo del lavoro e il successivo suicidio dell’infortunato è stato, però, in passato escluso da Cass. civ. Sez. lavoro, 20 gennaio 1987, n. 500 che ha affermato che il diritto dei superstiti alle prestazioni assicurative per la morte dell’assicurato affetto da silicosi sussiste quando il decesso sia stato determinato da detta infermità o da una sua conseguenza patologica diretta, che sia cioè in rapporto di causalità con la detta malattia professionale, in quanto strettamente connessa con il relativo processo formativo ed evolutivo (nella specie esclusa).
Secondo la Cassazione “tutti gli antecedenti – diretti o indiretti, prossimi o remoti – senza i quali l’evento dannoso non si sarebbe verificato, vanno considerati causa di esso, eccettuando la sola ipotesi – sulla base del principio di causalità efficiente di cui all’art. 41 c.p. – in cui sia individuabile, nella sequenza causale, un antecedente prossimo (costituito da un antecedente eccezionale ed imprevedibile), idoneo da sé solo a determinare 6 Art. 571 c.p. (Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina). 1. Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. 2. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli
582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni.
7 Art. 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari e conviventi). 1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. 2. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
l’evento, e che esclude, di conseguenza l’efficacia causale degli antecedenti più remoti, retrocessi al rango di mere occasioni”. Pertanto, secondo la Corte il suicidio non rappresenta un evento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tutte le volte che l’illecito ha determinato nel soggetto leso dei gravi processi di infermità psichica, concretizzantisi in psicosi dell’umore e del sistema nervoso e di autocontrollo. Rispetto a tali infermità il suicidio non si configura, infatti, quale evento straordinario o atipico tale da risultare estraneo alla sequela causale ricollegabile
all’iniziale condotta illecita.
b) La prevedibilità del suicido
In ordine al titolo di imputazione dell’evento non voluto, conseguenza del delitto presupposto doloso, le opinioni possono essere inquadrate in due orientamenti fondamentali: quello che riconduce l’imputazione dell’evento alla sfera della responsabilità oggettiva e quello che, al contrario, ritiene debba trovare applicazione un criterio di imputazione colposo.
Secondo il primo orientamento, l’art. 586 c.p. costituirebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva, e dell’evento non voluto, si risponderebbe sulla base del solo nesso causale, e cioè della connessione che lega tale evento alla condotta-base dolosa. Questa tesi della sufficienza, ai fini della responsabilità ex art. 586 c.p. del solo nesso causale tra il reato-base doloso e l’evento aberrante ha consentito ad una parte della giurisprudenza di prescindere da ogni effettivo accertamento del coefficiente psicologico della colpa, e dunque dalla prevedibilità ed evitabilità dell’evento, finendo per ampliare notevolmente il campo di applicazione dell’art. 586 c.p.
Il secondo orientamento si richiama, invece, alla necessità della colpa quale criterio di imputazione per l’evento non voluto, individuando nella colpa generica il coefficiente psicologico di imputazione per l’evento (morte o lesioni) non voluto. Questo orientamento muove dal presupposto che l’attività diretta alla realizzazione dell’evento voluto costituisca non esonerata dal rispetto di specifiche cautele, volte ad evitare la realizzazione di ulteriori fatti illeciti. Si osserva che, così come per l’imputazione dell’aggravante (che presuppone che si possa muovere almeno un rimprovero in termini di colpa) anche per imputare ex art. 586 c.p. l’evento non voluto a carico di chi pone in essere una condotta dolosa, sia necessario un coefficiente colposo. Questo principio di colpevolezza è stato affermato anche in sede costituzionale (Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364; Corte cost. 13 dicembre 1988, n. 1085; Corte cost. 19 gennaio 1972, n. 6) dove si ritiene pacificamente che il base al primo comma dell’art. 27 Cost. non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto, ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento. Si tratta dunque di regole di comportamento che si risolvono in un giudizio di prevedibilità in concreto dello sviluppo causale da cui è scaturita l’ulteriore offesa.
Pertanto oggi si ribadisce la necessità che gli elementi del fatto siano imputati sulla base di una imputazione
almeno colposa e che le fattispecie suscettibili di essere applicate a prescindere dalla colpevolezza dell’agente siano oggetto di una interpretazione restrittiva, volta ad adeguarle al dettato costituzionale.
Proprio in tema di suicidio seguito a maltrattamenti Cass. pen. Sez. VI, 29 novembre 2007, n. 12129 e
Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 44492 hanno perciò precisato che l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio, ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo da escludere che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima. Pur in ritenuta ipotesi di collegamento causale tra il suicidio ed i maltrattamenti – si afferma nelle due sentenze – occorre, in ogni caso, comprovatamente e inequivocamente cogliere l’aspetto relativo all’addebitabilità soggettiva dell’evento, nel senso che l’evento ulteriore accollato all’agente (suicidio della vittima quale aggravante di cui all’art. 572, secondo comma, c.p.) deve necessariamente ancorarsi ad un coefficiente di prevedibilità concreta del rischio derivante dalla consumazione del reato base, verifica attribuita ad un giudizio prognostico che, pur se postumo, deve, comunque ancorarsi ad una prospettiva ex ante in piena sintonia con il detto principio di diritto, un differente approccio che prescindesse dalla prevedibilità dell’evento non voluto e che, quindi, accettasse l’ipotesi di una forma di “responsabilità oggettiva”, finirebbe per mettersi in aperto contrasto con il regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti (art. 59, comma 2, c.p.)
In buona sostanza, per garantire il principio di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale nei casi di suicidio seguito alla condotta di maltrattamenti è necessario che l’evento sia la conseguenza prevedibile in concreto della condotta di base posta in essere dall’autore del reato e non sia invece il frutto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima, imprevedibile e non conoscibile da parte del soggetto agente al quale, pertanto, non potrà imputarsi il rischio della aggravante in esame in rapporto alla sua condotta comprovatamente illecita di “base”.
Per ciò che concerne il profilo causale, la Cassazione, nel ritenere il nesso causale tra la condotta di maltrattamenti ed il suicidio della vittima, osserva come tale collegamento causale debba ritenersi sussistente non solo nelle ipotesi in cui l’evento letale sia conseguenza diretta dei maltrattamenti, ma altresì quando nella serie causale innescata dalla condotta dolosa si inserisca l’autonoma scelta suicida del soggetto passivo. In altri termini, secondo le due sentenze richiamate, la condotta suicida della vittima – ove posta in essere per sottrarsi alle reiterate sofferenze psico-fisiche alla stessa cagionate dall’autore dei maltrattamenti – rappresenta nient’altro che una concausa sopravvenuta, la quale, senza incidere sulla rilevanza del nesso causale, concorre – unitamente alla condotta di maltrattamenti – a produrre l’evento aggravatore.
Alla luce del principio costituzionale di colpevolezza l’evento non voluto addebitato all’agente deve, quindi, ancorarsi a un coefficiente di prevedibilità concreta del rischio derivante dalla consumazione del reato base.
Il principio della necessaria prevedibilità dell’evento mortale è stato confermato nel gennaio 2009 dalle Sezioni Unite (investite proprio della questione di diritto se l’evento ulteriore della morte debba essere addebitato oggettivamente o, invece, sulla base di un coefficiente colposo) con riferimento all’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente. In tale occasione le Sezioni Unite hanno precisato che la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale (Cass. pen. Sez. Unite, 22 gennaio 2009, n. 22676).
Era stata nel 2008 la quarta sezione della Cassazione (Cass. pen. Sez. IV, 24 settembre 2008, n. 41026) a
rimettere alla Sezioni Unite la questione, sussistendo un contrasto giurisprudenziale, relativamente all’individuazione dei presupposti per fondare la responsabilità ex art. 586 c.p. del venditore di sostanze stupefacenti per la morte o le lesioni del tossicodipendente. Ed invero, a fronte di un orientamento che ritiene sufficiente, per affermare la responsabilità del venditore, il mero nesso di causalità non interrotto da eventi eccezionali sopravvenuti – e nel caso di successive cessioni, considera comunque non interrotto il rapporto di causalità per effetto delle cessioni intermedie – se ne rinviene un altro che ritiene configurabile la responsabilità non sulla base del mero rapporto di causalità materiale, ma solo allorquando si accerti la sussistenza di un coefficiente di “prevedibilità” della morte o delle lesioni, sì da potersene dedurre una forma di responsabilità per colpa Il merito principale della sentenza delle Sezioni Unite è quello di aver considerato definitivamente superati gli orientamenti che fino ad oggi hanno ricondotto l’art. 586 c.p. nell’ambito della responsabilità oggettiva e di inquadrare definitivamente il criterio di imputazione dell’evento ulteriore nell’ambito del principio di colpevolezza.
Le Sezioni Unite individuano nella colpa in concreto il coefficiente di imputazione idoneo, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, a fondare la responsabilità dell’autore della condotta dolosa, prendendo le distanze anche dagli orientamenti che si richiamano alla colpa presunta o alla prevedibilità in astratto.
Tuttavia questo orientamento non indebolisce la funzione di prevenzione generale delle norme penali ma richiede al giudice di verificare in concreto attraverso una ricostruzione del fatto addebitato gli elementi su cui fondare la prevedibilità del suicidio della vittima.
E quando la prevedibilità si riferisce a fattori soggettivi, assumono rilevanza decisiva lo stato di salute, l’età della persona offesa, nonché tutte le altre caratteristiche anche psicologiche della persona. Sul piano pratico e applicativo – a tutela delle condizioni di debolezza in cui la vittima di tali comportamenti viene a trovarsi – i margini per il riconoscimento della imprevedibilità in concreto dell’evento ulteriore appaiono estremamente ridotti.
VI
Suicidio e assicurazione sulla vita
All’interno delle disposizioni del codice civile che disciplinano l’assicurazione sulla vita l’art. 1927 prevede il caso del suicidio dell’assicurato disponendo al primo comma che “In caso di suicidio dell’assicurato, avvenuto prima che siano decorsi due anni dalla stipulazione del contratto, l’assicuratore non è tenuto al pagamento delle somme assicurate, salvo patto contrario”.
Si tratta, in fondo, dell’applicazione del principio generale in campo assicurativo desumibile dall’art. 1900, secondo cui sono esclusi dalla copertura assicurativa i sinistri cagionati dall’assicurato con dolo, derogato, limitatamente alle assicurazioni per il caso di morte, dall’art. 1927. La norma prevede quindi un effetto liberatorio dell’assicuratore nell’ipotesi di suicidio provocatosi dall’assicurato, qualora l’evento si verifichi durante un periodo di due anni, decorrente dalla stipula del contratto; periodo ritenuto evidentemente sufficiente a fare svanire propositi suicidi, eventualmente maturati in vista della stipula del contratto.
Se, quindi, il suicidio si verifica prima del completamento del biennio l’assicurazione è liberata dalla propria obbligazione.
La norma di cui all’art. 1927 è derogabile dalle parti, come si desume dall’espressa riserva di accordo contrario, contenuta nel primo comma e – come ha sostenuto in passato Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 1991, n. 7956 – dal fatto che tale disposizione non è compresa tra le norme inderogabili indicate dall’art. 1932 c. c.
La norma trova applicazione quando il suicida si sia cagionato la morte volontariamente e non colposamente o accidentalmente e d’altro lato – come si è detto – la nozione stessa di suicidio presuppone un atto volontariamente teso a darsi la morte.
Se il suicidio si verifica dopo il decorso del biennio dalla data del contratto l’assicuratore rimane inevitabilmente obbligato.
Giurisprudenza
Cass. pen. Sez. IV, 14 giugno 2016, n. 33609 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l’obbligo – quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie – di apprestare specifiche cautele. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la pronuncia che aveva affermato la responsabilità di un medico del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per il suicidio di una paziente, ricoverata con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva, nei confronti della quale aveva omesso di assicurare una stretta e continua sorveglianza, sebbene le notizie anamnestiche e la diagnosi di accettazione avessero reso evidente il rischio di suicidio).
Cass. pen. Sez. IV, 4 febbraio 2016, n. 14766 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di responsabilità per colpa professionale del sanitario, nell’ipotesi di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, è da escludere la sussistenza di un’omissione penalmente rilevante a carico dello psichiatra che lo aveva in cura, quando risulti che il medico, nella specifica valutazione clinica del caso, si sia attenuto al dovere oggettivo di diligenza ricavato dalla regola cautelare, applicando la terapia più aderente alle condizioni del malato e alle regole dell’arte psichiatrica. (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto immune da censure l’assoluzione del medico psichiatra e della psicologa, in servizio presso una casa circondariale,
dall’imputazione di omicidio colposo per il decesso di un detenuto per impiccagione, sul rilievo che, alla luce dei dati clinici in loro possesso e ai parametri di valutazione individuabili nella letteratura scientifica, non poteva ravvisarsi un rischio di suicidio concreto ed imminente, dovendo per altro verso escludersi ogni loro responsabilità per le carenze organizzative della amministrazione penitenziaria, dovute alla presenza di una cella con finestra dotata di un appiglio per agganciare il lenzuolo utilizzato
per il gesto autosoppressivo).
Cass. pen. Sez. I, 12 novembre 2015, n. 12928 (Dir. Pen. e Processo, 2016, 5, 613)
E’ configurabile il delitto di omicidio volontario, anziché la meno grave ipotesi di omicidio del consenziente, in caso di mancanza di una prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima, dovendo in tal caso riconoscersi assoluta prevalenza al diritto alla vita, quale diritto personalissimo, che non attribuisce al coniuge il potere di disporre, anche in base alla propria percezione della qualità della vita, dell’integrità fisica altrui. Le discussioni tuttora esistenti sulla con divisibilità dell’eutanasia sono sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea; non ricorre, pertanto, la generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale, condizionante la qualificazione del motivo come “di particolare valore morale e sociale”, previsto come circostanza attenuante dall’art. 62, n. 1, c.p.
Cass. pen. Sez. I, 8 aprile 2015 n. 20443 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non è sufficiente l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività; ne consegue che l’attenuante non può trovare applicazione se il fatto di particolare valore morale o sociale esiste soltanto nell’erronea opinione del soggetto attivo del reato, anche in virtù della disciplina prevista dall’art. 59, cod.pen., in base alla quale le circostanze aggravanti ed attenuanti devono essere considerate e applicate per le loro connotazioni di oggettività.
Trib. Avellino, 23 febbraio 2011 (Corriere del Merito, 2011, 12, 1189)
In ipotesi di suicidio della moglie non incapace, con arma regolarmente detenuta dal marito all’interno dell’abitazione, non è configurabile una responsabilità del marito per omicidio colposo realizzato in forma omissiva impropria, per asserita violazione delle norme sulla custodia delle armi. Ed infatti, da un lato deve escludersi la sussistenza di una posizione di garanzia in capo al coniuge di una persona capace, che la tuteli dagli eventi dannosi frutto di scelte deliberate, come il suicidio; dall’altro, sotto il profilo del nesso causale, se è vero che l’incauta od omessa custodia dell’arma utilizzata dal suicida rappresenta senz’altro una concausa materiale dell’evento morte, è altresì vero che il suicidio posto in essere da una persona dotata di autodeterminazione responsabile costituisce, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., una “causa sopravvenuta da sola sufficiente” a determinare l’evento lesivo. Il suicidio esula infatti dai rischi che la norma cautelare impositiva dell’obbligo di custodia delle armi mira a prevenire: se con riferimento a minori o incapaci quella norma istituisce una posizione di garanzia in capo al detentore dell’arma, in tal modo attraendo una condotta di suicidio nell’ambito dei rischi giuridicamente rilevanti connessi alla regola cautelare, altrettanto non può dirsi, come nel caso di specie, in relazione ai terzi dotati di ordinaria autodeterminazione responsabile, rispetto ai quali la norma che impone un’adeguata custodia delle armi è finalizzata a prevenire i pericoli rivolti ai beni altrui (l’interesse della sicurezza pubblica, richiamato dall’art. 20, comma 1, legge n. 110/1975) e non già ai beni propri. In relazione a tali ultimi soggetti, la morte a seguito di suicidio, ancorché legata a un nesso di causalità materiale alla condotta del detentore dell’arma incautamente custodita, rappresenta pertanto un evento non inquadrabile in una successione normale di accadimenti e appartiene a un genere di rischio del tutto differente rispetto a quello creato dall’agente.
Cass. pen. Sez. 1, 17 novembre 2010 n. 43954 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E configurabile il delitto di omicidio volontario, e non l’omicidio del consenziente, nel caso in cui manchi una prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima, dovendo in tal caso riconoscersi assoluta prevalenza al diritto alla vita, quale diritto personalissimo che non attribuisce a terzi (nella specie ad un familiare) il potere di disporre, anche in base alla propria percezione della qualità della vita, dell’integrità fisica altrui. (Nella specie la Corte ha escluso che una tale prova potesse essere tratta dalle generiche invocazioni della vittima affinché cessasse la propria sofferenza o dall’auspicio, dalla
stessa espresso in precedenza, di adozione di modelli eutanasici propri di altri paesi).
Cass. pen. Sez. I, 29 aprile 2010 n. 20312 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I motivi di particolare valore morale o sociale cui l’art. 62, comma primo, n. 1, cod. pen. riconosce efficacia attenuante sono soltanto quelli avvertiti come tali dalla prevalente coscienza collettiva, ed intorno ai quali vi sia un generale consenso.
Cass. pen. Sez. V, 28 aprile 2010, n. 22782 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 580 cod. pen., sotto il profilo del rafforzamento dell’altrui proposito suicida, occorre sia la dimostrazione dell’obiettivo contributo al suicidio altrui, sia la prefigurazione dell’evento come dipendente dalla propria condotta. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha censurato la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità dell’imputato, in ordine al reato di cui all’art. 580 cod. pen., presumendo una speculare intelligenza del rapporto reciproco dell’autore del reato e del suicida in termini di azione-reazione così assorbendo la prova del dolo in quella della causalità).
Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2010, n. 29631 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’espressione “derivare”, contenuta nell’art. 572, comma secondo, cod. pen., in tema di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli seguiti da lesioni o morte della vittima, va interpretata in relazione ai principi posti dall’art. 41 cod. pen., ed impone quindi un rinvio alle regole con le quali viene regolamentata l’imputazione oggettiva degli eventi causati dall’autore di un reato.
(Nella specie, la Corte ha ritenuto che il sopravvenire di un’infezione non interrompa il nesso di causalità tra i maltrattamenti e l’evento- morte, dovendo l’insorgere dell’infezione considerarsi come una causa simultanea che ha potenziato l’efficienza causale dei maltrattamenti, concorrendo a produrre il predetto evento).
Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 44492 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio, ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo da escludere che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima.
Cass. pen. Sez. Unite, 22 gennaio 2009, n. 22676 (Dir. Pen. e Processo, 2009, 8, 978)
Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità
ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.
Trib. Modena, 1 dicembre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Allorché taluno, avvalendosi della norma di cui all’art. 408, comma 2°, cod. civ., abbia designato taluno il suo auspicato amministratore di sostegno in previsione della propria ed eventuale futura incapacità, contestualmente esprimendo direttive di dissenso circa l’adozione di determinate terapie, ancorché salvifiche, detta volontà va rispettata, e nominato un amministratore di sostegno con l’incarico di negare, in nome e per conto del beneficiario, il consenso autorizzativo dell’evento sanitario salvifico. Tale nomina deve ritenersi consentita anche in via anticipata, allorché cioè l’eventualità contemplata nella scrittura non si sia ancora verificata, al momento della pronuncia del giudice tutelare
Cass. pen. Sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele
Cass. pen. Sez. IV, 24 settembre 2008, n. 41026(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va rimessa alle Sezioni Unite, sussistendo un contrasto giurisprudenziale, la questione relativa all’individuazione dei presupposti per fondare la responsabilità ex art. 586 c.p., del venditore di sostanze stupefacenti per la morte o le lesioni del tossicodipendente.
Ed invero, a fronte di un orientamento che ritiene sufficiente, per affermare la responsabilità del venditore, il mero nesso di causalità non interrotto da eventi eccezionali sopravvenuti – e nel caso di successive cessioni, considera comunque non interrotto il rapporto di causalità per effetto delle cessioni intermedie – se ne rinviene un altro che ritiene configurabile la responsabilità non sulla base del mero rapporto di causalità materiale, ma solo allorquando si accerti la sussistenza di un coefficiente di “prevedibilità” della morte o delle lesioni, sì da potersene dedurre una forma di responsabilità per colpa.
Cass. pen. Sez. VI, 29 novembre 2007, n. 12129(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reato di maltrattamenti in famiglia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo che possa escludersi che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima.
Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748 (Riv. Dir. Civ., 2008, 3, 2, 363 nota di PALMERINI)
Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice – fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente – può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, in sé non costituente, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa.
Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma – atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) – altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. In tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’”alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale.
G.U.P. Trib. Roma, 23 luglio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratos con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l’esercizio, con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere contribuisce a determinare la morte del paziente per l’interruzione di una terapia salvavita, egli non risponde penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto ha operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall’art. 51 c.p.
Trib. Roma, 16 dicembre 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ inammissibile la richiesta di provvedimento avanzata da persona affetta da un gravissimo ed irreversibile stato morboso degenerativo, volta a conseguire la cessazione del suo sostentamento mediante ventilazione artificiale, nonché la contestuale sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale, atteso che – pur se è configurabile il diritto del paziente alla consapevole ed informata autodeterminazione nella scelta delle terapie cui sottoporsi – tale diritto non è in concreto tutelabile, a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative, in particolare con riferimento all’esatta individuazione del c.d. divieto di accanimento terapeutico
Cass. pen. Sez. V, 26 ottobre 2006, n. 3924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 580 cod. pen., sotto il profilo del rafforzamento dell’altrui proposito suicida, pur essendo richiesto, quanto all’elemento psicologico, il solo dolo generico, è però necessario che sussista, nell’agente, la consapevolezza della obiettiva serietà del suddetto proposito. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che correttamente fosse stata esclusa, dal giudice di merito, la sussistenza del reato a carico del fidanzato di una ragazza il quale, a fronte del manifestato – e poi attuato – proposito della stessa di suicidarsi mediante precipitazione da un balcone, per reazione ad una scenata di gelosia, l’aveva verbalmente incoraggiata a porre in essere il detto proposito, nel presumibile convincimento che, come già avvenuto in passato, esso non avrebbe avuto seguito).
Cass. civ. Sez. I, 20 aprile 2005, n. 8291 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In mancanza di una specifica norma che attribuisca al tutore il potere di chiedere l’autorizzazione all’interruzione delle cure, che consentono la protrazione dello stato vegetativo permanente dell’interdetto, non può ritenersi che tale potere sia ricompreso tra quelli di cui il tutore è investito per legge, trattandosi del compimento di un atto cosiddetto personalissimo. In tale ipotesi, per evitare il conflitto di interessi tra il tutore e l’interdetto, è necessario nominare un curatore speciale ai sensi dell’articolo 78 del codice di procedura civile.
È inammissibile il ricorso proposto dal tutore di un’interdetta (e padre della stessa), la quale versa da molti anni in stato meramente vegetativo, affinché le sia sospesa l’alimentazione artificiale, perché l’ordinamento non attribuisce al tutore un generale potere di rappresentanza nei riguardi degli atti personalissimi, per i quali occorre che sia nominato un curatore speciale, ai sensi dell’art. 78 c.p.c., quale necessario contraddittore nel giudizio.
Cass. pen. Sez. IV, 6 novembre 2003, n. 10430 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussiste nesso di causalità,, suscettibile di dar luogo a responsabilità penale a titolo di colpa a carico del direttore di una casa di cura per malattie mentali, tra la morte per suicidio di una paziente ivi ricoverata e la condotta del suddetto direttore costituita dall’avere egli disposto che la medesima paziente, affetta da sindrome depressiva psicotica e già reduce da precedenti tentativi di suicidio , fosse accompagnata, durante un ‘uscita dalla casa di cura (nel corso del quale il suicidio, mediante auto precipitazione da una finestra, era avvenuto), da un’assistente volontaria priva di adeguata esperienza e non previamente informata dello stato mentale e delle pregresse iniziative suicidarie del soggetto, nulla rilevando in contrario, atteso il principio dell’equivalenza delle cause, che la suddetta assistente avesse a sua volta posto in essere una condotta censurabile, per aver contravvenuto, accompagnando la paziente presso la propria abitazione (ove poi era avvenuto il fatto) alle istruzioni ricevute, secondo le quali l’uscita avrebbe dovuto essere limitata ad una breve passeggiata, accompagnata dalla consumazione di un gelato.
Cass., sez. lav., 23 febbraio 2000, n. 2037 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il suicidio del danneggiato da fatto illecito non rappresenta un evento idoneo ad interrompere il nesso di causalità, quante volte l’illecito abbia determinato nel soggetto leso gravi processi di infermità psichica, concretizzantisi in psicosi depressive, o in altre forme non lievi di alterazione dell’umore e del sistema nervoso.
In applicazione del principio – definibile della causalità umana – accolto dal nostro ordinamento in materia di responsabilità per fatto illecito (cfr. art. 1223 e 2056 c.c. e art. 41 c.p.), secondo cui può ritenersi sussistente il nesso eziologico tra una condotta e l’evento se l’uomo con la sua azione ha posto in essere un fattore causale del risultato e questo non è dovuto al concorso di circostanze eccezionali ed atipiche, il suicidio non può essere considerato un evento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra fatto illecito e morte del soggetto leso nel caso in cui in quest’ultimo, a causa del fatto illecito, si siano determinati gravi
processi di infermità psichica, concretizzantisi in psicosi depressive o in altre gravi forme di alterazione dell’umore e del sistema nervoso e di autocontrollo, rispetto alle quali il suicidio non si configuri quale evento straordinario o atipico. (Fattispecie relativa alle conseguenze di una grave intossicazione da monossido di carbonio subita da un lavoratore in occasione di un infortunio sul lavoro ascrivibile a responsabilità penale del datore di lavoro).
Cass. pen. Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 3147 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di rapporto tra il reato di omicidio del consenziente e quelli di istigazione o aiuto al suicidio, si ha omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica all’aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l’iniziativa, oltre che sul piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si ha istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria.
Cass. civ. Sez. I, 10 novembre 1997, n. 11038 (Danno e Resp., 1998, 4, 388)
Ai fini della responsabilità di una Usl per lesioni riportate per omissione di vigilanza da un paziente durante il ricovero ospedaliero è irrilevante il carattere volontario ed obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto, non potendo quest’ultimo condizionare l’obbligo di sorveglianza da parte del medico e del personale sanitario, basato sulla stessa diagnosi dei sanitari, sulle precise prescrizioni affidate al personale infermieristico e sulla loro mancata osservanza (fattispecie: invalidità riportata in conseguenza di un tentativo di suicidio, in assenza di personale ospedaliero, da una paziente ricoverata per malattia mentale con la consegna di continua sorveglianza).
Cass. civ. Sez. III, 7 febbraio 1996, n. 969 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conducente di un veicolo, che abbia colposamente investito una persona, provocandole gravi lesioni ad una gamba, è responsabile dell’alterazione psichica transitoria insorta nell’investito e del conseguente suicidio posto in essere da quest’ultimo.
Il suicidio del soggetto danneggiato da un fatto illecito, avvenuto nell’immediatezza ed in conseguenza di quest’ultimo, non è evento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra fatto antigiuridico ed evento-morte.
Ass. Messina, 10 giugno 1997 (Giur. di Merito, 1998, 731 nota di FELICI)
Nell’ipotesi di concordato doppio suicidio, ove uno dei partecipi sia morto mentre l’altro sia sopravvissuto, quest’ultimo non è punibile ex art. 580 c.p. quando il suicida si sia autonomamente determinato senza esser da lui minimamente influenzato, giacchè anche l’agevolazione al suicidio sul piano soltanto materiale va ricondotta al fenomeno istigativo e un’interpretazione della norma conforme a Costituzione impone di circoscrivere le condotte punibili a quelle nelle quali l’aiuto al suicidio abbia esercitato un’apprezzabile influenza nel processo formativo della volontà della vittima, che ha trovato nella collaborazione dell’estraneo incentivo e stimolo a togliersi la vita.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 1991, n. 7956 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assicurazione sulla vita, la disciplina prevista dal 2° comma, art. 1927 c. c. in caso di suicidio dell’assicurato (secondo il quale l’assicuratore non è obbligato se, essendovi stata sospensione del contratto per mancato pagamento dei premi, non sono decorsi due anni dal giorno in cui la sospensione è cessata) è derogabile con i patti di polizza, non essendo tale disposizione compresa tra le norme inderogabili indicate dall’art. 1932 c. c.
Trib. Milano, 13 luglio 1989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussiste il nesso di causalità tra il fatto lesivo e l’evento morte, allorché un motociclista, vittima di un incidente stradale, a distanza di un certo periodo di tempo dall’incidente, si lancia dalla finestra del nosocomio nel quale era ricoverato al fine di sottrarsi ad un intervento chirurgico necessario per ridurre i postumi dell’incidente.
Cass. pen. Sez. I, 12 gennaio 1989, n. 4912 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di omicidio, risponde a titolo di dolo eventuale l’agente che pur non volendo l’evento, accetta il rischio che esso si verifichi come risultato della sua condotta, comportandosi anche a costo di determinarlo; risponde invece a titolo di colpa aggravata dalla previsione dell’evento l’agente che pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole speranza che esso non si verifichi; per l’accertamento della sussistenza del dolo eventuale assumono una funzione pressoché determinante gli elementi estrinseci al fatto e di carattere soggettivo, quale la dichiarata motivazione della condotta dell’agente e, al limite, le sue stesse affermazioni che trovino però corrispondenza nelle emergenze processuali.
Corte cost. 13 dicembre 1988, n. 1085 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 626 c.p., primo comma, n. 1, nella parte in cui non estende la disciplina ivi prevista alla mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta.
E ben vero che la massima: “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu” implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si avrebbe il “versari in re illicita”: così, nella specie all’esame del giudice “a quo”, il dolo della sottrazione e dell’impossessamento della cosa mobile altrui. Ma non per tal ragione e costituzionalmente legittimo addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi (nella specie, mancata restituzione della cosa per caso fortuito o forza maggiore) nella produzione dei quali la volontà del reo e rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo. Dal primo comma dell’art. 27 Cost., come e stato chiarito nella citata sent. n. 364 del 1988, non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o, nella specie, tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento
SUICIDIO