Impresa familiare

IMPRESA FAMILIARE
Di Gianfranco Dosi

I. La tutela del lavoro prestato da un familiare a favore dell’imprenditore
a) La tutela nella famiglia matrimoniale
b) La tutela nelle unioni civili
c) La tutela tra conviventi di fatto
II. L’impresa familiare come impresa individuale
III. I diritti attribuiti al collaboratore
IV. I presupposti per la determinazione della partecipazione agli utili
V. Le caratteristiche del credito del collaboratore dell’impresa familiare
VI. Come si determina la quota degli utili spettanti al familiare collaboratore dell’impresa familiare?
VII. La quota di utili attribuita al familiare collaboratore costituisce reddito a fini fiscali?

I
La tutela del lavoro prestato da un familiare a favore dell’imprenditore
a) La tutela nella famiglia matrimoniale
L’art. 230-bisdel codice civile – intitolato impresa familiare e introdotto per la famiglia fondata sul matrimonio con la riforma del 1975 – ha la pacifica funzione di garantire che l’attività lavorativa prestata con continuità a vantaggio dell’imprenditore da un suo familiare sia adeguatamente remunerata. Non può essere considerata un’attività lavorativa svolta gratuitamente.
Ed in effetti, l’art. 230-bis prescrive molto chiaramente che “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”. In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i familiari in questione hanno diritto di prelazione sull’azienda.
Non solo. Ove si configuri questo tipo di rapporto, il familiare ha anche diritto a prendere parte alle decisioni che influiscono sull’insieme di quei diritti (anche se, come si vedrà, la giurisprudenza non applica alla lettera questa indicazione, effettivamente contrastante con i poteri necessariamente pieni di indirizzo dell’impresa, unicamente appartenenti all’imprenditore). Prevede a tale proposito l’art. 230-bische “Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi”.
Naturalmente – come la disposizione in parola precisa molto bene – “Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Nel testo introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 –che riguarda la famiglia matrimoniale – la norma prevede che “Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.
La tutela assicurata è personalissima e quindi intrasferibile. Infatti, come conclude l’art. 230-bis “Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice”.
b) La tutela nelle unioni civili
La legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina della convivenza di fatto) all’art. 1, comma 21, estende anche alla unioni civili la disposizione di cui all’art. 230-bis c. c. nell’ambito di un rinvio complessivo e generale alla maggior parte delle disposizioni sul regime patrimoniale della famiglia fondata sul matrimonio (tra le quali, appunto, l’art. 230-bis c.c.).
Tuttavia, poiché il comma 20 dell’art.1 della legge esclude l’applicazione alle unioni civili delle norme del codice civile non espressamente richiamate e poiché non è richiamato l’art. 78 sul vincolo di affinità (avendo voluto escludere il legislatore per le unioni civili una concezione allargata dei legami di natura familiare riservata illogicamente alla sola famiglia cosiddetta matrimoniale) ne deriva che la tutela assicurata dall’art. 230-bis alle parti dell’unioni civile è limitata all’attività di lavoro prestata a favore del partner o dei propri parenti entro il terzo grado.
c) La tutela tra conviventi di fatto
La nozione di “familiari” legati alla famiglia matrimoniale aveva sempre lasciato fuori dalla tutela offerta dall’art. 230-bis del codice civile i componenti della famiglia di fatto dell’imprenditore che collaborano nella sua impresa (Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 e Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204 che aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio) anche se una parte della giurisprudenza più recente aveva espresso un orientamento favorevole al riconoscimento della tutela tra conviventi more uxorio (per esempio Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632 aveva sostenuto che“l’art. 230-bis c.c. è applicabile anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale”).Qualche apertura, seppure con riferimento alla comunione tacita familiare, era contenuto già in Cass. civ. Sez. lavoro, 19 dicembre 1994, n. 10927.
È stata la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina della convivenza di fatto) ad operare una svolta in questo ambito sostanzialmente estendendo alla convivenza di fatto il principio che il lavoro prestato a vantaggio di un familiare non può considerarsi effettuato a titolo gratuito.
La legge in questione non ha però semplicemente richiamato per i conviventi di fatto l’art. 230-bis c.c., ma ha introdotto nel codice civile (con l’art. 1, comma 46) un apposito art. 230-ter (diritti del convivente) secondo cui “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
A parte qualche distinzione di tipo lessicale – ed a parte l’omesso riferimento al diritto al mantenimento che tra conviventi non è prevedibile – sostanzialmente la norma riproduce la tutela indicata nell’art. 230-bis che riguarda qui, però, il solo rapporto tra i due conviventi di fatto con la conseguente esclusione del meccanismo di partecipazione alle decisioni dell’imprenditore da adottare a maggioranza, e del principio di trasferibilità ai familiari del diritto di partecipazione (in entrambi i casi illogicamente esclusi, però, in caso per esempio di eventuali figli della coppia che partecipino all’attività di impresa).
II
L’impresa familiare come impresa individuale
L’impresa familiare – alla quale fa riferimento l’art. 230-bis del codice civile – è una realtà organizzativa delle attività commerciali, di media e piccola dimensione, molto diffusa, attraverso la quale l’imprenditore gestisce la sua azienda con la collaborazione continuativa dei propri familiari.
L’impresa ha pacificamente natura non collettiva, ma individuale dell’imprenditore.
Il principio è stato più volte affermato in giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560 secondo cui l’impresa familiare appartiene solo al suo titolare anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva che appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone; Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552 per cui l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 secondo cui il familiare titolare dell’impresa è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaborano e il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato; Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 che giustamente richiama a questo proposito la disposizione tributaria che ai fini esclusivamente fiscali limita nella misura del quarantanove per cento la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei redditi dell’impresa familiare; Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 dove si afferma che l’impresa familiare, così come disciplinata dall’art. 230-bis c.c. ha natura di impresa individuale, con la conseguenza che la qualifica di imprenditore spetta solamente al titolare della stessa non potendo essa essere attribuita anche ai collaboratori familiari; Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6559 che del tutto coerentemente ritiene che nell’ambito dell’impresa familiare, caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona dell’imprenditore distingue un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, con la conseguenza che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Dalla natura individuale dell’impresa familiare si è anche dedotto che il familiare partecipante all’impresa familiare in caso di alienazione dell’azienda non ha diritto ad una quota del ricavato dei proventi della vendita (Trib. L’Aquila, 21 gennaio 2016).
Il carattere individuale dell’impresa familiare – come ha bene chiarito Trib. Bari Sez. lavoro, 24 settembre 2015 – sintetizza lo scopo dell’istituto che è quello di apprestare una tutela effettiva al familiare che presta la propria attività a favore di un altro familiare.
Il principio della natura individuale dell’impresa familiare è confermato dagli stessi criteri di tassazione per i quali è soggetto passivo unicamente l’imprenditore familiare e non anche i familiari collaboratori (Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060; Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616)
Essendo questo della natura individuale dell’impresa familiare un dato che appare storicamente acquisito, stupisce una definizione recente dell’impresa familiare coltivatrice come impresa collettiva (Cass. civ. Sez. lavoro, 4 ottobre 2013, n. 22732) nella quale “obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati”.
III
I diritti attribuiti al collaboratore
L’elemento della collaborazione lavorativa dei familiari con il titolare dell’impresa è al centro del contenzioso che riguarda i diritti patrimoniali dei familiari.
Intanto va detto che al fine di dimostrare la partecipazione del coniuge o di uno stretto parente del titolare all’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile è necessario che gli stessi abbiano fornito un contributo all’organizzazione dell’impresa stessa mediante la prova sia di uno svolgimento di tipo continuativo ovvero non saltuario ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia dell’accrescimento della produttività procurato dal lavoro del partecipante quale elemento indispensabile al fine di determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi (Trib. Bari Sez. lavoro, 20 novembre 2014).
Le controversie sono di competenza del giudice del lavoro, sussistendo il requisito della parasubordinazione nell’attività svolta (conformi in questo senso sono numerose pronunce da Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 1984, n. 6069 a Cass. civ. Sez. lavoro, 26 agosto 1997, n. 8033).
L’elemento della subordinazione dei familiari rispetto al titolare che gestisce l’azienda distingue l’impresa familiare dall’azienda coniugale – prevista nell’art. 177 lett. d del codice civile – che è invece cogestita dai coniugi e le cui problematiche appartengono al regime della comunione legale (Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390).
Il secondo comma dell’art. 230-bis del codice civile richiama i principi di parità precisando opportunamente che “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Al familiare, perciò, che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nell’impresa familiare [o nella famiglia se questo lavoro assume rilievo diretto nella gestione dell’impresa: Cass. sez. Unite 4 febbraio 1995, n. 89] – e sempre che non sia configurabile un diverso rapporto disciplinato in altro modo dalla legge (per esempio rapporto societario o di lavoro subordinato) – l’art. 230-bis attribuisce il “diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e la partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”.
Secondo quanto precisa il quarto comma dell’art. 230-bis (per la famiglia matrimoniale e per l‘unione civile) – e s’intende anche con riguardo all’impresa familiare ex art. 230-ter c.c. tra conviventi di fatto – la liquidazione dei diritti di partecipazione (agli utili dell’impresa ed ai beni acquistati con essi) può essere effettuata (e quindi le parti possono pattuire modalità diverse) in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda; il pagamento può avvenire anche in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.
Per ciò che attiene all’impresa familiare nella famiglia matrimoniale o nell’unione civile diritto al mantenimento e di partecipazione agli utili – e quindi la tutela del familiare collaboratore – è ovviamente intrasferibile, salvo che il trasferimento non avvenga a favore di un altro familiare e con il consenso di tutti i familiari collaboratori (art. 230-bis quarto comma). Si è già detto che appare illogica la mancata previsione di questo diritto anche ai conviventi di fatto per esempio con riferimento alla trasferibilità del diritto ad un figlio comune.
Così richiamato il quadro normativo di riferimento, occorre osservare subito che quasi mai nella pratica si pone il problema del “diritto al mantenimento” (escluso in ogni caso nell’impresa familiare ex art. 230-ter c.c. tra conviventi di fatto) del familiare collaboratore, giacché in genere questo diritto è garantito nella vita matrimoniale in comune dall’art. 143 c.c. (e analogamente avviene per le unioni civili) o, in caso di separazione, dalle misure relative al contributo di sostentamento coniugale o per i figli. L’affermazione contenuta nella norma – limitatamente al mantenimento – ha, quindi, un significato storico che si potrebbe considerare superato (la norma fu inserita nel codice nel 1975 quando la condizione della vita familiare era ben diversa da oggi). Ne residua, tuttavia, una qualche rilevanza proprio nella problematica relativa al calcolo degli utili – come si dirà – dal momento che secondo l’orientamento della giurisprudenza che si è occupata dell’impresa familiare in ambito matrimoniale “gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa” (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650 Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057). Ed è del tutto ragionevole che sia così perché mantenimento e partecipazione agli utili sono due voci che, dovendo trovare soddisfazione da un’unica fonte di reddito, sono inevitabilmente da computare insieme nel medesimo diritto di credito del collaboratore.
IV
I presupposti per la determinazione della partecipazione agli utili
Per la soluzione del problema relativo ai criteri di determinazione della partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi” è necessario in via preliminare richiamare innanzitutto una norma tributaria capace di imprimere tutele differenziate alle pretese creditorie dei familiari collaboratori partecipanti.
Ed è opportuno subito avvertire che la norma tributaria in questione andrà aggiornata dal legislatore con riferimento all’estensione dell’art. 230-bis alle unioni civili e all’introduzione per i conviventi di fatto dell’art. 230-ter c.c. in quanto l’attuale normativa tributaria fa riferimento alla sola famiglia matrimoniale.
La norma in questione è l’art. 5 del DPR 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi) riproduttivo di precedenti analoghe disposizioni contenute nella normativa fiscale (in particolare dell’articolo 5 del DPR 29 settembre 1973, n. 597).
L’art.5 del Testo Unico – trattando delle modalità di tassazione dei redditi prodotti in forma associata così si esprime al quarto comma: “I redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
La presente disposizione si applica a condizione:
a) che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attesta¬zione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
Il quinto comma dell’articolo 5 – richiamandosi ai presupposti già individuati dal codice civile – ribadisce che “si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”.
Ebbene il significato della norma tributaria (dichiarata conforme a costituzione da Corte cost. 6 luglio 1987, n. 251) è molto chiaro. Essa afferma due principi: in primo luogo che i redditi dell’impresa possono essere imputati ai familiari collaboratori in misura complessivamente non superiore al 49% (in quanto l’imprenditore, essendo il titolare, deve necessariamente imputare a se stesso una quota non inferiore al 51%) e secondo luogo che questa imputazione – su cui ciascun familiare collaboratore calcolerà l’imposta dovuta – deve avvenire in modo proporzionale alla quota concordata di partecipazione agli utili. Così per esempio due coniugi potranno decidere di suddividere la loro partecipazione prevedendo che il coniuge imprenditore imputi i redditi dell’impresa a se stesso per l’80% e il coniuge collaboratore per il 20%. Oppure che l’imprenditore abbia nell’impresa familiare il 51% di quota di utili mentre il coniuge e il figlio si suddivideranno a metà il restante 49%. E così via secondo la decisione che l’imprenditore e i collaboratori ritengono di dover adottare.
Tutto ciò però alle tre condizioni precisate dall’articolo 5 e cioè in sostanza: a) che l’impresa familiare sia costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta e con l’indicazione e la sottoscrizione dei familiari partecipanti, b) che le quote rispettive siano tutte stabilite in proporzione al lavoro effettivamente prestato; c) che ognuno lo attesti nella propria dichiarazione dei redditi. Per poter, quindi, beneficiare del meccanismo di imputazione dei redditi (e quindi degli utili) sopra indicato, sarà necessario che l’impresa familiare venga sempre costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Altrimenti l’impresa – che può risultare da un qualsiasi negozio giuridico tra i partecipanti, ovvero sussistere anche per fatti concludenti e cioè da atti dai quali si possa desumere l’esistenza della volontà di dare vita all’impresa familiare (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683; Cass. civ. Sez. Unite, 4 gennaio 1995, n. 89; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass.civ. 23 novembre 1984, n. 6069) – non potrà beneficiare della norma tributaria.
Si avranno quindi sul mercato due tipi di imprese familiari: a) quelle “costituite con atto pubblico o scrittura privata autenticata” nelle quali l’indicazione delle quote di suddivisione degli utili sarà preventivamente stabilita nell’atto costitutivo e successivamente confermata nelle dichiarazioni fiscali dei partecipanti; b) le imprese familiari che possiamo chiamare “di fatto”, alle quali pur sempre sarà riferibile la tutela offerta dall’art. 230-bis del codice civile, ma che non potranno giovarsi del sistema di imputazione dei redditi (e degli utili) proporzionale alle quote prestabilite e per le quali quindi il problema della prova della quantità è della qualità della partecipazione sarà meno agevole.
Il problema della determinazione degli utili si deve affrontare, quindi, in modo diverso a seconda del tipo di impresa familiare implicata.
V
Le caratteristiche del credito del collaboratore dell’impresa familiare
Bisogna innanzitutto ricordare che l’istituto dell’impresa familiare ha natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile ed è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. Nel contesto letterale della disposizione di riferimento, costituita dall’art. 230-bis c.c., mentre la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che fare riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, ciò che si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione (Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560; Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552; Cass. civ. Sez. Unite, 6 novembre 2014, n. 23676). Tutto ciò sempre che il giudice non ritenga che si debba applicare la normativa sul lavoro subordinato ove ve ne siano i presupposti (Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2014, n. 19925).
Ciò premesso la prima caratteristica della pretesa creditoria del familiare collaboratore è quella che gli utili a lui spettanti sono in genere liquidati (spontaneamente o in via giudiziale) alla cessazione della prestazione di lavoro. E’ quanto prevede, come si è visto, il quarto comma dell’art. 230-bis codice civile (App. Bologna Sez. lavoro, 21 marzo 2013).
È fatta salva naturalmente una volontà contraria dei partecipanti all’impresa per esempio per la liquidazione periodica degli utili o perché una certa quota di utili è stata già ripartita. E’ evidente che in questi casi la determinazione degli utili spettanti alla cessazione della prestazione di lavoro riguarda solo gli utili che non sono stati già liquidati (Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448).
Va inoltre precisato che normalmente le dimensioni medio-piccole dell’impresa familiare, consentono di ipotizzare che ciascuno dei collaboratori si avvalga dei risultati proprio mentre l’impresa li realizza. Non c’è – come avviene nelle società – un momento formale di divisione degli utili, ma c’è viceversa un avvantaggiarsi di ciascuno dei risultati conseguiti – anche attraverso il reimpiego degli utili nell’azienda – proprio via via che vengono conseguiti. Ciò significa in sostanza che i redditi prodotti servono anche al mantenimento continuativo di tutti i collaboratori.
Questo comporta che la determinazione degli utili da liquidare è una operazione con una particolarità specifica che deriva dal fatto che il collaboratore si è già avvantaggiato di una quota della redditività prodotta in azienda. Per questo – come si è sopra anticipato – la giurisprudenza ritiene giustamente che gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057). Ugualmente si ritiene che, poiché all’imprenditore spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro, in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale (Cass. civ. Sez. lavoro, 6 marzo 1999, n. 1917). La tesi è convincente dal momento che l’aumento del capitale costituisce certamente una voce di spesa sopportata dal solo titolare dell’azienda.
La liquidazione degli utili al momento della cessazione della prestazione di lavoro ne fa anche un diritto qualificabile solo a posteriori (Cass. civ. Sez. lavoro, 6 settembre 2016, n. 17639; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921) condizionato dai risultati raggiunti. Effettivamente la partecipazione agli utili nell’impresa familiare non avviene di anno in anno, come è logico che sia essendo il reimpiego nell’azienda – e non la loro distribuzione – la naturale destinazione degli utili. Gli utili da liquidare saranno perciò determinati dall’accrescimento della produttività dell’impresa alla data della cessazione della prestazione lavorativa rispetto alla data dell’inizio della collaborazione (Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448) detratte le spese di mantenimento dei familiari collaboratori e quelle relative all’eventuale aumento di capitale. Un’operazione di una certa complessità – dovendosi calcolare l’incremento del valore dell’azienda dovuto al lavoro del collaboratore – che il giudice, acquisite le fonti di prova, non può che effettuare con l’ausilio di un commercialista o di un altro esperto.
La seconda caratteristica è che si tratta di un credito pecuniario da lavoro e quindi, dal momento della maturazione del diritto, decorreranno altresì la rivalutazione e gli interessi (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921).
La terza fondamentale caratteristica è che la partecipazione agli utili e agli incrementi di produttività dell’azienda (e quindi anche all’avviamento) deve essere proporzionale e quindi parametrata “alla quantità e alla qualità del lavoro prestato” dal collaboratore, come specificamente prescrive l’art. 230-bis del codice civile. Quindi non possono essere utilizzati criteri diversi, come per esempio l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, che prescindono del tutto dall’entità dei risultati conseguiti a cui invece è commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare (Cass. civ. Sez. V, 15 settembre 2008, n. 23617; Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574; Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2015, n. 7007; Cass. civ. Sez. lavoro, 9 ottobre 1999, n. 11332; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390). Nel rapporto di lavoro il metro di valutazione dell’attività lavorativa è la retribuzione; nella società l’utile si di¬stribuisce in relazione alle quote sociali quale che si l’impegno del singolo compartecipe; nell’impresa familiare, invece, si deve fare riferimento specifico alla qualità e alla quantità del lavoro prestato dal collaboratore.
Al familiare che partecipa con la propria attività lavorativa all’impresa, va riconosciuta non soltanto la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, ma anche la partecipazione agli incrementi dell’azienda, dovendosi intendere per incremento di azienda ogni aumento di valore che non sia determinato dai beni acquistati con l’impiego degli utili. Tale diritto sorge solo al momento della cessazione dell’azienda o dell’attività lavorativa del singolo familiare, sempre in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (Trib. Modica, 10 marzo 2015).
L’ultima caratteristica è che si tratta di un credito prescrivibile in dieci anni – fatta salva l’eventuale sospensione della prescrizione tra coniugi (art. 2941, n. 1, cod. civ.) – giacché deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ. per la prescrizione ordinaria (Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273; Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2009, n. 1647).
VI
Come si determina la quota degli utili spettanti al familiare collaboratore dell’impresa familiare?
Il valore della quota del familiare collaboratore alla cessazione della sua attività lavorativa nell’impresa familiare, anche per recesso, è determinato da plusvalenze latenti, dal valore patrimoniale e dalla determinazione dell’incremento di valore di avviamento conseguito dalla data di costituzione dell’impresa familiare, elementi che – come si è detto – un consulente tecnico può facilmente attingere dai bilanci e dalla documentazione aziendale. Trattandosi spesso di somme rilevanti è molto opportuna la precisazione contenuta nell’art. 230-bis del codice civile secondo cui questi importi possono essere liquidati in più annualità.
Come si è sopra visto il problema della determinazione degli utili va affrontato tenendo conto che l’impresa familiare può essere stata costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (ed in tal caso, secondo le norme tributarie sopra richiamate, potrà giovarsi del sistema di imputazione dei redditi e di partecipazione agli utili proporzionale alle quote predeterminate) o può esistere di fatto per la semplice volontà dell’imprenditore e dei partecipanti di volere questo tipo di organizzazione del lavoro nell’azienda.
Le agevolazioni delle norme tributarie hanno finito per rendere ormai visibili nel mercato la maggioranza delle imprese familiari – essendo appetibile fiscalmente la distribuzione del carico fiscale tra più persone – ma ciò non toglie che ove non vi sia stata questa predeterminazione in un atto formale, si possano porre ugualmente problemi di rivendicazione da parte dei collaboratori dei propri diritti.
In questo caso spetterà al partecipante che agisce per il conseguimento della quota “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi” ,l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire.
Nel caso invece in cui vi sia stato l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata, la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere, mediante presunzioni, l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione. Quindi secondo la giurisprudenza le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa hanno una portata certamente indiziaria e presuntiva (Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224; Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908; Cass. sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574; Cass. civ. Sez. lavoro, 20 marzo 2007, n. 6631; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003 n. 9683; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390; Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650), ma non sostitutiva rispetto alla prova dell’apporto lavorativo effettivamente prestato, dal momento che la determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa stessa indipendentemente dalla predeterminazione compiuta a fini fiscali (Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959).
Inoltre il giudice non può disattendere il valore probatorio delle scritture formate ai fini fiscali, accertando l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso (Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908; Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2003, n. 9897; Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1998, n. 7655).
Il significato pratico di queste affermazioni è ben spiegato in Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003 n. 9683 dove si legge che la predeterminazione delle quote di utili non è priva di effetti giuridici processuali in quanto può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere l’onere – a carico del partecipante, che agisca per ottenere la propria quota di utili dell’impresa familiare – di dimostrare non solo la fattispecie costitutiva dell’impresa stessa, ma anche la propria quota, appunto, di partecipazione a quegli utili. Resta, tuttavia, l’onere del familiare imprenditore – gravato dell’obbligo di corrispondere gli utili pretesi dal partecipante all’impresa familiare – di offrire la prova contraria, cioè di dimostrare – in contrasto con le presunzioni desumibili dalla esaminata predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili, l’esistenza di un rapporto giuridico diverso dalla dedotta impresa familiare (o, comunque, l’inesistenza della medesima) nonché, eventualmente, il diritto del partecipante ad una quota di utili inferiore – rispetto a quella risultante dalla citata predeterminazione – in dipendenza della minore quantità e/o qualità del lavoro effettivamente prestato.
La predeterminazione delle quote – e talvolta perfino la stessa costituzione dell’impresa familiare – sono simulate, al solo fine di poter usufruire delle possibilità dell’imputazione fiscale proporzionale prevista nelle norme tributarie. Di questo potrebbe volersi avvantaggiare il collaboratore familiare al quale quindi la giurisprudenza contrappone la linea interpretativa indicata prevedendo che il valore di quelle predeterminazioni è meramente indiziario nel senso che l’imprenditore è ammesso a provarne la non corrispondenza alla realtà.
D’altro lato, come si è visto, la costituzione dell’impresa familiare potrebbe avvenire attraverso un qualsiasi negozio giuridico (non riprodotto in un atto pubblico o una scrittura privata autenticata) o addirittura per il solo fatto che un imprenditore utilizza consapevolmente e volutamente l’apporto lavorativo di un familiare – come riconosce anche la giurisprudenza già indicata (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683; Cass. civ. Sez. Unite, 4 gennaio 1995, n. 89; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass.civ., 23 novembre 1984, n. 6069) – e in questo caso è evidente che il familiare collaboratore potrà sempre provare liberamente l’esistenza dell’impresa familiare, il proprio apporto lavorativo e la propria pretesa creditoria (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 433).
In proposito, come ebbe a chiarire una delle prime decisioni più significative sull’impresa familiare (Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650) “ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico; peraltro l’esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell’impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230-bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate”.
Quindi – secondo questa pronuncia già lontana nel tempo ma sempre attuale – nemmeno nell’ipotesi in cui il titolare voglia far figurare un’impresa familiare a proprio uso e consumo, cioè costruita negozialmente con deroghe alla disciplina legale, sarà impedita l’applicazione delle disposizioni di garanzia previste nell’art. 230-bis del codice civile.
VII
La quota di utili attribuita al familiare
collaboratore costituisce reddito a fini fiscali?
Con una risoluzione del 28 aprile 2008 (n. 176/E) l’Agenzia delle Entrate, dopo aver ricordato che il legislatore con le disposizioni sull’impresa familiare ha voluto tutelare il lavoro e il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa del familiare collaboratore e che le norme di tutela si applicano allorché non sia configurabile un diverso rapporto tra imprenditore e familiare collaboratore, ha ribadito che la partecipazione del familiare ha rilevanza solo interna nei rapporti tra imprenditore e familiari collaboratori perché il fondamento dell’istituto va individuato nella solidarietà che deve legare i familiari e nell’esigenza di tutela e di valorizzazione del lavoro prestato dai collaboratori componenti della famiglia. In ragione di tutto ciò l’imprenditore attribuisce parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano con lui.
Ciò premesso ha escluso che il familiare collaboratore debba dichiarare fiscalmente le somme liquidate come proprio reddito e che l’imprenditore possa dedurre dal proprio reddito d’impresa la quota di utili che versa al collaboratore.
I diritti del collaboratori – ha ricordato l’Agenzia delle Entrate – non toccano la titolarità dell’azienda e secondo una interpretazione logico-sistematica, quindi, le somme corrisposte dall’imprenditore non sono collegabili all’esercizio della sua attività ma diretta a soddisfare esigenze estranee alle finalità e alla logica dell’impresa. In tale contesto, pertanto – conclude la circolare – la liquidazione al coniuge del diritto di partecipazione all’impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto e non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste nel Testo unico delle imposte sui redditi e non va pertanto assoggettato ad IRPEF in capo al soggetto percipiente. Come ulteriore conseguenza discende che la somma in questione non rileva come componente negativa e non è deducibile dal reddito di impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’articolo 109, comma 5, del Testo unico delle imposte sui redditi, che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.
Sempre in relazione agli aspetti fiscali dell’impresa familiare va messo in evidenza l’orientamento che appare sufficientemente pacifico secondo cui l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive), afferendo essa non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, è dovuta anche dall’imprenditore familiare (nella specie: agente di commercio), mentre non sono soggetti all’imposta i familiari collaboratori cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall’impresa familiare. (Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060; Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616; Cass. civ. Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1537; Cass. civ. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10777).
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori, è anche soggetto passivo IRAP, in quanto detta imposta colpisce il valore della produzione netta dell’impresa, e la collaborazione dei partecipanti all’impresa familiare integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare (c.d. etero-organizzazione dell’esercente l’attività).
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 settembre 2016, n. 17639 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di lavoro familiare, ai fini dell’individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell’art. 230-bis c.c. deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all’art. 732 c.c. al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l’impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto.
Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’IRAP afferisce non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, sicché ne è soggetto passivo pure l’imprenditore familiare ma non anche i familiari collaboratori atteso che la collaborazione dei partecipanti integra quel “quid pluris” dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare ed è, quindi, sintomatica del relativo presupposto impositivo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare, la predeterminazione, ai sensi dell’art. 9 della l. n. 576 del 1975 e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità, come è sufficiente ai fini fiscali, o di un negozio giuridico, può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa familiare che dell’entità della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
La partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con essi, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Trib. L’Aquila, 21 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il familiare partecipante all’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. non può ritenersi titolare pro quota dell’impresa stessa, che, invece, appartiene solo al suo titolare, di talché in caso di alienazione dell’azienda non ha diritto ad una quota del ricavato dei proventi della vendita.
Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre2015, n. 24560 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impresa familiare appartiene solo al suo titolare anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva che appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone. Nello schema dell’impresa di cui all’art. 230-bis c.c., gli utili non sono determinati in proporzione alla quota di partecipazione, ma alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda all’acquisto di beni. Pertanto, l’esclusione di una società implica l’inesistenza di quote e utili da ripartire tra i pretesi soci.
La costituzione di un’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c., presuppone che gli utili ricavati dall’attività siano reimpiegati nell’azienda o nell’acquisto di beni e non ripartiti tra i partecipanti, a meno che tra gli stessi non sia intercorsa una pattuizione che preveda una distribuzione periodica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552 (Foro It., 2016, 5, 1, 1840)
Posto che l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essa non si può configurare nemmeno tra due coniugi di cui uno eserciti un’attività commerciale in qualità di socio di una società di persone, difettando la sua qualità di imprenditore, propria esclusivamente della società.
L’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essenzialmente per la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, oltre che per il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario.
Trib. Bari Sez. lavoro, 24 settembre 2015 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
L’impresa familiare si ritiene abbia carattere individuale; infatti, scopo dell’istituto è quello di apprestare una tutela per il familiare che espleti la propria attività a favore di un altro familiare, individuati sia il primo che il secondo fra i soggetti specificati nel terzo comma dell’art. 230-bis c.c. Tale norma regola soltanto il rapporto obbligatorio fra familiare imprenditore e i familiari prestatori di lavoro (non necessariamente conviventi con il primo), ai quali compete il diritto di credito al mantenimento, da intendersi non solo nel senso dei mezzi indispensabili per il sostentamento, ma di mezzi in grado di assicurare un’esistenza libera e dignitosa, con riferimento alle condizioni patrimoniali della famiglia, e, per la parte eccedente, il diritto agli utili (o ai beni acquistati con essi) e agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2015, n. 7007 (Famiglia e Diritto, 2015, 12, 1080 nota di BARILLA’)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., deve essere determinata sulla base sia degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella dell’apporto del singolo familiare, sia dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, considerato che gli stessi utili non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Trib. Modica, 10 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare, al familiare che partecipa con la propria attività lavorativa all’impresa, va riconosciuta sia la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, sia agli incrementi dell’azienda, dovendosi intendere per incremento di azienda ogni aumento di valore che non sia determinato dai beni acquistati con l’impiego degli utili. Tale diritto sorge solo al momento della cessazione dell’azienda o dell’attività lavorativa del singolo familiare, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Trib. Bari Sez. lavoro, 20 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine di dimostrare la partecipazione del coniuge o di uno stretto parente del titolare all’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile è necessario che gli stessi abbiano fornito un contributo all’organizzazione dell’impresa stessa mediante la prova sia di uno svolgimento di tipo continuativo ovvero non saltuario ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia dell’accrescimento della produttività procurato dal lavoro del partecipante quale elemento indispensabile al fine di determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi.
Cass. civ. Sez. Unite, 6novembre 2014, n. 23676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’istituto dell’impresa familiare, di natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile, è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. La relativa disciplina sussidiaria deve intendersi, dunque, recessiva, nel sistema delle tutele approntato, allorché non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente. Nel contesto letterale della disposizione di riferimento, costituita dall’art. 230-bis c.c., mentre la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che fare riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, ciò che si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. Confliggente con regole imperative del sottosistema societario è, altresì, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio, tale da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario nelle decisioni concernenti l’impego degli utili, degli incrementi, nonché la gestione societaria e gli indirizzi produttivi e financo la cessazione dell’impresa stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2014, n. 19925 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’istituto dell’impresa familiare, per il carattere residuale emergente dall’”incipit” dell’art. 230-bis cod. civ., concerne l’apporto lavorativo all’impresa del congiunto che non rientri nell’archetipo del lavoro subordinato o per il quale non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, sicché l’ipotesi del lavoro familiare gratuito resta confinata in un’area limitata. Pertanto, qualora un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all’impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare. (Nella specie, applicando l’enunciato principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva dichiarato sussistere il rapporto di lavoro subordinato attesa la continuativa presenza della nuora, quale commessa, presso il negozio della suocera).
Cass. civ. Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1537 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di Irap, afferendo essa non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, ne è soggetto passivo anche l’imprenditore familiare (nella specie: agente di commercio), mentre non lo sono i familiari collaboratori – cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 ottobre 2013, n. 22732 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impresa familiare coltivatrice è una specie del più ampio genus dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis c.c. Alla prima sono quindi applicabili i principi relativi alla seconda in quanto compatibili; essa si configura come un organismo collettivo formato dai familiari dei consorziati, il cui fine è l’esercizio in comune dell’impresa agricola. Dalla natura collettiva dell’impresa familiare discende che obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati e di tale obbligazione essi ne rispondono con i beni comuni. Ne deriva che la domanda volta alla liquidazione della quota di partecipazione agli utili dell’impresa familiare coltivatrice, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro in essa prestato, deve rivolgersi nei confronti di costoro e non invece nei riguardi degli eredi del capofamiglia defunto.
Cass. civ. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10777 (Giur. It., 2013, 8-9, 1949 nota di FREGNI)
Le imprese familiari di cui all’art. 230-bis c.c. sono soggette all’imposta regionale sulle attività produttive, istituita con D. Lgs. n. 446 del 1997, alla quale, se non espressamente esentati, sono sottoposti tutti coloro che producono reddito di impresa, commerciale o agricola. Presupposto indefettibile del rilievo ai fini fiscali è la formalizzazione dell’impresa familiare anteriormente al periodo di imposta, attraverso la redazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, dal quale risultino nominativamente i familiari partecipanti, con la indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore.
I soggetti che producono reddito di impresa, commerciale od agricola, e quindi anche le imprese familiari, di cui all’art. 230-bis c.c., sono colpiti dall’imposta regionale sulle attività produttive, laddove non espressamente esentati; debitore è solo l’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori.
App. Bologna Sez. lavoro, 21 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis c.c., è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Di talché, la maturazione di siffatto diritto, da cui decorre la prescrizione ordinaria decennale, coincide, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili – quantificata dalle parti nelle scritture private – può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere, mediante presunzioni, l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 433 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il criterio dell’apporto incrementativo del partecipante alla produttività dell’azienda non serve per accertare gli utili bensì la quota di partecipazione allorquando non sia consensualmente preventivamente stabilita dalle parti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che gli stessi utili – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impresa familiare i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2009, n. 16477 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis cod. civ. è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Ne consegue che la maturazione di tale diritto – dalla quale decorre la prescrizione ordinaria decennale – coincide, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. V, 15 settembre 2008, n. 23617 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 230-bis cod. civ. prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto, al momento della sua cessazione, a partecipare agli utili non ancora ripartiti ed agli incrementi di produttività dell’azienda (“beni acquistati” con gli utili ed “incrementi d’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 230-bis cod. civ. prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto, al momento della cessazione, a partecipare agli utili e agli incrementi di produttività dell’azienda (“beni acquistati” con gli utili ed “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato; ne consegue che, da un lato, per la determinazione della quota spettante non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività (che prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare), mentre, dall’altro, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all’apporto lavorativo effettivamente prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di partecipazione previsto dall’art. 230-bis cod. civ. (che ne prevede espressamente, tranne il caso di accordo per la distribuzione periodica degli utili, la liquidazione alla cessazione della prestazione di lavoro o in caso di alienazione dell’azien¬da) non rappresenta un vero e proprio compenso dotato del carattere di corrispettività, ma assume il carattere di un diritto qualificabile solo a posteriori, in quanto condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda; la destinazione naturale degli utili (in assenza di diverso accordo) non è la distribuzione tra i partecipanti, ma il loro reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni ai quali il familiare partecipa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ., gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa, restando a carico del partecipante che agisce per il conseguimento della propria quota l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire (nella specie, la S.C. ha rilevato che la sentenza di merito aveva accertato, con adeguata istruttoria, che il mantenimento del partecipante – e dell’intera famiglia – era assicurato con redditi diversi da quelli provenienti dall’impresa familiare di rivendita di tabacchi e, in ispecie, dall’attività di idraulico svolta continuativamente e dai proventi di due immobili in comproprietà).
Dalla maturazione del diritto agli utili nell’impresa familiare decorrono altresì rivalutazione e interessi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 marzo 2007, n. 6631 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti del riparto dei conferimenti all’impresa familiare assume valore indiziario, se non smentita da dati probatori difformi, la scrittura effettuata ai fini fiscali, ai sensi dell’art.9 della legge n. 576 del 1975, ricognitiva dell’apporto effettivo di ciascun partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632 (Fam. Pers. Succ., 2006, 12, 995 nota di STOPPIONI)
Le prestazioni lavorative tra conviventi “more uxorio” rientrano tra le prestazioni di cortesia gratuite e sfornite di valore contrattuale, fatta salva la prova di un contratto di lavoro subordinato o di un rapporto d’impresa familiare. L’art. 230-bis c.c. è applicabile, infatti, anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Attesa la natura individuale dell’impresa familiare (configurabile come rapporto associativo di lavoro a rilevanza interna) il familiare titolare dell’impresa è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaborano e il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230-bis c.c. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2003, n. 9897 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata stabilita dalle parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia, il giudice non può disattendere il valore probatorio della scrittura, in difetto di prova della simulazione.
A differenza dell’impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (art. 2251 segg. c.c.), l’impresa familiare di cui all’art. 230-bis cod. civ. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto ad una quota degli utili, e ciò anche nel caso in cui uno dei beni aziendali sia di proprietà di alcuno dei familiari; ne consegue che, mentre nel caso di società semplice con due soli soci, l’esclusione di uno di loro è pronunciata dal tribunale su istanza dell’altro (art. 2287, 3° comma, c.c.), il diritto potestativo di recedere dall’impresa familiare spettante al titolare, e quello eventuale di determinarne la cessazione, è esercitabile attraverso una semplice manifestazione di volontà, salvo il diritto degli altri familiari alla liquidazione della loro quota e, in caso di recesso privo di giustificazione, al risarcimento del danno.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis c.c., è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni; la maturazione di tale diritto – dalla quale decorrono rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 429 cod. proc. civ., in relazione alla riconducibilità della collaborazione continuativa all’impresa familiare ad uno dei rapporti di cui all’art. 409 n. 3 cod. proc. civi. – coincide di regola, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 ottobre 1999, n. 11332 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione, nonché dell’accrescimento della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, mentre non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 marzo 1999, n. 1917 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità dell’azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio senza comportare alcuna modifica nella struttura dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro implicanti la subordinazione dei familiari che lo coadiuvano. Consegue, da una parte, che in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale né delle spese del relativo ammortamento; d’altra parte, che nella quantificazione dell’apporto lavorativo il giudice del merito ben può differenziare quello dell’imprenditore, ove più gravoso per le maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua attività in posizione di subordinazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1998, n. 7655 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con riferimento alla disciplina dell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata predeterminata tra le parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia il giudice non può disattendere il valore probatorio di tale scrittura, accertando l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso.
Cass. civ. Sez. Unite, 4gennaio 1995, n. 89 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 230-bis c.c. la concreta collaborazione del partecipante all’impresa familiare – istituto la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da atti volontari dai quali si possa desumere l’esistenza della fattispecie, ben potendo l’imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all’impresa, opponendosi all’esercizio di attività lavorativa nell’ambito di essa – se, in mancanza di accordi convenzionali, non può ridursi, nel caso del coniuge, all’adempimento dei doveri istituzionalmente connessi al matrimonio, non viene tuttavia meno qualora l’attività dallo stesso svolta, sebbene diretta, in via immediata, a soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia, assuma rilievo nella gestione dell’impresa, in quanto funzionale ed essenziale all’attuazione di fini propri di produzione o di scambio di beni o di servizi. Infatti, se è vero che l’art. 230-bis c.c. considera titolo per partecipare a detta impresa la prestazione, in modo continuativo, dell’attività di lavoro nella famiglia, tuttavia, dovendosi tale attività tradurre (in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato) in una quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi dell’azienda, tale quota non può che essere determinata in relazione all’accrescimento della produttività dell’impresa, procurato dall’apporto dell’attività del partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 dicembre 1994, n. 10927 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In un rapporto lavorativo che si svolga nell’ambito della convivenza “more uxorio” è da escludere la ricorrenza di un rapporto di subordinazione onerosa, mentre è possibile inquadrare il rapporto stesso, in carenza di prove contrarie, nell’ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall’art. 230-bis c.c.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204 (Giur. It., 1995, I,1, 844 nota di BALESTRA)
L’art. 230-bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 (Dir. Famiglia, 1994, I, 106)
In relazione al disposto dell’art. 230-bis c. c., l’ipotesi di impresa familiare realizzata mediante la partecipazione del coniuge all’attività aziendale si differenzia dalla fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177, lett. d, c. c., in cui la collaborazione dei coniugi si attua con la gestione comune dell’impresa; ai fini di tale distinzione non ha alcuna rilevanza diretta il regime di comunione dei beni vigente tra i coniugi, che può spiegare effetti solo sul piano della tutela, ex art. 178 cod. civ., dei diritti sui beni destinati all’esercizio di impresa.
Al fine della determinazione delle somme spettanti, ai sensi dell’art. 230-bis c. c., a titolo di partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto di partecipazione del componente l’impresa familiare; nell’ambito dell’indagine diretta all’accertamento del diritto alla quota di utili, il giudice può liberamente apprezzare come elemento indiziario la dichiarazione relativa alla fissazione delle quote, redatta ai fini della imputazione del reddito a ciascuno dei partecipanti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione tributaria che ai fini esclusivamente fiscali limita nella misura del quarantanove per cento la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei redditi dell’impresa familiare, non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento in ordine alla sussistenza della impresa familiare prevista dall’art. 230-bis c. c. e alla determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, che deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare (art. 230-bis c. c.), la predeterminazione, nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa, sul cui credito sono dovuti – con decorrenza dalla maturazione del diritto – interessi e rivalutazione monetaria ai sensi dell’art. 429, 3° comma, c. p. c.
Ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare, prevista dall’art. 230-bis c. c., è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico (indispensabile, invece, per costituire – in relazione al carattere residuale del detto istituto – un rapporto giuridico diverso); peraltro, l’esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell’impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230-bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla quota di utili dell’impresa familiare (art. 230-bis c. c.) è autonomo rispetto al diritto al mantenimento del partecipante all’impresa medesima, ma il calcolo di essi va effettuato al netto (e non al lordo) delle spese di mantenimento, che gravano parimenti sul reddito di impresa.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 (Riv. Dir. Trib., 1992, II, 665 nota di BALDASSARI)
L’impresa familiare, così come disciplinata dall’art. 230-bis c. c. ha natura di impresa individuale, conseguentemente la qualifica di imprenditore spetta solamente al titolare della stessa non potendo essa essere attribuita anche ai collaboratori familiari.
Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6559 (Nuova Giur. Civ., 1991, I, 67 nota di LUCCHINI)
Nell’ambito dell’istituto dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis, c. c., caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del capo (quale riconosciuto dai partecipanti in forza della sua anzianità e/o del suo maggiore apporto all’impresa stessa), vanno distinti un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, diversi da quelli comuni ed indivisi dell’intero gruppo, anch’essi oggetto della generica garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ.; ne consegue che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Corte cost. 6 luglio 1987, n. 251 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In relazione all’obiettiva diversità di situazioni, è legittimo il differente trattamento impositivo disposto nei confronti del coniuge convivente (detrazione fissa) e del coniuge separato (detrazione nella misura effettiva); mentre l’imputazione di una quota del reddito a ciascun componente del nucleo familiare, nel caso di impresa familiare, corrisponde sia alle responsabilità di ciascuno di essi sia al diverso rilievo dell’attività lavorativa prestata, che concorre proporzionalmente al conseguimento del profitto, diversamente dal lavoro casalingo, che influisce soltanto in via mediata sulla produzione del reddito. (Manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4 5, 10 e 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 dell’art. 23 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e della legge 2 dicembre 1975, n. 576, sollevate in riferimento agli articoli 3, 29, 30, 31, 35 comma 1 e 53 della costituzione).
Cass. civ. 23 novembre 1984, n. 6069 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c. c. anche la collaborazione del coniuge, che si traduca in un’attività personale, continuativa e coordinata, pur senza vincolo di subordinazione, è riconducibile nell’ambito della previsione dell’articolo 409 cod. proc. civ., con la conseguenza che la domanda rivolta a far valere diritti patrimoniali derivanti da detta collaborazione spetta alla competenza per materia del pretore, in funzione di giudice del lavoro.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 (Giust. Civ., 1985, I, 18)
L’impresa familiare è una organizzazione familiare che non può prescindere da una cosciente volontà dei vari partecipi di farvi parte e si forma, per l’effetto, o per contratto o per facta concludentia.