Impresa familiare

IMPRESA FAMILIARE
Di Gianfranco Dosi

I. La tutela del lavoro prestato da un familiare a favore dell’imprenditore
a) La tutela nella famiglia matrimoniale
b) La tutela nelle unioni civili
c) La tutela tra conviventi di fatto
II. L’impresa familiare come impresa individuale
III. I diritti attribuiti al collaboratore
IV. I presupposti per la determinazione della partecipazione agli utili
V. Le caratteristiche del credito del collaboratore dell’impresa familiare
VI. Come si determina la quota degli utili spettanti al familiare collaboratore dell’impresa familiare?
VII. La quota di utili attribuita al familiare collaboratore costituisce reddito a fini fiscali?

I
La tutela del lavoro prestato da un familiare a favore dell’imprenditore
a) La tutela nella famiglia matrimoniale
L’art. 230-bisdel codice civile – intitolato impresa familiare e introdotto per la famiglia fondata sul matrimonio con la riforma del 1975 – ha la pacifica funzione di garantire che l’attività lavorativa prestata con continuità a vantaggio dell’imprenditore da un suo familiare sia adeguatamente remunerata. Non può essere considerata un’attività lavorativa svolta gratuitamente.
Ed in effetti, l’art. 230-bis prescrive molto chiaramente che “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”. In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i familiari in questione hanno diritto di prelazione sull’azienda.
Non solo. Ove si configuri questo tipo di rapporto, il familiare ha anche diritto a prendere parte alle decisioni che influiscono sull’insieme di quei diritti (anche se, come si vedrà, la giurisprudenza non applica alla lettera questa indicazione, effettivamente contrastante con i poteri necessariamente pieni di indirizzo dell’impresa, unicamente appartenenti all’imprenditore). Prevede a tale proposito l’art. 230-bische “Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi”.
Naturalmente – come la disposizione in parola precisa molto bene – “Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Nel testo introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 –che riguarda la famiglia matrimoniale – la norma prevede che “Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.
La tutela assicurata è personalissima e quindi intrasferibile. Infatti, come conclude l’art. 230-bis “Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice”.
b) La tutela nelle unioni civili
La legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina della convivenza di fatto) all’art. 1, comma 21, estende anche alla unioni civili la disposizione di cui all’art. 230-bis c. c. nell’ambito di un rinvio complessivo e generale alla maggior parte delle disposizioni sul regime patrimoniale della famiglia fondata sul matrimonio (tra le quali, appunto, l’art. 230-bis c.c.).
Tuttavia, poiché il comma 20 dell’art.1 della legge esclude l’applicazione alle unioni civili delle norme del codice civile non espressamente richiamate e poiché non è richiamato l’art. 78 sul vincolo di affinità (avendo voluto escludere il legislatore per le unioni civili una concezione allargata dei legami di natura familiare riservata illogicamente alla sola famiglia cosiddetta matrimoniale) ne deriva che la tutela assicurata dall’art. 230-bis alle parti dell’unioni civile è limitata all’attività di lavoro prestata a favore del partner o dei propri parenti entro il terzo grado.
c) La tutela tra conviventi di fatto
La nozione di “familiari” legati alla famiglia matrimoniale aveva sempre lasciato fuori dalla tutela offerta dall’art. 230-bis del codice civile i componenti della famiglia di fatto dell’imprenditore che collaborano nella sua impresa (Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 e Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204 che aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio) anche se una parte della giurisprudenza più recente aveva espresso un orientamento favorevole al riconoscimento della tutela tra conviventi more uxorio (per esempio Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632 aveva sostenuto che“l’art. 230-bis c.c. è applicabile anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale”).Qualche apertura, seppure con riferimento alla comunione tacita familiare, era contenuto già in Cass. civ. Sez. lavoro, 19 dicembre 1994, n. 10927.
È stata la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina della convivenza di fatto) ad operare una svolta in questo ambito sostanzialmente estendendo alla convivenza di fatto il principio che il lavoro prestato a vantaggio di un familiare non può considerarsi effettuato a titolo gratuito.
La legge in questione non ha però semplicemente richiamato per i conviventi di fatto l’art. 230-bis c.c., ma ha introdotto nel codice civile (con l’art. 1, comma 46) un apposito art. 230-ter (diritti del convivente) secondo cui “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
A parte qualche distinzione di tipo lessicale – ed a parte l’omesso riferimento al diritto al mantenimento che tra conviventi non è prevedibile – sostanzialmente la norma riproduce la tutela indicata nell’art. 230-bis che riguarda qui, però, il solo rapporto tra i due conviventi di fatto con la conseguente esclusione del meccanismo di partecipazione alle decisioni dell’imprenditore da adottare a maggioranza, e del principio di trasferibilità ai familiari del diritto di partecipazione (in entrambi i casi illogicamente esclusi, però, in caso per esempio di eventuali figli della coppia che partecipino all’attività di impresa).
II
L’impresa familiare come impresa individuale
L’impresa familiare – alla quale fa riferimento l’art. 230-bis del codice civile – è una realtà organizzativa delle attività commerciali, di media e piccola dimensione, molto diffusa, attraverso la quale l’imprenditore gestisce la sua azienda con la collaborazione continuativa dei propri familiari.
L’impresa ha pacificamente natura non collettiva, ma individuale dell’imprenditore.
Il principio è stato più volte affermato in giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560 secondo cui l’impresa familiare appartiene solo al suo titolare anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva che appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone; Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552 per cui l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 secondo cui il familiare titolare dell’impresa è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaborano e il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato; Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 che giustamente richiama a questo proposito la disposizione tributaria che ai fini esclusivamente fiscali limita nella misura del quarantanove per cento la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei redditi dell’impresa familiare; Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 dove si afferma che l’impresa familiare, così come disciplinata dall’art. 230-bis c.c. ha natura di impresa individuale, con la conseguenza che la qualifica di imprenditore spetta solamente al titolare della stessa non potendo essa essere attribuita anche ai collaboratori familiari; Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6559 che del tutto coerentemente ritiene che nell’ambito dell’impresa familiare, caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona dell’imprenditore distingue un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, con la conseguenza che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Dalla natura individuale dell’impresa familiare si è anche dedotto che il familiare partecipante all’impresa familiare in caso di alienazione dell’azienda non ha diritto ad una quota del ricavato dei proventi della vendita (Trib. L’Aquila, 21 gennaio 2016).
Il carattere individuale dell’impresa familiare – come ha bene chiarito Trib. Bari Sez. lavoro, 24 settembre 2015 – sintetizza lo scopo dell’istituto che è quello di apprestare una tutela effettiva al familiare che presta la propria attività a favore di un altro familiare.
Il principio della natura individuale dell’impresa familiare è confermato dagli stessi criteri di tassazione per i quali è soggetto passivo unicamente l’imprenditore familiare e non anche i familiari collaboratori (Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060; Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616)
Essendo questo della natura individuale dell’impresa familiare un dato che appare storicamente acquisito, stupisce una definizione recente dell’impresa familiare coltivatrice come impresa collettiva (Cass. civ. Sez. lavoro, 4 ottobre 2013, n. 22732) nella quale “obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati”.
III
I diritti attribuiti al collaboratore
L’elemento della collaborazione lavorativa dei familiari con il titolare dell’impresa è al centro del contenzioso che riguarda i diritti patrimoniali dei familiari.
Intanto va detto che al fine di dimostrare la partecipazione del coniuge o di uno stretto parente del titolare all’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile è necessario che gli stessi abbiano fornito un contributo all’organizzazione dell’impresa stessa mediante la prova sia di uno svolgimento di tipo continuativo ovvero non saltuario ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia dell’accrescimento della produttività procurato dal lavoro del partecipante quale elemento indispensabile al fine di determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi (Trib. Bari Sez. lavoro, 20 novembre 2014).
Le controversie sono di competenza del giudice del lavoro, sussistendo il requisito della parasubordinazione nell’attività svolta (conformi in questo senso sono numerose pronunce da Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 1984, n. 6069 a Cass. civ. Sez. lavoro, 26 agosto 1997, n. 8033).
L’elemento della subordinazione dei familiari rispetto al titolare che gestisce l’azienda distingue l’impresa familiare dall’azienda coniugale – prevista nell’art. 177 lett. d del codice civile – che è invece cogestita dai coniugi e le cui problematiche appartengono al regime della comunione legale (Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390).
Il secondo comma dell’art. 230-bis del codice civile richiama i principi di parità precisando opportunamente che “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Al familiare, perciò, che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nell’impresa familiare [o nella famiglia se questo lavoro assume rilievo diretto nella gestione dell’impresa: Cass. sez. Unite 4 febbraio 1995, n. 89] – e sempre che non sia configurabile un diverso rapporto disciplinato in altro modo dalla legge (per esempio rapporto societario o di lavoro subordinato) – l’art. 230-bis attribuisce il “diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e la partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”.
Secondo quanto precisa il quarto comma dell’art. 230-bis (per la famiglia matrimoniale e per l‘unione civile) – e s’intende anche con riguardo all’impresa familiare ex art. 230-ter c.c. tra conviventi di fatto – la liquidazione dei diritti di partecipazione (agli utili dell’impresa ed ai beni acquistati con essi) può essere effettuata (e quindi le parti possono pattuire modalità diverse) in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda; il pagamento può avvenire anche in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.
Per ciò che attiene all’impresa familiare nella famiglia matrimoniale o nell’unione civile diritto al mantenimento e di partecipazione agli utili – e quindi la tutela del familiare collaboratore – è ovviamente intrasferibile, salvo che il trasferimento non avvenga a favore di un altro familiare e con il consenso di tutti i familiari collaboratori (art. 230-bis quarto comma). Si è già detto che appare illogica la mancata previsione di questo diritto anche ai conviventi di fatto per esempio con riferimento alla trasferibilità del diritto ad un figlio comune.
Così richiamato il quadro normativo di riferimento, occorre osservare subito che quasi mai nella pratica si pone il problema del “diritto al mantenimento” (escluso in ogni caso nell’impresa familiare ex art. 230-ter c.c. tra conviventi di fatto) del familiare collaboratore, giacché in genere questo diritto è garantito nella vita matrimoniale in comune dall’art. 143 c.c. (e analogamente avviene per le unioni civili) o, in caso di separazione, dalle misure relative al contributo di sostentamento coniugale o per i figli. L’affermazione contenuta nella norma – limitatamente al mantenimento – ha, quindi, un significato storico che si potrebbe considerare superato (la norma fu inserita nel codice nel 1975 quando la condizione della vita familiare era ben diversa da oggi). Ne residua, tuttavia, una qualche rilevanza proprio nella problematica relativa al calcolo degli utili – come si dirà – dal momento che secondo l’orientamento della giurisprudenza che si è occupata dell’impresa familiare in ambito matrimoniale “gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa” (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650 Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057). Ed è del tutto ragionevole che sia così perché mantenimento e partecipazione agli utili sono due voci che, dovendo trovare soddisfazione da un’unica fonte di reddito, sono inevitabilmente da computare insieme nel medesimo diritto di credito del collaboratore.
IV
I presupposti per la determinazione della partecipazione agli utili
Per la soluzione del problema relativo ai criteri di determinazione della partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi” è necessario in via preliminare richiamare innanzitutto una norma tributaria capace di imprimere tutele differenziate alle pretese creditorie dei familiari collaboratori partecipanti.
Ed è opportuno subito avvertire che la norma tributaria in questione andrà aggiornata dal legislatore con riferimento all’estensione dell’art. 230-bis alle unioni civili e all’introduzione per i conviventi di fatto dell’art. 230-ter c.c. in quanto l’attuale normativa tributaria fa riferimento alla sola famiglia matrimoniale.
La norma in questione è l’art. 5 del DPR 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi) riproduttivo di precedenti analoghe disposizioni contenute nella normativa fiscale (in particolare dell’articolo 5 del DPR 29 settembre 1973, n. 597).
L’art.5 del Testo Unico – trattando delle modalità di tassazione dei redditi prodotti in forma associata così si esprime al quarto comma: “I redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
La presente disposizione si applica a condizione:
a) che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attesta¬zione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
Il quinto comma dell’articolo 5 – richiamandosi ai presupposti già individuati dal codice civile – ribadisce che “si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”.
Ebbene il significato della norma tributaria (dichiarata conforme a costituzione da Corte cost. 6 luglio 1987, n. 251) è molto chiaro. Essa afferma due principi: in primo luogo che i redditi dell’impresa possono essere imputati ai familiari collaboratori in misura complessivamente non superiore al 49% (in quanto l’imprenditore, essendo il titolare, deve necessariamente imputare a se stesso una quota non inferiore al 51%) e secondo luogo che questa imputazione – su cui ciascun familiare collaboratore calcolerà l’imposta dovuta – deve avvenire in modo proporzionale alla quota concordata di partecipazione agli utili. Così per esempio due coniugi potranno decidere di suddividere la loro partecipazione prevedendo che il coniuge imprenditore imputi i redditi dell’impresa a se stesso per l’80% e il coniuge collaboratore per il 20%. Oppure che l’imprenditore abbia nell’impresa familiare il 51% di quota di utili mentre il coniuge e il figlio si suddivideranno a metà il restante 49%. E così via secondo la decisione che l’imprenditore e i collaboratori ritengono di dover adottare.
Tutto ciò però alle tre condizioni precisate dall’articolo 5 e cioè in sostanza: a) che l’impresa familiare sia costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta e con l’indicazione e la sottoscrizione dei familiari partecipanti, b) che le quote rispettive siano tutte stabilite in proporzione al lavoro effettivamente prestato; c) che ognuno lo attesti nella propria dichiarazione dei redditi. Per poter, quindi, beneficiare del meccanismo di imputazione dei redditi (e quindi degli utili) sopra indicato, sarà necessario che l’impresa familiare venga sempre costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Altrimenti l’impresa – che può risultare da un qualsiasi negozio giuridico tra i partecipanti, ovvero sussistere anche per fatti concludenti e cioè da atti dai quali si possa desumere l’esistenza della volontà di dare vita all’impresa familiare (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683; Cass. civ. Sez. Unite, 4 gennaio 1995, n. 89; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass.civ. 23 novembre 1984, n. 6069) – non potrà beneficiare della norma tributaria.
Si avranno quindi sul mercato due tipi di imprese familiari: a) quelle “costituite con atto pubblico o scrittura privata autenticata” nelle quali l’indicazione delle quote di suddivisione degli utili sarà preventivamente stabilita nell’atto costitutivo e successivamente confermata nelle dichiarazioni fiscali dei partecipanti; b) le imprese familiari che possiamo chiamare “di fatto”, alle quali pur sempre sarà riferibile la tutela offerta dall’art. 230-bis del codice civile, ma che non potranno giovarsi del sistema di imputazione dei redditi (e degli utili) proporzionale alle quote prestabilite e per le quali quindi il problema della prova della quantità è della qualità della partecipazione sarà meno agevole.
Il problema della determinazione degli utili si deve affrontare, quindi, in modo diverso a seconda del tipo di impresa familiare implicata.
V
Le caratteristiche del credito del collaboratore dell’impresa familiare
Bisogna innanzitutto ricordare che l’istituto dell’impresa familiare ha natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile ed è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. Nel contesto letterale della disposizione di riferimento, costituita dall’art. 230-bis c.c., mentre la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che fare riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, ciò che si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione (Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560; Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552; Cass. civ. Sez. Unite, 6 novembre 2014, n. 23676). Tutto ciò sempre che il giudice non ritenga che si debba applicare la normativa sul lavoro subordinato ove ve ne siano i presupposti (Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2014, n. 19925).
Ciò premesso la prima caratteristica della pretesa creditoria del familiare collaboratore è quella che gli utili a lui spettanti sono in genere liquidati (spontaneamente o in via giudiziale) alla cessazione della prestazione di lavoro. E’ quanto prevede, come si è visto, il quarto comma dell’art. 230-bis codice civile (App. Bologna Sez. lavoro, 21 marzo 2013).
È fatta salva naturalmente una volontà contraria dei partecipanti all’impresa per esempio per la liquidazione periodica degli utili o perché una certa quota di utili è stata già ripartita. E’ evidente che in questi casi la determinazione degli utili spettanti alla cessazione della prestazione di lavoro riguarda solo gli utili che non sono stati già liquidati (Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448).
Va inoltre precisato che normalmente le dimensioni medio-piccole dell’impresa familiare, consentono di ipotizzare che ciascuno dei collaboratori si avvalga dei risultati proprio mentre l’impresa li realizza. Non c’è – come avviene nelle società – un momento formale di divisione degli utili, ma c’è viceversa un avvantaggiarsi di ciascuno dei risultati conseguiti – anche attraverso il reimpiego degli utili nell’azienda – proprio via via che vengono conseguiti. Ciò significa in sostanza che i redditi prodotti servono anche al mantenimento continuativo di tutti i collaboratori.
Questo comporta che la determinazione degli utili da liquidare è una operazione con una particolarità specifica che deriva dal fatto che il collaboratore si è già avvantaggiato di una quota della redditività prodotta in azienda. Per questo – come si è sopra anticipato – la giurisprudenza ritiene giustamente che gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057). Ugualmente si ritiene che, poiché all’imprenditore spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro, in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale (Cass. civ. Sez. lavoro, 6 marzo 1999, n. 1917). La tesi è convincente dal momento che l’aumento del capitale costituisce certamente una voce di spesa sopportata dal solo titolare dell’azienda.
La liquidazione degli utili al momento della cessazione della prestazione di lavoro ne fa anche un diritto qualificabile solo a posteriori (Cass. civ. Sez. lavoro, 6 settembre 2016, n. 17639; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921) condizionato dai risultati raggiunti. Effettivamente la partecipazione agli utili nell’impresa familiare non avviene di anno in anno, come è logico che sia essendo il reimpiego nell’azienda – e non la loro distribuzione – la naturale destinazione degli utili. Gli utili da liquidare saranno perciò determinati dall’accrescimento della produttività dell’impresa alla data della cessazione della prestazione lavorativa rispetto alla data dell’inizio della collaborazione (Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448) detratte le spese di mantenimento dei familiari collaboratori e quelle relative all’eventuale aumento di capitale. Un’operazione di una certa complessità – dovendosi calcolare l’incremento del valore dell’azienda dovuto al lavoro del collaboratore – che il giudice, acquisite le fonti di prova, non può che effettuare con l’ausilio di un commercialista o di un altro esperto.
La seconda caratteristica è che si tratta di un credito pecuniario da lavoro e quindi, dal momento della maturazione del diritto, decorreranno altresì la rivalutazione e gli interessi (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921).
La terza fondamentale caratteristica è che la partecipazione agli utili e agli incrementi di produttività dell’azienda (e quindi anche all’avviamento) deve essere proporzionale e quindi parametrata “alla quantità e alla qualità del lavoro prestato” dal collaboratore, come specificamente prescrive l’art. 230-bis del codice civile. Quindi non possono essere utilizzati criteri diversi, come per esempio l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, che prescindono del tutto dall’entità dei risultati conseguiti a cui invece è commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare (Cass. civ. Sez. V, 15 settembre 2008, n. 23617; Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574; Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2015, n. 7007; Cass. civ. Sez. lavoro, 9 ottobre 1999, n. 11332; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390). Nel rapporto di lavoro il metro di valutazione dell’attività lavorativa è la retribuzione; nella società l’utile si di¬stribuisce in relazione alle quote sociali quale che si l’impegno del singolo compartecipe; nell’impresa familiare, invece, si deve fare riferimento specifico alla qualità e alla quantità del lavoro prestato dal collaboratore.
Al familiare che partecipa con la propria attività lavorativa all’impresa, va riconosciuta non soltanto la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, ma anche la partecipazione agli incrementi dell’azienda, dovendosi intendere per incremento di azienda ogni aumento di valore che non sia determinato dai beni acquistati con l’impiego degli utili. Tale diritto sorge solo al momento della cessazione dell’azienda o dell’attività lavorativa del singolo familiare, sempre in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (Trib. Modica, 10 marzo 2015).
L’ultima caratteristica è che si tratta di un credito prescrivibile in dieci anni – fatta salva l’eventuale sospensione della prescrizione tra coniugi (art. 2941, n. 1, cod. civ.) – giacché deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ. per la prescrizione ordinaria (Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273; Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2009, n. 1647).
VI
Come si determina la quota degli utili spettanti al familiare collaboratore dell’impresa familiare?
Il valore della quota del familiare collaboratore alla cessazione della sua attività lavorativa nell’impresa familiare, anche per recesso, è determinato da plusvalenze latenti, dal valore patrimoniale e dalla determinazione dell’incremento di valore di avviamento conseguito dalla data di costituzione dell’impresa familiare, elementi che – come si è detto – un consulente tecnico può facilmente attingere dai bilanci e dalla documentazione aziendale. Trattandosi spesso di somme rilevanti è molto opportuna la precisazione contenuta nell’art. 230-bis del codice civile secondo cui questi importi possono essere liquidati in più annualità.
Come si è sopra visto il problema della determinazione degli utili va affrontato tenendo conto che l’impresa familiare può essere stata costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (ed in tal caso, secondo le norme tributarie sopra richiamate, potrà giovarsi del sistema di imputazione dei redditi e di partecipazione agli utili proporzionale alle quote predeterminate) o può esistere di fatto per la semplice volontà dell’imprenditore e dei partecipanti di volere questo tipo di organizzazione del lavoro nell’azienda.
Le agevolazioni delle norme tributarie hanno finito per rendere ormai visibili nel mercato la maggioranza delle imprese familiari – essendo appetibile fiscalmente la distribuzione del carico fiscale tra più persone – ma ciò non toglie che ove non vi sia stata questa predeterminazione in un atto formale, si possano porre ugualmente problemi di rivendicazione da parte dei collaboratori dei propri diritti.
In questo caso spetterà al partecipante che agisce per il conseguimento della quota “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi” ,l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire.
Nel caso invece in cui vi sia stato l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata, la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere, mediante presunzioni, l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione. Quindi secondo la giurisprudenza le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa hanno una portata certamente indiziaria e presuntiva (Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224; Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908; Cass. sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574; Cass. civ. Sez. lavoro, 20 marzo 2007, n. 6631; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003 n. 9683; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390; Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650), ma non sostitutiva rispetto alla prova dell’apporto lavorativo effettivamente prestato, dal momento che la determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa stessa indipendentemente dalla predeterminazione compiuta a fini fiscali (Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959).
Inoltre il giudice non può disattendere il valore probatorio delle scritture formate ai fini fiscali, accertando l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso (Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908; Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2003, n. 9897; Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1998, n. 7655).
Il significato pratico di queste affermazioni è ben spiegato in Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003 n. 9683 dove si legge che la predeterminazione delle quote di utili non è priva di effetti giuridici processuali in quanto può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere l’onere – a carico del partecipante, che agisca per ottenere la propria quota di utili dell’impresa familiare – di dimostrare non solo la fattispecie costitutiva dell’impresa stessa, ma anche la propria quota, appunto, di partecipazione a quegli utili. Resta, tuttavia, l’onere del familiare imprenditore – gravato dell’obbligo di corrispondere gli utili pretesi dal partecipante all’impresa familiare – di offrire la prova contraria, cioè di dimostrare – in contrasto con le presunzioni desumibili dalla esaminata predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili, l’esistenza di un rapporto giuridico diverso dalla dedotta impresa familiare (o, comunque, l’inesistenza della medesima) nonché, eventualmente, il diritto del partecipante ad una quota di utili inferiore – rispetto a quella risultante dalla citata predeterminazione – in dipendenza della minore quantità e/o qualità del lavoro effettivamente prestato.
La predeterminazione delle quote – e talvolta perfino la stessa costituzione dell’impresa familiare – sono simulate, al solo fine di poter usufruire delle possibilità dell’imputazione fiscale proporzionale prevista nelle norme tributarie. Di questo potrebbe volersi avvantaggiare il collaboratore familiare al quale quindi la giurisprudenza contrappone la linea interpretativa indicata prevedendo che il valore di quelle predeterminazioni è meramente indiziario nel senso che l’imprenditore è ammesso a provarne la non corrispondenza alla realtà.
D’altro lato, come si è visto, la costituzione dell’impresa familiare potrebbe avvenire attraverso un qualsiasi negozio giuridico (non riprodotto in un atto pubblico o una scrittura privata autenticata) o addirittura per il solo fatto che un imprenditore utilizza consapevolmente e volutamente l’apporto lavorativo di un familiare – come riconosce anche la giurisprudenza già indicata (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683; Cass. civ. Sez. Unite, 4 gennaio 1995, n. 89; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass.civ., 23 novembre 1984, n. 6069) – e in questo caso è evidente che il familiare collaboratore potrà sempre provare liberamente l’esistenza dell’impresa familiare, il proprio apporto lavorativo e la propria pretesa creditoria (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 433).
In proposito, come ebbe a chiarire una delle prime decisioni più significative sull’impresa familiare (Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650) “ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico; peraltro l’esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell’impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230-bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate”.
Quindi – secondo questa pronuncia già lontana nel tempo ma sempre attuale – nemmeno nell’ipotesi in cui il titolare voglia far figurare un’impresa familiare a proprio uso e consumo, cioè costruita negozialmente con deroghe alla disciplina legale, sarà impedita l’applicazione delle disposizioni di garanzia previste nell’art. 230-bis del codice civile.
VII
La quota di utili attribuita al familiare
collaboratore costituisce reddito a fini fiscali?
Con una risoluzione del 28 aprile 2008 (n. 176/E) l’Agenzia delle Entrate, dopo aver ricordato che il legislatore con le disposizioni sull’impresa familiare ha voluto tutelare il lavoro e il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa del familiare collaboratore e che le norme di tutela si applicano allorché non sia configurabile un diverso rapporto tra imprenditore e familiare collaboratore, ha ribadito che la partecipazione del familiare ha rilevanza solo interna nei rapporti tra imprenditore e familiari collaboratori perché il fondamento dell’istituto va individuato nella solidarietà che deve legare i familiari e nell’esigenza di tutela e di valorizzazione del lavoro prestato dai collaboratori componenti della famiglia. In ragione di tutto ciò l’imprenditore attribuisce parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano con lui.
Ciò premesso ha escluso che il familiare collaboratore debba dichiarare fiscalmente le somme liquidate come proprio reddito e che l’imprenditore possa dedurre dal proprio reddito d’impresa la quota di utili che versa al collaboratore.
I diritti del collaboratori – ha ricordato l’Agenzia delle Entrate – non toccano la titolarità dell’azienda e secondo una interpretazione logico-sistematica, quindi, le somme corrisposte dall’imprenditore non sono collegabili all’esercizio della sua attività ma diretta a soddisfare esigenze estranee alle finalità e alla logica dell’impresa. In tale contesto, pertanto – conclude la circolare – la liquidazione al coniuge del diritto di partecipazione all’impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto e non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste nel Testo unico delle imposte sui redditi e non va pertanto assoggettato ad IRPEF in capo al soggetto percipiente. Come ulteriore conseguenza discende che la somma in questione non rileva come componente negativa e non è deducibile dal reddito di impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’articolo 109, comma 5, del Testo unico delle imposte sui redditi, che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.
Sempre in relazione agli aspetti fiscali dell’impresa familiare va messo in evidenza l’orientamento che appare sufficientemente pacifico secondo cui l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive), afferendo essa non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, è dovuta anche dall’imprenditore familiare (nella specie: agente di commercio), mentre non sono soggetti all’imposta i familiari collaboratori cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall’impresa familiare. (Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060; Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616; Cass. civ. Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1537; Cass. civ. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10777).
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori, è anche soggetto passivo IRAP, in quanto detta imposta colpisce il valore della produzione netta dell’impresa, e la collaborazione dei partecipanti all’impresa familiare integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare (c.d. etero-organizzazione dell’esercente l’attività).
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 settembre 2016, n. 17639 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di lavoro familiare, ai fini dell’individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell’art. 230-bis c.c. deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all’art. 732 c.c. al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l’impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto.
Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’IRAP afferisce non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, sicché ne è soggetto passivo pure l’imprenditore familiare ma non anche i familiari collaboratori atteso che la collaborazione dei partecipanti integra quel “quid pluris” dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare ed è, quindi, sintomatica del relativo presupposto impositivo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare, la predeterminazione, ai sensi dell’art. 9 della l. n. 576 del 1975 e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità, come è sufficiente ai fini fiscali, o di un negozio giuridico, può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa familiare che dell’entità della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
La partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con essi, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Trib. L’Aquila, 21 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il familiare partecipante all’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. non può ritenersi titolare pro quota dell’impresa stessa, che, invece, appartiene solo al suo titolare, di talché in caso di alienazione dell’azienda non ha diritto ad una quota del ricavato dei proventi della vendita.
Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre2015, n. 24560 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impresa familiare appartiene solo al suo titolare anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva che appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone. Nello schema dell’impresa di cui all’art. 230-bis c.c., gli utili non sono determinati in proporzione alla quota di partecipazione, ma alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda all’acquisto di beni. Pertanto, l’esclusione di una società implica l’inesistenza di quote e utili da ripartire tra i pretesi soci.
La costituzione di un’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c., presuppone che gli utili ricavati dall’attività siano reimpiegati nell’azienda o nell’acquisto di beni e non ripartiti tra i partecipanti, a meno che tra gli stessi non sia intercorsa una pattuizione che preveda una distribuzione periodica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552 (Foro It., 2016, 5, 1, 1840)
Posto che l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essa non si può configurare nemmeno tra due coniugi di cui uno eserciti un’attività commerciale in qualità di socio di una società di persone, difettando la sua qualità di imprenditore, propria esclusivamente della società.
L’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essenzialmente per la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, oltre che per il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario.
Trib. Bari Sez. lavoro, 24 settembre 2015 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
L’impresa familiare si ritiene abbia carattere individuale; infatti, scopo dell’istituto è quello di apprestare una tutela per il familiare che espleti la propria attività a favore di un altro familiare, individuati sia il primo che il secondo fra i soggetti specificati nel terzo comma dell’art. 230-bis c.c. Tale norma regola soltanto il rapporto obbligatorio fra familiare imprenditore e i familiari prestatori di lavoro (non necessariamente conviventi con il primo), ai quali compete il diritto di credito al mantenimento, da intendersi non solo nel senso dei mezzi indispensabili per il sostentamento, ma di mezzi in grado di assicurare un’esistenza libera e dignitosa, con riferimento alle condizioni patrimoniali della famiglia, e, per la parte eccedente, il diritto agli utili (o ai beni acquistati con essi) e agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2015, n. 7007 (Famiglia e Diritto, 2015, 12, 1080 nota di BARILLA’)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., deve essere determinata sulla base sia degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella dell’apporto del singolo familiare, sia dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, considerato che gli stessi utili non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Trib. Modica, 10 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare, al familiare che partecipa con la propria attività lavorativa all’impresa, va riconosciuta sia la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, sia agli incrementi dell’azienda, dovendosi intendere per incremento di azienda ogni aumento di valore che non sia determinato dai beni acquistati con l’impiego degli utili. Tale diritto sorge solo al momento della cessazione dell’azienda o dell’attività lavorativa del singolo familiare, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Trib. Bari Sez. lavoro, 20 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine di dimostrare la partecipazione del coniuge o di uno stretto parente del titolare all’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile è necessario che gli stessi abbiano fornito un contributo all’organizzazione dell’impresa stessa mediante la prova sia di uno svolgimento di tipo continuativo ovvero non saltuario ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia dell’accrescimento della produttività procurato dal lavoro del partecipante quale elemento indispensabile al fine di determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi.
Cass. civ. Sez. Unite, 6novembre 2014, n. 23676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’istituto dell’impresa familiare, di natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile, è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. La relativa disciplina sussidiaria deve intendersi, dunque, recessiva, nel sistema delle tutele approntato, allorché non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente. Nel contesto letterale della disposizione di riferimento, costituita dall’art. 230-bis c.c., mentre la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che fare riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, ciò che si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. Confliggente con regole imperative del sottosistema societario è, altresì, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio, tale da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario nelle decisioni concernenti l’impego degli utili, degli incrementi, nonché la gestione societaria e gli indirizzi produttivi e financo la cessazione dell’impresa stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2014, n. 19925 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’istituto dell’impresa familiare, per il carattere residuale emergente dall’”incipit” dell’art. 230-bis cod. civ., concerne l’apporto lavorativo all’impresa del congiunto che non rientri nell’archetipo del lavoro subordinato o per il quale non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, sicché l’ipotesi del lavoro familiare gratuito resta confinata in un’area limitata. Pertanto, qualora un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all’impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare. (Nella specie, applicando l’enunciato principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva dichiarato sussistere il rapporto di lavoro subordinato attesa la continuativa presenza della nuora, quale commessa, presso il negozio della suocera).
Cass. civ. Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1537 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di Irap, afferendo essa non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, ne è soggetto passivo anche l’imprenditore familiare (nella specie: agente di commercio), mentre non lo sono i familiari collaboratori – cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 ottobre 2013, n. 22732 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impresa familiare coltivatrice è una specie del più ampio genus dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis c.c. Alla prima sono quindi applicabili i principi relativi alla seconda in quanto compatibili; essa si configura come un organismo collettivo formato dai familiari dei consorziati, il cui fine è l’esercizio in comune dell’impresa agricola. Dalla natura collettiva dell’impresa familiare discende che obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati e di tale obbligazione essi ne rispondono con i beni comuni. Ne deriva che la domanda volta alla liquidazione della quota di partecipazione agli utili dell’impresa familiare coltivatrice, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro in essa prestato, deve rivolgersi nei confronti di costoro e non invece nei riguardi degli eredi del capofamiglia defunto.
Cass. civ. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10777 (Giur. It., 2013, 8-9, 1949 nota di FREGNI)
Le imprese familiari di cui all’art. 230-bis c.c. sono soggette all’imposta regionale sulle attività produttive, istituita con D. Lgs. n. 446 del 1997, alla quale, se non espressamente esentati, sono sottoposti tutti coloro che producono reddito di impresa, commerciale o agricola. Presupposto indefettibile del rilievo ai fini fiscali è la formalizzazione dell’impresa familiare anteriormente al periodo di imposta, attraverso la redazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, dal quale risultino nominativamente i familiari partecipanti, con la indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore.
I soggetti che producono reddito di impresa, commerciale od agricola, e quindi anche le imprese familiari, di cui all’art. 230-bis c.c., sono colpiti dall’imposta regionale sulle attività produttive, laddove non espressamente esentati; debitore è solo l’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori.
App. Bologna Sez. lavoro, 21 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis c.c., è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Di talché, la maturazione di siffatto diritto, da cui decorre la prescrizione ordinaria decennale, coincide, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili – quantificata dalle parti nelle scritture private – può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere, mediante presunzioni, l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 433 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il criterio dell’apporto incrementativo del partecipante alla produttività dell’azienda non serve per accertare gli utili bensì la quota di partecipazione allorquando non sia consensualmente preventivamente stabilita dalle parti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che gli stessi utili – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impresa familiare i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2009, n. 16477 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis cod. civ. è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Ne consegue che la maturazione di tale diritto – dalla quale decorre la prescrizione ordinaria decennale – coincide, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. V, 15 settembre 2008, n. 23617 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 230-bis cod. civ. prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto, al momento della sua cessazione, a partecipare agli utili non ancora ripartiti ed agli incrementi di produttività dell’azienda (“beni acquistati” con gli utili ed “incrementi d’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 230-bis cod. civ. prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto, al momento della cessazione, a partecipare agli utili e agli incrementi di produttività dell’azienda (“beni acquistati” con gli utili ed “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato; ne consegue che, da un lato, per la determinazione della quota spettante non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività (che prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare), mentre, dall’altro, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all’apporto lavorativo effettivamente prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di partecipazione previsto dall’art. 230-bis cod. civ. (che ne prevede espressamente, tranne il caso di accordo per la distribuzione periodica degli utili, la liquidazione alla cessazione della prestazione di lavoro o in caso di alienazione dell’azien¬da) non rappresenta un vero e proprio compenso dotato del carattere di corrispettività, ma assume il carattere di un diritto qualificabile solo a posteriori, in quanto condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda; la destinazione naturale degli utili (in assenza di diverso accordo) non è la distribuzione tra i partecipanti, ma il loro reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni ai quali il familiare partecipa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ., gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa, restando a carico del partecipante che agisce per il conseguimento della propria quota l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire (nella specie, la S.C. ha rilevato che la sentenza di merito aveva accertato, con adeguata istruttoria, che il mantenimento del partecipante – e dell’intera famiglia – era assicurato con redditi diversi da quelli provenienti dall’impresa familiare di rivendita di tabacchi e, in ispecie, dall’attività di idraulico svolta continuativamente e dai proventi di due immobili in comproprietà).
Dalla maturazione del diritto agli utili nell’impresa familiare decorrono altresì rivalutazione e interessi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 marzo 2007, n. 6631 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti del riparto dei conferimenti all’impresa familiare assume valore indiziario, se non smentita da dati probatori difformi, la scrittura effettuata ai fini fiscali, ai sensi dell’art.9 della legge n. 576 del 1975, ricognitiva dell’apporto effettivo di ciascun partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632 (Fam. Pers. Succ., 2006, 12, 995 nota di STOPPIONI)
Le prestazioni lavorative tra conviventi “more uxorio” rientrano tra le prestazioni di cortesia gratuite e sfornite di valore contrattuale, fatta salva la prova di un contratto di lavoro subordinato o di un rapporto d’impresa familiare. L’art. 230-bis c.c. è applicabile, infatti, anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Attesa la natura individuale dell’impresa familiare (configurabile come rapporto associativo di lavoro a rilevanza interna) il familiare titolare dell’impresa è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaborano e il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230-bis c.c. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2003, n. 9897 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata stabilita dalle parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia, il giudice non può disattendere il valore probatorio della scrittura, in difetto di prova della simulazione.
A differenza dell’impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (art. 2251 segg. c.c.), l’impresa familiare di cui all’art. 230-bis cod. civ. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto ad una quota degli utili, e ciò anche nel caso in cui uno dei beni aziendali sia di proprietà di alcuno dei familiari; ne consegue che, mentre nel caso di società semplice con due soli soci, l’esclusione di uno di loro è pronunciata dal tribunale su istanza dell’altro (art. 2287, 3° comma, c.c.), il diritto potestativo di recedere dall’impresa familiare spettante al titolare, e quello eventuale di determinarne la cessazione, è esercitabile attraverso una semplice manifestazione di volontà, salvo il diritto degli altri familiari alla liquidazione della loro quota e, in caso di recesso privo di giustificazione, al risarcimento del danno.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis c.c., è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni; la maturazione di tale diritto – dalla quale decorrono rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 429 cod. proc. civ., in relazione alla riconducibilità della collaborazione continuativa all’impresa familiare ad uno dei rapporti di cui all’art. 409 n. 3 cod. proc. civi. – coincide di regola, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 ottobre 1999, n. 11332 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione, nonché dell’accrescimento della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, mentre non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 marzo 1999, n. 1917 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità dell’azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio senza comportare alcuna modifica nella struttura dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro implicanti la subordinazione dei familiari che lo coadiuvano. Consegue, da una parte, che in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale né delle spese del relativo ammortamento; d’altra parte, che nella quantificazione dell’apporto lavorativo il giudice del merito ben può differenziare quello dell’imprenditore, ove più gravoso per le maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua attività in posizione di subordinazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1998, n. 7655 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con riferimento alla disciplina dell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata predeterminata tra le parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia il giudice non può disattendere il valore probatorio di tale scrittura, accertando l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso.
Cass. civ. Sez. Unite, 4gennaio 1995, n. 89 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 230-bis c.c. la concreta collaborazione del partecipante all’impresa familiare – istituto la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da atti volontari dai quali si possa desumere l’esistenza della fattispecie, ben potendo l’imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all’impresa, opponendosi all’esercizio di attività lavorativa nell’ambito di essa – se, in mancanza di accordi convenzionali, non può ridursi, nel caso del coniuge, all’adempimento dei doveri istituzionalmente connessi al matrimonio, non viene tuttavia meno qualora l’attività dallo stesso svolta, sebbene diretta, in via immediata, a soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia, assuma rilievo nella gestione dell’impresa, in quanto funzionale ed essenziale all’attuazione di fini propri di produzione o di scambio di beni o di servizi. Infatti, se è vero che l’art. 230-bis c.c. considera titolo per partecipare a detta impresa la prestazione, in modo continuativo, dell’attività di lavoro nella famiglia, tuttavia, dovendosi tale attività tradurre (in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato) in una quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi dell’azienda, tale quota non può che essere determinata in relazione all’accrescimento della produttività dell’impresa, procurato dall’apporto dell’attività del partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 dicembre 1994, n. 10927 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In un rapporto lavorativo che si svolga nell’ambito della convivenza “more uxorio” è da escludere la ricorrenza di un rapporto di subordinazione onerosa, mentre è possibile inquadrare il rapporto stesso, in carenza di prove contrarie, nell’ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall’art. 230-bis c.c.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204 (Giur. It., 1995, I,1, 844 nota di BALESTRA)
L’art. 230-bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 (Dir. Famiglia, 1994, I, 106)
In relazione al disposto dell’art. 230-bis c. c., l’ipotesi di impresa familiare realizzata mediante la partecipazione del coniuge all’attività aziendale si differenzia dalla fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177, lett. d, c. c., in cui la collaborazione dei coniugi si attua con la gestione comune dell’impresa; ai fini di tale distinzione non ha alcuna rilevanza diretta il regime di comunione dei beni vigente tra i coniugi, che può spiegare effetti solo sul piano della tutela, ex art. 178 cod. civ., dei diritti sui beni destinati all’esercizio di impresa.
Al fine della determinazione delle somme spettanti, ai sensi dell’art. 230-bis c. c., a titolo di partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto di partecipazione del componente l’impresa familiare; nell’ambito dell’indagine diretta all’accertamento del diritto alla quota di utili, il giudice può liberamente apprezzare come elemento indiziario la dichiarazione relativa alla fissazione delle quote, redatta ai fini della imputazione del reddito a ciascuno dei partecipanti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione tributaria che ai fini esclusivamente fiscali limita nella misura del quarantanove per cento la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei redditi dell’impresa familiare, non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento in ordine alla sussistenza della impresa familiare prevista dall’art. 230-bis c. c. e alla determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, che deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare (art. 230-bis c. c.), la predeterminazione, nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa, sul cui credito sono dovuti – con decorrenza dalla maturazione del diritto – interessi e rivalutazione monetaria ai sensi dell’art. 429, 3° comma, c. p. c.
Ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare, prevista dall’art. 230-bis c. c., è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico (indispensabile, invece, per costituire – in relazione al carattere residuale del detto istituto – un rapporto giuridico diverso); peraltro, l’esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell’impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230-bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla quota di utili dell’impresa familiare (art. 230-bis c. c.) è autonomo rispetto al diritto al mantenimento del partecipante all’impresa medesima, ma il calcolo di essi va effettuato al netto (e non al lordo) delle spese di mantenimento, che gravano parimenti sul reddito di impresa.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 (Riv. Dir. Trib., 1992, II, 665 nota di BALDASSARI)
L’impresa familiare, così come disciplinata dall’art. 230-bis c. c. ha natura di impresa individuale, conseguentemente la qualifica di imprenditore spetta solamente al titolare della stessa non potendo essa essere attribuita anche ai collaboratori familiari.
Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6559 (Nuova Giur. Civ., 1991, I, 67 nota di LUCCHINI)
Nell’ambito dell’istituto dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis, c. c., caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del capo (quale riconosciuto dai partecipanti in forza della sua anzianità e/o del suo maggiore apporto all’impresa stessa), vanno distinti un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, diversi da quelli comuni ed indivisi dell’intero gruppo, anch’essi oggetto della generica garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ.; ne consegue che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Corte cost. 6 luglio 1987, n. 251 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In relazione all’obiettiva diversità di situazioni, è legittimo il differente trattamento impositivo disposto nei confronti del coniuge convivente (detrazione fissa) e del coniuge separato (detrazione nella misura effettiva); mentre l’imputazione di una quota del reddito a ciascun componente del nucleo familiare, nel caso di impresa familiare, corrisponde sia alle responsabilità di ciascuno di essi sia al diverso rilievo dell’attività lavorativa prestata, che concorre proporzionalmente al conseguimento del profitto, diversamente dal lavoro casalingo, che influisce soltanto in via mediata sulla produzione del reddito. (Manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4 5, 10 e 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 dell’art. 23 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e della legge 2 dicembre 1975, n. 576, sollevate in riferimento agli articoli 3, 29, 30, 31, 35 comma 1 e 53 della costituzione).
Cass. civ. 23 novembre 1984, n. 6069 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c. c. anche la collaborazione del coniuge, che si traduca in un’attività personale, continuativa e coordinata, pur senza vincolo di subordinazione, è riconducibile nell’ambito della previsione dell’articolo 409 cod. proc. civ., con la conseguenza che la domanda rivolta a far valere diritti patrimoniali derivanti da detta collaborazione spetta alla competenza per materia del pretore, in funzione di giudice del lavoro.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 (Giust. Civ., 1985, I, 18)
L’impresa familiare è una organizzazione familiare che non può prescindere da una cosciente volontà dei vari partecipi di farvi parte e si forma, per l’effetto, o per contratto o per facta concludentia.

Immobile in comodato adibito a casa familiare? No alla restituzione

Con la Ordinanza Interlocutoria della III sezione civile del 17 giugno 2013 n. 15113 la Corte di Cassazione tornava ad esprimersi sulla incerta relazione tra l’istituto del comodato ed il provvedimento del giudice della separazione relativo alla assegnazione della casa familiare ponendo, previa puntuale ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali degli ultimi anni, un argine ai precedenti giurisprudenziali della medesima Corte con la rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Chiamate quindi nuovamente in causa le sezioni unite, con sentenza del 29 settembre 2014 n. 20448, preliminarmente sottolineano che “Alla sezione rimettente sembra opportuno che sia stabilito quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare; quale sia il momento di cessazione di esso; quale sia il regime di opponibilità e come sia connotata la posizione giuridica del coniuge dei figli del comodatario iniziale”
Il caso. La fattispecie riguarda il conflitto insorto tra il proprietario di un immobile – concesso in comodato al figlio perché vi abitasse con la famiglia – e la nuora. A seguito della intervenuta separazione fra i coniugi, la sentenza disponeva l’assegnazione della casa coniugale alla moglie affidataria del figlio minorenne.
Il fulcro della questione risiede sulle sorti del contratto di comodato concesso da un terzo ed il successivo provvedimento del giudice di assegnazione della casa coniugale.
Alle sezioni unite viene richiesto di contemperare interessi, entrambi meritevoli di tutela, del coniuge collocatario di figli minori o maggiorenni non autonomi economicamente ed il legittimo diritto di proprietà del comodante (un terzo estraneo alla famiglia sarebbe ancor più penalizzato).
Quanto alla natura del provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito questo costituisce, a vantaggio del coniuge assegnatario, un diritto di godimento di natura personale e non reale.
La principale suggestione di questa tesi, risiede nella natura non provvisoria e non incerta della destinazione dell’abitazione per le esigenze della famiglia, provvisorietà richiesta, invero per il recesso “ad nutum” da parte del comodante nei casi di comodato precario.
Le Sezione Unite con precedente orientamento del 21 luglio 2004 n. 13603 hanno tracciato un solco all’interno del quale la pronunce successive sono andate via via inserendosi, stabilendo che “quando un terzo (nella specie: il genitore di uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento – pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio – di assegnazione in favore del coniuge (nella specie: la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenne non autosufficiente senza sua colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, atteso che l’ordinamento non stabilisce una “funzionalizzazione assoluta” del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che
hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Infatti, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a “concentrare” il godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale”.
Nel caso di comodato a termine, quindi, il proprietario dell’immobile ha diritto alla restituzione ex art. 1809, I comma, c.c., di converso, qualora il comodato sia convenzionalmente stabilito a tempo indeterminato “il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma II, c.c”.
La sentenza in commento, in ipotesi di indeterminatezza, distingue la durata determinata dall’uso convenuto, dal contratto senza determinazione di durata.
La Corte di Cassazione nel 2014 – dopo dieci anni – ha opportunamente seguito le orme tracciate nel precedente arresto del 2004, invitando i giudici di merito “a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l’occupazione. In secondo luogo la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica delle intenzioni delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti”.
Emergeva nel 2004, rispetto ai precedenti giurisprudenziali, un nuovo passaggio logico-giuridico ed un ulteriore onere probatorio, nel senso che non sarà più il solo comodante a dover provare e motivare il sopravvenire di un urgente ed impreveduto bisogno, ma dovrà il comodatario, cui è stata assegnata la casa familiare, di contro, dimostrare che la pattuizione sottesa attribuisce un diritto personale di godimento che ha termine con la durata dell’uso stesso della cosa. Il costante orientamento di legittimità e di merito in base al quale i diritti dei minori comportano l’affievolimento di altri diritti (quali quello della proprietà) ovviamente non va mai sottovalutato nell’indagine del giudice di merito.
Tuttavia nell’esaminare le sopravvenienze urgenti e impreviste ai sensi dell’art. 1809 cod.civ. gli Ermellini hanno ricompresso anche l’ipotesi di un imprevisto peggioramento delle condizioni economiche del comodante, non necessariamente grave.
Infine la sentenza 20448/2014 richiama la novella del 2013 ed in particolare l’art. 337 bis e ss. Cod.civ. al fine di sostenere che “nella giurisprudenza di legittimità trova attuazione il disposto normativo circa la sopravvivenza od il dissolversi delle necessità familiari legittimanti l’assegnazione della casa familiare, e quindi il perdurare della fattispecie contrattualmente disegnata”.
In buona sostanza dopo dieci anni le Sezioni Unite si pronunciano nuovamente sulla opponibilità al comodante della casa familiare assegnata al coniuge collocatario dei figli minori o maggiorenni non autonomi economicamente, ripercorrendo il solco già tracciato dalla precedente sentenza della medesima corte n. 13603/2004, con le stesse finalità solidaristiche ed a tutela della famiglia e dei soggetti deboli.
Svolgimento del processo
1) V.G. con citazione del 1 dicembre 1999 ha agito nei confronti del proprio figlio C. e della di lui moglie Ve.Ma.Lu. per ottenere il rilascio dell’immobile concesso in comodato al figlio nel 1992, in occasione del matrimonio. La sola Ve. ha resistito, opponendo che in sede di separazione coniugale il 23 dicembre 1999 ella, quale affidatala del figlio P., nato nel (…), aveva ottenuto l’assegnazione della casa familiare; che pertanto aveva titolo per il godimento dell’immobile. La domanda è stata respinta dal tribunale di Nardo con sentenza 27 marzo 2003. La Corte di appello di Bari con sentenza 20 novembre 2006 ha rigettato il gravame interposto dal V. . Si è espressamente adeguata al precedente costituito da SU 13603/04 in tema di comodato di casa familiare, affermando la sussistenza nella specie dei presupposti fissati dalla giurisprudenza. L’attore ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, notificato il 20 dicembre 2007 al difensore domiciliatario dell’appellata. La intimata non ha svolto attività difensiva. Con ordinanza n. 15113/13, la Terza Sezione, auspicando un ripensamento dell’orientamento giurisprudenziale affermatosi nel 2004, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che ha assegnato la causa alle Sezioni Unite della Corte.
Motivi della decisione
2.1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.1809, 1810 cod. civ., 155 c.c. e vizi di motivazione. In via principale invoca i principi desumibili da Cass. 3179/07 e afferma che il comodato di immobile destinato a casa familiare, ove pattuito senza determinazione di tempo, comporta l’obbligo del comodatario di restituire il bene non appena il comodante lo richieda.
Deduce che nel caso regolato dalle Sezioni Unite del 2004 era configurabile un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari, insussistente nel caso di specie, in cui le parti hanno convenuto la concessione in godimento dell’alloggio “quale sistemazione temporanea provvisoria e precaria per i giovani coniugi”. A tal fine rileva che trattasi di una villetta sita in zona di villeggiatura; che la convenuta era già a quel tempo comproprietaria di una residenza estiva della propria famiglia di origine posta nel medesimo comune; che attualmente la propria figlia, coniugata con tre bambini, risiede in altro alloggio concesso al ricorrente dallo Iacp, ente che avrebbe richiesto a qual titolo sussista tale occupazione da parte di famiglia non assegnataria. Lamenta che la Corte di appello non abbia valutato tali circostanze, pur rilevanti a suo avviso quale bisogno ex art. 1809 c.c., per ritenere sussistente un comodato precario. Con più “quesiti di diritto” formulati ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c, chiede alla Corte di stabilire che, in caso di comodato c.d. precario di abitazione destinata a casa familiare, il comodatario è tenuto al rilascio a semplice richiesta del comodante. In subordine, domanda alla Corte di Cassazione di ribadire che l’effettiva destinazione a casa familiare voluta dal comodante è desumibile solo da una specifica verifica in punto di fatto; che la verifica della comune intenzione delle parti sarebbe stata omessa; che nella specie il bene era stato concesso in godimento solo al fine di una temporanea sistemazione.
2.2) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.1803, 1809, 1810 cod. civ. con riferimento agli artt. 147 e 155 c.c. e 42 Cost. e vizi di motivazione.
Parte ricorrente si duole che la sentenza impugnata abbia ravvisato un contratto con determinazione implicita del termine ex art. 1809 c.c., ancorando la scadenza al raggiungimento della indipendenza dei figli conviventi con l’assegnatario.
2.2.1) Sostiene che, tutt’al più, nel caso di specie la volontà delle parti era di condizionare la concessione in comodato al raggiungimento della condizione di autosufficienza economica dei coniugi, condizione ormai raggiunta dalla convenuta, o alla sopravvenuta necessità per il comodante di rientrare in possesso dell’immobile.
2.2.2) Far coincidere la scadenza del comodato con il raggiungimento della indipendenza dei figli del comodatario potrebbe comportare, secondo il ricorso, il rischio che la beneficiaria ostacoli le inclinazioni del figlio, per “conservare quanto è più possibile” la casa concessa in comodato.2.2.3) Con altri tre quesiti mira a far accertare quanto dedotto nei due sottoparagrafi precedenti e a far dichiarare che il comodato con scadenza coincidente con il raggiungimento della indipendenza economica dei figli conviventi con l’assegnatario viola il precetto costituzionale di “tutela della proprietà privata”.
2.3) Il terzo motivo lamenta violazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione alla ammissibilità – negata dalla Corte territoriale – della deduzione in appello di una situazione di bisogno di natura familiare, sopravvenuta dopo la introduzione della causa.
3) La Terza Sezione si fa interprete di alcune osservazioni e suggestioni critiche che in sede dottrinale sono state esposte all’indomani di Cass. SU 13603/04 e che contrastano i commenti favorevoli al provvedimento.
Auspica la rimeditazione dell’orientamento adottato dalle Sezioni Unite nel 2004 e pone una serie di quesiti che trascendono la soluzione della vicenda processuale e mirano a una “sistemazione” dell’istituto.
Alla sezione rimettente sembra opportuno che sia stabilito quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare; quale sia il momento di cessazione di esso; quale sia il regime di opponibilità e come sia connotata la posizione giuridica del coniuge e dei figli del comodatario iniziale.
3.1) In particolare l’ordinanza critica la sentenza 13603/04 per avere affermato che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare “attribuisce un diritto personale di godimento, variamente segnato da tratti di atipicità”: tale affermazione sarebbe incongrua qualora riferita a una posizione giuridica di natura reale, preesistente in capo ad uno o a entrambi i coniugi.
Più pertinente è il rilievo secondo cui sarebbe stato stabilito che in caso di comodato pattuito a tempo indeterminato, il comodante sarebbe tenuto a consentire la continuazione del godimento fino al sopraggiungere di un bisogno ex art. 1809 c.c.. Ciò appare incongruo ai giudici rimettenti qualora il comodato sia stato pattuito in attesa di altra soluzione abitativa, eventualmente già in corso di predisposizione. E incertezze vengono palesate con riguardo al comodato precario concesso al figlio che, unendosi in matrimonio, destini successivamente l’alloggio a residenza della neo costituita famiglia.
3.2) Il cuore della critica risiede tuttavia nell’osservazione secondo la quale le Sezioni Unite del 2004 hanno determinato ciò che avevano detto di voler evitare, cioè una sostanziale espropriazione delle facoltà del comodante. Ciò deriverebbe dall’aver escluso la recedibilità ad nutum ex art. 1810 c.c., senza neppure distinguere a seconda che il proprietario sia genitore del beneficiario o un terzo estraneo.
A differenza del coniuge proprietario, tenuto a rispettare la solidarietà post coniugale in ragione della tutela costituzionale dell’istituto familiare, i terzi non dovrebbero essere costretti a subire una situazione “destinata a durare indefinitamente nel tempo”. Inoltre la soluzione prescelta giungerebbe a negare la configurabilità del precario di casa familiare, con l’effetto di “scoraggiare” il diffuso istituto del comodato quale soluzione ai problemi abitativi delle giovani coppie. E costituirebbe un modo per attribuire al coniuge assegnatario diritti poziori rispetto a quelli vantati dall’originario comodatario.
Viene quindi sollecitato un diverso contemperamento tra le contrapposte esigenze del concedente e del comodatario assegnatario della casa coniugale.
4) Nel precedente pronunciamento (Cass. civ., sez. un., 21-07-2004, n. 13603) è stato stabilito, come si legge nell’enunciazione finale del principio di diritto, che nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c..
A questo principio si è attenuta successivamente la giurisprudenza della Corte Suprema, la quale, muovendo dalle premesse fissate dalle Sezioni Unite, ha ribadito che la specificità della destinazione, impressa per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall’incertezza, che caratterizzano il comodato cosiddetto precario, e che legittimano la cessazione “ad nu¬tum” del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno (3072/06; 13260/06; 16559/08 in Riv. not, 2008; Cass. 19939/08, in Foro it., 2008, I, 3552; Cass. 18619/10 in Giur. it., 2011, 1279; Cass. 4917/11 in Riv. giur. Ed., 2011, I, 890; Cass. 13592/11 in Contratti, 2011, 1103; Cass. 16769/12; 14177/12; v. anche implicitamente Cass. 9253/05).
È stato altresì riaffermato che il vincolo di destinazione appare idoneo a conferire all’uso, cui la cosa deve essere destinata, il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell’art. 1809, primo comma, cod. civ.. Se ne è tratta la conseguenza che, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato (Cass. 2103/12).
4.1) In contrasto, a quanto sembra inconsapevole, con l’orientamento invalso dal 2004, si è posta una sola pronuncia recente, Cass. 15986/10, la quale, senza nulla aggiungere, si è esplicitamente rifatta a un precedente del 1997 per sancire la irrilevanza della destinazione a casa familiare di un immobile, con relativa configurabilità di un comodato precario, soggetto a recesso ad nutum.
Non è invece in contrasto con l’orientamento delle Sezioni Unite Cass. 3179/07, invocata da parte ricorrente, perché, pur prestandosi ad un’equivoca interpretazione a causa della sua stringata motivazione, ha in sostanza ribadito i principi esposti dalle Sezioni Unite.
Nel caso del 2007, relativo ad immobile concesso in comodato da un’azienda al suo amministratore unico, il giudice di merito aveva ravvisato la stipulazione di un comodato precario. Aveva pertanto ordinato al comodatario il rilascio, appena richiesto dal comodante, senza tener conto “delle regole sull’assegnazione della casa coniugale a coniuge affidatario di figli minori”.
La Corte di Cassazione, pur conscia che il ed precario non è in linea di principio compatibile con la destinazione a casa familiare, ha confermato questa decisione, che si differenzia dal caso regolato dalle Sezioni Unite, e da quello odierno, perché l’indagine di merito aveva configurato un contratto stipulato tra le parti come contratto di comodato immobiliare senza determinazione di durata ai sensi dell’art. 1810 c.c. e non come contratto soggetto alla disciplina dell’art. 1809 c.c..
Ed infatti la sentenza del 2007 ha fatto espresso riferimento a SU 13603/04 e ha ripetuto che il provvedi-mento di assegnazione di un immobile destinato a casa familiare non modifica né la natura né il titolo di godimento dell’immobile.
4.1.1) Perché l’assegnatario possa opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione della casa familiare, è necessario che tra le parti (cioè almeno con uno dei coniugi, salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorché diverso) sia stato in precedenza costituito un contratto di comodato che abbia contemplato la destinazione del bene quale casa familiare senza altri limiti o pattuizioni.
In relazione a questa destinazione, se non sia stata fissata espressamente una data di scadenza, il termine è desumibile dall’uso per il quale la cosa è stata consegnata e quindi dalla destinazione a casa familiare, applicandosi in questo caso le regole che disciplinano questo istituto.
5) Si giunge così al nucleo della questione posta, da dirimere confermando la soluzione adottata a suo tempo, con le precisazioni che seguiranno.
Un’esigenza di puntualizzazione si pone in relazione alla individuazione del regime contrattuale.
A questo proposito si impone un primo chiarimento.
Tralasciando opinioni minoritarie, si può dire che il codice civile disciplina due “forme” del comodato, quello propriamente detto, regolato dagli artt. 1803 e 1809 e il c.d. precario, al quale si riferisce l’art. 1810 c.c., sotto la rubrica “comodato senza determinazione di durata”.
È solo nel caso di cui all’art. 1810 c.c., connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dalla impossibilità di desumerlo dall’uso cui doveva essere destinata la cosa, che è consentito di richiedere ad nutum il rilascio al comodatario.
L’art. 1809 c.c. concerne invece il comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consente di stabilire la scadenza contrattuale.
Esso è caratterizzato dalla facoltà del comodante di esigere la restituzione immediata solo in caso di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno (art. 1809 c. 2 c.c.).
È a questo tipo contrattuale che va ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la desti-nazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, da intendersi in tal caso “anche nelle sue potenzialità di espansione”.
Trattasi infatti di contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale.
È grazie a questo inquadramento che risulta senza difficoltà applicabile il disposto dell’art. 1809 comma secondo, norma che riequilibra la posizione del comodante ed esclude distorsioni della disciplina negoziale.
5.1) Si può osservare che nella sentenza 13603/04, l’ipotesi di comodato di casa familiare è stata inquadrata nello “schema del comodato a termine indeterminato”. Questa definizione non riconduce però il rapporto negoziale qui descritto al contratto senza determinazione di durata, cioè al precario cui all’art. 1810 c.c., avendo essa riguardo alla configurazione di un termine non prefissato, ma desumibile dall’uso convenuto; ipotesi ben distinta da quella in cui le parti abbiano stabilito un termine finale di godimento del bene, come può accadere sia quando venga fissata una data di scadenza, sia, si deve ora aggiungere esemplificativamente, qualora il comodante abbia ceduto l’alloggio ad un comodatario (p. es. un figlio) stabilendo che possa abitarvi fino al matrimonio di altro figlio/a, o fino alla conclusione dei lavori di costruzione e restauro di casa di proprietà, o fino all’acquisto di un immobile analogo. In ogni caso, si disse, in cui il contratto prevede espressamente ed univocamente un termine finale, si configura senz’altro un contratto a tempo determinato.
5.1.1) È stata la dottrina, proprio in relazione al comodato di immobile ad uso abitativo, ad avvertire l’opportunità di descrivere un comodato “a tempo indeterminato”, ma lo ha subito riconosciuto concettualmente come diverso dal comodato senza determinazione di durata.
Sebbene inizialmente sia stato proposto di desumere la disciplina applicabile da quella di cui all’art. 1810 c.c., l’evolversi degli studi ha fatto maggiormente riflettere sul “comodato di lunga durata”, caratterizzato da una scadenza non predeterminata e non di rado volta a superare la stessa vita del comodante, con il sopravvenire per via ereditaria del diritto di proprietà in capo al titolare del diritto di godimento attribuito gratuitamente al congiunto. A questo comodato, chiaramente connesso con le finalità solidaristiche che sono state tratteggiate dall’intervento del 2004 delle Sezioni Unite, mal si attaglia la natura instabile della situazione negoziale di cui all’art. 1810 c.c.. Ed è invece implicita nella previsione di destinazione dell’immobile ad abitazione familiare la determinazione della durata della concessione, che va rapportata a tale uso, come colto da Cass. 2627/06, postasi lucidamente nella sequela di Cass. 13603/04.
Dunque l’espressione contenuta nella sentenza del 2004, nata dall’obbiettiva difficoltà di descrivere un comodato a durata indefinita e comunque non determinata con scadenza fissa, ancorché determinabile per relationem, va intesa nel senso di ricondurre la fattispecie al contratto in cui il termine risulta dall’uso cui la cosa è stata destinata.
Restano così non accoglibili i suggerimenti dottrinali, pur indiscutibilmente utili alla riflessione, volti a mitigare con l’utilizzo dell’art. 1183 c.c. comma secondo la eventuale applicabilità al comodato di lunga durata della disciplina del precario.
Sono per opposto verso non condivisibili quelle voci che auspicano una ancora maggiore tutela dei soggetti deboli, attraverso la configurazione di un contratto atipico di scopo che imponga al comodante di rispettare la destinazione a casa familiare indipendentemente dalle circostanze sopravvenute.
6) L’inquadramento qui precisato offre il destro per ribadire che le preoccupazioni dell’ordinanza di rimessione possono essere superate con una attenta lettura e una prudente applicazione della sentenza del 2004.
Quest’ultima, prevenendo le obiezioni, ha esplicitato che non intendeva affermare che, ogniqualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorché disgregata.
Ha infatti in primo luogo (si veda pag. 11) invitato i giudici di merito a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l’occupazione. In secondo luogo ha precisato che la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti.
Ciò significa che il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desumibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento.
La prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato né prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all’uso familiare e non solo personale. Trattasi sempre di un mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.) che sono sottoponili al suo giudizio. Spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto.
6.1) Se così è, risulta vano prospettare l’iniquità di uno sviluppo contrattuale che è stato voluto dalle parti. Né si potrà dire, come sembra sotteso anche nel ricorso e nella memoria conclusiva, che il comodante intende sempre che la concessione in comodato è precaria e soggetta a risoluzione ad nutum.
Si è visto prima che un comodato immobiliare precario o a termine più breve può, in relazione ai rapporti tra le parti e alle finalità (rapporti di lavoro, solidarietà emergenziale) essere configurabile.
Non di questo si discute qui, ma della ipotesi in cui il comodante concede al figlio, o a persona che egli in-tende beneficiare, un’abitazione da destinare a casa familiare, senza porre in alcun modo limiti temporali.
Ed in questi casi, al di là delle nozioni giuridiche possedute dal comodante, di cui tuttavia vanno indagate le intenzioni obbietti va mente risultanti, rilevano la innegabile stabilità della destinazione abitativa, la finalità solidaristica che fa venire in risalto i bisogni della prole del comodatario, in definitiva la stessa causa del negozio, che è quella di attribuire il godimento di un bene, cioè di realizzare l’interesse del comodatario.
6.1.1) È stato scritto che questo interesse permea e orienta il rapporto contrattuale di comodato. Questa affermazione si concretizza nell’assecondare la attuazione dell’iniziale programma negoziale e non nell’interpretare l’istituto al fine di facilitare reazioni ritorsive alle vicende esistenziali del beneficiario.
È comprensibile che la novità recata dalla parziale dissoluzione del nucleo familiare (che nella sua composizione residua continua ad occupare l’abitazione familiare, mantenendone la destinazione) porti ad inter-rogarsi sulla ragionevolezza del permanere della destinazione, nonostante l’intendimento sopravvenuto di ritrattare la concessione.
La risposta, per tutte le ragioni manifestate qui e da SU 13603/04, non può che essere nel segno di rispettare il potere di disposizione del bene, quale esercitato al sorgere del contratto. Se il contratto ancorava la durata del comodato alla famiglia del comodatario, corrisponde a diritto che esso perduri fino al venir meno delle esigenze della famiglia.
È negli articoli 337 bis e segg. del codice civile (dopo la modifica di cui D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154; già art. 155 e segg. c.c.) e nella giurisprudenza di legittimità che trova attuazione il disposto normativo circa la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari legittimanti l’assegnazione della casa familiare e quindi il perdurare della fattispecie contrattualmente disegnata.
È appena il caso di rilevare che la questione relativa ai limiti di opponibilità del comodato al terzo acquirente, sulla quale l’ordinanza di rimessione sollecita un intervento delle Sezioni Unite, è del tutto estranea al tema del decidere (cfr sub 3.1. primo capoverso).
6.1.2) Giova a questo punto precisare che proprio la giurisprudenza conduce ad escludere, al contrario di quanto ventilato in ricorso, che trovino immeritata tutela di comportamenti ostruzionistici dei beneficiari dell’alloggio, finalizzati a protrarre indebitamente il godimento della casa familiare.
Proprio recentissimamente la Prima Sezione della Corte ha avuto modo di riepilogare efficacemente(Cass. 18076/14) i principi che si sono andati affermando circa i limiti dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne.
Questi, è stato osservato, in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono, non può pretendere la protrazione dell’obbligo oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché “l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione”.
6.2) Su altro versante la soluzione prescelta da Cass. 13603/04 è da confermare, richiamando all’attenzione la portata della facoltà di recedere ex art. 1809 capoverso c.c., forse sin qui non ben compresa.
Si è detto che l’opportunità di cui al 1809 c.c. è stata evocata dalle Sezioni Unite per conseguire un compromesso tra opposte tesi, ma non è così.
Si tratta invece di piana applicazione del tipo contrattuale al quale è stato ricondotto il comodato di casa familiare, riconosciuto estraneo al “precario” ex art. 1810 e invece disciplinato dall’art. 1809 cod. civ..
Questa disposizione rivela che il comodato a tempo determinato, soprattutto se con le connotazioni della lunga durata di cui ci si è occupati supra, nasce nella convinzione della piena stabilità del rapporto, anche tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno. Questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e costituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamentale importanza per il beneficiario. Con l’implicazione che il comodante, contrariamente a quanto ipotizzato da una risalente dottrina, ritiene di poter rispettare il contratto per tutto il tempo di durata prevedibile.
A fronte di questa scelta, che fa ritenere che il comodante non prevedesse di volere o dovere alienare il bene, non può trovare tutela la sua intenzione, verosimilmente ritorsiva, di rimuovere l’occupante rimastone beneficiario. Trova invece tutela il sopravvenire di un urgente e impreveduto bisogno.
La giurisprudenza, significativamente, non ha dovuto occuparsi spesso di questa disposizione. Si conviene generalmente tuttavia, in dottrina e nei precedenti noti (Cass. 1132/87; 2502/63), che la portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente.
L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né capriccioso o artificiosamente indotto.
Pertanto non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare.
È da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario.
7) Alla luce dei principi che sono stati qui puntualizzati il ricorso non merita accoglimento.
I quesiti e te censure motivazionali esposti con il primo motivo sono infatti resistiti dal coerente e logico accertamento reso dalla Corte di appello.
Essa ha ravvisato la concessione del godimento del bene “nella specifica prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare”. Ha congruamente giustificato questa ricostruzione sulla base della stessa prospetta-zione contenuta in citazione, che ha riconnesso la concessione in comodato al matrimonio del figlio e dunque alle esigenze del nucleo familiare in formazione.
Le deduzioni contrapposte in ricorso per tratteggiare una concessione temporanea e provvisoria sono rimaste mere contrapposizioni di una diversa lettura della vicenda negoziale, non essendo state indicate in ricorso risultanze trascurate o malvalutate dai giudici di merito che giustifichino la censura.
È anzi da notare che in sentenza risulta la lunga durata del comodato già al momento della crisi coniugale, manifestatasi con ricorso per separazione del 1999, sette anni dopo la celebrazione del matrimonio (ottobre 1992).
7.1) Altrettanto deve dirsi con riguardo al secondo profilo del secondo motivo di ricorso (sesto quesito) che postula, senza offrire elementi decisivi idonei a ribaltare la decisione di appello, che la scadenza del comodato di casa familiare sia stata fissata dalle parti al raggiungimento della indipendenza ed autonomia dei comodatari.
7.2) Le argomentazioni esposte nella parte generale della motivazione valgono a smentire il secondo motivo nella parte in cui deduce che costituirebbe una espropriazione delle facoltà del proprietario far coincidere la fine del comodato di casa familiare con il termine implicito costituito dal raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli del comodatario separato e con lui conviventi. E sono state già smentite anche le censure portate alla tesi sancita dalle Sezioni Unite prefigurando che possano essere per tal via favoriti comportamenti ostruzionistici, volti a impedire che il figlio della coppia si renda autonomo e autosufficiente.
7.3) Quanto al terzo motivo, appare ineccepibile la decisione della Corte di appello, che ha dichiarato inammissibile la domanda nuova formulata “con le memorie depositate in sede di giudizio di appello”. Alla richiesta di rilascio del bene in relazione alla cessazione del comodato, è stata infatti sostituita tardivamente la pretesa di rilascio ex art. 1809 comma secondo c.c., che si fonda su presupposti di fatto e di diritto completamente diversi.
8) Il ricorso è rigettato. Non v’è luogo per pronunciare sulle spese, atteso che l’intimata occupante l’immobile, unica oppostasi alla domanda, non ha svolto in questa sede attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere generalità ed atti identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge.

Nel processo di separazione non è utilizzabile materiale probatorio raccolto illecitamente

Nel giudizio di separazione giudiziale dei coniugi è infondata la doglianza sollevata innanzi al S.C. relativamente all’asserita violazione dell’art. 2712 c.c. per non aver acquisito, il giudice di merito, come materiale probatorio, alcuni file audio di proprietà della controparte, provanti il condizionamento esercitato da quest’ultima sui figli. Al riguardo trova applicazione, infatti, il principio dell’inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto illecitamente, mediante sottrazione fraudolenta all’altra parte processuale che ne era in possesso.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAGONESI Vittorio – Presidente –
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso proposto da:
V.A.B.A.L., elettivamente domiciliata in Roma, via Celimontana 38, presso lo studio dell’avv. Paolo Panariti, dal quale è rappresentata e difesa unitamente all’avv. Barbara Vittiman giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
nei confronti di:
G.R., elettivamente domiciliato in Roma, viale delle Milizie 114, presso lo studio dell’avv. Luigi Parenti, dal quale è rappresentato e difeso unitamente all’avv. Sibilla Santoni, giusta procura speciale a margine del controricorso che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/3728993 e alla p.e.c. luigiparenti(at)ordineavvocatiroma.org;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 183/2014 della Corte di appello di Firenze, emessa il 17 gennaio 2014 e depositata il 30 gennaio 2014, n. R.G. 1321/2013;
Rilevato che in data 12 maggio 2016 è stata depositata relazione ex art. 380 bis c.p.c. che qui si riporta.
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Pistoia, con sentenza del 12/19 marzo 2013, decideva in via definitiva il giudizio tra G.R. e V.A.B.A.L. e respingeva le reciproche domande di addebito della separazione, disponeva l’affido condiviso della prole con domiciliazione prevalente presso il padre, disponeva incontri protetti tra la madre e i figli N. e C., regolava gli incontri tra la madre e il figlio U., poneva a carico del marito e in favore della moglie un assegno mensile di mantenimento di Euro 1.800,00.
2. Ricorreva in appello G.R. e chiedeva l’affidamento esclusivo dei figli, la disposizione di incontri protetti della madre con i tre figli, una volta ogni due settimane, e l’addebito della separazione alla signora V.A..
3. V.A.B.A.L. proponeva a sua volta appello incidentale e faceva istanza alla Corte territoriale affinchè addebitasse la separazione al marito, affidasse i tre figli al Servizio Sociale con collocamento in luogo diverso dalla dimora di entrambi i genitori e ponesse a carico del marito un assegno di Euro 3.000,00 in suo favore.
4. La Corte d’appello di Firenze respingeva entrambe le domande di addebito, disponeva l’affidamento esclusivo dei figli al padre, disponeva incontri protetti madre-figli e confermava nel resto l’impugnata sentenza.
5. Ricorre per Cassazione V.A.B. con tre motivi di impugnazione:
a) omessa motivazione circa un fatto decisivo del processo violazione dell’art. 2712 c.c. – insufficiente e contraddittoria motivazione – violazione dell’art. 345 c.p.c.. La ricorrente ritiene che la Corte abbia violato l’art. 2712 c.c. per non aver acquisito come materiale probatorio alcuni file audio, di proprietà del signor G. e pervenuti in forma anonima alla ricorrente, che contenevano la prova dei condizionamenti che il signor G. esercita sui figli. Lamenta inoltre la ricorrente che la Corte di appello ha valutato e basato la propria decisione sulla relazione della dottoressa P. acquisita irritualmente agli atti e quindi inutilizzabile nel processo.
b) violazione dell’art. 155 c.c. – contraddittorietà della motivazione. La ricorrente ritiene che li Giudice d’appello, nel derogare al regime ordinario di affidamento condiviso della prole, avrebbe dovuto fornire una motivazione più corposa e convincente.
c) violazione dell’art. 155 c.c., comma 6 insufficienza di motivazione. La ricorrente censura la Corte territo-riale per non aver valutato gli elementi di prova relativi al maggior reddito del signor G. e per aver respinto il suo appello incidentale, motivando solamente che non vi era prova che i redditi del G. fossero diversi e maggiori di quelli documentati.
6. G.R. si difende con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale basato su un unico motivo: omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Lamenta il ricorrente incidentale l’omessa valutazione dei comportamenti gravemente aggressivi della V.A. che avrebbero dovuto indurre la Corte di appello ad accogliere la domanda di addebito proposta nei suoi confronti.
Motivi della decisione
7. I motivi del ricorso principale appaiono inammissibili perchè incompatibili con il nuovo disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Anche relativamente alle dedotte violazioni di legge deve rilevarsi come in realtà le censure si sostanziano in una richiesta di nuova valutazione in ordine al merito della causa. Quanto alla lamentata non utilizzazione dei files audio con relativa traduzione giurata, già di “proprietà” del G. e a lui sottratti e inviati anonimamente al difensore della V.A., va rilevata la implicita motivazione della Corte di appello con riferimento a quanto già affermato dalla sentenza di primo grado in tema di inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto illecitamente e con riferimento altresì alla irrilevanza delle conversazioni fra i coniugi nel contesto delle acquisizioni probatorie di cui la Corte distrettuale ha potuto disporre al fine di decidere sul regime di affidamento dei figli. Per altro verso non sembra fondato l’assunto della ricorrente circa la utilizzabilità in un giudizio civile, e a differenza del giudizio penale, del materiale probatorio acquisito mediante sottrazione fraudolenta alla parte processuale che ne era in possesso. Quanto alla utilizzabilità della consulenza P. la Corte di appello ha rilevato che la relazione P. è stata allegata a quella dei Servizi Sociali e come tale era comunque acquisibile alla valutazione del giudice ai fini di una decisione connotata dal rilievo pubblicistico perchè diretta alla realizzazione della miglior tutela nel superiore interesse dei minori coinvolto nella controversia.
8. Anche il ricorso incidentale è inammissibile perchè non conforme ai requisiti richiesti dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Il ricorrente incidentale lamenta un’omessa valutazione del tutto insussistente perchè la Corte di appello ha chiaramente affermato l’irrilevanza del fatti successivi all’(OMISSIS) quando ormai la crisi matrimoniale e la decisione di richiedere la separazione era definitivamente maturata e ha rilevato la mancata deduzione di fatti anteriori a tale periodo.
9. Sussistono pertanto i presupposti per la trattazione della controversia in camera di consiglio e se l’impostazione della presente relazione verrà condivisa dal Collegio per la dichiarazione di inammissibilità, o eventualmente il rigetto, di entrambi i ricorsi.
La Corte, lette le memorie difensive depositate dalle parti che non apportano ulteriori elementi di valutazione;
ritenuta condivisibile la relazione sopra riportata e pertanto ritiene che i ricorsi debbano essere respinti con compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Gli accordi preventivi aventi ad oggetto l’assegno di divorzio sono nulli

Svolgimento del processo
1 – Con sentenza depositata in data 13 dicembre 2013 il Tribunale di Milano dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dai signori S.G. e V.P.E.E. , ponendo a carico del primo un assegno divorzile di Euro 3.300,00, oltre al pagamento, nella misura del 75 per cento, del mutuo contratto per l’acquisto della casa coniugale di via Donizetti; dichiarava altresì lo S. tenuto al mantenimento diretto del figlio A. , nato il (omissis) e a versare alla ex moglie, a titolo di contributo per il mantenimento del figlio C.M. , un assegno di Euro 4.100 mensili, oltre al 50 per cento delle spese sanitarie, scolastiche, sportive e formative.
1.1. La corte di appello di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha revocato l’assegno disposto in favore della V. ed ha dato atto del conseguimento dell’autosufficienza sul piano economico del figlio A. , che vive e lavora a in California; ha ridotto il contributo per il mantenimento di C.M. ad Euro 1.500,00 mensili.
1.2. Quanto all’assegno in favore della V. , la Corte distrettuale ha preso le mosse dalla sentenza di separazione intervenuta fra le parti in data 18 aprile 2012, successivamente passata in giudicato, nella quale si dava atto del tenore di vita mantenuto in costanza di matrimonio, con conseguente rigetto delle istanze istruttorie avanzate dalla V. (la quale, in sede di gravame aveva chiesto l’elevazione dell’assegno ad Euro 7.000,00).
1.2.1. Richiamata la natura assistenziale dell’assegno di divorzio, nonché i principi affermati dalla Corte costituzionale nella decisione n. 11 del 2015, la corte di appello ha osservato che in considerazione dei criteri indicati dall’art. 5 della l. n. 898 del 1970, che fungono da elementi di moderazione dell’assegno spettante all’ex coniuge, tali aspetti, complessivamente considerati, conducevano ad accogliere il gravame proposto in via incidentale dallo S. e, quindi a revocare l’assegno.
1.2.2. E stato in particolare osservato che, tenuto conto della durata del matrimonio, della capacità patrimoniale dei coniugi, nonché del contributo personale della V. , alla stessa avrebbe dovuto attribuirsi un assegno pari ad Euro 2.000,00 mensili. Sennonché doveva rilevarsi che, come risultava dalla sentenza di separazione, lo S. aveva versato alla moglie nell’anno 2006 la somma di Euro 1.934.922, ragion per cui doveva ritenersi che in tal modo il predetto avesse inteso corrispondere alla stessa “quanto le sarebbe spettato per assegno di mantenimento ed assegno divorzile”, dovendosi considerare che il predetto importo, per la sua rilevanza, assorbiva, per almeno vent’anni, persino la richiesta di un assegno divorzile pari ad Euro 7.000,00 mensili.
1.3. Quanto al figlio C.M. , si è dato atto che lo stesso aveva abbandonato gli studi universitari e si era messo alla ricerca di un lavoro: a tale carenza di indipendenza sul piano economico doveva corrispondere un contributo pari ad Euro 1.500,00 mensili, determinato sulla base della retribuzione media di un laureato al primo impiego.
1.4. Per la cassazione di tale decisione la signora V. propone ricorso, affidato a sette motivi, cui lo S. resiste con controricorso, illustrato da memoria.
Motivi della decisione
2. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per non aver la corte distrettuale, ritenendo erroneamente sussistente detto esame precluso dall’omessa impugnazione della sentenza relativa alla separazione personale dei coniugi, pronunciato in merito alla domanda di assegno divorzile.
3. Con il secondo mezzo si denuncia la violazione dell’art. 156 cod. civ. e dell’art. 5 della l. n. 865 del 1970, per aver ritenuto provato l’atto di disposizione compiuto durante il matrimonio, e, comunque, per avergli attribuito la valenza di corresponsione “una tantum” non solo dell’assegno di separazione, ma anche di quello divorzile.
4. La terza censura ripropone il tema della ritenuta abnormità del valore attribuito alla suddetta dazione – il cui accertamento, in presenza delle contestazioni della signora V. , non sarebbe state nemmeno effettuato – senza considerare che, al di là della diversità dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato rispetto a quello divorzile, la stessa sentenza di separazione passata in giudicato in data 30 agosto 2012 aveva posto a carico del sig. S. , per il mantenimento della moglie, un assegno di 3.000,00 Euro, oltre al pagamento, nella misura del 75 per cento del mutuo relativo all’immobile di via (omissis).
5. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 345 cod. proc. civ., per aver la Corte escluso la produzione di documenti risalenti all’anno 2010, non estendendosi il divieto alle prove costituende e non essendosi formulato alcun motivato giudizio circa la loro irrilevanza.
6. Il quinto mezzo attiene al vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, concernente la disponibilità in capo all’intimato di somme rilevanti su conti bancari all’estero.
7. Con la sesta censura si denuncia la violazione dell’art. 155 cod. proc. civ., con particolare riferimento al criterio della proporzionalità, in relazione alla determinazione dell’assegno in favore del figlio C. .
8. L’ultimo motivo riguarda la revoca dell’assegno già disposto in favore del figlio A. , con statuizione in relazione alla quale si sarebbe formato il giudicato.
9. I primi tre motivi, per la loro intima correlazione, possono essere esaminati congiuntamente. Essi risultano fondati, in quanto le giustificazioni di natura giuridica poste alla base dell’esclusione dell’assegno in favore della ricorrente, interpolate da considerazioni di ordine fattuale non sussunte e non sussumibili in un valido quadro normativo di riferimento, si pongono in contrasto con i principi costantemente affermati da questa Corte in materia di assegno in favore del coniuge divorziato.
9.1. Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile deve essere effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre la liquidazione in concreto dell’assegno, ove sia riconosciuto tale diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri mezzi detto tenore di vita, va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 15 maggio 2013, n. 11686; 12 luglio 2007, n. 15611).
Nell’ambito di questo duplice apprezzamento, occorre avere riguardo non soltanto ai redditi ed alle sostanze del richiedente, ma anche a quelli dell’obbligato, i quali assumono rilievo determinante sia ai fini dell’accertamento del livello economico-sociale del nucleo familiare, sia ai fini del necessario riscontro in ordine all’effettivo deterioramento della situazione economica del richiedente in conseguenza dello scioglimento del vincolo.
Per poter determinare lo standard di vita mantenuto dalla famiglia in costanza di matrimonio, occorre infatti conoscerne con ragionevole approssimazione le condizioni economiche, dipendenti dal complesso delle risorse reddituali e patrimoniali di cui ciascuno dei coniugi poteva disporre e di quelle da entrambi effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, mentre per poter valutare la misura in cui il venir meno dell’unità familiare ha inciso sulla posizione del richiedente è necessario porre a confronto le rispettive potenzialità economiche, intese non solo come disponibilità attuali di beni ed introiti, ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore (cfr. Cass., Sez. 1, 12 luglio 2007, n. 15610; 28 febbraio 2007, n. 4764).
9.2 – In tale contesto, in cui assume rilievo centrale la nozione di “adeguatezza” (sulla quale crf. Cass., 4 ottobre 2010, n. 20582), la corte territoriale ha valorizzato, in maniera pressoché esclusiva, la circostanza relativa alla dazione della somma di Euro 1.934.922,00 nell’anno 2006, attribuendole la valenza di anticipazione non solo dell’assegno di separazione, ma addirittura di quello di divorzio.
Tale affermazione, oltre a rivelarsi del tutto arbitraria (la qualificazione scaturisce dalla constatazione di “assenza di spiegazioni alternative”, avendo per altro la V. contestato la circostanza e lo stesso S. affermato che il versamento sarebbe avvenuto “a fronte dell’impegno di restituire al marito la (OMISSIS) “), contrasta con l’orientamento di questa Corte secondo cui gli accordi preventivi aventi ad oggetto l’assegno di divorzio sono affetti da nullità. È stato infatti affermato che “gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico – patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall’art. 160 cod. civ.. Pertanto, di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio (Cass., 18 febbraio 2000, n. 1810). È stato altresì precisato che “gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma, della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico -, non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati “secundum ius”, non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio” (Cass., 10 marzo 2006, n. 5302; v. anche Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass., 11 giugno 1981, n. 3777).
Non può omettersi di sottolineare come la pronuncia in esame abbia anche trascurato l’esigenza che l’accordo sulla corresponsione “una tantum”, anche ove validamente conseguito (esulano dal presente esame le recenti aperture sugli accordi in vista del divorzio, anche in relazione alle nuove forme processuali, come quella c.d. “congiunta”, attraverso le quali la relativa domanda può essere proposta), richiede pur sempre una verifica di natura giudiziale (Cass., 8 marzo 2012, n. 3635; Cass., 7 novembre 1995, n. 9416; Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128).
9.3. Pertanto la suddetta attribuzione, ove ritenuta adeguatamente dimostrata, da un lato, dovrebbe costituire un indice delle elevate disponibilità e delle correlate condizioni di vita delle parti in costanza di matrimonio, dall’altro, ove si accerti che tale somma sia ancora rimasta nella disponibilità della ricorrente, potrebbe concorrere all’accertamento delle disponibilità patrimoniali della stessa, da valutarsi nel contesto delle altre consistenze e delle eventuali fonti reddituali (la circostanza che si tratti di casalinga priva di redditi da lavoro dipendente per aver rinunciato a laurearsi e per essersi principalmente dedita alla famiglia appare sostanzialmente negletta da parte della Corte di appello, che, per altro, sotto tale profilo sembra essersi limitata a una valutazione ex post, come se si trattasse di un’obbligazione di risultato: “non sembra che l’azione di coordinamento del personale domestico.. sia stata particolarmente efficiente, a giudicare dai risultati scolastici dei figli”), rapportate, come sopra evidenziato, alla complessiva capacità economica dell’onerato.
9.4. Mette conto di precisare, anche con riferimento agli aspetti di natura probatoria e alla denunzia della violazione dell’art. 2909 cod. civ., posta in rilievo nella terza censura, che al di là delle abnormi valutazioni sulle sue conseguenze, la dazione in esame è stata desunta dalla decisione con la quale era stata pronunciata la separazione personale dei coniugi ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., in relazione al quale deve ritenersi operante il principio secondo cui le prove raccolte in altro giudizio fra le stesse o altre parti costituiscono fonti potenzialmente esclusive del convincimento giudiziale (Cass., 14 maggio 2013, n. 11555; Cass., 6 febbraio 2009, n. 2904; Cass., 11 giugno 2007, n. 13619).
10. il quarto motivo è fondato. Deve in proposito richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nel giudizio di divorzio in appello – che si svolge secondo il rito camerale, l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in Camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti camerali (Cass., 8 giugno 2016, n. 11784; Cass., 20 marzo 2014, n. 6562; Cass., 13 aprile 2012, n. 5876; Cass. 27 maggio 2005, n. 11319). Il giudizio di irrilevanza, poi, risulta espresso in termini talmente assertivi (“non se ne vede la rilevanza”) da non poter costituire una ragione autonoma della statuizione.
11. Fondata risulta anche la successiva censura. La corte distrettuale, focalizzando la propria attenzione esclusivamente sulla disponibilità patrimoniale che la V. avrebbe conseguito nell’anno 2006, ha completamente omesso di valutare le condizioni economiche dell’onerato (per altro rilevantissime, per come indicate nel ricorso: si tratterebbe di un importante imprenditore nel campo della produzione cinematografica, che nell’anno 2010 avrebbe conseguito un reddito di Euro 347.730,00) e quindi, senza per altro esprimere un giudizio sulla completezza delle risultanze già acquisite, non solo ha negletto le circostanze già documentate, ma ha immotivatamente disatteso le istanze di natura istruttoria inerenti alle cospicue disponibilità dello S. , emergenti per altro nella citata sentenza di separazione, che la ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, ha riportato in parte qua, e che, pur costituendo detta pronuncia il dato fondante della decisione impugnata, sotto tale profilo sembra sfuggita alla considerazione della corte di appello.
12. Fondato è anche il sesto motivo. La rideterminazione dell’assegno per il concorso del contributo per il mantenimento del figlio C.M. è stata effettuata, da un lato, dando atto che il predetto non ha acquisito l’indipendenza economica, dall’altro giudicando adeguata la somma di Euro 1.500,00 mensili, in quanto “corrispondente, e forse anche superiore, alla retribuzione di un laureato al primo impiego”.
12.1. Va premesso che il rilievo del controricorrente fondato sul riferimento, nel ricorso, all’art. 155, comma 4, cod. civ., in quanto sostituito dal successivo art. 337-ter, non appare condivisibile, in quanto l’erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non ne determina “ex se” l’inammissibilità, se la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass., 3 agosto 2012, n. 14026; Cass., 29 agosto 2013, n. 19882).
12.2. Il riferimento al reddito medio di un giovane laureato comporta la totale disapplicazione del principio di proporzionalità e dei criteri normativi stabiliti per la determinazione dell’assegno, con particolare riferimento alle esigenze attuali del figlio, al tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di convivenza con i genitori, ai tempi di permanenza e alle risorse dei genitori stessi.
13. Sussiste, infine, il vizio di extra-petizione denunciato con l’ultimo motivo: a fronte della rinuncia della madre tendente al pagamento “indiretto” dell’assegno per il mantenimento del figlio A. , la revoca dell’assegno tout court, che il padre avrebbe dovuto versare direttamente allo stesso, non richiesta da alcuna delle parti, è priva di qualsiasi giustificazione.
14. L’impugnata decisione, pertanto, deve essere cassata, con rinvio alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, applicherà i principi sopra richiamati, provvedendo altresì, al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi

Il diritto alla ricerca delle proprie origini può essere esercitato anche dopo la morte della madre biologica

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –
Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –
Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20576/2015 proposto da:
B.M.T., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIO-NE, rappresentata e difesa dall’avvocato DAVIDE SOLIVO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI TORINO;
– intimato –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositato il 27/05/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/07/2016 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato SOLIVO DAVIDE che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’improcedibilità, in subordine l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con decreto 2/3/2015 il Tribunale per i minorenni di Torino ha rigettato la domanda di B.M.T., volta ad ottenere l’accesso alle informazioni relative alle generalità della propria madre naturale la quale aveva eser¬citato il diritto a rimanere nell’anonimato, alla nascita della ricorrente e, nel corso dell’istruttoria, era morta. Il Tribunale ha evidenziato come, in difetto di una disciplina legislativa, una revoca implicita della volontà di mantenere l’anonimato non possa essere desunta dal decesso.
Secondo il giudice di primo grado, la sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013 ha indicato che occorre procedere al contemperamento di due diritti, entrambi reputati di primario rilievo costituzionale, ovvero il diritto del figlio a conoscere le proprie origini e quello della madre a mantenere l’anonimato. Tale
ultimo diritto non viene meno con la morte della madre stessa, considerato l’interesse a mantenere nei con¬fronti dei familiari superstiti un’immagine di sè non caratterizzata dall’abbandono di un figlio alla nascita. Il Tribunale ha affermato che occorre garantire uno spazio per l’esercizio della potestà di revoca della scelta dell’anonimato che, se intesa come irrevocabile una volta espressa, presenta caratteri d’irragionevolezza an¬che sul versante dei rapporti relativi alla genitorialità naturale. Tuttavia con il decesso della madre biologica tali rapporti non possono essere riattivati.
Il ricorso sopra indicato era stato preceduto da un altro che si era concluso con l’accoglimento del reclamo da parte della Corte d’Appello di Torino. Era stato riconosciuto alla B. il diritto a poter conoscere le proprie origini, ma non era stata rinvenuta la busta chiusa con i dati anagrafici della madre. La Corte territoriale ave¬va comunque ritenuto che era venuta meno la permanenza della volontà ostativa alla scoperta della propria identità da parte della madre biologica.
2. La Corte d’Appello di Torino,sezione speciale per i minorenni, investita del reclamo avverso il decreto 2/3/2015, ha affermato, a sostegno del rigetto della domanda:
a) il decesso non può essere equiparato al mancato rinvenimento della busta chiusa. Si tratta di circostanze diverse;
b) il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 93, (Codice in materia di trattazione dei dati personali) prescrive che il diritto all’anonimato si conservi per cento anni dalla formazione del documento; la Corte costituziona¬le, con la citata sentenza n. 278 del 2013, ha inteso rimuovere i caratteri dell’irreversibilità dell’anonimato prevedendo un interpello della madre biologica all’interno di un procedimento caratterizzato dalla massima riservatezza. Al legislatore spetta il compito di consentire la verifica della perdurante attualità della scelta effettuata con la nascita e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso ai dati di tipo identificativo. Ne’ dalla sentenza della Corte costituzionale ne’ dalla sentenza della Corte Europea dei diritti umani (caso Godelli contro Italia) può trarsi la conclusione dell’equiparazione tra decesso e revoca dell’anonimato in quanto questa soluzione può essere solo frutto di una scelta legislativa.
Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso B.M.T. affidato ad un unico motivo.
Motivi della decisione
3. Viene dedotta la violazione della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013 sul rilievo che il rigetto della domanda non si è fondato sul criterio del bilanciamento tra il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini e quello della madre a rimanere igno¬ta, essendo stata esclusa in via radicale la revocabilità del diniego espresso al momento del parto in caso di morte della madre biologica. L’impostazione seguita viola l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali fatta a Roma il 4/11/1950 e l’art. 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20/10/1989 oltre che l’art. 30 della Convenzione sulla protezione dei minori fatta all’Aja il 29/5/1993 nonché la raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 1443 del 26/1/2000 che invita gli Stati ad assicurare il diritto del bambino adottato di conoscere le proprie origini e riformare le leggi nazionali confliggenti con tale principio, oltre infine, la legge di riforma delle adozioni nella quale all’art. 28 è stato espressamente previsto il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini.
Osserva inoltre la ricorrente che, secondo la giurisprudenza amministrativa, la morte affievolisce il diritto alla riservatezza rispetto ai diritti concorrenti dei vivi. In particolare il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3459 del 2012, ha espressamente sostenuto che il diritto alla riservatezza si estingue con la morte del titolare e, in merito al bilanciamento richiesto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 9, ha ritenuto di garantire il diritto di accesso riguardo a dati sensibili a soggetti defunti laddove tale istanza sia sorretta dall’esigenza di tutelare interessi giuridici dei vivi. L’orientamento in questione è condiviso anche dal Garante della privacy.
Infine la ricorrente sostiene che la differenza tra il diritto degli adottati in generale di conoscere le proprie origini, previsto in via automatica dopo il venticinquesimo anno di età e l’esclusione del medesimo diritto nel caso di specie determina una disparità del tutto ingiustificata di trattamento.
4.La specifica questione che viene nuovamente sottoposta all’esame di questa Corte consiste nello stabilire se il diritto dell’adottato ad accedere ad informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica – la quale abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai sensi del D.P.R. 3 novem¬bre 2000, n. 396, art. 30, comma 1 – sussista, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, (nel testo sostituito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 177, comma 2), a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, e sia concretamente esercitabile anche prima del decorso di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, commi 2 e 3) nel caso, quale quello di specie, in cui la madre sia deceduta.
Tale questione richiede una preventiva illustrazione del quadro costituzionale, convenzionale e legislativo interno inerente la fattispecie. Alla luce di esso si potrà verificare se l’incisivo intervento della Corte Co-stituzionale (sentenza n. 278 del 2013 cit.) in ordine alla configurabilità del diritto a conoscere le proprie origini e i coerenti principi espressi dalla Corte Edu nella sentenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012 possano condurre, anche nell’ipotesi d’impossibilità assoluta d’interpello della madre che aveva scelto l’anonimato, a ritenere esercitabile in concreto il diritto in questione.
4.1. La cornice costituzionale e convenzionale del diritto a conoscere le proprie origini, quale declinazione di primario rilievo del diritto all’identità personale, è costituita dagli artt. 2 e 3 Cost., e 8 della Corte Edu. Lo sviluppo della personalità individuale e l’armonica conduzione della propria vita privata e familiare richie-dono la costruzione di una propria identità individuale fondata, oltre che su un contesto parentale affettivo – educativo riconoscibile, anche su informazioni relative alla propria nascita idonee a svelarne il segreto unitamente alle ragioni dell’abbandono.
Il rilievo di questo profilo dell’identità personale trova un puntuale, positivo riscontro nella L. n. 184 del 1983, art. 28, (nel testo sostituito dalla L. n. 149 del 2001, art. 24). In tale norma si prevede, in primo luogo, che le attestazioni di stato civile riferite all’adottato siano rilasciate con la sola indicazione del nuo¬vo cognome e senza nessun riferimento alla paternità e maternità biologica. Si stabilisce inoltre che non possano essere fornite nè informazioni nè certificazioni ed estratti relativi al rapporto di adozione, salvo autorizzazione dell’autorità giudiziaria (commi 2 e 3). In questa prima parte della norma viene predisposto un regime di protezione tendenzialmente assoluto del profilo dell’identità “sociale” acquistato con la geni-torialità adottiva. In particolare, il legislatore ha voluto escludere un uso discriminatorio delle informazioni provenienti dalla pregressa situazione di abbandono del figlio adottivo. Questo peculiare profilo dell’identità personale non ne esaurisce, però, il contenuto e la tutela.
La seconda parte della norma determina entro quali limiti e con quale procedimento i genitori adottivi pos¬sano acquisire informazioni relative ai genitori biologici (comma 4) ed attribuisce al figlio adottivo in età superiore ai 25 anni il diritto a conoscere le proprie origini, ferma l’identità acquistata con la relazione di genitorialità (esclusiva) con il padre e la madre adottivi. Prima dei 25 anni, tale diritto è soggetto al sin-dacato del tribunale per i minorenni, salvo comprovati motivi attinenti alla salute psico fisica dell’adottato maggiorenne. (commi 5 e 6). Il comma 8 prevede, infine, che l’adottato maggiore d’età (ma infra venticin-quenne) non debba chiedere l’autorizzazione al Tribunale per i minorenni se i genitori adottivi sono morti od irreperibili.
Il diritto a conoscere le proprie origini, a partire dai 25 anni ha carattere sostanzialmente potestativo, dal momento che non è prevista dalla norma alcuna limitazione o differimento del suo esercizio derivante dalla volontà dei genitori biologici nè alcun contemperamento d’interessi attuato dall’autorità giudiziaria.
All’ampiezza del diritto di accesso a tali informazioni, secondo le coordinate temporali stabilite dalle menzio¬nate disposizioni dell’art. 28, corrisponde, tuttavia, la definizione di un perimetro definito del suo contenuto. Con i genitori biologici ed i loro familiari non si determina per l’adottato alcun vincolo di parentela nè si radica alcun obbligo assistenziale o alimentare (art. 27, commi 1 e 3).
L’informazione relativa all’identità dei genitori biologici attiene all’attuazione dello sviluppo della personalità individuale (art. 2 Cost.), sotto il profilo del completamento dell’identità personale. Tale informazione, tut¬tavia, rientra nella nozione giuridica di “dato personale” così come definita dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 2, comma 1, lett. b), (“qualunque informazione relativa a persona fisica identificata od identificabile anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione”) e, conseguentemente, deve essere trattata in modo lecito e corretto ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. a), godendo del regime di tutela pre¬ventiva e risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15.
È necessario osservare che titolare del dato personale relativo all’esatta individuazione della propria discen¬denza biologica sono non soltanto colui al quale è stato riconosciuto il diritto alla conoscenza delle proprie origini ma anche i cosiddetti genitori biologici. Il sistema di protezione dell’accesso e del trattamento di tale tipologia di dati previsto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, si estende anche a questi ultimi così come la tutela preventiva e risarcitoria derivante da condotte illecite.
La dichiarazione di adozione determina nei genitori biologici la recisione di ogni legame personale con l’a-dottato e la cancellazione di ogni relazione giuridica di parentela, oltre che l’obbligo di tenere una condotta conseguente agli effetti della pronuncia. Si configura, tuttavia, anche il loro diritto a mantenere del tutto riservate le informazioni relative a tale condizione personale, con il solo limite costituito dal diritto del figlio adottivo di conoscere le proprie origini così come conformato dalla L. n. 184 del 1983, art. 28, al fine esclu¬sivo (di primario rilievo) di completare il proprio profilo dell’identità personale.
5. Il diritto a conservare l’anonimato da parte della madre che ha operato tale scelta alla nascita del figlio ai sensi del D.P.R. n. 296 del 2000, art. 30, comma 1, costituisce, per un verso, una deroga al regime di ac-cesso a tali informazioni contenuto, sia pure con la gradualità indicata dal citato art. 28, commi da 1 a 6, e, per l’altro, una forma più intensa della tutela della riservatezza, comunque spettante in generale ai genitori biologici, in ordine alle informazioni relative alla nascita ed all’abbandono del figlio, successivamente adot¬tato, trattandosi di vicende umane tendenzialmente, percepite in modo negativo sul piano etico e sociale. La tutela dell’anonimato della madre che ha esercitato il diritto a non essere nominata, si completa con il citato D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, commi 2 e 3, ed in particolare nel secondo comma di tale disposizione laddove viene stabilito che “il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendano identificabile la madre (…) possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”.
Il legislatore ha, pertanto, predisposto un sistema di tutela del segreto sull’identità della madre biologica che “commisura temporalmente lo spazio del vincolo all’anonimato a una durata idealmente eccedente quella della vita umana” (Corte costituzionale, sentenza n. 278 del 2013 par. 5 del “Considerato in diritto”).
5.1 L’assolutezza di tale deroga rispetto alla configurazione ampia del diritto a conoscere le proprie origini, predisposta nell’art. 28, primi sei commi, è stata censurata dalla Corte Europea dei diritti umani con la sen-tenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012, cui è seguito il rilevante intervento correttivo del regime giuridico preesistente operato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013.
Preliminarmente, il Collegio ritiene di dover sottolineare che il diritto azionato nel presente giudizio riguarda l’identificazione della propria madre a fini di completamento del quadro dell’identità personale della ricor¬rente. Non costituisce profilo da indagare il diritto all’accesso alle informazioni non identificative a fini, lato sensu, sanitari, già garantito sia dal quadro costituzionale, integrato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, sia speci¬ficamente dal citato art. 93, comma 3, nella parte in cui stabilisce che “durante il periodo di cui al comma 2 (cento anni dalla formazione del documento n.d.r.) la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”.
5.2 Così definito il perimetro della questione da affrontare, deve osservarsi che la citata sentenza Godelli della Corte Edu ha censurato la preferenza incondizionata, accordata dal nostro sistema normativo al diritto della madre a mantenere l’anonimato, ritenendo inadeguato il bilanciamento d’interessi operato dal legisla¬tore interno e superato il margine di discrezionalità in ordine alla scelta delle misure idonee a salvaguardare il diritto alla vita privata stabilito nell’art. 8. La Corte Edu indica la criticità ma non suggerisce interventi di adeguamento, in conformità con la funzione del suo giudizio. Con la sentenza n. 278 del 2013, invece, la Corte Costituzionale, partendo dal medesimo rilievo, consistente nel vulnus ingiustificato al diritto a cono¬scere le proprie origini derivante dall’irreversibilità del segreto, ha tracciato le linee d’intervento necessarie, al fine di dare attuazione anche in questo ambito ai principi stabiliti dagli artt. 2 e 3 Cost.. Ha in particolare evidenziato come si debba procedere alla “verifica della perdurante attualità della scelta della madre natu¬rale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’ano¬nimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto”.
In mancanza di un tempestivo adeguamento legislativo, il riconoscimento del diritto a conoscere le proprie origini, così nitidamente tracciato dalle due Corti, ha indotto a richiedere l’intervento della giudice ordinario, tendenzialmente identificato sulla falsariga della L. n. 184 del 1983, art. 28, nel tribunale per i minorenni. L’attuazione delle sentenze della Corte Edu e della Corte costituzionale è stata realizzata, da parte dei giudici di merito, mediante una procedimentalizzazione dell’interpello della madre “naturale” (così definita nella sentenza n. 278 del 2013 al fine di sottolinearne l’alterità rispetto alla genitorialità giuridica) che garantisse il segreto e la riservatezza della richiesta, in modo da “cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato”.
Tale procedimentalizzazione è inutilizzabile, tuttavia, nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, dal momento che è impossibile procedere all’interpello della madre “naturale”, perchè non più in vita. In tale ipotesi, non appare, prima facie, possibile procedere ad alcun bilanciamento d’interessi. L’alternativa sembra porsi in modo radicale. Se si riconosce all’adottato anche in questa peculiare ipotesi il diritto di conoscere le proprie origini, si cancella lo speculare diritto all’anonimato della madre biologica, ancorché il legislatore abbia voluto preservarlo fino a cento anni dalla nascita del figlio ex art. 93 sopra citato. Se invece si conserva il diritto all’anonimato, in mancanza della possibilità dell’interpello della madre, si vanifica del tutto il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, nonostante il riconoscimento di esso imposto dalle pronunce sopra illustrate.
5.3 Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini deve essere garantito anche nel caso in cui non sia più possibile procedere all’interpello della madre naturale. A tale inevitabile conclusione, imposta dal de-lineato quadro costituzionale e convenzionale, è già pervenuta questa Corte con la recentissima sentenza n. 15024 del 2016. L’irreversibilità del segreto sull’identità della madre naturale non è più compatibile con l’attuale configurazione del diritto all’identità personale così come desumibile dall’interpretazione integrata dell’art. 2 Cost. e dell’art. 8 Cedu, nella parte in cui tutela il diritto alla vita privata. Lo sbarramento tem¬porale imposto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, alla rivelabilità dell’identità della donna che ha scelto l’anonimato al momento della nascita del figlio, non è temperato, nella specie, dalla possibilità di verifica della eventuale sopravvenuta volontà di revoca della scelta compiuta alla nascita.
L’interpretazione della norma che identifichi nell’intervenuta morte della donna, un ostacolo assoluto al rico¬noscimento del diritto a conoscere le proprie origini da parte dell’adottato, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i figli nati da donne che hanno scelto l’anonimato ma non sono più in vita e i figli di donne che possono essere interpellate sulla reversibilità della scelta operata alla nascita. Tale opzione ermeneutica sarebbe, inoltre, viziata di irragionevolezza perchè sottoporrebbe il riconoscimento e l’esercizio di un diritto della persona di primario rilievo ad un fattore meramente eventuale quale quello del momento in cui si chiede il riconoscimento del proprio diritto.
Deve, pertanto, perseguirsi un’interpretazione della norma compatibile con il diritto a conoscere le proprie origini che, pur conservando il vincolo temporale, ne attenui la rigidità quando non sia possibile per irre¬peribilità o morte della madre naturale procedere all’interpello e alla verifica della volontà di revoca dell’a¬nonimato. L’assolutezza e l’irreversibilità del segreto sulle origini sono irrimediabilmente contrastanti con il diritto all’identità personale dell’adottato, nella declinazione costituita dal diritto a conoscere le proprie origini. Come esattamente indicato nella citata sentenza n. 278 del 2013 l’ampiezza del vincolo temporale contenuto nel citato art. 93, “riposa sulla ritenuta esigenza di prevenire turbative nei confronti della madre in relazione all’esercizio di un suo diritto all’oblio e, nello stesso tempo, sull’esigenza di salvaguardare erga omnes la riservatezza circa l’identità della madre, evidentemente considerata come esposta a rischio ogni volta in cui se ne possa cercare il contatto per verificare se intenda o meno mantenere il proprio anonima¬to”. Ma, precisa la Corte: “nè l’una nè l’altra esigenza può ritenersi dirimente: non la prima, in quanto al pericolo di turbativa della madre corrisponde un contrapposto pericolo per il figlio, depauperato del diritto di conoscere le proprie origini; non la seconda, dal momento che la maggiore o minore ampiezza della tutela della riservatezza resta, in conclusione, affidata alle diverse modalità previste dalle relative discipline, oltre che all’esperienza della loro applicazione”.
Il termine contenuto nell’art. 93, sopracitato, alla luce dell’intervento della Corte costituzionale è divenuto flessibile sia con riferimento alla donna che ha scelto l’anonimato al momento della nascita, sia nei confronti del figlio “naturale”. Il diritto di entrambi ha natura personalissima. Deve, pertanto, ritenersi che si estingua con la morte dei titolari di esso e non sia trasmissibile. Anche alla luce di questa precisa delimitazione, il di¬ritto a conoscere le proprie origini non può esercitarsi in violazione dei diritti, di analoga natura e contenuto dei terzi interessati, dovendosi rilevare come la Corte Costituzionale abbia comunque riconosciuto il rilievo (ancorchè recessivo rispetto al diritto personalissimo a conoscere le proprie origini) del “diritto all’oblio” e delle implicazioni sociali che la conoscenza dell’esercizio dell’anonimato alla nascita può produrre.
Ne consegue che anche in questa peculiare fattispecie deve procedersi ad un adeguato bilanciamento degli interessi potenzialmente confliggenti, partendo dalla esatta identificazione dei titolari degli stessi e dalla definizione del loro contenuto.
La Corte Costituzionale ha ritenuto necessario operare tale bilanciamento nel riconoscimento del diritto alle proprie origini ed ha individuato nella valutazione dell’attualità dell’anonimato lo strumento adeguato.
Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, in mancanza della possibilità d’interpello, il bilanciamento degli interessi deve essere desunto dal sistema di protezione dei dati personali relativi all’identità della don¬na che ha esercitato il diritto all’anonimato, già delineato nel paragrafo 4.1., tenendo conto della rilevanza di tali dati anche per i discendenti familiari. Al riguardo deve rilevarsi che la stessa Corte Costituzionale al punto 4 della sentenza n. 278 del 2013 ha ribadito (rispetto alla precedente sentenza n. 425 del 2005) “la corrispondenza biunivoca tra il diritto all’anonimato in se e per sè considerato e la perdurante tutela dei profili di riservatezza (…) che l’esercizio di quel diritto inevitabilmente coinvolge. Un nucleo fondante che, vale la pena di puntualizzare, non può che essere riaffermato proprio alla luce dei valori di primario risalto che esso intende preservare”.
Nel successivo punto 5 della sentenza la Corte chiarisce, ulteriormente, che il diritto alla riservatezza della madre non può escludere il riconoscimento del diritto del figlio ma deve essere affidato “alle diverse mo-dalità previste dalle relative discipline”. Nel nostro sistema normativo si deve, pertanto, ricorrere al regime giuridico di protezione dei dati personali nella fattispecie in esame. Pertanto, così come l’interpello della madre naturale in vita deve avvenire in modo da “cautelare in termini rigorosi il diritto all’anonimato”, deve ritenersi che l’accesso alla medesima informazione dopo la sua morte, debba essere circondata da analoghe cautele e l’utilizzo dell’informazione non possa eccedere la finalità, ancorchè di primario rilievo costituzio¬nale e convenzionale, per la quale il diritto è stato riconosciuto. Non si ritiene, pertanto, che ogni profilo di tutela dell’anonimato, si esaurisca alla morte della madre naturale, in quanto da collegarsi soltanto alla tutela del diritto alla salute psicofisica della madre e del figlio al momento della nascita. Il diritto all’identità personale del figlio, da garantirsi con la conoscenza delle proprie origini, anche dopo la morte della madre biologica, non esclude la protezione dell’identità “sociale” costruita in vita da quest’ultima,in relazione al nucleo familiare e/o relazionale eventualmente costituito dopo aver esercitato il diritto all’anonimato. Il trattamento delle informazioni relativo alle proprie origini deve, in conclusione, essere eseguito in modo corretto e lecito (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, lett. a)) senza cagionare danno anche non patrimoniale all’immagine, alla reputazione, ed ad altri beni di primario rilievo costituzionale di eventuali terzi interessati (discendenti e/o familiari).
Il ricorso, in conclusione, merita di essere accolto e deve pronunciarsi il seguente principio di diritto:

Accertamento di paternità: gli accertamenti scientifici possono essere considerati esaustivi.

Cass. 13 gennaio 2017 n. 783
In tema di azione di disconoscimento di paternità, il termine previsto dall’art. 244 cod. civ., di natura decadenziale, afferisce a materia sottratta alla disponibilità delle parti, così che il giudice, a norma dell’art. 2969 cod. civ., deve accertarne “ex officio” il rispetto, dovendo correlativamente l’attore fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, senza neppure che possa spiegare rilievo, in proposito, la circostanza che nessuna delle parti abbia eccepito l’eventuale decorso del termine stesso.
L’azione di disconoscimento della paternità verte in materia di diritti indisponibili, in relazione ai quali non è ammesso alcun tipo di negoziazione o di rinunzia
Ritenuto in fatto
La Corte d’appello di Firenze ha respinto il gravame proposto dalla signora N.D. contro la sentenza del Tribunale di Pistoia che, in accoglimento della domanda dei signori D.P.E. e M.L. , genitori del defunto D.M., coniuge della N. , aveva disconosciuto la paternità del loro figlio riguardo al minore C.M. , costituito in giudizio a mezzo del curatore speciale.
2. Secondo la Corte territoriale, l’impugnazione non poteva essere accolta in quanto i genitori del premorto D.M. non erano decaduti dal termine per proporre la domanda giudiziale perché, dovendosi computare i termini per la proposizione dell’azione dalla data di conoscenza dell’adulterio da parte del defunto marito, alla luce degli artt. 244 e 246 c.c. e della sentenza della Corte costituzionale n. 134 del 1985, nella specie, alla stregua del compendio probatorio ammissibile, l’originario legittimato aveva ignorato la relazione adulterina.
2.1. Infatti, le allegazioni della appellante (secondo cui Ella, nel 2003, aveva confidato al marito una sua relazione adulterina con un fantino) erano restate prive di prova atteso che il mezzo testimoniale richiesto (la deposizione della sorella Ni.Di. ) era inammissibile, come correttamente disposto dal primo giudice, in quanto capitoli erano “del tutto generici” e privi delle precise e necessarie indicazioni “del tempo, del luogo e del contesto in cui la rivelazione sarebbe avvenuta, comportando una compromissione del diritto alla controprova”.
3. Inoltre, era priva di pregio la censura alla presunta errata valutazione degli elementi istruttori raccolti ai fini della prova dell’insussistenza della paternità del defunto figlio nei riguardi del piccolo C.M. .
3.1. Sebbene andasse ridimensionata l’ammissione della N. (riducibile a quella di aver intrattenuto una relazione con altra persona nel periodo di concepimento del figlio) la medesima assumeva un più pregnante significato se valutato unitamente agli altri elementi raccolti ed al contegno tenuto dalle parti: particolarmente, il rifiuto immotivato espresso dal minore, attraverso il suo curatore speciale, di sottoporsi a prelievo ematologico per l’esecuzione della prova scientifica.
4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la signora N. , con cinque mezzi di impugnazione.
5. I genitori del defunto coniuge resistono con controricorso e memoria illustrativa.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione degli artt. 233, 244, 246 c..c.) la ricorrente, in relazione alla eccepita decadenza dall’azione di disconoscimento dei genitori del defunto coniuge, lamenta che la Corte d’appello abbia disatteso le proprie istanze istruttorie di cui reitera il contenuto testuale.
on il secondo (violazione e falsa applicazione dell’art. 244 c.p.c.) la ricorrente denuncia l’errore commesso dal giudice distrettuale il quale avrebbe escluso l’ammissibilità di prove testimoniali decisive e rilevanti considerando come generici capitoli che tali non erano, anche in considerazione della precisazione del tempo dei fatti da far accertare, espressamente enunciato in alcuni di essi ma riferibili anche agli altri.
on il terzo mezzo (violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c.) la ricorrente denuncia, a proposito del rifiuto della prova ematologica, la mancata considerazione della prevalenza degli interessi del minore.
on il quarto (violazione e falsa applicazione dell’art. 240 c.p.c.) si denuncia la mancata ammissione delle prove intese a dimostrare la conoscenza, da parte del defunto, della relazione intrattenuta con altra persona, in precedenza, e, perciò, della sua rinuncia a proporre l’azione di disconoscimento della paternità.
5.Con il quinto (violazione e falsa applicazione dell’art. 240 c.p.c. e 246 c.c.) si denuncia la mancata considerazione del previo consenso del marito unitamente alla considerazione del prevalente interesse del minore.
I primi due mezzi di cassazione vanno esaminati congiuntamente in quanto contengono la medesima censura, proposta con riferimento alla affermata decadenza dall’azione di disconoscimento della paternità del minore, e si sostanziano nell’affermazione del denegato diritto alla prova, con particolare riferimento a quella testimoniale.
6.1. La doglianza, diretta alla richiesta di un riesame delle ragioni (che si assumono infondate) del diniego di ammissione del mezzo istruttorio, deve essere accolta con riferimento al principio di diritto già affermato da questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 1512 del 2000) a riguardo di tale tipologia di giudizi e al quale deve essere data piena continuità nel caso esaminato.
6.2. Infatti, deve ancora una volta ribadirsi che:
in tema di azione di disconoscimento di paternità, il termine previsto dall’art. 244 cod. civ., di natura decadenziale, afferisce a materia sottratta alla disponibilità delle parti, così che il giudice, a norma dell’art. 2969 cod. civ., deve accertarne ‘ex officio’ il rispetto, dovendo correlativamente l’attore fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, senza neppure che possa spiegare rilievo, in proposito, la circostanza che nessuna delle parti abbia eccepito l’eventuale decorso del termine stesso.
6.3. La reiezione della prova testimoniale da parte dei giudici della fase di merito appare ingiustificata: non solo e non tanto perché in essa erano (contrariamente a quanto affermato nella motivazione negatrice della richiesta adoperata dalla Corte territoriale) specificate le circostanze di tempo (tutte riferibili all’estate del
2003) dei fatti oggetto di prova, riguardanti circostanze nient’affatto generiche (cfr. i capp 3/5: il ‘defunto.. dichiarò di non voler effettuare il test del DNA in quanto in ogni caso voleva tenere quel figlio come proprio figlio’), ma soprattutto perché, in ossequio alla regola dell’accertamento ufficioso della decadenza, di cui si è richiamato il valore e la portata, era specifico compito del giudice della causa compiere l’indagine e valutare con attenzione ogni risultanza addotta o adducibile al suo vaglio.
Il ricorso è, pertanto, fondato e, in relazione a tale doglianza, deve essere accolto, con il conseguente assorbimento dei restanti motivi, riguardanti questioni che presuppongono l’accertamento (ufficioso), o meno, della eccepita decadenza.
7.1. Tuttavia, con riferimento alla questione posta dal quarto e dal quinto mezzo, riguardante la asserita rinuncia del defunto a far valere tale azione, questa Corte non può non ricordare il principio di diritto (posto da questa Corte: Sez. 1, Sentenza n. 8087 del 1998), secondo cui ‘l’azione di disconoscimento della paternità verte in materia di diritti indisponibili, in relazione ai quali non è ammesso alcun tipo di negoziazione o di rinunzia’.
La sentenza, in accoglimento del ricorso in parte qua (primo e secondo mezzo), va pertanto cassata, nei sensi sopra esposti e la causa rinviata, anche per le spese di questa fase, alla Corte d’Appello di Firenze che deciderà, facendo applicazione dei richiamati principi, in una diversa composizione del collegio.
P.Q.M.
Accoglie il primo e secondo motivo del ricorso, assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, davanti alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione.
Dispone che, ai sensi dell’art.52 D. Lgs. n.198 del 2003, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento

SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE

SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE
(tra coniugi, tra parti dell’unione civile, tra conviventi di fatto)
di Gianfranco Dosi

I. La sospensione della prescrizione tra coniugi (art. 2941, n. 1, c.c.) si applica anche ai coniugi separati?
II. C’è sospensione della prescrizione tra parti dell’unione civile?
III. C’è sospensione della prescrizione tra conviventi di fatto?

La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
L’art. 2941 c.c. prevede al n. 1 la sospensione della prescrizione tra coniugi la cui ratio è pacificamente ricondotta alla inopportunità che tra marito e moglie ci si debba fare causa o si debbano compiere atti interruttivi della prescrizione per evitare che un eventuale diritto in contestazione resti prescritto.
Fino al 2014 la giurisprudenza ha monoliticamente ritenuto che la sospensione della prescrizione “trova applicazione anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniugio, ma solo una attenuazione del vincolo” (Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533; Cass. civ. 23 agosto 1985, n. 4502; Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 1971, n. 1883).
Era stata la Corte costituzionale a impostare l’orientamento in questione allorché aveva dichiarato “infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati” (Corte cost. 19 febbraio 1976, n. 35). In tale occasione era stata ipotizzata dalla Corte d’appello di Palermo la violazione del precetto costituzionale dell’eguaglianza, sul rilievo dell’ingiustificato privilegio che verrebbe riconosciuto al coniuge separato, nei rispetti della generalità degli altri cittadini, con l’esonero da ogni attività o cura e persino dalla semplice messa in mora per la tutela dei propri diritti nei confronti dell’altro coniuge. La Corte ritenne la questione infondata osservando che, pur tenuto conto delle limitazioni degli effetti del vincolo matrimoniale che il regime di separazione personale comporta, è indubitabile che, nei rapporti reciproci (anche patrimoniali), la posizione dei coniugi, finché il matrimonio non sia dichiarato nullo o sciolto per le cause previste dall’ordinamento giuridico, resta, comunque, qualificata dal perdurante (anche se in forma attenuata) vincolo coniugale. Tale qualificazione – diversificando la situazione esaminata da quella del rapporto che intercorra tra soggetti non coniugati – esclude, evidentemente, che sussista la dedotta violazione dell’art. 3 della Costituzione: in quanto appunto, le situazioni comparate non sono tra loro omogenee. La disciplina impugnata – continuavano i giudici – appare, d’altra parte, pienamente legittima anche sotto il profilo della intrinseca razionalità. Ed infatti lo stato di separazione pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura: potendo anche evolversi nel senso della ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare. E non è irrazionale che, per salvaguardare, appunto, nei limiti del possibile, tale ultima eventualità, il legislatore comprenda nella disciplina della sospensione della prescrizione dettata dall’art. 2941, n. 1, cod. civ. l’ipotesi che i coniugi siano separati, esonerandoli così dal compiere atti – come quelli necessari ad interrompere la prescrizione dei rispettivi diritti che potrebbero, invece, inasprire le ragioni del contrasto.
A questo orientamento si adeguò anche la giurisprudenza di merito Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004; Trib. Milano, 10 febbraio 1999 anche se non sono mancate prese di posizione contraria come Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 secondo cui la sospensione della prescrizione è da considerare sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con la convivenza coniugale “dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazione che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione”.
Nel 2014 con due sentenze della prima sezione civile la Corte di cassazione aderisce improvvisamente all’orientamento che limita il periodo di sospensione fino alla separazione.
2
Il principio viene affermato dapprima da Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 secondo cui l’interpretazione della legge deve e può avere anche una funzione evolutiva ed adeguatrice, nel cui ambito ben può realizzarsi un risultato di tipo restrittivo, nel senso di ritenere, con riferimento al caso in esame, che la norma contenuta nell’art. 2941 c.c., n. 1, si riferisca alla vincolo coniugale pienamente inteso, con esclusione del regime della separazione personale.
In sintesi, la Corte ritiene contraddittorio rinvenire la stessa “ratio” nelle diverse ipotesi delle azioni esercitabili fra coniugi nel corso della convivenza matrimoniale e dopo la separazione “in quanto, mentre nel primo caso appare giustificata la riluttanza ad esperire azioni giudiziarie nei confronti del coniuge convivente, così turbando l’armonia familiare, nel secondo, non solo all’armonia – laddove si prescinda da una eventuale riconciliazione, in realtà abbastanza rara – è subentrata una situazione di crisi conclamata, ma, proprio nell’ambito di essa, sono state necessariamente esperite le azioni giudiziarie correlate alla crisi coniugale. Deve anzi porsi in evidenza come negli ultimi anni l’evoluzione del quadro normativo e l’elaborazione giurisprudenziale (si pensi alla responsabilità endo-familiare) abbiano favorito l’accrescersi delle azioni giudiziarie relative alla soluzione di controversie correlate alla crisi familiare, cui ha fatto riscontro, anche sotto il profilo procedurale, un significativo processo di unificazione dei termini e delle modalità di esperimento delle azioni relative alla separazione personale e allo scioglimento del matrimonio o alla cessazione dei suoi effetti civili. Laddove, poi, viene richiamata la mera attenuazione, nel regime di separazione, del vincolo matrimoniale, non sembra che si sia considerato come, al tenue filo della speranza di una riconciliazione, siano da contrapporre effetti di natura giuridica che in realtà depongono nel senza di una sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo stesso. Non rileva, invero, soltanto il venir meno della convivenza, circostanza già di per sé non ostativa all’instaurazione fra coniugi separati di azioni giudiziarie, che di certo, come già rilevato, non possono determinare una crisi familiare già conclamata, quanto la sopravvenienza alla separazione di rilevanti conseguenze di natura giuridica, tali da consentire una sostanziale assimilazione alla situazione che caratterizza gli ex coniugi, come il venir meno della presunzione di paternità ove la nascita di un figlio intervenga dopo il decorso di trecento giorni, ovvero la sospensione degli obblighi della fedeltà e di collaborazione.
L’interpretazione viene poi ripresa e confermata subito dopo da Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 la quale, dopo aver ribadito – in sintonia con la giurisprudenza sul punto – che il termine di prescrizione del diritto all’assegno di mantenimento ha ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, e decorre non unitariamente dal provvedimento che ha previsto quell’assegno, bensì da ciascuna delle singole scadenze di pagamento” aggiungeva “senza che operi tra i coniugi separati la sospensione della prescrizione disposta dall’art. 2941, n. 1, c.c.”. La motivazione di quest’ultima affermazione è che deve prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. In questa prospettiva nel regime di separazione non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Pertanto il principio oggi che appare prevalente nella giurisprudenza – senza naturalmente che si possano escludere nuovi cambiamenti interpretativi – è nel senso che dopo la separazione non sussistono più le ragioni che possono giustificare la sospensione della prescrizione tra coniugi. E’ appena il caso di aggiungere che a tal fine si deve evidentemente fare riferimento al giudicato sullo status (anche conseguente a sentenza non definitiva) ovvero alla data dell’accordo di negoziazione. A tale ultimo proposito si ricorda che l’art. 3 della legge sul divorzio come modificata dall’art. 12, comma 4, del Decreto-legge 12 settembre 2014, n.132, con le correzioni apportate dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162 prevede come termine di decorrenza degli effetti della separazione quello della “data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati” ovvero quello della “data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile”.
II
C’è sospensione della prescrizione tra parti dell’unione civile?
La risposta positiva all’interrogativo se tra le parti dell’unione civile trovi applicazione la sospensione della prescrizione analogamente a quanto per i coniugi prevede l’art. 2941, n. 1, c.c. è abbastanza semplice.
Infatti la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) all’art. 1 comma 18, prevede espressamente che “La prescrizione rimane sospesa tra le parti dell’unione civile”, con ciò eliminando qualsiasi dubbio sulla risposta all’interrogativo.
Un problema analogo a quello visto per i coniugi, se cioè la sospensione operi solo nel corso del rapporto nemmeno si pone per le unioni civili in quanto il legislatore non ha previsto l’istituto della separazione ma solo la morte e il divorzio 1e pertanto si può ritenere che soltanto questi eventi determino la cessazione del periodi di sospensione della prescrizione. In caso di divorzio la sospensione consegue al giudicato sullo status (ovvero coincide con la data certificata dell’accordo di negoziazione o con la data della dichiarazione davanti all’ufficiale di stato civile) e non alla comunicazione ex art. 1, comma 23, legge 76/2016 della volontà di scioglimento effettuata all’ufficiale dello stato civile o alla domanda giudiziale.
III
C’è sospensione della prescrizione tra conviventi di fatto?
Nel 1996 il Tribunale di Bolzano sollevò la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, c.c. nella parte n cui non prevede che la sospensione della prescrizione trovi applicazione ai conviventi di fatto, determinando così una un’irragionevole disparità di trattamento tra coniugi e conviventi more uxorio.
La Corte costituzionale dichiarò la questione non fondata (Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2) osservando che l’istituto della prescrizione è finalizzato ad un obiettivo di primaria importanza, che è quello di garantire certezza dei rapporti giuridici, facendo venir meno il diritto non esercitato per un determinato periodo di tempo. In tale prospettiva la sospensione della prescrizione si caratterizza per la peculiarità costituita dalla tassatività dei casi previsti dalla legge. Se infatti ogni diritto, salvo specifiche eccezioni, “si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge” (art. 2934 cod. civ.), ne deriva coerentemente che non è possibile riconoscere ipotesi di sospensione che non siano espressamente regolate dal codice civile o da altre norme speciali in materia. È per questo che l’art. 2941 cod. civ. contiene un elenco ben determinato di casi, enucleabili in base a rigorosi criteri formali e giustificati dalla particolarità delle situazioni ivi previste.
Ciononostante il carattere eccezionale della sospensione della prescrizione non impedisce di vagliare la legittimità costituzionale di ingiustificate omissioni da parte del legislatore sotto un diverso profilo ed entro precisi limiti. Già in materia di privilegio – istituto assimilabile a quello in esame sotto l’aspetto della eccezionalità – la Corte in passato aveva rilevato (Corte cost. 84/1992) che “mentre è possibile, in tesi, sindacare – all’interno di una specifica norma attributiva di un privilegio – la ragionevolezza della mancata inclusione, in essa, di fattispecie identiche od omogenee a quella cui la causa di prelazione è riferita, certamente non è consentito invece utilizzare lo strumento del giudizio di legittimità per introdurre (…) una causa di prelazione ulteriore”. In altre parole, se esorbita dai compiti del giudice delle leggi quello di creare una nuova fattispecie di sospensione della prescrizione, deve ritenersi lecito sindacare l’omissione legislativa nell’ambito di un’ipotesi già determinata; ma in questo caso, com’è ovvio, la norma richiamata deve costituire un valido tertium comparationis, tale da rendere illegittima l’omissione e conseguentemente doverosa la sentenza additiva della Corte.
Poste queste premesse, la Corte osserva che – anche sotto questo profilo – la questione è infondata per un duplice ordine di considerazioni: a) perché la famiglia legittima, essendo una realtà diversa dalla famiglia di fatto, non costituisce un adeguato tertium comparationis; b) perché la sospensione della prescrizione implica precisi elementi formali e temporali che si ravvisano nel coniugio e non nella libera convivenza.
La Corte ribadisce che il rapporto coniugale implica, secondo quanto previsto dalla legge, una serie di potenzialità che non si esauriscono nel mero dato materiale della convivenza accompagnato dall’affectio pur verificabile anche nel rapporto more uxorio. I diritti e i doveri inerenti al matrimonio si caratterizzano per la certezza e la disciplina legale del rapporto su cui si fondano; e da ciò consegue che la non omogeneità delle due situazioni non consente di estendere dall’una all’altra le regole sulla sospensione della prescrizione.
D’altronde la stessa natura della prescrizione – istituto finalizzato a conferire stabilità a rapporti patrimoniali – impone per il decorso dei termini l’adozione di parametri di riferimento certi ed incontestabili, quali possono essere offerti soltanto dall’esistenza o dal venir meno di un vincolo giuridico quale il matrimonio.
Da quanto esposto deriva che nella norma denunziata non sussiste alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Il giudizio di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2941, n. 1, c.c., nella parte in cui non prevede la sospensione della prescrizione tra conviventi, viene, perciò, fondato, in sostanza, in questa sentenza, sugli stessi principi utilizzati nella stragrande maggioranza dei casi in cui la Corte costituzionale ha tenuto separati matrimonio e convivenza di fatto, ritenendoli due contesti di vita, il primo con proprie regole e il secondo senza regole, tra loro non equiparabili. Pertanto non potrebbe la Corte, in questa situazione, scrutinare la eventuale illegittimità dell’esclusione dell’applicabilità della norma sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza.
Dopo la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) siamo proprio sicuri che questa conclusione possa ancora valere?
Già prima di tale legge la convivenza di fatto era stata al centro negli ultimi decenni di una progressiva attribuzione di rilevanza giuridica come formazione sociale (art. 2 Cost.) all’interno della quale vanno garantiti doveri di solidarietà familiare e diritti fondamentali della persona. Ed è oggi affermazione ormai assolutamente pacifica che l’art. 2 della Costituzione e l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo tutelano il diritto alla vita familiare non limitatamente alle relazioni basate sul matrimonio.
Nella stessa legislazione, ancorché in maniera disorganica, sono nel tempo emersi segnali sempre più significativi, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Sotto tale profilo vanno richiamate naturalmente in primo luogo la riforma della filiazione operata con legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita ogni residua discriminazione tra figli “legittimi” e “naturali”; la legge 8 febbraio 2006, n. 54, che, introducendo l’affidamento condiviso dei figli in sede separazione e divorzio, ha esteso la relativa disciplina ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; la 1egge 19 febbraio 2004, n. 40, che all’art. 5 prevede l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto; la legge 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri, di cui all’art. 408 c.c., per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario, nonché, all’art. 5, prevede, in relazione all’art. 417 c.c., che l’interdizione e l’inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente; la legge 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, estendendo al convivente il regime di protezione contro gli abusi familiari; la legge 28 marzo 2001, n. 149, art. 7, che, sostituendo l’art. 6, comma 4, della legge 4 maggio 1983, n. 184, ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti risulti soddisfatto anche quando costoro abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
Ebbene in questo contesto la legge la legge 20 maggio 2016, n. 76 amplia in modo sensibile le tutele e le garanzie già riconosciute, costruendo uno statuto giuridico della convivenza di fatto che, pur differenziandosi rispetto a quello da quello del matrimonio o dell’unione civile, costituisce tuttavia una regolamentazione completa di un assetto di relazioni umane primarie (art. 2 della Costituzione) con proprie “regole giuridiche” e una propria disciplina della “stabilità”, esattamente i due aspetti che la Corte costituzionale ha sempre ritenuto finora mancanti per costruire assonanze con il matrimonio idonee a scrutinare disuguaglianze irragionevoli e pertanto illegittime (art. 3 della Costituzione).
Il legislatore definisce, infatti, i conviventi di fatto come persone unite stabilmente da legami affettivi di “reciproca assistenza morale e materiale” definendone i presupposti e le regole di visibilità e di certezza 2.
Questo è il nuovo statuto giuridico dei conviventi di fatto
1) In primo luogo lo status di convivente di fatto è equiparato a quello di coniuge per tutta una serie diritti connessi alla vita sociale (diritti spettanti al coniuge nell’ordinamento penitenziario e nel settore in senso ampio sanitario: commi 38 – 40).
2) In secondo luogo il convivente di fatto acquisisce un diritto di abitazione – sia pure di durata limitata – in caso di morte del convivente proprietario, nonché un diritto di successione nel contratto di locazione in caso di recesso del convivente conduttore e altri diritti nel settore dell’assegnazione di alloggi di edilizia popolare (commi 43 – 45).
3) Il convivente di fatto acquista il diritto agli utili, agli acquisti e agli incrementi se collabora stabilmente nell’impresa familiare del partner (comma 46 che introduce nel codice civile l’art. 230-ter).
4) Il convivente di fatto è equiparato al coniuge nel settore dell’interdizione e dell’amministrazione di sostegno (commi 47 e 48).
5) Il convivente di fatto è equiparato al coniuge in caso di decesso derivante da fatto illecito altrui quanto ai criteri di risarcimento del danno (comma 49).
6) I conviventi di fatto possono regolamentare alcuni reciproci rapporti patrimoniali (specificamente le sole modalità di contribuzione alla vita in comune e il regime della comunione dei beni) con efficacia erga omnes attraverso un “contratto di convivenza” (commi 50 – 64).
7) Il convivente in stato di bisogno acquisisce al momento della cessazione della convivenza il diritto ad una prestazione alimentare a carico dell’altro sia pure proporzionata alla durata della convivenza (comma 65).
A tutto questo – che è l’effetto della nuova legge – si aggiungono i diritti collegati allo stato di convivente già riconosciuti dalla giurisprudenza.
La nuova legge contiene un’elencazione di diritti che hanno natura inderogabile e che non esauriscono lo statuto giuridico della convivenza di fatto in quanto la legge integra con le nuove norme uno statuto giuridico che è più ampio perché comprende anche diritti di natura personale e patrimoniale già riconosciuti ai conviventi, come su prima detto, da leggi precedenti, oltre che da una cospicua giurisprudenza.
Rimangono perciò confermati tutti i diritti riconosciuti altrove ai conviventi. Per esempio nel settore degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, nel campo della procreazione medicalmente assistita, nel settore dei trapianti di organi, nel computo del triennio di vita comune previsto per i coniugi per l’adozione legittimante, e in tutti gli altri contesti in cui alla convivenza è attribuita dall’ordinamento già da tempo rilevanza giuridica.
In particolare rimane certamente confermato il principio, ribadito più volte dalla giurisprudenza, secondo cui la violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una convivenza di fatto (nei termini di stabilità precisati dalla nuova legge), in considerazione dell’irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti riconosciuti ai sensi dell’art. 2 della costituzione (Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481).
Ove non siano indicati infatti specifici diritti e doveri e questi non siano o non siano stati ancora riconosciuti o siano stati addirittura negati anche dalla giurisprudenza, non è affatto da escludere una funzione promozionale della nuova legge. Si pensi per esempio, appunto, alla sospensione della prescrizione tra coniugi, ma anche ai patti di famiglia, alla pensione di reversibilità.
I riferimenti al regolamento anagrafico contenuti nella nuova legge sono poi decisivi per ritenere esistenti anche precise regole di visibilità, di certezza e di accertamento della stabilità, anche se, naturalmente, a differenza di quanto previsto per il matrimonio e per le unioni civili l’accesso alla convivenza di fatto non prevede obblighi costitutivi come avviene in altri Paesi dove le convivenze devono obbligatoriamente
L’ordinamento anagrafico (legge 24 dicembre 1954, n. 1228 e regolamento approvato con DPR 30 maggio 1989, n. 223, modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) stabilisce che in ogni Comune deve essere tenuta l’anagrafe della popolazione residente e prevede l’obbligo per chiunque di chiedere per sé “e per le persone sulle quali esercita la patria potestà o la tutela”, l’iscrizione nell’anagrafe del Comune di dimora abituale e di dichiarare alla stessa i fatti determinanti mutazione di posizioni anagrafiche. L’ufficiale d’anagrafe che sia venuto a conoscenza di fatti che comportino l’istituzione o la mutazione di posizioni anagrafiche, per i quali non siano state rese le prescritte dichiarazioni, deve invitare gli interessati a renderle. In caso di mancata dichiarazione, l’ufficiale d’anagrafe provvede di ufficio, notificando all’interessato il provvedimento stesso. Contro il provvedimento d’ufficio è ammesso ricorso al prefetto. Il Regolamento anagrafico della popolazione residente prescrive gli adempimento per la “raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze che hanno fissato nel comune la residenza, nonché delle posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio.
L’anagrafe è costituita da schede individuali, da schede di famiglia e dalle schede delle convivenze comunitarie. Le convivenze di fatto cui si riferisce la nuova legge sono quelle indicate nell’art. 4 del regolamento, che precisa il concetto di “famiglia anagrafica” (Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Le dichiarazioni anagrafiche obbligatorie sono quelle per a) trasferimento di residenza da altro comune o dall’estero ovvero trasferimento di residenza all’estero; b) costituzione di nuova famiglia o di nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella composizione della famiglia o della convivenza; c) cambiamento di abitazione; d) cambiamento dell’intestatario della scheda di famiglia o del responsabile della convivenza; e) cambiamento della qualifica professionale; f) cambiamento del titolo di studio.
Per quanto concerne la formazione delle schede anagrafiche l’art. 20 del regolamento prevede che a ciascuna persona residente nel comune deve essere intestata una scheda individuale, sulla quale devono essere obbligatoriamente indicati il cognome, il nome, il sesso, la data e il luogo di nascita, il codice fiscale, la cittadinanza, l’indirizzo dell’abitazione. Da questa scheda sono tratte le indicazioni che vanno riportate nel certificato di residenza. Nella scheda sono altresì indicati altri elementi che rimarranno sempre solo nella scheda e non comunicati a terzi e cioè la paternità e la maternità, gli estremi dell’atto di nascita, lo stato civile, ed eventi modificativi, nonché gli estremi dei relativi atti, il cognome e il nome del coniuge, la professione o la condizione non professionale, il titolo di studio, gli estremi della carta d’identità, il domicilio digitale, la condizione di senza fissa dimora. Per ciascuna famiglia residente l’art. 21 prescrive che “deve essere compilata una scheda di famiglia, nella quale devono essere indicate le posizioni anagrafiche relative alla famiglia ed alle persone che la costituiscono”. Da questa scheda saranno tratte le indicazioni che vanno riportate nel certificato di stato di famiglia.
Da quanto sopra si può dedurre che ai fini probatori e di certezza della stabilità la convivenza di fatto risulta non tanto e non solo dalle certificazioni anagrafiche relative alle schede personali (dichiarazione di residenza) da cui può risultare tuttavia la residenza nella medesima abitazione, ma soprattutto dalle schede di famiglia (certificazioni di stato di famiglia).
Con l’importante precisazione che la scheda di famiglia die conviventi di fatto potrà essere formata soltanto se i conviventi fatto adempiono all’onere di richiedere la loro iscrizione anagrafica come conviventi di fatto. Mai l’ufficiale di anagrafe potrà desumere dal fatto che due persone abitano nella stessa dimora che si tratti di conviventi di fatto uniti da vincoli affettivi e di solidarietà. Gli stessi conviventi dovranno segnalare il termine della convivenza di fatto dichiarando il venir meno dei presupposti che ne consentono l’iscrizione nella medesima scheda di famiglia. Pertanto lo statuto giuridico della convivenza di fatto e gli elementi che ne indicano con certezza i limiti anche temporali di vigenza della stessa convivenza – iscritta nella scheda di “famiglia” – lasciano intendere che il modello legale della convivenza di fatto si differenzia da quello matrimoniale e delle unioni civili per elementi che non alterano al sostanziale comune riconducibilità dei tre modelli al medesimo elemento dell’essere relazioni umane primarie indicative in sostanza di modelli familiari diversi ma pur sempre di natura familiare. Ed in verità, anche nella convivenza di fatto sussiste la medesima ragione giustificatrice della sospensione della prescrizione che, come detto, all’inizio, è pacificamente ricondotta alla inopportunità che tra le parti di un rapporto primario di natura familiare ci si debba fare causa o si debbano compiere atti interruttivi della prescrizione per evitare che un eventuale diritto in contestazione resti prescritto.

SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 350 nota di FAROLFI)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, c.c. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati; nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 c.c. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
In tema di separazione dei coniugi, posto che il diritto all’assegno di mantenimento ha ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, il termine di prescrizione non decorre, unitariamente, dal provvedimento che ha previsto quell’assegno, bensì da ciascuna delle singole scadenze di pagamento, senza che operi tra i coniugi separati la sospensione della prescrizione disposta dall’art. 2941, n. 1, c.c.
Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 (Foro It., 2014, 7-8, 1, 2124)
La sospensione del decorso della prescrizione tra coniugi opera anche quando gli stessi si trovano in stato di separazione per¬sonale (nella specie, è stata cassata la pronuncia di merito in cui si era affermato che il diritto ad ottenere l’assegno di mantenimento disposto a carico del coniuge separato si prescrive dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, negando di fatto l’operatività della predetta sospensione).
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto.
Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla riscossione dell’assegno alimentare soggiace al termine di prescrizione breve quinquennale, vertendosi in un’ipotesi di prestazioni periodiche in termini inferiori all’anno, disciplinate dall’art. 2948, n. 4 c.c. La sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c., invece, si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazione che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione non costituendo la separazione un definitivo momento di rottura dell’unità familiare che poteva sempre ricostituirsi.
Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 2941 del c.c. che dispone la sospensione della prescrizione tra coniugi deve applicarsi, attesa la tassatività dei casi di sospensione previsti dagli articoli 2941 e 2942 del c.c., sia nel caso che i coniugi abbiano comunanza di vita sia allorché si trovino in stato di separazione personale. Al coniuge non proprietario dei beni per i quali sono stati effettuati esborsi con denaro comune ovvero con suo esclusivo, compete un diritto di credito quantificabile, in assenza di prova contraria, nella metà della spesa sostenuta a vantaggio del bene non facente parte della comunione ma in proprietà esclusiva dell’altro coniuge, sul quale trattandosi di debito di valuta, sono dovuti i soli interessi legali dalla messa in mora, sino al saldo effettivo.
Trib. Milano, 10 febbraio 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione tra coniugi è sospesa di diritto durante il matrimonio e tale regola trova applicazione anche durante la separazione personale, che non implica il venire meno del rapporto di coniugio, ma soltanto un’attenuazione del vincolo.
Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2 (Famiglia e Diritto, 1998, 3, 214 nota di FIGONE)
Non è fondata, con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., laddove, stabilendo che il corso della prescrizione resti sospeso tra i coniugi , non contiene analoga previsione per i conviventi “more uxorio”, in quanto – posto che l’istituto della prescrizione è finalizzato all’obiettivo primario di garantire certezza nei rapporti giuridici, impedendo al titolare di un diritto di esercitarlo dopo un determinato periodo di tempo; che, in tale prospettiva, la sospensione della prescrizione si caratterizza per la peculiarità costituita dalla tassatività dei casi previsti dalla legge; e che, se esorbita dalle attribuzioni del giudice delle leggi, quella di creare una nuova fattispecie di sospensione della prescrizione , deve ritenersi legittimo sindacare l’omissione legislativa nell’ambito di un’ipotesi già determinata, a condizione che la norma richiamata costituisca “tertium comparationis”, tale da rendere costituzionalmente illegittima l’omissione stessa e, quindi, doverosa la sentenza additiva della Corte – la famiglia legittima, essendo una realtà diversa dalla famiglia di fatto, non costituisce adeguato “tertium comparationis”, ed in quanto la sospensione della prescrizione implica precisi elementi formali e temporali che si ravvisano nel coniugio e non nella libera convivenza.
Cass. civ. 23 agosto 1985, n. 4502 (Dir. Famiglia, 1985, 934)
L’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione del decorso prescrizionale, trova applicazione anche durante il regime di separazione personale tra gli stessi, regime che non implica il venir meno del rapporto di coniugio, ma soltanto una attenuazione del vincolo.
Corte cost. 19 febbraio 1976, n. 35 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini.
Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 1971, n. 1883 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La norma di cui all’art. 2941 n. 1 c.c., secondo cui la prescrizione è sospesa nei rapporti tra coniugi, trova applicazione anche durante la separazione personale.